Tutti contro la Consulta: “il carcere duro non si tocca” di Paolo Delgado Il Dubbio, 25 ottobre 2019 Maggioranza e opposizione uniti: niente benefici ai boss. Le critiche agli ermellini arrivano anche da Don Ciotti: “i primi ad avere una buona condotta in carcere sono i mafiosi. allora credo che dei paletti bisogna pur metterli”. La sentenza della Consulta sull’ergastolo ostativo, che fa seguito alla sentenza di condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo emessa due settimane contro la stessa misura ostativa, era obbligatoria dovendo la Consulta tenere conto sia dell’articolo della Carta che impone il trattamento egualitario sia di quello che assegna alla pena funzione rieducativa. Le reazioni, a una sentenza non di tribunale ma della massima istituzione, la Corte costituzionale, hanno però assunto toni che a tratti costeggiano l’eversione. Il ministro degli Esteri e leader del primo partito di maggioranza ha escluso i condannati per mafia dal consesso umano: “Quelli non sono persone con diritti umani. Sono animali”. Salvini, dall’opposizione, ha rilanciato “Sentenza assurda, diseducativa, disgustosa e devastante”. Nel luglio 1992, appena un mese e mezzo dopo la strage di Capaci, con un’opinione pubblica giustamente sconvolta per l’assassinio del giudice Falcone, della moglie Francesca Morvillo e dei tre agenti della scorta, il giovanissimo Pds di Achille Occhetto decise di non votare le leggi eccezionali antimafia incluse nel decreto antimafia Martelli-Scotti. Ugo Pecchioli, che era stato il “ministro degli Interni” del Pci, l’uomo forte del partito nella lotta al terrorismo spiegò la scelta così: “Lo giudichiamo stravolgente di princìpi fondamentali della Costituzione”. Non fu una decisione facile. Osava opporsi a un’opinione pubblica che, nello stesso gruppo parlamentare dell’allora “Quercia”, era invece favorevolissimo a sacrificare tutto, dai diritti fondamentali ai princìpi costitutivi, in nome della lotta alla mafia. In 27 anni le cose sono cambiate. La sentenza della Consulta sull’ergastolo ostativo, che fa seguito alla sentenza di condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo emessa due settimane contro la stessa misura ‘ ostativa’, era obbligatoria dovendo la Consulta tenere conto sia dell’articolo della Carta che impone il trattamento egualitario sia di quello che assegna alla pena funzione rieducativa. Le reazioni, a una sentenza non di tribunale ma della massima istituzione, la Corte costituzionale, hanno però assunto toni che a tratti costeggiano l’eversione. Il ministro degli Esteri e leader del primo partito di maggioranza ha escluso i condannati per mafia dal consesso umano: “Quelli non sono persone con diritti umani. Sono animali e faremo di tutto perché resti il regime ostativo”. Salvini, dall’opposizione, ha gareggiato in truculenza: “Sentenza assurda, diseducativa, disgustosa e devastante. Cercheremo di smontarla con ogni mezzo legalmente possibile”. Il partito azzurro, quello che sulla carta dovrebbe essere il più garantista, non si tira indietro: “Sono garantista ma così si possono riattivare canali di comunicazione col rischio di vanificare anni di lotta alla mafia”. A sinistra le cose non sono molto diverse. Lo stesso segretario del Pd Zingaretti, pur evitando le sparate alla Di Maio-Salvini non esita, per la prima volta nella storia della Carta, a bocciare la sentenza: “Non mi sento in sintonia con una sentenza stravagante”. Persino LeU, che almeno nella sua anima proveniente da SeL era sempre stata su questo fronte netta, si defila e si nasconde dietro un muro di silenzio. Un po’ per non carezzare contro pelo la sua stessa base un po’ per non contraddire Piero Grasso, che poche settimane fa, all’inizio di ottobre, aveva criticato la sentenza europea. Pesantissime anche le reazioni di alcuni magistrati. Il consigliere del Csm Nino Di Matteo usa un po’ di diplomazia in più rispetto alle reazioni durissime con le quali aveva accolto la sentenza europea, ma conferma la sostanza: “La sentenza apre un varco potenzialmente pericoloso. Spero che politica sappia prontamente reagire e, sulla scia delle indicazioni della Corte costituzionale, approvi le modifiche normative necessarie ad evitare che le porte del carcere si aprano indiscriminatamente ai mafiosi e ai terroristi condannati all’ergastolo”. Le parole, in questo caso, sono pesate col bilancino ma la richiesta è chiara: sta alla politica vanificare la sentenza ‘pericolosa’, della Corte. Detto fatto. I tecnici del ministero della Giustizia sono già al lavoro. Persino don Ciotti si pone inquieti ‘interrogativi’. Umanità va bene però ‘paletti bisogna pur metterli perché si sa che i primi a comportarsi bene in carcere sono proprio imafiosi’. Non c’è solo la Consulta. La Cassazione è stata negli ultimi giorni presa di mira allo stesso modo per aver smontato la sentenza d’appello che, al contrario della prima sentenza, confermava l’impianto dell’accusa su Mafia capitale. Non si tratta di fare propria la frase insensata secondo cui ‘le sentenze non si discutono’ (anche se desta qualche stupore vedere questa sentenza ‘discussa’ da chi con la frase insensata di cui sopra si è riempito la bocca per decenni). Ma a fronte di una vicenda nella migliore delle ipotesi discutibile, tanto che la prima sentenza era arrivata alle stesse conclusioni di quelle della Cassazione, la pioggia di articoli dolenti per il ‘ritorno indietro’ e il favore fatto agli imputati condannati (salvo riconteggi nel nuovo appello) a pene del tutto sproporzionate. L’ex procuratore Caselli, che le sentenze deve rispettarle per professione, ha risolto il rebus con una spiegazione brillante. Insomma: ‘Può accadere che la Cassazione si esprima più volte contraddicendosi sullo stesso caso? E allora a quale cassazione credere?’, Tra le sentenze contraddittorie citate dal magistrato c’è quella del 2015 a proposito della ‘mafia silentè, quella che minaccia anche con ‘il non detto, il sussurrato, il semplicemente accennato’. E non è forse ‘mafia silentè anche il ‘carisma criminalè di Carminati? Insomma, il solo farsi vedere di Massimo Carminati è segno di silente intimidazione mafiosa. Simili reazioni a sentenze della Cassazione e addirittura della Corte costituzionale sono segnali pericolosi e non trascurabili. È evidente che mentre una parte delle forze politiche è davvero e convintamente pronta a sorvolare sui princìpi costituzionali, molte altre sono invece semplicemente troppo spaventate e intimidite dalle possibili reazioni dell’elettorato per prendere posizione, fosse pure in difesa della Costituzione. Prendere esempio da quel che il Pds osò fare nel 1992 sarebbe utile. Ma il 4bis sui permessi non c’entra nulla col 41bis! di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 ottobre 2019 La sentenza della Corte costituzionale tocca esclusivamente l’articolo 4bis, comma 1, dell’Ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. Riguarda esclusivamente gli ergastolani ostativi. Quest’ultimo è una tipologia di pena nata dal combinato disposto tra la norma codicistica, che contempla l’ergastolo ordinario e la norma del 4bis dell’ordinamento penitenziario introdotta dal decreto - modificando il decreto di Falcone - emanato dopo la strage di via Capaci. Al contario di certe dichiarazioni improvvide di politici al governo e all’opposizione, la sentenza della Corte costituzionale non c’entra assolutamente nulla con il 41bis che è un particolare regime carcerario, dove possono esserci sia gli ergastolani che quelli con fine pena. L’ergastolano ostativo al 41bis rimane con tutte le regole ferree e quindi - finché è nel regime duro - non può richiedere nessun beneficio. La maggior parte degli ergastolani ostativi non sono al 41bis, ma nelle sezioni di alta o media sicurezza. Ergastolo ostativo, la sentenza va capita di Susanna Marietti* ilfattoquotidiano.it, 25 ottobre 2019 Sbaglia o è in malafede chi dice che i mafiosi usciranno. A poche settimane dalla pronuncia della Corte Europea dei Diritti Umani sullo stesso tema (ma si tratta solo di una coincidenza temporale), ieri anche la Corte Costituzionale ha emesso una sentenza che riguarda l’ergastolo ostativo, vale a dire quella modalità di pena perpetua che osta alla concessione di ogni beneficio di legge se non nel caso in cui il condannato collabori con i magistrati. La decisione di ieri riguardava in particolare la possibilità di concedere permessi premio, ovvero qualche ora o qualche giorno fuori dal carcere per poi farvi subito ritorno, a ergastolani ostativi non collaboratori di giustizia. Come già la Corte di Strasburgo, anche la Consulta si è espressa contro l’automatismo che dalla non collaborazione porta meccanicamente alla non concessione del permesso. Si può avere opinioni diverse sull’argomento, ma è bene comprendere quello che la sentenza sta affermando. Da nessuna parte c’è scritto che i permessi premio devono essere concessi agli ergastolani ostativi. Da nessuna parte c’è scritto che le porte del carcere si apriranno per i mafiosi. Da nessuna parte c’è scritto che i giudici sono adesso obbligati a rinunciare a uno strumento di lotta alla criminalità. Al contrario: c’è scritto che ai giudici deve essere dato un potere di decisione maggiore. C’è scritto che sempre e comunque devono poter valutare caso per caso, senza automatismi e meccanismi. C’è scritto che va rimessa a loro la libera valutazione, che sempre e comunque potrà essere quella di non concedere alcun permesso e non aprire alcun cancello. La nostra legge dice: se il tale signore non collabora con la giustizia, ciò è automaticamente il segno del fatto che è ancora legato alla criminalità e dunque non può avere benefici penitenziari. La Corte Costituzionale dice invece: se il signor tal dei tali non collabora con la giustizia, ciò può essere il segno del fatto che è ancora legato alla criminalità. In questo caso non gli si dia alcun beneficio penitenziario. Potrebbe però anche essere il segno di altro. Magari il signor tal dei tali ha capito i propri errori e non tornerebbe mai a fare la vita di prima ma tuttavia non vuole fare i nomi degli ex complici perché ha paura di esporre così al pericolo di ritorsione i suoi figli. Ai magistrati si riconosce la capacità di effettuare questa valutazione. Per la quale si dovranno servire, come spiega la Consulta, dei pareri della Procura antimafia, della Prefettura, degli operatori penitenziari e di tutte le autorità rilevanti. Se da costoro avranno notizie di possibili attuali collegamenti con l’ambiente criminale, mai e poi mai concederanno un beneficio di legge. Continueranno dunque a esserci ergastolani ostativi che sconteranno in carcere fino all’ultimo giorno della vita. Ciò, tuttavia, non sarà più il frutto di un automatismo, bensì della valutazione di quei magistrati in cui tutti noi vogliamo avere fiducia. Fino a qui sono tutti dati di fatto. Nelle righe precedenti ho solo esposto quel che oggettivamente ha detto ieri la Consulta (e prima, in altro contesto, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo). Quindi su questo non si può essere non essere d’accordo. È così e basta. Chi scrive che adesso si apriranno automaticamente le porte del carcere per chissà quanti ergastolani, o non sa le cose oppure è in malafede. Detto questo, è chiaro che si può non essere d’accordo neanche con questo pronunciamento della Consulta per come l’ho riportato. Io credo però che vedere un amico della mafia in Corti che supervisionano sull’applicazione della Costituzione o della Convenzione del 1950 sui diritti dell’uomo abbia qualcosa di distorto. Forse dovremmo partire da altri presupposti rispetto a quello che i giudici costituzionali e quelli europei vogliano fare favori ai criminali. Forse dovremmo tentare di capire, in profondità e con onestà intellettuale, il loro ragionamento. Che è quello per cui una pena che non tenda nelle proprie intenzioni originarie sempre e comunque alla rieducazione del condannato ci parla di uno Stato debole e già sconfitto in partenza e che la lotta contro ogni crimine aumenta le possibilità di successo se punta a sottrarre persone alla criminalità e restituirle alla vita sociale. *Coordinatrice associazione Antigone La Consulta e i premi ai mafiosi. Le circostanze premiali sono valutate dalla magistratura di Domenico Cacopardo Italia Oggi, 25 ottobre 2019 Dopo la Corte europea dei diritti dell’uomo, è toccato alla Corte costituzionale affrontare la questione dell’ergastolo ostativo, introdotto nell’ordinamento da un decreto-legge (Martelli-Scotti) adottato a seguito dell’assassinio di Falcone e