Da San Gimignano a Torino: nelle carceri italiane è guerra di Giuseppe Catozzella L’Espresso, 27 ottobre 2019 Detenuti ammassati e rabbiosi. Agenti di custodia che perdono la testa. E così scattano i primi processi per il reato di tortura. Ma una possibilità per cambiare le cose c’è: aprire le porte al “fuori”. “Ci hanno maltrattato in prigione, e così vigliaccamente, che invidio le vostre torture. Grazie all’azione del calore la pianta è cresciuta”. Lo scrive Jean Genet nel “Giovane criminale”, opera del 1949 che come tutte le sue decostruisce i rapporti di forza e i giochi di società della borghesia, anticipando gli studi sulla follia e sulla prigione di Foucault. Il calore delle vostre botte ci ha resi più forti. Questo valeva nel 1948 e vale ancora oggi. Valeva in Francia, e vale di più in Italia, dove le carceri non hanno mai smesso di essere luoghi di guerra tra guardie e ladri. “A me hanno dato qualche anno”, dicono i detenuti agli agenti di polizia penitenziaria, “tu qua dentro te ne farai quaranta, fino alla pensione”. Questa storia è la storia di un fantasma dentro un carcere, quello di San Gimignano: sovraffollato, senza rete fognaria e senza un direttore stabile. Il fantasma è un ragazzo tunisino di 31 anni lì detenuto per scontare una pena a un anno di reclusione. È la storia di un ragazzo senza nome per il quale altri detenuti in regime di alta sicurezza (camorristi e trafficanti di droga) hanno chiesto giustizia di fronte a un tribunale italiano. Delinquenti specializzati che si appellano allo Stato perché faccia giustizia contro se stesso, a favore di un delinquente. Parrebbe un cortocircuito e invece non lo è, si chiama diritto. Questa è la storia di un ragazzo senza nome che suo malgrado si è infilato nella guerra senza fine che si combatte nelle nostre prigioni. “Il ragazzo gridava di dolore, sempre più forte”, hanno scritto gli altri detenuti alla procura di Siena. “Lo picchiavano con pugni e calci” mentre era a terra, “una guardia gli ha messo un ginocchio alla gola”, “gli hanno calato i calzoni” e hanno continuato a pestarlo. Poi il ragazzo sarebbe svenuto e sarebbe stato lasciato a terra. “Tornatene nel tuo paese”, gli gridavano le guardie. Quindici sono indagate, quattro sono state sospese. È la prima volta nella storia d’Italia che pubblici ufficiali vengono indagati per il reato di tortura, che fino a due anni fa neppure esisteva nel nostro ordinamento penale. La storia di questo ragazzo fantasma, che sarebbe stata solo una delle migliaia di storie invisibili di pestaggi e umiliazioni che si consumano dentro le carceri, è diventata pubblica grazie a quelle denunce ma soprattutto grazie all’esistenza di un video, ora nelle mani del pubblico ministero, che proverebbe le torture. “Senza quel video non se ne sarebbe fatto niente, in carcere la voce di un detenuto conta zero rispetto a quella di una guardia”. È Salvatore Striano a dirmelo, oggi attore di teatro e di film come “Gomorra” e “Cesare deve morire” dei Taviani, per più di dodici anni detenuto a Poggioreale e a Secondigliano per i reati commessi quando stava in strada tra i clan di camorra. Ma quando a muovere i meccanismi della giustizia sono necessari dei documenti filmati e non bastano le denunce circostanziate non è una buona notizia per nessuno. Cosa sarebbe stato del processo per la morte di Stefano Cucchi se non esistesse quel film straordinario che è “Sulla mia pelle” di Alessio Cremonini? Lì addirittura c’è un passaggio successivo: è il potere dell’arte di mettere nero su bianco la realtà, di mostrarla non soltanto nella sua singolare crudezza ma di farla vedere in filigrana, di esporne la radiografia, a portare il carabiniere Francesco Tedesco alla confessione e alla denuncia degli altri colleghi che ha ribaltato il processo, inchiodando i difensori dello Stato alla loro brutalità. Lì è stato un film, qui è l’asettico video di una telecamera di sorveglianza. Cosa sarebbe stato di questo fantasma tunisino senza quel video? “Niente, nessuno se lo sarebbe cagato”, mi dice Striano. “Devi capire che nelle carceri italiane c’è la guerra. È il sistema che non funziona, che rende il detenuto passivo, inattivo, rabbioso. È il sistema che lo fa uscire peggio di come è entrato. Quando io stavo a Poggioreale c’era la Cella zero. Arrivava la “squadretta”, cinque o sei agenti di polizia penitenziaria. Ti chiudevano là dentro e ti pestavano a sangue. Per vendicarsi di un’offesa, di una parola violenta, di un gesto d’ira. Ma non li condanno. Sono pochi, non hanno mezzi, sono abbandonati a se stessi. La maggior parte di loro è gente buona, poi c’è quello violento, e gli altri che non sanno opporsi. Davvero vogliamo lasciare le carceri nelle sole mani delle guardie? Così la guerra crescerà sempre di più. Noi andavamo da loro e dicevamo “Tu qua dentro ci starai fino alla pensione, io tra qualche anno esco”, e lo sapevamo che poi significava essere portati nella Cella zero. Ma era quello che volevamo. Picchiare, essere picchiati, sfogarci. Perché la galera così come è in Italia è il contrario della rieducazione, è abbrutimento”. Un abbrutimento che trova conferma in quello che è successo a Torino pochi giorni dopo i fatti di San Gimignano: sei agenti della polizia penitenziaria della casa circondariale “Lorusso e Cutugno” arrestati con l’accusa di aver commesso atti di violenza e tortura nei confronti dei detenuti. Sotto inchiesta dopo le denunce di gravi maltrattamenti è anche il carcere Mammagialla a Viterbo, dove l’anno scorso si sono uccisi due detenuti di 36 e 21 anni. L’ultimo suicidio è invece avvenuto nella prigione di Marassi, Genova, martedì 22 ottobre: un italiano di 53 anni, con problemi di alcolismo e in attesa di giudizio. A Marassi ci sono 730 detenuti che devono convivere in spazi per 525 posti e nel primo semestre del 2019 ci sono stati quasi cento atti di autolesionismo. A livello nazionale, nel 2018 ci sono stati 67 suicidi nelle carceri e 2.884 morti negli ultimi 19 anni. Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni, diceva Dostoevskij, poiché è dal modo in cui una comunità tratta “il male” che si genera dal suo stesso seno che si vede la tempra del suo “bene”, del suo ordinamento civile. Le carceri italiane parlano chiaro della nostra attenzione per i diritti, come denuncia l’associazione Antigone: nel 2013 la Corte europea per i Diritti dell’uomo ha condannato il nostro Paese per i “trattamenti inumani e degradanti” subiti dai detenuti; il sovraffollamento è cronico (ci sono diecimila carcerati più dei letti disponibili), e in alcuni istituti (Taranto, Como) tocca il 200 per cento; mancano cinquemila agenti di polizia penitenziaria; nel 35,3 percento delle strutture non c’è acqua calda; il 7,1 percento non dispone di riscaldamento funzionante; nel 20 per cento non ci sono spazi per permettere ai detenuti di lavorare nel 18,8 percento delle celle non si rispetta la soglia minima dei tre metri quadri per detenuto, e nel 54,1 per cento non c’è la doccia. Le carceri italiane sfidano a uno dei più complicati esercizi privati di democrazia. Lì dentro ci finisce chi ha sbagliato, chi ha agito contro la società, ed è giusto che saldi il debito con la giustizia. Ma questo facilmente può portare chi sta fuori a non voler vedere ciò che accade nella fortezza. Chi ha sbagliato deve pagare, e se si calca un po’ la mano tanto male non farà, ci diciamo. Ma pensando così, o semplicemente scegliendo di non pensarci, siamo già ricaduti a nostra volta dentro l’illegalità. Perché in un carcere non può accadere qualunque cosa, e come dice l’articolo 27 della Costituzione “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, e devono tendere alla rieducazione”. Ma la rieducazione, dentro le carceri italiane “purtroppo è lasciata al singolo caso”, dice Sasà Striano, ora attivissimo in progetti di recupero e volontariato dietro le sbarre, amatissimo dai galeotti. “Quando stavo a Secondigliano c’era un detenuto che se non si metteva a cantare prima di andare a letto non riusciva a dormire. Lo chiamavano zio Alfonso e la sua voce rimbombava in tutta la sezione. Le guardie andavano, e ogni sera lo menavano, gliene davano tante finché non smetteva. Poi un giorno lo psicologo ha detto: zio Alfonso ogni sera può cantare due canzoni. Aveva pure una bella voce, e ci teneva compagnia, non faceva male a nessuno, a noi piaceva, portava allegria. Così ha smesso di prendere le botte. Basterebbe cercare di rompere il muro tra guardie e ladri, e questo si potrebbe fare facilmente. Ma nel momento in cui entri in galera sai che stai andando in guerra, che non potrai vivere pacificamente, che nessuno ti lascerà in pace, nemmeno volendo. Sono luoghi sovraffollati pieni di delinquenti e dall’altra parte di gente frustrata e malpagata, gente che a lavoro non può neanche guardare il telefono, gente che magari sta a 800 km da casa e dorme in caserma, gente che al di fuori della prigione non ha una vita vera. Comunque il peggio che ti possono fare non è gonfiarti di botte. Il peggio è se ti vietano il permesso di uscire quando hai un famigliare malato o in fin di vita. Quella è la peggiore vendetta”. Il giovane criminale di Genet ci fa riflettere. È lecito condannare a priori, senza un sussulto di possibile immedesimazione, chi per nascita è già stato condannato all’esclusione e alla crudeltà. Chi è più colpevole, ci porta a domandarci Genet, il giovane criminale fantasma spinto a seguire un destino contrario alle regole della società o chi, al riparo della propria condizione, chiude gli occhi di fronte all’inumanità che si consuma nelle carceri e stigmatizza l’errore senza domandarsi come sia possibile intraprendere la strada per estirparlo? È la famosa “rieducazione” che risuona nella Costituzione. Finché le carceri saranno abitate da guardie e ladri non accadrà. Occorre far entrare, 24 ore su 24, e in tutte le sezioni, i volontari della società civile, che già ci sono ma non hanno accesso alle sezioni, alle celle. Io stesso più volte sono stato nelle carceri a parlare dei miei libri a detenuti che li avevano letti, e conservo ricordi di bellissime chiacchierate. Può apparire paradossale, ma esiste un’equazione tra la gravità del crimine e la sensibilità e la cultura di chi lo ha commesso. Nel carcere di Massa una volta mi sono sorpreso a parlare a lungo di letteratura e di filosofia con un assassino seriale. “Sì, ma quando sanno che devono venire date, i detenuti cambiano come il giorno e la notte”, mi dice Sasà. “Nel tragitto tra le celle e gli spazi comuni avviene il lavaggio del cervello e la trasformazione. Quando sappiamo che dobbiamo incontrare qualcuno di fuori ci trasformiamo, ci rendiamo di nuovo civili.” Perché allora non lasciar entrare stabilmente la rete di volontari nelle sezioni, così da mediare il rapporto con gli agenti penitenziari, e convertire la passività in attività? Perché non creare presidi di umanità, gratuiti per lo Stato, all’interno delle sezioni? La potenza del film