Ma la pena non è una vendetta di Valter Vecellio Il Dubbio, 26 ottobre 2019 La volontà dei Padri Costituenti è chiara, limpida: la pena non è vendetta. Deve tendere alla “rieducazione del condannato”. Si chiami Mario Rossi o Totò Riina. D’accordo: questo è il Paese dove un noto presentatore se ne esce dicendo che viviamo in un Paese a democrazia ridotta perché sono anni e anni che il presidente del Consiglio non viene eletto dal popolo. Accade anche che un parlamentare, e il già citato conduttore definiscano “imperatore” il console Quinto Fabio Massimo, detto “Il temporeggiatore”. Capita. Scagli pure la prima pietra chi non ha sillabato, in vita sua, una qualche castroneria. Dunque, l’indulgenza, è d’obbligo; e con tutti. Anche se a volte comporta una certa fatica. È il caso della recente sentenza della Corte costituzionale a proposito dell’ergastolo ostativo. A questo punto, senza scomodare i poderosi manuali di un Costantino Mortati, basta leggere la Costituzione, che ha sicuramente un pregio: quella di essere scritta in un italiano cristallino, comprensibile anche a un illetterato. Si vada all’articolo 134: “La Corte costituzionale giudica sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti, aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni”. Chiaro, limpido: se si sospetta che una legge sia in contrasto con la Costituzione, la Corte Costituzionale, composta da magistrati e giuristi a composizione mista, valuta e stabilisce se il contrasto vi sia o no. Nel caso dell’ergastolo ostativo, ha stabilito che vi sono delle norme che non si conciliano con la Costituzione; e di conseguenza ha emesso una sentenza. Ora nel merito, la cosa può non piacere, ma resta il fatto che, sempre Costituzione alla mano, l’articolo 27 stabilisce: “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte”. Anche qui, la volontà dei Padri Costituenti è chiara, limpida: la pena non è vendetta, e non solo punizione o salvaguardia della collettività. Deve tendere alla “rieducazione del condannato”. Si chiami Mario Rossi o Totò Riina. E, sempre le pene, devono essere conformi al senso di umanità. Dunque, l’ergastolo, cioè lo stabilire a priori che si è irrecuperabili, è contrario allo spirito e alla lettera della Costituzione; e parimenti contrario qualsivoglia trattamento che non sia conforme al senso di umanità. La cosa può non piacere, e in questo caso la via maestra è semplice: proporre un cambiamento della norma costituzionale. Ma fin quando c’è, la si deve osservare. Questo ha ribadito la Corte Costituzionale, nient’altro. Sentenza che non è per nulla piaciuta a un fresco componente del Consiglio Superiore della Magistratura: un magistrato che con alterne fortune si è impegnato nel fronte antimafia, ha fatto parte della Direzione Nazionale Antimafia e per troppa loquacità (ma forse qualche altra ragione più profonda e sostanziale) da quell’ufficio è stato rimosso. Ha idee ben radicate, questo magistrato, e le ha esposte in varie pubblicazioni, anche se non sempre i fatti sembrano avergli dato ragione. Ad ogni modo, una certa coerenza gli va riconosciuta, indubbiamente. Proprio per questo, sorprende alquanto una sua presa di posizione rispetto alla sentenza della Corte costituzionale: “Si apre un varco potenzialmente pericoloso, ponendo fine all’automatismo che caratterizza l’ergastolo ostativo”. Forse dovrebbe nutrire maggior fiducia nei confronti dei suoi colleghi che saranno di volta in volta chiamati a decidere e valutare. Ma tant’è. Certo: se non ha fiducia lui nei suoi colleghi… Si aggiunge che si deve “che si concretizzi uno degli obiettivi principali che la mafia stragista intendeva raggiungere con gli attentati degli anni ‘ 92-’ 94?. E qui, se si fosse un giudice costituzionale si avrebbe un moto di irritazione e stizza, per adombrare che si realizza, con una sentenza che si richiama alla Costituzione vigente, quello che la mafia stragista perseguiva. Ma il bello, cioè il brutto viene dopo: quando si invoca di fatto un intervento del Parlamento: “la politica sappia prontamente reagire e approvi le modifiche normative necessarie ad evitare che le porte del carcere si aprano indiscriminatamente ai mafiosi e ai terroristi condannati all’ergastolo”. A parte la manifesta infondatezza delle “porte del carcere” aperte indiscriminatamente, in sostanza succede questo: il neo-componente del Csm che per tutta la vita ha tuonato contro l’interferenza della politica, per l’indipendenza della magistratura, e la difesa della Costituzione, ora si augura che la politica intervenga e “sani” presunti vulnus che la Corte Costituzionale avrebbe inferto richiamandosi ai dettami costituzionali. Questa si, per citare una definizione del segretario del Pd Nicola Zingaretti, è una bella stravaganza. Solo che per Zingaretti la stravaganza è la sentenza. Che dire? Un giudizio perlomeno stravagante. Ergastolo ostativo. Colombo: “La sentenza della Consulta è in accordo con la Costituzione” di Rossella Guadagnini MicroMega, 26 ottobre 2019 Le questioni sul tappeto sono due: l’ergastolo ostativo e la recentissima sentenza della Consulta. Compongono una specie di distico della giustizia sul fine pena. Hanno scatenato accese polemiche che ricordano quelle sul pentitismo. L’ergastolo è una pena detentiva a carattere perpetuo, inflitta a chi ha commesso un delitto ed equivale alla reclusione a vita, il cosiddetto fine pena mai. Una sentenza della Corte Europea dei diritti umani nel 2013 ha stabilito che esso vìola i diritti umani nel caso la scarcerazione sia espressamente proibita, oppure non sia previsto nell’ordinamento che il condannato possa chiedere a un organismo indipendente dal governo una revisione della sentenza o un alleggerimento di pena. Il che significa un superamento dell’ergastolo, lasciare un varco, una prospettiva, nel caso si verifichi un cambiamento. In Italia con l’ergastolo ostativo la possibilità di accedere ai benefici penitenziari è stata fino adesso legata alla sola ipotesi di collaborazione con la giustizia, una scelta del reo che spesso, per varie ragioni, in realtà non era tale. Lo Stato, in un momento di necessità e urgenza, aveva deciso di non esercitare un proprio potere e dovere, cioè infliggere una pena in linea con i principi della Costituzione che si riferiscono alla rieducazione e risocializzazione del condannato. Ma ora è arrivata la sentenza della Corte Costituzionale che, pur essendo in accordo con quanto stabilito anni fa dalla Corte Europea dei diritti umani, fa discutere per le sue possibili conseguenze. Ne abbiamo parlato con Gherardo Colombo, ex magistrato del pool di Mani Pulite, che ha condotto inchieste celebri, come la scoperta della Loggia P2, l’omicidio dell’avvocato Ambrosoli, i fondi neri dell’Iri. Dopo aver lasciato la magistratura, ha fondato nel 2010 l’associazione “Sulle Regole”, che si occupa di riflessione pubblica sulla giustizia e di educazione alla legalità. Perché se è vero che le sentenze non si commentano e che bisogna comunque attendere la pubblicazione delle motivazioni, è anche vero che sulla giustizia si può (e si deve) ragionare. Lei dottor Colombo che ne pensa, ergastolo ostativo sì o no? In primo luogo occorre ricordare che ci sono norme sovraordinate e norme sottordinate: la Costituzione sta in alto, tutto il resto viene dopo. Prima c’è la nostra Carta, poi viene l’ordinamento giudiziario. L’articolo 4bis della legge sull’ordinamento penitenziario [1] afferma che alle persone che hanno commesso i reati ivi elencati, tra cui quelli di mafia e di terrorismo, non possono essere applicate misure premiali o alternative alla detenzione, se non avessero collaborato efficacemente. Al contrario di tutti gli altri detenuti, dunque, c’era una preclusione, mentre ora si è uniformata la previsione legislativa. Sta al giudice, anche per loro, valutare se abbiano diritto o meno alla liberazione condizionale o alle altre misure. Quindi al centro, oltre al detenuto e ai suoi diritti, c’è anche il giudice... C’era una preclusione assoluta rivolta al giudice di valutare una persona che ha commesso questi ed altri gravi reati, che era in contrasto con la Costituzione. Quando più avanti potremo leggere le motivazioni della sentenza della Corte vedremo le ragioni che reggono la sentenza. Secondo la mia opinione, l’articolo 4bis è in contrasto con l’articolo 27 della Costituzione, oltre che con l’articolo 3. Restiamo al 27 che dice che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. La decisione della Consulta riguarda soltanto la possibilità (certo non il dovere) del giudice di concedere i permessi premio: è lui che decide; chi non ha fatto un percorso riabilitativo, non risulta che abbia reciso i vincoli associativi, si può prevedere che possa riallacciarli, cioè chi è ancora pericoloso non può averne. Senza questa precisazione si equivoca. Anche le affermazioni di alcuni miei ex colleghi fanno pensare che questa decisione della Corte Costituzionale renda automatica la concessione di questi benefici. Invece non è così, è il contrario. Ci spieghi meglio... Prima era automatico il divieto di concedere questi benefici a coloro che - essendo condannati per quei reati - non avessero collaborato. Adesso, invece, non è più automatico. È divenuta una circostanza che va valutata dal giudice, come succede per tutti gli altri reati che non rientrino nel 4bis. È stato fatto un percorso che rende concedibili i permessi premio. La regola diventa uguale per tutti i condannati, sia per quelli che collaborano, che per quelli che non collaborano. Alcuni sostengono che, con questa decisione, si indebolisce la normativa antimafia. Che da Cosa Nostra non si esce a proprio piacimento... Facciamo l’esempio di un ragazzo che a vent’anni ha commesso un solo reato di mafia e ha vissuto in carcere fino a 50. Sono passati trent’anni, si possono sciogliere anche i matrimoni ben prima che passino trent’anni. E poi c’è partecipazione e partecipazione alla mafia: non tutto è un ‘patto di sangue’, e anche i patti di sangue si possono sciogliere senza per questo collaborare. Per alcuni succede. E d’altra parte chi garantisce che chi collabora sia davvero ‘uscito’ dalla mafia? Succede nei fatti che chi collabora a volte rimane mafioso o ricostituisce i legami con la mafia. Bisogna guardare la vicenda personale di ognuno, seguire il suo percorso rieducativo. Cosa ne dobbiamo concludere? Certe affermazioni apodittiche vanno evitate. La collaborazione può essere strumentalizzata per l’esistenza di contrasti e conflitti interni alla mafia (ci sono state vere e proprie guerre intestine, con centinaia di morti, per dire). In definitiva, l’articolo 4bis era incostituzionale. E la sentenza della Consulta lo ha espulso dall’ordinamento giuridico, per quel che riguarda i premessi premio, per questo motivo. Spero che altrettanto succeda, presto, per l’ergastolo ostativo (che, mi pare di poter dire, implicitamente subisce la stessa valutazione del divieto dei permessi premio). --------------------------- NOTE [1] Dispositivo dell’articolo 4bis Legge sull’ordinamento penitenziario. 1. L’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione previste dal capo VI, esclusa la liberazione anticipata, possono essere concessi ai detenuti e internati per i seguenti delitti solo nei casi in cui tali detenuti e internati collaborino con la giustizia a norma dell’articolo 58 ter della presente legge: delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza, delitti di cui agli articoli 416 bis e 416 ter del codice penale, delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, delitti di cui agli articoli 600, 600 bis, primo comma, 600 ter, primo e secondo comma, 601, 602, 609 octies e 630 del codice penale, all’articolo 12, commi 1 e 3, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni, all’articolo 291-quater del testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, e all’articolo 74 del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309. Sono fatte salve le disposizioni degli articoli 16-nonies e 17-bis del decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 marzo 1991, n. 82, e successive modificazioni. 1-bis. I benefici di cui al comma 1 possono essere concessi ai detenuti o internati per uno dei delitti ivi previsti, purché siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, altresì nei casi in cui la limitata partecipazione al fatto criminoso, accertata nella sentenza di condanna, ovvero l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità, operato con sentenza irrevocabile, rendono comunque impossibile un’utile collaborazione con la giustizia, nonché nei casi in cui, anche se la collaborazione che viene offerta risulti oggettivamente irrilevante, nei confronti dei medesimi detenuti o internati sia stata applicata una delle circostanze attenuanti previste dall’articolo 62, numero 6), anche qualora il risarcimento del danno sia avvenuto dopo la sentenza di condanna, dall’articolo 114 ovvero dall’articolo 116, secondo comma, del codice penale. 1-ter. I benefici di cui al comma 1 possono essere concessi, purché non vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, ai detenuti o internati per i delitti di cui agli articoli 575, 600 bis, secondo e terzo comma, 600 ter, terzo comma, 600 quinquies, 628, terzo comma, e 629, secondo comma, del codice penale, all’articolo 291-ter del citato testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, all’articolo 73 del citato testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, e successive modificazioni, limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’articolo 80, comma 2, del medesimo testo unico, all’articolo 416, primo e terzo comma, del codice penale, realizzato allo scopo di commettere delitti previsti dagli articoli 473 e 474 del medesimo codice, e all’articolo 416 del codice penale, realizzato allo scopo di commettere delitti previsti dal libro II, titolo XII, capo III, sezione I, del medesimo codice, dagli articoli 609 bis, 609 quater e 609 octies del codice penale e dall’articolo 12, commi 3, 3-bis e 3-ter, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni. 1-quater. I benefici di cui al comma 1 possono essere concessi ai detenuti o internati per i delitti di cui agli articoli 600 bis, 600 ter, 600 quater, 600 quinquies, 609 bis, 609 ter, 609 quater, 609 quinquies, 609 octies e 609 undecies del codice penale solo sulla base dei risultati dell’osservazione scientifica della personalità condotta collegialmente per almeno un anno anche con la partecipazione degli esperti di cui al quarto comma dell’articolo 80 della presente legge. Le disposizioni di cui al periodo precedente si applicano in ordine al delitto previsto dall’articolo 609 bis del codice penale salvo che risulti applicata la circostanza attenuante dallo stesso contemplata. 1-quinquies. Salvo quanto previsto dal comma 1, ai fini della concessione dei benefici ai detenuti e internati per i delitti di cui agli articoli 600 bis, 600 ter, anche se relativo al materiale pornografico di cui all’articolo 600 quater 1, 600 quinquies, 609 quater, 609 quinquies e 609 undecies del codice penale, nonché agli articoli 609 bis e 609 octies del medesimo codice, se commessi in danno di persona minorenne, il magistrato di sorveglianza o il tribunale di sorveglianza valuta la positiva partecipazione al programma di riabilitazione specifica di cui all’articolo 13 bis della presente legge. 2. Ai fini della concessione dei benefici di cui al comma 1 il magistrato di sorveglianza o il tribunale di sorveglianza decide acquisite dettagliate informazioni per il tramite del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica competente in relazione al luogo di detenzione del condannato. In ogni caso il giudice decide trascorsi trenta giorni dalla richiesta delle informazioni. Al suddetto comitato provinciale può essere chiamato a partecipare il direttore dell’istituto penitenziario in cui il condannato è detenuto. 2-bis. Ai fini della concessione dei benefici di cui al comma 1-ter, il magistrato di sorveglianza o il tribunale di sorveglianza decide acquisite dettagliate informazioni dal questore. In ogni caso il giudice decide trascorsi trenta giorni dalla richiesta delle informazioni. 3. Quando il comitato ritiene che sussistano particolari esigenze di sicurezza ovvero che i collegamenti potrebbero essere mantenuti con organizzazioni operanti in ambiti non locali o extranazionali, ne dà comunicazione al giudice e il termine di cui al comma 2 è prorogato di ulteriori trenta giorni al fine di acquisire elementi ed informazioni da parte dei competenti organi centrali. 