Borsellino e delle loro scorte. La norma, che ha modificato l’art. 4 della legge penitenziaria, è la seguente: “3bis. L’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione… non possono essere concessi ai detenuti ed internati per delitti dolosi quando il Procuratore nazionale antimafia o il procuratore distrettuale comunica, d’iniziativa o su segnalazione del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica competente in relazione al luogo di detenzione o internamento, l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata”. Sin dall’inizio dell’applicazione della norma, fu sollevata la questione del conflitto della stessa con l’art. 27 della Costituzione che, al 3° comma, stabilisce: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Se, infatti, il fine della pena è la redenzione, non si può stabilire in maniera generale e astratta il divieto alla fruizione delle misure premiali. La Corte europea, pochi giorni fa, aveva statuito che “l’ergastolo ostativo viola i diritti umani”, gettando una seria zeppa nel meccanismo costruito dal legislatore italiano e, ora, la nostra Corte costituzionale dichiara incostituzionale la norma dell’ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. Sempre che, ovviamente, il condannato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo. Una decisione in linea con i principi umanitari cui ha fatto riferimento la Corte europea e, tuttavia, tecnicamente cauta e ragionevole. Vedremo meglio, quando saranno pubblicate le motivazioni, ma, sul tamburo, si può affermare che per gli irriducibili, cioè i non-pentiti, nulla, di fatto cambierà. Se il comunicato-stampa della Corte costituzionale rispecchia il dispositivo della sentenza (e non c’è ragione di ritenere che non lo faccia), i giudici della Consulta hanno (ri)stabilito che i permessi possono essere accordati - dall’Autorità giudiziaria - solo nel caso in cui, pur non essendoci il pentimento (cioè la dissociazione delatoria) siano stati recisi i rapporti con l’associazione criminale di provenienza e sia pienamente provata la partecipazione al percorso rieducativo. Niente di rivoluzionario, quindi. Peraltro, in Italia, un Paese in cui i fatti giudiziari si riversano in maniera patologia nella politica, una decisione come questa non poteva che dare il via ai commenti più strumentali, demagogici e, in sostanza, antistituzionali che si possano immaginare. Da Nicola Morra, presidente dell’antimafia e, di suo, docente di storia e filosofia (“Dimenticato il sangue versato da Falcone, Borsellino, Dalla Chiesa”) a Matteo Salvini (“una sentenza che grida vendetta. Vedremo se possibile fare ricorso”, due vere castronerie in una dichiarazione: la Corte ha giudicato secondo Costituzione; la Corte è giudice definitivo e finale e nei confronti delle sue decisioni l’ordinamento non ammette gravami), per non parlare del sistema mediatico manettaro, è stato un fiorire di critiche feroci e umorali. Nino Di Matteo, noto magistrato antimafia e componente del Csm pensa che sia stato “… aperto un varco pericoloso…” Dimostrandosi così che l’antico assioma espresso da Pietro Nenni per la politica (“nella gara a essere radicali e di sinistra, ognuno troverà qualcuno che è più radicale e di sinistra di lui”) può essere facilmente trasferito al mondo giudiziario italiano, nel quale in ogni occasione il pm incontrerà un pm più severo e radicale di lui. Qual è il radicalismo più radicale? Trasformare ogni atto criminale, mediante attribuzione di un nome qualificativo, nel più grave dei delitti previsti dall’ordinamento: l’appartenenza alla mafia. Se, però, ci si sofferma sul dichiarato dalla Corte, si può constatare che l’impatto concreto della decisione sarà marginale. L’unico elemento di difficoltà è peraltro costituito dalla maggiore responsabilità di vigilanza e di decisione attribuita all’autorità giudiziaria che, in questa complessa, delicata e umana materia, opera normalmente in piena geometria variabile. Un metodo inapplicabile a questa fattispecie. Coloro che sostengono che la sentenza di incostituzionalità, festeggiata nei clan, ridarà fiato al crimine, dimenticano, appunto, che il ritorno del potere di decidere in materia nelle mani del giudice non garantisce affatto un’apertura significativa del trattamento premiale. E dimenticando, manifestano ancora una volta sfiducia nei tutori della legge. Nino Di Matteo si ricordi che non è un Salvini qualunque di Ermes Antonucci Il Foglio, 25 ottobre 2019 Il consigliere del Csm si appella alla politica affinché intervenga per vanificare la sentenza della Consulta sull’ergastolo ostativo. È il segnale di un’ostilità profonda (e pericolosa) ai principi cardine del nostro assetto democratico. Non si era mai visto un componente del Csm, l’organo di autogoverno della magistratura, appellarsi alla politica affinché questa intervenisse per vanificare una sentenza della Corte costituzionale, la massima istituzione di garanzia del nostro paese. Ma è quello che ha fatto il consigliere Nino Di Matteo, commentando la sentenza della Consulta che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’ergastolo ostativo per quanto riguarda il divieto di accedere ai permessi premio. Una decisione, come abbiamo sottolineato, che non comporterà in alcun modo un’uscita di massa di mafiosi e terroristi dalle carceri italiane, ma che anzi va nella direzione di restituire alla stessa magistratura il potere discrezionale di esprimersi, di volta in volta, sulla concessione o meno dei benefici penitenziari a quei mafiosi e terroristi che, pur non avendo collaborato con la giustizia (perché non in grado o per paura di ritorsioni), hanno dimostrato di non avere più legami con la criminalità organizzata e di avere realizzato un sano percorso di rieducazione, come previsto dalla nostra Costituzione. Alimentando gli allarmi ingiustificati dei manettari, invece, Di Matteo è intervenuto pubblicamente per criticare la sentenza della Consulta, auspicando nientedimeno che un intervento della politica per reagire contro la decisione dei giudici. “La sentenza ponendo fine all’automatismo che caratterizza l’ergastolo ostativo apre un varco potenzialmente pericoloso”, ha detto il pm. “Dobbiamo evitare che si concretizzi uno degli obiettivi principali che la mafia stragista intendeva raggiungere con gli attentati degli anni 1992-1994 - ha aggiunto. Spero che la politica sappia prontamente reagire e, sulla scia delle indicazioni della Corte costituzionale, approvi le modifiche normative necessarie ad evitare che le porte del carcere si aprano indiscriminatamente ai mafiosi e ai terroristi condannati all’ergastolo”. Per anni si è creduto che le esternazioni del pm Di Matteo, la sua antimafia creativa (che ha portato a imbastire un processo su una fantomatica trattativa tra lo stato e una mafia stragista storicamente sconfitta) e i suoi interventi nel campo nella politica (indimenticabile il “programma di riforme” che delineò nel 2018 alla convention del M5s: più intercettazioni, più arresti, più sequestri preventivi, pene più alte, uso di agenti sotto copertura, abolizione della prescrizione) fossero solo il frutto del desiderio dell’ennesimo magistrato di raggiungere l’olimpo della notorietà e della la carriera togata. Persino quando lo scorso settembre, durante la campagna elettorale per le elezioni suppletive al Csm (poi vinte come secondo candidato più votato), Di Matteo si era scagliato contro le stesse correnti dei magistrati, impiegando un paragone spropositato (“Usano metodi vicini alla mentalità mafiosa”), le dichiarazioni del pm antimafia erano passate in cavalleria, giustificate con i toni della corsa elettorale, pur essendo così gravi da spingere qualcuno a ipotizzare il vilipendio. La chiamata alle armi rivolta alla politica contro la Consulta, però, ora conferma che dietro il comportamento di Di Matteo sembra celarsi qualcosa di più serio della semplice ricerca di notorietà mediatica e politica: un’ostilità profonda nei confronti dei princìpi cardine dell’assetto istituzionale e democratico del paese. Secondo il pm antimafia, i giudici della Corte costituzionale starebbero addirittura “concretizzando uno degli obiettivi della mafia stragista”. Con un pizzico di ironia, si potrebbe ipotizzare che ora al Palazzo della Consulta qualcuno possa essere indagato per aver partecipato alla trattativa stato-mafia. Che non ci sia nulla di cui sorridere lo dimostra il fatto che l’attacco a una delle massime istituzioni italiane sia giunto da un magistrato che siede nell’organo di autogoverno delle toghe. Fossimo un paese normale le parole di Di Matteo finirebbero alla sezione disciplinare del Csm per essere valutate in modo seria e indipendente. Ma visto che un paese normale non lo siamo, occorrerà, come ha notato il presidente dell’Unione camere penali italiane, Gian Domenico Caiazza, che qualcuno (il presidente della Repubblica o il vicepresidente del Csm, David Ermini) spieghi a Di Matteo le regole del gioco democratico. Ad esempio che il legislatore non contrasta, ma si adegua, alle decisioni del giudice delle leggi. Occorre, insomma, che qualcuno ricordi a Di Matteo che non è leader di un partito, un Salvini qualunque, ma membro di un’istituzione repubblicana. Polemiche sull’ergastolo. Idiota chi fa distinzioni perfino tra i criminali di Vittorio Feltri Libero, 25 ottobre 2019 Molti giornali hanno ferocemente criticato la Corte costituzionale perché ha accolto le obiezioni dell’Europa contro il cosiddetto ergastolo ostativo. In sostanza i giudici della Consulta sostengono che anche i mafiosi e i terroristi, dopo aver scontato un cospicuo numero di anni in galera per reati gravissimi, debbano godere dello stesso regime premiale riservato a detenuti comuni. Il che consiste in pochi privilegi, per esempio giorni di vacanza fuori dalla prigione e riduzioni di pena finalizzate ad abolire la morte civile. Provvedimenti saggi e in sintonia con i princìpi sanciti dalla Carta. Dove è allora il problema? Secondo vari commentatori abituati ad applicare alla giustizia il criterio di un tanto al chilo, i condannati per reati mafiosi devono restare in gattabuia vita natural durante e trattati a calci nel culo come se non fossero esseri umani. Costoro meritano di subire leggi speciali in contrasto col concetto che tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge. Mentre un detenuto per reato di sangue, che magari ha ucciso moglie e figli, merita di uscire di cella alcuni dì, nonostante il succitato ergastolo, chi invece si è macchiato di un crimine di mafia è costretto a marcire dietro le sbarre per sempre. Perfino un idiota capisce che è sbagliato dividere i delinquenti tra gente di serie A e gente di serie B. I carcerati non sono diversi l’uno dall’altro, ed è necessario siano valutati alla stessa stregua. Considerare gli appartenenti alla onorata società esseri inferiori e meritevoli di torture sistematiche è qualcosa di vergognoso che contrasta con lo spirito costituzionale. È vero che una condanna è una punizione, ma è altrettanto vero che essa deve puntare alla riabilitazione del recluso. Pertanto nessuno di quelli che sono dietro le sbarre può essere massacrato bensì posto in condizione di riabilitarsi. Mafioso o criminale comune che sia. Altrimenti la giustizia non è più tale, ma diventa una forma di vendetta sociale che non si concilia con la esigenza di recuperare gli uomini e le donne che hanno sbagliato. Walter Verini (Pd): “L’Alta Corte ha espresso un principio di civiltà” di Giulia Merlo Il Dubbio, 25 ottobre 2019 Le prossime 48 ore saranno il rush finale per le regionali in Umbria, dove Walter Verini è commissario per il Pd e ha seguito l’intera campagna elettorale. Tuttavia, da membro della commissione Giustizia e della commissione Antimafia, non si sottrae al dibattito sulla sentenza della Corte costituzionale sul carcere ostativo. Nicola Zingaretti ha definito “stravagante” la decisione dei giudici, ma la levata di scudi è stata unanime... Alcuni effetti della sentenza possono destare perplessità. Dunque capisco le reazioni, compresa quella di Zingaretti e dei molti esponenti della magistratura che hanno fatto della lotta alle mafie una ragione di vita, come Gian Carlo Caselli. Lei cosa pensa? La mia opinione personale è simile a quella di Armando Spataro: un paese civile deve far sì che la pena sia certa ma al tempo stesso deve tutelare il principio secondo cui essa deve essere riabilitativa e soprattutto finalizzata al reinserimento sociale. Penso che la sentenza della Consulta sia coerente con l’articolo 27 della Costituzione, tuttavia capisco che il limite della sua applicabilità stia nella capacità del sistema di verificare caso per caso il livello di pericolosità sociale del detenuto e la sua idoneità a ottenere il beneficio. Dunque fa parte della stretta minoranza d’accordo con i giudici costituzionali... L’altro ieri sono stato in visita al carcere di Spoleto, dove sono detenute decine di ergastolani ostativi, e ho incontrato anche alcuni dirigenti della Polizia penitenziaria. Uno di loro mi ha detto: “Tra gli ostativi ci sono persone in carcere anche quarant’anni e oggi sono uomini radicalmente diversi da quelli che commisero i reati efferati per cui scontano la pena. Che senso ha non dare loro un minimo di speranza, una chance di poter vivere gli ultimi anni di vita fuori, se non hanno più pericolosità sociale?”