“Sull’ergastolo ostativo, penso che bisogna lasciare aperte delle maglie perché le situazioni vanno valutate caso per caso” Ristretti Orizzonti, 28 ottobre 2019 Le parole di Fiammetta Borsellino, la figlia minore del giudice Paolo Borsellino, a Milano, al Secondo Festival della comunicazione sulle pene e sul carcere  Ornella Favero (Presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia): C’è una considerazione che faccio spesso in carcere, quando ci occupiamo di temi delicati come l’ergastolo ostativo e parliamo delle semplificazioni di certa informazione: credo che il nostro lavoro, di persone che si occupano di sensibilizzazione della società a partire dal carcere, per la maggior parte sia quello di ricomplicare le cose semplificate e banalizzate da altri. Dobbiamo sempre lavorare su questo: le cose non sono affatto semplici. Ricordo una copertina della nostra rivista, Ristretti Orizzonti, dove Charlie Brown chiede a Lucy: “Tu cosa fai nella vita?”, e lei risponde: “Me la complico”. È il senso di tutto questo nostro lavoro: noi dobbiamo lavorare per uscire dalle semplificazioni e ricostruire un pensiero complesso. È una fatica enorme. Il bisogno di ricostruire un pensiero complesso è una cosa che si capisce ancora di più rispetto a fenomeni come la mafia e a vicende come l’inchiesta e i processi relativi all’attentato a Paolo Borsellino. Fiammetta è la figlia minore di Paolo Borsellino ed è una fra le poche persone che ha avuto il coraggio di non entrare nel coro sui temi dell’antimafia e di avere un pensiero complesso che ha messo in discussione tutto, anche il ruolo di alcuni magistrati, anche degli esponenti delle forze dell’ordine. Un pensiero complesso e un bisogno di verità che è quello che ci spinge a dialogare con lei, per questa sua capacità di non appiattire le cose, di non semplificarle, e di chiamare per nome le responsabilità.  In questi giorni si è parlato tantissimo di ergastolo ostativo e ovviamente anche di Falcone e Borsellino. Abbiamo letto  titoli come: “Hanno riammazzato Falcone e Borsellino”. Ci piacerebbe sapere l’opinione di Fiammetta su questo tema. Fiammetta Borsellino: Io penso che, da giudici, mio padre e Giovanni Falcone non avrebbero liquidato così come viene fatto in questi giorni  la questione se sia giusto o sbagliato eliminare o mantenere il carcere ostativo. Loro ci hanno insegnato che questi problemi sono dei problemi complessi, che non possono essere semplificati in questo modo. Sicuramente io non sono una esperta in questo settore, ma penso che bisogna lasciare aperte delle maglie perché le situazioni vanno valutate caso per caso. Non bisogna confondere dei provvedimenti che sono stati pensati ventisette anni fa sull’onda di una gravissima emergenza, bisogna anche pensare a quello che è il contesto attuale. Sicuramente bisogna diffidare delle semplificazioni. Il problema è un problema molto complesso, che va letto in relazione all’attuale disastrosa condizione delle carceri italiane. Bisogna evitare le semplificazioni perché le semplificazioni come “la mafia ha perso” o “la mafia ha vinto” o anche “la mia antimafia è migliore della tua”, fanno male. Io sono convinta che il problema invece  andasse affrontato e sono convinta che la modalità con cui si sta affrontando sia esattamente quella giusta, quella che va incontro a quell’altissimo senso di umanità che poi è stato il valore che ha guidato tutta la vita di mio padre.   Sui giornali quando si è parlato tanto, e nella maggior parte dei casi a sproposito, della sentenza, prima della Corte Europea e poi della Corte Costituzionale, era stata riportata anche, forse semplificando troppo e male, una sua dichiarazione o delle sue dichiarazioni in cui lei diceva cose come “hanno ucciso di nuovo Falcone” o “hanno ucciso di nuovo mio padre”. Siccome io l’ho letto, e forse non sono stato l’unico ad averlo letto, mi fa piacere che non sia vero. Forse è il caso allora che i giornalisti presenti in sala, che la ascoltano oggi, dessero risalto a quelle bellissime parole che ho sentito da lei adesso. Fiammetta Borsellino: Non ho fatto nessuna di queste dichiarazioni. A uccidere mio padre per la seconda volta sono stati i depistaggi: è stato il tradimento di alcuni uomini delle Istituzioni che oggi tra l’altro, proprio per aver dato prova di altissima incapacità investigativa, hanno fatto delle carriere senza che tra l’altro, e questo lo voglio sottolineare, il Consiglio Superiore della Magistratura si sia mai assunto una responsabilità circa l’avvio di procedimenti disciplinari diretti ad accertare quello che è stato fatto e perché è stato fatto. L’ergastolo ostativo? di Antonello Laiso agoravox.it, 28 ottobre 2019 Da sempre scrivo e considero di “quella pena” ampiamente descritta nel nostro codice penale un mezzo di espiazione ad un delitto, volta a rieducare chi la subisce, volta a reinserire in quella società lì dove il reato, lieve o grave che sia, è stato commesso e che questa (pena) debba coinvolgere, oltre che il fisico, anche l’anima dello stesso detenuto per un espiazione ad un debito. La funzione rieducativa della pena resta imprescindibile come lo resta dunque la funzione riabilitativa. Dopo la sentenza della Corte Europea anche i Giudici italiani hanno bocciato l’art 4bis comma 1 ossia l’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione concessi solo se non vi sono elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva. Spetta al Giudice stabilire logicamente detti casi particolari. In siffatta situazione prevista dall’art 4bis comma 1 si poteva venir a creare una discriminazione di un diritto umano, anche se tale poteva essere giustificato da fatti di particolare gravità e ferocia puniti con ergastolo. Ma un diritto umano può prescindere dalla gravità di un fatto? Chi scrive lo fa in duplice veste, di cittadino ed in quella di funzione che da vari anni esercita come Giudice popolare di Corte D’Assise di Napoli, lì dove sono (solo) all’ordine quei processi per fatti particolarmente gravi. Ma quando un detenuto pur condannato ad un ergastolo che è la pena piu dura del nostro ordinamento penale e che pur prevista prima di comminarla vi sono logicamente quelle certezze documentate, tale detenuto, deve essere messo in grado di quella forma di riscatto anche e soprattutto morale, un riscatto ad un suo delitto che oltre ad essere quella pena dura a cui è tenuto obbligatoriamente ad eseguire, può essere talvolta e nel rientro educazionale di un percorso rieducativo collaborante, ovvero un permesso premio. In siffatta situazione e con tutti i requisiti previsti dalla Consulta anche il detenuto, benché condannato a grave pena come un ergastolo, si vede gratificato di quella collaborazione, di quel comportamento, di quel pentimento od altro che lo allontana anche mentalmente e psicologicamente da quella vita sbagliata a cui sta dando seguito con riscatto di quella condanna. Ora anche chi si è macchiato di quel delitto di mafia ovvero quel 416 bis previsto dal nostro ordinamento penale, tali persone possono avere in determinati casi quei permessi premio, non possiamo vedere tale decisione della Consulta come un ostativo a quel giustizialismo che è cosa diversa da quella certezza della pena, pena che in tutti i casi esiste e dovrà esistere con tutti quei contorni che rendono questa meno dura, con tutti quei contorni umanitari dovuti, ora ed ancor di più per Legge. Una pena qualunque essa sia mira lo scopo di più funzioni, quella di punire un delitto, quella preventiva di attenuare od eliminare le verosimili causa della criminalità e quella preventiva che mira ad alla dissuasione del condannato ad evitare quei nuovi delitti in società. Quelle funzioni rieducative e correttive di una pena non possono essere un optional ma devono necessariamente coesistere anche se pur concesse in casi particolari dal Giudice di sorveglianza per quei detenuti condannati all’ergastolo, non solo perché lo dice la Consulta ma, finanche per dare più spessore a tale pena, dove deve coesistere anche quello spessore umanitario. Caro Sallusti, la galera è uguale per tutti di Vittorio Feltri Libero, 28 ottobre 2019 Alessandro Sallusti, direttore del Giornale, risponde polemicamente al mio pezzo sull’ergastolo cosiddetto ostativo che prevede non solo la morte in carcere del detenuto, ma anche un trattamento disumano del medesimo. E questo modello carcerario è motivato dal fatto che se il prigioniero non si pente e non fa i nomi dei vecchi complici non merita pietà. La cosa ha un senso pratico. Infatti se la giustizia non è in grado di sconfiggere la mafia, per incapacità, ricatta i delinquenti così: o mi date una mano a distruggere i vostri compari o noi vi trattiamo a pesci in faccia, galera dura, isolamento, luce accesa persino di notte, manca solo qualche calcio nel culo a completamento delle torture ordinarie. Forse Sallusti un po’ giustizialista è rimasto, e trascura che la responsabilità penale è personale. Il che significa che se io, criminale comune o mafioso, commetto un reato, ne rispondo e quindi pago come altri cittadini non rispettosi dei codici. Non è scritto da nessuna parte della Costituzione che per essere un carcerato