3-bis. L’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione previste dal capo VI, non possono essere concessi ai detenuti ed internati per delitti dolosi quando il Procuratore nazionale antimafia o il procuratore distrettuale comunica, d’iniziativa o su segnalazione del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica competente in relazione al luogo di detenzione o internamento, l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata. In tal caso si prescinde dalle procedure previste dai commi 2 e 3. Flick: “Sì alle pene anche dure contro i mafiosi, no alla violazione della dignità umana” di Pietro Mecarozzi linkiesta.it, 26 ottobre 2019 Secondo l’ex Ministro del governo Prodi I, nonché presidente della Corte Costituzionale nel 2008, la sentenza della Consulta sul carcere ostativo è “un atto importante nel percorso, per un detenuto che continua ad avere una decenza riconosciuta e rispettata, anche nel peggiore delinquente”. Come seguito della Corte Europea dei Diritti Umani, la Corte Costituzionale ha emesso una sentenza che riguarda l’ergastolo ostativo. La modalità di pena perpetua che sottrae alla concessione di ogni beneficio di legge, se non nel caso di una collaborazione con i magistrati, il condannato per associazione a delinquere o concorso a vario titolo in omicidio, dall’esecutore materiale all’ultimo favoreggiatore, è stata parzialmente definita incostituzionale. Tra i dubbi per una misura che coinvolge ex boss mafiosi e terroristi, il perno della questione per Giovanni Maria Flick, ex Ministro del governo Prodi I nonché presidente della Corte Costituzionale nel 2008, sta nell’attenzione rivolta al “detenuto che continua ad avere una dignità riconosciuta e rispettata, anche nel peggiore delinquente”. Come considera la sentenza della consulta sul carcere ostativo? La considero un atto importante nel percorso per ricondurre le misure contro la criminalità organizzata alle indicazione di carattere costituzionale, superando un’eccezionalità che lascia perplessi. Non c’è il rischio di aprire le porte del carcere indiscriminatamente per mafiosi e terroristi? Non mi pare che ci sia alcun rischio di questo genere. La sentenza non sancisce il diritto, dei condannati per criminalità organizzata a godere delle misure alternative, bensì essa ricorda che la decisione sulla esistenza dei requisiti per accedere alle misure alternative spetta, in concreto, al giudice di sorveglianza caso per caso. Non può essere una valutazione di carattere generale fatta dalla legge in termini di automatismo: il condannato dovrà fare richiesta al giudice, dimostrando che non ha più alcun legame con la criminalità organizzata e che ha avviato il suo processo di rieducazione positivamente. Ridare discrezionalità ai giudici di sorveglianza non li espone a un rischio di minacce? Il compito del giudice è quello di decidere: nella decisione si può sempre incontrare qualche rischio, che va eliminato proteggendo il giudice quando sia necessario, attraverso la tutela. D’altra parte il principio del riconoscere al giudice il potere e il dovere di valutare il caso concreto è un discorso talmente ovvio ed evidente che faccio fatica a comprendere come si possa da esso far derivare i timori di un pericolo. Tanto più che la decisione del giudice di sorveglianza non è isolata, bensì è il momento terminale di un processo di valutazione fatte da più uffici (polizia, procuratore antimafia, operatori sociali, responsabili del carcere). Esclude un pericolo di distorsione? È previsto dalle legge che si possano richiedere le misure alternative a certe condizioni; quelle condizioni sono valutate alle luce degli elementi acquisiti con un’istruttoria su quella persona e su quella posizione. Non è conforme alla Costituzione escludere automaticamente la richiedibilità e la concedibilità di tali misure quando il richiedente non collabora con l’autorità giudiziaria. Le nostre leggi contro la mafia sono in linea con i principi costituzionale e dei diritti dell’uomo? Il contrasto alla criminalità organizzata è doveroso e va fatto con ogni mezzo compatibile con la Costituzione. Non va dimenticata però la necessità del rispetto della dignità umana, anche di coloro che si sono comportati in modo tale da far pensare che abbiano rinunziato a quest’ultima. Non è così, il detenuto continua ad avere una dignità che deve essere riconosciuta e rispettata, anche nel peggiore delinquente. Questo presupposto non esclude la pena, la quale, tuttavia, non deve essere contraria al senso di umanità e deve tendere comunque alla rieducazione del condannato, come afferma l’art. 27 della Costituzione. Parafrasando Cesare Beccaria: “Uno dei più gran freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l’infallibilità di esse”... Sempre in tema di criminalità organizzata, ci sono state alcune deroghe o alcune posizioni particolarmente repressive, che tutt’ora vengono esaminate dalla Corte Costituzionale, per garantire che non ci sia un “diritto speciale del nemico” verso questi tipi di reato. Con quest’ultima sentenza, il nostro sistema penale si abbassa ai voleri europei? Noi siamo vincolati per scelta della Costituzione ad attuare quella parte dell’ordinamento europeo, rappresentata dall’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e quindi al rispetto dell’umanità delle pene ed alla tendenza alla rieducazione. Una pena nella quale venga negata la speranza di poter recuperare la libertà se il condannato ne è degno alla fine del percorso rieducativo è una pena in contrasto e con la Convenzione di Strasburgo, e con la nostra Costituzione. Fine pena mai. Il carcere a vita e i manettari di Lorenzo Erroi La Regione, 26 ottobre 2019 La sentenza della Corte costituzionale conferisce nuovi diritti a mafiosi e terroristi condannati all’ergastolo ostativo. Apriti cielo. Per capire quale sia l’idea di giustizia che comanda in Italia, bisogna fare un bel respiro e leggere le reazioni a una recente sentenza della Corte costituzionale; la quale, accogliendo parzialmente le critiche della Corte europea dei diritti umani (Cedu), ha rimesso mano al cosiddetto “ergastolo ostativo”: ovvero il fine-pena-mai che priva il detenuto perfino dei permessi premio, della possibilità di lavorare fuori dal carcere, e di liberazione condizionale non parliamone nemmeno. È il caro vecchio “buttar via la chiave”, insomma: un trattamento potenzialmente “disumano e degradante”, secondo la Cedu, che peraltro la Corte costituzionale ha toccato solo di striscio: si chiede di concedere ai detenuti a vita almeno la possibilità di ottenere permessi premio. La possibilità, badate bene, non la certezza: spetterà poi al magistrato di sorveglianza decidere se il detenuto è ancora pericoloso o meno, ascoltando pareri di autorità come la Procura nazionale antimafia e antiterrorismo. Nessuna rivoluzione, per ora. Ma il fatto stesso di toccare un feticcio del genere ha destato un’esorbitante polemica. Questo perché il carcere a vita tocca un migliaio di mafiosi e terroristi, e costoro, per le solite tricoteuses, non sono mica esseri umani. L’immaginario corre subito ai magistrati morti, ai crateri sull’autostrada. I populisti lo sanno, e il solito Marco Travaglio scomoda “il sangue di Falcone, di Borsellino e delle altre vittime delle stragi”; trasformando così la memoria civile in falsa reliquia con l’insolenza d’un Frate Cipolla, e confidando nella distrazione dei suoi lettori quando dice che “in tutto il mondo l’ergastolo significa fine pena mai”. (Ma la possibilità di chiedere un permesso, o anche una revisione della pena, è concessa da quasi tutti i Paesi occidentali. In Svizzera l’eccezione dell’internamento a vita senza riesame - impulsivamente votata nel 2004 - nei fatti viene costantemente bocciata dal Tribunale federale). Ma i fatti non contano più. “Sentenza diseducativa e vergognosa”, strepita paonazzo Matteo Salvini, annunciando subito un ricorso che però non potrà presentare, dato che la Costituzione lo esclude. Perfino il segretario del Partito democratico Nicola Zingaretti - alla faccia del garantismo - parla di sentenza “stravagante, non la condivido”. D’altronde gli tocca il ruolo di seconda gamba nel governo giallorosso, e quindi deve battere il tempo agli alleati cinquestelle; come il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, quello che si faceva i filmetti travestito da secondino accanto al terrorista Battisti in ceppi, e che già era furente con la Cedu per la precedente sentenza. L’unico argomento un po’ solido è che in realtà un modo per uscire dal carcere a vita c’è: ‘Pentirsi’, come scrivono erroneamente molti giornali italiani, caricando di distorsioni moraleggianti la collaborazione di giustizia; detta meglio: fornire ai giudici nomi e informazioni per allargare le loro indagini. Però non è sempre possibile, ad esempio perché si rischia di mettere in pericolo la propria famiglia. Le sentenze recenti hanno dunque chiesto di disgiungere la “presunzione di pericolosità sociale” del detenuto dalla pretesa che diventi un collaboratore, per evitare discriminazioni. (D’altronde Giovanni Brusca, collaboratore di giustizia che fra le altre cose sciolse un ragazzino nell’acido e fece saltare Falcone, ha ottenuto ottanta permessi). Ma con tutte queste precisazioni vi starete annoiando, e poi così si resta nel merito della questione, che alla politica - e a molti sanculotti che anche altrove ne attizzano i furori - non interessa davvero. La discussione sull’ergastolo è una scusa, l’importante è avere l’occasione di giocare ai paladini del pugno duro. Tirando così la volata a un’intera narrazione giustizialista: la presunta “onestà” del MoVimento Cinquestelle; il decreto “spazza-corrotti” che estende anche ai colletti bianchi pene draconiane, a costo di confondere l’ultimo funzionario con Al Capone; l’abolizione di uno strumento fondamentale di tutela degli imputati come la prescrizione (Guido Vitiello notava che ormai manca solo l’ereditarietà del procedimento penale, a mo’ di peccato originale). Una visione fatta di sbarre, manette e vendette - “Lo sanno a memoria il diritto divino / e scordano sempre il perdono” - contrastata solo dagli ultimi cinque radicali in circolazione, e pochi altri in ordine sparso. È poi lo stesso gioco che a volte si fa anche qui in Svizzera, ad esempio con gli stranieri e coi pedofili: si sventola il mostro e lo si trafigge in effigie, per atteggiarsi a cavalieri senza macchia e senza paura. Così si mietono consensi, ma si costringe la giustizia a preferire la punizione alla riabilitazione, la reclusione tout court alla faticaccia di dialogare con chi sarà anche un criminale, d’accordo, ma resta pur sempre una persona. Chi sbaglia su Mafia Capitale ed ergastolo di Antonio Ingroia Il Fatto Quotidiano, 26 ottobre 2019 La rapida successione, in due giorni consecutivi, della sentenza della Cassazione che ha drasticamente ridimensionato il processo “Mafia Capitale” e, subito dopo, della pronuncia con la quale la Corte costituzionale ha cancellato l’ergastolo ostativo, ha creato grande confusione nell’opinione pubblica, anche grazie alla solita informazione nostrana sulla materia, prevalentemente sensazionalistica e superficialmente condizionata dalla logica dello schieramento tifoso. Per cui ciascuno si sente in dovere di sventolare la propria bandierina, “garantiste” o “antimafia”. Come se i due concetti fossero antitetici, come se un’incisiva lotta alla mafia debba per forza comprimere i diritti di garanzia e chi ha a cuore la cultura delle garanzie debba stare sulla sponda opposta, a prescindere. Invece bisogna saper distinguere. Mai come in questa occasione. E bisogna poter dire, senza timore di essere accusati di riduzionismo della gravità del fenomeno mafia a Roma, che il processo Mafia Capitale ha avuto un’impostazione sbagliata, perciò giustamente sanzionata dalla Cassazione. Perché vanno salvaguardatele categorie descritte dal legislatore nel 1982 e sapientemente scolpite nel dettaglio nei decenni successivi da una consolidata giurisprudenza, sempre della Cassazione, che ne ha salvato l’efficacia a fronte degli attacchi - quelli sì sospetti - al 416 bis e al concorso esterno, preziosissimo per sanzionare la contiguità mafiosa di una classe dirigente rivelatasi essa stessa criminale. Insomma, per dirla in modo brutale: se tutto è mafia, niente è mafia, questo è il messaggio netto con il quale la Cassazione ha sconfessato l’impianto giuridico della Procura di Roma. Perché, se dilati in modo esorbitante l’ambito di applicabilità dell’articolo 416 bis, se qualifichi come mafiosa una non meno pericolosa associazione criminale finalizzata alla corruzione sistemica, fraintendi la funzione del 416 bis, ne annacqui la portata e ne riduci l’efficacia. Esattamente come è accaduto per il 41bis, nato come regime differenziato per i mafiosi e diventato carcere duro da infliggere ai detenuti più pericolosi: col risultato che è diventato poco efficace per i boss e troppo accanito verso gli altri detenuti. Con l’ulteriore effetto negativo che lo “schiaffo” alla Procura di Roma viene strumentalmente utilizzato per ridare fiato alle critiche radicali al 416 bis, alle tesi riduzionistiche della mafia “solo siciliana” e così via. Quindi, un doppio errore della Procura di Roma che così rischia di determinare un grave arretramento del fronte antimafia, laddove quell’azzardo ha prodotto per qualche anno un’apparente avanzata e luminose prospettive per chi l’ha ideato e sostenuto, ma oggi subisce una pesante sconfitta, con un effetto boomerang per tutto il fronte che durerà probabilmente a lungo. Analogo rischio è insito nella decisione della Corte Costituzionale che, annullando l’ergastolo ostativo per i delitti di mafia, pecca di astrattezza e di fraintendimento delle caratteristiche del fenomeno criminale su cui impatta. Occorrerà leggere la motivazione della decisione prima di tirare definitive conclusioni. Ma è chiaro che i giudici della Consulta sembrano avere “dimenticato” una caratteristica essenziale dell’ergastolo ostativo. E cioè che non si applica a ergastolani “qualsiasi”: l’istituto nasce - anche qui, però, esteso ad altre categorie, come il 41bis - per essere applicato solo agli ergastolani di mafia, la cui appartenenza a organizzazioni come Cosa Nostra giustifica un regime “differenziato”. Parliamo di condannati definitivi perché killer o mandanti di omicidi o stragi di mafia che hanno stretto un “patto criminale di sangue” a vita. Come spiegò Tommaso Buscetta a Giovanni Falcone, da Cosa Nostra non si può mai uscire, se non in due modi: da morto o da collaboratore di giustizia. Non esiste altra via. Ecco perché rimettere in libertà (con i “permessi premio”) certi ergastolani significa restituirli alla mafia, anche se gli interessati non volessero. Ecco perché la sentenza sembra rivelare una scarsa conoscenza del fenomeno, perdonabile ai giudici europei della Corte di Strasburgo, ma difficilmente perdonabile a giudici costituzionali italiani. Almeno in Italia la lezione di Falcone e Borsellino dovrebbe essere stata di insegnamento a tutti, specie quando ricordavano quanto fossero indispensabili, in tutti gli attori istituzionali, la conoscenza del fenomeno mafioso nella sua essenza e in tutte le sue sfaccettature e, nella magistratura, la massima professionalità e responsabilità, nella consapevolezza che gli errori di impostazione, gli approcci superficiali, le scelte precipitose e le fughe in avanti rischiano di compromettere il lavoro di decenni ed essere pagati da tutti a caro prezzo. Le vicende di “Mafia Capitale” e dell’ergastolo ostativo ne sono una dimostrazione. Francesco Basentini (Dap). Allarme carceri-colabrodo: entrano 5 cellulari al giorno di Giuseppe Crimaldi Il Mattino, 26 ottobre 2019 Il capo dell’Amministrazione penitenziaria: “Spostati 300 camorristi da Napoli al centro-nord”. “Le questioni sollevate dal procuratore della Repubblica di Napoli Giovanni Melillo sulla situazione delle carceri italiane sono drammaticamente vere ed attuali. Le conosciamo bene e stiamo mettendo in campo tutti gli strumenti per risolverle”. Dal suo osservatorio privilegiato, il Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Francesco Basentini ha ben chiara l’emergenza legata agli ingressi illegali di droga e cellulari nei 231 istituti di pena italiani. Carceri colabrodo. “Il carcere - ha detto Melillo in audizione alla Commissione parlamentare antimafia - è il luogo dove lo Stato esercita una assai limitata capacità di controllo. Vi dominano le organizzazioni mafiose, i cellulari entrano quotidianamente e non li sequestriamo neanche più talmente tanti sono. In alcune carceri, poi, vi sono autentiche piazze di spaccio”. Presidente Basentini, è un duro j’accuse quello di Melillo. La situazione è ingovernabile? “Prima di illustrare le azioni di contrasto che stiamo mettendo in campo per contrastare questi fenomeni mi lasci fornire alcuni numeri che danno il quadro della situazione, che resta sicuramente molto allarmante. I numeri sui rinvenimenti parlano chiaro: nei primi nove mesi di quest’anno sono stati eseguiti 587 sequestri di sostanze stupefacenti e 1.412 telefonini. Di fronte a questa situazione abbiamo deciso di rispondere immediatamente”. Facendo due conti, in base a questi numeri possiamo dire allora che nelle carceri vengono introdotti mediamente cinque cellulari ogni giorno. In che modo intendete lanciare la vostra controffensiva? “Nella scelta degli investimenti e delle spese da effettuare per l’anno corrente il Dipartimento ha deciso di puntare sull’acquisto di strumentazione e tecnologia di avanguardia, in grado di potenziare il contrasto all’introduzione di droga e cellulari. Tenga conto che la diffusione di questi due fenomeni risulta in costante crescita già dal 2017, e in particolare quello dei telefoni è di fatto raddoppiato”. E su che cosa puntate per stroncare questi traffici? “Abbiamo acquistato 90 apparecchi per il controllo radiografico dei pacchi, suddivisi in tre lotti da 30, sono in distribuzione ai Provveditorati che poi li assegneranno agli istituti sul territorio. La loro installazione verrà ultimata nella primavera del prossimo anno. Poi ci sono 40 metal detector già distribuiti, 40 jammer, apparecchi che disturbano le frequenze telefoniche”. Insomma puntate sulle alte tecnologie? “Non è finita. Sempre per neutralizzare ogni tentativo di colloquio telefonico non autorizzato verso l’esterno ci siamo dotati anche di due importanti e costosi strumenti - gli apparati “Imsi” - capaci di catturare le frequenze telefoniche; ed infine: 200 rilevatori manuali di telefoni cellulari, anche quando sono spenti, e 65 rilevatori di traffico di fonia e dati”. Che cosa rischia oggi il detenuto che detiene illegalmente stupefacenti o apparecchiature telefoniche in cella? “Oggi come oggi solo una sanzione disciplinare. In sede di discussione del Decreto Sicurezza noi chiedemmo di inserire due norme che sanzionavano penalmente chi venisse trovato in possesso di stupefacenti o cellulari. Ma la nostra proposta non venne accolta, perché la si considerò non “afferente” alla materia oggetto del decreto stesso. E siccome siamo convinti che si debba invece procedere su questa strada, quella sanzionatoria, rinnoveremo la proposta”. E che cosa rischierebbe chi viola queste norme? “Tanto per cominciare, chi venisse trovato in possesso di droghe o cellulari non avrebbe più accesso ai benefici alternativi al carcere”. E sul rischio che vecchi e nuovi boss possano ritrovarsi nelle stesse strutture, facilitando così i loro rapporti e le loro comunicazioni, qual è la strategia? “È in atto una redistribuzione dei detenuti in regime di “alta sicurezza”, sia i capi che i gregari dei sodalizi criminali organizzati. A Napoli, per esempio, sono già 300 i reclusi campani con condanne per reati di mafia che abbiamo già trasferito in altre strutture, tutte al Centro e al Nord”. Boss e gregari lontani dalle loro roccaforti, il “41bis” l’arma più efficace di Giuseppe Crimaldi Il Mattino, 26 ottobre 2019 Il problema esiste, ed è anche grosso. La