. Le ripeto, me lo ha detto un poliziotto, non un detenuto. Come spiega la contrarietà della quasi totalità della magistratura? Guardi, il tema è delicatissimo e capisco la levata di scudi. Di più, credo che si debba riflettere con serietà sulle parole di chi si è espresso contro la pronuncia. Caselli sostiene che un mafioso si comporta bene in carcere non perché è assorbito da un percorso riabilitativo ma perché segue le regole del codice mafioso, e mette in guardia sul rischio che i giudici di sorveglianza non abbiano tutti gli strumenti per valutare. Io capisco i suoi timori e dico che sarà necessario individuare un modo perché queste valutazioni avvengano nel modo più accurato possibile. Aggiungo però che è necessario contemperare alla pena e alla necessità di sicurezza pubblica i principi di umanità e civiltà. È difficile, ma dobbiamo farlo: lo Stato non può mai essere vendicativo. Tra i passaggi criticati, c’è quello di concedere i benefici anche ai detenuti che non collaborano... Anche questo è comprensibile, perché ci si chiede: se dopo trent’anni il detenuto è un uomo cambiato, perché continua a non collaborare? Significa che il percorso riabilitativo non è completato. Anche su questo, però, non si può dividere il mondo in buoni e cattivi. Io mi chiedo: forse chi continua a non collaborare lo fa non perché rimane fedele all’organizzazione mafiosa, ma perché teme ritorsioni verso i familiari, per esempio. Bisogna lavorare perché il giudice che decide sul beneficio abbia tutti gli elementi per valutare. Non mi fraintenda: non giustifico nulla e capisco le perplessità di persone di cultura democratica che sollevano obiezioni. Però difendo il fatto che la sentenza esprime un principio civile. Il carcere, secondo decreto fiscale, è il luogo dove far finire anche gli evasori. Lei è d’accordo con la norma voluta da Bonafede? L’evasione fiscale è il vero problema del nostro Paese. Chi evade, commette un furto aggravatissimo ai danni dei cittadini, perché con la fiscalità generale si finanziano scuole, ospedali e servizi pubblici. Per combatterlo, la prima arma è la prevenzione con strumenti come la moneta elettronica, la tracciabilità e l’abbassamento della soglia del contante. Poi bisogna aggredire i patrimoni e lavorare sul contrasto di interessi: il cittadino deve trarre beneficio nel chiedere la fattura, perché scaricandola risparmia. Solo come ultimo anello della catena deve esserci il carcere agli evasori. Quindi condivide la norma? Non sono contrario in linea di principio, ma non credo che l’aumento delle pene sia il deterrente principale, anche se mediaticamente risulta il più eclatante. Guai a semplificare con la battuta “manette agli evasori”, dimenticando che le vere armi sono l’educazione alla legalità e la prevenzione. La conseguenza, infine, deve essere che i soldi recuperati servano ad abbassare le tasse, a partire dalle fasce più deboli e dalle imprese. Lei è commissario in Umbria. È un test nazionale? In Italia siamo abituati a vedere riflessi sul governo anche con le elezioni di condominio. Abbiamo costruito questa alleanza senza avere in testa esperimenti in chiave nazionale: l’accordo si basa su un programma concreto per la regione, non sulla somma di sigle alleate a livello nazionale. È Salvini a considerarlo un test contro il governo, per noi il voto riguarda il benessere degli umbri. Pronostici? La partita è aperta. Partivamo da una situazione complicata ma abbiamo dimostrato di aver capito i nostri errori, di voler cambiare e di esserci aperti alla società civile, che ha risposto. Abbiamo rinnovato le liste e dato segnali di cambiamento: è vero che siamo in rincorsa secondo i sondaggi, ma le prossime 48 ore possono essere determinanti. O i diritti valgono per tutti (anche i mafiosi) o non valgono per nessuno di Lorenzo Tosa generazioneantigone.it, 25 ottobre 2019 Da una parte la civiltà che faticosamente abbiamo costruito negli ultimi 150 anni; dall’altra il furore giustizialista che nell’ultimo decennio abbiamo accarezzato, agitato, sdoganato. Due mondi. Due visioni contrapposte che, mai come oggi, sono destinate a spaccarsi attorno all’ergastolo ostativo, ovvero una forma estrema di detenzione a vita che non prevede sconti di pena, né alcun genere di premialità e permessi. Il famigerato “Fine pena mai”, per intenderci. Inserita nel nostro ordinamento con la legge 356 del 1992, si tratta di una misura eccezionale concepita nel pieno della stagione delle stragi per scoraggiare i detenuti accusati di mafia che rifiutavano di collaborare con la giustizia. Secondo molti, tra cui il pm Nino Di Matteo e il Procuratore nazionale antimafia Cafiero De Raho, l’ergastolo ostativo, associato al carcere duro previsto dal 41bis, si è rivelato uno strumento decisivo nella lotta alla mafia. Con un solo piccolo (trascurabile, di questi tempi) dettaglio: l’ergastolo ostativo viola i più elementari diritti umani della persona. E non lo diciamo noi, ma due diverse sentenze emesse nel giro di quindici giorni. Il 9 ottobre scorso la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha chiesto ufficialmente all’Italia di rivedere le proprie norme in materia poiché in palese violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea per i diritti umani, la quale vieta espressamente “trattamenti e punizioni inumane e degradanti”. Dello stesso segno un’altra, storica, sentenza con cui ieri la Consulta ha dichiarato incostituzionale l’ergastolo ostativo. Logica conseguenza dell’applicazione della Costituzione italiana, che all’articolo 27, comma 3, recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Si rassegnino i teorici della ragione superiore, i razzisti giudiziari secondo cui esistono detenuti di serie A e detenuti di serie B, se ne facciano una ragione i garantisti a targhe alterne, i costituzionalisti della domenica: non c’è nessun passaggio o codicillo che escluda i mafiosi dal resto dell’umanità, che li retroceda ad “animali”, a bestie, come vorrebbe il ministro degli Esteri Luigi Di Maio. In particolare, il passaggio chiave è contenuto nel finale dell’articolo 27 e fa riferimento allo scopo ultimo e lo spirito più alto di ogni forma di reclusione: la rieducazione del detenuto. Esclusa non solo dall’ergastolo ostativo ma anche dall’ergastolo semplice, che nega formalmente (anche se non materialmente, al netto di premi e permessi) qualsiasi percorso di riscatto, ravvedimento e reinserimento della persona all’interno della società. Se dal punto di vista strettamente giuridico la questione è chiusa, restano da sciogliere tutti i nodi legati all’effettivo, e innegabile, ruolo decisivo che l’ergastolo ostativo ha avuto negli ultimi 25 anni nella lotta e nel contrasto alla mafia e alla criminalità organizzata. Ed è qui che entra in gioco la politica, chiamata ad abbandonare un approccio ideologico per trovare un punto di caduta in grado di contemperare la lotta alle mafie e la tutela dei più elementari principi di rispetto dell’essere umano, attorno a cui abbiamo eretto una società civile, illuminista e progressista. È facile? No, per nulla. Ma è questo che fa la politica, quella alta: non strizza l’occhio agli istinti più bassi dell’opinione pubblica, lasciandosi trascinare dalla corrente. Non contesta le sentenze, le applica. E lavora per costruire un’alternativa che riunisca le esigenze della giustizia con i cardini del diritto. Senza slogan, né facile demagogia. Non porterà voti o consensi, ma si corre il rischio di fare finalmente qualcosa di buono per questo Paese. Ma come “stravagante”, caro Nicola? di Giampaolo Coriani* possibile.com, 25 ottobre 2019 Ieri la Corte Costituzionale si è pronunciata sul cosiddetto ergastolo ostativo, dichiarandone la parziale incostituzionalità. Vale la pena, per non sbagliare, partire dal comunicato stampa della Corte stessa: “La Corte costituzionale si è riunita oggi in camera di consiglio per esaminare le questioni sollevate dalla Corte di cassazione e dal Tribunale di sorveglianza di Perugia sulla legittimità dell’articolo 4bis, comma 1, dell’Ordinamento penitenziario là dove impedisce che per i reati in esso indicati siano concessi permessi premio ai condannati che non collaborano con la giustizia”. In entrambi i casi, si trattava di due persone condannate all’ergastolo per delitti di mafia. In attesa del deposito della sentenza, l’Ufficio stampa della Corte fa sapere che a conclusione della discussione le questioni sono state accolte nei seguenti termini. La Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4bis, comma 1, dell’Ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. Sempre che, ovviamente, il condannato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo. In questo caso, la Corte - pronunciandosi nei limiti della richiesta dei giudici rimettenti - ha quindi sottratto la concessione del solo permesso premio alla generale applicazione del meccanismo “ostativo” (secondo cui i condannati per i reati previsti dall’articolo 4bis che dopo la condanna non collaborano con la giustizia non possono accedere ai benefici previsti dall’Ordinamento penitenziario per la generalità dei detenuti). In virtù della pronuncia della Corte, la presunzione di “pericolosità sociale” del detenuto non collaborante non è più assoluta ma diventa relativa e quindi può essere superata dal magistrato di sorveglianza, la cui valutazione caso per caso deve basarsi sulle relazioni del Carcere nonché sulle informazioni e i pareri di varie autorità, dalla Procura antimafia o antiterrorismo al competente Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica. La decisione segue la recente pronunzia della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) la quale aveva rigettato il ricorso dell’Italia contro una sua sentenza, di condanna del nostro Paese, resa nel giugno scorso, nella quale affermava che l’ergastolo ostativo si poneva in contrasto con l’art. 3 della Convenzione che vieta la tortura, le punizioni degradanti e disumane, con ciò negando di fatto la possibilità per il detenuto di intraprendere un percorso rieducativo. L’art. 4bis dell’Ordinamento Penitenziario prevedeva (prima dell’intervento in oggetto) che “L’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione previste dal capo VI, esclusa la liberazione anticipata, possono essere concessi ai detenuti e internati per i seguenti delitti solo nei casi in cui tali detenuti e internati collaborino con la giustizia a norma dell’articolo 58 ter della presente legge (…)” (segue l’elenco dei delitti, fra cui principalmente, ma non solo, quelli di mafia e terrorismo). Da ieri, non è più necessaria la collaborazione, non esiste più l’automatismo, ma il magistrato di sorveglianza valuterà caso per caso ogni richiesta e potrà accoglierla ma solo, vale la pena ripeterlo, “se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. Sempre che, ovviamente, il condannato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo”. Personalmente condivido la pronunzia della Corte, anche perché credo che non sussista alcun pericolo reale circa la paventata uscita dal carcere di pericolosi mafiosi. I requisiti sono stringenti, ci sarà una valutazione della magistratura di sorveglianza, e si elimina solo un automatismo e nessuno mancherà per questo di rispetto a Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e agli altri magistrati che hanno dato la vita per combattere la mafia. Un mafioso, come qualsiasi altro reo, prima deve distaccarsi dall’organizzazione alla quale apparteneva, dandone prova con elementi concreti, dimostrando anche che non sussiste pericolo di rientro nella medesima, e partecipando a un percorso rieducativo. Poi, e solo in queste condizioni potrà ottenere i benefici, senza necessariamente diventare collaboratore di giustizia. Questa la questione in diritto, e tutte