quale tutti gli altri io debba trasformarmi in delatore. Uccido un uomo o dieci? Eccomi qua, condannatemi come un qualsiasi delinquente, però non aggiungetemi un supplemento di pena perché ho risparmiato il coinvolgimento di un mio picciotto. Il diritto è ragionamento, non vendetta o convenienza. E va rispettato secondo le regole ispirate da Beccaria. La tortura non è ammessa in un consorzio civile. Chi compie un errore, più o meno grave, merita una sanzione congrua, e deve essere considerato alla stregua di chiunque abbia fallito. E sbagliato accanirsi su quelli della ‘Ndrangheta perché non parlano. Infierire sui muti trascurando le loro colpe, e nella speranza che vuotino il sacco, è illegale e direi bestiale. Lo Stato che infligge ai malviventi pene accessorie finalizzate a farli cantare dimostra la propria debolezza e riconosce che le cosche sono imbattibili poiché più organizzate. Ed è destinato a perdere sempre. L’odio è un cattivo consigliere. P.S. Segnalo infine a Sallusti che incentivare le delazioni provoca fatalmente un fenomeno da non sottovalutare: i carcerati mafiosi pur di sfuggire ai rigori dell’ergastolo si predispongono a denunciare complici che tali non sono cosicché persone innocenti finiscono dietro le sbarre, alcune delle quali scontano anni di detenzione prima che si scopra la loro non colpevolezza. Questo non è un dettaglio che il direttore del Giornale possa trascurare allegramente. Il garantismo non è un vezzo, ma un obbligo morale. Colombo: “Il proibizionismo è inutile contro le droghe leggere. Ormai è tempo di legalizzarle” di Liana Milella La Repubblica, 28 ottobre 2019 “Alcol e tabacco non sono meno pericolosi. Non voglio liberalizzare ma regolamentare. Interveniamo sulla mancanza di lavoro e sui motivi sociali che spingono i giovani a usare stupefacenti”. “Non servono pene e sanzioni, ma un potente investimento nell’educazione. Non solo in quella rivolta specificamente al tema della droga. E occorrerebbe anche affrontare seriamente le cause del disagio giovanile”. L’ex pm di Mani pulite Gherardo Colombo, impegnato da anni a spiegare ai ragazzi cos’è e perché bisogna rispettare la Costituzione, espone il suo punto di vista sugli stupefacenti dopo l’omicidio di Roma. Perché è favorevole alla legalizzazione delle droghe leggere? “Io le chiedo: perché è libero il commercio di alcol e tabacco e non è invece libero il commercio della marijuana? Ci vorrebbe coerenza, anche alcol e nicotina creano dipendenza, fanno danni enormi, e tuttavia ciascuno di noi può andare a comprare sigarette, vino e superalcolici, questi anche al supermercato. Non capisco il perché della differenza”. Forse per la semplice ragione che fumo e alcol sono considerati di uso normale, al contrario della droga, anche quella leggera… “Ma comunque il loro abuso fa male. La criminalizzazione del commercio delle droghe leggere non incide sulla loro diffusione. E crea notevoli pericoli ai ragazzi che per fare uso di queste sostanze utilizzano il commercio clandestino, trasformandosi a volte anche loro in piccoli spacciatori. Mi verrebbe da dire che la criminalizzazione è essa stessa criminogena. Perché in qualche misura induce a comportamenti che altrimenti non sarebbero tenuti, specie in un periodo in cui è difficile trovare lavoro”. Non ha proprio dubbi sul via libera legale alle droghe leggere? “Sono convinto che la regolamentazione (cosa diversa dalla liberalizzazione) toglierebbe mercati importanti alla criminalità organizzata e gioverebbe alle casse dello Stato. Secondo me il problema della diffusione di sostanze nocive andrebbe affrontato non con la minaccia di pene o di sanzioni amministrative, come si verifica peri consumatori di marijuana, ma attraverso un potente investimento educativo, e prima ancora intervenendo sui motivi sociali che spingono i ragazzi ad usare sostanze. Occorrerebbe anche trovare la strada per impedire che l’uso di sostanze stupefacenti sia incentivato attraverso subdole forme di promozione molto ben mascherata”. Comincerebbe con una campagna per educare i ragazzi? “Comincerei dalla mancanza di lavoro, dalla mancanza di senso della comunità negli adulti, dall’evasione fiscale e via dicendo. Comunque non penso a una campagna, e non penso solo agli stupefacenti. La scuola, ma più in generale gli adulti dovrebbero sollecitare al rispetto delle regole attraverso i comportamenti e il dialogo. È necessario che i ragazzi arrivino a condividere che usare stupefacenti è dannoso e quindi è opportuno astenersi per il proprio bene”. Come risponde a chi sostiene che così la droga sarebbe ancora più diffusa soprattutto tra i giovani? “Già adesso la droga è diffusa. E continua a diffondersi sempre di più. Le politiche proibizioniste, che vanno avanti da almeno 50 anni, non sono capaci di opporsi efficacemente al fenomeno. Il sistema non dà i frutti che vengono vantati, è fallito e continua a fallire. E crea un indotto di altre trasgressività molto elevato”. Marco Pannella si è battuto pei una vita. L’ex procuratore Antimafia Franco Roberti è favorevole, come ha detto a “Repubblica”. Ma la questione politicamente non decolla. Quasi che tutti abbiano paura. Perbenismo, ignoranza o paura di perdere voti? “C’è un po’ di tutto. Fede incrollabile nella pena, considerata unico mezzo per determinare le persone a seguire la legge in qualsiasi campo e circostanza. E c’è chi si turba al solo sentire la parola droga, magari ricollegandosi, ed è vero per alcune droghe pesanti, agli effetti criminogeni che il loro uso provoca. Ma c’è anche chi pensa che liberalizzare le droghe leggere possa far perdere voti, soprattutto in un periodo strano come questo, di moralismo molto spesso fasullo. Oppure si ricorre ad argomenti utilitaristici, come l’affermare (secondo me senza fondamento) che la depenalizzazione comporterebbe l’aumento del consumo”. Lei chi criticherebbe di più? “Non si tratta di criticare, si tratta di provare a lavorare soprattutto su disagio ed educazione. Che passa moltissimo anche attraverso i comportamenti individuali. Mi spiego. Se sto in una casa in cui si fuma e si beve alcol smodatamente, è ovvio che è più difficile diventare consapevoli dei danni dello stupefacente”. Quali sarebbero i vantaggi concreti? L’omicidio di Roma non si verificherebbe? “La criminalità che contorna il commercio clandestino subirebbe notevoli ridimensionamenti”. La legalizzazione sottrarrebbe mercato alle mafie? “Se si trattasse di una regolamentazione ben fatta, sono convinto di sì”. Il procuratore di Catanzaro Gratteri, all’opposto di Roberti, dice che il traffico illegale continuerebbe indisturbato… “Io gli chiederei perché ne è così sicuro. Magari ci sono degli argomenti che non conosco. Però gli suggerirei di verificare cosa succede in Olanda, Paese occidentale dalla cultura simile alla nostra, in cui il commercio di marijuana è regolamentato”. Da un governo M5S-Pd si aspetterebbe un passo coraggioso verso la legalizzazione? “Non me lo aspetterei, anche se spero di sbagliarmi. Perché sarebbe davvero utile, purché insieme si provveda ad altro (compresi controlli sulla qualità e sulla provenienza della sostanza, come si fa per gli alimenti). Ma serve un apparato educativo forte e, come pure dicevo, serve eliminare o limitare le cause che spingono i ragazzi a fare uso di droghe. Magari utilizzando come risorse proprio i proventi della regolamentazione del commercio di marijuana”. In Italia si può diventare magistrati senza sapere cos’è la mafia di Nando Dalla Chiesa Il Fatto Quotidiano, 28 ottobre 2019 A giurisprudenza, il tema “criminalità organizzata” non è di casa: “Si può indossare la toga senza sapere nulla di cosche”. Quella di oggi è una piccolissima storia, che serve a spiegarne una molto più grande, portandoci diritti dall’università ai palazzi di giustizia. Tutto nasce da una studentessa di giurisprudenza, a Milano. Roberta (nome di fantasia) mi scrive chiedendo un appuntamento. Una lettera gentile, dalla quale traspare la richiesta di un consiglio per i propri studi, nulla di più. Le suggerisco di venire al ricevimento studenti. Quando viene, è lei a ricordarmi la lettera. E appare visibilmente imbarazzata, come se dovesse comunicarmi una notizia sgradevole. “Io l’ho conosciuta a Sesto San Giovanni”, mi spiega. “L’ho sentita parlare lì la prima volta nella mia scuola, un istituto dei salesiani. Si ricorda?”. Sì, ricordo. “Ecco”, continua, “rimasi molto colpita dal suo discorso sul bisogno di legalità, sulla presenza delle mafie nel nostro Paese. Tanto che decisi allora che avrei voluto fare il magistrato”. Resto lusingato da quella conseguenza mentre lei prosegue: “Ed è per questo che mi sono iscritta a giurisprudenza, per entrare nella magistratura e combattere la mafia”. Non faccio in tempo a completare il mio stato di gratificazione che il suo viso si trasfigura di colpo. “E invece lo sa che sono arrivata al quarto anno e ancora a lezione nessun professore ha mai nominato la parola mafia?”