possibilità di mantenere in carcere elementi della criminalità organizzata appartenenti agli stessi clan resta un pericolo da evitare. Perché nei momenti di socializzazione potrebbero avvenire scambi di notizie, ordini, pizzini e quant’altro può consentire a chi è in carcere per reati gravissimi di proseguire nella persecuzione delle strategie criminali. L’azione di contrasto da parte del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria su questo fronte è già iniziata. E a farne le spese sono stati già 300 detenuti per reati di associazione a delinquere di stampo mafioso originari della Campania (e soprattutto di Napoli). Non è ancora finita: a breve verranno completati altri trasferimenti, e la scelta di politica giudiziaria assunta dal ministero è chiara: i soggetti legati alle cosche di camorra dovranno restare a scontare le pene lontani dalle zone di origine. Per tutti la destinazione sarà dal Lazio in su, Sardegna compresa. Lontani, in ogni caso, dai territori di appartenenza. Si scrive 41bis, si legge “carcere duro”. Il regime di isolamento resta uno dei più formidabili strumenti per evitare che i mammasantissima di mafia, camorra e ‘ndrangheta (ma anche i loro fedelissimi) possano comunicare o organizzare strategie criminali anche dietro le sbarre. Subito un dato: sono 263 i boss e gli affiliati alla camorra sottoposti al carcere duro. Tra loro compaiono nomi eccellenti, praticamente tutto il gotha camorristico finito nelle maglie della giustizia. Paolo Di Lauro, alias Ciruzzo ‘o milionario, il boss dei boss del narcotraffico che trasformò Secondigliano nel più grande supermercato a cielo aperto dello spaccio di stupefacenti, si trova nel supercarcere dell’Aquila; il suo ultimo figlio Marco - catturato dopo ben 14 anni di latitanza - è recluso, sempre al 41bis, a Sassari, dove - in un altro reparto di alta sicurezza - sconta la sua pena un altro pezzo da novanta del panorama criminale napoletano: Edoardo Contini, detto ‘o romano, uno dei più potenti personaggi della criminalità organizzata partenopea. Al carcere duro resta anche Michele Zagaria, il leader indiscusso del clan dei Casalesi: per lui, recentemente, è stato disposto un trasferimento: dopo un presunto tentativo di suicidio in cella nel carcere milanese di Opera, per Michele capastorta si è aperta la porta di una nuova cella d’isolamento, questa volta nella casa circondariale di Tolmezzo, a Udine. Anche per il boss della camorra maranese, Antonio Orlando, di recente è stato deciso il trasferimento, con aggravamento della pena al 41bis: da Milano-Opera a L’Aquila. Il livello di attenzione investigativa nei confronti di imputati e condannati con sentenza definitiva per reati di stampo mafioso non si ferma mai. Nemmeno, ovviamente, quando sono detenuti. In questi ultimi anni la qualità professionale degli uomini della Polizia penitenziaria è cresciuto moltissimo: ed è a loro che vengono affidate le verifiche e anche eventuali indagini laddove sussistessero sospetti a carico dei reclusi. Nel marzo dello scorso anno il Dap - sulla base di alcune relazioni interne - dispose per esempio il trasferimento “ad horas” di 26 napoletani condannati per reati di mafia. In tempo da record (e in gran segreto) vennero organizzati anche i piani di trasferimento, con tanto di aerei, e tutti vennero trasferiti dal carcere di Bancali (Sassari) ad altre strutture. Per la cronaca, in quella stessa struttura era detenuto anche Raffaele Amato, il capo degli Scissionisti di Scampia. Ma torniamo al regime di isolamento previsto dall’articolo 41bis. In Italia ci sono solo 11 strutture che rispondono ai requisiti del carcere duro: ma, a quanto pare, soltanto uno è conforme a tutte le prescrizioni di legge, proprio quello di Bancali-Sassari. In altre “supercarceri” restano infatti situazioni logistiche che lasciano a desiderare: celle sistemate l’una di fronte all’altra, oppure - come a l’Aquila - per 52 gruppi di socialità ci sono solo 11 passeggi utilizzabili, con un potenziale rischio di contatti tra reclusi isolati. Sulla giustizia il Pd sia coraggioso. No a derive securitarie e sbornie forcaiole di Valeria Valente* huffingtonpost.it, 26 ottobre 2019 I prossimi mesi consegneranno al Governo e alla maggioranza parlamentare un compito importante e, insieme, impegnativo. Dovremo dimostrare di saper offrire un quadro di riforme utili agli italiani, che consentano di lasciarsi alle spalle l’esperienza politica sovranista-populista che in poco più di un anno ha segnato profondamente l’Italia. Lo ha fatto alimentando un clima pericoloso di aggressività e fanatismo nel Paese, oltre che compiendo scelte dannose nel merito delle politiche economiche, migratorie e della giustizia. Superare quella stagione è lo scopo con cui sono nati il Governo in carica e la nuova maggioranza in Parlamento, di cui il Partito democratico fa parte. Ed è innanzitutto a questo obiettivo che ciascuna forza politica di governo è chiamata oggi a contribuire. Perciò mi sembrerebbe francamente stupefacente se il Partito democratico non portasse nel dibattito il suo contributo ideale e programmatico, quello che ha costruito attraverso anni di discussione interna e aperta alla società, e attraverso una lunga esperienza di governo. Prendiamo il settore della giustizia, uno dei capitoli più rilevanti dell’azione di ciascun esecutivo e che già nelle prossime settimane vedrà questo Governo prendere rilevanti iniziative di intervento. È comprensibile che la nuova maggioranza, in particolare Movimento 5 Stelle e Partito democratico, sia alla ricerca di un nuovo profilo sulle politiche, richiesto dai tanti nodi rimasti aperti nei mesi precedenti, dalla prescrizione alle intercettazioni, dal sovraffollamento nelle carceri tornato a crescere in modo preoccupante fino al tema della durata dei processi. Ci sono cose da fare subito. Due su tutte: il blocco, o almeno il rinvio, dell’entrata in vigore delle nuove disposizioni sulla prescrizione previsto dal gennaio 2020 e lo sblocco della nuova disciplina delle intercettazioni, che da più di un anno subisce continui rinvii. Sulla prescrizione: i dati a disposizione dimostrano il peso limitato che essa ha dopo l’esercizio dell’azione penale. Ma soprattutto, a detta di molti (magistrati, avvocati, professori) c’è un rischio molto concreto che nel sistema attuale il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado rallenti ulteriormente i processi. Non è accettabile che lo Stato da un lato riconosca il proprio fallimento sui tempi con cui esercita l’azione penale e poi lo scarichi tutto sulle spalle dei cittadini, facendo diventare il processo, di fatto, una pena anticipata. Ecco perché, almeno un rinvio, in attesa dell’intervento sul processo penale, sarebbe più che auspicabile, doveroso. Ma credo che tutta la discussione sui singoli temi sarebbe vana se la nuova maggioranza non riuscisse a ribaltare l’immagine che sui temi della giustizia è stata data negli ultimi mesi dal precedente governo. La cronaca più recente ci offre due spunti da cui sarebbe utile partire. Da un lato, la recentissima sentenza della Corte costituzionale sull’ergastolo ostativo riapre un tema fondamentale: la tutela dei diritti di ogni detenuto in conformità con il fine rieducativo della pena. Senza concedere regali a nessuno, la Corte però mi pare sia intervenuta, dentro una logica opposta a quella degli automatismi, mettendo al centro la valutazione del magistrato di sorveglianza, che ha tutti gli strumenti per una considerazione ponderata sui permessi premio, attenta a tutte le esigenze di sicurezza, compresa quella relativa ai familiari delle vittime. Ecco perché ritengo quel pronunciamento coraggioso e di grande valore. D’altra parte, la fiducia nella magistratura, nella sua autonomia e capacità di valutazione, va ribadita anche su questi temi, dove magari il “vento” popolare soffia in direzione diversa. L’altro tema è la situazione delle nostre carceri, dove il sovraffollamento ha raggiunto in questi mesi di nuovo livelli di allerta massima dopo anni sotto controllo. Ricordo quello che nel marzo scorso ha sottolineato il Garante nazionale dei detenuti: nell’ultimo anno la popolazione detenuta è cresciuta progressivamente, a fronte di una diminuzione delle persone che sono entrate in carcere. È un dato che fa riflettere, perché indica che l’aumento è dovuto non a maggiori ingressi, ma a minori possibilità di uscita. E allora, dopo che la parte più innovativa della riforma dell’ordinamento penitenziario si è persa per strada, credo sarebbe il momento di riprendere quel filo, riproponendo un modello di detenzione che, sia culturalmente sia dal punto di vista attuativo, metta al centro la proiezione verso il “dopo”. Non significa avvallare norme “svuota-carceri”, ma riconoscere un diritto alla speranza che è di tutti. E significa anche rifiutare che nel luogo in cui si ricostruisce il senso di legalità possano diffondersi situazioni palesemente al di fuori di ogni legalità. Questi pochi esempi spiegano perché su questo terreno il Partito democratico può e deve giocare una partita da protagonista. Il suo contributo è irrinunciabile per tre ragioni. Primo, ricostruire i binari di un’idea di giustizia liberale e non punitiva, che ci vede occupare la posizione diametralmente opposta rispetto a chi inneggia al carcere a vita. Secondo, rendere efficiente e celere la risposta dello Stato alla richiesta di giustizia dei cittadini, difendendo però le garanzie individuali e non affidandosi alla pena come strumento di vendetta nei confronti del colpevole. Terzo, costruire, con il contributo di molti, la resistenza culturale e politica a una deriva secondo cui il miglior strumento per combattere il nemico sociale di turno è la terribilità delle pene, la repressione violenta e indiscriminata, la sospensione dei diritti degli individui. Il Partito democratico è nato con una funzione, quella di difendere e rinnovare gli strumenti attraverso cui vivono la democrazia e l’esercizio dei diritti. In tutti i luoghi della società, sui luoghi di lavoro come nelle famiglie, nelle aule dei tribunali come nelle carceri. Oggi più che mai c’è bisogno di un partito che interpreti senza ambiguità questo ruolo. Un partito che sappia difendere i cardini dello stato di diritto contro le spinte di chi strumentalizza le reazioni dell’opinione pubblica, il dolore delle vittime, la paura sociale per accaparrarsi un po’ di consenso in più, incrinando però così i principi della democrazia liberale. Per questo, la battaglia contro l’ossessione securitaria e la sbornia populista e forcaiola, come quella in nome di una giustizia efficiente e non piegata alle strumentalizzazioni non sono elementi negoziabili. Sono i connotati che fanno del Partito democratico quello che è stato in questi anni: un partito capace di tenere la barra riformista, anche quando si è trovato a dover mediare e trovare soluzioni di compromesso sui temi più spinosi. Ancora di più oggi, in questa alleanza di governo, quelle radici vanno utilizzate per costruire una sintesi avanzata anche sul terreno della giustizia. Quello che, invece, il Partito democratico proprio non può permettersi è di rimanere afono per tenere il megafono ad altri. *Avvocato, senatrice del Pd e Presidente della Commissione d’inchiesta sul Femminicidio “La tutela dei diritti garantita dal patrocinio a spese dello Stato” di Simona Musco Il Dubbio, 26 ottobre 2019 La Giornata europea della giustizia al Cnf. Nella Giornata europea della giustizia, il Consiglio nazionale forense ha puntato i riflettori sulle possibilità di accesso alla giustizia dei detenuti e sul patrocinio a spese dello Stato, argomento oggetto di un tavolo ministeriale, fortemente voluto dal Cnf, con le componenti associative specialistiche dell’avvocatura e il Congresso nazionale forense. Un tavolo che ha portato ad un progetto di riforma, trasfuso in buona parte in un disegno di legge di iniziativa ministeriale, in Parlamento proprio in questi giorni. A presentare la proposta, nel corso dell’evento che si è tenuto nella sede del Cnf, è stata la consigliera Giovanna Ollà. “Ci sono delle novità importanti per quanto riguarda l’estensione del gratuito patrocinio anche alle procedure di negoziazione assistita - ha sottolineato -. È stato esteso il novero dei soggetti vulnerabili che hanno diritto al patrocinio a spese dello Stato, indipendentemente dai limiti di reddito. Si tratta delle persone offese nei reati di violazione degli obblighi di assistenza familiare, quando sono minori di età e soggetti inabili al lavoro, e le persone offese dal reato di tortura, di recente introduzione normativa”. Tra le altre indicazioni importanti, il tentativo di dare una misura alle soglie minime di liquidazione, al di sotto delle quali nemmeno il giudice può scendere. “È molto importante - ha sottolineato Ollà - perché si spera si arrivi ad arginare liquidazioni totalmente indecorose. Ci sono principi di velocizzazione nelle richieste di liquidazione e nell’emissione dei provvedimenti, con delle tempistiche stabilite che vincolano il magistrato, e la possibilità di inoltrare le domande di patrocinio via pec, sempre nell’ottica di semplificazione. È importante che si sia arrivati ad un primo approccio di revisione organica”. Ma la riforma avrà anche il merito di sottolineare il ruolo del difensore nel patrocinio a spese dello Stato. “La direttiva europea fa riferimento anche alla necessità di garantire una formazione adeguata dei difensori che difendono con patrocinio a spese dello Stato”, ha aggiunto. Nel sistema di tutela dei diritti, la proposta è fondamentale per l’affermazione di un principio: la necessità di garantire l’accesso alla giustizia alle persone che sono più deboli economicamente “e ai deboli per eccellenza, le persone detenute e private della libertà personale. Uno Stato che voglia dirsi di diritto e civile - ha concluso - non può dimenticarsi di chi ha meno possibilità economiche”. Nel corso del dibattito è stata presentata la ricerca “Eupretrialrights”, con i risultati del Libro Bianco “Bringing justice into prison”. Una ricerca, ha spiegato Daniela Ranalli, del “Prison litigation network” e già giurista presso la Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha evidenziato la difficoltà effettiva del detenuto ad accedere effettivamente alla giustizia a causa di risorse culturali ed economiche scarse. “La Cedu - ha evidenziato - è diventata il referente a livello sovranazionale per la tutela dei diritti dei detenuti, a partire dal divieto di tortura e trattamenti inumani. Nell’ultimo decennio il contenzioso penitenziario ha rappresentato circa il 25% dei ricorsi alla Cedu. E in questa mole di lavoro la Corte ha elaborato una giurisprudenza: i detenuti devono disporre di un sistema di rimedi interni che consenta di lamentarsi delle violazioni e imponga una cessazione delle stesse e una riparazione effettiva”. Ma dalla ricerca è emerso un paradosso: pur riconoscendo un corredo sempre più ampio di diritti ai detenuti e strumenti procedurali sempre più importanti, la Cedu inquadra il detenuto con una certa artificialità, concentrandosi molto poco sulla necessità di una difesa tecnica. Ad illustrare le iniziative messe in campo dal ministero della Giustizia a tutela dei diritti delle persone detenute è stata Emma Rizzato, magistrato distaccato a via Arenula presso l’Ufficio del capo di gabinetto. “Il ministero ha a cuore l’accesso alla giustizia e la vulnerabilità sociale - ha sottolineato -. E sono state messe in campo iniziative di tipo organizzativo e trattamentale a favore dei detenuti”. Rizzato ha fatto riferimento ai decreti legislativi del 2018 finalizzati all’innalzamento degli standard di vita carceraria, nonché l’istituzione di due nuovi Icam per le mamme detenute con figli a seguito, azioni per permettere il riconoscimento della prossimità territoriale, nonché la “possibilità di video colloqui con familiari attraverso Skype”. Ma a passare dalla teoria alla vita di tutti i giorni in carcere ci ha pensate Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. “Se penso al progetto di lavoro “Mi riscatto”, dove i detenuti fanno lavori che dovrebbe fare il Comune con gente in mitra a sorvegliarli, io lo chiamerei “Mi vergogno”. Questa non è dignità - ha sottolineato -. E non solo: i colloqui su Skype non esistono, la prossimità territoriale viene negata e tutta una serie di cose che enunciamo in parte sono sulla carta, in parte anche negative”. Palma ha dunque invitato tutti a prestare attenzione. “Si sono troppo assuefatti gli occhi di chi lavora nel carcere e quelli dei medici che non vedono più i lividi - ha sottolineato -. Il buon garante, se vuole davvero dare un contributo, deve tenere gli occhi ben aperti”. Uno sguardo, ha concluso Ollà, che anche gli avvocati devono avere. La Cassazione e lo stato di diritto di Arturo Diaconale L’Opinione, 26 ottobre 2019 “A Milano - ha affermato il Capo della Procura milanese, Francesco Greco - le aziende investono più in tangenti che in innovazione”. Al punto, ha aggiunto il magistrato, che gli uffici giudiziari sono intasati dalle inchieste su questo fenomeno corruttivo. Le affermazioni di Greco suggeriscono una fantasia niente affatto irrealistica. Che succederebbe se il Procuratore di Milano decidesse di combattere il macro-fenomeno corruttivo delle tangenti sostenendo che questo tipo di reato può essere considerato di stampo mafioso ed applicando la legislazione antimafia per riuscire più efficacemente a stroncarlo? Quanto è avvenuto durante l’inchiesta su “Mafia Capitale” può essere una risposta possibile: una serie di arresti eccellenti (che nel caso di Milano riguarderebbero non Buzzi e Carminati e qualche politico minore, ma manager di multinazionali e personaggi di massimo livello) ed una campagna mediatica all’insegna della lotta alla mafia accusata di aver conquistato la Capitale morale ed economica del Paese. Magari questa campagna mediatica non arriverebbe, come è avvenuto a Roma, ad accusare di concorso in associazione mafiosa gli avvocati degli imputati. A Milano gli studi legali hanno una capacità di condizionare i media settentrionali più forte di quelli capitolini. Ma il risultato sarebbe praticamente lo stesso: la conferma di quanto Greco già sa, cioè l’esistenza di una forte corruzione in cambio di uno sfregio permanente