Manconi: “Il carcere a vita va abolito anche se i no sono tanti” di Alessandro Pirina La Nuova Sardegna, 29 ottobre 2019 La morte di Mario Trudu è arrivata a poche ore dalla sentenza della Consulta che - per la prima volta - ha definito incostituzionale l’ergastolo ostativo. Una pronuncia che, nei fatti, ha dato legittimità a quanto l’ex sequestratore di Arzana, un solo permesso di due ore in 41 anni in carcere e gravemente malato, chiedeva da tempo, ovvero potersi curare in maniera adeguata fuori dalla cella. Un appello che si scontrava con le ferree regole del codice penale, accolto solo una ventina di giorni fa, quando ormai le condizioni dell’uomo, 69 anni, erano disperate. Ora la pronuncia della Consulta inietta un po’ di umanità a una pena, quella del carcere a vita, che mal si concilia con i principi sanciti nella Costituzione. Una sentenza salutata favorevolmente da chi da sempre è in prima linea nella battaglia per i diritti. Come l’ex senatore del Pd Luigi Manconi. La Corte ha stabilito quanto lei sostiene da sempre sull’ergastolo ostativo... “La sentenza ha affermato in maniera limpida un principio costituzionale irrinunciabile: a tutti - e dico a tutti - va data la possibilità di cambiare. La pena deve tenere conto certamente della gravità dei delitti commessi ma deve anche scommettere sulla mutabilità dell’autore dei reati”. È scritto anche nella Costituzione... “Certo, questo è il senso dell’articolo 27 quando afferma che lo scopo della pena è la rieducazione del condannato, tant’è vero che la sentenza della Corte stabilisce che non può esservi un automatismo tra la mancata collaborazione e il rifiuto dei benefici e scommette sul fatto che qualsiasi individuo possa cambiare i propri pensieri, possa emanciparsi dal crimine, possa riconoscere i propri delitti e dunque possa integrarsi nella società e nei suoi valori. Questo processo non è necessariamente sancito dalla collaborazione con la magistratura, che per tante e diverse ragioni potrebbe non essere possibile”. Adesso cosa succederà? “Sicuramente ci saranno altre sentenze, e poi certamente bisognerà tenere conto di un contenuto essenziale di questa pronuncia: la Consulta ha detto che il giudice deve giudicare, non può esserci un rigido meccanismo astratto, ma dovrà essere il magistrato di sorveglianza a valutare nel concreto, caso per caso e in presenza di alcune condizioni tassative, ovvero l’interruzione del rapporto con l’organizzazione criminale, il fatto che quel rapporto non venga ripreso e l’avvio di un percorso di riabilitazione. In presenza di queste condizioni tassativamente definite il giudice potrà consentire che quel condannato abbia un determinato permesso o premio. Per ora questa sentenza dice questo, vediamo se ce ne saranno delle altre”. Quando ha saputo della morte di Mario Trudu cosa ha pensato? “Purtroppo questa notizia è non solo tragica come tutte le morti, o ancora di più perché avviene in regime di detenzione, ma smentisce anche uno dei più velenosi luoghi comuni diffusi nella società. E cioè l’idea che nessuno sconti l’ergastolo. In realtà in Italia l’ergastolo esiste eccome: gli ergastolani sono 1.400, di cui 1.100 in regime ostativo. Questo è il segno di quante menzogne vengono spacciate a proposito del carcere in Italia”. Ma oggi l’ergastolo ha ancora un senso? “L’ergastolo è anticostituzionale, ma siccome il mio parere vale poco voglio citare quello di un valoroso pubblico ministero, notissimo per la sua opera di magistrato, Gherardo Colombo, che da anni afferma proprio questo”. Ritiene possibile che questo Parlamento possa affrontare un tema così poco popolare? “Temo di no. Esistono anche altre ragioni - penso a chi ha un’idea autoritaria del rapporto tra cittadino e Stato o a chi ha una concezione della pena come vendetta - ma credo che a pesare parecchio sia il fatto che si tratta di decisioni che incontrano larghe ostilità tra i cittadini. Insomma, a prevalere è quello che io definisco il populismo penale”. Ergastolo ostativo: la sentenza della Consulta e la cattiva coscienza di chi si scandalizza di Maurizio De Zordo perunaltracitta.org, 29 ottobre 2019 La Corte costituzionale, con una recente sentenza, si è pronunciata su alcuni aspetti del cosiddetto ergastolo ostativo, in linea peraltro con una altrettanto recente pronunciamento della Corte europea per i diritti dell’uomo. Cominciamo con qualche precisazione, necessaria stando al coro di sdegno che si è levato: i boss mafiosi usciranno tutti di galera, è la morte dell’antimafia, e via andare. In realtà la Consulta ha detto una cosa molto semplice: l’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario prevede che non possano essere applicate misure premiali o alternative alla detenzione a chi è condannato per una serie di reati gravi (mafia, terrorismo, ecc.). Misure che sono concesse dal magistrato dopo specifica valutazione, tranne che per quei detenuti. Loro no, mai, in nessun caso. Nessuna valutazione. Anzi in un caso sì: se denunciano qualcun altro, se diventano collaboratori di giustizia. La sentenza della Corte sanziona questa disparità, ripristinando da una parte un principio di uguaglianza, dall’altra riaffermando l’applicazione dell’art. 27 della Costituzione che prevede che la pena debba sempre tendere al reinserimento del condannato: il 41 bis cristallizza una volta per tutte lo status di irredimibile, contraddicendo apertamente il dettato costituzionale. Vale solo la pena ricordare, con Gherardo Colombo, ex magistrato di Mani pulite, che “la decisione della Consulta riguarda soltanto la possibilità (certo non il dovere) del giudice di concedere i permessi premio”. Quindi, manettari di tutto il mondo, tranquilli, Totò Riina, fosse ancora vivo, resterebbe in carcere. Noi, che manette e sbarre proprio non le amiamo, pensiamo che la decisione della Consulta sia solo positiva, ma che non basti. Continuiamo a pensare che proprio l’ergastolo ostativo, e non i permessi, dovrebbe essere messo in discussione, che la condanna a morire in una cella, magari dopo 40 o 50 anni di galera, non sia né umano né giusto. Continuiamo a pensare che il 41 bis, carcere speciale duro, di isolamento totale, ormai comminato senza speranze di remissione, sia una inutile crudeltà, la vendetta di uno Stato che mostra i muscoli sapendosi debole. Crediamo che la mafia stia sì nelle varie carceri (indegne) della repubblica, ma stia molto di più negli affari, nella commistione con la politica, nella finanza. E crediamo che questo sia vero da sempre, e che nessun potere abbia mai voluto davvero mettere le mani nel verminaio, nel sottogoverno, nei territori sottratti alle comunità, per paura, per ignavia, e, molto, per interesse. Che la lotta alla mafia non si fa a Poggioreale, o all’Ucciardone, ma nelle città, nei quartieri, con una maggiore equità sociale, con le risorse per i servizi, con il lavoro degno, le politiche per la casa, garantendo la dignità delle vite a partire da quelle più fragili e in difficoltà, e non difendendo sistematicamente poteri forti e padronato: lì si annidano i centri del potere mafioso, che poi prospera sulla povertà e sui bisogni cui non viene data altra risposta. Per cui non ci venite a parlare di antimafia solo quando in ballo ci sono le vite di quel pugno di disgraziati (un migliaio gli ergastolani ostativi in Italia) dietro cui nascondere le vostre cattive coscienze. Anche gli ergastolani hanno diritto alla propria dignità di Flavia Zarba huffingtonpost.it, 29 ottobre 2019 “Potrà perdere la libertà, per un tempo anche lungo, ma non deve perdere la dignità e la speranza”. La speranza so cos’è anche se qui ci sta a fatica ma che cos’è la dignità non sono sicuro, ce l’ho anch’io la dignità? Io, Turi d’a moto? Se dice che non la devo perdere vuol dire che ce l’ho già adesso, io Salvatore ho la dignità, anche se ci ho l’ergastolo addosso. Avete mai letto il libro di Elvio Fassone “Fine pena: ora”? Se non l’avete ancora fatto, fatelo. È una storia vera. Racconta di una storia epistolare tra un ergastolano e il suo giudice. Un giudice che ha applicato la “dura lex sed lex” a regola d’arte ma ciò nonostante non smette di interrogarsi sul senso della pena inflitta. E così passano ben ventisei anni. Salvatore li passa dietro le sbarre, in una continua lotta tra la voglia di emanciparsi attraverso lo studio, i corsi, il lavoro in carcere, i momenti di sconforto ed i tentativi di suicidio… soprattutto quando le nuove norme rendono il carcere durissimo con il regime del 41 bis. Non è un saggio sul carcere o sull’ergastolo e non si prefigge lo scopo di spiegare come ci si possa sentire lato “condannati a un fine pena mai” ma certamente aiuta a far riflettere sul valore riabilitativo della pena. “Riabilitazione” significa “Seconda possibilità”. Di certo è un libro che mi ha scosso e commosso e che ho rivissuto in un flash quando ho letto i tanti commenti superficiali di questi giorni sulla pronuncia della Consulta. Ecco, forse in tanti dovrebbero leggerlo per capire il valore della riabilitazione della pena intesa come seconda possibilità. C’è addirittura chi, con tono tranchant, si è espresso in questi termini “il mafioso ha solo 2 possibilità per riabilitarsi. O collabora o muore”. Non credo che Falcone o Borsellino, a 20 anni dalla loro morte, volessero esattamente questo. Ma facciamo un passo indietro... l’ergastolo ostativo - introdotto nell’ordinamento penitenziario italiano all’inizio degli anni Novanta - è regolato dall’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario e stabilisce che le persone condannate, per alcuni reati di particolare gravità, come mafia o terrorismo, non possano essere ammesse ai cosiddetti “benefici penitenziari” né alle misure alternative alla detenzione. La Consulta si è espressa sull’automatismo. Lo ha eliminato rimettendo la valutazione al caso concreto (a condizione che sia stato reciso ogni legame con la criminalità organizzata e purché sia dimostrata la loro partecipazione al percorso rieducativo). Ha, in altri termini, conferito