. A questo punto, improvvisamente, Roberta scoppia a piangere. Forse per l’emozione, certo per la rabbia e la delusione chissà quanto a lungo trattenute. Chiede quali corsi può frequentare da noi a scienze politiche, le do qualche consiglio, e un poco si riprende. Il fatto è che mi si è conficcato nella testa quel pianto: convenuta qui per combattere la mafia, e ancora in tre anni nessun professore ha mai nominato la parola. Ecco, partiamo di qua, allora, per capire che cosa succede nei nostri tribunali, dove stanno gli altri e più importanti protagonisti di questa storia collettiva. Per capire perché ci siano voluti decenni per ottenere il riconoscimento della mafia in Piemonte e soprattutto in Liguria. Perché celebri clan siano stati definiti mafiosi in Lombardia, di cui avevano conquistato i cantieri con le bombe, solo dopo una sfilza di sentenze benevole o tolleranti. E perché, per parlare di attualità, sia una fatica inenarrabile fare riconoscere la presenza mafiosa in una capitale, Roma, che proprio non ama sentirne parlare. Complicità? Paura? Quieto vivere? Opportunismo? Forse, alternativamente o insieme, anche questo. Ma prima, un fatto incontrovertibile: si può diventare magistrati senza sapere nulla di mafia. L’ignoranza, ecco il motivo principale. Si può concludere una facoltà di giurisprudenza senza avere mai udito la parola mafia (in realtà a Milano alla fine non avviene). Si può diventare magistrati senza che la propria conoscenza dell’argomento sia mai stata verificata da chicchessia, dipende dai temi scelti per le prove scritte e dalle domande delle commissioni all’orale. E si può restare magistrati, a maggior ragione, senza saperne un piffero, perché i corsi di aggiornamento sono volontari. Morale: si può arrivare a giudicare in processi di mafia, che sono per definizione tra i più complessi e insidiosi immaginabili, senza avere la più pallida idea della materia su cui si deve giudicare. Senza essersi studiati la lettera, la ratio, la genesi, gli scopi, del 416 bis, su cui non per caso il giudice Giuliano Turone ha scritto un monumentale manuale di 700 pagine. Per inventarsi di fatto il codice penale e sostituirlo con “la mafia secondo me”. Dove, ovviamente, il “secondo me” è il medesimo inzeppato di stereotipi che governa il senso comune degli italiani. Non più la definizione giuridica, che fissa specifici requisiti di esistenza del fenomeno, ma una personale e abborracciata definizione sociologica. Siamo al rovesciamento di una storica pretesa. Di quando - nel 1966 - il procuratore della Cassazione Tito Parlatore chiedeva l’assoluzione degli assassini del sindacalista Salvatore Carnevale, perché la mafia era “materia per sociologi” e non “per tribunali”. Ora, infatti, sono i magistrati a volere fare i sociologi. E da (confusi) sociologi a decidere nei tribunali. Rieccoci così al grido di dolore di Roberta: può un Paese, che da160 anni affronta una criminalità potente e sanguinaria, non studiarla nemmeno là dove si forma chi deve amministrare la giustizia? E può, quel Paese, giudicare una tale criminalità non “in nome della legge” ma in nome di disordinate e personalissime opinioni? Anche il magistrato Gratteri boccia senza se e senza ma la riforma della prescrizione di Gian Domenico Caiazza* Gazzetta del Mezzogiorno, 28 ottobre 2019 Non credo che il Procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri possa essere sospettato di simpatie per le idee dei penalisti italiani sul processo penale, opposte alla sue a tutto campo, dai criteri di esercizio dell’azione penale all’uso della custodia cautelare, dalle modalità di acquisizione della prova dibattimentale all’ergastolo ostativo. Dunque voglio augurarmi che qualcuno, a cominciare dal Ministro della Giustizia Bonafede fino a tutta la falange politica dei parlamentari 5 stelle, ed ai non pochi parlamentari Pd ancora incerti, vogliano riflettere su quanto dichiarato dal dott. Gratteri venerdì scorso nel corso di un convegno organizzato dalla Camera Penale di Catanzaro in occasione della astensione dalle udienze proclamata dall’Unione Camere Penali. “Ho più volte detto che il problema non è la prescrizione. La prescrizione è un problema a valle, vuol dire non risolvere i problemi della giustizia. Un legislatore o uno statista deve porsi un’altra domanda: per quale motivo i processi, i fascicoli rimangono fermi 5-6 anni negli armadi dei pubblici ministeri e 4-5 anni negli armadi dei giudici. Questa è la mamma di tutte le domande. Nel momento in cui si risolve questo problema a monte poi non parleremmo più di prescrizione”. Sia chiaro: delle idee che ha in mente il Procuratore dott. Gratteri per ridurre i tempi dei processi, non ce ne piace forse neanche una. Ma se perfino uno dei magistrati più lontani dal punto di vista degli avvocati si esprime in questo modo, vorrà il Ministro Bonafede comprendere che si è avviato su una strada non solo vuotamente propagandistica, ma soprattutto controproducente e pericolosa? E farebbero bene, i sostenitori di quella sciagurata riforma, ad ascoltare i tanti magistrati che, in tutta Italia, intervenendo nelle decine di manifestazioni organizzate dalla Camere Penali territoriali, stanno esprimendo consenso e sostegno alla protesta dei penalisti. Farebbero bene ad ascoltare, a riflettere, e magari finalmente a studiare il problema, invece di mandare in tv automi che ripetono la solita storiella bolsa e mistificatoria della prescrizione gradita agli avvocati dei clienti ricchi, che grazie alle misteriose alchimie dei propri strapagati difensori, la fanno franca. È del tutto evidente - dobbiamo ripeterlo fino alla nausea - che il 75% delle prescrizioni che maturano (sono dati ufficiali del Ministero di Giustizia) entro la pronunzia della sentenza di primo grado (e dunque fuori dal raggio di intervento della riforma Bonafede!), di cui i 4/5 (60%) nella fase delle indagini preliminari, falciano i procedimenti in modo - come dire - interclassista, senza per di più che gli avvocati abbiano toccato palla. Ora il ministro Bonafede sta cambiando registro: con l’entrata in vigore della riforma - si affanna a precisare - “non accadrà nessuna catastrofe”, e questo perché il nuovo regime della prescrizione si applica solo ai reati commessi dopo il primo gennaio 2020, spiegando perciò i suoi effetti non prima di cinque o sei anni. È un modo bizzarro di ragionare, sia perché in linea generale non basta a fare una buona legge la previsione che essa non determini “una catastrofe”, sia perché allora non se ne comprende l’urgenza. Visto che essa non produce effetti se non differiti di alcuni anni, perché precipitarsi ad approvarla, invece di lavorare con serietà, come pure abbiamo fatto al tavolo ministeriale, alla riduzione dei tempi del processo, che risolverebbe il problema alla radice? La verità, signor Ministro, è che il diritto è un complesso di regole e di principi che non ammette strappi, e non consente manomissioni propagandistiche ed insensate dei suoi delicatissimi equilibri. Inserire nel nostro sistema giuridico il principio - mortale - in forza del quale un cittadino debba accettare di rimanere in balia della giustizia penale fino a quando lo Stato non sia nelle condizioni o comunque non si determini a definire il processo che lo riguarda, significa imbarbarire in modo inconcepibile le regole della nostra convivenza civile. Noi penalisti non potremo consentirlo - e con noi l’intera comunità dei giuristi italiani - sicché sappia che daremo fondo ad ogni nostra risorsa per fare sì che questo oltraggio alla Costituzione non abbia ingresso nelle regole del nostro diritto penale. *Presidente Unione camere penali italiane Ordinamento penitenziario, le misure alternative alla detenzione. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 28 ottobre 2019 Ordinamento penitenziario - Misure alternative alla detenzione - Detenzione domiciliare speciale - Requisiti di legge. In tema di misure alternative alla detenzione, deve essere respinta la richiesta di detenzione domiciliare speciale avanzata dal padre detenuto per accudire il figlio minore, avanzata sul presupposto dell’assenza della madre e della inidoneità dei nonni paterni di garantire, a causa dell’età e delle condizioni di salute, la necessaria assistenza ed educazione al minore, mancando i requisiti previsti dalla legge. L’art. 47-quinquies ord. pen. impone infatti di accertare la sussistenza dei requisiti dell’impossibilità di accudimento del minore da parte della madre e dell’impossibilità di affidamento ad altri. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 4 ottobre 2019 n. 40842. Istituti di prevenzione e di pena (ordinamento penitenziario) - Misure alternative alla detenzione - Affidamento in prova al servizio sociale - Mancanza di una stabile residenza - Rigetto della richiesta - Legittimità - Ragioni. In tema di misure alternative alla detenzione, è legittimo il provvedimento di rigetto della richiesta di un condannato di essere ammesso all’affidamento in prova al servizio sociale fondato sulla mancanza di una sua stabile residenza, atteso che detta mancanza impedisce al servizio sociale un costante contatto diretto con il condannato, necessario all’espletamento delle indispensabili funzioni di supporto e controllo che l’art. 47, comma 9, della legge 26 luglio 1975, n. 354, demanda al servizio medesimo. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 19 giugno 2019 n. 27347. Istituti di prevenzione e di pena (ordinamento penitenziario) - Concessione di misure alternative alla detenzione - Poteri del tribunale di sorveglianza - Parametri di riferimento utilizzabili - Criterio di gradualità nella concessione delle misure - Fattispecie. In tema di concessione di misure alternative alla detenzione il tribunale di sorveglianza, anche quando siano emersi elementi positivi nel comportamento del detenuto, può legittimamente ritenere necessario un ulteriore periodo di osservazione e lo svolgimento di altri esperimenti premiali, al fine di verificare l’attitudine del soggetto ad adeguarsi alle prescrizioni da imporre, specie se il reato commesso sia sintomatico di una non irrilevante capacità a delinquere e sussista una verosimile contiguità con ambienti delinquenziali di elevato livello. (Fattispecie relativa a detenuto condannato per il reato di cui all’art. 416-bis cod. pen. sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza e collegato, secondo le informazioni di polizia, a una pericolosa associazione per delinquere di stampo mafioso). • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 22 maggio 2019 n. 22443. Istituti di prevenzione e di pena (ordinamento penitenziario) - Istituti di prevenzione e di pena (ordinamento penitenziario) - Affidamento in prova al servizio sociale - Applicabilità dell’istituto a soggetto irreperibile - Esclusione - Ratio. L’affidamento in prova al servizio sociale presuppone la continua reperibilità dell’interessato, sia prima dell’applicazione della misura alternativa alla detenzione che nel corso dell’esecuzione della stessa, atteso che soltanto così può valutarsi il comportamento e, segnatamente, l’osservanza delle prescrizioni. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 22 maggio 2019 n. 22442. Esecuzione - Magistratura di sorveglianza - Procedimento - In genere - Istanza di misure alternative alla detenzione - Rinuncia - Soggetti legittimati - Individuazione. Nel procedimento di sorveglianza, la rinuncia all’istanza volta a ottenere la concessione di misure alternative alla detenzione (nella specie, affidamento in prova al servizio sociale) costituisce atto negoziale abdicativo e recettizio e deve essere formulata dal condannato personalmente, ovvero dal difensore munito di procura speciale o in presenza dell’interessato consenziente. • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 7 maggio 2019 n. 19326. Istituti di prevenzione e di pena (ordinamento penitenziario) - Detenzione domiciliare speciale di cui all’art. 47-quinquies ord. pen. - Presupposti - individuazione - Fattispecie. Ai fini dell’applicazione della detenzione domiciliare speciale di cui all’art. 47-quinquies, L. 26 luglio 1975, n. 354, il giudice, dopo aver accertato la sussistenza dei presupposti formali ed escluso il concreto pericolo di commissione di ulteriori reati, deve verificare la possibilità per il condannato sia di reinserimento sociale sia di effettivo esercizio delle cure parentali nei confronti di prole di età non superiore ai dieci anni, costituendo il primo un requisito necessario per l’ammissione al regime alternativo e la seconda la circostanza che giustifica il maggior ambito applicativo della misura alternativa. (Nella specie, la Corte ha annullato l’ordinanza del tribunale di sorveglianza che, pur dando atto della carenza di revisione critica da parte della condannata del delitto di omicidio aggravato ascrittole, si era limitato a valorizzare la condizione delle figlie minorenni della predetta, omettendo la valutazione del rischio di commissione di nuovi delitti). • Corte di cassazione, sezione I penale, sentenza 16 ottobre 2018 n. 47092. Misure cautelari, ricorso per cassazione solo in caso di violazione di legge di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 28 ottobre 2019 Cassazione -Sezione III penale -Sentenza 21 agosto 2019 n. 36302. In materia di misure cautelari reali, il ricorso per cassazione ex articolo 325 del codice di procedura penale può essere proposto soltanto per “violazione di legge”, nella cui nozione rientrano la “mancanza assoluta” di motivazione o la presenza di una “motivazione meramente apparente”, in quanto correlate alla inosservanza di precise norme processuali, ma non rientra l’illogicità manifesta della motivazione, la quale può denunciarsi nel giudizio di legittimità soltanto tramite lo specifico e autonomo motivo di ricorso di cui alla lettera e) dell’articolo 606 del codice di procedura penale. Al riguardo, la Cassazione, con la sentenza 36302/2019, ha ritenuto di precisare che “motivazione assente” è quella che manca fisicamente o che è graficamente indecifrabile; mentre “motivazione apparente” è solo quella che non risponde ai requisiti minimi di esistenza, completezza e logicità del discorso argomentativo su cui è fondata la decisione, mancando di specifici momenti esplicativi anche in relazione alle critiche pertinenti dedotte dalle parti, come, per esempio, nel caso di utilizzo di timbri o moduli a stampa, o di ricorso a clausole di stile e, più in generale, quando la motivazione dissimuli la totale mancanza di un vero e proprio esame critico degli elementi di fatto e di diritto su cui si fonda la decisione, o sia priva dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi risulti inidonea a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice. Inoltre, secondo il giudice di legittimità, anche l’“omesso esame di punti decisivi” per l’accertamento del fatto, sui quali è stata fondata l’emissione del provvedimento di sequestro, si traduce in una violazione di legge per “mancanza di motivazione”, censurabile con ricorso per cassazione. In tal caso, però, è onere del ricorrente: a) allegare al ricorso l’elemento indiziario dirimente di cui eccepisce l’omesso esame; b) dare prova della sua effettiva esistenza tra gli atti trasmessi al tribunale del riesame o comunque della sua acquisizione nel corso dell’udienza camerale; c) spiegarne la natura decisiva alla luce sia della limitata cognizione del giudice del riesame (cui non può essere demandato un giudizio anticipato sulla responsabilità di chi chiede il riesame del provvedimento cautelare reale) sia del fatto che ai fini del sequestro sono sufficienti gli indizi di reato, non i gravi indizi di colpevolezza, con la conseguenza che il provvedimento, soprattutto quando adottato per le finalità cautelari di cui all’articolo 321, comma 1, del codice di procedura penale, può riguardare anche beni di proprietà di terzi estranei al reato ipotizzato. “Quasi flagranza”, polizia deve percepire in modo diretto gli elementi del reato di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 28 ottobre 2019 Cassazione -Sezione II penale - Sentenza 6 settembre 2019 n. 37303. La Cassazione, con la sentenza 37303/2029, detta alcune regole in tema di arresto in flagranza. Per quanto riguarda l’ipotesi di “quasi flagranza” ciò presuppone che la polizia giudiziaria percepisca “in modo diretto” gli elementi che inducano a ritenere con elevata probabilità la responsabilità dell’arrestato e, quindi, occorre vi sia la percezione diretta della “sorpresa” dell’indiziato “con cose o tracce dalle quali appaia che egli abbia commesso il reato immediatamente prima”. Ciò che deve escludersi in caso di arresto operato dalla polizia giudiziaria sulla base delle sole informazioni fornite dalla vittima o da terzi pur nell’immediatezza del fatto (cfr. sezioni Unite, 24 novembre 2015, Ventrice). Al contrario, deve ritenersi la “quasi flagranza” nel caso in cui, proprio sulla base di tali indicazioni, la polizia giudiziaria abbia avuto la possibilità di apprezzare direttamente gli elementi (“cose o tracce”) che inducano a ritenere con elevata probabilità la responsabilità dell’arrestato. Nella specie, quindi, la Corte ha ritenuto correttamente valorizzato lo stato di flagranza, essendo emerso che sulla base delle dichiarazioni della vittima della rapina, descrittive tra l’altro del vestiario dell’autore del fatto, la polizia giudiziaria prontamente intervenuta aveva identificato l’arrestato, rinvenendo, nei pressi del luogo dell’identificazione, la borsa oggetto della rapina e ottenendo, poi, ulteriore riscontro nel diretto riconoscimento dell’autore della rapina da parte della persona offesa. Il precedente delle sezioni Unite - La Corte interviene con chiarezza sulla questione della ravvisabilità o no della quasi flagranza nell’ipotesi di frequente verificazione in cui la Pg è stata attivata dalla segnalazione del privato, vittima del reato o testimone. Rilevano, in proposito, le puntuali indicazioni delle sezioni Unite, rese con la sentenza 24 novembre 2015-21 settembre 2016 n. 39131, Ventrice: “In tema di arresto da parte della polizia giudiziaria, lo stato di “quasi flagranza” non sussiste nell’ipotesi in cui l’inseguimento dell’indagato da parte della polizia giudiziaria sia stato iniziato per effetto e solo dopo l’acquisizione di informazioni da parte della vittima o di terzi, dovendosi in tal caso escludere che gli organi di polizia giudiziaria abbiano avuto diretta percezione del reato. La nozione di “inseguimento”, caratterizzata dal requisito cronologico dell’“immediatezza” (“subito dopo il reato”), postula, quindi, la necessità della diretta percezione e constatazione della condotta delittuosa da parte degli operanti della polizia giudiziaria procedenti all’arresto: l’attribuzione dell’eccezionale potere di privare della libertà una persona si spiega proprio in ragione di tale situazione idonea a suffragare la sicura previsione dell’accertamento giudiziario della colpevolezza”. Ebbene, alla luce delle puntualizzazioni fornite dalle sezioni Unite, risulta ormai definitivamente stabilito che la “quasi flagranza” legittimante l’arresto da parte della polizia giudiziaria è configurabile tutte le volte in cui sia possibile stabilire un particolare “nesso” tra il soggetto e il reato che, pur superando l’immediata individuazione dell’arrestato sul luogo del reato, permetta comunque la riconduzione della persona all’illecito sulla base della continuità del controllo, anche indiretto, eseguito da coloro i quali si pongano al suo inseguimento. Tale condizione si può configurare nei casi in cui l’arresto avvenga in esito a inseguimento, ancorché protratto ma effettuato senza perdere il contatto percettivo anche indiretto con il fuggitivo, o nel caso di rinvenimento sulla persona dell’arrestato di cose o tracce dalle quali appaia che egli abbia commesso il reato immediatamente prima; ma “non” si può configurare nelle ipotesi nelle quali l’arresto avvenga in seguito a un’attività di investigazione, sia pure di breve durata, attraverso la quale la polizia giudiziaria raccolga elementi (dalla vittima, da terzi o anche autonomamente) valutati i quali ritenga di individuare il soggetto da arrestare, il quale beninteso non sia trovato con cose che lo colleghino univocamente al reato e non presenti sulla persona segni inequivoci riconducibili alla commissione del reato da parte del medesimo. La sentenza 37303/2019 - È su questo profilo che interviene la puntualizzazione chiarificatrice della sentenza massimata: è da ritenersi la quasi flagranza quando la polizia giudiziaria, subito attivata dalla vittima o da terzi, sorprenda l’autore, “subito dopo la commissione del reato”, ma con cose e tracce che lo riconducano alla commissione del fatto, con riscontro diretto proprio a opera degli operanti. Pc dell’indagato senza segreti. Ammissibile la perquisizione in caso di reato di truffa di Andrea Magagnoli Italia Oggi, 28 ottobre 2019 Ammissibile la perquisizione sui computer dell’indagato nel caso di reato di truffa. La corte di cassazione con la sentenza n. 39148/2019 depositata il giorno 24/9/2019, pone il principio per il quale deve essere considerato lecita la perquisizione del materiale informatico di proprietà dell’indagato nel caso in cui si renda necessario per accertare la responsabilità penale. All’indagato infatti era stato contestato di avere commesso un reato di truffa attraverso l’ausilio del sistema internet in suo possesso ed utilizzabile attraverso un computer di cui comunque disponeva. Pertanto al fine di accertare la responsabilità dell’indagato il Gip competente per il procedimento emetteva un decreto di perquisizione, avente ad oggetto tutte le dotazioni informatiche dell’imputato. Tale provvedimento veniva confermato da parte del tribunale di libertà tanto da far sì che l’indagato ricorresse per cassazione. Eccepiva attraverso il suo legale come difettassero i presupposti per l’emissione del decreto, rappresentava infatti che un esame del materiale informatico, nel caso di specie era del tutto superfluo ed ininfluente. Il procedimento, dopo avere compiuto il proprio corso veniva deciso da parte dei giudici della corte suprema di cassazione, con la sentenza in commento. I giudici della corte suprema ritenevano il decreto di sequestro del tutto legittimo, in quanto emesso in presenza dei presupposti necessari alla sua emissione. Tale strumento che consentiva agli agenti di polizia giudiziaria di esaminare tutto il materiale informatico in uso all’indagato potere veniva ritenuto indispensabile al fine di accertare e definire i limiti della responsabilità penale dell’indagato. Nel caso di specie erano proprio le modalità di realizzazione del reato compiuto, che rendevano necessaria l’emissione del provvedimento del Gip. L’indagato infatti aveva utilizzato una casella postale elettronica, pertanto come ovvio non si poteva in ogni caso prescindere da un esame del materiale informatico, che sarebbe del tutto illegittimo se non fosse stato autorizzato da parte del magistrato competente per la direzione delle indagini preliminari. Ricorso infondato. Genova. Carcere di Marassi, caso di scabbia: sei detenuti in isolamento, è paura contagio primocanale.it, 28 ottobre 2019 Una cella della seconda sezione del carcere di Marassi, occupata da sei sudamericani che stanno scontando pene definitive, è stata isolata per scabbia. Gli agenti temono il contagio. La denuncia è di Fabio Pagani della Uil penitenziari. “Si teme il contagio e che la malattia possa diffondersi in tutto l’istituto”, spiega Pagani che sottolinea: “Se il 34% dei detenuti è potenzialmente portatore di malattie infettive e il 65% soffre di patologie psichiche più o meno gravi emerge una questione sanitaria. Ma l’Amministrazione è silente, inoperosa e persino distante e nemica. Occorrono maggiori controlli ed adeguate misure sanitarie a tutela del personale di Polizia Penitenziaria di servizio nella sezione in cui sono ristretti i soggetti affetti da scabbia, nonché coloro che risultano più esposti al rischio per le loro mansioni come il magazzino e la lavanderia”. Alessandria. Carcere senza stress, la meditazione entra nelle carceri italiane v-news.it, 28 ottobre 2019 Nella Casa di Reclusione San Michele, ad Alessandria, è stato presentato il progetto “Carcere senza stress”, che prevede l’utilizzo del programma di Meditazione Trascendentale per ridurre lo stress, promuovere il benessere psicofisico e una migliore qualità di vita per detenuti, agenti e operatori penitenziari. Il progetto, della durata di un anno, è iniziato a fine aprile 2019, coinvolge 15 detenuti e 16 tra agenti e operatori della Casa di Reclusione San Michele e della Casa Circondariale Alessandria Cantiello e Gaeta, che hanno imparato la tecnica di Meditazione Trascendentale nell’ambito di un progetto pilota finanziato dal Bando “Libero Relad 2018” della Compagnia di San Paolo. L’obiettivo è promuovere una concezione culturale e sociale della sistema penale che metta al centro l’individuo, nella titolarità dei suoi diritti e delle sue responsabilità, favorendo il miglioramento della qualità della vita e delle condizioni detentive. Il progetto “Carcere senza stress” è un ramo del progetto “Friends”, sostenuto dal programma Erasmus+ della Commissione Europea, nato per promuove l’inclusione sociale e l’educazione all’interculturalità in tutti i contesti di istruzione e formazione, attraverso l’implementazione della tecnica di Meditazione Trascendentale. Elena Lombardi Vallauri, direttore Istituti Penitenziari di Alessandria ha dato il benvenuto ai partecipanti. Roberto Baitelli della Fondazione Maharishi ha spiegato che lo stress oggi è un fenomeno di proporzioni epidemiche con gravi ripercussioni sociali e nelle carceri ha raggiunto un livello insostenibile che incide pesantemente sulla salute dei detenuti e del personale, conduce alla crescita delle infrazioni ai regolamenti e di altri comportamenti negativi. Oltre che ostacolare il processo di riabilitazione dei detenuti stessi. L’antidoto naturale allo stress è il riposo. La tecnica di Meditazione Trascendentale, i cui numerosi benefici sono documentati da 700 studi scientifici, procura un riposo così profondo da sciogliere lo stress già accumulato e aumentare la resistenza allo stress. Negli ultimi 50 anni la Meditazione Trascendentale è stata utilizzata con successo nelle carceri di molte nazioni. Negli Stati Uniti ad esempio è stato utilizzata nelle carceri di massima sicurezza, come San Quintino, Folsom e Walpole con ottimi risultati, che includono la riduzione di ansia, depressione, fatica e rabbia. E aiuta a combattere il modo di pensare criminale, lo stress psicologico, i sintomi traumatici, e porta ad una riduzione delle infrazioni alle regole carcerarie, una riduzione del 30% della recidività. Paolo Menoni, della Fondazione Maharishi, insegnante della tecnica di Meditazione Trascendentale nel progetto “Carcere senza stress”, ha descritto il progetto in corso negli istituti penitenziari di Alessandria e ha riportato le esperienze di alcuni detenuti. Larino (Cb). Un murales per dare sfogo alla creatività in carcere di Graziella Vizzarri termolionline.it, 28 ottobre 2019 Presso la Casa Circondariale protagonista l’arte, canto e disegno, nell’ambito di un progetto ben articolato e strutturato che ha messo al centro la persona. La street art, guidata dall’Architetto Marianna Giordano e dagli artisti del collettivo Guerrilla Spam, è presente nella Struttura Penitenziaria da tre annualità, quasi un laboratorio permanente, con l’intento di raggiungere l’obiettivo primario di combattere l’isolamento e la devianza sociale, rimettendo al