all’immagine della città con un conseguente discredito internazionale e con una altrettanto conseguente regressione politica ed economica della comunità più dinamica del Paese. Questa fantasia, suggerita dalla sentenza della Cassazione che è ha di fatto negato che la corruzione sia un fenomeno mafioso da contrastare con la legislazione emergenziale antimafia, è destinata a rimanere tale. La linea della palma di Leonardo Sciascia ha da tempo superato la Linea Gotica ed anche la barriera alpina. Ma è difficile che a Milano possa essere riservata la sorte toccata a Roma, divenuta di colpo la Capitale mafiosa di un Paese automaticamente mafioso. Ciò non toglie, però, che il pensiero giustizialista che percorre e sconvolge da almeno due decenni la società italiana rimanga sempre più convinto che la corruzione costituisca una emergenza da combattere con le legislazioni emergenziali usate prima contro il terrorismo degli anni 70 e successivamente contro la mafia stragista dei corleonesi. Certo, le legislazioni emergenziali garantiscono risultati più rapidi, più clamorosi e massima visibilità per chi le gestisce. Ma, proprio perché emergenziali, dovrebbero essere un vulnus solo temporaneo dello stato di diritto. Trasformarle in permanenti significa cancellare lo stato di diritto. Con tutte le relative conseguenze. Contro l’evasione fiscale più intercettazioni e più carcere di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 26 ottobre 2019 L’inasprimento delle pene previsto dal Dl fiscale amplia lo spazio di controllo dei pm sugli indagati. Più spazio alle intercettazioni contro l’evasione. Con il decreto legge fiscale si irrobustisce una linea di tendenza che, attraverso la leva dell’inasprimento delle sanzioni, conduce, tra le conseguenze, anche all’allargamento delle possibilità di effettuare intercettazioni da parte delle autorità investigative. In particolare, nel pacchetto penale in attesa di pubblicazione sulla “Gazzetta” (l’ultima versione rinvia il debutto delle misure penali alla data di entrata in vigore della legge di conversione), è innalzata la pena detentiva dagli attuali i anno e 6 mesi nel minimo e 4 nel massimo, a un minimo di 2 e un massimo di 6 per il reato di omessa dichiarazione. Delitto non proprio trascurabile, visto che di solito è contestato nei casi di estero-vestizione, dove a fare da proverbiale punto di riferimento sono procedimenti come quelli che hanno interessato il comparto della moda da Dolce e Gabbana a Valentino, piuttosto che Amazon e Google. Al quale si aggiunge anche l’ipotesi, di nuovo conio, della ipotesi attenuata della dichiarazione fraudolenta, nella tipologia della condotta con uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, dove la previsione di una pena compresa tra un minimo di i anno e 6 mesi e un massimo di 6, fa superare quel limite di 5 anni cui il Codice di procedura penale aggancia la possibilità di effettuare intercettazioni. L’intervento sulla condotta di omessa dichiarazione e dichiarazione fraudolenta si affianca a quelli che, negli anni passati, hanno reso possibile effettuare intercettazioni per le ipotesi standard di dichiarazione fraudolenta, di occultamento o distruzione di documenti contabili, di falsa fatturazione, di indebita compensazione, dei casi più gravi di sottrazione fraudolenta. Con almeno una serie di dubbi da una parte sulla opportunità di una possibilità di utilizzo così ampia di uno strumento investigativo assai invasivo e dall’altra sulla sua effettiva efficacia nell’attività di contrasto a un tipo di criminalità in larga parte agganciato a “maneggi” su documentazione dichiarativa o contabile. E con una specificità però che è tipica, determinata dal doppio binario, penale-amministrativo, per contrastare le condotte di evasione. Un doppio binario oggi sotto pressione sul piano giuridico per le sempre più frequenti contestazioni sulla legittimità della coesistenza di una risposta amministrativa che può essere tanto afflittiva da configurarsi come “para-penale” e una che penale lo è a tutti gli effetti ai medesimi fatti illeciti. Sull’utilizzo del materiale acquisito con le intercettazioni, poi, il doppio binario ha un impatto specifico. Perché legittima l’utilizzo nel procedimento tributario del materiale acquisito con le intercettazioni autorizzate nella vicenda penale, anche quando quest’ultima si è magari conclusa con un’assoluzione. È stata la stessa Cassazione, a più riprese, a spiegare che il divieto introdotto dall’articolo 270 del Codice di procedura penale di utilizzare i risultati di intercettazioni telefoniche in procedimenti diversi da quello in cui sono state disposte non vale per il contenzioso tributario, ma solo in ambito penale. Così, materiale legittimamente raccolto in sede penale e trasmesso all’amministrazione finanziaria entra a fare parte a pieno titolo del materiale probatorio che il giudice fiscale deve valutare. A rendere più problematico poi il costante allargamento della possibilità di ricorso alle intercettazioni c’è la perdurante assenza di una disciplina sulla divulgazione dei contenuti estranei all’interesse investigativo. La riforma Orlando è stata congelata dal Governo Conte 1 sino a fine anno. Ora il Conte 2, con un Pd partner di governo che proprio l’ex ministro della Giustizia ha come vicesegretario, dovrebbe intervenire, ma già aleggia un ulteriore rinvio, per cercare di conciliare le esigenze di indagine con quelle di tutela della privacy. Con il paradosso di Procure che intanto si sono già attrezzate con il “fai-da-te”, da Roma a Firenze. Evasione fiscale. Possibile la custodia cautelare per omessa dichiarazione dei redditi di Laura Ambrosi e Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 26 ottobre 2019 Per i reati di omessa o infedele presentazione della dichiarazione dei redditi e Iva e per il delitto di omessa presentazione della dichiarazione dei sostituti di imposta potrà essere richiesta la custodia cautelare in carcere. Sempre per questi delitti, in conseguenza dell’aumento di pena, non ci sarà più la citazione diretta a giudizio ma occorrerà effettuare l’udienza preliminare innanzi al Gup. Saranno queste alcune delle conseguenze, oltre alle novità sulle intercettazioni telefoniche (si veda altro articolo in pagina) derivanti dalle modifiche che verranno apportate dal Dl fiscale al decreto sui reati tributari. La custodia cautelare in carcere (articolo 280 del codice di procedura penale) può essere, tra l’altro, disposta per delitti, consumati o tentati, per i quali sia previstala pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni, oltre che, evidentemente, in presenza di determinate circostanze che valuterà il Gip. Ne consegue che, attualmente, con riferimento ai reati tributari (decreto legislativo 74/2000), tale misura non può essere adottata per: dichiarazione infedele delle imposte sui redditi e Iva; omessa presentazione della dichiarazione imposte sui redditi, Iva e sostituto di imposta; omesso versamento ritenute, Iva e indebite compensazioni di crediti non spettanti; sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte per importi inferiori ai 100mila euro. Con le modifiche che apporterà il Dl fiscale vengono tra l’altro aumentate le pene minime e massime dei seguenti reati: dichiarazione infedele dei redditi e Iva che in futuro sarà sanzionata. con la reclusione da due a cinque anni e non più con la reclusione da uno a tre anni; omessa presentazione della dichiarazione dei redditi, dell’Iva e del sostituto di imposta che sarà sanzionata con la reclusione da due a sei anni e non più da 18 mesi a quattro anni. Per questi delitti, stante la nuova pena massima edittale (non più inferiore ai cinque anni di reclusione), potrà applicarsi la custodia cautelare in carcere. Da evidenziare che nel caso dell’infedele dichiarazione sono state abbassate anche le soglie di punibilità con la conseguenza che la rilevanza penale della condotta viene sensibilmente ampliata ricomprendendo illeciti finora considerati soltanto violazioni amministrative. La nuova fattispecie scatterà infatti al superamento di imposta evasa superiore a 100mila euro - e non più 150mila euro (da intendersi sempre per ciascuna imposta e per ciascun periodo di imposta) ed allorché gli elementi attivi sottratti ad imposizione siano comunque superiori a 2 milioni (e non più 3 milioni di euro). Peraltro viene abrogata la causa di non punibilità sinora prevista in base alla quale non danno luogo a fatti punibili le valutazioni che singolarmente considerate differiscono in misura inferiore al 10% da quelle corrette. In conseguenza dei citati aumenti di pena i medesimi delitti non avranno più la citazione diretta a giudizio da parte del Pm. In altre parole, una volta terminatele indagini preliminari, ove la Procura non intenda richiedere l’archiviazione, provvede a citare a giudizio (e quindi all’udienza dibattimentale) l’imputato. In futuro invece anche per questi delitti (essendo prevista una pena massima superiore a 4 anni) il Pm dovrà richiedere il rinvio a giudizio al Gip, il quale, all’esito di un’udienza preliminare, deciderà se assecondare la richiesta del Pm ovvero disporre il non luogo a procedere. Da notare che in molti tribunali questa modifica comporterà anche un maggior carico di lavoro per i giudici monocratici togati in quanto, in presenza di un rinvio a giudizio da parte del Gup, la fase dibattimentale non può svolgersi innanzi ad un giudice onorario, a differenza delle ipotesi di citazione diretta a giudizio. I Cucchi ricusano il giudice del processo sui depistaggi: “Troppo vicino all’Arma” di Carlo Bonini La Repubblica, 26 ottobre 2019 La battaglia della famiglia Cucchi non è finita. E alla vigilia ormai del terzo processo che si aprirà il 12 novembre agli otto tra ufficiali e sottufficiali dell’Arma imputati a diverso titolo per i depistaggi che, nel 2009 e nel 2015, impedirono di arrivare tempestivamente alla verità sull’omicidio di Stefano e sui suoi responsabili, Ilaria e i suoi genitori Rita e Giovanni (e con loro tutte le parti civili private che si sono sin qui costituite, dunque anche gli agenti di polizia penitenziaria ingiustamente processati nel primo giudizio di merito), chiedono formalmente, con un’istanza che è stata depositata al presidente del Tribunale di Roma, che il giudice monocratico assegnato a quel dibattimento si astenga “per gravi ragioni di convenienza”. Il magistrato si chiama Federico Bona Galvagno e, fino alla primavera scorsa, è stato giudice a Temi. Ma, quel che conta, per la parti civili del processo per il depistaggio degli ufficiali dei carabinieri, è stato ed è “troppo vicino” all’Arma. E in particolare a uno dei suoi ex comandanti generali, Tullio Del Sette, per altro attualmente imputato proprio a Roma per violazione del segreto di ufficio nell’inchiesta Consip. “Da un casuale accesso a fonti aperte - si legge infatti nell’istanza depositata in tribunale - è emerso che il giudice Bona Galvagno ha partecipato, quale magistrato appartenente al Tribunale di Terni, a una serie di eventi (convegni, inaugurazioni, conferenze) tenutisi tra il 2016 e il 2018 che, sia per l’oggetto, sia per i partecipanti (tra gli altri, alti appartenenti all’Arma dei carabinieri), hanno attirato l’attenzione degli scriventi”. In particolare, l’istanza ne elenca due: L’incontro dell’8 maggio 2018, dal titolo “Sicurezza e Carabinieri: l’Arma oggi tra le forze dell’ordine” alla presenza dell’allora comandante generale Tullio Del Sette. E quello del successivo 22 novembre dello stesso anno - “Il ruolo dei Carabinieri nell’attuale mutamento socio-culturale”, sempre alla presenza del generale Del Sette. Troppo - a giudizio dei Cucchi per scacciare il dubbio che quel magistrato coltivi un’istintiva e consolidata vicinanza o, comunque, una non sufficiente serenità, per sedersi da giudice monocratico nell’aula dove si dipanerà il filo del più importante forse dei tre processi celebrati per la morte di Stefano. Quello sui depistaggi, appunto. Dove per altro il generale Del Sette, quale ex comandante generale dell’Arma negli anni in cui uno dei due depistaggi si consumò, verrà chiamato a deporre. E dove, inevitabilmente, uno dei nodi cruciali sarà comprendere per quale motivo un’intera catena gerarchica (quella dei carabinieri di Roma) cospirò per il silenzio lasciando che venissero accusati degli innocenti (tre agenti della polizia penitenziaria). E, soprattutto, se di quel silenzio fu o meno complice il vertice stesso dell’Arma (due i comandanti generali che si sono avvicendati tra il 2009 e il 2015, Gallitelli e Del Sette). “La situazione di fatto che si è venuta a creare - si legge così nell’istanza di astensione - può concretare quelle gravi ragioni di convenienza che i difensori delle parti civili ritengono sussistenti in relazione allo specifico tema del processo. Inoltre, dato il clima di forte sospetto dell’opinione pubblica sul tema oggetto del processo, la divulgazione mediatici delle informazioni sopra riportate, potrebbero far nascere speculazioni che finirebbero per influire sul clima di sereno giudizio necessario al corretto svolgersi del dibattimento”. Si vedrà quale sarà la decisione del tribunale. Certo, questo incipit aiuta a comprendere quale sia la partita che andrà a cominciare tra due settimane (appena due giorni prima della sentenza che deciderà sui tre carabinieri imputati per l’omicidio di Stefano). Un processo dove l’Arma, per altro, sarà a sua volta parte civile e dunque accusa privata contro i suoi otto ufficiali. Corte costituzionale: arriva il 41bis per il divieto di scambio di oggetti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 ottobre 2019 Da esaminare due casi di illegittimità sollevati dalla Cassazione. La Consulta dovrà decidere sulla questione di illegittimità costituzionale del 41bis, relativamente alla parte del comma secondo quater, lett. f), secondo periodo, che impone all’Amministrazione penitenziaria di adottare tutte le misure di sicurezza volte ad assicurare l’assoluta impossibilità per i detenuti di scambiare oggetti tra loro, anche se appartengono al medesimo gruppo di socialità. A sollevare la questione è stata la Cassazione. Tutto ha avuto inizio grazie al reclamo proposto dall’avvocata Barbara Amicarella del foro de L’Aquila, in seguito al cui accoglimento, dinanzi al magistrato di sorveglianza di Spoleto, l’Avvocatura di Stato aveva proposto reclamo al Tribunale di Sorveglianza di Perugia: il ricorso veniva respinto, ma l’Avvocatura di Stato proponeva ricorso per Cassazione e in quella sede la Corte ha trasmesso gli atti alla Consulta, come del resto aveva sin dall’inizio auspicato l’avvocata Barbara Amicarella. Nel frattempo si è aggiunto un altro caso simile seguito questa volta dall’avvocata Piera Farina e, sempre la Cassazione, ha dichiarato fondata la questione di illegittimità costituzionale. Entrando bene nella questione, bisogna riportare ciò che dice la lettera f) dell’articolo 41bis, ovvero dove prevede l’adozione di “tutte le necessarie misure di sicurezza, anche attraverso accorgimenti di natura logistica sui locali di detenzione, volte a garantire che sia assicurata l’assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti e cuocere cibi”. Tutto si basa sull’interpretazione data dall’inserimento del segno di interpunzione della virgola fra le parole ‘socialità’ e ‘scambiare’. Non è una questione da poco, perché si potrebbe evincere che tale la disposizione avrebbe contemplato “l’assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità” e pertanto “l’assoluta impossibilità” deve ritenersi riferito alle comunicazioni fra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, con l’ovvia conseguenza che non è richiesto di impedire in modo così radicale lo scambio degli oggetti. Da ricordare che il divieto di “cuocere cibi”, invece, è decaduto grazie alla sentenza 26 settembre 2018, n. 186 della Corte costituzionale. Il tribunale di sorveglianza di Perugia, come detto, aveva accolto il reclamo, disapplicando le determinazioni assunte dall’Amministrazione penitenziaria ordinandole di emettere un Ordine di Servizio volto a consentire il passaggio di oggetti e di generi alimentari tra i detenuti facenti parte del medesimo gruppo di socialità, soprattutto perché essendo lo scambio di oggetti comunque limitato a quelli di “modico valore” - con conseguente impossibilità di configurare alcuna “posizione di supremazia” tra i detenuti - il divieto di scambio tra soggetti del medesimo gruppo di socialità non poteva essere giustificato da ragioni di sicurezza. Il concetto è semplice. Nel medesimo gruppo di socialità, i detenuti al 41bis possono parlare tra di loro e non si comprende il fatto perché non sia consentito lo scambio di oggetti e il cibo, visto che non fa vanificare lo scopo primario del 41bis: ovvero quello di recidere i collegamenti tra il detenuto e l’associazione criminale di appartenenza. Alla fine, con il ricorso dell’avvocatura di Stato, si è giunti in Cassazione. Il sostituto Procuratore generale della Repubblica, con requisitoria scritta, condividendo l’Ordinanza impugnata per aver interpretato la norma restrittiva in maniera rispettosa dei fondamentali principi costituzionali, ha chiesto il rigetto dei ricorsi proposti dal ministero della Giustizia. La prima sezione penale della Cassazione, con riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 41bis, comma 2- quater della lettera f), disponendo la immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospendendo il giudizio in corso. La sentenza Contrada non vale per altri detenuti di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 26 ottobre 2019 Sezioni unite Penali. Non ha effetti espansivi la decisione europea sul concorso esterno. Non ha portata espansiva la sentenza Contrada della Corte dei diritti dell’uomo sul concorso esterno in associazione mafiosa. Lo hanno deciso le Sezioni unite penali della Corte di cassazione con una sentenza le cui motivazioni sono state anticipate ieri da un’informazione provvisoria. È così escluso che altri condannati per il medesimo reato e nello stesso arco temporale, è il caso di Marcello Dell’Utri, possano ottenere la revisione del processo già approdato a sanzione definitiva utilizzando il verdetto della Cedu. Quest’ultimo, infatti, nella lettura delle Sezioni unite non ha le