dei fratelli Taviani è ricavata proprio da questo: essere entrati per la prima volta dentro le celle, aver mostrato l’animale recluso, li dove è tenuto lontano dagli occhi della comunità e dove può divenire soggetto non del diritto, ma della legge dell’arbitrio. “Alla vostra furbizia opporrò sempre la mia astuzia”, dice Jean Genet, parlando di guardie e di ladri. Ma i due stratagemmi non sono del tutto simili? Carcere e psicologia. Un progetto di sostegno agli agenti penitenziari Il Tempo, 27 ottobre 2019 Presentato a Regina Coeli, è stato voluto dall’Unione Cristiana Evangelica Battista d’Italia. Presentato presso l’Aula Conferenze della Casa Circondariale di Regina Coeli di Roma l’importante Progetto a favore degli agenti di polizia penitenziaria dal titolo “Carceri: sostegno al ruolo trattamentale dell’Agente”. Il Progetto fortemente voluto dall’Unione Cristiana Evangelica Battista d’Italia (U.C.E.B.I.) e reso operativo dalla Chiesa Battista di Trastevere, è finanziato con i contributi dell’otto per mille. Presenti la direttrice del carcere Silvana Sergi, il commissario coordinatore Moccaldo, la vicedirettrice dell’Istituto Alessandra Bormioli, Stefania Polo responsabile della Diaconia Carceraria della Chiesa Battista e Antonella Scuderi pastore della Chiesa Battista di Trastevere. Dopo una prima introduzione della direttrice dell’Istituto e delle rappresentanti delle Chiese Battiste, Il dott. Mauro Gatti - psicologo penitenziario dal 1978 e responsabile esecutivo del Progetto - ha illustrato a tutte le competenze presenti in Sala il significato e la metodologia del lavoro psicologico che verrà svolto a favore degli Agenti. Il Progetto è stato approvato dal Provveditore del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria Carmelo Cantone che ha espresso un vivissimo apprezzamento per “una iniziativa volta all’offerta di sostegno al personale di Polizia Penitenziaria, e a promuovere un agire professionale coerente con il ruolo di operatori del trattamento penitenziario, oltre che della sicurezza”. In attesa che i processi durino tutta la vita. Il caso prescrizione di Massimo Adinolfi Il Mattino, 27 ottobre 2019 Nel frattempo, entri pure in vigore il nuovo regime sulla prescrizione, con la sospensione dopo la sentenza di primo grado. In quale frattempo? In quello che vive questo governo e questa maggioranza, che non ha ancor capito se e quanto durerà, se il voto in Umbria di oggi avrà ripercussioni, se lo avranno le prossime elezioni regionali, se l’accordo fra Pd e Cinque Stelle potrà assumere davvero un profilo strategico, un orizzonte, una visione. Nel frattempo, però, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede vuol far partire la riforma della prescrizione. Dal primo gennaio. E nel programma di governo? Sì, ma di quello precedente, quando la Lega aveva ottenuto un rinvio al 2020 perché la sospensione partisse insieme all’introduzione di nuovi strumenti per sveltire i processi. Quell’esecutivo è caduto, ce n’è un altro a suo posto, delle misure per accelerare i processi non c’è traccia alcuna, ma il ministro della Giustizia (che, come il premier, è rimasto lo stesso da un governo all’altro, da una maggioranza all’altra) non vuol saperne di nuovi rinvii, perché per lui la sospensione della prescrizione è un fatto di giustizia irrinunciabile: secondo lui, non si può dire, né prima né poi, “è scaduto il tempo del processo”. Dunque, se si comincia bisogna finire, e se per finire ci vogliono dieci, quindici, vent’anni, una vita intera, non importa. Non importa neppure che vi sia un articolo della costituzione il quale non dice: il processo va fatto comunque, costi quel che costi (che è l’opinione del ministro). No, dice piuttosto che va assicurata la ragionevole durata del processo: e come pensa di assicurarla, il ministro, se per accorciarne la durata non fa nulla, mentre sospende la prescrizione dopo la sentenza di primo grado? davvero commovente sentirgli dire, in audizione al Senato, che lui però pensa alle persone che in fondo a un’aula giudiziaria aspettano giustizia. Che uomo sensibile! Ma un politico serio dovrebbe cominciare dal prendere atto che in prescrizione i processi non ci finiscono dopo la sentenza di primo grado bensì prima, per oltre il 70%, e ben più della metà addirittura nella fase delle indagini preliminari (dati ufficiali del dicastero retto dallo stesso Bonafede). Il ministro no: lui pensa alle persone in fondo all’aula giudiziaria, noncurante del fatto che se le prescrizioni fioccano prima, la sua riforma non riguarda il grosso delle persone in attesa di giustizia, mentre infligge a tutti gli altri un processo di irragionevole durata: il contrario esatto della previsione costituzionale. E a proposito di noncuranza, segnaliamone altre due o tre. La prima: l’Unione delle Camere penali da sempre si scaglia contro una riforma “sciagurata”. Ma si sa: sono gli avvocati, i legulei, gli azzeccagarbugli, sono quelli che si infilano nelle pieghe del processo solo per tirarla per le lunghe: del loro peloso parere il ministro potrà pure infischiarsene. Ma che dire allora di magistrati come Nicola Gratteri per i quali la questione della durata dei processi non si affronta prolungandoli indefinitamente? Quando il Bonafede ministro del governo gialloverde avanzò la sua idea - era più o meno di questi tempi, lo scorso anno - anche i magistrati dell’Anm chiesero insieme “interventi organici e di sistema finalizzati a snellire le procedure e accelerare i processi”. E dove sono oggi queste misure? Il vecchio ministro gialloverde si è distinto solo per l’introduzione di nuove figure di reato; il nuovo ministro giallorosso (che è lo stesso di prima) si trova, sulle misure per il nuovo processo penale, nella “situazione particolare di non aver avuto ancora il tempo di individuare, con la nuova maggioranza, i provvedimenti normativi”. Che infatti non sono ancora nemmeno arrivati in Consiglio dei ministri. Buona notte. Bonafede non si cura dei penalisti, non si cura di buona parte della magistratura: non si cura nemmeno dell’alleato di governo? Sentito in argomento, il vicesegretario del Pd, Orlando, ha detto l’altro giorno che la sospensione della prescrizione deve stare insieme a “una proposta che garantisce i tempi certi del processo”. E siccome questa proposta non c’è, il ministro farebbe bene a riflettere meglio sulla sua scelta. Lo farà? Oppure un ministro grillino può, con il Pd che ne cerca l’abbraccio, fregarsene altamente di quello che pensa il suo vicesegretario? Orlando ha detto pure un’altra cosa. Ha detto che purtroppo “nel nostro Paese si carica tutto di una valenza ideologica”. In effetti, che pensare di un ministro che prima rivendica la riforma sulla prescrizione come un’esigenza indifferibile, e poi tranquillizza tutti dicendo che però gli effetti si vedranno a partire dal 2024, ma forse anche dal 2027? Il ministro che ha annunciato il carcere agli evasori come una svolta culturale (auguri!), ragiona sulla prescrizione in nome del feroce “fiat iustitia, pereat mundus” (o perisca l’imputato, in attesa che il processo si concluda), ma poi aggiunge con un filo di farisaismo: ben s’intende, fra qualche annetto. E, nel frattempo, si rimanga pure in attesa del voto umbro, della legge di stabilità, del voto emiliano e di quello campano. E di capire se questa è la politica della giustizia della nuova, strategica maggioranza giallorossa. Diffamazione e giornalismo. In un anno 9.000 querele e 64 condanne al carcere di Giuseppe F. Mennella ossigeno.info, 27 ottobre 2019 Ossigeno sulle cifre Istat dei procedimenti per diffamazione contro i giornalisti. Tra il 2011 e il 2017 raddoppiate le denunce. “In attesa che il Parlamento approvi la legge per abolire il carcere per i giornalisti (tentativo inutilmente in atto dal 2001), è molto istruttivo dare uno sguardo alle cifre ufficiali e inoppugnabili - elaborate dall’Istat - sulle querele presentate contro i giornalisti, le archiviazioni, le condanne subite da chi è giudicato colpevole di diffamazione a mezzo stampa aggravata dall’attribuzione di fatto determinato (articolo 13 della legge sulla stampa del 1948)”. È quanto ha affermato il prof. Giuseppe Federico Mennella, segretario dell’Osservatorio Ossigeno per l’Informazione, intervenendo al convegno organizzato da Ossigeno “Troppe Minacce ai Giornalisti” in corso al Senato. Nel 2016 sono andate in decisione 9039 querele. Le archiviazioni sono state 6317, pari al 69,88 per cento. Nel 2016 i condannati con sentenza irrevocabile sono stati 287. Le condanne a pene detentive sono state 38; 234 alla pena della multa. Nel 2017 le sentenze irrevocabili sono state 435. La pena detentiva è stata inflitta in 64 casi, quella alla multa in 336 procedimenti. Le condanne al carcere oscillano da un mese a due anni. La metà circa si colloca fra i tre e i sei mesi. Esaminando la serie storica, si nota una tendenza crescente alla querela facile. Nel 2011 i giudici hanno valutato 4524 querele (archiviate il 67,57 per cento); nel 2016 9039 le querele decise (69,8 per cento archiviate). Dunque, l’allarme è giustificato: tra il 2011 e il 2017 le querele sono raddoppiate. La stessa tendenza si ravvisa nelle condanne definitive: dalle 182 del 2014 alle 435 del 2017. Ancora così per le sentenze definitive al carcere: dalle 35 (sei donne) del 2014 alle 64 (26 donne) del 2017. Situazione identica per le condanne alla pena della multa: dalle 136 (28 donne) del 2014 alle 336 (99 donne) del 2017. “Tutte queste cifre - ha aggiunto Mennella - confermano le tendenze alla querela infondata, come dimostrano i dati sulle archiviazioni: il 70 per cento circa delle querele viene cestinato in fase di indagine preliminare. Sono numeri che descrivono una condizione di attacco alla professione”. Recentemente, dagli uffici giudiziari di Salerno e di Bari, due giudici hanno ritenuto “non manifestamente infondata” la questione di legittimità costituzionale delle norme che prevedono le pene detentive per i giornalisti giudicati colpevoli di diffamazione. La Consulta si esprimerà nella prossima primavera, valutando le norme ordinarie alla luce di quelle costituzionali e della Convenzione europea per la Salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali e alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo si è sempre espressa contro la previsione legislativa del carcere per i giornalisti, oltre che contro le condanne alla reclusione (ammesse soltanto per i reati di istigazione alla violenza o di incitamento all’odio). È a questi principi - ha concluso Mennella - che dovrebbe ispirarsi una legislazione rispettosa del diritto dei cittadini a essere informati”. Torino. Tragedia in carcere, detenuto si impicca in cella di Davide Petrizzelli torinotoday.it, 27 ottobre 2019 Un detenuto tunisino è stato trovato morto impiccato nella sua cella sabato 26 ottobre 2019, nel carcere delle Vallette. La polizia penitenziaria non ha potuto fare nulla per sventare il suicidio, avvenuto