ai Giudici un potere di decisione in concreto, sulla persona, sul suo percorso di riabilitazione. Come può infatti esserci una presunzione assoluta di “pericolosità sociale” del detenuto se la pena deve avere come sua precipua funzione quella della rieducazione? A cosa serve il percorso fatto in carcere se tanto il detenuto è già dato per spacciato da quando vi è entrato? Ebbene, la consulta non ha aperto le porte del carcere ai mafiosi, non ha asserito che anche chi non collabora ha diritto ai permessi premio. No, non l’ha fatto. Non sarebbe stato equo. La decisione del giudice potrà essere sempre e comunque quella di non concedere alcun permesso. Ma questa scelta interpretativa sicuramente incentiva all’espiazione della pena in modo costruttivo. Ecco perché la pronuncia non va travisata, va interpretata. Dopodiché sicuramente si può avere opinioni diverse sull’argomento, come su un ogni tema che mescoli questioni giuridiche ed etiche, ma è bene comprendere ciò che la sentenza ha affermato. È possibile infatti che, tra quegli “ergastolani ostativi”, ci sia anche un “Turi” che necessita di essere valutato come persona con una dignità propria. La pena ha senso se genera speranza di Mauro Anetrini L’Opinione, 29 ottobre 2019 lunedì 28 ottobre 2019 Sebbene ineffabile, ovvero, forse, proprio perché ineffabile, il Guardasigilli, quando parla di carcere come svolta culturale, non ha torto; non del tutto, almeno, e nonostante (come direbbe Vattimo) l’intrinseca debolezza del suo pensiero. Il carcere, inteso come luogo - e modo - privilegiato per l’espiazione della pena, può assurgere alla dignità di icona della reazione al male commesso, simbolo della punizione prevista dal Codice penale. Il carcere, nella sua dimensione temporale, misura il grado della riprovazione e l’assorbe tra le sue mura, segregando il colpevole dalla società della quale non rispetta le regole. Il carcere sublima la sofferenza, esortando, attraverso di questa, alla redenzione, ma non crea le condizioni perché sia raggiunta. Il carcere è un mondo; anzi: un pianeta. Dunque, Alfonso Bonafede non ha torto: scegliendo il carcere, segna il territorio delle sue idee; fa cultura, piaccia o no. Altro e diverso discorso è quello che si riassume nella domanda: è una buona cultura, quella di Bonafede? È buona cultura quella di coloro che criticano le recenti decisioni sulla pena svuotata di speranza? Ecco: la speranza. La pena ha senso se genera speranza, se non spegne il lumicino in fondo al tunnel. In quel lumicino c’è il torto di Bonafede e dei suoi mandanti o ispiratori: la speranza genera aspettative di premio; il premio diventa parte essenziale del Diritto penale. Qui c’è la svolta - quella vera - di cui Bonafede non sa nulla: in una società evoluta, al Diritto penale bisogna accostare quello premiale e ricostruire anche il sistema delle pene. Anche questa è cultura. Migliore dell’altra, però. Il docu-film sulla Costituzione come stimolo rieducativo nelle carceri di Luca Imperatore gnewsonline.it, 29 ottobre 2019 Dare un segno della presenza delle Istituzioni nelle carceri e far sentire meno soli i detenuti, questo lo scopo della proiezione del docu-film “Viaggio in Italia: la Corte costituzionale nelle carceri” proiettato nella Casa Circondariale di Foggia giovedì 24 ottobre scorso. Nel teatro dell’istituto penale pugliese, circa 50 detenuti hanno assistito alla proiezione del film che ha visto la Corte Costituzionale viaggiare all’interno di sette diversi istituti penitenziari italiani per diffondere la cultura costituzionale e testimoniare che il concetto di cittadinanza non conosce muri perché la Costituzione appartiene a tutti. Oltre ai detenuti, hanno partecipato il procuratore capo Ludovico Vaccaro, la direttrice del carcere Giulia Magliulo, il comandante della Polizia Penitenziaria Luca Di Mola e alcuni esponenti della Camera penale di Capitanata. Proprio la direttrice dell’istituto, che si è insediata da appena due mesi, è stata la promotrice di questo evento perché “in questa realtà così difficile bisogna dare un segno della presenza dello Stato ai detenuti che spesso si sentono abbandonati. Si cerca in tutti i modi possibili - prosegue Giulia Magliulo - di lasciare un segno tangibile”. Alla fine del film è seguito un dibattito nel quale i detenuti hanno lasciato le loro impressioni. “La reazione dei detenuti è stata positiva - aggiunge l’avvocato Giulio Treggiari, neo presidente della Camera penale di Capitanata - perché si sono ritrovati in quelle immagini. Il documentario è molto bello, è uno spaccato di umanità che emoziona”. Il tutto sulla base di un percorso rieducativo che non intende lasciare indietro nessuno: per questo la direttrice si sta impegnando a offrire alla popolazione detenuta corsi di formazione e iniziative culturali stimolanti. La settimana prossima è in programma uno spettacolo di Luca Pugliese, musicista, cantautore e pittore che canterà, suonerà e offrirà qualche spunto di riflessione ai detenuti. Il Procuratore Vaccaro, inoltre, ha annunciato una serie di iniziative da portare avanti in sinergia con la direzione del carcere, l’ufficio esecuzione penali e la Camera Penale, come ad esempio la realizzazione di un laboratorio professionale per dare la possibilità di imparare un mestiere. “Con il giusto impegno e un percorso formativo virtuoso - conclude Magliulo - la funzione rieducativa può portare a diventare persone migliori e al reinserimento nella società una volta fuori dal carcere”. Brancolano nel buio di Massimo Gramellini Corriere della Sera, 29 ottobre 2019 La verità non ha fretta, ma noi sì. Siamo diventati curiosi a tempo determinato. Appena irrompe uno scandalo, o un fattaccio di cronaca, smaniamo dalla voglia che ci dicano come è andata, purché ce lo dicano subito. Altrimenti non ci interessa più. L’ultimo caso è il ragazzo ucciso a Roma con un colpo di pistola alla testa. La notizia ci ha trovati con lo smartphone innescato, pronti a rilasciare patenti istantanee di cattiveria e di bontà. Ma la fidanzata della vittima ha complicato le cose. Nelle prime ore Anastasiya era buona, buonissima: una specie di statua della Pietà che solleva da terra la testa sanguinante del suo uomo. Poi si è saputo che forse era lì per comperare la droga. E poi ancora che forse non stava accanto a lui quando gli hanno sparato. Così, con la stessa rapidità, è montata l’onda emotiva contraria. La santa si è trasformata in balorda e poco ci è mancato che la sua fama negativa oscurasse quella dell’assassino. Bisognerebbe sospendere il giudizio fino al processo, quando il quadro sarà più chiaro, o comunque accertato. Ma è un auspicio patetico, perché già tra qualche giorno la finestra dell’attenzione si chiuderà e di Anastasiya non importerà più niente a nessuno. Ho nostalgia di quei vecchi articoli dove si scriveva: “Gli inquirenti brancolano nel buio”. Adesso ogni cosa deve essere illuminata fin dal suo apparire. E pazienza se la luce è quella di un fuoco d’artificio che abbaglia e fa rumore solo per un attimo. Senza cure né asili nido, l’inferno dei figli dei collaboratori di giustizia di Clemente Pistilli La Notizia, 29 ottobre 2019 Niente cure mediche né asili nido. Per i figli dei pentiti la vita è un inferno che coinvolge 1.800 minori. Del dossier si sta interessando il Viminale. Sono nati in famiglie criminali, spesso hanno vissuto episodi terribili e quando i genitori, solitamente i papà, hanno deciso di pentirsi sono entrati nel sistema di protezione, che in un attimo li ha sradicati dalla loro terra, allontanandoli dalla casa in cui fino a quel momento avevano vissuto, da parenti e amici. Ma come se non bastasse nella nuova vita, oltre ad essere costretti sempre a nascondersi per ragioni di sicurezza, si trovano anche alle prese con mille difficoltà, da quelle iniziali per le cure mediche, per le stesse vaccinazioni, e per frequentare l’asilo nido a quelle, una volta diventati più grandi, di integrarsi con i compagni di scuola. Un inferno quello in cui sono immersi i figli minori dei collaboratori di giustizia. Ben 1.800 in Italia alla fine del 2018. Vittime così di troppi problemi fisici e soprattutto psicologici. Un dramma descritto nell’ultima relazione presentata alla Camera dei deputati sulle speciali misure di protezione per i collaboratori di giustizia, sulla loro efficacia e sulle modalità generali di applicazione, che porta ancora la firma dell’ex ministro dell’interno Matteo Salvini. Bambini e ragazzini condannati a crescere in modo complicato, per cui lo Stato ha avviato diversi progetti. Ma ancora non basta viste le tante difficoltà che permangono. “Tra i minori sotto protezione - viene evidenziato nella relazione depositata a Montecitorio - prevalgono disturbi di adattamento e della sfera cognitivo-emotiva, principalmente connessi con le difficoltà scolastiche e le reazioni comportamentali di disadattamento”. Difficile del resto per loro, quando sono piccoli, sottoporsi alle stesse visite mediche, fare le vaccinazioni e frequentare un asilo nido. E dopo troppe le difficoltà nell’inserimento scolastico e sociale, con rapporti “quasi sempre condizionati in funzione delle necessità di tutela e spesso complicati dalla provenienza dei minori sotto protezione, cresciuti in ambienti criminali e subculture connotati da valori, stili di vita e caratteristiche del tutto singolari”. Un problema la stessa lingua. La maggior parte dei figli dei pentiti parla infatti quasi esclusivamente in dialetto e non è facile per loro comunicare nei nuovi contesti sociali in cui vengono inseriti. Per quelle centinaia di bambini e bambine, 387 con meno di 5 anni, 517 tra i 6 e i 10, ben 623 tra gli 11 e i 15, l’età più problematica, e 329 tra i 16 e i 18, il Viminale da tempo sta provando a fare qualcosa. I minori vengono infatti seguiti e monitorati con l’obiettivo di prevenire ed eventualmente arginare possibili disagi. Il Ministero dell’interno parla di successi: “Tutti i minori sotto protezione frequentano le scuole dell’obbligo e una larghissima percentuale