caratteristiche di una sentenza pilota e non è espressione di una giurisprudenza europea consolidata. Nell’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite, la Sesta sezione penale sottolineava che la dottrina ritiene che il verdetto Cedu su Contrada abbia irrigidito i criteri di valutazione del concorso esterno. Mentre sarebbe meglio lasciare ai giudici italiani “un margine di apprezzamento per valutare come applicare “erga alios” la nozione di prevedibilità della legge penale”. Bruno Contrada fu condannato in via definitiva nel 2007 a io anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa, reato al quale si è sempre detto estraneo. Nell’aprile 2015 la Corte dei diritti dell’uomo condannò l’Italia a un risarcimento, per averlo sanzionato Contrada nonostante il concorso esterno in associazione mafiosa, all’epoca in cui si erano svolti i fatti in questione (1979-i988), non fosse previsto dalle leggi italiane. La Cedu aveva stabilito che, sino al1994, quando la stessa Cassazione, a Sezioni unite, con la sentenza Demitry, aveva dato pieno ingresso al reato nell’ordinamento giuridico italiano, la giurisprudenza non si fosse consolidata. Il Governo italiano aveva sostenuto il contrario, sottolineando che, sin dalla fine degli anni Sessanta, si era sviluppata una giurisprudenza precisa; tesi, però, contestata dai giudici europei che misero in luce come quelle sentenze attestavano sì l’esistenza di un’attenzione dei giudici al concorso esterno, ma non in associazione mafiosa, quanto piuttosto alla cospirazione politica e all’associazione a essa finalizzata. Nel 2017 la Cassazione, quando però Contrada aveva già terminato di scontare la pena, decretò, sulla base di quel giudizio europeo, la revoca della condanna. “Rispettiamo la decisione della Suprema Corte- puntualizza Stefano Giordano, il legale del condannato per concorso esterno la cui vicenda è approdata alle Sezioni unite - ma riteniamo che essa violi il più elementare diritto dei cittadini, quello all’uguaglianza e alla parità di trattamento: questioni identiche, infatti, sono state decise dal giudice italiano in maniera differente. La questione della natura consolidata della giurisprudenza europea è stata ormai superata sia dalla nostra Corte Costituzionale, sia dalla Corte Europea in più pronunce”. Oristano. Dopo 41 anni di ergastolo ostativo muore senza riabbracciare i suoi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 ottobre 2019 Alla fine non ce l’ha fatta, nemmeno per poche ore ha potuto riabbracciare i familiari a casa. Mario Trudu, ergastolano ostativo recluso da 41 anni, è morto all’ospedale di Oristano per complicanze polmonari dopo aver vinto la sua lunga battaglia per curarsi fuori dal carcere di Massama e riabilitarsi fisicamente stando ai domiciliari. Questo è il fine pena mai che vige in Italia e pochissimi altri Paesi. Questo è l’ergastolo ostativo quando non si collabora con la giustizia: si può uscire dal carcere solamente tramite una bara. Mario Trudu muore proprio quando due sentenze, quella della Cedu e poi della Consulta, aprono una breccia nel muro di cinta del fine pena mai. Trudu avrebbe avuto tutte le carte in tavola per poter uscire da uomo libero, riabilitato, pronto per ricominciare a vivere, come prevede la nostra Costituzione scritta da chi ha conosciuto la ferocia dello Stato etico durante il fascismo. Non a caso, sulla nostra carta costituzionale non viene menzionato l’ergastolo così come il carcere. La svolta culturale, la più alta e illuminante, fu proprio quella. Però Mario Trudu non ha potuto, nessun permesso premio, nessuna libertà condizionale e nemmeno, fino a venti giorni fa, la possibilità di curarsi adeguatamente fuori dal carcere. C’è la sua avvocata Monica Murru, la quale da anni si è battuta per lui, che giovedì sera ne ha dato la triste notizia. “Mi hanno appena avvisato che Trudu non ce l’ha fatta - scrive Murru - è morto stasera nel reparto di terapia intensiva, senza essere potuto tornare a casa neppure una manciata di ore. Ho davanti il suo viso, le sue braccia fatte di muscoli lunghi di uomo di campagna, come se avesse sempre zappato la terra anziché stare 40 anni in carcere, il suo sorriso ironico. E mi sento addosso il peso pesante di un lavoro inutile, di un risultato arrivato troppo tardi”. E infine aggiunge: “Una sopraggiunta proprio adesso che la Corte Europea dei diritti umani e la Consulta hanno sancito una svolta verso una giustizia umana, verso una pietà che Mario non ha potuto sperimentare. Stanotte la mia toga è pesante e fredda come una coperta sarda. Una burra di orbace capace di schiacciarti, ma non di scaldarti”. Trudu faceva il pastore, ma ha anche fatto parte della famosa Anonima sequestri. Infatti venne condannato per due sequestri di persona. Del primo si dichiarava da sempre innocente, e tramite il suo libro edito da Stampa Libera “Totu sa beridadi, tutta la verità, storia di un sequestro” - teneva molto a sottolineare che se non fosse stato per quella prima ingiusta condanna (30 anni, ha scritto, sono davvero troppi per un reato non commesso) non avrebbe architettato il rapimento poi compiuto fuggendo da Ustica, dove era al confino in attesa della sentenza di Cassazione. Non per giustificarsi, aveva sottolineato, ma per spiegare quali sono stati i meccanismi dell’odio e della rabbia. Era in carcere, come detto, da 41 anni, destinato a morirvi perché, assumendosi in pieno la responsabilità del sequestro dell’ingegner Gazzotti (morto in uno scontro a fuoco poco prima che venisse rilasciato), non ha mai fatto i nomi dei suoi complici. E lo Stato, nel caso di non collaborazione, è feroce, spietato, senza concedere alcuna possibilità. Trudu in occasione di un’udienza per chiedere di curarsi disse: “Non vi sto chiedendo di farmi uscire, ma di farmi curare”. Non è uscito dall’ergastolo ostativo, perché I magistrati ritenevano che la sua collaborazione potrebbe in astratto essere ancora possibile. L’avvocata Murru aveva presentato una miriade di istanze di permesso, anche legate a progetti, ma non era mai riuscita a ottenere nulla. Con la sentenza della Consulta avrebbe avuto finalmente la possibilità. Ma troppo tardi. Ora Trudu non c’è più. Sdr: morte Mario Trudu monito per le istituzioni La scomparsa di Mario Trudu non può essere una notizia di cronaca da mandare in archivio dopo qualche giorno. È una morte che reclama giustizia per quanto è accaduto e per ciò che attende chi vive la condizione di perdita della libertà e lo fa in condizioni di salute precaria. Lo hanno compreso bene i detenuti della Casa di Reclusione di Oristano-Massama che, con una raccolta di fondi hanno voluto salutare l’uomo di Arzana con una corona di fiori, come ha testimoniato il Cappellano don Gabriele ai familiari. Quella di Mario Trudu è una testimonianza importante e significativa per chi nutre ancora fiducia nelle Istituzioni e nello Stato di diritto. Ciascuna di esse ha il dovere di interrogarsi e conservare nella memoria la battaglia civile che un uomo ha condotto in 41 anni di detenzione, condannato al carcere ostativo in seguito alla applicazione retroattiva di una norma, oggi peraltro ufficialmente incostituzionale, Nessun riscatto per lui. Nessuna possibilità di essere riammesso al consorzio civile, neppure con una grave malattia invalidante che infine lo ha costretto a cedere. Mario Trudu insomma è un testimone esemplare, per molti forse ancora scomodo, delle contraddizioni, violazioni dei diritti umani e storture del sistema penitenziario in generale e di quello sanitario in particolare, specialmente negli ultimi tre anni della sua tormentata vita detentiva. Una persona che, raggiunta la totale consapevolezza degli errori commessi, vinta la sua intima battaglia contro l’odio e il desiderio di vendetta, ha più volte richiamato l’attenzione sulla illegalità della norma contrapposta alla Costituzione (il 4bis che applicato all’ergastolo ha reso questa pena senza fine e senza scopo). È lui che ha chiesto in più occasioni di essere fucilato in piazza, pubblicamente dunque, per rendere palese la “forza” di uno Stato che, in barba ai principi costituzionali sintetizzati dall’art.27 della pena finalizzata al recupero sociale, applica la legge della vendetta, l’attesa della morte come liberazione. E questo risentimento che appare ispirato dall’odio per l’incapacità di garantire una giustizia giusta a chi ha subito il torto e a chi lo ha fatto, sembra riverberarsi nel diritto alla salute, altro valore imprescindibile per i Padri costituzionalisti. Trudu aspettava da un anno troppo tempo di essere curato per la sclerodermia, una malattia polmonare che se trascurata non lascia scampo. Tanti appelli rimasti senza risposta, oltre alle sollecitazioni di specialisti. La tappa successiva è stato il tumore alla prostata. Perfino raggiungere l’ospedale San Martino di Oristano da Massama, secondo tempi adeguati, è stato un terno al lotto. Non è facile accettare la fine della vita come naturale compimento di un percorso di esistenza, ma diventa impossibile quando si cumulano ritardi, dubbi, ripetute richieste inevase. Quando subentra la disperazione e il cuore lacrima sangue. Mario Trudu è morto libero ma la sua storia non deve finire così, ha aperto una strada alla riflessione, ai tanti punti oscuri di un sistema che ha bisogno di una radicale ristrutturazione affinché sia davvero extrema ratio. Roma. Oltre 130 detenuti impegnati nel 2019 in progetti di pubblica utilità lavorolazio.com, 26 ottobre 2019 Risultati particolarmente positivi per i progetti di lavori di pubblica utilità attivi nella Capitale, grazie agli accordi congiunti fra Roma Capitale e il Ministero della Giustizia e Dipartimento Amministrazione Penitenziaria. Le iniziative attive, che vedono il coinvolgimento dei detenuti del carcere di Rebibbia, al momento prevedono la cura del verde, in collaborazione con il Servizio Giardini di Roma Capitale, e il rifacimento della segnaletica orizzontale e pulitura di caditoie stradali, con la società Autostrade per l’Italia Spa. Nel 2019, con dati aggiornati al 30 giugno, sono 68 le persone che si sono dedicate al ripristino del decoro del verde urbano, con relativi attestati di qualifica rilasciati dal Servizio Giardini di Roma Capitale, per un totale di 12452 ore, calcolando 4 ore di lavoro giornaliere, donate alla città. Per quanto concerne il progetto Mi Riscatto per Roma, realizzato con Autostrade per l’Italia, attualmente sono 15 le persone coinvolte, sempre con relativi attestati al termine, con un totale di 2712ore di lavoro gratuito per le strade di Roma. Nel prossimo mese altri 30 detenuti, terminato il corso per la manutenzione delle strade, potranno lavorare attivamente. 20 inizieranno, invece, il corso del Servizio Giardini. Questi progetti si fondano su attività di lavoro volontario, tenendo conto delle specifiche professionalità e attitudini lavorative, promuovendo un percorso di sensibilizzazione al rispetto del bene comune, alla legalità, all’osservanza delle regole e delle norme, come elementi imprescindibili per il percorso di reintegrazione del reo. Tramite la pratica lavorativa, inoltre, si diminuisce nettamente la possibilità di recidiva, come dimostrato sempre dai numeri: sono 7 le persone che hanno partecipato alle varie iniziative e che, non appena uscite dal regime di detenzione, hanno trovato un impiego proprio negli ambiti di applicazione dei progetti che li hanno visti coinvolti. “Come Amministrazione le attività volte a sviluppare percorsi di reintegrazione lavorativa per le persone in regime detentivo sono un obiettivo di primaria importanza. I numeri lo dimostrano: abbiamo avviato due progetti per ripristinare il decoro urbano sia sotto il profilo del verde che della manutenzione stradale, entrambi con successo. Non ci fermiamo e proseguiamo su questa linea grazie alla fattiva collaborazione con il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria e il Ministero della Giustizia. Questa prima fase del progetto ha infatti messo in luce come queste attività rappresentino un mezzo più che valido per coniugare le esigenze di Roma Capitale di cura del territorio con il reinserimento sociale dei detenuti”, dichiara la Sindaca di Roma Virginia Raggi. “Seguo personalmente, di concerto con la dottoressa Stramaccioni, il progetto fin dalle sue origini, quando nel dicembre del 2017 firmammo la prima Lettera d’Intenti. L’iniziativa ha riscosso subito grande approvazione, dalla cittadinanza che ha accolto con calore i detenuti in strada fino alle istituzioni, che hanno potuto vedere e apprezzare i risultati tangibili ottenuti. I numeri sono incoraggianti, testimoniano la validità del progetto, cercheremo, però, di incrementarne la mole nei prossimi mesi. Posso affermare, infatti, che a breve firmeremo un nuovo Protocollo di Intesa con il Ministero e il Dap - mi preme ringraziare per la disponibilità il dott. Basentini a tal proposito - per allargare i progetti anche in altri ambiti, ad esempio presso le aziende agricole di Roma Capitale, e coinvolgendo altri istituti penitenziari. Ringrazio infine il Tribunale di Sorveglianza, le varie istituzioni e società coinvolte nei singoli progetti e gli agenti della Polizia Penitenziaria per l’impegno e l’apprezzamento dimostrato finora”, afferma l’Assessore allo Sport, Politiche Giovanili e Grandi Eventi Cittadini con delega ai rapporti con il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Roma Capitale, Daniele Frongia. “Numeri positivi e che ci fanno ben pensare, il nostro obiettivo sarà quello di analizzare i dati e fare in modo di incrementare tali iniziative, per i detenuti poter imparare un mestiere che permetterà loro di avere delle possibilità lavorative una volta estinto il proprio debito con la società è di fondamentale importanza. Solo attraverso la rieducazione del reo potremo avere, infatti, una riduzione della piccola criminalità, il mio obiettivo in qualità di Garante è proprio quello di dar vita a delle situazioni di miglioramento delle condizioni delle persone in carcere, i progetti che prevedono i lavori di pubblica utilità sono il mezzo migliore per arrivare a tale scopo”, afferma il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Roma Capitale, Gabriella Stramaccioni. Vasto (Ch). Detenuti e internati si occuperanno della segnaletica stradale in città zonalocale.it, 26 ottobre 2019 Saranno detenuti e internati della Casa Lavoro di Vasto ad occuparsi della segnaletica stradale in città. Lo stabilisce l’accordo firmato questa mattina in Municipio tra il sindaco Francesco Menna e la direttrice della Casa Lavoro, Giuseppina Ruggero, alla presenza del magistrato di sorveglianza di Pescara, Marta D’Eramo, dei funzioari giuridico-pedagogici e della polizia penitenziaria. “Questo progetto - ha spiegato l’assessore Luigi Marcello - nasce da una chiacchierata informale di qualche mese fa. Ci abbiamo lavorato assieme al comandante della polizia locale, Giuseppe Del Moro, del funzionario giuridico-pedagogico Lucio Di Blasio e alle rispettive amministrazioni, ed oggi possiamo stipulare questa convenzione che, inizialmente, sarà per due anni.Avremo 5 persone che, gratuitamente, per sei giorni alla settimana e almeno 4 ore al giorno, si occuperanno della segnaletica orizzontale. Non saranno in sostituzione alle ditte che normalmente lavorano per il rifacimento della segnaletica ma le affiancheranno permettendoci così di curare meglio la città. Il Comune dovrà occuparsi solo del loro trasporto e dell’assicurazione oltre, naturalmente, a mettere a disposizione strumenti e attrezzature. Crediamo molto in questa iniziativa - ha sottolineato Marcello - lavorando in sinergia si riescono ad ottenere dei buoni risultati”. Con una squadra “aggiuntiva” si potrà così far fronte ad una grande carenza di segnaletica orizzontale in città e che spesso, per mancanza di risorse economiche, viene trascurata. Sarà il comandante della polizia locale Giuseppe Del Moro a coordinare le attività. “Sono davvero orgoglioso di questo progetto - ha spiegato Del Moro. Credo sia un’iniziativa che porta vantaggio sia al Comune che all’istituto penitenziario”. La direttrice Giuseppina Ruggero ha espresso la sua soddisfazione spiegando che “questa è una ulteriore implementazione del rapporto con il Comune. Ci sono già le collaborazioni positive con il progetto Marina Mia e quella con il tribunale a cui detenuti e internati hanno risposto positivamente. Il fatto che non venga loro garantito un compenso potrebbe evocare aspetti negativi di sfruttamento dei detenuti. Ma non è così. Alla direzione è chiesto di sperimentare il loro ruolo nel territorio per poi riferirlo al magistrato di sorveglianza che deve valutare la loro situazione. Con questi progetti noi possiamo fornire dei dati oggettivi. Nella mia esperienza mi sono sempre più convinta che dare fiducia genera risposte positive. E possiamo dire che, questa modalità di impiego, è anche una forma di riparazione del danno che, con i loro comportamenti passati, hanno causato alla società. Per chi è nella loro condizione sapere di doversi alzare, non poltrire, garantire un risultato non è scontato”. È della stessa opinione anche Marta D’Eramo, magistrato di sorveglianza di Pescara. “È un’iniziativa positiva e, il fatto che interessi una Casa Lavoro, ha una risonanza maggiore perché si tratta di soggetti che spesso sono emarginati. A noi magistrati spetta esaminare la loro situazione in base ad elementi concreti. Qui si sta creando un ponte che collega il dentro con il fuori. L’idea che loro possano sperimentarsi all’esterno, che faccia dire loro posso essere utile alla società, ci permette di avere uno strumento per dire ha dato prova di sé così da poter graduare la misura”. Il funzionario giuridico-pedagogico Lucio Di Blasio ha spiegato che “abbiamo tante attività ma non sono mai sufficienti. Il nostro obiettivo è quello di rispondere all’articolo 27 che ci dice che il detenuto e l’internato devono esser risocializzati. Grazie alla direzione, al Comune di Vasto, al tribunale di sorveglianza e al tribunale di Vasto per il loro spirito di collaborazione”. Antonella Tonti, responsabile dei funzionari giuridico-pedagogici ha ricordato come “la richiesta di applicazione e impegno è fondamentale. Siamo ben lieti che ci sia un ampliamento dell’offerta di opportunità. Quella della Casa Lavoro è