nella 12esima sezione del padiglione B. Poco dopo sul posto sono arrivati i sanitari del 118 che hanno constatato il decesso del detenuto. Ricostruisce l’accaduto Vicente Santilli, segretario regionale per il Piemonte del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe: “Oggi, presso la Casa Circondariale di Torino, un detenuto marocchino ubicato presso il padiglione B si è tolto la vita impiccandosi. Il tragico evento è avvenuto alle ore 13,00 circa. L’Agente di Polizia Penitenziaria in servizio presso la Sezione detentiva, mentre si accingeva ad aprire la cella per consentire al detenuto di recarsi ai passeggi, si è accorto immediatamente che il soggetto non dava segni di vita, si era impiccato. Vano è stato il tentativo di rianimarlo, purtroppo non c’è stato più nulla da fare”. Agrigento. “Acqua gialla, percosse e sporcizia”. Il campionario di orrori in carcere di Salvo Toscano livesicilia.it, 27 ottobre 2019 La procura di Agrigento indaga sulla prigione Petrusa. Ecco la relazione choc dei Radicali. La notizia dell’inchiesta aperta dalla procura di Agrigento sulle condizioni di vita all’interno del carcere “Di Lorenzo” in contrada Petrusa è arrivata sabato. L’ha diffusa l’agenzia Ansa, precisando che si tratta di un fascicolo d’inchiesta al momento a carico di ignoti. Ed è solo l’ultimo passaggio di una vicenda costellata da una serie di denunce sulla situazione della casa circondariale agrigentina. Dopo l’ispezione nella struttura, quest’estate, della delegazione del partito Radicale guidata da Rita Benardini che ha redatto una relazione, inviata al Dap e al Garante, anche il procuratore capo Luigi Patronaggio ha fatto, assieme ai carabinieri, una verifica all’interno dell’istituto. Sono stati realizzati video e foto. La visita dei Radicali c’è stata il 17 agosto scorso ed è durata quasi dieci ore. E la relazione che ne è seguita metteva in evidenza una serie di gravi criticità. Le testimonianze dei detenuti erano scioccanti. Alcuni passaggi: “Qui ci tengono in condizioni vergognose, siamo trattati peggio degli animali”, lamentano in tanti; “l’acqua esce gialla, e ci dicono che è potabile”; “nel bagno non c’è areazione, quando vado al gabinetto mi devo vergognare per la puzza che non se ne va”; “nei bagni non funzionano nemmeno gli scarichi”; “i materassi fanno schifo”; “guardate i cuscini: sono consunti”. C’è chi ha lamentato l’assenza o l’inadeguatezza delle cure mediche (soprattutto dentistiche) e la carenza di figure quali l’educatore, lo psicologo, l’assistente sociale. Un detenuto indossa soltanto un paio di mutande di carta e riferisce di essere stato vittima di presunte violenze da parte degli agenti e di aver tentato il suicidio: “Mi hanno lasciato nel passeggio una giornata e una nottata, senza mangiare e senza bere, mi hanno dato pedate e schiaffi, poi mi hanno messo in cella liscia (cioè dotata solo di letto e lenzuolo, ndr) per tre giorni, per tre giorni ho camminato senza ciabatte, poi ho mangiato due viti, è da 20 giorni che ho due viti nella pancia, ho anche provato ad impiccarmi”. Un altro detenuto citato nella relazione racconta: “Ho visto detenuti ammanettati e strisciati per terra; io da qui voglio andare via”. Accuse ovviamente tutte da dimostrare e riscontrare, ma in generale si può dire che il quadro che emerge dal racconto dei reclusi e dalla testimonianza dei radicali è sconfortante. Si legge tra l’altro nella relazione: “Gli ambienti detentivi versano in stato di forte degrado, con muri sporchi, intonaci scrostati, umidità e infiltrazioni d’acqua; le camere detentive non sono dotate di doccia, in violazione del Regolamento penitenziario; non c’è acqua calda nelle celle e spesso anche nelle docce comuni è disponibile soltanto acqua fredda; i servizi igienici sono sprovvisti di finestra e di areazione; l’istituto è privo di riscaldamento funzionante”. La denuncia dei radicali è stata oggetto di una interrogazione parlamentare di Roberto Giachetti (Italia Viva) presentata il 16 ottobre. E di qualche giorno fa è la notizia, riportata dai media locali, di oltre cento richieste di trasferimento in poche settimane, una provocazione lanciata dagli agenti di polizia penitenziaria in servizio presso la casa circondariale agrigentina che lamentano il permanente stato di criticità organizzativa, soprattutto legato all’esiguo numero di poliziotti in servizio. “Purtroppo - dice Pino Apprendi dell’associazione Antigone - sugli avvenimenti negativi prevale l’omertà. Trapelano pochissime notizie, per paura di ritorsioni o per convenienza. Le ultime notizie che sono riuscite ad abbattere il muro del silenzio, ci giungono da Monza, San Gimignano, Agrigento e ci incoraggiano per andare avanti per denunciare i casi di violenza e i soprusi”. Secondo Antigone, le carceri italiane sono le più sovraffollate dell’Unione europea. E Antonino Nicosia, direttore dell’Osservatorio internazionale dei diritti umani (Oidu), auspica per Agrigento un tempestivo intervento del ministro e dei vertici del Dap, mentre il sindacato Osapp chiede di tutelare il personale dell’amministrazione penitenziaria. Intanto, il lavoro della magistratura inquirente fa il suo corso. Terni. Carcere duro, scoppia la “guerra” del caffè ternitoday.it, 27 ottobre 2019 Ai boss è vietato “lo scambio di oggetti di qualunque genere”, boss detenuto a Sabbione fa ricorso. I giudici sollevano la questione di “legittimità costituzionale”. Le regole del 41bis, il carcere duro per i mafiosi, parlano chiaro: contatti limitati con altri detenuti sottoposti allo stesso regime, spazi di “libertà” all’interno del carcere contingentati e divieto di “scambio di oggetti di qualunque genere, quand’anche realizzato tra detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità”. Norme rigidissime che hanno registrato una stretta ancora più ferrea alla fine del 2017, quando i margini di “manovra” dei boss mafiosi sono stati ristretti ancora di più. Norme contro le quali Carmelo Giambò, detenuto proprio in regime di 41bis presso il carcere di Terni, ha presentato ricorso arrivando fino ai giudici della Corte di cassazione e dando il via alla “guerra” del caffè. Tutto nasce da un ordine di servizio emanato dalla direzione dell’istituto penitenziario della casa circondariale di vocabolo Sabbione che, a decorrere dal 15 gennaio 2018, vietava - appunto - “lo scambio di oggetti di qualunque genere, quand’anche realizzato tra detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità”. Nel primo ricorso, Giambò - finito in cella nell’ambito dell’operazione Gotha 6 che nel 2016 decapitò la famiglia mafiosa di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) ritenuta responsabile, tra il 1993 e il 2012, dell’uccisione di 14 persone e del tentato omicidio di una quindicesima - quell’ordine di servizio “avrebbe applicato il divieto di scambio di oggetti anche dai generi alimentari provenienti dai consueti canali (pacco famiglia, acquisti effettuati attraverso il circuito interno dell’istituto penitenziario) benché tale categoria di oggetti fosse destinataria di una disciplina specifica da parte del regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario; e benché da tale scambio non potesse derivare alcun rischio per le finalità previste dall’articolo 41-bis, considerato che i detenuti interessati, appartenendo al medesimo gruppo, erano già stati ammessi a fruire in comune la cosiddetta socialità”. Per questa ragione, Giambò aveva chiesto di essere ammesso, come già in passato, “a scambiare, con i ristretti appartenenti al suo gruppo di socialità, generi alimentari e oggetti destinati all’igiene personale (saponette, bagno schiuma ecc.) o alla pulizia della stanza detentiva (detergenti), ovvero casalinghi (tovaglioli ecc.)”. In realtà, il divieto di scambio di oggetti trae radice dal rischio che, attraverso questo meccanismo, i detenuti avrebbero potuto manifestare “posizioni di supremazia”. Sembra infatti che gli oggetti possano in qualche modo manifestare la disponibilità economica dei detenuti, possano essere usati in segno di riverenza e possano essere - in qualche modo - strumento di comunicazione all’interno del carcere con messaggi che poi vengono veicolati all’esterno. Tutto questo, nonostante i detenuti possano incontrarsi per due ore al giorno, condividendo l’uscita all’aperto e una apposita saletta, seppure “senza possibilità di ascolto dei loro contatti da parte dell’amministrazione penitenziaria”. Tesi che però viene smontata da Giambò secondo il quale “nessun pericolo per l’ordine e la sicurezza sarebbe potuto derivare dallo scambio di siffatti oggetti”. Il primo ricorso ottenne l’approvazione del magistrato di sorveglianza, ma ora la questione arriva fino all’attenzione della Suprema corte. Che ora giudica “rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 41bis nella parte in cui prevede che siano adottate tutte le necessarie misure di sicurezza volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità di scambiare oggetti per i detenuti in regime differenziato appartenenti al medesimo gruppo di socialità, addirittura, di generi alimentari”. Vasto (Ch). Intesa Comune-Casa lavoro detenuti all’opera per la città Il Centro, 27 ottobre 2019 La riabilitazione dei detenuti e degli internati della Casa lavoro di Vasto passa attraverso i lavori di pubblica utilità, come il rifacimento della segnaletica orizzontale. È quanto stabilito dal protocollo d’intesa firmato ieri mattina dal sindaco Francesco Menna e dalla direttrice dell’istituto penitenziario, Giuseppina Ruggero, alla presenza del magistrato di sorveglianza Marta D’Eramo e di una rappresentanza del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. L’accordo consentirà a cinque internati della Casa lavoro di essere impegnati cinque giorni a settimana, quattro ore al giorno, nel rifacimento della segnaletica orizzontale, cioè strisce pedonali e altre scritte presenti sulla pavimentazione stradale con la funzione di regolamentare la circolazione. Trattandosi di lavori socialmente utili non è prevista una retribuzione: il Comune si farà carico della copertura assicurativa, oltre a mettere a disposizione strumenti ed attrezzature. Questo nuovo progetto fa il paio con altre attività in atto da anni, come “Marina mia” che vede impegnati internati e detenuti nei lavori di pulizia della riserva naturale di Punta Aderci ed ha anche la finalità di implementare le attività occupazionali in favore dei reclusi che, nella Casa lavoro di Vasto, scarseggiano. “L’iniziativa si concretizza oggi con la stipula di un protocollo d’intesa tra le parti, che hanno manifestato da subito la propria disponibilità a collaborare in sinergia per sviluppare iniziative di reintegrazione sociale dei detenuti”, spiega l’assessore alla polizia municipale, Luigi Marcello, “il protocollo, che ha la validità di 24 mesi ma non escludiamo possa essere rinnovato”, per poi illustrare che: “Il personale debitamente formato sarà coordinato da un tutor nominato