prosegue regolari corsi di istruzione”. Ancora: “Moltissimi ragazzi si dedicano ad attività sportive, interagiscono normalmente col gruppo dei pari e praticano attività culturali extrascolastiche”. Ancora troppo poco visti i tanti problemi che permangono, come specificato e descritto dallo stesso Viminale. Difficile che quei ragazzini dopo una vita del genere possano diventare uomini e donne capaci di riscattarsi. Non bastano i “ritorni positivi in termini di recupero e reinserimento sociale dei minori” su cui batte il Ministero dell’interno nella relazione consegnata alle Camere. Una risposta a quei minori a cui ha rubato l’infanzia prima la criminalità organizzata e poi il sistema di protezione dovrà ora darla il ministro Luciana Lamorgese. Dopo aver affrontato il problema dei testimoni di giustizia, il ministro si dovrà occupare dei figli dei pentiti. Foglio di via obbligatorio escluso per il clochard di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 29 ottobre 2019 Tribunale di Vicenza - Sezione penale - Sentenza 17 aprile 2019 n. 555. Il foglio di via obbligatorio è una misura di prevenzione che non può essere adottata nei confronti di una persona senza fissa dimora. Il requisito della residenza in luogo diverso rispetto a quello dal quale si viene allontanati rientra, infatti, nello schema tipico del provvedimento del Questore. Pertanto, in assenza dell’ordine di rimpatrio l’atto deve ritenersi nullo per carenza di un elemento essenziale. Ad affermarlo è il Tribunale di Vicenza con la sentenza n. 555/2019. Il caso - Protagonista della vicenda è un clochard, ritenuto pericoloso per la sicurezza pubblica, al quale il Questore di Vicenza ordinava di allontanarsi dal capoluogo di provincia veneto, con divieto di ritornarvi per tre anni. Il Questore non emetteva però contestualmente il foglio di via obbligatorio, in quanto l’uomo era senza fissa dimora e non esisteva alcun luogo in cui lo stesso potesse essere “rimandato”. In seguito, costui contravveniva all’ordine, sicché veniva tratto a giudizio per rispondere del reato di violazione della misura di prevenzione impostagli, ex articoli 2 e76 comma 3 del Dlgs 159/2011 (Codice Antimafia). La decisione - Il Tribunale analizza la questione e finisce con l’assolvere l’imputato con la formula “perché il fatto non sussiste”, in quanto a monte del reato contestatogli c’è il provvedimento del Questore, il quale deve ritenersi nullo per difetto di un elemento essenziale. Ebbene, spiega il giudice evidenziando l’evoluzione normativa e giurisprudenziale sulla specifica misura di prevenzione del foglio di via obbligatorio, l’articolo 2 del Dlgs 159/2011 prevede uno schema tipico composto da due elementi: l’allontanamento dal comune dal quale il soggetto viene bandito e l’obbligo di rimpatrio nel luogo della propria abituale residenza. Quest’ultima parte del provvedimento costituisce parte essenziale dell’atto stesso, senza la quale viene meno la base su cui si fonda lo stesso reato di violazione delle prescrizioni imposte con la misura di prevenzione, ex articolo 76 comma 3 del Dlgs 159/2011. In sostanza, sottolinea il Tribunale, “il divieto di fare rientro nel territorio di un determinato comune presuppone che vi sia un diverso comune nel quale si abbia diritto di soggiornare e dal quale non si possa essere allontanati”. Nel caso concreto, dunque, secondo il giudice il provvedimento adottato dal Questore non corrisponde allo schema tipico previsto dalla legge, implicando la mancanza dell’ordine di rimpatrio un vizio dell’atto riconducibile all’ipotesi di nullità per carenza di un elemento essenziale ex articolo 21-sepries della legge n. 241/1990, in quanto tale rilevabile dal giudice ordinario. Se il gallo canta … c’è il carcere. Parola di Cassazione di Marina Crisafi Il Sole 24 Ore, 29 ottobre 2019 Si può andare in carcere per il canto di un gallo. Parola di Cassazione. Così ha deciso la terza sezione penale della S.C. con sentenza n. 41601/2019 confermando la condanna nei confronti di un uomo per il reato di disturbo alle persone per aver permesso ai propri galli di cantare di giorno e di notte, ignorando i richiami dei vicini e dell’amministratore di condominio. Nella vicenda, l’uomo veniva condannato in primo e secondo grado a venti giorni di arresto perché ritenuto colpevole del reato di cui agli art. 81 e 659 cod. pen., in quanto non aveva impedito il canto di tre galli di sua proprietà, che venivano lasciati liberi in orario notturno e senza le opportune cautele volte al contenimento delle emissioni sonore, nonostante le segnalazioni ricevute, disturbando così il riposo di una quantità indeterminata di persone. L’uomo tuttavia non ci sta e adisce il Palazzaccio lamentando la mancanza di un adeguato accertamento volto a stabilire in concreto il superamento della soglia di normale tollerabilità delle emissioni sonore e sostenendo “con assoluta certezza” che a cantare più rumorosamente erano i galli di proprietà di un altro vicino di casa e non certo i suoi. L’imputato si doleva altresì della mancanza di motivazione sulla tenuità dell’offesa e che non si era tenuto conto, quale attenuante, della sua buona fede e condotta collaborativa. Ma i giudici di piazza Cavour non vogliono sentire ragioni. Con due conformi sentenze di merito, si è adeguatamente accertato, osservano infatti, che i galli e le galline tenuti dall’imputato nel cortile del complesso condominiale “erano soliti cantare di giorno e di notte, alla vista della luce naturale, dei lampioni e dei fari delle automobili”. E nonostante le proteste degli interessati e i richiami formali dell’amministratore di condominio, la situazione si era protratta a lungo impedendo ai vicini di dormire regolarmente e di compiere durante il giorno le ordinarie attività domestiche senza fastidi, al punto che una condomino aveva deciso persino di cambiare casa. Per cui, correttamente, si legge nella sentenza, “è stata ritenuta sussistente la fattispecie contravvenzionale prevista dall’art. 659 cod. pen., per la cui configurabilità, come più volte precisato, non sono necessarie né la vastità dell’area interessata dalle emissioni sonore, né il disturbo di un numero rilevante di persone, essendo sufficiente che i rumori siano idonei ad arrecare disturbo a un gruppo indeterminato di persone, anche se raccolte in un ambito ristretto, come un condominio”. Nulla di fatto neanche sul fronte della concessione delle attenuanti, posto che l’uomo era rimasto indifferente alle sollecitazioni ricevute negli anni, manifestando anzi “una totale noncuranza nei confronti dei propri vicini - e - dimostrandosi sordo alle loro rimostranze per un prolungato temporale”. Per il padrone dei galli, dunque, si aprono le porte del carcere. Calabria. Ecco il Garante regionale per i detenuti: “Il carcere è parte della società” di Francesco Creazzo corrieredellacalabria.it, 29 ottobre 2019 Presentate le linee guida che ispireranno l’azione della figura di tutela. Incarico all’avvocato reggino Agostino Siviglia che ha raccontato le emergenze. I detenuti calabresi avranno, finalmente, una figura di riferimento, deputata a tutelare i loro diritti: entra in attività, a un anno e 10 mesi dall’approvazione della legge che lo istituiva, l’ufficio di Garante regionale per i diritti delle persone detenute o private della libertà. Le linee guida cui si ispirerà l’azione della nuova figura, già presente da anni in molte altre regioni d’Italia, sono state presentate questa mattina nella sede del Consiglio regionale proprio dalla viva voce del Garante, l’avvocato Agostino Siviglia che già svolge questo ruolo per la Città Metropolitana di Reggio, e dai firmatari della legge che ne ha istituito l’ufficio: il presidente dell’assise regionale Nicola Irto e il consigliere Franco Sergio. “Lo stato delle carceri calabresi - ha spiegato il Garante Agostino Siviglia - non lascia tranquilli: ci sono 2800 detenuti in 12 carceri su una capienza di 2700 detenuti, 62 donne e 700 stranieri. C’è il carcere di Rossano in cui scontano la pena coloro che hanno commesso reati collegati al terrorismo islamico. Ci sono parecchie situazioni sulle quali ci sarà da intervenire perché siamo al limite del disallineamento tra il dettato costituzionale e i principi stabiliti per la pena della privazione della libertà personale e la convenzione sui diritti umani, quando statuisce il divieto di trattamenti inumani e degradanti. Se la situazione della sanità all’esterno delle carceri è difficile, all’interno di esse diventa parossistica. Questi sono i problemi, ma ci sono anche note positive come la casa circondariale di Arghillà, dove da quattro anni i detenuti svolgono attività di lavoro volontario a favore della comunità in un’ottica di giustizia riparativa, c’è l’iniziativa dell’azienda Callipo che da anni assume detenuti a tempo determinato per fornirgli la possibilità di formarsi, nell’ottica di preparare una possibilità di vita fuori dal carcere”. Ma non esistono soltanto le carceri: in Calabria c’è un mondo silenzioso di diritti negati a chi, potendo beneficiare per legge di misure alternative alla detenzione, si trova costretto a non poterlo fare: colpa di una carenza cronica di strutture e un accavallamento di leggi che nega la possibilità di rieducarsi all’esterno delle case circondariali. È il caso dei detenuti con problemi psichiatrici che avrebbero diritto a poter essere inviati in strutture di assistenza che, però, nella nostra regione sono quasi totalmente assenti: “Il problema ha un duplice aspetto - spiega Siviglia - l’accesso alla detenzione domiciliare in deroga è sempre più complicato, c’è una stortura nel sistema: la soppressione degli ex Ospedali psichiatrici giudiziari ha comportato la carenza di strutture di igiene mentale sul territorio che possano ospitare queste persone. Le cosiddette Rems, infatti, possono ospitare solo persone che sono state dichiarate incapaci d’intendere e di volere prima della celebrazione del processo. Quando la dichiarazione d’incapacità è invece conseguenza