un’utenza problematica, spero che questo progetto porti buon frutto”. Ora che la convenzione è stata firmata inizierà una fase di addestramento per le cinque persone coinvolte. Poi si inizierà con la realizzazione della segnaletica stradale, “magari iniziando da strade secondarie, con meno traffico, per far prendere loro dimestichezza - ha aggiunto Marcello - per poi estendere le attività a tutta la città”. Milano. Russo (Cei) a San Vittore: “L’amicizia islamo-cristiana? Nella vita concreta” di Lorenzo Rosoli Avvenire, 26 ottobre 2019 Il Segretario generale della Cei e alcuni leader musulmani ieri nello storico carcere milanese. Il Papa ci ha invitati a dare segni concreti. Ecco perché come Chiesa italiana abbiamo scelto di celebrare la Giornata dell’amicizia islamo-cristiana in un carcere. È un segno che offriamo - anche alla società civile - per dire che anche in un luogo di convivenza forzata è possibile vivere incontri positivi, all’insegna della fratellanza, della pace, del dialogo tra persone di culture e di fedi diverse”. Così il vescovo Stefano Russo, segretario generale della Cei, spiega il significato dell’incontro avvenuto ieri pomeriggio a Milano, all’interno della storica casa circondariale di San Vittore. Con lui hanno varcato la soglia del carcere autorevoli esponenti dell’islam nazionale e milanese, tutti invitati ad assistere - assieme ai detenuti - ad uno spettacolo teatrale, “Leila della tempesta”, scritto e interpretato da Alessandro Berti con Sara Cianfiglia. “Un’opera che nasce dalla straordinaria esperienza di dialogo vissuta in carcere da Ignazio De Francesco, monaco della Piccola Famiglia dell’Annunziata, in particolare con una donna detenuta. Da quell’esperienza - riprende Russo - è nato un libro, e dal libro una pièce, che permette di toccare temi come la religione, la cittadinanza, il rapporto uomo-donna e altri ancora, calati nel concreto della vita. Portare quest’opera in un carcere ci dice che l’uomo può cercare il bene ovunque”. Offrire segni concreti. Partire dalla vita. Ecco di cosa ha bisogno il dialogo islamo-cristiano per diventare amicizia generatrice di bene comune. “L’incontro di vertice, fra leader, non basta. Il dialogo autentico deve abitare la quotidianità, per farsi incontro, conoscenza e riconoscimento reciproco”, scandisce Yassine Lafram, presidente nazionale dell’Ucoii (Unione delle comunità islamiche d’Italia). “Dobbiamo educare alla cultura del dialogo - riprende Lafram. E proprio il carcere può essere il luogo di questo dialogo della vita, dove nella convivenza con persone di fede diversa, mentre impariamo a conoscere e rispettare gli altri, riscopriamo la nostra fede”. Ed è questa la via per affrontare i rischi di radicalizzazione che a volte insidiano i detenuti di fede musulmana. “Un problema sovradimensionato ma reale, che si verifica perché non è garantito il diritto costituzionale ad avere assistenza spirituale in carcere - sottolinea il presidente dell’Ucoii. Quando per anni non entra un imam, accade che si formino gruppi di detenuti e, al loro interno, imam autoproclamati, col rischio di dare “copertura” religiosa ai sentimenti di rabbia e rivalsa così diffusi in carcere. Serve un accordo fra Stato e comunità islamiche per individuare imam e guide che possano dare assistenza spirituale in carcere, alternativa alla religione “fai da te”. Guide che possono anche essere donne, come le due che a nome dell’Ucoii prestano servizio a Bollate”. La Giornata dell’amicizia islamo-cristiana ricorda lo storico incontro interreligioso di preghiera per la pace convocato da san Giovanni Paolo II ad Assisi il 27 ottobre 1986 e ha trovato nuovo slancio dal Documento sulla fratellanza umana firmato lo scorso febbraio ad Abu Dhabi da papa Francesco e dal Grande Imam di Al Azhar. Un primo frutto di questo cammino, la visita di monsignor Russo e l’incontro sul documento di Abu Dhabi dello scorso 29 giugno alla Grande Moschea di Roma. Ieri, l’incontro di Milano. Nella Rotonda di San Vittore, al fianco di Russo, fra gli altri, il vicario generale della diocesi di Milano, vescovo Franco Agnesi, e don Giuliano Savina, direttore dell’Ufficio nazionale per l’Ecumenismo e il dialogo interreligioso. Fra il pubblico il costituzionalista Valerio Onida, coinvolto - con De Francesco - in incontri con i detenuti in preparazione all’evento. “A San Vittore, ogni giorno, arrivano persone dalla strada, dalla povertà, dalla marginalità più grave. Persone che non si scelgono ma che qui devono imparare a convivere - ricorda il direttore del carcere, Giacinto Siciliano. Per questo promuoviamo molteplici iniziative, soprattutto nella formazione. Ed è bello che un luogo di convivenza forzata come il nostro possa mostrare anche a chi sta fuori che il rispetto e l’incontro fra persone di cultura e fede diversa è possibile”. Gorizia. Prendersi cura, curarsi, avere cura di sè di Don Alberto De Nadai e Stevan Stergar La Voce Isontina, 26 ottobre 2019 Tre detenuti nel carcere in permesso premio al 27° Convegno del “Balducci”. Il permesso premio concesso a tre detenuti del carcere di Gorizia, è servito come esperimento sociale volto a ripensare il concetto di “sicurezza”, conferendogli un nuovo spesso e valore: il prendersi cura, il curarsi, l’avere cura di sè. Per gentile concessione del Magistrato di sorveglianza, i tre detenuti hanno potuto trascorrere un’intera giornata in uno dei più suggestivi luoghi del Friuli Venezia Giulia, coinvolgendosi nella terza giornata del 27° Convegno sulla “Sicurezza” promosso dal Centro Balducci di Zugliano (Ud) svoltosi a Mezzo Canale - Barcis (Pn) nella Casa di don Giacomo Tolloi e al Vajont. Dare visibilità ed efficacia alle misure alternative alla detenzione o ai benefici, è stato il tema affrontato nel Corso formativo tenutosi in carcere per la preparazione all’evento: ciò significa creare una cultura che alleggerisce la pesantezza del carcere dove, molto spesso, è difficile attivare una rete di comunicazione e percorsi di risocializzazione dati i limiti strutturali, logistici e di personale. Diviene così essenziale creare delle opportunità capaci di comprendere la formazione alla vita sociale, alla scoperta del proprio io e alla partecipazione collettiva per realizzare progetti comuni e alleanze con soggetti diversi. Gli organizzatori della terza giornata del Convegno erano stati informati della partecipazione dei tre detenuti che, accompagnati dai volontari don Alberto De Nadai e Stevan Stergar, con il compito di aiutare l’organizzazione, si sono messi a completa disposizione e sono stati responsabilizzati nella distribuzione del pranzo a più di duecento persone partecipanti al Convegno. Nota essenziale da dover comunicare: la spontanea volontà di celare la loro attuale condizione, evitando possibili atteggiamenti penosi e/o giudicanti, etichette che si sono volute evitare a priori. Il non presentarsi come detenuti ha concesso, infatti, una maggiore relazione frontale e sincera con i presenti. La giornata di “permesso” è stata sentita dai tre soggetti come esperimento sociale volto a constatare l’atteggiamento volenteroso dimostrato già nel corso di formazione e nei momenti di riflessione sulle battaglie umanitarie della storia che stiamo vivendo “Si-cura l’umanità e la terra”. I tre detenuti hanno avuto occasione di conoscere sia personalità impegnate quotidianamente in ambito sociale e culturale, come don Luigi Ciotti, don Pierluigi di Piazza, lo scultore pordenonese Dirindin e altri, sia episodi e luoghi della storia del territorio: la Valcellina, la tragedia del Vajont di 56 anni fa, la diga di Andreis, il lago di Barcis. Così l’esperienza si porta all’esterno del sistema penitenziario per incrociare le politiche sociali da attivare, Domenica 29 settembre 2019 è da considerarsi come evento educativo fondamentale per i processi di inclusione dei tre detenuti; esperienza che ben si sposa con il percorso formativo avviato e che non terminerà di certo, si spera. I soggetti vanno allora considerati esempi di responsabilità per il gruppo lavoro che si sta via via formando all’interno del carcere. Forse altri riusciranno ad accedere a percorsi educativi di tal genere, dimostrando uno spirito volenteroso di responsabilità reciproca e collettiva fondata sul principio “diritto-dovere”. Possiamo concludere con annotazioni e riscontri positivi: si riconosce l’efficacia di esperienze educative di questo tipo per far notare ai detenuti una dimostrazione di fiducia indispensabile per poter parlare correttamente di processo di rieducazione sociale ed individuale. È il momento di dire grazie dell’attenzione che i detenuti hanno dimostrato verso tutti. Questa iniziativa ha sottolineato ancora di più la validità di “prendersi cura” di chi, in alcuni momenti della propria vita, si è trovato in difficoltà. Reggio Calabria. Maria Antonietta Rositani: “Non abbiate paura, denunciate subito” Corriere della Calabria, 26 ottobre 2019 La toccante testimonianza della vittima di una brutale violenza di genere nel corso del Forum Agape a Reggio Calabria L’applicazione delle novità introdotte dal Ddl 1200/2019, meglio noto come “Codice rosso”, è stata al centro del forum organizzato a Reggio Calabria dal Centro comunitario Agape, presieduto da Mario Nasone, patrocinato dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Reggio Calabria e dal Consiglio regionale, in collaborazione con l’Istituto di Terapia familiare di Reggio Calabria e Messina e l’associazione avvocati “Marianella Garcia”. Una rete di partner: la Questura di Reggio Calabria e il Comando provinciale dei Carabinieri, esperti del settore, magistrati ed operatori dei centri antiviolenza, per fare il punto sugli aspetti giuridici qualificanti e quelli psicologici delle vicende che riguardano sempre più donne nel nostro Paese. Un fenomeno in preoccupante espansione che ha indotto il legislatore ad introdurre modifiche al codice penale ed al Codice di procedura penale e prevedere nuove disposizioni in materie di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere. Il “Codice rosso” ha stabilito una corsia preferenziale nello svolgimento delle indagini, per renderle più rapide, e ha introdotto pene molto più severe per reati commessi in contesti familiari o nell’ambito di rapporti di convivenza. Una normativa che presenta, tuttavia, molte luci ed altrettante ombre, è stato detto nel corso del forum aperto dal Presidente del Consiglio regionale Nicola Irto, che dicendosi “rammaricato per la mancanza di una copertura finanziaria della legge”, ha sottolineato “la necessità di potenziare la parte informativa e di prevenzione del fenomeno. Davanti a fatti come quelli di Maria Antonietta Rositani, avvenuti poco lontano da qui - ha affermato il presidente Irto - ci chiediamo se le tante attività che mettiamo in campo come istituzione, non restino alla fine chiuse nel “Palazzo”, in una sorta di cassa di risonanza. Serve un’azione pedagogica forte, perché la battaglia contro la violenza di genere non riguarda solo le donne che subiscono violenza, ma deve creare la base per una diffusa consapevolezza sul fenomeno, che investe l’intera società”. Toccante la testimonianza di Maria Antonietta Rositani, attraverso una lettera inviata dal suo letto d’ospedale, dove è ancora in cura per le gravi ustioni subite dall’aggressione, nel marzo scorso, da parte dell’ex marito, che le lanciò all’interno della sua auto del liquido infiammabile con lo scopo di ucciderla. Una lettera, letta dalla figlia Annie, in cui Maria Antonietta, moglie, prima felice, “con un matrimonio da favola”, madre amorevole, con la nascita della piccola Annie, e successivamente di William, afferma di vivere “nel tempo gli incubi della paura, della solitudine all’interno delle mura domestiche. Costretta a mascherare il suo dolore, il dramma che vive dentro le mura domestiche, nascondendo tutto persino al padre, ai familiari”. “Mentivo a lui, mentivo a me stessa, mentivo con le amiche… una vita di menzogne - scrive Maria Antonietta - tra urla, schiaffi, calci e paura”.Tanta paura del marito, fino a quando l’uomo non aggredì anche la figlia, intervenuta in sua difesa. “Da quel giorno - scrive la donna - dissi basta, pur ancora amandolo. Basta per i miei figli”. La scelta di denunciare, che rimase lettera morta, nonostante le rassicurazioni ricevute, fino a quando, con l’ennesima aggressione, la figlia Annie non informò i nonni e lo zio. L’arresto e nonostante tutto la paura di raccontare tutto al proprio avvocato. “Dopo essere stata bruciata, offesa e umiliata, finalmente ho capito che il mio non era più amore”. Maria Antonietta, nella lettera, rivolge un appello a tutte le donne. “A volte - scrive - non è semplice rendersi conto di alcune cose, nonostante siano molto gravi, e ci convinciamo che quello che pensiamo non sia la verità. Se avete dubbi è quasi certo che tu sia una vittima di violenza, perché, come dice il detto “quando si sente il rumore del ruscello c’è l’acqua”. Quindi l’esortazione a non sottovalutare nemmeno gli “episodi” sporadici. “L’amore non è una lotteria dove non sappiamo se arriva un premio o una punizione. Non c’è niente di più pericoloso. Ecco perché, appena Dio me ne darà la forza, io sarò accanto a tutte coloro che lo vorranno, mettendo la mia vita, la mia storia, la mia sofferenza, le mie paure, al loro servizio. Affinché mai più una donna, una figlia, una mamma possa più tremare all’interno della sua casa. Tra le mura domestiche. Occorre denunciare subito - conclude Maria Antonietta - al primo urlo e non al primo schiaffo. Non abbiate paura. Urlate… denunciate. Grazie a tutti. Vi penso da questo letto e vi voglio bene”. Roma. All’ergastolo da 27 anni si laurea: mi sento libero di Stefania Moretti Corriere della Sera, 26 ottobre 2019 Rigano, condanna per mafia e omicidio: “Faccio anche cose buone”. Si sentiva impacciato in quel completo blu con cravatta che non usa mai. Filippo Rigano, 62 anni, da 27 in carcere, si è presentato mercoledì in commissione di laurea al teatro di Rebibbia, i capelli bianchi e il vestito migliore. Il suo relatore Giovanni Guzzetta, docente di Diritto pubblico a Tor Vergata, gli ha chiesto il perché della sua tesi sull’ergastolo ostativo. “Perché sono un ergastolano ma, anche se non mi crederete, sono libero”. Ergastolo ostativo significa fine pena mai: niente permessi premio, condizionale, semilibertà. A meno che il detenuto non collabori; una norma bocciata come incostituzionale proprio nel giorno della laurea di Rigano. “La mancata collaborazione con la giustizia - per la Consulta - non impedisce i permessi premio, purché ci siano elementi che escludono collegamenti con la criminalità”. A sollevare il caso sono stati due ergastolani per mafia. Come Rigano: siciliano di Acireale, entrato in carcere a 35 anni. Associazione mafiosa, il pizzo ai commercianti, due omicidi da uomo del clan Santapaola, le vittime uccise a colpi di pistola nel 1985 e nel 1993. Rigano organizza i delitti ma non è lui a sparare. Dopo 27 anni in cella - unica uscita l’anno scorso, per assistere la madre malata - il neo-dottore scrive di sentirsi un “figliol prodigo”: ha sbagliato, ma con quegli errori fa i conti da 9.855 giorni. E “per ogni giorno si butta il sangue” in questo “surrogato della pena di morte” che per lui è l’ergastolo. “Evocare l’inferno non è esagerato”, scrive: Una pena eterna non può essere che disumana”. Ha avuto 851 milioni di secondi per pensare al suicidio, ma non l’ha fatto: “Il perché è nella mia speranza che, anche se tardi, l’Italia si conformi alla Costituzione”. A quell’articolo 27 che prevede pene umane e rieducative. Pagare è logico e ovvio, riconosce, ma non vuole pagare due volte, forzandosi a una collaborazione che “in certi contesti equivale a mettere a rischio la vita propria e dei propri cari”. Vent’anni a ricostruirsi “per dimostrare che ero in grado di fare delle cose buone”. A Rebibbia studia, fa il manovale, frequenta i laboratori di “Nessuno tocchi Caino” e il teatro: recita sullo stesso palco dove si è laureato. A brindare con lui moglie e figlie, i compagni dell’Alta sicurezza, il Partito radicale, la sua tutor Marta Mengozzi e i colleghi che lo hanno seguito. Il garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasìa si congratula: “Aveva solo la seconda elementare”. Ora è dottore in Legge con no e lode. E da mercoledì, dopo la decisione della Corte Costituzionale, può sperare che, forse, non morirà dentro il carcere. Milano. Birra Malnatt, una serata di arte e incontri per il riscatto dei detenuti foodaffairs.it, 26 ottobre 2019 Mercoledì 30 ottobre Birra Malnatt, il progetto brassicolo della città di Milano che sostiene il reinserimento di carcerati ed ex-carcerati nel mondo produttivo, e “Idee in Fuga”, la prima iniziativa di democrazia partecipativa all’interno del carcere, si uniscono per una serata di arte, gusto e dibattito dedicata a progetti di riscatto per i detenuti. L’appuntamento è alle ore 18.30 al Frida, luogo simbolo del quartiere Isola di Milano, in via Antonio Pollaiuolo 3, con molti ospiti, una mostra di illustrazione e un aperitivo. La serata prevede l’incontro “Partecipazione e inclusione sociale come riscatto per i detenuti”, un dibattito aperto sullo sviluppo di progetti che costituiscono valore all’interno delle istituzioni e che contribuiscono a un pieno reinserimento dei rei nel tessuto sociale. Interverranno Pietro Buffa, Provveditore del Prap - Provveditorato Regionale Amministrazione Penitenziaria - Lombardia, Lorenzo Lipparini, Assessore alla Partecipazione, Cittadinanza Attiva e Open data del Comune di Milano, Anita Pirovano, Presidente della Sottocommissione Carceri Pene Restrizioni del Comune di Milano, Cosima Buccoliero, Direttore della II Casa di reclusione di Milano - Bollate. Massimo Barboni per Birra Malnatt insieme a Giorgio Pittella, ideatore di “Idee in Fuga”, Stefano Stortone, fondatore dell’impresa sociale BiPart e coordinatore del progetto “Idee in fuga”, racconteranno i loro progetti che coinvolgono i detenuti delle carceri milanesi. A conclusione del dibattito sarà previsto un aperitivo con protagonista Birra Malnatt. Parte del ricavato sarà devoluto per finanziare progetti all’interno delle carceri. Durante l’intera serata sarà possibile visitare una mostra di oltre 50 illustratori (tra cui Paolo D’Antan, Andie Prisney, Riccardo