le opinioni, sempre in diritto, sono legittime, purché siano attinenti al tema e siano motivate. Poi ci sono le opinioni politiche, quelle di solito più strumentali, quelle che per uno scopo di solito banalmente elettorale aggiungono conseguenze inesistenti, ma molto evocative, per parlare al proprio elettorato, in particolare alla sua pancia. Ad esempio Matteo Salvini (che discetta di tutto meno che dei famosi 49 milioni e del caso Savoini) ha dichiarato in una diretta Facebook con la consueta finezza: “Un permesso premio a chi ha massacrato, a mafiosi che hanno massacrato? Ma col ca… che gli do il permesso. Non vedo l’ora di tornare al governo per sistemare un po’ di cose”, come se il governo (quanto meno nell’attuale assetto democratico) potesse influire sulle sentenze della Corte Costituzionale. Sulla stessa lunghezza d’onda l’ex socio Luigi Di Maio: “Rispetto la sentenza, ma il Movimento 5 stelle non è d’accordo e faremo il possibile affinché quelli che erano in carcere con regime di ergastolo ostativo ci rimangano finché non si prendono altri mafiosi” (e qui non si capisce bene il senso, come se fosse necessario un numero minimo di mafiosi in carcere) “Si dice che quel regime violi alcuni diritti fondamentali della persona, ma quelle non sono persone, sono animali che hanno ucciso e sciolto nell’acido bambini”. Non vale la pena commentare, vista la padronanza assoluta dei nostri principi costituzionali. Ma, diciamo la verità, nessuno si stupisce di queste dichiarazioni, nessuno si aspetta neppure che questi personaggi conoscano, o almeno leggano, la normativa di cui parlano. Invece, quando ho sentito al Gr1 delle 8 di stamattina Nicola Zingaretti (il nuovo socio di governo) affermare che, pur rispettandola, la sentenza gli sembrava “stravagante” sinceramente non me l’aspettavo. Se avessi avuto il suo numero, l’avrei chiamato: “Ma come stravagante? In quale aspetto esattamente? Procedimentale? Sostanziale?”. Perché nella vita si possono avere opinioni diverse, e, come a scuola, non si può pretendere che chi ogni giorno fa a pugni con l’italiano, o con il russo e l’aritmetica, possa esprimere un giudizio compiuto su una questione giuridica complessa. Ma il segretario del Partito Democratico non può usare una terminologia del genere. Spiegaci, Nicola, con parole tue, perché la sentenza dell’organo cardine del nostro sistema democratico sarebbe “stravagante”, possibilmente in diritto. Perché tu ne hai la possibilità, i congiuntivi non li sbagli, nel tuo partito ci sono giuristi e costituzionalisti. Perché così, caro Nicola, sembra solo una lisciata di pelo all’elettorato che insorge, quando invece all’elettorato che insorge le cose andrebbero semplicemente spiegate. Perché poi se nessuno spiega, e insorge davvero, mica viene da te, ma va dagli altri due. *Coordinatore di “Possibile” Stop all’ergastolo ostativo, il regalo alle mafie che va sanato di Ranieri Razzante* La Notizia, 25 ottobre 2019 Una brutta pagina della storia giudiziaria italiana. Bisogna trovare il coraggio di dirlo. Una sentenza che ci riporta indietro di decenni, confida apertamente qualche operatore della legge. Un organo costituzionale va rispettato, ma si può non condividere ciò che fa. Non era obbligata, la Corte, ad uniformarsi alla Corte di Giustizia europea, che qualche giorno fa aveva improvvidamente deciso in senso analogo. Corre sempre l’obbligo dello studio della pronuncia. Pure quello di riconoscere - ci mancherebbe - diritto di difesa e condizioni carcerarie degne. Ma a tutto c’è un limite. Basterebbe solo ricordare quando venne introdotta la misura “incostituzionale”. Era il 1992. I giudici Falcone e Borsellino coinvolti in due attentati feroci. Lo Stato decideva allora di intervenire in maniera vigorosa, e tra diverse misure introduceva l’ergastolo ostativo. Nessun premio di buona condotta per i boss mafiosi, a meno che non collaborino con la giustizia. Ora, invece, le cose cambieranno a seguito della declaratoria di incostituzionalità da parte della Corte Costituzionale. Tra i diritti delle vittime e quelle dei detenuti sono stati preferiti i secondi. È vero, diranno i garantisti, la pena non ha funzione retributiva nel nostro ordinamento. Ed è questo anche un punto forte dell’argomentazioni delle due Corti. Vale sempre porre al primo posto il rispetto della dignità umana. Certo. Ma, il rispetto della dignità umana, sancito dall’art. 1 della Cedu, non può garantire solo una parte. Ci sono anche coloro che hanno subito perdite e violenze da quella “parte”, che è in carcere proprio per quei motivi. Soprattutto, ciò che uno Stato dovrebbe assicurare è l’integrità psichica degli onesti, pure tutelata dalla Cedu all’art. 3. E non dimentichiamoci, su tutti, di quella dei testimoni di giustizia. Per i collaboratori, poi, è a rischio anche l’integrità fisica. Sul piatto della bilancia pesano le vite di molte persone da “proteggere” dagli ergastolani mafiosi. Il tanto (ab)usato - in questi casi - art. 3 della Costituzione sul principio di uguaglianza tra i cittadini sembra operare a senso unico. Con i permessi premio, infatti, è concessa la possibilità ai detenuti di tornare in libertà per un limitato periodo per “coltivare interessi affettivi, culturali e di lavoro”. Un ritorno, quindi, anche alla realtà associativa dalla quale l’ergastolano ostativo non ha mai preso le distanze ed alla quale può riprendere a fornire istruzioni. Che le argomentazioni a favore dell’abolizione del “fine pena mai” per i mafiosi non siano così pacifiche, come al contrario pontificano alcune associazioni, si evince dal vivace dibattito sollevato dalle decisioni in commento. Anche il mondo della magistratura è spaccato. La stessa Consulta ha esteso la sentenza con 7 giudici contrari contro 8 favorevoli. Uno scarto da nulla. Cosa dire dei rischi di intimidazioni ai magistrati per ottenere i premi ai detenuti? O, nelle ipotesi “meno gravi”, dei pericoli di episodi corruttivi? Ci sono già, ricordiamo, delle garanzie anche per i detenuti a pena perpetua ostativa: la grazia del Presidente della Repubblica e la sospensione dell’esecuzione per motivi di salute. Non solo. Gli ergastolani possono avere la possibilità di lavorare, attraverso l’inserimento in programmi mirati. L’altra possibilità è ovviamente quella di diventare collaboratori (tema comunque insidioso); in questo caso viene de facto superata la presunzione di pericolosità sociale che impedisce la concessione di premi. I giudici dei Tribunali di sorveglianza dovranno valutare “caso per caso”. Ma con quale criterio? E se concederanno un permesso a determinate condizioni, non creeranno un precedente potenzialmente pericoloso per casi simili? Dalla pronuncia della Corte due effetti sono sicuri: disordine interpretativo e grossi pericoli per l’ordine pubblico. A seguire, non meno importanti, meno tutele per le vittime, più armi per gli avvocati difensori, speranze per i clan di mantenere la guida delle cosche. Francamente, non se ne sentiva il bisogno. *Giurista esperto di terrorismo Ergastolo “ostativo”: non sarà semplice farne a meno per impedire il ritorno dei boss di Beppe Lumia antimafiaduemila.com, 25 ottobre 2019 Dalla “pericolosità assoluta” dei boss mafiosi si passa alla “pericolosità relativa” da valutare di volta in volta... Si apre una falla nella lotta alle mafie. Dopo la condanna della Corte di Strasburgo nei confronti dell’Italia che prevede nel suo ordinamento questa severa misura anche la Corte Costituzionale del nostro Paese ha emesso una sentenza di incostituzionalità dell’art 4bis comma 1 dell’Ordinamento Penitenziario nella parte in cui esclude dai vari benefici penitenziari, come i “permessi premio”, i mafiosi condannati all’ergastolo che non hanno fatto la scelta di collaborare con lo Stato. Si valuterà adesso caso per caso il loro comportamento in carcere e la presa reale di distanza dei mafiosi dall’organizzazione. Non lasciamoci fuorviare dall’antico dibattito tra garantisti e giustizialisti, semmai chiediamoci perché non sarà per niente semplice la nuova gestione dei benefici penitenziari? Perché era importante mantenere attivo l’ergastolo ostativo? L’esperienza di questi anni ci aiuta a capire meglio. Vediamo un po’: 1) Le Mafie sono una minaccia vitale per le nostre democrazie. Se non vengono fermate è la fine, perdiamo tutto compresi i diritti fondamentali e la libertà. Tale minaccia permane anche quando i mafiosi sono reclusi in carcere tanto che è necessario tenere in piedi sia il 4bis sia applicare l’altra misura rigorosa del 41bis che non lede nessun diritto umano ma è indispensabile per impedire ai mafiosi di comandare anche mentre sono detenuti e di comunicare con l’esterno per trasferire ordini, ad esempio su quale appalto truccare, chi punire, chi sottoporre ad estorsione e perché no quale politico votare... 2) L’appartenenza all’organizzazione mafiosa è da considerare pressoché “totalizzante”. Una volta che si è “punciuti” non si può più lasciare l’organizzazione. Tranne che sei espulso, nel loro linguaggio “posato”, oppure quando muori o perché ucciso o per decesso naturale. Ecco perché è necessario incentivare la rottura radicale attraverso la collaborazione con lo Stato, che è l’unico vero percorso per prendere sul serio le distanze dalle mafie... 3) I mafiosi inoltre utilizzano un codice comunicativo ambiguo, particolare ed unico: bugie fuori e verità solo dentro l’organizzazione mafiosa. Per cui prendere le distanze a parole e con falsi comportamenti gli viene facile visto che addirittura a cominciare da Riina e Provenzano ne hanno sempre negato addirittura l’esistenza. Così si spiega perché non si è preso in considerazione a differenza del terrorismo l’istituto della “dissociazione”, proprio per evitare di essere facilmente raggirati con scelte farlocche di rottura da parte dei mafiosi... 4) I detenuti di mafia dentro le carceri non perdono mai il loro status di capi mafia. Anzi, utilizzano il carcere per continuare a dirigere le organizzazioni. Pensate che i boss condannati e reclusi vengono sostituiti all’esterno da reggenti perché il boss anche se bloccato in carcere rimane se capo nel suo ruolo apicale. La loro “buona condotta” non ha lo stesso valore dei detenuti comuni. Tant’ è vero che appena escono ritornano immediatamente nella loro funzione di boss operativi... 5) I boss hanno sempre messo in testa alle loro priorità l’eliminazione di istituti normativi come l’ergastolo ostativo, il 41bis, il sequestro e la confisca dei beni e così via... Il carcere di per sé non ha mai messo paura ai mafiosi, queste norme invece li fanno impazzire di rabbia e per eliminarli sono pronti a tutto, per capire basta leggere la sentenza, ancora di primo grado, del Processo sulla Trattativa Stato-Mafia... 