dell’erogazione della pena, è quasi impossibile poter collocare queste persone in strutture adeguate e, pertanto, vanno a finire in carcere. È una situazione grave e delicata sulla quale presenterò una proposta di legge regionale il prima possibile perché il carcere non è una società a parte, ma una parte della società”. Piemonte. Incontro del Garante dei detenuti con Pietro Buffa, nuovo Provveditore dell’A.P. lavocediasti.it, 29 ottobre 2019 Bruno Mellano Garante della Regione Piemonte: “preoccupazione per la fase attuale e pieno sostegno al lavoro dei Garanti comunali”. Oggi, martedì 29 ottobre alle ore 9,00, presso la sede del Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria del Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta si svolge il primo incontro fra il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Piemonte ed il nuovo Provveditore. Dal 15 ottobre, infatti, Pietro Buffa - già storico Direttore della Casa Circondariale di Torino ed attualmente responsabile dell’Amministrazione penitenziaria della Lombardia - ha assunto anche l’incarico di Provveditore del Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta. A questo riguardo Bruno Mellano, Garante della Regione Piemonte, ha dichiarato: “L’avvicendamento di Buffa a Liberato Guerriero, divenuto a settembre Provveditore della Calabria, avviene in un momento particolarmente importante e delicato per la gestione delle carceri piemontesi, sotto molti punti di vista. Il programma di riordino dei circuiti penitenziari voluto dal Dap - Dipartimento nazionale dell’Amministrazione Penitenziaria - avrà significative ricadute sugli istituti piemontesi, a cominciare da Saluzzo, dove è in corso il progetto di trasformazione della Casa di Reclusione in carcere tutto ad Alta Sicurezza. Forti criticità saranno possibili in entrambe le strutture di Alessandria: a San Michele, a causa del prossimo spostamento della Casa Lavoro da Biella e per l’apertura dello speciale progetto “Agorà”, ma anche nel vecchio carcere cittadino di Piazza Don Soria, dove saranno accorpati una cospicua sezione di semiliberi, “art.21” e detenuti ammessi al lavoro esterno. Cambieranno molte cose anche a Biella: oltre al trasloco atteso della Casa Lavoro, dovrebbe finalmente avviarsi la manifattura tessile per le divise della Polizia Penitenziaria, mentre a Casale Monferrato, potrebbe prendere corpo l’ipotesi di trasformazione in carcere di un’ex caserma. Tutto ciò sarà anche accompagnato dall’avvio nelle 13 strutture penitenziarie piemontesi dello “Sportello Lavoro” voluto dalla Regione in un quadro di interventi di politiche attive dal lavoro, della formazione e sociali volte a rafforzare le reti istituzionali e territoriali per il recupero ed il reinserimento dei detenuti. In un siffatto contesto, l’esperienza professionale e la conoscenza dell’Amministrazione penitenziaria di Pietro Buffa sarà sicuramente preziosa: la situazione è resa ancora più calda dalle inchieste aperte da alcune Procure - e penso ovviamente a Torino ma anche ad Ivrea - in riferimento a comportamenti contestati ad alcuni agenti della polizia penitenziaria su quali la magistratura sta cercando di fare chiarezza con il lavoro dello stesso Nucleo Investigativo della Polizia Penitenziaria. Il ruolo svolto in questi anni dai Garanti comunali di Torino, Monica Cristina Gallo, e di Ivrea, all’epoca Armando Michelizza ed ora Paola Perinetto, di fronte a queste situazioni ed a questi casi è quanto mai delicato e ha implicato uno stretto e costante rapporto con il Garante nazionale e regionale ed un confronto franco ed aperto con i responsabili dell’Amministrazione penitenziaria, ai vari livelli. “La Regione Piemonte - continua Mellano - è l’unica in Italia ad avere un Garante comunale per ogni città sede di carcere: 13 istituti per adulti ed 1 per minori, 12 garanti in tutto (Alessandria ha 2 carceri); desidero dunque ringraziare Marco Revelli, attuale garante di Alessandria, nonché il suo predecessore Davide Petrini. Rosanna Degiovanni, di Fossano, Roswitha Flaibani di Vercelli, Paola Ferlauto di Asti, che ha proseguito sulle orme di Anna Cellamaro. Silvia Magistrini di Verbania, Bruna Chiotti di Saluzzo, Alessandro Prandi di Alba, Mario Tretola di Cuneo, Sonia Caronni di Biella e don Dino Campiotti di Novara. Inoltre una componente del Collegio del Garante nazionale, Emilia Rossi, è anch’ella torinese: una rete rara e preziosa che in questi anni ha potuto lavorare in sinergia grazie anche al Coordinamento regionale dei Garanti piemontesi ed alle relazioni con i colleghi regionali e territoriali assicurati da riunioni convocate dal garante nazionale o dalla Conferenza nazionale dei Garanti. Un protocollo d’intesa fra i garanti piemontesi ed il PRAP è stato sottoscritto nel luglio del 2016 ed ora dovrà essere rinnovato. Il ruolo dei Garanti, per come definito dalle leggi istitutive o dalle delibere e dai regolamenti, pur avendo preso avvio dalla situazione dei diritti delle persone recluse in carcere si è inevitabilmente allargato a tutte le situazioni di privazione della libertà, “uscendo dal carcere” ed investendo sempre più condizioni di privazione o limitazione delle libertà individuali, dai Centri di Permanenza per il Rimpatrio (Cpr) alle Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (Rems) ai trattamenti sanitario obbligatori (Tso) all’utilizzo della contenzione in ambito sanitario o delle case di cura e riposo per anziani. Il lavoro svolto nell’ambito penitenziario dalle figure di garanzia ha assunto un peso specifico e una capacità di intervento che, proprio nell’esperienza di Torino - dove l’Ufficio del Garante è stato istituito sin dal 2003 - si è sedimentato ed è riconosciuto dal tessuto sociale ed istituzionale di riferimento, dapprima con il lavoro pionieristico di Maria Pia Brunato ed ora con Monica Cristina Gallo. Dopo aver rigorosamente rispettato un silenzio-stampa condiviso con gli altri garanti, ritengo ora, anche per tutte queste considerazioni sopra espresse, opportuno e doveroso assicurare - anche pubblicamente, a titolo personale e a nome del Coordinamento regionale dei Garanti piemontesi - a Monica Cristina Gallo, Garante della Città di Torino, il pieno sostegno nella prosecuzione del suo prezioso lavoro dentro la Casa Circondariale di Torino e il profondo apprezzamento per il “percorso netto” intrapreso nella gestione molto delicata e potenzialmente molto problematica di segnalazioni che possono configurarsi come casi di “pena inumana e degradante”. La Magistratura farà il suo lavoro, così come l’Amministrazione penitenziaria e i mezzi di informazione: io confido che anche i Garanti, soprattutto quelli comunali che - per lo più - sono attivi su base volontaria, possano continuare con serenità e tranquillità ad assicurare il proprio contributo di “osservatore esterno” di una comunità penitenziaria che vive una stagione molto complicata. Melfi (Pt). Detenuto potentino di 41 anni si suicida nel carcere basilicata24.it, 29 ottobre 2019 Nella serata del 27 ottobre, un detenuto della provincia di Potenza, di anni 41, si è suicidato all’interno della propria camera di pernottamento, nel carcere di Melfi, impiccandosi con un lenzuolo legandolo alle inferriate della finestra. Lo fa sapere la segreteria regionale della Uil-pa Polizia Penitenziaria. L’uomo è stato soccorso subito dal personale di Polizia Penitenziaria, che nell’attesa dell’arrivo dei sanitari allertati hanno tentato in ogni modo di rianimarlo, poiché lo stesso si presentava all’esame obiettivo in arresto cardiaco. Giunti sul posto il medico e l’infermiera di turno all’interno del carcere, hanno continuano con le pratiche di rianimazione fino all’arrivo del personale del 118, che alla fine ha potuto solo constatare il decesso. Pochi giorni fa i poliziotti penitenziari erano riusciti a salvare in extremis un detenuto colpito da infarto, ieri sera invece, nonostante si siano prodigati al massimo, non sono riusciti a salvare quest’altra vita umana. L’evento tragico ha lasciato l’amaro in bocca dettato dal senso di sconfitta. È un bollettino di guerra a livello nazionale continua il sindacato - si manifestano eventi critici di ogni genere, da gesti di autolesionismo e/o auto-soppressivi ad aggressioni ai baschi azzurri per futili motivi, solo perché forse, sono le prime persone con cui hanno contatto i detenuti che sfogano la propria rabbia per le difficili condizioni di vita detentiva, anche a seguito del sovraffollamento carcerario, che è un fattore principale di negatività per raggiungere le finalità e gli obiettivi trattamentali sanciti dall’art. 27 della Costituzione. Milano. Malato terminale al 41bis nel carcere di Opera, ancora in attesa di giudizio di Rita Bernardini* Il Dubbio, 29 ottobre 2019 Antonio Tomaselli ha un tumore dal 2017. Tocca ancora una volta a noi Radicali occuparci di vicende scomode, come quando, insieme a Marco Pannella e ad altre 150 persone, facemmo uno sciopero della fame per denunciare le condizioni di salute di Bernardo Provenzano - ormai morente ed incapace di intendere e di volere - detenuto in regime di 41bis, il cosiddetto “carcere duro” previsto dall’ordinamento penitenziario. Nel caso del capo mafia la “giustizia” arrivò a due anni di distanza dalla sua morte, grazie alla Corte Edu che giudicò “inumano e degradante” il rinnovo del 41bis nel 2016, poco prima della sua morte. Il caso di oggi riguarda sempre un detenuto al 41bis, ma in attesa di giudizio, giudizio che quando arriverà, con altissime probabilità, non lo troverà più in vita. Si tratta di Antonio Tomaselli, per le cronache giudiziarie reggente della famiglia Santapaola-Ercolano, invischiato in diverse inchieste e già in passato condannato per associazione mafiosa. Preciso che Tomaselli non è imputato, né mai lo è stato in passato, per fatti di sangue e che la condanna massima che riceverà (se la riceverà all’esito del processo), non potrà superare i dieci anni. Nel luglio del 2017 a Tomaselli viene diagnosticato un tumore inoperabile al IV stadio al