dall’amministrazione comunale e farà riferimento al comandante Giuseppe del Moro, deputato alla pianificazione delle attività. Siamo certi che tale iniziativa potrà rappresentare un ottimo programma di recupero per cui non escludiamo sin da ora la possibilità di poter confermare alla scadenza il rinnovo della convenzione”. Molto soddisfatte la direttrice Giuseppina Ruggero e il magistrato di sorveglianza D’Eramo. Treviso. In carcere con il Quotidiano del Piave: visita a “Santa Bona” di Giancarlo De Luca qdpnews.it, 27 ottobre 2019 Entrare in un carcere non è mai un’esperienza banale, nemmeno se vissuta da giornalista per un reportage. Quando l’agente di turno fa girare la chiave nella toppa, il rumore metallico è proprio quello delle tante scene di carcere dei film e un groppo allo stomaco è quasi inevitabile. Ma l’emozione inizia ancora prima, fuori del grande cancello d’ingresso della casa circondariale di “Santa Bona” di Treviso. A colpirci sul subito è il colore azzurro della struttura, voluto dallo storico direttore, Francesco Massimo, che ha unito il desiderio di dare allo stabile un colore vivace con la passione calcistica per il Napoli. Superato il controllo di sicurezza veniamo ricevuti dal direttore Alberto Quagliotto e dal comandante della polizia penitenziaria Massimo Carollo. Prima di cominciare la visita, sottoponiamo il direttore a un “fuoco di fila” di domande nel suo ufficio e lui amabilmente risponde a tutte. Il carcere ospita attualmente 220 detenuti a fronte di una a capienza di 140; un buon tasso di sovraffollamento che è comune a tutti gli istituti penitenziari del nord Italia. Di questi detenuti 114 (poco meno del 50%) sono italiani, gli altri sono di diverse nazionalità, dal Nord Africa all’Est Europa con qualche new entry da Afghanistan e Pakistan. I reati commessi? Tutti i reati comuni, cioè i reati previsti dal codice penale esclusi i reati associativi di stampo mafioso e i reati a particolare riprovazione sociale, come ad esempio i reati legati alla pedofilia, alla pedopornografica e quelli consumati ai danni di donne e minori. Rientrano pertanto i reati legati alla sfera patrimoniale e contro la persona (dall’omicidio, al furto, alla rapina fino allo spaccio di droga). Ergastolani? Attualmente Santa Bona ne ospita uno. Il discorso si è poi spostato sul reinserimento sociale dei detenuti. Per loro la scuola è il primo step di ripensamento del proprio vissuto: secondo il direttore il reinserimento parte “dall’essere più che dal fare”. I dentuti hanno poi la possibilità di imparare una professione, altro cardine per un futuro reingresso nella società. Si parte da attività elementari, volte a far acquisire una dimensione del lavoro come impegno, a cominciare dal rispetto dell’orario e delle tempistiche. Poi c’è un’ evoluzione che porta il detenuto ad acquisire specialità più professionalizzanti. Gli agenti carcerari sono 140, con una leggera carenza, ma in numero sufficiente per garantire la sicurezza dell’istituto. Chiediamo se sono più le reiterazioni di reato o i ravvedimenti. Il direttore ci spiega che alcuni detenuti che aveva visto 25 anni fa ai suoi inizi li ritrova, ma fortunatamente tante persone non le ha più riviste. Fondamentale per il ravvedimento è una famiglia che riaccolga il detenuto al ritorno in libertà e un lavoro. Evasioni? Questa è la domanda che per scaramanzia non si dovrebbe mai fare. L’ultima evasione dal carcere di Treviso fu quella di Prospero Gallinari nel 1977, prima della legge Gozzini. Nel 2019 i modi per evadere sono i mancati rientri dai permessi premio e dalle misure alternative, eventi che fanno scalpore. Secondo il direttore, il rapporto tra accesso alle misure alternative ed evasioni è minimale; un “rischio d’impresa” che la legislazione si è presa per rispondere all’articolo 27 della costituzione secondo il quale la pena deve tendere alla rieducazione del condannato e al suo reinserimento nella società. Dopo questa lunga chiacchierata inizia la nostra “vera” visita all’interno della casa circondariale. Chiave dopo chiave, cancello dopo cancello entriamo nel cuore del carcere, nelle aree adibite ai detenuti. Lungo il nostro percorso ci imbattiamo in un campo di calcio di grandezza regolamentare: ci dicono che anni or sono una rappresentativa con qualche giocatore del Milan abbia calcato il terreno di gioco del “Santa Bona”. Seguiamo la traccia del direttore e visto che il “reinserimento sociale dei detenuti” comincia dalla scuola, andiamo a visitare le aule. L’educatore con qualifica di funzionario giuridico pedagogico è il dottor Siro Simonetto. Gli studenti sono circa 130. L’amministrazione penitenziaria dà a tutti i detenuti che la richiedono la possibilità di seguire a rotazione un corso educativo. Altre porte si aprono ed entriamo in un luogo di culto, una chiesa cristiana. I detenuti di altre fedi religiose sono liberi di professare il loro credo nelle celle. Arriviamo nei locali dove i detenuti possono imparare una professione. A guidarci in quest’area è Marco Toffoli, presidente di “Alternativa Ambiente”, la cooperativa che opera a Santa Bona da trent’anni, con il fine di creare opportunità di inserimento lavorativo per i detenuti. Questi ultimi per accedere ai vari percorsi vengono selezionati e solo successivamente assunti, dopo aver superato un colloquio di lavoro. I detenuti percepiscono per il loro lavoro una retribuzione come qualsiasi altro lavoratore. Si va da alcune semplici mansione, come d esempio l’etichettatura di bottiglie di vino, a lavori più complessi legati all’elettronica, il tutto in collaborazione con aziende leader del territorio. Alcuni detenuti si occupano della digitalizzazione dei documenti dell’amministrazione penitenziaria. Si tratta di un progetto pilota, finanziato dal Ministero di Giustizia. Nel perimetro del carcere esiste anche una fungaia e un piccolo allevamenti di quaglie. Parliamo anche con il medico dell’Ulss 2 Marcon Matteo, che opera con i detenuti come un qualsiasi altro medico di base. Da lì ci accompagnano nell’area che ospita i detenuti in isolamento. Con il termine isolamento si intende la separazione di un detenuto dal resto della popolazione carceraria. Sicuramente è un luogo che ci colpisce e che un po’ ci intristisce anche se, grazie al progetto “abilmente” realizzato dalla cooperativa “Alternativa Ambiente” attingendo a un finanziamento della Regione Veneto, si è cercato di dare “vita” allo spazio dove questi detenuti stanno nell’ora d’aria, addobbandolo per creare un clima migliore. Arriviamo al parlatorio del carcere. Nessun vetro o barriera, ma anzi pareti disegnate con alberi e fiori. Tanto colore e sgabelli di differenti altezze; è chiara l’attenzione a rendere “caldi” i luoghi dove i carcerati possono incontrare i familiari. Lo si nota anche nel giardino esterno, dotato di giochi per bimbi. Altri spazi sono dedicati ai colloqui dei detenuti con i loro avvocati e con le autorità giudiziarie. Poi ci sono i lavori “domestici”, effettuati dai detenuti assunti direttamente dall’amministrazione penitenziaria. Rientrano in questa fascia le pulizie, la lavanderia e la cucina: in questo caso si predilige il criterio della rotazione. Prosciutto cotto, wurstel e fette biscottate con marmellata a pranzo e una cena a base spaghetti aglio olio e peperoncino sono il menù del giorno. La nostra visita si conclude nell’atrio di ingresso, dove ci restituiscono i documenti e gli oggetti personali che avevamo lasciato in deposito. Ce ne adiamo con la sensazione che il carcere di Santa Bona sia una struttura molto vecchia, in parte obsoleta, che l’amministrazione penitenziaria ha cercato di rendere il più possibile umana, con la speranza che per chi ha sbagliato e sta saldando il proprio debito, possa diventare il luogo dove gettare le basi per il reinserimento nella società. Genova. Dietro le sbarre c’è “molto di più” di Alessandra Ballerini La Repubblica, 27 ottobre 2019 Così recita il logo delle magliette create dalle persone che sono detenute nel carcere di Marassi. Hanno ragione loro. Dentro c’è molto di più. Ma molto per forza di cose, resta fuori. Ed altro, poi, manca senza ragione apparente e senza necessità. Manca la libertà, ovviamente. E tutti i suoi indispensabili accessori e le sue conseguenze. Mancano gli affetti, il lavoro (se non poco e per pochi), le relazioni, il cibo decente. Manca il mare, lo sport. Manca l’intimità della solitudine e la possibilità di scegliere con chi condividere gli spazi, peraltro angusti, come possono essere quelli di una cella in cui vivono altre 5 persone sconosciute. Manca l’aria e la luce. Mancano molti suoni e la possibilità di insonorizzarne altri. Manca un orizzonte nel quale fare spaziare occhi e anima. Manca la possibilità di amare fisicamente. Ma “dentro” c’è comunque “molto di più” di queste (e molte altre ) mancanze. Come recita il logo delle magliette create dalle persone detenute nel carcere di Marassi e vendute dalla bottega equo solidale. Molto di più di quanto ci si immagina. Molto di più di quanto l’insano sistema carcerario tenti di sottrarre a chi dentro è costretto a vivere o ci lavora. Dentro, nonostante il sovraffollamento endemico, nonostante il disagio strutturale e la sofferenza ineludibile, persiste in qualche forma la speranza, a volte, ma non necessariamente, sostenuta dalla fede. Speranza di uscire, ovviamente, prima o poi, ma molto meglio prima. Di lavorare. Di ricevere una visita o una lettera. Di essere ricordati, perdonati e attesi. Speranza in nuove leggi o anche solo nel rispetto delle norme già esistenti ed in particolare dei precetti costituzionali e convenzionali che proteggono la dignità umana come bene primario e inviolabile, che vietano le pene inumane e impongono la rieducazione come finalità della detenzione. Speranza nel cambio di giro della ruota della fortuna. Di essere creduti o almeno ascoltati. Dentro ci sono le storie, tutte straordinarie, di persone normali che sono inciampate spesso solo perché non hanno trovato un sostegno adeguato, che hanno perso l’equilibrio e che sono, infine, cadute. Dentro, tra i 728 uomini che affollano il nostro carcere cittadino (con una capienza di 456 persone) puoi incontrare cinque signori un po’ agèe, costretti sulla sedia a rotelle, e guardandoli non riesci ad immaginare pena peggiore di questa doppia privazione della libertà, di questo vivere in un corpo che è già una gabbia rinchiuso a sua volta in un’altra gabbia, che ti costringe per qualsiasi bisogno a dipendere da altri che non ti sei scelto. Dentro ci sono oltre trecento persone che hanno problemi di dipendenza. Tantissimi che soffrono di varie forme di disagio psichico. Dentro c’è la nostra gioventù: moltissimi ragazzini di 18 e 19, con gli sguardi ancora puliti e spersi. “Il colore dell’inferno”. Basta inferni carcerari, è tempo di giustizia riparativa di Eva Cantarella Corriere della Sera, 27 ottobre 2019 Umberto Curi riflette in un testo, edito da Bollati Boringhieri, sugli