Guasco e Adriano Attus) realizzata da BiPart in collaborazione con AI Associazione Autori di Immagini per “Idee in Fuga”. Molte opere sono fruibili anche in realtà aumentata e si potranno anche acquistare per sostenere i progetti di “Idee in Fuga”. L’Aquila. Premio Bonanni per i detenuti, il poeta Aridjis alla cerimonia di premiazione di Eleonora Fagnani news-town.it, 26 ottobre 2019 “Aggrappatevi alla poesia per non far morire la speranza di libertà”. È stato il toccante intervento di un giovane detenuto della Casa circondariale dell’Aquila ad aprire, questo pomeriggio, la cerimonia di premiazione del Premio internazionale di poesia intitolato alla scrittrice aquilana Laudomia Bonanni, dedicata ai componimenti dei detenuti negli istituti di pena italiani. Il ragazzo ha voluto lanciare un appello all’ospite d’onore dell’edizione 2019, il poeta Homero Aridjis, una delle voci più autorevoli della letteratura messicana e profondo sostenitore delle sfide a protezione dell’ambiente. “Vorrei che Homero ci donasse una parte della sua immaginazione perché per noi non è facile averne. Questa è una giornata importante, è un momento per non sentirci abbandonati e invisibili”, le parole che il giovane ha pronunciato emozionato davanti alla platea del teatro della struttura detentiva di Preturo, dove si è svolta la cerimonia. Quest’anno la giuria ha ritenuto di non assegnare il primo premio della sezione detenuti, ma di devolvere l’intero importo (di mille euro) alla Casa circondariale dell’Aquila per l’acquisto di materiale didattico e libri. Secondo e terzo classificato sono invece Gennaro Mazzarella (Casa circondariale di Lanciano) e Nello Nero (Casa circondariale di Frosinone). Una cerimonia toccante a cui hanno preso parte Raffaele Marola, presidente del Premio, Stefania Pezzopane e Anna Maria Giancarli, rispettivamente, presidente e membro della Giuria, la direttrice della Casa circondariale Barbara Lenzini, Giuliano Tomassi, segretario del Premio e Marcello Cipriani della Bper. Presenti tra il pubblico anche gli alunni del liceo classico e del liceo di scienze umane dell’Istituto superiore “Domenico Cotugno” accompagnati dalla docente Francesca Del Papa. Molti gli interventi da parte dei detenuti del carcere dell’Aquila, per lo più rivolti al poeta Aridjis, che ha voluto condividere con loro un momento doloroso della sua vita. “Quando avevo dieci anni fui colpito accidentalmente da un proiettile esploso da un fucile da caccia di mio fratello maggiore, e fui ricoverato in ospedale in fin di vita”. Le voraci letture durante la degenza, da Salgari, a Verne ai fratelli Grimm, lo spinsero ad avvicinarsi alla poesia. “Dopo quell’esperienza così vicina alla morte l’unica cosa che mi restò per esprimere me stesso fu la poesia”. “È così che ho scoperto a cosa serve l’arte della poesia: a comunicare noi stessi e quindi i sentimenti che non possono essere espressi in modo diverso. Con i vostri componimenti che mi hanno molto colpito - ha detto rivolgendosi ai detenuti del carcere dell’Aquila - avete fatto una cosa importantissima: se non avete ancora aperto la porta che vi porterà fuori da qui, avete aperto la porta che vi condurrà a conoscere voi stessi”. Un intervento toccante, quello del poeta messicano, tutto teso ad evidenziare l’importanza del rispetto della dignità dei detenuti. Emozionante il parallelismo tra chi è costretto in carcere e chi, per motivi religiosi, decide di vivere da eremita. “Questo periodo di sofferenza e solitudine deve essere un momento per riflettere sul passato e recuperare la vostra identità, interrogandovi sul senso del vostro desiderio di libertà. Esattamente come fanno gli eremiti, che si appartano dal mondo per cercare delle risposte”. “Ho ascoltato e letto le vostre poesie e vi dico che è quello il filo cui aggrapparsi per non far affievolire la speranza di libertà. Buona fortuna per il vostro futuro - ha concluso Aridjis - che è percorrere la strada dove troverete le risposte di cui avete bisogno”. Busto Arsizio. La compagnia dei detenuti va in tournée informazioneonline.it, 26 ottobre 2019 Un gruppo di attori liberi e “diversamente liberi” porta in scena lo spettacolo “Ginestre”. Giovedì 14 novembre, la nuova produzione della compagnia di attori detenuti del carcere di Busto Arsizio dal titolo “Ginestre” inizia la sua tournée al Teatro Nuovo di Varese. Dopo il successo del debutto dello scorso aprile al Teatro Sociale di Busto Arsizio, con più di 500 persone fra il pubblico, lo spettacolo si appresta ad una piccola tournée nella provincia. E la prima data è proprio come ospiti della rassegna varesina “Note di Scena”, organizzata da Film Studio 90 presso il Cinema Teatro Nuovo, in partenariato con il Comune di Varese. Lo spettacolo è realizzato in collaborazione con la Direzione della Casa Circondariale, del Direttore Orazio Sorrentini, dell’Area Educativa dell’Istituto. “Un ringraziamento speciale al sostegno ricevuto dai Magistrati di Sorveglianza - affermano i promotori - che credendo nel valore educativo e risocializzante dell’esperienza teatrale, hanno concesso i permessi speciali di uscita ai detenuti attori e agli ex detenuti”. “Ginestre” vedrà insieme sul palco un gruppo eterogeneo di attori detenuti e liberi. Lo spettacolo si ispira al libro “Essere Esseri Umani” di Marta Zighetti, psicoterapeuta varesina autrice del libro e direttrice scientifica dello studio di psicoterapia “Essere Esseri Umani” e anima dell’omonimo progetto. Ginestre richiama quel fiore del deserto che Giacomo Leopardi, quasi prossimo alla morte, sceglieva come simbolo di resilienza, l’eroica capacità dell’uomo di sopravvivere al trauma e alla sofferenza per progredire oltre ad esse, grazie al mutuo aiuto e alla cooperazione con “l’umana compagnia”. Sotto la guida della regista Elisa Carnelli, l’eterogeneo gruppo dei “Contaminati” (attori detenuti e liberi cittadini che recitano fianco a fianco) ha messo in campo la propria umanità per svelarsi e svelare con coraggio le dimensioni del nostro essere. Storie del proprio passato ed aspirazioni per il futuro, dal coltello che un bimbo di 7 anni lancia alla propria madre, al proclama “sono nato criminale ma non morirò criminale”. Scorci di storie commuoventi ed intense, raccontate con immagini che cercano il simbolico. Collaborazione tra individui e umana compassione sono i temi del saggio “Essere esseri umani” di Marta Zighetti cui lo spettacolo poeticamente si ispira, traducendo in azioni, immagini e racconti biografici la lucida sintesi che la psicoterapeuta opera nella descrizione della nostra specie dal punto di vista culturale, biologico, psicologico e neuro-scientifico. Appuntamento giovedì 14 novembre, alle ore 21, al Teatro Nuovo di Varese in viale dei Mille 39. I biglietti si possono acquistare direttamente la sera dello spettacolo (ingresso 12 euro, ridotto 10/8 euro). È possibile prenotare un posto scrivendo a segreteria@filmstudio90.it. Per informazioni sullo spettacolo e sul progetto: obloteatro@gmail.com. L’associazione L’oblò - L’associazione di Promozione Sociale L’Oblò Onlus Liberi Dentro, costituita nel 2016, nasce dall’esperienza dei suoi fondatori fra carcere, teatro e scuola. Si occupa di realizzare interventi riabilitativi e risocializzanti mediante l’uso di terapie a mediazione artistica per favorire il benessere psicofisico e la qualità della vita di detenuti, ex-detenuti, loro famiglie. L’esperienza maturata nel carcere di Busto Arsizio dal 2008, negli ultimi anni si è ampliata ed aperta alla cittadinanza, con interventi artistici pensati come esperienze di osmosi tra il dentro e il fuori del carcere, occasioni di integrazione attiva e corresponsione tra detenuti e gente libera per promuovere ampiamente lo scambio sociale, la consapevolezza comunitaria e la responsabilità civile. A questa visione si legano le cene con delitto in galera che hanno portato quasi 400 persone in carcere, e la rassegna di teatro in carcere “Sbucciare il buio” che ospita spettacoli di compagnie professioniste nella casa circondariale di via per Cassano per un pubblico misto di detenuti e gente libera. Progetto Contaminazioni - Con questo intento nella primavera del 2017 L’Oblò Onlus ha lanciato l’esperimento di Contaminazioni, una serie di laboratori espressivi per persone libere e diversamente libere che si sono svolti nella casa circondariale di Busto sotto la guida di professionisti esperti in vari settori (scrittura drammaturgica, vocalità espressiva, danza e movimento). I temi trattati erano ispirati al libro “Essere esseri umani” della psicoterapeuta Marta Zighetti, Edizioni d’Este. Tutti i sabati mattina, per un anno, un gruppo di una decina di appassionati di teatro è entrato in carcere ed ha lavorato fianco a fianco con gli attori detenuti nella creazione dello spettacolo Ginestre, il nuovo spettacolo teatrale della compagnia L’Oblò. Roma. Universitari e detenuti, sfida a colpi di rap e di retorica ansa.it, 26 ottobre 2019 Torna il progetto “Guerra di parole”. Studenti e detenuti si lanceranno un guanto di sfida, ma la loro unica arma in questo duello sarà la parola. L’iniziativa si chiama Guerra di Parole© e, giunta alla IV edizione, quest’anno arriva a Milano: a misurarsi saranno gli universitari della Statale e i detenuti del Carcere di San Vittore. La gara sta tutta nell’arte della retorica: a colpi di dialettica, prima sostenendo una posizione, poi il suo contrario, alla fine solo il più abile la spunterà. Nelle precedenti edizioni, a dominare sono stati i detenuti. Riusciranno, questa volta, gli studenti a spuntarla? A riportare la notizia il portale Skuola.net. Il tema con cui si confronteranno i partecipanti sarà: “L’opinione pubblica è il sale della democrazia o il dominio del populismo?”. Per prepararsi, i due gruppi partecipano separatamente a un corso di formazione per apprendere le tecniche della retorica, del teatro e del rap. Le lezioni sono fissate per il 24 ottobre, 8, 13 e 21 novembre e sono tenute da Flavia Trupia, presidente dell’Associazione PerLaRe (Per La Retorica), dall’attore e regista Enrico Roccaforte e dal rapper Amir Issaa. La sfida finale si tiene il 23 novembre 2019 su un “ring” d’eccezione, il Carcere di San Vittore. Si svolge in due round di 15 minuti, aperti e chiusi da un appello di 1 minuto in versione rap in cui le due squadre devono prima difendere un’idea e poi il suo contrario. Allo scadere, una Giuria di sette componenti decreta la squadra vincitrice in base ad alcuni criteri: il rispetto delle regole, la forza delle argomentazioni e l’utilizzo del linguaggio del corpo. “Le prime tre edizioni della Guerra di Parole - ricorda Flavia Trupia, presidente dell’Associazione PerLaRe (Per la retorica) - sono state vinte dai detenuti, malgrado gli studenti abbiamo dimostrato di avere tecnica e determinazione. Nell’arte oratoria non conta solo la preparazione tradizionale, ma anche la capacità di gestire il corpo, di divertire e di comunicare con l’uditorio. Abilità che raramente vengono acquisite tra i banchi. Inoltre non è facile per gli studenti, a vent’anni, entrare in un carcere e sfidare degli adulti che si sono formati nell’università della vita. Ma quest’anno gli studenti potrebbero stupirci”. L’iniziativa è sostenuta da Toyota Motor Italia ed è organizzata da PerLaRe - Associazione Per La Retorica, Università degli Studi di Milano La Statale, Crui - Conferenza dei Rettori delle Università Italiane, Casa Circondariale di Milano San Vittore, insieme a Unione Camere Penali Italiane - Osservatorio Carcere UCPI, Amici della Nave. Il progetto è supportato da Ferpi - Federazione Relazioni Pubbliche Italiana. Bologna. Un film sulla malavita dentro al carcere, insieme ai detenuti di Alice Facchini redattoresociale.it, 26 ottobre 2019 Nella Casa circondariale bolognese arriva la prima proiezione nella sala cinematografica AtmospHera, prima in Italia aperta al pubblico dentro a un carcere: sullo schermo “Ammore e malavita”, seguito dall’incontro con i registi Manetti Bros. Fiore: “Vogliamo rendere straordinario quello che per noi è ordinario: andare al cinema e guardare un film” Foto di Alessio Cremonini Sala Atmosphera, carcere Dozza, un momento della proiezione “Quanto è costato il film?”. “In quante lingue è stato tradotto?”. “La protagonista è marocchina?”. “A Napoli la vita è ancora così?”. “In futuro vi piacerebbe girare un film anche qui nel penitenziario?”. Sono tante le domande che arrivano ai registi Manetti Bros dalla curiosissima platea di AtmospHera, il nuovo cinema di Bologna nato all’interno della casa circondariale Rocco D’Amato, primo in Italia aperto al pubblico dentro a un carcere. È appena finita la proiezione di “Ammore e malavita”, la prima della nuova sala finanziata dal Gruppo Hera, e seduti sulle poltroncine ci sono un centinaio di detenuti, insieme alle autorità, ai giornalisti e ai volontari delle associazioni che lavorano nell’istituto penitenziario. “La cosa bella è che nelle scene d’azione, nei momenti di suspense, arriva la battuta comica: il film è stato stupendo, ci siamo divertiti”, ringraziano i detenuti. Il cinema si trova proprio all’interno di un braccio del carcere della Dozza, a cui si accede superando una serie di cancelli e due cortili interni. Oltrepassata la barriera che porta nel quinto sbarramento, spunta il primo cartello: un semplice foglio A4, con una freccia a destra e la scritta “Sala AtmospHera”. Percorriamo un lungo corridoio dal soffitto basso, intervallato da grosse telecamere di sicurezza: dritto, destra, sinistra. Le finestre strette con le sbarre verniciate di un blu acceso non fanno entrare abbastanza luce e le lampade al neon sono accese per illuminare l’ambiente. Superiamo il locale della lavanderia e finalmente ci siamo: appena entrati nel cinema, i detenuti già seduti in platea si voltano a guardare chi sarà con loro a vedere il film. La platea è piena, tanto che gli agenti devono portare delle sedie in più. Uno schermo fisso è appeso al centro, le finestre sono coperte da tende oscuranti e sulle pareti sono incollati rossi pannelli fonoassorbenti, per migliorare l’acustica. “Da oggi a Bologna c’è una nuova sala cinematografica - afferma Angelita Fiore, presidente dell’associazione Cinevasioni, introducendo la proiezione -. Vogliamo rendere straordinario quello che per noi è ordinario: andare al cinema e guardare un film”. E aggiunge Filippo Vendemmiati, che nel 2015 ha ideato il primo progetto di cinema in carcere: “Il nostro obiettivo non è portare le star qui dentro, ma creare sistemi di relazione nel carcere attraverso il cinema: noi siamo solo il proiettore, il film siete voi”. Dopo i saluti della direttrice della casa circondariale Claudia Clementi e del critico cinematografico Davide Turrini, alle 10.20 si spengono le luci. Nel buio si sente ancora una ricetrasmittente della polizia penitenziaria gracchiare, poi il silenzio. Lo schermo si illumina. La prima scena è un piano sequenza di Napoli dall’alto, le strade, i monumenti, una chiesa. Già dopo pochi minuti il film prende il via: sparatorie, pallottole scampate e criminali in fuga. Le scene d’azione vengono alternate a canzoni, a metà tra il musical e la sceneggiata napoletana, e quando a cantare sono quattro giovani agli arresti domiciliari a Scampia scoppiano le risate e gli applausi. Nelle due ore successive tutti in sala sono ugualmente catturati dalla trama, detenuti e agenti: quando i due protagonisti rischiano di essere uccisi, nel pubblico i volti illuminati dalla luce dello schermo si fanno tesi. Poi lo scioglimento: l’amore trionfa, i protagonisti scappano in un paradiso tropicale e i criminali finiscono (guarda un po’) in una cella a Poggioreale. La proiezione termina con lunghi applausi e fischi dalla platea. “Per questa prima visione, il film è stato scelto dagli studenti del corso di catalogazione cinematografica di Cinevasioni - racconta Irene Sapone, una delle organizzatrici -. Abbiamo oltre 700 dvd donati da Rai Cinema: i ragazzi stanno imparando come catalogarli e archiviarli in vista dell’apertura della prima videoteca nel carcere. Quando hanno avuto per le mani ‘Ammore e Malavita’ si sono incuriositi: non amano i film drammatici, per loro sono troppo deprimenti. Preferiscono le commedie, i film d’azione o i grandi classici: amano Totò, Monicelli e tutti i cult visti e rivisti in televisione. Il cinema è un modo per trascorrere in modo diverso, divertente, il tempo qui dentro”. Bravi ragazzi soli nella notte di Michele Serra La Repubblica, 26 ottobre 2019 Nessuna contraddizione tra il fatto che Luca Sacchi fosse un ragazzo d’oro, come dice il padre schiantato dal dolore, e l’ipotesi, accreditata dagli inquirenti, che il delitto abbia avuto come prologo un acquisto di droga (hashish, si dice). Sono centinaia di migliaia i bravi ragazzi che danno corpo al gigantesco mercato clandestino degli stupefacenti: non c’è mercato senza clientela, e se gli spacciatori sono migliaia è perché i consumatori sono milioni. Non c’è più niente di “maudit” nello sballo, niente di marginale o di trasgressivo, con una pallina di roba in tasca o una pasticca in pancia non si è avanguardia né retroguardia, si è come (quasi) tutti gli altri. La droga, come la pornografia, come l’azzardo, è un consumo di massa. A ciascuno il suo giudizio sul fenomeno; ma il vero problema è che questo consumo, a differenza degli altri, è clandestino, dunque è nelle mani della criminalità, quella grande che dirige il traffico, quella piccola che lo amministra quartiere per quartiere. Non solo i consumatori, anche molti piccoli spacciatori sono bravi ragazzi; o convinti di esserlo. Detesto le droghe, con l’eccezione dei derivati dell’uva, e ancora di più detesto il conformismo dei consumi; ma sono antiproibizionista da tutta la vita. Legalizzare le droghe leverebbe alle mafie una fetta enorme di potere e di reddito; ma leverebbe anche dalle strade molte situazioni borderline, di conflitto e di ricatto. Se la ricostruzione dell’omicidio romano è quella della polizia, è inevitabile chiedersi quanti bravi ragazzi e ragazze sarebbe ancora vivi in un Paese dove l’hashish si compra in farmacia. Aiuti ai migranti, la ministra dell’Interno incontra le Ong di Maria Rosa Tomasello La Stampa, 26 ottobre 2019 Il Viminale cambia rotta. Se i decreti sicurezza firmati da Matteo Salvini restano legge, senza neppure che