polmone destro, al polmone sinistro e al surrene. Speranza di vita: tre anni. All’epoca era ancora in libertà e aveva iniziato le indispensabili terapie presso l’ospedale “Garibaldi” di Catania. L’11 novembre 2017 viene arrestato e condotto nel carcere di Catania-Bicocca in quanto di lì a tre giorni era prevista una Tac presso l’ospedale della città. Fatta la Tac, che confermava l’avanzamento inesorabile della malattia, Tomaselli viene tradotto a 1.500 chilometri di distanza, nel carcere di Tolmezzo, dove i sanitari stabiliscono di non poterlo curare. Così, da Tolmezzo lo trasportano nel carcere di Torino e anche lì i sanitari si dichiarano impossibilitati a seguire un malato in quelle condizioni. Nel frattempo, i periti del tribunale di Catania comunicano che il Tomaselli doveva essere trasferito a Messina, in quanto malato oncologico terminale residente e in cura presso l’ospedale di Catania. Invece, accade che il detenuto viene tradotto nel carcere di Milano-Opera perché il governo aveva intanto firmato il decreto che gli infliggeva il 41bis. I familiari e i difensori, gli avvocati Eugenio Minniti e Giorgio Antoci, non si danno pace e documentano come i controlli, i monitoraggi e le cure per il loro congiunto e assistito, in qualsiasi carcere sia stato, non sono effettuati secondo i protocolli e che per una persona in quelle condizioni né il carcere né tanto meno il regime speciale del 41bis possono consentirgli un’assistenza adeguata. Non c’è niente da fare: sia il tribunale del riesame sia la Cassazione sentenziano che “le condizioni di salute in cui versa il Tomaselli non risultano modificate in peggio malgrado la gravissima malattia da cui l’indagato è affetto”, e che, quindi, è compatibile con la detenzione al carcere duro. Devo dirlo: siamo di fronte ad uno Stato che non si fa scrupolo di segregare in isolamento un malato terminale sofferente e con una speranza di vita ormai non superiore ad un anno. Uno Stato torturatore che mostra un volto peggiore dei criminali che afferma di voler combattere. Da brividi. *Consigliere generale Partito Radicale, Presidente Nessuno Tocchi Caino Parma. Ergastolani trasferiti da Voghera sono stati isolati in “cella liscia” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 ottobre 2019 Da luglio a oggi arrivati 50 reclusi. Sono 129 quelli condannati al carcere a vita. Continui trasferimenti da un carcere di massima sicurezza a un altro, da una sezione As1 ad un’altra, dove le celle non sono adeguate per ospitare gli ergastolani: e se quest’ultimi rifiutano, subiscono provvedimenti disciplinare tanto da finire in situazioni simili al 41 bis. Il caso più eclatante è quello che sta avvenendo da un mese a questa parte al carcere di Parma. Alcuni detenuti ergastolani, provenienti dal carcere di Voghera, reduci dello smantellamento delle sezioni 1 e 3 del circuito AS3, sono stati sanzionati disciplinarmente per essersi rifiutati di andare in celle poco più grandi di tre metri quadrati per starci in due. Per punizione sono stati mandati nella sezione di isolamento denominata Iride, e alcuni denunciano di essere stati ubicati in quattro celle lisce. Una situazione che è stata denunciata - tramite una lettera all’associazione Yairaiha Onlus. La presidente Sandra Berardi ha segnalato la questione al garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma, il quale ha chiesto a quello del comune di Parma Roberto Cavalieri di verificarla. Raggiunto da Il Dubbio, il garante Cavalieri ha confermato la gravità denunciata e definisce la situazione “allarmante”. D’altronde, tale precarietà, era stata preannunciata da lui stesso tramite una lettera indirizzata al Dap, ma senza ottenere risposta. “Quattro celle, sono le cosiddette “celle lisce” il che significa: niente tv, bagno alla turca, niente luce nel bagno, niente tavolo per sedersi e poter mangiare come gli esseri umani, una luce che assomiglia ad un lumino di cimitero”, denunciano i detenuti ergastolani all’associazione Yairaiha. “Per scrivere - si legge nella lettera - bisogna stare seduti sul letto con lo sgabello tra le ginocchia e sopra la carpetta su cui adagiare il foglio. Nelle celle lisce si deve mangiare in piedi visto che al posto del tavolo vi è una sorta di mangiatoia in cemento pieno. L’aria che si respira è quella del 41 bis: biancheria contata anzi, meno del 41, passeggi spettrali e pieni di muffa maleodorante. La sola differenza è il colloquio senza vetro”. Ma non solo. “Uno dei malcapitati a Voghera - si legge sempre nella lettera - aveva il piantone in quanto ha una piastra di ferro in una gamba e gli manca mezza mano, qui ha anche problemi per andare in bagno perché sulla turca non riesce a stare piegato. Nonostante abbia fatto presente le sue condizioni non ha ricevuto risposta”. I detenuti che si ritrovano per punizione alla sezione Iride del carcere di Parma, sottolineano nella lettera di denuncia: “Più che comodità stiamo chiedendo solo e soltanto i nostri diritti inalienabili: la tv è ministeriale, l’illuminazione adeguata è sancita dalla Cedu. In queste quattro celle non c’è niente a norma, ma delle norme ci si ricorda solo quando a trasgredirle è chi sta dall’altra parte della barricata, in questo caso dietro le sbarre”. Sì, perché anche l’illuminazione è un dramma. “L’altro giorno - si legge nella lettera - è venuto l’agente addetto alla Mof e gli abbiamo chiesto se poteva aprire il portalampada e far scendere la lampadina, anch’essa imprigionata in una sorta di scatola di ferro che impedisce alla luce di diffondersi; la risposta è stata che in queste celle non si può toccare niente e che se volevamo le comodità potevamo salire in sezione, nelle celle a due in tre metri quadri”. Come già riportato da Il Dubbio, la situazione è al collasso. Il garante locale Cavalieri, in una lettera - ancora senza riposta - inviata al Dap, aveva fatto presente che il trasferimento a Parma di circa 50 detenuti AS3 dallo scorso mese di luglio ad oggi e, recentemente, l’assegnazione dal carcere di Voghera di 10 detenuti AS1, sette dei quali con ergastolo ostativo, che portando a 129 gli ergastolani presenti ovvero il 20% dei reclusi, ha “compromesso la vivibilità delle celle per i detenuti con lunghe condanne e, spesso, costretto i detenuti a vivere con un compagno malato, anch’esso bisognoso di maggior tutela” e accade che “i detenuti, pur di non vivere in cella con un compagno, preferiscono farsi rinchiudere nelle celle di isolamento e avviare forme di proteste”. E sono proprio quelli reclusi - grazie al provvedimento disciplinare - alla sezione iride, che hanno scritto all’associazione Yairaiha. Ma forse non è solo un problema che riguarda il carcere di Parma, ma è molto più esteso. La Spezia. La vita fuori dal carcere, parte il progetto “Exit” dedicato alle giovani donne cittadellaspezia.com, 29 ottobre 2019 Scontata la pena, fuori dal carcere c’è un mondo con cui è difficile confrontarsi. Soprattutto se si tratta di ragazze minorenni o poco più che adulte. Giovani, fino a 25 anni di età, che raccontano storie di violenze subite, matrimoni precoci e combinati, con un’infanzia mai vissuta segnata da angherie, percosse e sfruttamento. Per molte di loro essere riavvicinate alla famiglia o al contesto originario significherebbe condannarle a rivivere tutto dall’inizio. Serve una via di uscita, un percorso di autonomia che prosegua il recupero e le renda artefici in positivo del proprio destino. E’ questo il significato del progetto Exit - finanziato con il contributo di Fondazione Carispezia nell’ambito del Bando Aperto 2018 - che mette insieme due realtà importanti che operano nell’ambito del sociale a Massa Carrara: l’Istituto penale minorile (Ipm) per sole donne di Pontremoli e la Cooperativa Sociale Serinper, con sede a Carrara. A spiegare i dettagli è il presidente di Serinper, Alessio Zoppi: “L’attività di recupero dell’Ipm di Pontremoli rappresenta un’eccellenza unica in Europa dato che tratta fino a 16 ragazze, minorenni e giovani adulte, dai 14 ai 25 anni. Occorre però rinforzare i progetti di reinserimento sociale e lavorativo una volta che le ragazze siano uscite dall’Istituto, raccogliere quanto di buono fatto fino a quel momento. Una staffetta che preveda percorsi di autonomia, inserimenti residenziali e in borsa lavoro, tirocini formativi e apprendistato. Tutto ciò che possa servire ad allontanare definitivamente queste ragazze da contesti delinquenziali e di sfruttamento”. Molte delle giovani dell’Ipm sono straniere e in gran parte condannate per reati contro il patrimonio che derivano da organizzazioni che sfruttano a tal scopo i minori. Dietro ci sono storie di privazione e violenza, di infanzie ‘rubate’, percosse e costrizioni di ogni genere. “Non vogliamo che queste donne tornino di nuovo ambienti delinquenziali - precisa l’amministratore di Serinper, Enrico Benassi - dopo il grande lavoro che viene fatto all’Ipm. Il progetto Exit conta di poter farsi carico di 6 di queste ragazze ogni anno e avviare un’attività complessa che le dia loro la possibilità di reinserirsi nella società civile con sostegno e un riparo per circa un anno tramite in un gruppo appartamento protetto in Lunigiana. Si tratta di realtà sociali composite, lontane dal contesto penale, che servono a riavvicinarsi alla società civile evitando processi di etichettamento o ghettizzazione. Per ciascuna di loro sarà elaborato uno specifico progetto educativo individuale. Saranno inviate dall’Ipm e seguite da operatori di Serinper: una collaborazione essenziale. E’ prevista anche la possibilità di percorsi di inserimento nel mondo del lavoro per dar loro modo di diventare autonome una volta terminato il progetto Exit”. “Con questo progetto - conclude il direttore dell’istituto penale minorile, Mario Abrate - possiamo innescare un circolo virtuoso che porti all’incremento di inserimenti in strutture protette, sicure e di crescita per le giovani in uscita dall’Ipm. Cambiare gli stili di vita delle nostre ragazze è possibile ed è uno degli obiettivi educativi