6) Le mafie sono in sostanza “un vero male radicale” di cui ci dobbiamo democraticamente liberare. Sono una vera e propria minaccia e sfida che la legislazione italiana del “Doppio Binario” avviata dal Pool Antimafia guidato da Caponetto e portata avanti da Falcone, e a cui ho dedicato tutto il mio impegno parlamentare completato oggi nel Codice Antimafia, deve essere difesa e mantenuta in vita senza aprire dei varchi pericolosi, anzi va promossa per orientare nella stessa direzione la legislazione e la giustizia europea. Adesso? Non possiamo disconoscere che le mafie segnano un colpo a loro favore. Bisogna naturalmente rispettare la Sentenza della Corte Costituzionale e disciplinare e verificare con il massimo rigore, prima di riconoscere ai boss i benefici penitenziari, la loro certa e costante presa di distanza dall’organizzazione mafiosa. Meno reati, ma le celle sono piene. Boom di detenuti stranieri: 4 su dieci di Giuseppe Crimaldi Il Mattino, 25 ottobre 2019 Si scrive carcere e si legge inferno in terra. Le parole pronunciate ieri dal procuratore della Repubblica di Napoli Giovanni Melillo davanti alla Commissione parlamentare antimafia sulla situazione carceraria italiana fotografano perfettamente una situazione drammatica e esplosiva. E se poi si puntano i riflettori su realtà come quella napoletana, allora si comprendono i motivi per i quali il nostro Paese continua a restare nel mirino della Corte europea dei diritti dell’uomo. Partiamo dunque dai numeri: i detenuti presenti nelle carceri italiane - il dato ufficiale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria è aggiornato allo scorso settembre - sono 60.881. Con queste cifre ci si riempirebbe l’intero Stadio Olimpico di Roma. Il tasso di affollamento ufficiale sfiora ormai un incremento del 120 per cento Sebbene siano calati i reati, nelle strutture carcerarie nazionali si registra qualcosa come diecimila reclusi in più. Il paradosso è che a fronte di una generalizzata diminuzione dei reati su tutto il territorio nazionale, le celle dei penitenziari continuano a gonfiarsi. Sovraffollate, talvolta ai limiti del disumano e fatiscenti: questo è lo stato delle 231 carceri (divise in case di reclusione, circondariali, di sicurezza e mandamentali). I dati dello sfascio sono ben noti a tutti dal ministero della Giustizia ai vari osservatori per i diritti dei detenuti. In queste condizioni la convivenza tra detenuti crea non pochi problemi interni: non a caso sono in aumento le risse, gli scontri tra interi gruppi di provenienza geografica (e criminale), ma anchei suicidi. A dover fronteggiare queste quotidiane emergenze ci sono gli agenti della Polizia penitenziaria, spesso sotto organico e con un personale che ha un’età media di 40-50 anni. In termini numerici la regione che conta più detenuti è la Lombardia (8.610), seguita a ruota da Campania (7.844), Lazio (6.528) e Sicilia (6.509). Mentre quella dove il tasso di affollamento è maggiore è la Puglia (160,5%), seguita dalla Lombardia (138,9%). Le uniche regioni virtuose sono la Sardegna e le Marche. A far crescere esponenzialenete il numero dei reclusi ci pensano gli stranieri. La componente di nuovi detenuti non italiani è pari a circa il 35 per cento del totale. Ma i numeri, mai come in questi casi, vanno letti con attenzione e soprattutto contestualizzati realtà per realtà. Altrimenti non si spiegherebbe come la casa circondariale di Poggioreale, a Napoli, continua a detenere il triste primato del sovraffollamento. E allora diamo uno sguardo ai “posti letto”: a Poggioreale sono alloggiati in media dai 500 agli 800 detenuti in più di quelli che l’istituto potrebbe contenere (dipende dai periodi); e non va meglio anche nella seconda struttura partenopea, il penitenziario di Secondigliano, dove pure si segnalano presenze in esubero rispetto alla capienza ordinaria che sfiorano le 400-500 unità. E allora restiamo su Napoli. Recentemente si sono verificati alcuni casi gravi, che denotano tra l’altro anche quanto complessa sia la macchina dell’organizzazione interna e delicato il lavoro della Penitenziaria. All’inizio di ottobre una quarantina di reclusi - in maggioranza napoletani - rifiutarono di tornare in cella dopo l’ora d’aria, barricandosi in un cortile per protestare contro la qualità del vitto e dell’assenza di segnale della pay tv che viene loro offerta dalla Curia di Napoli. La protesta duò oltre un’ora. Qualche settimana prima accadde anche di peggio: due gruppi di reclusi, il primo composto da algerini e il secondo da italiani, tentò di scatenare una violentissima rissa (con tanto di spranghe e oggetti contundenti) evitata per un soffio solo grazie all’immediato intervento dei “baschi blu”. Clamorosa fu poi l’evasione da Poggioreale - avvenuta l’ultima domenica di agosto - di Robert Lisowski, un 37enne polacco detenuto dal cinque dicembre in una cella del padiglione “Milano” in attesa di giudizio. L’uomo riuscì a eludere tutti i controlli sgattaiolando sui tetti da un fibnestrone, subito dopo la messa celebrata nella chiesa interna alla struttura. Lisowski usè il più tradizionale dei metodi: annodò alcune lenzuola, che poi utilizzò per calarsi lungo l’alto muraglione di cnta del carcere. Venne catturato due giorni dopo, perché nella discesa si fratturò la caviglia. Se le mafie non sono più una “cosa” solo del Sud di Isaia Sales Il Mattino, 25 ottobre 2019 C’è stato un tempo in cui si diceva che la mafia non esisteva, e che era solo un’espressione del carattere “bollente” dei siciliani, un comportamento e non un’organizzazione. Giuseppe Pitrè nel libro “Usi, costumi, usanze e pregiudizi del popolo siciliano” sostenne che “la mafia non è setta né associazione, non ha regolamenti né statuti. Il mafioso non è un ladro, non è un malandrino. La mafia è la coscienza del proprio essere, l’esagerato concetto della forza individuale, unica e sola arbitra di ogni contrasto, di ogni urto di interessi e di idee; donde la insofferenza della superiorità e, peggio ancora, della prepotenza altrui”. Anche lo scrittore Luigi Capuana la pensava allo stesso modo. Così come i rappresentanti della Chiesa cattolica. Il cardinale di Palermo Ernesto Ruffini scrisse a Paolo VI (preoccupato del silenzio della Chiesa siciliana sull’eccidio di Ciaculli del 1963 in cui saltarono in aria per una bomba sette rappresentanti delle forze dell’ordine) che la mafia non esisteva come organizzazione, e che il risalto che se ne dava era opera dei comunisti per colpire i democristiani. Il negazionismo, o la nobilitazione della mafia, coinvolgerà anche la stragrande parte dei magistrati siciliani. Nel 1955, il primo presidente della Corte di Cassazione, Guido lo Schiavo, scriverà questo sconcertante commento sulla morte di Calogero Vizzini, allora capo di “Cosa nostra”: “Si è detto che la mafia disprezza polizia e magistratura: è una inesattezza. La mafia ha sempre rispettato la magistratura, la Giustizia, e si è inchinata alle sue sentenze e non ha ostacolato l’opera del giudice. Nella persecuzione ai banditi ed ai fuorilegge ha affiancato addirittura le forze dell’ordine”. La storia della lotta alla mafia è stata costellata di pregiudizi che ci hanno impedito finora di comprenderne le reali caratteristiche. Si può, ad esempio, legare un reato ad una appartenenza territoriale? Nel caso della mafia ciò è avvenuto. Ed è forse questo il più incredibile caso di “diritto penale a caratterizzazione etnica” (mai codificato ma di fatto spesso così interpretato). Come se non fosse possibile essere mafiosi oltre certe latitudini. Il primo pregiudizio ha avuto a che fare, appunto, con il convincimento che fosse la Sicilia il luogo esclusivo di produzione mafiosa. Ci sono voluti decenni per assimilare alla mafia siciliana altre forme di violenza presenti in altri territori. L’indubbia originalità di “Cosa nostra” si confondeva con la sua (ritenuta) esclusività. Questo convincimento aveva influenzato anche la prima legislazione antimafia varata dopo l’uccisione di Pio La Torre e del generale Dalla Chiesa, così come i lavori della prima Commissione parlamentare antimafia, che si era occupata quasi esclusivamente della criminalità siciliana, non ritenendo la camorra e la ‘ndrangheta degne di attenzione. C’è voluto del tempo perché maturasse un nuovo orientamento: anche in Campania, in Calabria e poi in Puglia, operavano forme criminali similari alla mafia. Si incrinava così il convincimento che il fenomeno mafioso fosse una connotazione esclusivamente siciliana. Che tale modello di violenza si era affermato in Sicilia prima che in altre parti era un dato storico, non etnico; e che esso si potesse presentare in altri contesti diversi dalle proprie origini era una previsione fin troppo facile da formulare. Ma l’indubbio passo in avanti compiuto con l’allargamento del concetto di mafia ad altre organizzazioni criminali si è scontrato nel tempo con un altro pregiudizio: mafioso può essere solo un meridionale. La Lega di Bossi diede corpo e forza politica a questo diffuso pregiudizio nel Nord: mafia è un fenomeno di arretratezza culturale, civile ed economica, e per questi motivi non poteva che manifestarsi esclusivamente nel Sud dell’Italia. Ma fu proprio questo pregiudizio, cavalcato per ragioni politiche, a fungere da ostacolo alla comprensione di qualcosa di nuovo che stava avvenendo nel Centro-Nord: un progressivo insediamento di mafie nei territori più ricchi e “civili” con una produzione autonoma di “violenza di relazione e di potere” non dovuta solo a campani, siciliani, pugliesi o calabresi. L’omicidio del giudice Bruno Caccia a Torino avvenne ne11983 e in quegli stessi anni a Roma operava con metodo mafioso la banda della Magliana. Ed ecco manifestarsi un analogo fenomeno di negazionismo. Al di là delle strumentalizzazioni politiche della Lega, era indubbiamente difficile capire cosa stava succedendo usando le categorie interpretative della mentalità e della arretratezza, perché si stavano riproducendo fenomeni mafiosi in contesti economici non arretrati e laddove i rapporti sociali erano caratterizzati da una diversa “mentalità”, da una più ampia partecipazione democratica e da maggiore interesse alla “cosa pubblica”. È chiaro che la presenza fisica di mafiosi di per sé non può essere motivo sufficiente per il loro successo in nuovi territori. C’è bisogno di una domanda che ne richieda i servizi. Nel Centro-Nord c’è stato un incontro di interessi tra operatori economici e portatori di violenza (e di capitali). I casi di imprenditori in affari con le mafie per ragioni di competitività delle loro aziende sono tanti che non possono più rientrare nella definizione di “accidente” ma in quello di “sostanza”. Ci sono sempre “buone cause” per relazionarsi con le mafie. In definitiva, non esistono territori o settori immuni alle mafie in presenza di una impressionante domanda di servizi e di prestazioni illegali. Oggi nel campo delle mafie c’è un’ulteriore forma di negazionismo. Si sostiene che indubbiamente è vero che le organizzazioni mafiose si riproducono anche in ambienti lontani dai loro territori di insediamento storico, ma sempre siciliani, campani e calabresi ne sono i componenti. I “richiedenti” di servizi mafiosi sono spesso settentrionali ma la composizione dei clan è fatta quasi esclusivamente di meridionali. Vedremo quali saranno gli sviluppi futuri nel Centro- Nord di questo “tenera relazione” tra affari e violenza. Sta di fatto che a Roma sono già state condannate per mafia organizzazioni criminali di cui non fanno parte né siciliani, né calabresi o tanto meno campani. Ciò non vuol dire affatto che ogni forma criminale presente a Roma sia necessariamente di tipo mafioso. O che ogni forma criminale che si organizza al Nord debba sempre essere sanzionata con il 416 bis. Ma ormai il nesso tra appartenenza territoriale (meridionale) e mafiosità è spezzato da tempo. E la corruzione svolgerà sempre più la funzione di raccordo tra due mondi che oggi possono sembrare distinti. Perché non sono le mafie a causare la crescita della corruzione, esse arrivano dove già c’è. Il nuovo radicamento extraregionale delle mafie è legittimato proprio dall’impressionante estensione della corruzione e da un’economia che si muove sempre di più fuori da ogni rispetto delle leggi. Al di là di ogni valutazione giuridica, il caso di Roma lo prova ampiamente. Azione penale obbligatoria: così la giurisdizione supera l’eterno miraggio di Errico Novi Il Dubbio, 25 ottobre 2019 L’ultimo caso a Brescia: “tagliati” oltre 2.000 fascicoli. Nella riforma del processo non dovrebbero esserci cenni di depenalizzazione. È una materia rimasta vergine, anche nel corso dell’intenso confronto svolto, con il guardasigilli Alfonso Bonafede, da avvocati e magistrati. Eppure l’ordine giudiziario, nel terreno di frontiera che è l’amministrazione quotidiana della macchina processuale, opta ormai da tempo per una depenalizzazione di fatto, preferita all’ipocrita megalomania della giustizia onnivora. L’ultimo esempio viene dal distretto di Brescia, dove i vertici degli uffici hanno convenuto di dare assoluta priorità ad alcuni procedimenti. Innanzitutto a quelli per i quali la legge già prevede meccanismi accelerativi e, immediatamente dopo, ai giudizi penali relativi a illeciti di forte impatto per lo specifico contesto lombardo, legati dunque all’economia. Si è deciso, perciò, di considerare come “perdita inevitabile” la mancata definizione di altri procedimenti, destinati a finire prescritti nei successivi 24 mesi. A darne notizia è stato il Corriere della Sera dieci giorni fa. E la notizia è di quelle destinate a far scalpore. Perché il contenuto implicito di simili linee guida è evidente: addio all’ipocrisia dell’azione penale obbligatoria. Addio al miraggio efficientista dei fascicoli messi tutti - fino a quello più bagatellare - sull’illusorio binario della definizione. Accettazione serena, e condivisa da pm e giudici, di una prescrizione che estingue una parte non piccola di procedimenti: circa 2.000 su 6.500 istruiti dai pm, nel caso specifico. Ci sono due piani di lettura. Primo: la scelta compiuta negli uffici giudiziari della Corte d’appello di Brescia (di cui fanno parte anche i Tribunali di Bergamo, Cremona e Mantova) è solo la versione codificata di una prassi diffusissima. Nella gran parte dei grandi distretti già si assiste a una “selezione naturale indotta”, per così dire: vengono lasciati sul binario