scopi del diritto penale e sulla necessità di adottare un approccio innovativo. Perché punire? Quali possono essere le ragioni per le quali uno Stato può infliggere ai cittadini un male, qual è ovviamente la pena, in tutte le sue possibili forme e gradazioni? Come sempre, a chiederselo per primi sono stati i Greci, ai quali dobbiamo le risposte iniziali a un problema che non cessa di riproporsi, e a cui Umberto Curi ha dedicato un importante e ricchissimo libro, “Il colore dell’inferno” (Bollati Boringhieri). Perché punire, dunque? Protagora, nell’omonimo dialogo platonico, sostiene che la pena ha funzione riabilitativa: “Nessuno punisce chi commette ingiustizia perché la ha commessa, a meno che non si abbandoni a un’irrazionale vendetta, come una belva. Chi punisce secondo ragione lo fa in previsione del futuro, perché chi viene punito non commetta più ingiustizia, né la commettano altri, che vedono costui punito”. A nostra conoscenza, Protagora è il primo critico delle teorie retributive e il più lontano precursore di quelle riabilitative, che a distanza di secoli torneranno in autori come Cesare Beccaria o Jeremy Bentham. Ma il rapporto tra vendetta e pena non è che il primo dei temi affrontati da Curi, che al termine di una lunga analisi delle “immagini della giustizia” affronta il problema delle origini e della funzione della pena, a partire dal significato del termine greco poiné, che in Omero indicava una compensazione data all’offeso dall’offensore. E poiché la misura della poiné era commisurata alla gravità dell’offesa, ne consegue la coincidenza della pena originaria con un castigo (al quale, considerando che procurava sofferenza all’offensore senza alleviare il dolore della vittima, era affidata anche una funzione di purificazione e di riscatto). Ed eccoci a uno snodo importante: di fronte a problemi quali l’insoddisfazione per gli esiti della pena detentiva, la perdita di legittimazione delle funzioni rieducative del carcere e il disconoscimento da parte del sistema giudiziario dei diritti delle vittime, Curi volge la sua attenzione e le sue speranze alla recente “giustizia riparativa”. Diversa sia da quella “riabilitativa” sia da quella “retributiva”, questa giustizia, che esclude che gli interessi dell’autore del crimine e delle vittime siano diametralmente opposti, ha chiesto e in molti casi ottenuto che alle vittime venisse dato il ruolo di attori nel processo, così che questo potesse finalmente riparare i diversi mali provocati a tutti coloro che erano stati coinvolti dal crimine. Sarà in grado questa giustizia, che non pone più al centro dell’approccio alla pena la sua proporzione con la colpa, ma il rapporto tra le parti, di configurare una terza via, alternativa sia alla concezione retributiva che a quella rieducativa? Potrà umanizzare e razionalizzare il sistema penale in modo che, al di là dei progressi fatti nei secoli, la pena smetta di avere quello che Simone Weil definisce il “colore dell’inferno” che dà il titolo al libro? Lasciandoci con questa domanda Curi conferma la sua straordinaria capacità di percorrere con competenza e passione la lunga strada che dall’antichità conduce a noi. E una volta di più non possiamo che essergliene grati. “Solo Mia”. Dalla detenzione storie vere di donne, di Annalisa Graziano lattacco.it, 27 ottobre 2019 Non solo detenute: madri, figlie, mogli lontane dagli affetti, con ferite nascoste dai colori scuri dei tatuaggi e dagli sguardi freddi. Storie vere di donne, liberate attraverso lo strumento della narrazione: dalla realtà degli istituti penitenziari, esito di un lavoro sul campo di lunga esperienza, nasce “Solo Mia” (Edizioni la Meridiana, 2019), il nuovo libro di Annalisa Graziano. Dopo Colpevoli, che affrontava in forma di reportage le vicende dei detenuti, l’autrice e giornalista torna nei luoghi di detenzione ma lo fa attraverso il dispositivo del romanzo, allo scopo di indagare il demone ricorrente dell’universo femminile: la violenza. Mercoledì 25 settembre, alle ore 18.30, nello spazio live della libreria Ubik di Foggia, Annalisa Graziano ritrova il pubblico della sua città per l’anteprima assoluta della presentazione del suo nuovo libro, evento d’apertura della XIII edizione della Festa del Volontariato, in programma il 28 e 29 settembre. “Solo Mia” raccoglie storie di donne dal carcere e non, racconti reali riportati all’interno di una cornice di fantasia che mettono al centro storie incredibili, fatte di violenza subita e a volte taciuta, attese tradite, affetti soffocati e speranze. Storie di dolore ma anche di svolte e di rinascita, che affrontano temi delicati come la maternità, il rapporto con i familiari, la detenzione, l’abuso: a trionfare, però, è l’importanza dei legami, del riconnettersi alla società e alle relazioni, nonostante i traumi vissuti. Il libro di Annalisa Graziano, va sottolineato, è stato inserito dall’Istituto Penitenziario di Foggia in un percorso incentrato sulla prevenzione del femminicidio. Disuguaglianze: tre strade contro la povertà di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi Corriere della Sera, 27 ottobre 2019 La disuguaglianza è particolarmente inaccettabile quando si accompagna a immobilità sociale, cioè quando i ricchi rimangono ricchi per generazioni anche se fanno poco o nulla, mentre i poveri rimangono affossati nella povertà anche se si impegnano per uscirne. Ci sono tre tipi di disuguaglianza: fra Paesi, all’interno di uno stesso Paese e fra diverse generazioni. Negli ultimi decenni la disuguaglianza nel mondo è diminuita, grazie al commercio internazionale ed alla globalizzazione. Paesi poveri, come Cina e India, e più recentemente anche molti Paesi africani e dell’America Latina, oggi crescono più delle nazioni ricche. Quarant’anni fa il reddito pro capite degli Stati Uniti era 24 volte maggiore di quello indiano, e questo anche tenendo conto del fatto che in India la maggior parte dei prodotti costa molto meno che in America. Oggi, nonostante l’India continui a restare relativamente povera, la distanza con gli Stati Uniti si è molto ridotta. La differenza nel reddito pro capite tra un cittadino statunitense e uno indiano si è dimezzata: da 24 a 12 volte. Il risultato è ancora più straordinario per la Cina: da 24 volte a 5. All’interno dei Paesi, invece, la disuguaglianza è salita. Soprattutto negli Stati Uniti, ma anche in molti altri paesi, compresa la Cina. In particolare è molto aumentato il reddito dell’1 per cento più benestante dei cittadini, il cosiddetto “top 1 per cent”. Negli Stati Uniti quarant’anni fa il 10 per cento del reddito nazionale prima delle tasse andava al top 1 per cent, oggi quella quota è salita al 20 per cento (sebbene la tassazione la riduca al 16 per cento). Il fenomeno è ancora più accentuato per il “top 0,01 per cent”. Il reddito di questo piccolo gruppo (solo 23 mila persone su una popolazione di oltre 230 milioni) in 40 anni si è moltiplicato di quasi 5 volte (+450 per cento, +420 per cento dopo le tasse). Il reddito della metà più povera della popolazione nello stesso arco di tempo è aumentato solo dell’un per cento (sebbene tasse e redistribuzione abbiano fatto salire quella quota al 21%.) L’aumento della disuguaglianza è stato molto inferiore in Europa: in quarant’anni, prima di tasse e redistribuzione, la quota dei top 1 per cent è salita dal 7,5 per cento all’11 per cento, a fronte di un aumento dal 10 al 20 negli Stati Uniti. In Italia l’aumento di questa misura di diseguaglianza è stato ancor meno accentuato: dal 7,5 al 9,4 per cento. (Per tutti questi numeri si veda il “World Inequality Database”.) La disuguaglianza è particolarmente inaccettabile quando si accompagna a immobilità sociale, cioè quando i ricchi rimangono ricchi per generazioni anche se fanno poco o nulla, mentre i poveri rimangono affossati nella povertà anche se si impegnano per uscirne. Una ricerca di uno di noi (Alberto Alesina, con Armando Miano e Stefanie Stantcheva “Social mobility and preferences for redistribution”) evidenzia come europei e americani siano particolarmente avversi alla disuguaglianza e disposti a combatterla quando essa si accompagna a immobilità sociale. E di immobilità sociale ce n’è molta, e persiste anche per secoli. La ricerca di Guglielmo Barone e Sauro Mocetti, in un lavoro recente presso la Banca d’Italia (“Intergenerational Mobility in the very long run: Florence 1427-2011”), ha dimostrato come le famiglie fiorentine oggi più ricche abbiano lo stesso cognome delle famiglie più ricche nella Firenze del ‘500. Una caratteristica evidente soprattutto in alcune professioni (avvocati, orafi, banchieri) dove pare esistere un “pavimento di vetro” che da una generazione all’altra protegge chi ha avuto la fortuna di nascere in queste famiglie dal rischio di diventare povero. Il terzo tipo di disuguaglianza è quello fra generazioni. Sistemi pensionistici sbilanciati ridistribuiscono reddito dai giovani che lavorano agli anziani che ricevono una pensione senza avervi concorso a sufficienza con i loro contributi. Certo, un po’ di questa redistribuzione fra generazioni è “compensata” all’interno della famiglia, nel senso che spesso la pensione dei genitori contribuisce a sostenere i figli che ancora non lavorano. Ma questa compensazione crea inutili dipendenze economiche infra-familiari che ritardano l’emancipazione dei giovani dalla famiglia e soprattutto interferiscono con la mobilità geografica e sociale. Chi oggi è giovane non potrà permettersi i benefici pensionistici dei suoi genitori. Oltre ad ereditare il macigno del debito pubblico. Che cosa fare dunque? Prima di tutto rifiutare il protezionismo che ricaccerebbe i Paesi emergenti nella povertà senza aiutare (anzi danneggiandola) la crescita dei Paesi più ricchi. I cittadini delle nazioni danneggiate dalla globalizzazione, che ha trasferito posti di lavoro all’estero, devono essere aiutati: ma non impedendo il libero commercio che resta il maggior fattore di crescita nel mondo. Per arginare la disuguaglianza all’interno di un Paese, e aumentare la mobilità sociale, a noi pare che una delle strade da seguire possa essere quella di tassare, con opportuni accorgimenti legati al reddito e con aliquote progressive, eredità e donazioni infra-familari “inter vivos”. E usare il gettito per finanziare politiche che favoriscano le pari opportunità. A questo andrebbe accompagnata la detassazione delle quote di eredità destinate a enti no-profit (ospedali, scuole, università) per finanziare, ad esempio, borse di studio per i meno abbienti. Così si ridurrebbe il trasferimento diretto di ricchezza fra generazioni di ricchi, finanziando al contempo spese che aumentano le pari opportunità, e quindi favorendo la mobilità sociale. Certo, le tasse sull’eredità, così come tutte le imposte, hanno effetti distorsivi: riducono il risparmio dei più ricchi. Ma è un costo che val la pena sopportare, soprattutto oggi che più del risparmio serve il consumo. E non c’è