principali della Giustizia Minorile. Terminata la competenza penale occorre una progettazione individualizzata in grado di accompagnarle in un percorso di autonomia che possa raccogliere quanto di buono fatto in Istituto. Cosa che potremo fare grazie alla collaborazione con Serinper in questo progetto finanziato da Fondazione Carispezia, che ringrazio”. Cagliari. I detenuti-designer di Quartucciu: “ripensiamo gli spazi” di Maria Grazia Marilotti ansa.it, 29 ottobre 2019 Ridisegnare gli spazi per rendere meno afflittiva la vita dietro le sbarre. Giovani detenuti, operatori, designer e architetti lavoreranno a stretto contatto nella falegnameria dell’Istituto penale per minorenni di Quartucciu, diretto da Enrico Zucca, per dar vita a complementi di arredo e oggetti di uso comune capaci di riqualificare un luogo, il carcere, dove la libertà di muoversi e relazionarsi è compressa e limitante. Tutto questo diventa realtà grazie al progetto Skillellé (in slang cagliaritano ragazzino) - I libri aiutano a leggere il mondo”, che farà tappa all’Istituto di Quartucciu. “Soprattutto quando si tratta di minori detenuti, il tema della umanizzazione degli spazi è fondamentale anche per rendere la quotidianità detentiva il più simile possibile a quella esterna - spiega Barbara Cadeddu, ideatrice del progetto assieme a Laura Pisu - Dalle celle alle stanze per gli incontri, dalle aule didattiche ai luoghi riservati alla socialità. Tutti gli ambienti, oggi omologati, possono essere resi più adatti ad accogliere minori. E si possono creare economie. Gli oggetti, pensati anche per ambienti esterni, potrebbero essere commercializzati, dopo averne testato la vendibilità”, spiega Barbara Cadeddu, ideatrice del progetto assieme a Laura Pisu. “La manualità, il saper fare è la chiave per creare empatia con i minori, anche stranieri, che vivono una condizione di privazione della libertà”, sottolinea ancora Barbara Cadeddu. L’appuntamento, solo su invito, con “Skill4building - Esperienze di design collaborativo per cambiare il mondo” è per il 12 novembre alle 11 nel carcere di Quartucciu. Ci saranno Marco Tortoioli Ricci, presidente dell’Aiap, l’Associazione italiana design della comunicazione visiva, e Andrea Margaritelli, brand manager di Listone Giordano e presidente dell’In/Arch - Istituto nazionale di Architettura. Skillellé è molto altro ancora. Dal 24 ottobre al 21 dicembre, tra Cagliari e 16 Comuni della Città Metropolitana, propone incontri con scrittori, giornalisti, blogger, nutrizionisti e artisti. Tra gli altri, Federico Fubini, Mauro Covacich, Claudia De Lillo, Giovanni Bietti, Daniel Lumera, Giorgio Vasta, Telmo Pievani. Ma anche performance e laboratori a tema, momenti formativi legati alla crescita interiore, orientamento allo sport, musica, arte del perdono, consapevolezza, sana alimentazione, creatività, benessere psicofisico. E uno sguardo all’Oriente con un focus sull’arte del Taiko, il suono assoluto universale del tamburo tradizionale giapponese. (programma su www.ilibriaiutanoaleggereilmondo.it). Quattro le principali sedi: oltre all’Istituto penale minorile di Quartucciu, la Biblioteca di Quartiere Montevecchio, a Is Mirrionis, ad alta densità di adolescenti, e i licei Eleonora D’Arborea e Euclide. Laboratori di confronto, crescita e inclusione, “presidi culturali” in connessione con altre sedi sparse per la città, in un intreccio con festival e rassegne. Aperta a tutte le età, giunta alla 10/a edizione, la manifestazione punta a “ridurre le distanze tra chi vive in centro e chi nelle estreme periferie, a creare un ponte tra la vita dietro le sbarre e le persone libere - racconta Laura Pisu - una rete tra imprese, istituzioni, associazioni, scuole, per diventare un modello di ‘welfare di comunità educante’ affiancando i giovanissimi nel loro percorso di vita, valorizzando le competenze e aiutandoli ad essere protagonisti. Le parole d’ordine? Crescere e accettarsi, conoscere e comprendere, appassionarsi e imparare ad amare e ad amarsi”. Bologna. Osteria “Brigata del Pratello” per recuperare giovani detenuti attraverso il lavoro di Gianfilippo Neri cinquecolonne.it, 29 ottobre 2019 Nasce a Bologna, all’Istituto Penale Minorenni “Siciliani” (Ipm), l’Osteria “Brigata del Pratello”, un’esperienza formativa unica in Italia, promossa da Fomal, Ente accreditato dalla Regione Emilia-Romagna per la formazione professionale nell’ambito della ristorazione, e dall’IPM, con il sostegno della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna e della Regione Emilia Romagna, che permetterà ai giovani detenuti di mettere in pratica le conoscenze acquisite nel corso della formazione e sviluppare nuove competenze in rapporto con il mondo del lavoro e la società civile. La “Brigata del Pratello” si è inaugurata giovedì 10 ottobre in via del Pratello 34 con la prima delle cene-evento aperte al pubblico, in cui sono stati coinvolti, come cuochi e camerieri, i ragazzi detenuti che da mesi partecipano al percorso formativo. Il servizio ristorativo ha visto impegnati per ogni cena circa 6/8 giovani dell’Ipm, affiancati da chef e maître professionisti e coordinati da educatori. Per la città di Bologna la “Brigata del Pratello” rappresenterà un luogo accogliente, da frequentare per sostenere la sfida educativa, nella convinzione che ogni persona debba avere sempre la possibilità di realizzare il proprio personale percorso di crescita e di autonomia. Brigata del Pratello: il progetto - Il progetto della Brigata del Pratello mira a sperimentare un’attività innovativa per la formazione e l’inserimento lavorativo dei giovani detenuti; migliorare le competenze relazionali, tecniche e professionali dei partecipanti ai corsi; sostenere l’autonomia dei ragazzi attraverso l’orientamento e l’accompagnamento al lavoro e l’affiancamento nell’assunzione di responsabilità; favorire esperienze di convivialità con chiunque voglia condividere incontri e sapori inediti in un contesto unico, contribuendo a dar voce a una storia nascosta della città. Alla serata inaugurale la squadra della Brigata del Pratello ha accolto ospiti importanti tra cui: il Questore di Bologna Gianfranco Bernabei; il Presidente della Regione Emilia-Romagna Stefano Bonaccini; Giuseppe Colonna, Presidente Corte d’Appello di Bologna; Giusella Finocchiaro, Presidente della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna; il Prefetto di Bologna Patrizia Impresa; Luigi Martello, Magistrato di Sorveglianza; il Sindaco di Bologna Virginio Merola; Antonio Pappalardo, dirigente del Centro Giustizia Minorile di Bologna; Giuseppe Spadaro, Presidente del Tribunale per i Minorenni; Francesco Ubertini, Rettore dell’Alma Mater Studiorum e l’Arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi, per citarne solo alcuni. Le cene-evento con circa 40/50 “coperti” si svolgeranno una volta al mese - con la possibilità di aumentare se tutto funzionerà secondo i piani - e saranno occasione per degustare piatti sopraffini e per conoscere più da vicino le istituzioni e le associazioni di volontariato che collaborano con l’Istituto “Siciliani” offrendo numerose attività, un prezioso contributo al percorso di rigenerazione personale dei ragazzi detenuti. Il progetto dell’Osteria formativa Brigata del Pratello affonda le sue radici nel lontano 2008, quando dalla collaborazione tra Fomal e Ipm e grazie al contributo della Fondazione del Monte e della Regione Emilia-Romagna nasce il primo laboratorio di ristorazione. I corsi organizzati hanno rappresentato in questi anni la risposta al bisogno dei giovani di reinserirsi positivamente nel contesto sociale attraverso il lavoro come strumento di riscatto, e l’inaugurazione dell’Osteria testimonia oggi l’impegno incessante nel garantire la rieducazione del condannato, come espresso nell’articolo 27 della Costituzione Italiana. “Tutti speriamo che all’Osteria ci si trovi bene e si mangi bene, ma soprattutto desideriamo che abbia successo e riscontro positivo la motivazione per cui si é avviata questa esperienza. Qualunque sia il reato per cui i giovani stanno dentro è impensabile che sulla loro vita si scriva la parola fallimento, stare ‘dentro’ deve corrispondere anche alla possibilità concreta di reagire, rinascere, riprendere il cammino buono di persone e di cittadini” dichiara Beatrice Draghetti, Presidente di Fomal. “L’osteria nel carcere minorile è un esempio che ben rappresenta la natura dei nostri progetti e delle attività che sosteniamo, che hanno come priorità l’impegno sul fronte dell’integrazione sociale, dell’educazione, dell’istruzione e della cultura - afferma Giusella Finocchiaro, Presidente della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna - da qui si parte se si vuole dare una speranza al futuro. Siamo certi che l’esperienza costituirà un modello da seguire anche per altre realtà nazionali”. Foggia. Continua il tour nelle carceri del musicista Luca Pugliese avellinotoday.it, 29 ottobre 2019 Un’ora d’aria colorata prosegue a Foggia. Mercoledì 30 ottobre la casa circondariale di Foggia ospiterà la ventunesima tappa della tournée musicale di Luca Pugliese per le carceri. S’intitola Un’ora d’aria colorata la missione artistico-culturale che dal gennaio 2013 vede Luca Pugliese impegnato a far dono gratuito della sua musica alla popolazione detenuta di numerosi istituti di penitenziari del paese. Un’iniziativa solidale, questa del poliedrico artista campano, che oltre a richiamare l’attenzione sullo stato delle nostre carceri chiama in gioco il ruolo sociale dell’arte e dell’essere artisti. “La dignità dell’uomo” afferma l’artista “è un diritto universale che non ammette deroghe e l’arte è un diritto di tutti. La musica è aria dipinta. Portare un po’ di musica in luoghi dove tutto è troppo poco e troppo stretto, mi rende vivo e mi fa sentire utile al mondo. La magia di questo tour è quella di aver scoperto e toccato con mano il potere aggregativo della musica, la capacità della musica, in luoghi come il carcere, di farsi vero e proprio focolaio di libertà. Le