morto della prescrizione tutti quei fascicoli che non sarebbe possibile trattare fruttuosamente. Inutile pretendere che la giustizia sia una catena di montaggio all’americana. “La giurisdizione deve assicurare qualità, non un vuoto produttivismo”, nella visione di Claudio Castelli, presidente della Corte d’appello di Brescia e tra i principali fautori delle linee guida insieme con Vittorio Masia, che presiede il Tribunale del capoluogo. Prima ancora che arrivi la riforma, è già arrivata la giurisdizione in carne e ossa. Superare l’ipocrisia dell’azione penale obbligatoria è oltretutto uno degli obiettivi dell’Unione Camere penali, che nel ddl costituzionale per il quale ha raccolto 72mila firme, e che ora è all’esame di Montecitorio, aveva previsto un’indicazione per via legislativa, cioè parlamentare, delle priorità nell’azione penale. Il tema ha finito per essere il punto di caduta di molti dibattiti organizzati nel corso di questa settimana dalle Camere penali territoriali, in coincidenza con i cinque giorni di astensione dalle udienze proclamati dall’Ucpi. Incontri che hanno di nuovo visto avvocati e magistrati condividere le stesse analisi, innanzitutto sul rischio che lo stop alla prescrizione tenda ad aggravare quel sovraccarico a cui opzioni drastiche come quella adottata a Brescia tenderebbero a rispondere. Manifestazioni si sino tenute per tutta la settimana a Torino come a Benevento, a Bari, come a Frosinone e a Milano e ancora se ne terranno oggi. Come a Bologna, dalla cui Camera penale arriva una testimonianza di particolare significato: l’adesione di realtà associative dell’avvocatura anche esterne al campo dei penalisti, dalla Camera civile alle sezioni locali di amministrativisti e tributaristi, fino all’Aiga e con la piena condivsione, sul piano locale come su quello nazionale, dell’Ocf. “È segno”, nota il presidente della Camera penale bolognese Ettore Grenci, “che fa comprendere come sulla riforma della prescrizione vi sia una diffusa preoccupazione che ha toccato la sensibilità non solo deipenalisti, ma di tutto il mondo forense”. Alle 10 di stamattina tutta l’avvocatura del capoluogo emilano si ritroverà per un sit in davanti al Tribunale “con la toga addosso”. Un “fatto storico” per Grenci. E la riprova che l’efficienza della giustizia penale sta a cuore non solo a chi, con i paradossi dell’obbligatorietà e della prescrizione, fa i conti ogni giorno. La lunga marcia delle “manette agli evasori” di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 25 ottobre 2019 Anche la nomenclatura delle leggi penali può avere la memoria corta. Soprattutto se inclina alla corrività. È il caso delle “manette agli evasori”, ma anche della “spazzacorrotti”. Perché, nel campo del penale tributario, sinora, la proverbiale “manette agli evasori” è considerata la legge n. 516 del 1982. Quella che, tra l’altro, oltre a prevedere un generale inasprimento delle pene, attrasse nell’area penale un’ampia casistica di violazioni sino ad allora considerate solo formali e cancellò la pregiudiziale amministrativa, la necessità, cioè, che prima dell’avvio del procedimento penale si fosse completato quello amministrativo. E già allora si introducevano alcune soglie come i 25 o i 100 milioni di lire (di imponibile) per l’omessa dichiarazione, equivalenti a circa 45mila e 180mila euro o come il 2% per gli omessi corrispettivi. E già allora emerse con una certa evidenza il rischio di un’applicazione viziata da distorsioni. Per esempio, a Torino nel 1985 in due riprese - la prima dedicata a imprenditori e commercianti, la seconda a professionisti - la Guardia di Finanza si presentò, armata (il che all’epoca sollevò un vespaio di polemiche), in case, studi, aziende, negozi, per notificare a 646 persone un decreto di perquisizione che ipotizzava il reato di dichiarazione infedele. E a Milano in procura piovvero 60mila denunce solo per omesso versamento delle ritenute, reato per il quale di soglie non ne erano state previste. Subito si accesero le polemiche sugli incroci di natura statistica tratti dalle dichiarazioni dei redditi e sul loro discutibile utilizzo sul piano penale, meno legittimo rispetto al piano amministrativo. E a una parziale correzione di tiro si arrivò solo nel 2000 con il decreto legislativo n. 74, che tuttora rappresenta il punto di riferimento del penale tributario, con la rideterminazione delle soglie di rilevanza penale e l’esclusione di infrazioni solo formali dalla sfera di applicabilità della sanzione penale. Negli ultimi anni sui reati tributari si sono poi esercitati un po’ tutti i Governi, da Monti a Renzi, a conferma dell’irresistibile tentazione a mettere le mani su un campo del diritto penale dell’economia ancora più bisognoso di altri di un minimo di certezza, manovrando soprattutto sul meccanismo delle soglie e con filosofie di intervento diverse. Il Governo Monti nel 2011 mise in campo una decisa stretta, abbassando i limiti di rilevanza per reati come la dichiarazione fraudolenta, cancellando ipotesi attenuate, riducendo gli effetti della sospensione condizionale della pena e i benefici del pagamento del debito tributario; innalzò infine i limiti di prescrizione. Un utilizzo della leva penale nella lotta all’evasione che però venne in larga parte mitigata dal Governo Renzi che, nel 2015, intervenne a sua volta per alzare le soglie in maniera assai significativa per alcuni reati, dalla dichiarazione infedele, con una tollerabilità passata da 50mila a 150mila euro di imposta evasa - ora potrebbe attestarsi a 100mila -, all’omessa dichiarazione portata a un limite di 50mila euro, dai precedenti 30mila. Ma anche l’omesso versamento di Iva e ritenute vedeva una nuova soglia attestata a 250mila euro dai precedenti 50mila. Questi sono i limiti ancora in vigore, e tali resteranno fino al debutto del nuovo pacchetto antievasione, prudentemente spostato a una data successiva a quella della legge di conversione. Ora anche questo settore del penale, come tutti naturalmente, ma più di altri per l’impatto a più livelli che può avere sul sistema impresa, va maneggiato con attenzione. E con chiarezza sugli obiettivi dove - al di là del rischio reputazionale cui si espongono le imprese quando si apre un’indagine penale destinata magari a chiudersi con proscioglimenti dopo anni di indagini e processi (da Dolce e Gabbana a Roberto Cavalli, per restare al comparto moda) - anche sull’assai più vasta platea di piccoli artigiani, commercianti e professionisti bisognerebbe avere nitida la direzione politico-sociale che si intende perseguire. Cercando di evitare segnali contraddittori. Per cui se ci si erge a paladini di questo mondo, sollecitando cautela sui nuovi limiti all’uso del contante, poi è tutto da valutare l’impatto di una norma penale che più che raddoppia i minimi della sanzione detentiva, avallando una politica che con la mano destra promuove il carcere per chi con la sinistra si vuole tenere indenne da modalità di pagamento indigeste. Evasione fiscale. Battaglia sulla soglia dei 100 mila euro, dubbi anche da parte dei magistrati di Marco Conti Il Messaggero, 25 ottobre 2019 Albamonte: norma-manifesto che rischia di intasare i tribunali. Nessun veto del Colle al testo. Se l’urgenza del governo è combattere l’evasione fiscale non si vede perché Sergio Mattarella non debba firmare il decreto fiscale che abbassa l’asticella per il carcere agli evasori, come invece ieri sostenevano esponenti della maggioranza. Sull’efficacia della norma il Quirinale ovviamente non entra e, anche se il decreto fiscale non è ancora arrivato, dal Colle più alto fanno sapere che il Presidente della Repubblica “non ha obiezioni sostanziali” ed è quindi pronto a dare “disco verde” quando il testo arriverà. Il decreto era atteso per ieri, ma le convulsioni nella maggioranza hanno rallentato l’iter. Le nuove norme prevedono che la pena massima passi da 6 a 8 anni in caso di dichiarazione fraudolenta, quando la somma evasa superi i 100 mila euro. Ma a sollevare dubbi, anche da parte dell’opposizione - che ha inviato una lettera al Quirinale primo firmatario Enrico Costa - è l’entrata in vigore che viene differita al contrario dello spirito di un decreto che invece entra immediatamente in vigore. Oggetto del contendere nella maggioranza è invece la soglia dei cento mila euro ritenuta troppo bassa anche perché, come ha fatto notare il magistrato Piercamillo Davigo, l’ammontare dell’evasione viene determinata alla fine dei tre gradi di processo. Alle resistenze di parte della maggioranza - renziani in testa - che promette battaglia in aula, si sono aggiunte le riflessioni (affidate all’Huffington Post) anche di un altro magistrato come Eugenio Albamonte che punta il dito sull’affollamento che rischiano i tribunali e sul fatto che si possa trattare di una “norma manifesto” se non si predispongono i controlli. Lunedì la manovra di Bilancio dovrebbe approdare al Senato mentre il decreto fiscale inizierà il suo iter alla Camera. Da quel momento inizierà ad abbattersi sui due provvedimenti una valanga di emendamenti. I temi più controversi sono la stretta penale per gli evasori, Quota100, la sugar tax, la plastic tax e la cedolare secca, che passa dal 10% al 12,5%. In attesa del voto in Umbria, nella maggioranza è in vigore una sorta di tregua, ma dalla prossima settimana si inizierà a ballare - soprattutto al Senato - e i tempi a disposizione sono ridotti anche per i ritardi del governo nell’inviare i testi. Ieri a palazzo Chigi, per incontrare il premier Conte, è salita una delegazione di Italia Viva, composta dai presidenti Bellanova e Rosato e dai capigruppo Boschi e Faraone. “Incontro cordiale e di metodo”, spiegano i renziani, ma su alcuni passaggi della manovra le posizioni restano distanti. Il Senato dovrebbe concludere l’iter della manovra entro novembre, o la prima settimana di dicembre, per poi passare la legge di Bilancio alla Camera dove sarà difficile evitare il voto di fiducia se si vuole scongiurare l’esercizio provvisorio. “Con il carcere per gli evasori la macchina della giustizia rischia il caos” di Federica Olivo huffingtonpost.it, 25 ottobre 2019 Intervista a Eugenio Albamonte, magistrato e segretario di Area Dg: “Senza correttivi si rischia imbuto per i processi. Il sistema non riuscirà a sostenere stop a prescrizione e il carcere per chi evade”. “L’Apocalisse dal 1° gennaio 2020 non ci sarà per il semplice fatto che il regime della prescrizione sarà applicabile ai reati che saranno commessi a partire da quella data. È evidente che gli effetti si produrranno dopo”. Eugenio Albamonte, magistrato a Roma, segretario di Area democratica per la giustizia - l’associazione che riunisce i magistrati progressisti - risponde così alle parole pronunciate davanti alla commissione Giustizia della Camera dal ministro della Guardasigilli Alfonso Bonafede. L’inquietudine dei magistrati sul tema riguarda le ripercussioni che la riforma sulla prescrizione - così come l’introduzione del carcere per i grandi evasori - potrà avere sulla macchina della giustizia italiana. A meno che il legislatore non intervenga subito con dei correttivi. Dottor Albamonte, nel mondo giuridico è in corso un importante dibattito sullo stop alla prescrizione. Qual è il timore dei magistrati? Le conseguenze delle riforme - purtroppo soprattutto di quelle fatte male - sono destinate a durare a lungo. Il rischio che corriamo, se non si interviene subito, è che tra tre o quattro anni ci ritroveremo di fronte a problemi gravi per il funzionamento del sistema della giustizia. Quali, ad esempio? Senza correttivi, ci sarà un ingolfamento totale dei processi. Soprattutto in alcuni ‘colli di bottiglia’ del procedimento, come il passaggio tra il giudizio di primo grado e la Corte d’Appello. In quel frangente ad oggi confluiscono, come in una specie di area di stoccaggio, centinaia, migliaia di procedimenti che poi diventano difficili da smaltire. Senza cambiamenti, quell’imbuto è destinato a diventare una strozzatura di qui a qualche anno. O si agisce subito, oppure una volta che la norma sarà entrata in vigore sarà difficile arginarne le conseguenze. E in che modo si potrebbe evitare che si creino questi imbuti, o meglio che se ne aggravino le condizioni? Il pacchetto che Bonafede aveva portato in Consiglio dei ministri nel corso del governo precedente prevedeva misure troppo blande, che non andavano ad arginare quei rischi a cui facevo riferimento prima. Cosa mancava in quel disegno? Una depenalizzazione ulteriore, ad esempio. Uno dei problemi del processo penale è anche l’enorme carico di reati. Non