centro l’identità della persona in un percorso di rieducazione funzionale alla stessa. Percorsi formativi che utilizzano la comunicazione efficace dell’arte come i Murales e la musica che diventano veicolo di aggregazione e collaborazione nel favoreggiare i percorsi individuali e collettivi più del dialogo, come riportato dal Direttore della Casa Circondariale di Larino Rosa La Ginestra, all’inizio dell’evento. Un Parco delle meraviglie che da la possibilità di spaziare con la mente e creare quegli angoli di serenità, continua il Direttore La Ginestra, un percorso iniziato con il supporto del Centro Territoriale dell’Adulto e reso possibile dall’indispensabile supporto dei volontari: essi sono l’anima dei progetti posti in essere presso la Casa Circondariale nonostante l’azione frenante dei percorsi ad ostacoli perché la struttura si presenta elefantiaca e troppo burocratica. Ma le attività sono molte e la buona riuscita pongono la struttura stessa in una posizione preminente nel proprio ambito. La mattinata è stata allietata dall’esibizione del gruppo “Le Voci di Dentro” che hanno presentato “Notte di Note-Note di Notte”, un gruppo di dieci detenuti che hanno sperimentato il canto durante le funzioni liturgiche e sabato si sono esibiti con grande entusiasmo collettivo portando in scena passione e bravura tra i Murales che hanno dato colore e vita alle mura grigie dell’Istituto Penitenziario, accompagnati con maestria partecipata dalla professoressa Anna Di Gregorio. Molti i canti napoletani, ma non solo, interpretati con trasporto ed emozione, per qualcuno è stato più difficile, ma comunque intenso, come” l’attesa” sentimento che si legge ovunque oltre le sbarre del Penitenziario. Il canto si è presentato come una voce forte, univoca, un richiamare a sé l’opportunità di cambiare, come asserito da Vincenzo, “la musica è un potentissimo strumento con il quale si può entrare nel cuore di ognuno, essa lega, spazza via ogni ostacolo, porta luce dove c’è il buio, ha il potere di curare le ferite, tutto ciò che ci circonda può diventare musica ed essere il modo di ritornare alla vita”. La musica, quindi, un messaggio chiaro, veicolo di stati d’animo e nel contempo condivisione, come riportato anche dalle parole di Massimo che nel presentare il brano da lui portato in scena “L’Immensità”, “a volte ti ritrovi ad essere spettatore della tua stessa esistenza, senza fare nulla, vedi scorrere la vita tra le dita e stai lì a guardarla passare, bisogna non arrendersi, ma credere che le cose possano cambiare e proprio in questa speranza che si cela l’amore, l’amore di un amico, di una donna, di Dio”. Riflessioni profonde come quelle riferite anche dai ragazzi che hanno illustrato i Murales: il significato dell’arte che è espressione dell’io che si sta cercando, vuole ritrovarsi e ponderare la propria esistenza su nuovi valori. Il tema cardine della terza annualità, come spiegato da Giuseppe, è l’isola: in realtà l’isola rappresenta la vita, quella di ognuno di loro vista con i propri occhi, dall’angolazione dei propri vissuti, dai percorsi affrontati e dalla cultura di appartenenza perché il progetto della Street Art ha lavorato sul coinvolgimento prevalentemente dei detenuti stranieri per una più ampia integrazione di esperienze. L’ultimo lavoro realizzato ha interessato lo spazio di raccordo e di ingresso ai vari cortili ed è andato a completare una progettazione ben strutturata che ha ponderato un cammino della persona coinvolta, come la ricerca del concetto dell’identità, della persona vista in tutte le sue sfaccettature, le fragilità e le risorse, i desideri e la resilienza, elemento fondamentale per la rieducazione e” ristrutturazione” della persona. Il progetto ha visto una prima fase rivolta alla condivisione del disegno, quindi l’idea, le emozioni affrontate nel disegno stesso e poi l’integrazione dei colori a compimento di un lavoro ben curato. E se le aspettative sono quelle di essere uomini migliori, con il desiderio di libertà quantificata nel tornare a calpestare quei luoghi che li hanno visti nascere, come detto da Alfonso, ospite del Penitenziario, forse possiamo dire che il connubio posto in essere tra Istituto Penitenziario con il lavoro degli operatori ed agenti, insieme all’operosità dei volontari, diretto con lungimiranza dal direttore Rosa La Ginestra, pone le condizioni per una rieducazione ed inserimento del detenuto ben impostato. Bologna. Un cinema in carcere, alla Dozza Atmosphera, sala aperta a tutti di Marzia Paolucci Italia Oggi, 28 ottobre 2019 Dal carcere al cinema in carcere con l’inaugurazione della prima sala cinematografica italiana in carcere. Per tutti: detenuti e grande pubblico. La festa del Cinema di Roma anche quest’anno ha ospitato il Rebibbia Festival 2019 promosso da La Ribalta-Centro studi Maria Salerno, Fondazione Cinema per Roma e Provveditorato regionale carceri del Lazio. Un filone cinematografico tra l’auditorium del carcere romano di Rebibbia e quello del Museo Maxxi di via Guido Reni fatto di proiezioni, incontri e laboratori possibili anche grazie alla disponibilità della Corte costituzionale che a Rebibbia con il suo presidente Giorgio Lattanzi ha incontrato i detenuti, molti dei quali attori del documentario “Viaggio in Italia - La Corte costituzionale nelle carceri”. L’occasione è stata la proiezione del film che racconta il viaggio in sette istituti penitenziari italiani di sette giudici della Consulta che sono entrati a Roma Rebibbia, San Vittore a Milano, nel carcere minorile di Nisida, Sollicciano a Firenze, Marassi a Genova, Terni e sezione femminile di Lecce. “Spero di aver fatto vedere che un altro carcere è possibile sotto l’ombrello della nostra Costituzione che al suo articolo 27 dice che le pene devono tendere alla riabilitazione del condannato”, si augura il regista Fabio Cavalli. E di “un’esperienza di apprendimento e di comprensione di quanto è duro essere privati della libertà e di quanto però i diritti possono essere un patrimonio di tutti”, ha parlato il giudice della Corte Silvana Sciarra che a margine dell’anteprima del docu-film all’Auditorium del Parco della Musica, ha raccontato il senso della sua visita: “È stata incentrata soprattutto sul tema del lavoro e della difficoltà di realizzare questa ambizione e questa speranza che i detenuti hanno”. Altro incrocio artistico tra cinema e carcere è rappresentato dal fi lm “Fortezza” diretto da Ludovica Andò ed Emiliano Aiello e girato nel carcere di Civitavecchia Passerini, con protagonisti e coautori i detenuti stessi. Si tratta della rilettura del libro “Il deserto dei tartari” di Dino Buzzati, metafora del carcere tra rassegnazione e speranza di riscatto per chi è costretto a viverne la quotidianità. Il 26 ottobre, invece, guidata dalla regista Francesca Tricarico, la compagnia teatrale “Le donne del muro alto”, attrici detenute di Rebibbia femminile, si sono cimentate nel testo Il Postino di Neruda rendendo omaggio a Massimo Troisi nella sua interpretazione cinematografica del film “Il Postino”. L’opera è stata portata in scena da due detenute della struttura carceraria attraverso un lavoro teatrale in cui l’esilio di Neruda diventa metafora dell’attesa della libertà e dove i dubbi e le ambizioni del postino incaricato di portare la posta al poeta cileno, sono paragonabili alle paure e alle speranze delle detenute. E dal carcere al cinema, si arriva al cinema in carcere con l’esperienza bolognese di Cinevasioni, terza edizione del primo festival del Cinema in carcere svoltosi dal 9 al 14 ottobre scorso. Nello specifico, si tratta del carcere Dozza di Bologna, sede straordinaria per un festival del Cinema tutto organizzato e proiettato all’interno della casa circondariale con una giuria composta da detenuti formati per giudicare le opere di registi e video maker emergenti. L’obiettivo è portare il linguaggio e la cultura cinematografica all’interno della realtà carceraria e aprire il carcere ad autori e studiosi del cinema. E nello stesso carcere, nasce “Atmosphera”, la prima sala cinematografica italiana aperta a detenuti e grande pubblico. È una sala polivalente che l’Associazione Cinevasioni ha trasformato in un cinema gratuito da 150 posti con schermo, pannelli fonoassorbenti e un proiettore di ultima generazione in seguito alla richiesta da parte dei corsisti del corso di cinematografi a dell’istituto di conoscere i fi lm attuali in programmazione. “Quello che ci hanno chiesto”, sottolinea Angelita Fiore, presidente di Cinevasioni, “è di non vedere fi lm deprimenti. Per questo pensavamo di proporre commedie e fi lm che facciano comunque riflettere. Facciamo un appello anche ai distributori, perché ci diano produzioni nuove da proiettare”. Presto, anche l’apertura della prima videoteca della Dozza grazie alla donazione di settecento film in dvd da parte di Rai Cinema. L’odio antisemita, un pericolo sottovalutato di Sergio Harari Corriere della Sera, 28 ottobre 2019 L’Italia ha le sue responsabilità, a cominciare dal non aver ancora nominato il commissario nazionale per l’antisemitismo, in ritardo sulle indicazioni del Parlamento europeo agli Stati membri. Abbiamo peccato di superficialità nel sottovalutare l’odio antisemita, ma è qui, è sempre stato qui. È un virus che nasce nella notte dei tempi e dal quale forse il mondo non guarirà mai. Talvolta è più manifesto, talvolta meno, ma scomparso mai. D’altra parte, Elie Wiesel, premio Nobel per la pace, sopravvissuto ai campi di sterminio si domandava “Se Auschwitz non ha guarito il mondo dall’antisemitismo, cosa potrà mai guarirlo?”