emozioni che questa esperienza mi ha finora restituito sono veramente rare, le mie canzoni e la mia musica godono di un’energia totalmente diversa da quando ho deciso di regalarle a chi ne ha veramente bisogno. Sono inoltre più che mai convinto che, se vogliamo migliorare il nostro paese, dobbiamo cominciare dal basso, recuperando e riabilitando chi ha sbagliato, e che ciò non è solo doveroso, ma è anche possibile. Io metto gratuitamente a disposizione una mia competenza; se tutti dessero qualcosa gratis per alleviare la sofferenza altrui, sicuramente il mondo starebbe più in armonia con se stesso”. Il concerto, fortemente voluto dalla direttrice dell’istituto, dott.ssa Giulia Magliulo, dal comandante del corpo di polizia penitenziaria Luca Massimiliano Di Mola e dal capo area trattamentale Giovanna Valentini, vedrà Luca Pugliese esibirsi nella veste live che, proprio a partire dalla tournée carceraria, si è consolidata come quella da lui preferita: la versione one man band (voce, chitarra, percussioni a pedale). Strabiliante “uomo orchestra” e cantautore e interprete raffinato, Pugliese porterà in scena il background più profondo della sua esperienza musicale, da sempre aperta alla contaminazione e costantemente alla ricerca di nuove suggestioni. Ultime, ma solo in ordine di tempo, le suggestioni musicali tratte dal repertorio classico napoletano - che della tournée nelle carceri sono la colonna portante - e da quello latinoamericano, che, assieme a brani propri e a grandi classici del cantautorato italiano, offriranno un viaggio musicale unico nel suo genere, in cui epoche, stili e tradizioni differenti trovano un epicentro comune grazie a un grintoso talento interpretativo e a una rara capacità di farli propri. “Il coraggio e l’amore”, per Stefano Cucchi recensione di Eleonora Martini Il Manifesto, 29 ottobre 2019 Di Ilaria Cucchi e Fabio Anselmo, racconta in modo certosino “una battaglia di civiltà che ormai appartiene a tutti”. “Quando il 31 ottobre 2014 il primo processo si concluse in appello con l’assoluzione di tutti gli imputati, tra cui i medici per insufficienza di prove, sembrava tutto finito. Ma non ci siamo arresi”. A parlare è l’avvocato Fabio Anselmo che dieci anni fa - quando Ilaria Cucchi lo chiamò perché la sera prima della morte di suo fratello aveva visto in tv un servizio su Federico Aldrovandi (e nell’ingaggiare lo stesso avvocato, Ilaria ebbe così la sua prima intuizione felice) - era solo il difensore della famiglia di Stefano Cucchi. Oggi, “dopo 14 gradi di giudizio”, è anche il compagno di Ilaria. Insieme hanno scritto un libro che è “la storia della violazione dei diritti di un essere umano, una storia che contiene tutte le altre”. Questa volta è lei che parla: “Ho tirato fuori un coraggio che non sapevo di avere”, perché lo aveva giurato al cadavere di suo fratello, sfigurato dalla violenza subita. Un libro che racconta in modo certosino “una battaglia di civiltà che ormai appartiene a tutti”, con un ritmo serrato da noir ma senza inventare una riga, rimettendo in fila, in ordino cronologico, la verità giudiziaria emersa durante il processo bis. “Il coraggio e l’amore”, (Ed. Rizzoli, €19, 447 pp.) ha lo scopo, aggiunge Anselmo durante la presentazione che si è svolta ieri a Roma, nello spazio Feltrinelli della galleria Alberto Sordi, davanti a un pubblico folto e partecipe, “di restituire dignità all’uomo”. E ad una famiglia che ha dovuto anche subire insulti e una macchina del fango messa in moto parallelamente a quella del depistaggio. E che continua ancora adesso. “Ho timori non irrazionali che dopo i depistaggi del 2009, del 2015 e dell’anno scorso, qualcuno ci stia ancora provando”, riferisce Anselmo. E guarda caso, proprio in questi giorni Ilaria è stata oggetto dell’attacco massiccio di haters su Fb dopo la presentazione del libro a Domenica in. Ma la loro è “una battaglia anche contro un fiume di ignoranza politica e giuridica che si sta ingrossando pericolosamente”. Che non capisce cosa davvero voglia dire “tortura”, finché non colpisce qualcuno vicino. Ma se “Il coraggio e l’amore” descrive questi dieci anni di lotta contro uno Stato che non vuole processare se stesso, fino alla verità emersa negli ultimi mesi, il “prossimo libro che scriveremo con tutte le verità che oggi, a processo aperto, ancora non si possono riferire, si chiamerà L’amicizia e la rabbia”, suggerisce il professore Vittorio Fineschi, il consulente medico-legale grazie al quale si è riusciti a dimostrare che Stefano venne picchiato brutalmente dai carabinieri che lo arrestarono, e che morì di quelle lesioni. “La rabbia rimane, perché si sono persi 9 anni”, dice Fineschi. Ma il sodalizio che è nato tra loro ha rotto il muro dell’omerà e dell’indifferenza. Italia-Libia, chi chiede cambiamenti di Nello Scavo Avvenire, 29 ottobre 2019 Il fronte che vuole modifiche all’accordo entro il 2 novembre. E a Tripoli Bija, nonostante le accuse, viene confermato capo della Guardia costiera. Il noto trafficante di esseri umani, sanzionato dalle Nazioni Unite, è stato nominato Capo delle Guardia costiera di Zawyah. Chi ha preso questa decisione? Chi ne è responsabile?”. La denuncia è di Vincent Cochtel, inviato speciale dell’Acnur per il Mediterraneo centrale. Solo sabato il ministero dell’Interno libico aveva promesso che sarebbe stato eseguito il mandato di cattura contro Abdurhaman al Milad, detto Bija. Ma ora Cochtel segnala non solo l’ennesima farsa libica (Bija contemporaneamente ricercato e promosso a capo dei guardacoste nell’area a Ovest di Tripoli) ma punta il dito sul riciclaggio di denaro sporco, con i trafficanti che “re-iniettano i proventi delle loro attività criminali in “affari legali”, scrive Cochtel alludendo anche al business nella sanità dei fratelli fratelli Koshlaf, a capo della milizia al Nasr a cui appartiene Bija. Se perdurasse il silenzio del governo, intanto, il prossimo 2 novembre scatterà la proroga automatica del Memorandum d’intesa tra Italia e Libia, siglato nel febbraio del 2017. In base all’accordo (e se non ci saranno modifiche) l’Italia continuerà a sostenere la cosiddetta Guardia Costiera libica e i campi di prigionia. Una posizione, quella del nostro governo, fortemente criticata dalle organizzazioni umanitarie. Il Tavolo Asilo, composto dalle principali organizzazioni italiane, domani lancerà un appello al governo italiano e in particolare al presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, per chiedere di non rinnovare l’accordo. Amnesty International ricorda che se verrà rinnovato automaticamente, resterà in vigore altri tre anni. Molto critica anche Intersos, che ha ribadito la posizione espressa nei giorni scorsi ad Avvenire. “Come organizzazione umanitaria operativa a Tripoli e nel Sud della Libia con programmi di aiuto e protezione per i minori - si legge in una nota - chiediamo con forza che il governo italiano annulli il Memorandum del 2017 e i precedenti accordi con il Governo libico e che, fatti salvi gli interventi di natura umanitaria, non vengano rifinanziati quelli di supporto alle autorità libiche nella gestione e controllo dei flussi migratori”. Analoghe richieste arrivano da esponenti politici, soprattutto della maggioranza. Per Rossella Muroni (Leu) “se non vogliamo essere complici di violazioni di diritti umani e crimini contro l’umanità, l’Italia deve revocare l’accordo”. Chiede che “sia fatta chiarezza fino in fondo” anche Nicola Fratoianni. Per l’esponente di Sinistra italiana “Il governo dovrà agire su questo fronte, con trasparenza e senza ambiguità. Questa vicenda rafforza la necessità e il dovere morale - conclude - che gli accordi con la Libia non siano rinnovati dall’Italia”. Il senatore Pd Francesco Verducci, ribadisce che “il Memorandum firmato con la Libia non può essere tacitamente rinnovato. Dovrà essere il Parlamento a discuterne e a decidere. Quel che è emerso sui “campi-lager” libici e sulla complicità di frange della cosiddetta Guardia costiera libica impone all’Italia di revocare quegli accordi”. “A cos’altro dobbiamo assistere - si domanda Emma Bonino (+Europa) - per fermare questa scellerata collaborazione che ha reso l’Italia colpevole di violazioni gravissime e complice delle più efferate violenze nei confronti di decine di migliaia di persone nelle mani di uomini spietati?” Isis, chi sta dalla parte giusta di Luigi Manconi La Repubblica, 29 ottobre 2019 Nel processo ai foreign fighter italiani sembra non esservi differenza tra scegliere le milizie dello Stato Islamico e battersi a sostegno della resistenza curda. Negli ultimi tempi la categoria di ipocrisia ha avuto ampio corso, diffusa a piene mani e stiracchiata di qua e di là, fino al trionfo finale, quando i cittadini e gli Stati europei hanno tuonato contro la doppiezza morale dei cittadini e degli Stati europei a proposito della questione curda. Di questo atteggiamento sempre difficile da trattare perché sempre venato di moralismo si ha un caso esemplare in una vicenda giudiziaria in corso a Torino dove, per due uomini e una donna, tra i 20 e i 30 anni, è stata proposta, in ragione dell’ipotizzata pericolosità sociale, la sorveglianza speciale. Una misura di prevenzione, questa, che contempla obblighi e divieti, limitazioni e prescrizioni tali da ridurre significativamente la libertà personale di chi vi è sottoposto. Sullo sfondo, un interrogativo: se la tutela dei diritti fondamentali della persona è patrimonio dell’umanità, come è possibile che chi per quel patrimonio si è battuto, fino a mettere a repentaglio la propria vita, sia considerato una minaccia per l’ordine pubblico e per la sicurezza collettiva? Non è un sofisticato paradosso giuridico: è, piuttosto la manifestazione di una delle mille contraddizioni che rendono ingarbugliata la matassa dei rapporti tra valori universali e normative degli Stati nazionali. Accade che, infatti, proprio in queste settimane, alcuni giovani che hanno combattuto con le milizie curde contro lo Stato Islamico siano sotto processo a Torino anche per