dubbio che tasse sulle eredità siano meno distorsive di aliquote elevatissime sul reddito della parte più ricca della popolazione. Infine, per le disuguaglianze generazionali, la ricetta è ovvia. Si deve legare l’età pensionabile all’aspettativa di vita, rafforzando una norma già in vigore in Italia dal 2012. Così l’età della pensione cresce parallelamente alla speranza di vita, altrimenti i giovani, con il loro lavoro, dovranno sostenere anziani che vivono sempre più a lungo e lavorano per una parte sempre più breve della loro vita. Esattamente il contrario degli effetti di Quota 100. Sul debito pubblico ormai il danno è stato fatto. Il debito c’è, e rimarrà una montagna sulle spalle delle nuove generazioni. Ma almeno non rendiamola più pesante. La trincea antidroga. Parlano gli esperti di Liana Milella La Repubblica, 27 ottobre 2019 Si possono conoscere tutti i tossicodipendenti di un territorio? “Si devono conoscere perché un tossicomane conosciuto è pericoloso per sé e per gli altri e uno sconosciuto lo è doppiamente. Si possono conoscere, e non è neanche difficile, se si entra in quel territorio e se ogni persona che viene intercettata può avere accesso facile alle terapie. Perché chi fa uso di droghe è malato e va portato in comunità e non in galera dove entra tossicodipendente ed esce spacciatore”. La prima ricetta per curare la Roma delle trenta piazze di spaccio terra di nessuno è quella di un medico. Massimo Barra, fondatore di Villa Maraini, agenzia nazionale per le tossicodipendenze della Croce Rossa, lancia anche in Italia la pre-arrest deflection, la strategia con la quale negli Stati Uniti stanno affrontando l’emergenza dei 70 mila morti per overdose degli ultimi tre anni. “Ci vogliono poliziotti di quartiere che possono avviare i tossicodipendenti al circuito terapeutico. Oggi se una mamma va a chiedere aiuto rischia che il proprio figlio diventi un fascicolo o che finisca in galera. Sa quante persone abbiamo salvato da overdose con il nostro camper per strada? 2.500 in 20 anni. Non arrivavano vivi in ospedale. Ecco, ci vorrebbero 30 unità di contatto nelle 30 piazze dello spaccio”. Piazze in cui, però, al momento entrare è un’impresa. Figuriamoci riuscire ad elaborare una seria strategia di contrasto che metta insieme repressione e prevenzione e che riesca a sottrarre ai clan quell’enorme fetta di città in cui la droga arriva, si taglia, si confeziona, si spaccia, si consuma. Alfonso Sabella è tornato a fare il magistrato ma la sua esperienza da assessore alla legalità a Roma nella giunta di Ignazio Marino dopo Mafia Capitale gli fa dire: “Qui tocca prendere atto che le piazze di spaccio sono pezzi di città sottratti alle istituzioni, protetti da sentinelle, pitbull, cancelli blindati, telecamere, in cui non si entra. Ragazzi spiantati diventano “turnisti” come fosse un posto di lavoro, 100-200-300 euro alla settimana senza neanche capire cosa rischiano. È lì che tocca intervenire: ci vuole la scuola, ci vogliono i servizi, ci vuole l’illuminazione, il decoro urbano. Il decreto Minniti diceva più decoro più sicurezza. E così è. E indagini a lungo periodo perché prendere pesci piccoli non serve proprio a nulla. E i grandi soldi oggi continuano a farsi con la droga, gli appalti, i rifiuti al confronto sono bazzecole”. L’esercito per strada non lo vuole nessuno. Roma non sarà Gotham City, come dice il capo della polizia Franco Gabrielli, ma certo l’attività di repressione non riesce ad arginare un fenomeno che ormai da anni è uscito dall’agenda politica e che riemerge solo quando fatti di sangue come quelli che si sono ripetuti negli ultimi mesi a Roma rivelano il loro denominatore comune proprio nello spaccio di droga. “Di pusher ne individuiamo e arrestiamo a decine, ma per venti che ne prendi altrettanti ne spuntano il giorno dopo - è l’analisi di un investigatore della polizia impegnato in prima linea nel contrasto al traffico di stupefacenti a Roma - Quelli che hanno sparato a Manuel Bortuzzo erano di Acilia, quelli che hanno sparato a Luca Sacchi di San Basino. Sono tutti ragazzi cresciuti a pane e malavita, hanno la stessa età delle loro vittime ma vittime finiscono per essere anche loro. Nascono in un contesto criminale, guadagnano facile e comprano vestiti griffati, il più delle volte sono tossicodipendenti che si procurano così qualche centinaio di euro e le dosi per loro. Noi lavoriamo per individuare i capi-piazza ma l’unico modo per incidere veramente è la prevenzione”. A questi giovani e ai tanti come loro arruolati nelle piazze dello spaccio Nicola Morra, presidente della commissione parlamentare Antimafia, vuole offrire scuola, cultura e bellezza per ritrovare la loro capacità di cambiare il mondo. “Sì, da insegnante ma anche da presidente dell’Antimafia lancio un invito all’educazione alla bellezza come ha fatto Peppino Impastato e la continua attenzione alle scuole di Falcone e Borsellino. I giovani sono coloro che dovrebbero avere un pensiero strategico per cambiare le cose e invece cercano soddisfazione buttandosi a capofitto nel buco nero delle droghe ma anche dell’alcol. Ed è davvero allarmante questa devastante moda tra gli adolescenti del cicchetto a un euro”. E poi c’è la politica. Che tace. Solo i radicali rilanciano la storica battaglia per la liberalizzazione della cannabis. “Bisogna guardare in faccia la realtà - dice Riccardo Magi di +Europa - è il fallimento del proibizionismo. La politica trovi il coraggio di assumersi le sue responsabilità: nei Paesi in cui è stato fatto legalizzata la cannabis ha diminuito i consumi e spezzato la filiera dello spaccio”. Franco Roberti: “L’unica via per battere le mafie è la legalizzazione” di Liana Milella La Repubblica, 27 ottobre 2019 “Sono sempre convinto che il Parlamento dovrebbe affrontare in modo serio e approfondito il tema della legalizzazione delle droghe leggere, che reputo una strada percorribile per salvare i nostri ragazzi e al contempo per battere le mafie, nonostante su questo tema ci siano autorevoli posizioni radicalmente contrarie”. Dice così Franco Roberti, oggi parlamentare europeo del Pd, ma magistrato per una vita. Ha scritto Michele Serra su “Repubblica” che “liberalizzare le droghe leverebbe alle mafie una fetta enorme di potere e di reddito, e leverebbe dalle strade molte situazioni borderline, di conflitto e di ricatto”. Lei, da procuratore nazionale antimafia, ha lanciato l’idea nel 2015. Adesso lo direbbe ancora? “Cerchiamo innanzitutto di fare chiarezza tra due ipotesi diverse. Una cosa è la legalizzazione, tutt’altra la liberalizzazione”. Apparentemente però sembrerebbero uguali… “No, non lo sono assolutamente. La legalizzazione, qual era prevista nel ddl Della Vedova, prevedeva che la produzione e la commercializzazione dei cannabinoidi avvenissero sotto il rigoroso controllo dello Stato. Ipotesi che mi sembrava meritevole di attenzione e che avrebbe consentito un duplice risultato positivo: togliere fette di mercato per questo tipo di droga alle mafie e agli spacciatori di strada, e assicurare un prodotto meno dannoso per la salute rispetto a quello che oggi si vende nelle piazze di spaccio”. C’erano dei dati a supporto di una simile ipotesi? “La proposta nasceva proprio dalla constatazione che, nonostante l’impegno di polizia e magistratura, il consumo di cannabinoidi naturali era triplicato negli ultimi anni, mentre quello delle droghe pesanti, grazie all’azione di contrasto dello Stato, aveva subito una contrazione. A questa proposta si accompagnava l’idea di potenziare il contrasto ai traffici illeciti di cannabinoidi. Tant’è che io andai ben due volte in Albania, uno dei maggiori produttori di questo tipo di droga, per favorire la cooperazione anche attraverso squadre investigative comuni”. Invece come funzionerebbe la liberalizzazione e quali droghe riguarderebbe? “Intanto chiariamo che parliamo sempre di cannabinoidi, cioè hashish e marijuana, non certo di cocaina, eroina e droghe sintetiche. Per liberalizzazione s’intende consentire la libera produzione e commercializzazione delle droghe leggere senza il controllo dello Stato”. Sta dicendo che anche io potrei coltivare sul mio terrazzo o nel mio giardino queste pianticelle e nessuno potrebbe avere da ridire? “Questa equivarrebbe a una produzione indiscriminata, senza alcuna autorizzazione o controllo pubblico, che non impedirebbe gli interessi delle mafie”. Scusi, ma perché? Se queste droghe leggere fossero più disponibili che bisogno ci sarebbe di rivolgersi allo spacciatore? Basterebbe anche chiedere a un amico che ce l’ha sul terrazzo… “Ma così ricadremmo pari pari nell’illegalità, perché non ci sarebbe alcun controllo sia sul piano della qualità, che del costo e della vendita. Non solo, il pericolo sarebbe ben maggiore perché dietro al produttore privato non controllato si potrebbe nascondere facilmente il mafioso”. Ma lei quattro anni fa cosa propose? “Io ero favorevole ad esaminare seriamente l’ipotesi della legalizzazione, ma mi trovai di fronte al muro di chi non voleva sentirne parlare, e che rappresenta la maggioranza nel nostro Paese, che io rispetto perché si tratta di persone autorevoli in questo campo sia dal punto di vista giudiziario, sia sanitario. Di fronte a questa levata di scudi il ddl Della Vedova non andò avanti. E penso francamente che si continuerà a non parlarne”. Ma adesso, di fronte a storie come quella di Roma, la sua proposta sarebbe ancora la stessa? “Sì, certo. Io sono sempre favorevole a fare una discussione seria sull’ipotesi della legalizzazione - sia chiaro dei soli cannabinoidi - ma solo nei termini e per le ragioni che ho appena detto”. In concreto, che effetto avrebbe la legalizzazione sulle organizzazioni criminali? In fondo sono solo droghe leggere, quindi un fatturato limitato... “Non è affatto vero, perché il commercio delle cosiddette droghe leggere è molto diffuso e, in alcuni paesi come l’Albania, raggiunge un fatturato molto alto nonostante gli sforzi delle autorità di quel Paese. Tenga conto che la droga arriva da noi e in Puglia ci sono stati omicidi legati proprio a questi traffici”. Seguiamo ancora il ragionamento di Serra: “È inevitabile chiedersi quanti bravi ragazzi e ragazze sarebbero ancora vivi in un Paese dove l’hashish si compra in farmacia”. Si può davvero ipotizzare uno scenario del genere? “In verità quella di Serra mi sembra una semplificazione. Noi sappiamo bene che nelle piazze di spaccio a Roma e nelle grandi città si vende di tutto, non solo il fumo. Non dimentichiamo quello che è accaduto due mesi fa con l’omicidio di Mario Cerciello Rega. E prima ancora con la terribile morte della giovane Desirée Mariottini. Questi problemi non si risolvono perché è più facile rivolgersi al mercato criminale e comprare quello che si trova. Quindi alla legalizzazione del fumo si dovrebbe sempre accompagnare una più forte repressione di tutti i traffici di droghe, se vogliamo veramente salvare le vite dei nostri ragazzi”. Achille Serra: “La droga vero dramma sociale. Si vince dalla scuola” di Lorenzo d’Albergo La Repubblica, 27 ottobre 2019 “Mancano luoghi di aggregazione e la disoccupazione è alta. Anche per questo. Ma alla legalizzazione resto contrario”. Per capire come Roma sia finita in ginocchio, schiacciata sotto il peso delle 5 tonnellate di droghe sequestrate nel 2018 dalle forze dell’ordine, il prefetto Achille Serra invita a partire dalle basi. Dalle cause della piaga che ha macchiato ancora una volta di sangue le strade della capitale. “C’è un fattore sociale - l’ex titolare di palazzo Valentini - uno investigativo, uno legato alla prevenzione. Poi c’è la giustizia”. Prefetto, partiamo dalla cronaca. Dopo l’omicidio del carabiniere Mario Cerciello Rega, il caso di Luca Sacchi. Un altro delitto legato agli stupefacenti… “Quando si parla di Roma c’è sempre un’attenzione particolare. Ma il dramma è diffuso ovunque, anche nei paesini. Il problema è la sua riconoscibilità a livello sociale. Negli anni 80 dirigevo la squadra mobile e non si parlava d’altro. Ora la droga pare essere diventato un problema secondario. Se ne parla quando muore Desirée (la ragazza di Cisterna di Latina trovata senza vita un anno fa in uno stabile di San Lorenzo, ndr) o per Cerciello Rega. Poi il silenzio”. Intanto nel giro finiscono sempre di più giovani e giovanissimi… “Spacciare rende e la disoccupazione giovanile, che supera il 30% in Italia, pesa. Ma lo smercio è diventato un modo per arrotondare anche per chi ha già un lavoro. Nelle periferie mancano sempre più punti di aggregazione sani e il passo verso lo spaccio purtroppo è semplice”. Difficile, invece, pare il contrasto al fenomeno. A fronte dei sequestri, il sistema criminale continua a crescere. Come si ferma? “Arrivare a uno spacciatore è difficile. In divisa è impossibile, in borghese si appare subito come un estraneo rispetto alla piazza. E quando scattano le manette è la giustizia il problema. Serve una riforma vera”. Di che tipo? “I modelli che funzionano sono anello americano e l’inglese. Processi immediati e pene da scontare senza troppi cavilli, che siano brevi o lunghe. Qui l’iter è troppo lungo”. Rimane un punto, la prevenzione. La politica si lamenta spesso per lo scarso numero di agenti in città… “Il personale di polizia e carabinieri fa molto, tanto. Un lavoro macroscopico. Ma gli organici vanno rinforzati. Quella delle scorte, per esempio, è una questione da affrontare. Ci sono migliaia di uomini che non possiamo perdere così”. Intanto lo spaccio ha cambiato forma. Ora è a domicilio… “Aspettiamo la conclusione dell’inchiesta sulla morte di Luca Sacchi. Posso dire di essere rimasto impressionato dalla madre del ragazzo che ha sparato. Le darei una medaglia. E dico purtroppo, perché quella signora è un’eccezione. Chi altro andrebbe a denunciare il figlio? Sui genitori devono lavorare le scuole, va ristabilito un contatto, uno scambio, per parlare ai ragazzi prima che sia troppo tardi”. Per uscire dalla crisi c’è chi propone la legalizzazione delle droghe leggere. Cosa ne pensa? “Sono contrario. Conosco gli effetti. Ho visto centinaia di persone passare dall’hashish a droghe più pesanti. E il traffico illegale, poi, non smetterebbe lo stesso. Ci sono interessi economici forti dietro”. Solo legalizzare le droghe leggere fermerà i clan di Roberto Saviano La Repubblica, 27 ottobre 2019 Roma da oltre un decennio è diventata l’hub della coca (e non solo) in Italia eppure di questo non sentirete mai parlare seriamente nei dibattiti politici. Cosa Nostra, ‘ndrangheta e camorra si sono sempre mosse in equilibrio evitando scontri cruenti. Se l’omicidio Sacchi si configura come interno alle dinamiche della distribuzione delle droghe leggere, la politica per riscattare la sua inanità ha una sola strada: legalizzarle. È il sangue e solo il sangue che genera attenzione, che pretende azione (per qualche giorno almeno). È una drammatica e sempiterna regola, inviolata sino a ora. Solo il sangue è la madre di tutte le comprensioni: fin quando non lo vedi a terra la mafia non c’è, fin quando non senti lo sparo non percepisci pericolo, se non si innescano le faide non esiste il problema. Il sangue non si può nascondere e quando scorre cosa accade? Accade che si ridimensiona la vicenda. Con l’omicidio Sacchi il sangue a Roma è tornato a scorrere ma c’è un automatismo innato che si genera sempre dinanzi alle tragedie, cercare elementi per allontanarle da sé. Incidente stradale? Beh, ma guidava ubriaco. Cancro? Grande fumatore. Un ragazzo sparato alla nuca? Beh, ma vedrai che qualcosa non torna. È tutto normale, un modo per sentirsi al riparo, per potersi dire che non capiterà a chi si comporta bene, un meccanismo che le istituzioni spesso usano come ansiolitico per calmare la legittima apprensione, quella che pretende che tutto cambi. Avviene per non dirvi la più semplice delle verità: siamo tutti esposti, nessuno è al sicuro. Roma non ha i morti di Caracas, non è lontanamente paragonabile a San Salvador o Lagos, ma Roma deve smetterla di sentirsi diversa dall’essere una città mangiata dalla corruzione e occupata dai poteri criminali. Prima si rende conto di essere una Capitale mafiosa, prima può forse pensare di trasformarsi. Roma non è Gotham City? Molto peggio. Perché Gotham sapeva d’essere Gotham, perché riconosceva il male in Joker e Pinguino ma soprattutto Gotham aveva Batman che su Roma non è Bruce Wayne ma Franco Fiorito “er Batman”. Roma è luogo di riciclaggio privilegiato degli investimenti del narcotraffico da più di un decennio: elenchi sterminati di ristoranti, pub e gelaterie sequestrati alle cosche. Infinite speculazioni edilizie. Tutti spesso derubricati a fatti episodici, laterali alla vita della città quando ne sono l’essenza stessa, il sistema linfatico dell’economia. Dinanzi a un omicidio come quello dei Colli Albani si usano sempre le solite immagini. La metafora cinofila: “Cani sciolti”. Oppure quella equina: “Cavalli pazzi”. Sovente: “Lupi solitari”. Fesserie. Sono un esercito pronto ad affiliarsi, micro-cellule pronte al salto organizzativo e che nella parte maggiore dei casi non ci riescono perché finiscono ammazzati, arrestati o nel delirio sanguinario sparano alla nuca come se fosse uno spintone. Non c’è limite alla corsa per trovare spazio di guadagno. Roma da oltre un decennio è diventata l’hub della coca (e non solo) in Italia eppure di questo non sentirete mai parlare seriamente nei dibattiti politici. La prova più eclatante è già nel 2014 quando in una sola operazione (una sola!) i carabinieri sequestrarono 578 chili di coca che avrebbero reso 24 milioni di dosi ossia 1.300 milioni di euro. Da lì in poi potrei fare un elenco infinito, passando per i 200 chili scovati nell’agosto scorso. Percentuali di sequestro minime rispetto a un flusso perenne e continuo. Immaginate questa massa di denaro in una metropoli dove il turismo garantisce che case, ristoranti e locali siano pieni e quindi pronti per riciclare. Roma si racconta compiaciuta con i turisti che leccano i gelati e i selfie ai Fori Imperiali con i gladiatori. Ma è solo una scenografia. È invece la metropoli dove trovare lavoro senza essere protetto da un politico è quasi impossibile, dove un piccolo imprenditore per farsi pagare si deve rivolgere a bande che recuperano i crediti. In questa Roma ogni pistola è un’occasione per provare a farcela. Ancora pensate che siano le serie tv a ispirare i violenti? Quanta colpevole ingenuità, le serie raccontano il reale volto di ciò che accade e chi lo vive ci si specchia direttamente. Roma è stata storicamente città aperta: Cosa Nostra, ‘Ndrangheta e Camorra si sono sempre mosse in equilibrio evitando scontri cruenti. La gestione negli anni si è evoluta: i clan meridionali hanno subappaltato il controllo del territorio e in questo spazio è nata un’organizzazione autonoma. Mafia Capitale la Cassazione non la definisce mafia, tutto questo è fisiologico perché ad oggi è solo su base etnica il riconoscimento penale del crimine organizzato: sembra assurdo ma è così (con la sola eccezione della Mala del Brenta). La battaglia per il riconoscimento di un’organizzazione mafiosa è infinita: l’introduzione del reato è del 1982 (mentre Cosa Nostra esisteva già da un secolo) e la parola ‘ndrangheta è entrata nel Codice Penale solo nel 2010 (esisteva da più di 120 anni). Ci vorrà tempo perché tutti comprendano il volto di ciò che è nato nel ventre di Roma, superando gli stereotipi che ancora cercano coppole e lupare. Questa battaglia però non si deve fermare. E non può essere delegata alla magistratura. Deve essere l’ossessione della società civile - se ancora esiste - perché spesso per gran parte della politica (quando non complice) è solo un tema da risolvere con le manette. Nulla di più fallace. Le prigioni da sole non hanno mai sconfitto nessuna mafia. Trasformare le regole che rendono Roma una città a vocazione mafiosa sarebbe invece l’unico atto determinante. Se l’omicidio Sacchi si configura come interno alle dinamiche della distribuzione delle droghe leggere, la politica per riscattare la sua inanità ha una sola strada: legalizzarle. Sottrarre questo mercato immenso al crimine è l’unico modo per dimezzarne profitti e potere: ogni altra strada sarà effimera, perché retate e condanne apriranno vuoti nelle reti di spaccio che una leva sempre più giovane sarà felice di colmare. Non sarà facile per una politica che si nutre di tweet prendere questa decisione. Ma bisogna imporre il tema nel dibattito pubblico. E costringere da subito ad affrontare i nodi del riciclaggio e dell’investimento mafioso che distruggono ogni libera iniziativa. Altrimenti Roma rimarrà una città corrotta sin nel midollo, dove l’unico modo per salvarsi è starne lontani. Canada. La riabilitazione che funziona: ricominciare a vivere dopo il carcere di Elena Molinari Avvenire, 27 ottobre 2019 I primi mesi di prigione per Dana Spencer sono stati l’inferno. Quasi da un giorno all’altro la 30enne canadese aveva perso la libertà, il figlio, la casa, il lavoro. Tutto per colpa dell’alcool, che l’aveva portata a guidare ubriaca e a investire un pedone. Per settimane ad Abbotsford, nel penitenziario federale di Fraser Valley, nella Columbia britannica, Dana era rimasta convinta che non sarebbe mai stata capace di ricostruire quello che aveva distrutto. Non da sola e non rimanendo rinchiusa in cella per tre anni. Dopo sei mesi di carcere, però, Dana ha scoperto che poteva fare domanda di libertà temporanea, uscendo di prigione durante il giorno per tornarci la sera. L’ha ottenuta. Dall’esterno, e con l’appoggio di risorse pubbliche e comunitarie, Dana è riuscita a liberarsi dall’alcolismo, a ottenere un lavoro in uno stabilimento di trasformazione alimentare e, dopo aver completato due terzi della pena, a dimostrare che era pronta a rientrare in società e a prendersi cura del suo bambino. La libertà parziale e condizionale anticipata che ha letteralmente dato una nuova