. Riemerge con forza quando la democrazia è più debole, come nelle ingiurie profferite via web alla senatrice Segre. Il pregiudizio antiebraico è duro a morire e resta, ancor oggi, ben radicato, a tutti i livelli, non conosce barriere sociali o discriminanti culturali. Si è sdoganata la barbarie razzista abbattendo l’ultimo muro morale. L’antisemitismo è facile da cavalcare, aggrega mondi diversi e purtroppo ha successo. Le istituzioni e anche il mondo dell’informazione hanno tardato ad accorgersene. L’Italia ha le sue responsabilità, a cominciare dal non aver ancora nominato il commissario nazionale per l’antisemitismo, in ritardo sulle indicazioni del Parlamento europeo agli Stati membri. Così come non ha ancora adottato la nuova definizione di antisemitismo, proposta dalla commissione intergovernativa della International Holocaust Remembrance Alliance e fatta sua dal Parlamento europeo nel giugno 2017. “L’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei che può essere espressa come odio nei loro confronti. Le manifestazioni retoriche e fisiche di antisemitismo sono dirette verso le persone ebree, o non ebree, e/o la loro proprietà, le istituzioni delle comunità ebraiche e i loro luoghi di culto”, questo recita la definizione, nulla di sconvolgente ma qualcuno confonde i piani della politica antiisraeliana e dell’antisemitismo. Se veramente vogliamo fare qualcosa per combattere questo cancro della democrazia e della società, è questo il momento. Razzismo. Il pericolo della connivenza di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 28 ottobre 2019 In un contesto di crescente, diffusa volgarità e inaudita violenza di linguaggio, è di ora la notizia che la senatrice a vita Liliana Segre è oggetto di centinaia di messaggi ingiuriosi, perché ebrea. L’elevata sua posizione e la sua storia personale di vittima della Shoà portano in primo piano la questione dell’antisemitismo. Se ne avevano però già numerosi segnali, dal linguaggio di certe tifoserie calcistiche e persino dal ripetuto uso del nome di Anna Frank come ingiuria. Non si tratta di fenomeno solo italiano. Anzi di antisemitismo violento e assassino si hanno recenti esempi in altri luoghi d’Europa in particolare in Francia e Germania. E oltre all’antisemitismo, altre forme di razzismo sono crescenti, non solo verbale, ma anche violento. Esse colpiscono migranti di colore, rom e sinti. Non è di molto tempo fa l’intervento del Commissario ai diritti umani del Consiglio d’Europa per deplorare il linguaggio del governatore lombardo dell’epoca Maroni nei confronti dei rom. Ed è nota la vicenda del vice presidente del Senato Calderoli, che in un comizio paragonò la ministra Kyenge a un orango. Il Senato fece finta di non credere al carattere razzista di quelle espressioni e dovette esser chiesto l’intervento della Corte costituzionale per far sì che Calderoli fosse giudicato e poi, in primo grado, condannato dal tribunale di Bergamo. Ogni episodio fa storia a sé, per l’occasione e la vittima o la minoranza presa di mira. Ma tutti insieme hanno un preciso significato, di odio, di disprezzo, di irresponsabile sollecitazione alla intolleranza razziale. La particolare vicenda che colpisce la senatrice Segre motiva una proposta di istituzione di una Commissione parlamentare di indagine sul fenomeno dell’antisemitismo, del razzismo e delle espressioni di odio. Una Commissione siffatta potrebbe essere utile per raccogliere dati e forse elaborare proposte per affrontare il problema. Utile forse, ma certo non indispensabile, poiché altre sedi sono già attive. E nella legislatura precedente venne istituita alla Camera e presentò un rapporto conclusivo una Commissione sull’intolleranza, il razzismo, la xenofobia e i fenomeni di odio. All’iniziativa di cui ora si discute va dunque assegnato soprattutto il senso di una forte presa di coscienza della gravità della questione nella sede politica parlamentare, anche senza porre in essa troppa fiducia di concreta utilità. Ma il segnale politico è comunque importante. Più importante ancora - ma negativo - è il senso delle opposizioni o ipocrite precisazioni o condizioni poste dalla Destra. Non potendo esporsi a respingere la proposta, le si altera il senso, pretendendo che la Commissione sia incaricata di studiare anche i pericoli cui sarebbe esposta la “identità italiana”. Quale ne sia il senso è difficile vedere, oltre a quello di snaturare l’oggetto della indagine rimessa alla Commissione. L’identità italiana è oggetto di attacchi razzisti? E di quale aspetto della ricca e varia identità italiana dovrebbe occuparsi la Commissione? Il razzismo del Ventennio e il suo antisemitismo fanno parte della identità nazionale? E le folle che urlano ingiurie razziste, son parte di quella identità? E poi, chi può arrogarsi il ruolo di portavoce esclusivo e privilegiato della identità di un Paese come l’Italia? Il razzismo e l’antisemitismo sono inaccettabili, incompatibili con i valori di cui la Costituzione è portatrice e con la cultura civile che l’ha prodotta. La lotta per opporsi a essi è difficile, se si vuole andar oltre l’indispensabile lavoro educatore della scuola e di chi ha voce e influenza nell’opinione pubblica. Ciò che però va fatto, è denunciare la connivenza oggettivamente offerta a quelle ignobili manifestazioni da parte di chi obliquamente prende le distanze da un segno politico forte come quello rappresentato dalla proposta di istituzione della Commissione parlamentare. Così Al Baghdadi ha portato il terrore nelle nostre vite di Danilo Taino Corriere della Sera, 28 ottobre 2019 Ma l’Europa è ancora spettatrice di fronte a troppi massacri. “Era un animale. Un animale senza Dio”, ha detto Donald Trump durante la conferenza stampa nella quale annunciava la morte di Abu Bakr Al Baghdadi, il leader dell’Isis. Parole forti, senza pietà che sono però certamente condivise dalle famiglie delle vittime degli attentati degli anni scorsi in Francia, in Belgio, in Gran Bretagna, negli Stati Uniti, in Siria e in tutto il Medio Oriente. Dai genitori, dalle sorelle e dai fratelli delle centinaia di ragazze rapite e rese schiave dalle milizie del Califfo, da chi ha pianto le decine di ragazzi decapitati dagli uomini in tuta arancione. Parole che si possono usare solo in casi speciali, fuori dall’ordinario: questo è uno di quei casi, la fine di un individuo mosso non solo da cecità inumana travestita da religione ma anche da un’illusione di potenza che non si poneva limiti morali. Il suicidio di Al Baghdadi - avvenuto sotto l’attacco delle forze americane con il consenso di tutti i Paesi e delle milizie che hanno condotto la guerra al cosiddetto Stato Islamico - per quel che è rimasto dell’Isis si tratta di un colpo durissimo, che arriva dopo la sconfitta sul terreno dei combattenti islamici che hanno ormai perso tutti i territori che controllavano. Sarebbe stato probabilmente definitivo se il ritiro delle truppe americane dalla Siria nelle settimane scorse non avesse provocato la fuga dalle prigioni di centinaia di militanti dell’organizzazione terroristica che erano detenuti dai curdi. Purtroppo, alcuni di loro, probabilmente assassini, sono ora più o meno liberi e potranno in qualche modo cercare di riorganizzarsi e di tornare a colpire. Nel Medio Oriente e in Europa. Trump si è appuntato sul petto la medaglia dell’annullamento di Al Baghdadi e si tratta sicuramente di un successo che conferma la capacità di attacco delle forze americane, dopo che altrettanto avevano fatto con Osama Bin Laden nel maggio 2011. Ma è una medaglia che, sul petto, non copre la macchia di avere lasciato al loro destino, sotto l’attacco della Turchia, le migliaia di alleati curdi che sono stati determinanti negli anni scorsi anche nella guerra contro l’Isis e nella liberazione dei territori dello Stato Islamico. Il volto barbuto e truce di Al Baghdadi è aleggiato per anni, in un alone di mistero, sulle città europee e nelle strade polverose del Medio Oriente battute dalle sue milizie. Ha attratto decine di giovani anche dai centri e dalle periferie di Francia, Belgio, Gran Bretagna, Italia, America, Asia. Ha seminato sgomento e paura, ha messo gran parte dei Paesi di fronte alla minaccia di un soggetto non statuale armato che non rispondeva alle regole della guerra tradizionale ma minacciava non di meno la libertà di vivere con un minimo di sicurezza. Ha sfidato le democrazie e i regimi autoritari, anche quelli retti da leggi di carattere islamico. Era nemico di tutti e questo lo faceva forse sentire ancora più grande. Alla fine ha perso, rovinosamente, come era certo accadesse, ben prima della sua morte per suicidio con i suoi figli al fianco, come aveva deciso di finire ben prima di lui un altro “animale senza Dio”, Joseph Goebbels. Nella