tutti questi corrispondono a situazioni effettivamente meritevoli della sanzione penale. È la tendenza del legislatore, del resto: quando c’è un problema, un allarme sociale, si risponde con una norma penale. E questo stesso ragionamento è stato fatto anche con il decreto sull’evasione fiscale. C’è poi un altro aspetto: sarebbe necessario un più ampio ricorso ai riti alternativi, come l’abbreviato e il patteggiamento. Bisognerebbe incentivarli in modo che gli eventuali effetti negativi della sospensione della prescrizione dopo il primo grado siano compensati con un maggiore ricorso ai riti alternativi. Ma difficilmente si farà questo step: si tratterebbe, infatti, di una decisione in controtendenza rispetto alle decisione prese dal governo Lega M5s, nel corso del quale è stato introdotto un provvedimento che esclude il rito abbreviato per i reati per i quali è previsto l’ergastolo. Peraltro, anche questa norma determinerà un ulteriore rallentamento della macchina del processo. Sa, i procedimenti davanti alla Corte d’Assise sono lunghi e impegnativi. Ciò determinerà un assorbimento di risorse e il rischio di impasse. A proposito del carcere per gli evasori, Bonafede ha parlato di svolta culturale. Lei come interpreta questo provvedimento? Io credo che uno dei problemi principali sul tema sia quello relativo ai controlli. Se questi fossero efficaci, sarebbero sufficienti, almeno in alcuni casi. Ma, d’altro canto, noi abbiamo il sistema che indulge spesso con i condoni, che creano una sorta di aspettativa, della serie “quello che non pago oggi, nella peggiore delle ipotesi lo pagherò domani”. Ecco, sono questi i temi culturali che dovrebbero essere affrontati in primis. Quanto alle sanzioni penali, io dico una sola cosa: una volta disposte per legge, bisognerà fare i le indagini, e poi i processi. Noi ci troviamo in una struttura che è quasi al collasso, che assolutamente non riuscirà a sostenere l’impatto del blocco della prescrizione dopo il primo grado, figuriamoci cosa può succedere se incrementiamo il carico con nuovi reati. È per questo motivo che ha definito, in un recente intervento sul tema, il carcere agli evasori “una norma manifesto”? Sì, perché se la misura viene messa all’ordine del giorno, anche con una certa enfasi, ma poi non ci sono i controlli su chi evade, è chiaro che diventa una norma manifesto. Il rischio è di trovarsi di fronte a una presa di posizione formale che però non si traduce in una maggiore severità del sistema nei confronti degli evasori, diventa una minaccia poco credibile. Tra le proposte sul tavolo in tema di giustizia - anche alla luce dell’inchiesta sulle nomine della procura di Perugia - ce n’è una di cui si dibatte da mesi: quella della riforma elettorale del Csm. Bonafede sembra aver fatto un passo indietro rispetto al sorteggio. Ma, secondo lei, è necessario riformare il modo di eleggere i consiglieri? E in che modo? La magistratura, nella sua quasi totalità, ha sempre sostenuto che il sorteggio fosse una scelta sbagliata. È una chiave di approccio al tema che non è condivisibile. Mi fa piacere che il ministro abbia cambiato idea. Detto ciò, bisogna ricordare che il sistema elettorale attuale del Csm è una dalle cause che ha prodotto i fatti che sono venuti alla luce a primavera (il caso Palamara, ndr). Come avviene in ogni sistema elettorale, quando va verso il maggioritario uninominale, il risultato è un rafforzamento del potere di chi propone le candidature. È successo in passato in politica, e nel passato più recente è accaduto in magistratura. Gli eletti venivano selezionati e nominati dalle correnti. Area aveva pensato al sistema compensativo delle primarie, altre correnti non hanno pensato a strumenti che potessero colmare il gap di rappresentatività che si era venuto a creare con il sistema elettorale. E così si è venuto a creare un meccanismo per cui gli eletti erano condizionabili dai soggetti che, all’interno delle correnti, avevano la capacità di gestire il consenso. Parte di quello che è successo è sicuramente conseguenza di questo sistema. Quindi, il sistema elettorale va rivisto. Come? Occorre avvicinare l’elettore all’eletto e consentire una maggiore possibilità di scelta agli elettori. Una delle caratteristi dell’attuale sistema è quello del collegio unico nazionale, che comporta, ad esempio, il fatto che un magistrato di Caltanissetta possa essere chiamato a votare per un magistrato di Milano che non ha mai sentito nominare in vita sua. Se dà la preferenza a quel nome, molto probabilmente lo fa perché il circuito della corrente cui appartiene glielo suggerisce. Diventa una scelta in bianco. Se noi sostituiamo il collegio unico nazionale con un sistema con più collegi elettorali avviciniamo il candidato all’elettore. A proposito di eletti ed elettori. C’è un’altra questione che non si può più procrastinare, quella delle cosiddette porte girevoli tra politica e magistratura. Come si affronta? Ci sono due linee guida che, a mio parere, andrebbero seguite. Sono quelle delineate già da tempo dall’Anm: la prima è che non si possono porre limiti alla libertà del magistrato di candidarsi. È suo diritto farlo, come per ogni cittadino. Tema diverso è, invece, cosa fare quando il mandato politico finisce. Area ritiene che una volta compiuto un incarico politico, la toga non possa continuare a fare il magistrato, ma che possa essere destinato a funzioni diverse, amministrative. Il legislatore dovrà decidere se questa destinazione debba essere temporanea oppure a tempo indeterminato. Certamente è necessario un distacco. Riforma del processo e del Csm a parte, c’è un altro disegno che in questo momento è in discussione Parlamento e riguarda i magistrati. Mi riferisco alla proposta di legge di iniziativa popolare sulla separazione delle carriere, lanciata dalle Camere penali e sostenuta in primis da Forza Italia. Cosa ne pensa? Come la stragrande maggioranza dei magistrati italiani sono contrario alla separazione delle carriere. Credo che la figura del pm, per come è stata disegnata in Costituzione e nel codice di procedura penale, sia una figura di garanzia. Non vedo perché dovremmo privarci di un sistema che presuppone un pubblico ministero terzo e imparziale. Detto ciò, vorrei ricordare che questa proposta introdurrebbe una serie di modifiche che poi inciderebbero sull’indipendenza di tutti i magistrati, anche dei giudicanti. Mi riferisco, ad esempio, alla creazione di due Csm che sarebbero composti dallo stesso numero di togati e laici. Se vogliamo guardare a tutto tondo le vicende di maggio, non possiamo non ricordare che a quelle riunioni partecipavano anche i politici. La politica, nelle sue articolazioni meno nobili, ha sempre coltivato l’idea di normalizzare la magistratura, di esercitare un controllo sulle toghe. Se passasse questo progetto, tale disegno riuscirebbe a trovare concretezza. La proposta è in commissione. Il Pd, almeno per quanto riguarda la separazione delle carriere, non ha mostrato particolari resistenze. Un atteggiamento che stupisce? Che il Pd abbia avuto una posizione blanda su questi temi è stato per me una sorpresa. Anche perché non mi sembra che all’interno del partito ci sia stato un dibattito che l’abbia condotto da una posizione a quella diametralmente opposta. Questa tesi della separazione delle carriere era un cavallo di battaglia del centro destra. Ora, improvvisamente, è diventato un tema comune. E questo lascia perplessi. Mae: il giudice deve informarsi sulle condizioni di detenzione nello Stato membro emittente di Claudio Bovino quotidianogiuridico.it, 25 ottobre 2019 Corte di giustizia UE, sentenza 15 ottobre 2019, causa C128/18. Al fine di valutare se esistano seri e comprovati motivi di ritenere che il detenuto correrà un rischio reale di essere sottoposto a un trattamento inumano o degradante, l’autorità giudiziaria dell’esecuzione di un Mandato d’arresto europeo (Mae), ove disponga di elementi oggettivi, attendibili, precisi, attestanti l’esistenza di carenze sistemiche o generalizzate delle condizioni di detenzione negli istituti penitenziari dello Stato membro emittente, deve tener conto dell’insieme degli aspetti materiali pertinenti delle condizioni di detenzione (ad esempio, lo spazio personale disponibile per detenuto in una cella tenendo conto dello spazio occupato dal mobilio, le condizioni sanitarie, l’ampiezza della libertà di movimento del detenuto). Il principio è stato confermato dai giudici europei con la sentenza Dorobantu del 15 ottobre 2019 (C128/18) la quale precisato che non ci si deve limitare a controllare le insufficienze manifeste e che, ai fini di tale valutazione, l’autorità giudiziaria dell’esecuzione deve richiedere all’autorità giudiziaria emittente le informazioni che reputi necessarie e, in linea di principio, in mancanza di prove contrarie, dovrà fidarsi delle sue assicurazioni. Inoltre, l’autorità giudiziaria dell’esecuzione non può escludere l’esistenza di un rischio reale di trattamento inumano o degradante solo perché la persona interessata dispone, nello Stato membro emittente, di un mezzo di ricorso per contestare le condizioni della propria detenzione. Reato postare su siti porno fotomontaggi con volti presi da Facebook di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 25 ottobre 2019 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 24 ottobre 2019 n. 43534.Scatta il reato di trattamento illecito di dati personali per chi - anche solo in un breve lasso di tempo - posta su siti porno fotomontaggi realizzati a partire da foto di sue conoscenti, prelevate da Facebook. E non costituisce valida difesa sostenere che si tratti solo di “una bravata”. La Cassazione con la sentenza n. 43534 di oggi ha così confermato la condanna a sei mesi per il reato lesivo della privacy di ben 17 ragazze, nonostante avessero tutte rimesso la querela per diffamazione a seguito di uno spontaneo risarcimento di 1.300 euro ciascuna da parte del ricorrente. La difesa sosteneva si fosse trattato solo di una provocazione senza alcun intento di nuocere, vista la brevità della diffusione, la pregressa conoscenza con le vittime, il non aver diffuso altri dati in grado di farne rilevare l’effettiva identità e l’aver realizzato una tale condotta solo per la prima volta. Ma per i giudici è stato rilevante - ai fini della prova del dolo specifico nella commissione del reato - anche il fatto che il ricorrente abbia incitato gli utenti a commentare le foto. Elementi del reato - Il ricorrente lamentava un’applicazione formalistica alla sua condotta della fattispecie di reato poiché mancava prova di quanti utenti avessero visionato il materiale da lui realizzato e della misura del turbamento patito dalle vittime. La Cassazione risponde affermando che l’indiscutibile attentato all’onorabilità delle persone inconsapevolmente interessate dal fotomontaggio e l’assenza del loro consenso all’utilizzo della propria immagine sono alla base del reato previsto dall’articolo 167 del Codice Privacy. Infine, ricorda la Cassazione che l’offensività del comportamento, e quindi il danno alle vittime, è direttamente connesso alla diffusione in rete anche se fosse esiguo il numero di utenti che visionano il materiale incriminato. Il carattere pornografico del sito non può far escludere il danno all’onorabilità delle giovani donne e rende irrilevante l’azione riparatoria di aver cancellato dai siti hot in tempi brevi i fotomontaggi. Esclusa quindi la causa di non punibilità per tenuità del fatto, il ricorrente ha comunque usufruito in termini di pena delle riduzioni dovute al rito abbreviato e all’avvenuta riparazione del danno subito dalle vittime. Oristano. Ergastolano ostativo muore in cella, era detenuto da 41 anni sardiniapost.it, 25 ottobre 2019 Dopo aver vinto la battaglia per curarsi fuori dal carcere, la sua “casa” per 41 anni, Mario Trudu, 69 anni di Arzana, in cella all’ergastolo ostativo, è morto all’ospedale di Oristano. Ne ha dato notizia su Facebook la sua avvocata Monica Murru del Foro di Nuoro. Trudu aveva ottenuto di recente il differimento pena per motivi di salute ma dopo il ricovero non era riuscito a tornare a casa. Da tempo la difesa aveva chiesto i domiciliari. “Mi hanno appena avvisato che Mario Trudu non ce l’ha fatta - scrive l’avvocata sul social - è morto stasera nel reparto di terapia intensiva, senza essere potuto tornare a casa, neppure una manciata di ore. Ho davanti il suo viso, le sue braccia fatte di muscoli lunghi di uomo di campagna, come se avesse sempre zappato la terra anziché stare in carcere per quarant’anni, il suo sorriso ironico…. e mi sento addosso il peso pesante di un lavoro inutile, di un risultato arrivato troppo tardi”. Una morte che arriva il giorno dopo la pronuncia della Consulta che ha dichiarato incostituzionale l’ergastolo ostativo. “Una fine sopraggiunta proprio adesso che la Corte Europea dei diritti umani e la Consulta hanno appena sancito una svolta verso una giustizia giusta e umana - commenta la legale - verso una pietà che Mario non ha potuto sperimentare. Stanotte la mia toga è pesante e fredda come una coperta sarda. Una burra di orbace capace di schiacciarti ma non di scaldarti”. Mario Trudu, da due anni detenuto a Masama, era in carcere dal 1979 quando era stato condannato per un sequestro che sosteneva di non aver commesso, quello del tecnico della Ferrari Giancarlo Bussi rapito nel 1978 a Villasimius, e poi condannato all’ergastolo per il sequestro dell’imprenditore Emilio Gazzotti nel 1987, che mori nel conflitto a fuoco durante le fasi della sua liberazione. 