questa loro scelta. Tra il 2015 e il 2017 quei giovani, e chissà quanti altri, provenienti dall’Italia e dall’Europa, si sono recati in quel lembo di terra detto “Rojava”, nella Siria settentrionale, portando il proprio contributo a una lotta che si è rivelata decisiva per sconfiggere il terrorismo dell’Isis. Eppure l’idea che si ha di loro in Italia è condizionata da molti preconcetti: innanzitutto la memoria sgualcita e non sempre encomiabile di un antico internazionalismo proletario che si è rivelato, in più circostanze, pernicioso. Poi, un’opzione pigramente pacifista che ha finito con l’accreditare una lettura irenista dei conflitti internazionali e un ruolo provvidenzialista dell’attività diplomatica. Infine, una concezione esasperata della suddivisione dei compiti e del mestiere di ognuno che induce a reclinare su sé stessi, occultando una sostanziale indifferenza verso l’altrui destino. A ciò si aggiunga la sensazione che questi “combattenti per la libertà” siano degli avventurieri, mossi più dal narcisismo eroicista che da un afflato di fratellanza universale. Dunque, ciò che tra le due guerre mondiali indusse una parte della “meglio gioventù” europea a partire per la Spagna, diventa oggi - nei nostri tempi meschini - “roba da centro sociale”. E se poi quei giovani i centri sociali li hanno frequentati davvero, magari condividendone trasgressioni e illegalità, ecco che il passato diventa un “precedente” penalmente rilevante e - nella fantasia inquisitoria di alcuni funzionari di polizia e di alcuni magistrati - si realizza un cortocircuito tra un sit-in in difesa di un lavoratore e le capacità militari acquisite in Siria. E tra un petardo fatto esplodere durante una festa e le bombe dei mortai. Questo è il punto. La misura di sorveglianza speciale viene chiesta dalla procura per comportamenti relativi a conflitti sociali in Italia e, allo stesso tempo, per la partecipazione a una guerra in difesa di un popolo perseguitato. Quest’ultima circostanza, lungi dal risultare un’attenuante, appare invece come un’aggravante compromettente. Certo, pesano indagini condotte con superficialità, incapaci di distinguere e di contestualizzare e pesa l’ambiguità strutturale delle misure di prevenzione, spesso affidate, come scrive l’avvocato Claudio Novaro, a “ordinanze, denunce, atti investigativi e acquisizioni istruttorie”, indizi delle forze di polizia e non a “elementi di fatto”, accertati quanto meno davanti a un giudice terzo. Ma sembra avere un ruolo molto rilevante nella formulazione delle richieste della procura il pregiudizio che, dalla militanza in Italia, si estende fino a quella scelta meritoria di combattere in Rojava. Così, nelle richieste della procura sembra non esservi alcuna differenza tra scegliere di fare il foreign fighter con le milizie dell’Isis e, invece, battersi a sostegno della resistenza curda. Questo mentre i democratici di tutto il mondo esprimono, con parole variamente vibranti, la solidarietà nei confronti dei curdi. E tutti i commentatori occidentali parlano della funzione insostituibile svolta da quei combattenti, “gli unici sul campo”, nel contrastare le milizie dello Stato Islamico. Questo ruolo militare è stato unanimemente apprezzato e oggi gli si rende onore, per così dire, “alla memoria”. Ne consegue che, alla guerriglia curda viene riconosciuto lo statuto di “guerra giusta”. Se mai c’è stata una guerra, infatti, che rispondesse a incontrovertibili ragioni etiche, è stata la resistenza opposta all’offensiva dello Stato Islamico tra il 2014 e il 2017. “Giusta” innanzitutto perché rivelatasi come l’estrema ratio, l’unico mezzo in grado di affrontare con efficacia un nemico non convenzionale e dotato di enormi risorse. Ma, se questo è vero, chi “quella guerra giusta” ha sostenuto condividendone i rischi e le fatiche, la sofferenza e l’orrore, dovrebbe essere considerato a sua volta come un giusto. Libia. A Zawiya si muore di botte e di fame di Pietro Giovanni Panico meltingpot.org, 29 ottobre 2019 E le scorte alimentari destinate ai profughi, sono rivendute nel mercato locale. Le ultime testimonianze dal centro di detenzione libico. La Libia è l’inferno. E Zawiya è il suo settimo cerchio infernale: il più feroce. Il più crudo. Lì, dove la violenza ha stuprato ed assassinato ogni residuo barlume di speranza. Dopo la donna uccisa in circostanze ancora tutta da chiarire una decina di giorni fa, questa settimana è morta anche una bambina per un trauma alla testa causato non si sa da chi. I profughi detenuti hanno messo in scena una toccante protesta accendendo centinaia di improvvisati lumini per denunciare le condizioni in cui costretta vivere anche donne e bambini. Il carcere di Zawiya è gestito da aguzzini senza scrupolo. Custodi dell’inferno, come il Minotauro nell’ultimo cerchio dantesco, con la sua “matta bestialità”. Tutto quello che succede, succede nell’indifferenza del mondo. I capi di Stati europei si erigono a principi machiavellici, chiudono gli occhi: ostentano il loro crudo “il fine giustifica i mezzi”, per drogare i sondaggi elettorali. Per doparli. Per lavarsi una coscienza imbrattata di sangue di innocenti. A Zawiya le persone muoiono senza sapere il perché. Ma sapendo il come: tortura, stupri, mazzate, botte. Tradite da chi doveva realizzare aspirazioni e sogni, ossia l’Europa. Ed invece finanzia incubi ed atrocità. In carcere la situazione è diventata drammaticamente dura: il cibo diventa forma di ricatto, l’acqua e le porzioni di pranzo sono diventate a pagamento. Soldi che si aggiungono a quelli per la traversata del Mediterraneo, al pizzo da versare ai carcerieri, ai debiti inventati ad hoc dai torturatori per ricattare le famiglie rimaste nei Paesi di origini. “Paga o vedi tu figlio morire”. Le scorte di pasta indirizzate ai reclusi finiscono all’esterno, presumibilmente rivendute nei mercati neri locali od a quelli stessi profughi ai quali erano dirette. Cile. Dopo lo stato di emergenza ancora 3.200 detenuti, quattro desaparecidos di Giulia Filpi agenziadire.com, 29 ottobre 2019 Gli ultimi dati dell’Istituto nazionale dei diritti umani indicano 18 casi di tortura con connotazioni sessuali, cinque morti per abusi delle forze armate, oltre mille feriti in ospedale. “Il direttore dell’Istituto nazionale dei diritti umani (Indh) del Cile invita tutte le persone che hanno avuto paura e subito violazioni dei diritti umani a denunciarle”. Questo l’appello diffuso via social dopo la fine dello stato d’emergenza proclamato il 19 ottobre dall’avvocato Sergio Micco, che guida l’Istituto. Gli ultimi dati dell’Indh relativi al periodo dello stato d’emergenza indicano 18 “casi di tortura con connotazioni sessuali”, cinque morti per abusi delle forze armate, oltre mille feriti in ospedale e quasi 3.200 arresti. In un’intervista alla televisione nazionale Tvn, Micco ha ricordato anche che quattro sarebbero ancora ‘desaparecidos’, mentre l’Istituto sarebbe riuscito a contattare una settantina di persone di cui era stata denunciata la scomparsa. Anche l’Onu ha avviato un’indagine sulle violazioni dei diritti umani durante le recenti proteste: la missione inizia oggi, mentre proseguono le manifestazioni. Fonti della stampa locale hanno poi riferito di un blocco della Strada 68, che connette Santiago a Valparaiso, da parte di un gruppo di autotrasportatori che contesta il sistema di telepedaggio elettronico e l’aumento del prezzo del carburante. La protesta avviene mentre al Palazzo della Moneda si attende di conoscere quali e quanti ministri verranno sostituiti nel rimpasto annunciato dal presidente Sebastian Pinera, che ha detto di voler “strutturare un nuovo gabinetto per poter far fronte alle nuove esigenze”. Giordania. Quelle donne in carcere per aver disubbidito al maschio di casa di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 29 ottobre 2019 In Giordania ci sono tantissime donne che finiscono dietro le sbarre senza aver commesso alcun reato. In un carteggio con Amnesty International, accluso a un rapporto diffuso il 23 ottobre, la segreteria del primo ministro ha fatto sapere che nei primi sei mesi del 2019 ne erano state rilasciate 1259. Ne restano altre 149, poste in detenzione amministrativa “per la loro protezione”, come hanno affermato funzionari del ministero dell’Interno, per evitare che i loro familiari le uccidano. Ma cosa hanno fatto queste donne? Il ripetuto uso delle virgolette, nei prossimi due paragrafi, potrà rendere difficile la lettura ma è necessario per descrivere una situazione paradossale e assurda. Hanno trasgredito al rigido sistema del “guardiano”, secondo il quale i “maschi di casa” controllano la vita delle donne limitando la loro libertà di movimento e di fare scelte sul loro futuro. Per legge, ad esempio, fino a quando non raggiungono i 30 anni a decidere del loro matrimonio dev’essere un parente maschio. Solo “colpevoli”, letteralmente, del “reato” di “assenza” (ossia di essersi allontanate di casa senza autorizzazione) e spesso di un “reato nel reato”, ossia di relazioni sessuali extra-matrimoniali durante il periodo di “assenza”, per cui sono previsti da uno a tre anni di carcere. Ammesso che la detenzione amministrativa le protegga davvero dalle ire dei padri, dei fratelli o degli zii, ad altre situazioni crudeli e umilianti non c’è rimedio: come la prassi di sottrarre loro i figli nati fuori dal matrimonio o l’obbligo di sottoporsi a test di verginità, secondo l’infondata idea che ciò possa determinare se una donna abbia avuto o meno rapporti sessuali completi. Dopo anni di lotta da parte delle attiviste per i diritti delle donne, nell’agosto 2018 il governo giordano ha aperto il centro-rifugio “Dar Amneh”. Dopo un anno, ospitava 75 donne. Si è trattato di uno sviluppo positivo. Ma per proteggere le donne occorre fare ancora molto altro. Lo conferma il fatto che delle 149 donne che si trovano ancora in detenzione preventiva per “assenza” o relazioni sessuali extra-matrimoniali, 85 sono state arrestate quest’anno. *Portavoce di Amnesty International Italia