siano stati modificati come suggerito dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella e come annunciato al suo esordio dalla nuova maggioranza, la guerra tra il ministero dell’Interno e le Ong può dichiararsi da ieri ufficialmente conclusa. I rappresentati di Medici Senza Frontiere, Mediterranea, Open Arms, Pilotes Volontaires, Sea Eye, Sea Watch e Sos Mediterranée, fino a pochi mesi fa considerati (senza alcuna evidenza giudiziaria) complici dei trafficanti, sono stati ricevuti dalla ministra Luciana Lamorgese. “È un primo passo per l’avvio dell’interlocuzione diretta tra le parti” ha fatto sapere il Viminale, che ha chiamato al tavolo anche il ministero degli Esteri e il Comando generale delle Capitanerie di porto. Il ministro ha ribadito la volontà di coniugare “umanità e legalità”, ma anche la necessità che i salvataggi avvengano nel rispetto delle regole, a partire da quelle definite nel Codice di condotta adottato ai tempi di Marco Minniti e sottoscritto da quasi tutte le Organizzazioni non governative. Proteste da parte di Salvini e Meloni “Non contenta di aver triplicato gli sbarchi di immigrati in meno di due mesi, il ministro invita al Viminale le Ong protagoniste di questi arrivi. Non ho parole. Io sto sempre dalla parte delle forze dell’ordine che difendono i confini” ha commentato Salvini. Parole di fuoco anche dalla leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni: “Penso che sia abbastanza scandaloso che il ministro che dovrebbe far rispettare le leggi italiane, sia lì a fare accordi, come se nulla fosse, con gente che viola le leggi italiane sistematicamente”. Nonostante l’incertezza sulla sorte della O cean Viking, da quattro giorni in mare con 104 persone a bordo, per le Ong è un giorno buono. Le loro richieste: stop alla criminalizzazione dei soccorsi e rilascio immediato delle navi umanitarie sotto sequestro; ripristinare un sistema di soccorso efficace, contenendo morti e sofferenze; rimettere al centro l’obbligo del soccorso da parte degli Stati; porre fine alle intercettazioni da parte della Guardia costiera libica, “che riporta le persone in Libia in violazione del diritto internazionale”; definire con il coinvolgimento europeo un sistema preordinato di sbarco sicuro. “È ora di superare una volta per tutte la triste pagina che ha trasformato il Mediterraneo in una fossa comune tornando a rispettare i diritti umani e il diritto internazionale”. Migranti. I permessi di soggiorno e l’escamotage dell’omosessualità di Francesca Ronchin Corriere della Sera, 26 ottobre 2019 Risponde l’Arcigay: “Gli avvocati la smettano di usare simili trucchi”. Il segretario generale dell’associazione Gabriele Piazzoni: “Non chiediamo l’orientamento sessuale a nessuno. Deve essere una libera scelta parlarne”. “Agli avvocati che consigliano ai migranti non Lgbt di utilizzare l’escamotage dell’orientamento sessuale per ottenere l’asilo, una volta per tutte chiediamo loro di smetterla”. In seguito alla nostra video-inchiesta, finalmente l’Arcigay prende una posizione ufficiale anche perché, come ci spiega il Segretario Nazionale Gabriele Piazzoni, il fenomeno è conosciuto da tempo. “Lo sappiamo che c’è chi prova ad ottenere la protezione internazionale con qualsiasi mezzo e questo è un grande problema che finisce per falsare la situazione a discapito di chi ha davvero bisogno. Questo però dipende dal fatto che l’attuale sistema della migrazione è disfunzionale. Ci sono intere popolazioni per le quali l’unico modo di ottenere un permesso di soggiorno è cercare escamotage come questi. Bisognerebbe aprire canali legali anche per i migranti economici”. Lei dice che la nostra inchiesta lascia intendere che Arcigay faccia da sponda a questi avvocati. Cosa potete fare per non lasciare spazio a dubbi? “In realtà c’è ben poco che possiamo fare perché siamo noi stessi vittime. Noi siamo aperti a tutti e i Tribunali sanno bene che la tessera non è un certificato di omosessualità. Più di dirlo non possiamo fare altro perché non siamo né la polizia né la magistratura, non abbiamo poteri di indagine e non possiamo certo fare controlli”. Considerando che in molti degli oltre 50 circoli territoriali di Arcigay sono presenti sportelli che si occupano dell’accoglienza dei migranti Lgbt, è possibile che molti migranti vengano da voi solo per ottenere un permesso di soggiorno? “I nostri gruppi possono avere diverse funzioni, dalla socializzazione al contrasto dell’omofobia interiorizzata, pensi che in tanti paesi africani non esiste nemmeno la parola “omosessualità”. Sicuramente tanti vengono per capire come ottenere l’asilo e a questi offriamo un servizio informativo”. Ma lei è a conoscenza del fatto che i vostri gruppi per migranti Lgbt, perlomeno su Roma, sono frequentati in larga parte da eterosessuali? “Quando si presenta un migrante noi non chiediamo mai se è gay, così come non lo chiediamo a nessuno. A volte questo può emergere dalla storia che racconta ma deve essere una libera scelta parlarne”. Dunque se i migranti che frequentano i vostri centri dovessero essere in maggioranza eterosessuali, per voi non è un problema? “Questo lo dice lei”. In realtà non lo dico io, lo dice un vostro operatore di Roma e le assicuro l’intervista era molto puntuale, si parlava proprio dei gruppi per migranti Lgbt... “Non so quale sia la percezione dell’operatore con cui ha parlato, magari ha assistito a casi di persone che si sono presentate una o due volte solo per ottenere la tessera e se ne sono andate. Non escludo che vi siano eterosessuali che frequentano questi gruppi spinti dall’idea che riusciranno a ottenere il permesso come gay ma non credo siano molti. Penso sia difficile per chi non è omosessuale ottenere la protezione. Magari con un bravo avvocato può riuscirci ma credo che capiti più spesso il contrario, che chi è davvero omosessuale non riesce a dimostrarlo perché a fronte di un incremento sospetto delle domande il giudice non si fida. Non vorrei comunque che si pensasse che l’associazione ha qualcosa da guadagnarci da tutto questo, ci reggiamo sul volontariato e non cerchiamo altri fondi pubblici”. Dal bilancio 2018 e da quello preventivo per il 2019 risulta che l’Arcigay si regge in buona parte proprio sui finanziamenti devoluti da associazioni impegnate nella difesa dei diritti dei migranti come Osife e Chiesa Valdese, nonché di progetti ministeriali ed europei finalizzati all’accoglienza come “Migranet” di Unar del Dipartimento per le Pari Opportunità, “Accept” e “Integrate”. Piazzoni, per non lasciare spazio a malintesi non sarebbe più coerente togliere la specifica “Lgbt” in modo che i vostri gruppi siano riferimento per tutti i migranti al di là dell’orientamento? “Colgo il suo invito, rifletteremo su questo anche perché già è così. Comunque me lo faccia ribadire, spero che il vostro lavoro possa servire a che gli avvocati senza scrupoli si mettano una mano sulla coscienza. Fenomeni distorsivi come questo ledono il diritto d’asilo e penalizzano chi ne ha bisogno”. Albania. Il governo approva nuovo ddl sul regime d’isolamento nelle carceri albanianews.it, 26 ottobre 2019 Il ddl, che ora passerà in parlamento per il via libera definitivo, stabilisce 24 categorie di detenuti condannabili a regime d’isolamento. Il consiglio dei ministri albanese ha approvato due giorni fa un nuovo disegno di legge sulle carceri, che ora passerà in parlamento per il via libera definitivo, riporta Shqiptarja.com. Il ddl stabilisce nel dettaglio i diritti e il trattamento dei detenuti, l’organizzazione del sistema così come le competenze e i doveri degli organi statali competenti. Tra le altre cose, prosegue Shqiptarja.com, il nuovo ddl prevede un’implementazione più completa del regime speciale - meglio noto come 41bis - per le categorie pericolose di prigionieri, con lo scopo di intraprendere misure per reprimere la criminalità nelle carceri. La proposta legale del governo, infatti, definisce 24 categorie di detenuti che, in casi particolari, saranno soggetti a un totale isolamento impedendo loro qualsiasi contatto con il mondo esterno. Nello specifico, il ddl definisce 23 reati gravi a cui è stata aggiunta un’ulteriore categoria ad alto rischio che include i detenuti con legami con la criminalità organizzata accusati o condannati per omicidio di funzionari pubblici o forze di polizia. Le altre categorie includono i detenuti per tutti i reati connessi al terrorismo previsti dal codice penale e i detenuti condannati per partecipazione e/o creazione, organizzazione, gestione di bande armate, così come di organizzazioni criminali che gestiscono la produzione e il traffico di sostanze stupefacenti. Secondo il disegno di legge, la durata del regime di isolamento nel carcere di massima sicurezza sarà di un anno ma può estendersi per ulteriori anni a seconda della valutazione del rischio. Come viene presa la decisione La decisione di porre un detenuto in regime d’isolamento nel carcere di massima sicurezza è presa dal ministro della giustizia, su richiesta giustificata della Procura Speciale. Nel prendere questa decisione, il ministro della giustizia si avvale di una consultazione con il ministro degli interni, con il direttore generale delle carceri, con gli organi specializzati nella lotta contro il crimine organizzato e il terrorismo e dei dati e delle informazioni del direttore generale della polizia di stato. Il regime d’isolamento viene imposto per impedire contatti con le organizzazioni criminali di cui i detenuti fanno parte o con cui collaborano. Il regime d’isolamento - Ai detenuti che andranno incontro a regime d’isolamento sarà concesso un solo incontro al mese con i propri famigliari. Per coloro che non avranno incontri con i famigliari, sarà concessa una conversazione telefonica al mese della durata massima di 10 minuti e che verrà registrata. Per i detenuti in isolamento, inoltre, è vietato l’uso di denaro o altri oggetti che in regime normale è possibile ottenere dall’esterno, così come verrà ridotto il tempo trascorso all’aria aperta: massimo due ore al giorno, ma non meno di un’ora. Turchia. Rifugiati rimpatriati in Siria ben prima dell’offensiva militare di Riccardo Noury Corriere della Sera, 26 ottobre 2019 Altro che la “zona sicura”, il presunto scopo “umanitario” dell’invasione turca nel nord-est della Turchia: concordata nell’accordo di Soci, quella zona - beninteso, dopo aver costretto i curdi ad abbandonarla - sarebbe destinata a far rientrare in condizioni di sicurezza i rifugiati siriani. Una nuova ricerca di Amnesty International, diffusa oggi, ha rivelato che nei mesi che hanno preceduto la sua incursione militare nel nordest della Siria e ben prima del tentativo di creare quella cosiddetta “zona sicura” oltre i suoi confini, la Turchia ha rimpatriato rifugiati siriani contro la loro volontà. Nella provincia di Idlib, ossia esattamente in mezzo alla guerra. In assenza di dati ufficiali, stimare il numero delle persone rimpatriate a forza è difficile. Ma sulla base di decine di interviste realizzate tra luglio e ottobre del 2019, Amnesty International ritiene che negli ultimi pochi mesi i rimpatri siano stati centinaia. La certezza si limita al momento ad almeno 20 casi di rimpatrio forzato di persone caricate su autobus però già stracolmi di persone ammanettate coi lacci di plastica, che a loro volta potrebbero essere state vittime di rimpatrio forzato. Nella stragrande maggioranza dei casi, i rifugiati rimpatriati sono uomini adulti. Vengono fatti salire sugli autobus nella provincia turca di Hatay e fatti scendere oltre il valico di Bab al-Hawa, nella provincia siriana di Idlib. Alcuni dei rimpatriati hanno riferito ad Amnesty International di essere stati picchiati o minacciati di violenza affinché firmassero la dichiarazione sul rimpatrio volontario. Altri sono stati ingannati: gli è stato detto che ciò che dovevano firmare era un modulo di registrazione della propria presenza, l’attestazione di aver ricevuto una coperta dalla direzione di un centro di detenzione o una dichiarazione sull’intenzione di rimanere in Turchia. Una delle tante storie contenute nella ricerca di Amnesty International è quella di un siriano di religione cristiana che era stato bloccato dalla guardia costiera turca mentre cercava di raggiungere la Grecia. Dopo essere stato minacciato dai funzionari dell’immigrazione (“Se ti rivolgi a un avvocato, ti terremo qui sei o sette mesi e ti faremo male”) è stato obbligato a firmare la dichiarazione sulla volontarietà del rimpatrio. Dopo essere stato portato in Siria, è stato trattenuto per una settimana, nella città di Idlib, da Jabhat al Nusra, un gruppo armato islamista legato ad al-Qaeda. Ha dichiarato ad Amnesty International di “esserne uscito vivo per miracolo”. Certo, dal 2011 la Turchia ha accolto tre milioni e 600.000 rifugiati siriani: un onere riconosciuto e apprezzato a livello internazionale. Ma usarlo ora come giustificazione per violare il diritto internazionale non è accettabile. Le autorità turche parlano di un totale di 315.000 persone sin qui tornate in Siria in modo del tutto volontario. Ma davvero tutte queste persone hanno deciso di tornare in un paese distrutto dalla guerra? Siria. Il comandante Kobani, ultima speranza dei curdi di giordano stabile La Stampa, 26 ottobre 2019 Ricercato dalla Turchia, corteggiato da Russia e America. Trump invia truppe nei campi petroliferi, Putin al confine. Ha una taglia di un milione di dollari sulla sua testa, in Turchia rischia l’ergastolo, ma Stati Uniti e Russia lo corteggiano per allargare o mantenere la loro influenza nel Nord-Est della Siria. Il comandante delle Forze democratiche siriane, Mazlum Abdi Kobani, è al centro di una partita diplomatica e militare che può decidere le sorti del Rojava, il Kurdistan siriano autonomo sognato dai curdi. Mosca conta su di lui per una transizione rapida che consenta alla polizia militare russa di prendere il controllo della frontiera. Gli Stati Uniti vogliono mantenere una loro presenza militare, limitata alla provincia orientale di Deir ez-Zour, e sperano che le forze curde continuino a collaborare con loro in quell’area. Abdi passa così da una telefonata con Donald Trump a una videoconferenza con il ministro della Difesa russo Serghei Shoigu. Per poi ricevere un invito a Washington da parte dell’influente senatore Lindsey Graham. Ma queste attenzioni hanno mandato su tutte le furie la Turchia. Il presidente Recep Tayyip Erdogan ha ricordato che Abdi è “un terrorista ricercato dall’Interpol” e che gli Stati Uniti “devono consegnarlo alle autorità turche”, anche perché sulla sua testa c’è una taglia da 1,1 milioni di dollari ed è accusato di aver causato la morte di “47 persone” durante la guerriglia del Pkk nel Sud della Turchia. Abdi si è finora destreggiato senza errori. Il suo obiettivo è mantenere un minimo di amministrazione autonoma nel Rojava. Ha chiesto a Mosca che i militari russi “impediscano altri massacri”. A Washington di “mantenere la pressione” su Ankara. Abdi, vero nome Ferhat Abdi Sahin, è un guerrigliero di lungo corso. Nato nel 1967, milita nel Pkk siriano fin dai primi anni Novanta, quando l’organizzazione curda era appoggiata dall’allora presidente siriano Hafez al-Assad e aveva le sue basi in Siria. Secondo il think tank turco Seta, Abdi è attivo sul fronte turco alla metà degli anni Novanta e poi di nuovo dal 2003 al 2013. Quell’anno torna in Siria per organizzare la difesa militare del Rojava, allora abbandonato dall’esercito governativo e assaltato da gruppi jihadisti, fino all’emergere dell’Isis. È allora che aggancia anche agli americani. I curdi, sia in Iraq che in Siria, diventano la principale diga anti-Isis. Nel 2017 Washington punta su di lui per trasformare le Ypg curde nelle Forze democratiche siriane. Fino alla giravolta di Trump e l’invasione turca. Abdi stringe subito un accordo con Bashar al-Assad perché spiega, “meglio un compromesso, anche doloroso, piuttosto che il genocidio del proprio popolo”. Ora aspetta le ultime mosse del capo della Casa Bianca. Il Pentagono è intenzionato a crearsi una piccola enclave attorno ai pozzi petroliferi dei Deir ez-Zour e ha annunciato, dopo il ritiro dal Nord, l’invio di truppe corazzate nella zona petrolifera. Ma ancora una volta ha bisogno di lui, il comandante Kobani. Arabia Saudita. Tutti corrono a Riad, più affari con i sauditi malgrado le condanne di Guido Olimpio Corriere della Sera, 26 ottobre 2019 Dopo più di un anno dalla morte Jamal Khashoggi, imprenditori, finanzieri, capi di grandi gruppi corrono a Riad che chiede investimenti a lungo termine, offre opportunità, apre al turismo. È trascorso un anno abbondante da quando di Jamal Khashoggi è scomparso mentre era all’interno del consolato saudita a Istanbul. Una sparizione che ha suscitato dune di sdegno, spazzate via però dal vento della realpolitik. La Turchia ha usato il dramma come pungolo ma le sue priorità sono altre: i curdi, la Siria, i missili. La diplomazia occidentale ha mandato qualche segnale. Più di facciata che di sostanza. Forse ha fatto di più a livello formale il Congresso statunitense, ma forse perché ha impiegato il dramma in chiave anti-Trump. E lui, The Donald, non ha perso tempo in ipocrisie, lo ha detto apertamente: non rischio dei posti di lavoro compromettendo le relazioni con chi compra valanghe di armi e prodotti made in Usa. Certo, il regno è uscito ammaccato. Il re ha cambiato due volte il ministro degli Esteri, ha affiancato con qualche consigliere il figlio - l’ambizioso e impetuoso principe Mohamed - ha messo mano al settore petrolifero. Il paese, nonostante le spese miliardarie per la difesa, è parso fragile davanti ai bombardamenti che hanno danneggiato i siti petroliferi, così come deve districarsi nel conflitto yemenita tra raid pesanti e ricerca di soluzioni negoziabili. Proprio le debolezze hanno finito per ispirare cautela nella condanna. La Casa Bianca vorrebbe che la Nato facesse la sua parte nel tutelare uno stato-chiave. Intanto imprenditori, finanzieri, capi di grandi gruppi corrono a Riad che chiede investimenti a lungo termine, offre opportunità, apre al turismo. Varchi sfruttati anche da Putin, tenero nelle reazioni all’eliminazione di Khashoggi, veloce nel firmare una serie di intese con una storica visita nel paese. La morale è semplice: lo show va avanti, gli affari pure.