vita a Dana è uno dei pilastri del sistema di reintegrazione sociale canadese, che ha tassi di successo ben più elevati del vicino americano e di molti Paesi europei, compresa l’Italia. L’altro pilastro è la presenza obbligatoria in prigione di figure professionali addette a preparare i detenuti all’uscita - figure che secondo le statistiche sono particolarmente efficaci nelle prigioni provinciali, che in Canada ospitano chi sconta una pena fino a due anni. Il 99 per cento dei detenuti che ottengono la libertà parziale o condizionale arrivano infatti alla fine della loro sentenza senza commettere altri crimini. Il tasso di recidiva generale su cinque anni è più difficile da calcolare. Ma le cifre più recenti si aggirano sul 41 per cento per le prigioni federali e il 23 per cento per quelle provinciali. Questo in confronto al 77 per cento negli Usa e al 68 per cento in Italia, dove però il tasso reale viene stimato attorno all’80. “La maggior parte dei trasgressori canadesi scontano solo una parte delle loro pene nelle istituzioni e vengono quindi rilasciati in modo limitato nella comunità dove rispettano determinate condizioni e sono sorvegliati dagli agenti di libertà vigilata - spiega Howard Sapers, difensore civico delle prigioni canadesi. La strategia è di avere una transizione graduale e controllata fatta di attività di programmazione e coinvolgimento della comunità, che si ottiene attraverso la partecipazione volontaria di cittadini locali a Comitati consultivi e programmi di formazione”. Ogni detenuto presenta infatti una serie specifica di sfide associate a alloggio e lavoro, a problemi di salute fisica e mentale, violenza e uso di droghe. Ad esempio, al momento dell’ammissione nei penitenziari federali, oltre il 60% dei condannati non ha un diploma di scuola secondaria. Inoltre, il 60% dei detenuti è cronicamente sottoccupato o disoccupato. Per affrontare la situazione il Canada ha creato la figura del “consigliere professionale e di formazione” carcerario, che incontra regolarmente i detenuti individualmente e mobilita altre risorse, interne o esterne al carcere, come psicologi, centri di disintossicazione, strutture per la formazione professionale, assistenti spirituali e persino contabili. L’agenzia dei Servizi di correzione del Canada (Csc) stima che essere seguiti da un consigliere porta a un calo del 19% della recidiva globale. Il sistema è stato implementato per legge dall’inizio degli anni Novanta, e da allora non sono mancate polemiche sul rischio che rilasciare in modo anticipato i prigionieri o permettere loro di seguire corsi dal carcere rappresenti per la società. Ma secondo Catherine Latimer dell’associazione non profit per l’assistenza carceraria John Howard Society proteggere il Canada significa garantire ai detenuti tutte le risorse di cui hanno bisogno per diventare cittadini responsabili. “La società deve pensare alla propria sicurezza in modo più lungimirante - dice Latimer. Che i condannati escano alla fine della sentenza o prima, non ci interessa sapere che tipo di persone saranno quando usciranno?”. Un aiuto affiancato ad ogni carcerato Secondo la legge canadese, i detenuti hanno diritto alla piena libertà condizionale dopo aver scontato un terzo della loro pena, o sette anni in cella, a seconda di quale delle due scadenze venga prima. Ma già al termine di un sesto della pena, i carcerati hanno diritto alla libertà diurna, sotto vigilanza, con il pernottamento in prigione. Ma la concessione non è automatica. Il detenuto deve dimostrare di avere preparato un piano che comprende corsi di formazione professionale e di ricerca di lavoro, oltre che di terapia psicologica o di disintossicazione. Questo lavoro va fatto in prigione, con l’aiuto di figure professionali ad hoc. Un’altra legge autorizza automaticamente la maggior parte dei condannati ai quali non è stata concessa la libertà condizionale a scontare l’ultimo terzo della pena nella comunità. Le statistiche mostrano che i condannati che completano la loro pena in carcere hanno dieci volte più probabilità di commettere un nuovo reato rispetto a chi ha sconta parte della pena in libertà condizionale. Etiopia. Nobel senza pace, 67 morti nelle violenze di Marco Boccitto Il Manifesto, 27 ottobre 2019 Oromia in fiamme. Si radicalizza lo scontro con il tycoon Jawar Mohammed, oromo come il premier. Che ora è sotto accusa anche per non aver anticipato il ritorno da Sochi. Mentre sul piano internazionale la sua popolarità gode di una crescita esponenziale, a maggior ragione dopo il Nobel per la pace ricevuto nelle scorse settimane, sul piano interno Abiy Ahmed deve affrontare la sfida forse più seria da quando è diventato premier dell’Etiopia. Una sfida in arrivo proprio da quell’Oromia che dalla sua sorprendente ascesa alla guida del governo sembrava avere molto da guadagnare. Perché mai prima d’ora un rappresentante del maggiore (e maggiormente discriminato) dei gruppi etnici etiopici - Ahmed è un oromo - era arrivato così in alto. Ma mentre Ahmed partecipava al summit russo-africano di Sochi, facendosi notare da Putin per il vivo interesse manifestato nei confronti delle centrali nucleari che Mosca va seminando in mezza Africa, in Oromia tramontava definitivamente l’idillio inaugurato dalla liberazione di migliaia di detenuti politici e dalla riapertura dei media oscurati dal precedente regime. La grana principale per Ahmed - che ora è sotto accusa anche per non aver anticipato il suo ritorno da Sochi - fa capo proprio a uno degli attori più importanti sul panorama mediatico-politico nazionale. L’imprenditore Jawar Mohammed, anche lui un oromo, fondatore dell’Oromia Media Network, cittadinanza americana e un portafoglio di 1,75 milioni di followers, ebbe tra l’altro un ruolo chiave nelle manifestazioni che spianarono inizialmente la strada alla svolta e all’arrivo al potere dell’attuale premier. Ma ora denuncia l’esistenza di un complotto per ucciderlo, nel quadro di una spietata strategia seguita da Ahmed per eliminare i suoi rivali. Il primo ministro contro-accusa i (suoi) media di fomentare odio. Ma quando le forze di sicurezza hanno fatto irruzione a casa di Mohammed, a Addis Abeba, nell’intera regione centrale dell’Etiopia la rabbia è esplosa in forme diverse. Scontri tra manifestanti e polizia, sparatorie interetniche, vecchie faide familiari e religiose hanno mietuto decine di vittime (l’ultima stima ieri parlava di 67 morti e centinaia di feriti) a Ambo, Goru Gotu, Arsi, Adama, Hamaresa, coinvolgendo alla fine una dozzina almeno di città dell’Oromia. A quel punto Mohamed per provare a riportare la calma si è rivolto ai sostenitori riuniti sotto le finestre di casa sua: “Riaprite le strade bloccate - ha detto - ripulite le città dalle barricate, soccorrete coloro che sono rimasti feriti durante le proteste e riconciliatevi con coloro con cui avete litigato”. Resta da vedere se lui sarà capace di fare altrettanto con il suo premier. Iraq. “Contro i nuovi mille Saddam”, la protesta non arretra di Chiara Cruciati Il Manifesto, 27 ottobre 2019 Le piazze irachene. 42 morti accertati, oltre 2.300 i feriti. Politica senza risposte: il pacchetto di riforme salta. “Saddam se n’è andato e ora ce ne sono mille, di Saddam, che si nascondono dentro la Zona Verde”, dice un giovane manifestante all’Afp, in mezzo a piazza Tahrir. “Vogliamo vivere. Non è questione di soldi, ma di vivere. Lasciateci vivere”, le parole della 21enne Batoul ad al Jazeera. Sono le voci della piazza irachena. Richieste precise e senza partito, dal 9 ottobre a oggi: un nuovo governo, una nuova costituzione non settaria, lavoro, redistribuzione della ricchezza. La politica non sa rispondere: ieri il parlamento avrebbe dovuto riunirsi d’urgenza per discutere un primo pacchetto di riforme economiche, su richiesta degli stessi parlamentari dopo le violenze di venerdì. Sessione fallita e rimandata a data da destinarsi: non è stato raggiunto il quorum. Intanto, fuori, per le strade di Baghdad e delle città del sud sciita si continuava a protestare. Nella notte tra venerdì e sabato il numero dei manifestanti uccisi è salito: 42 vittime accertate, oltre 2.300 i feriti. Due i morti ieri. Nella capitale, piazza Tahrir è rimasta l’epicentro della ribellione: in centinaia sono rimasti a dormire nelle tende per presidiarla, ieri mattina l’hanno ripulita, qualcuno ha letto il Corano per commemorare le vittime. Siamo armati solo di bandiere e di acqua contro i gas dei lacrimogeni, dicono accusando le forze di sicurezza di una violenza irragionevole. La polizia ha tentato di nuovo di disperdere la folla con i gas lacrimogeni, letali quanto le pallottole se è vero - dicono le organizzazioni per i diritti umani - che almeno otto persone sono state uccise dai candelotti. Numerosi però anche gli uccisi da armi da fuoco. Il ministero degli Interni ha negato ieri l’uso di pistole e fucili da parte della polizia, scaricando la colpa sulle milizie sciite che a sud sono intervenute in forze contro le proteste. Ieri le manifestazioni sono proseguite anche a sud, nonostante il coprifuoco imposto venerdì dal governo su otto province, quelle dove le proteste si sono fatte più violente con assalti alle sedi dei partiti e delle milizie sciite. Undici delle 42 vittime sono morte nell’incendio di un edificio, appiccato dai manifestanti stessi. È in questo contesto che ieri l’ufficio congiunto delle forze di sicurezza irachene, con un comunicato, ha fatto sapere ai manifestanti che saranno trattati dalla polizia come “terroristi” nel caso di nuovi attacchi a edifici governativi o sedi di partito, per poi citare un presunto e non dimostrato assalto a una prigione non identificata per liberarne i detenuti. Sullo sfondo del palcoscenico della mobilitazione popolare si muovono altri attori. L’Iran resta il convitato di pietra, preso di mira dai manifestanti attraverso i suoi proxy locali, le milizie armate sciite impiegate contro l’Isis e che nel frattempo si sono fatte partito. C’è poi Moqtada al-Sadr, potente religioso sciita rivale di Teheran, che da anni cavalca il malcontento delle classi medie e basse; così è riuscito a vincere nel maggio del 2018 le elezioni parlamentari insieme allo stravagante compagno di lista, il Partito comunista. Oggi al-Sadr dà il suo appoggio alla piazza evitando di dire che al governo c’è anche lui. E infine c’è il debole primo ministro, Adel Abdul Mahdi, in carica da poco più di un anno e dopo innumerevoli consultazioni, tuttora incapace di mettere in campo una reale riforma politica ed economica. A frenare il cambiamento, da decenni, è il sistema di potere settario cristallizzato nel post-Saddam: partiti politici che sono riferimento di etnie e confessioni e che di quelle identità fanno gli interessi, distribuendo favori, lavori pubblici, prebende in cambio di voti. Un sistema che si è sempre auto-rigenerato ma che oggi è apertamente sfidato da chi - i giovani - non ne può più di uno Stato disfunzionale e clientelare.