coda, ma per alcuni versi dovrebbe essere alla testa, di questa vicenda c’è qualcosa su cui l’Europa dovrebbe interrogarsi. Con serietà e urgenza. Nel caso dell’abbandono dei curdi ha criticato Trump e gli Stati Uniti. Nel caso della morte di Al Baghdadi, si feliciterà probabilmente con Washington. In entrambe le situazioni, come in tutte quelle che richiedono una presenza politica e geopolitica, non c’è però stata. Perché non ha ritenuto di esserci da decenni e oggi non è in grado di agire, ha rinunciato ad avere un ruolo. Irresponsabile. Siamo spettatori: soddisfatti oggi e fino a quando il lavoro sporco lo faranno altri, nel male e nel bene. Ma spettatori di fronte ai curdi come ad Al Baghdadi. Alle vittime come agli assassini. Le vedove e gli orfani dell’Isis: “Noi ora pensiamo solo a sopravvivere” di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 28 ottobre 2019 Nel campo di prigionia dei seguaci del Califfo. Viaggio nel centro più popoloso di quello che resta dei seguaci di Al Baghdadi proprio poche ore dopo la notizia della sua morte: quasi 71.000 sfollati - prigionieri genericamente sospettati di sostenere l’Isis, per lo più donne irachene e siriane con i figli. “Dobbiamo morire, è il destino di ogni essere vivente. Ma lui è il Califfo Abu Bakr al Baghdadi, non muore mai. Vale il ruolo, non la persona. Ne faranno un altro che prenderà il suo posto”. Due o tre donne completamente velate non si tirano indietro nel dimostrare il loro totale sostegno al Califfo. “Quante volte lo hanno dato per morto e poi non era vero?”, reagiscono ostili. Tutte la pensano davvero così? Difficile dire. La maggioranza chiede assistenza medica per i figli e di avere notizie di mariti, fratelli, padri, tutti combattenti tra i ranghi dell’Isis. Catturati dai curdi, oppure feriti, morti? Non lo sanno. “Che ne è stato di Mohammad? Mio figlio. Ha solo 25 anni. Ci siamo visti l’ultima volta durante la battaglia di Baghouz a gennaio. Non ne so più nulla. Potete aiutarmi?”, implora Safa Ahmad, 50 anni, originaria di Aleppo. Un’altra, Aisha Othman, 27 anni, due figli, chiede di Mahmud Ibrahin, suo marito 31 enne, ferito nei villaggi lungo l’Eufrate dopo la caduta di Raqqa nel 2017. “Vorrei andare dai miei genitori a Mosul. Ma non ho passaporto, nessuno garantisce per me”, esclama mostrando uno sgualcito foglietto rilasciato dall’ufficio locale della Croce Rossa. Fa ancora caldo, pur a tardo ottobre. Le donne sono sudate, le vesti sgualcite. Anche i tendoni delle agenzie umanitarie Onu mostrano l’usura del luogo. Per puro caso siamo arrivati nel centro più popoloso di quello che resta dei seguaci di Al Baghdadi proprio poche ore dopo la notizia della sua morte. Una coincidenza, perché la nostra visita era programmata da tempo e le autorità militari curde di Rojawa danno i visti col contagocce alla stampa estera per venire al grande campo di detenzione, a Al Hol. Quasi 71.000 sfollati - prigionieri genericamente sospettati di sostenere l’Isis, per lo più donne irachene e siriane con i figli, miste però ad alcune migliaia di fanatiche pericolose, tra le quali oltre 3 mila volontarie straniere venute apposta per combattere la guerra santa dell’Isis e “donare” al Califfo i loro figli. Sono piccoli jihadisti in nuce: ne hanno oltre 7.000. Vedove, mogli, orfani dell’Isis, sono ritenuti talmente pericolosi da essere chiusi in un recinto speciale. Tra loro pare vi sia anche un’italiana, di cui però non dicono il nome. “Dobbiamo stare all’erta. Ci aspettiamo attentati e rivolte in ogni momento per vendicare la morte di Al Baghdadi. Esistono anche cellule attive dell’Isis nei villaggi arabi qui vicini e nella città di Hasakah. Più volte hanno tentato di organizzare evasioni di massa. E non sono mancate violenze interne con accoltellamenti e persino tentativi di decapitazioni”, spiega la trentenne Meshgar Mohammad, incaricata dall’amministrazione curda di gestire le straniere. “Abbiamo il problema della carenza di guardie. Sino a tre settimane fa c’erano oltre 800 sentinelle armate al campo. Ma, da quando l’esercito turco ha lanciato l’offensiva contro le nostre regioni, almeno 500 sono andate a combattere al fronte, 107 hanno già perso la vita a Ras al Ayn e Tal Abyad. Con le 300 rimanenti possiamo fare poco, la sicurezza non è più garantita”, aggiunge. A onore del vero, il campo oggi appare calmo, senza segnali di rivolte imminenti. Non molto diverso da come lo avevamo visto a marzo, dopo la fine della battaglia di Baghouz, che aveva segnato la fine della dimensione territoriale del Califfato. Le donne chiedono medicine. Tre cecene si nascondono il viso, ma mostrano i figli emaciati, bisognosi di cure. Due uzbeke, completamente velate di nero, le scarpe sfondate, piangono la loro situazione: “A casa non possiamo tornare. I nostri uomini sono morti, non abbiamo i soldi per i figli che neppure vanno a scuola”. Quando chiediamo cosa pensano della morte di Al Baghadi, alcune alzano la spalle: “Non ci riguarda più. Adesso dobbiamo solo sopravvivere”. I curdi non si fanno illusioni. “Baghdadi sarà anche morto ma i miliziani ci sono ancora” di Eugenio Grosso huffingtonpost.it, 28 ottobre 2019 Nel villaggio di al Hol, vicino al centro in cui sono detenuti combattenti e donne del califfato, si temono fughe e rappresaglie. Non si crede a una pace più vicina. A Qamishlo, Rojava, Siria del Nord Est, sono le 3 del pomeriggio quando il presidente statunitense Donald Trump conferma che Abu Bakr al Baghdadi, il leader dell’Isis, è stato ucciso in un’operazione condotta dalle forze speciali. In strada non si parla d’altro, anche se molti non ci credono. “Magari è scappato, forse non era lui”, mormorano gli anziani mentre si avviano a fare colazione verso il bazar. Ed è proprio qui che un’autobomba è esplosa 5 giorni fa. Nessun morto, nessun ferito. Ma è la dimostrazione che Isis è stato sconfitto ma non è finito. E anche oggi che viene annunciata la morte del suo leader, non significa che la pace sia finalmente arrivata. Murat, un venditore di miele e formaggio sorride mentre serve i clienti come ogni giorno. Quando parla del futuro però la sua espressione cambia, si vela di preoccupazione. “Baghdadi sarà anche morto ma i miliziani ci sono ancora”. Bali continua a guidare con gli occhi fissi sulla strada e le mani serrate sul volante. È pensieroso mentre guida verso al Hol dove un vecchio campo profughi risalente alla prima guerra del golfo ospita oggi i familiari dei combattenti di Daesh (ISIS in arabo) e dove oggi tra i foreign fighters e i miliziani locali sono trattenute anche le donne del califfato. Adesso che il loro leader è stato ucciso si temono rappresaglie, i miliziani vorranno vendetta. A dirlo è stato anche Mazloum Abdi, comandante generale delle Forze Democratiche Siriane, che in un tweet ha definito storica e di successo l’operazione in cui è stato ucciso il Califfo. Girando per le vie del villaggio di al Hol la tensione è evidente. Bali non è contento di fermarsi, figurarsi scendere dalla macchina. Anche i residenti hanno paura. Temono che la morte del leader dello Stato islamico possa rendere più aggressivi i tentativi di fuga dei jihadisti rinchiusi nel campo. “Abbiamo paura, anche se la città è molto controllata tutti sanno dei tentativi di fuga” racconta un uomo che si protegge dal sole sotto la tettoia del suo negozio. Alcuni sostengono che un gruppo di miliziani ancora in libertà possano aver cercato di facilitare la fuga. Una sensazione di pericolo diffusa dunque, tanto che Redur Xelil, un ufficiale delle Forze Democratiche Siriane, ha dichiarato in conferenza stampa che da oggi il lavoro di intelligence sarà intensificato per individuare cellule dormienti in grado di compiere attentati. Intanto però nel Rojava si aspetta. Perché tra poche ore scade l’ultimatum che il presidente turco Erdogan ha dato ai curdi per ritirarsi dalla “safe zone”. Uno scenario che la morte di Al Baghdadi potrebbe sicuramente cambiare. In che modo, però, è ancora tutto da vedere. Marocco. Prigionieri saharawi in sciopero della fame di Gianni Sartori ilpopoloveneto.it, 28 ottobre 2019 Nelle carceri marocchine alcuni prigionieri politici saharawi (stando alle prime notizie, facenti parte del gruppo degli arrestati per gli scontri di Gdeim Izik nel 2010) hanno voluto esprimere la loro solidarietà a Sid Bachir Allali Botengiza con uno sciopero della fame di alcuni giorni (a tempo determinato) iniziato il 25 ottobre. Questo prigioniero è in cella di isolamento dal 21 ottobre. Nel novembre 2010 centinaia di saharawi erano stati arrestati dopo gli scontri con le forze di sicurezza marocchine che avevano distrutto un accampamento a Gdeim Izik nei pressi di El Aaiún (Sahara Occidentale). Nel corso del lungo processo, si era assistito allo scambio di accuse tra il fronte Polisario (l’organizzazione che dagli anni settanta rivendica l’indipendenza per l’ex Sahara spagnolo) e le autorità del Marocco. Entrambi accusavano la controparte di aver provocato i sanguinosi scontri. In conclusione, accusati dell’uccisione di una decina di poliziotti, 25 saharawi erano stati condannati da un tribunale militare a pene molto pesanti, da 20 anni all’ergastolo.