41 anni di carcere se si eccettuano dieci mesi di latitanza tra il 1986 e il 1987 quando scappò da Ustica dove era al confino in attesa della sentenza di Cassazione per il sequestro Bussi. Il 10 gennaio scorso aveva ottenuto la possibilità di uscire dal carcere di Massama per partecipare al funerale del cognato. Napoli. “Carceri fuori controllo”. La lotta alle mafie, Melillo lancia l’allarme di Leandro Del Gaudio Il Mattino, 25 ottobre 2019 Camorra sempre meno centrale nel dibattito pubblico, ma sempre più infiltrata nell’economia pulita e nel mondo delle professioni. Carceri dove si spaccia droga, grazie all’uso di cellulari; carceri fuori controllo, sotto il dominio di clan e strutture criminali. Sono solo alcuni dei punti emersi dall’intervento del procuratore di Napoli Gianni Melillo, nel corso dell’audizione in commissione parlamentare antimafia. Dopo due anni dal suo insediamento nella Procura più numerosa d’Italia, il capo dei pm partenopei parla anche di organici, di stese, paranze e scarcerazioni. Ha spiegato ieri il procuratore Melillo: “Alcune carceri sono fuori controllo, vi dominano le associazioni mafiose. I cellulari vi entrano quotidianamente e non li sequestriamo neanche più tanti ormai sono”. E ancora: “In alcune carceri vi sono autentiche piazze di spaccio”, ha proseguito. Poi, riferendosi allo scenario generale emerso negli ultimi due anni, ha insistito: “La pressione mafiosa su alcune amministrazioni comunali è assolutamente grave sia su figure politiche che tecniche”. Cala il numero di omicidi rispetto a una decina di anni fa, ma esiste una contrapposizione a bassa intensità tra i Mazzarella e l’Alleanza di Secondigliano. “Da anni nella camorra prevalgono le spinte alla composizione delle tensioni, alla mediazione dei conflitti violenti che sono relegati in aree marginali dove si lascia che si sprigionano scontri armati a bassa intensità. Sono fenomeni marginali. Anche gli omicidi recenti appartengono alla dimensione delle epurazioni per la tutela di equilibri criminali consolidati che vanno protetti”. Più in particolare, “con le “stese” si esprime una sfida alla capacità di controllo dell’ordine pubblico da parte dello Stato e anche un esercizio di violenza retto da logiche di controllo, sono esercizi militari a bassa intensità che segnano l’andamento sismico nelle zone di confine tra i grandi cartelli. Per questo, nell’area orientale c’è il maggior numero di stese, così anche nel centro città. È fenomeno sconosciuto in gran parte della provincia”. Altro termine sdoganato negli ultimi anni al grande pubblico è quello delle paranze. Di che si tratta? “Le paranze le consideriamo gruppi di fuoco del vertice delle organizzazioni, fenomeno diverso è il fenomeno delle bande - ha spiegato Melillo - abbiamo costituito uno specifico gruppo di lavoro e questo sforzo sta iniziando a dare i primi risultati anche grazie al lavoro congiunto con il Tribunale dei minori. Il fenomeno della devianza giovanile è in gran parte estraneo al fenomeno camorristico, c’è la presenza di minori ma è assolutamente residuale”. Ma cosa sta accadendo a Napoli? Nel giorno in cui la Procura partenopea ha ottenuto oltre trenta arresti (racket in via Marina e pizzo a Torre Annunziata) e a distanza di poche ore dopo l’ultima “stesa” consumata nella zona della Sanità, il procuratore spiega ai commissari antimafia i nuovi fenomeni criminali cittadini: “Una fuorviante narrazione vorrebbe ricondurre la camorra a violenza urbana sprigionata dalla contrapposizione di bande in continua trasformazione, ovviamente esiste anche questa dimensione a Napoli ma è una dimensione parziale”, ha poi spiegato il procuratore. Più in particolare, il magistrato ha parlato della “espansione di una gigantesca rete di imprese che condiziona pesantemente i mercati dove trasferisce una offerta straordinaria di offerte illegali, o legali ma a condizioni illegali”, quasi a dispetto dello scarso peso che il fenomeno criminale partenopeo incassa rispetto all’opinione pubblica nazionale. Il procuratore ha infatti sottolineato la “dimensione periferica della camorra nel dibattito pubblico. La camorra è un veicolo di trasformazione della violenza in ricchezza, in forza economica, in condizionamento dei processi decisionali che regolano la spesa pubblica. La leadership dei cartelli criminali coincide con la leadership delle reti di impresa che racchiudono fenomeni gravissimi di asservimento del mondo delle professioni all’economia illegale. In non pochi casi si assiste alla completa immedesimazione tra le amministrazioni locali e queste reti”. Poi ci sono le dolenti note. “Gli organici delle forze di polizia sono molto ridotti rispetto al passato e con il pensionamento forzato si perdono molte forze, sta scomparendo una generazione di eccezionali investigatori. La squadra mobile di Napoli oggi è formata da 360 unità, pochi anni fa erano 450 unità: questo fa la differenza”. Solo nel 2019, le ordinanze di custodia sono state per oltre 600 persone con una discreta qualità degli esiti investigativi. E ancora forte l’alleanza di Secondigliano “che pure vede i capi detenuti, ma abbiamo scontato un ritardo. Preoccupa la scarcerazione di Domenico Pirozzi, uno dei pochi in grado di assicurare continuità all’organizzazione”. Lecce. “Qui facciamo l’ora d’aria tra i miasmi delle fognature” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 ottobre 2019 La lettera denuncia di alcuni dei circa 150 detenuti della Terza e Quinta Sezione. “Siamo quasi tutti in 3 in una cella di soli 7 metri quadrati, le doccia sprovviste di soffioni e l’acqua è colma di calcare, tanto che se si riempiono le bottiglie dopo due giorni l’acqua diventa verde. Le porte delle docce sono talmente arrugginite, con il rischio di tagliarsi e prendere infezioni, le celle della quinta e della sesta sezione piene di muffa e per tutto l’inverno quando piove penetra l’acqua, è davvero invivibile!”. Si tratta di un passaggio di una lettera di denuncia che è stata inviata agli organi di informazione - tra i quali Il Dubbio per dare massima diffusione al grido di aiuto da parte di alcuni detenuti reclusi nel carcere di Lecce, precisamente del blocco C2. “Spesso e volentieri - si legge sempre nella lettera -, senza preavviso tolgono l’acqua allo scarico del water ed è un’impresa usufruire di quest’ultima usando i secchi. Le ripetute richieste di poter sistemare lo scarico, in comune nella terza e quinta sezione, sono sempre stati ignorate, anche il lavandino del passeggio non è funzionante. Quindi immaginate due sezioni che comprendono circa 150 detenuti che hanno diritto al passeggio, hanno diritto di prendere un po’ d’aria fresca e socializzare tra loro a farlo in un contesto in cui prevede sporcizia e odore sgradevole, è davvero ingiusto che queste ore ci fanno solo venire da vomitar”. Nella lettera viene denunciato lo scarso numero di assistenti sociali, 15 su 200 detenuti, con il risultato che diventa “un miraggio vederli”. I detenuti ne sottolineano l’importanza: “Chi è in attesa di consiglio o chi vuole usufruire di qualche beneficio che gli può giustamente spettare, se lo può solamente scordare! Nel nostro blocco, oltre la scuola non c’è altro, né volontariato né corsi, niente di niente, sempre costretti a stare nel corridoio o nelle celle e diventa tutto una monotonia”. I detenuti parlano anche di abusi psicologici. “Tutti sappiamo di aver sbagliato in passato e di dover espiare le nostre colpe - spiegano sempre nella lettera - ma bisogna farlo nel modo giusto, senza abusi psicologici perché magari molti vorrebbero cambiare vita e reinserirsi nella vita comune e sociale ma ciò non è possibile, viste le mancanze! E per quanto riguarda chi ha figli ed ha bisogno di chiamate straordinarie perché nulla è più importante della famiglia e dei bambini che hanno bisogno di crescere bene”. I reclusi del carcere leccese denunciano la situazione, a detta loro carente, dell’assistenza sanitaria. “Ci sono detenuti - si legge nella lettera - che hanno patologie e altre malattie che lievi o gravi che siano vanno prevenute e curate, ma non fanno altro che riempirci di Novalgina e Tachipirina!”. Concludono spiegando che non sono dei mostri, ma esseri umani che sono disposti a pagare per i propri errori, ma ciò “non deve diventare un luogo di sofferenza”. Che il carcere di Lecce sia problematico non è una novità. La denuncia proviene anche dal sindacato della polizia penitenziaria Ossap. Recentemente, tramite il delegato del segretario regionale Leo Beneduci, il vice segretario regionale della Puglia Ruggiero Damato e il segretario provinciale Giuseppe Morittu, hanno ribadito la drammatica situazione di carenza di organici nelle file della polizia penitenziaria e in particolare nel ruolo agenti/ assistenti, cosa che sottopone i poliziotti a espletare turni di servizio che superano le 8/ 10/ 12 ore, ben oltre quelle consentite dalle vigenti norme contrattuali. Scarsi i sistemi di allarme e di video-sorveglianza e inesistenti i corsi di aggiornamento professionali e di autodifesa. Inadeguate le esercitazioni al poligono di tiro. Insufficienti anche i controlli sullo stato psicofisico dei poliziotti che sono perennemente sottoposti a stress da lavoro. Per non parlare poi dei mezzi di trasporto: il 90% di essi è fermo per mancanza di fondi necessari alla manutenzione. L’Osapp si è soffermata sulla mancata fornitura di uniformi e altri capi di vestiario da quasi 8 anni; cosa che non consente di ottemperare al decreto legislativo del 2017 che prevede l’inserimento di nuovi fregi e gradi che le altre tre forze di polizia hanno già visto. Si è discusso anche del mancato pagamento del Fesi (i fondi di efficienza istituzionale) che le altre forze dell’ordine hanno già avuto elargiti nel scorso mese di giugno e la polizia penitenziaria intascherà solo nel mese di ottobre dopo vari interventi sindacali. Gorgona (Li). L’isola-carcere tornerà ad essere un modello sperimentale di Davide Lanzillo livornotoday.it, 25 ottobre 2019 Avviato l’iter per il rilancio dell’isola: “Il carcere tornerà ad essere un modello di riferimento”. Il progetto, che prevede lo smantellamento del macello e l’inaugurazione di attività ecocompatibili, ha ricevuto il benestare del ministero della Giustizia. De Peppo: “L’isola diventerà un laboratorio ambientale ed etico”. Smantellamento del macello ed inaugurazione di attività rieducative ecocompatibili e con gli animali. Questo il progetto per la casa di reclusione di Gorgona, con il via libera al piano dato dal ministero della Giustizia sotto impulso del sottosegretario Vittorio Ferraresi. Un percorso che permetterà all’isola di diventare un vero e proprio luogo di sperimentazione ambientale ed etica, ripristinando così lo storico ruolo del suo carcere, a lungo modello di riferimento unico nel panorama italiano. “Tutto ha avuto inizio con una storia particolare - spiega il garante dei detenuti Giovanni De Peppo. Anni fa alcuni detenuti chiesero di poter dare un’attenzione particolare a quegli animali che vedevano nascere per poi finire al macello. Ne nacque una riflessione più approfondita, in cui molti si chiesero quale influenza potesse avere un elemento violento quale è quello del macello all’interno di un carcere. Alla questione si interessò anche l’università Bicocca di Milano, con la storia che arrivò anche a molti bambini e ai loro genitori”. “L’idea di dismettere il macello si fermò quando Carlo Mazzerbo lasciò la direzione del carcere. Con il suo rientro - prosegue De Peppo - ci siamo chiesti se fosse possibile riprendere l’iniziativa, ponendo la questione al sottosegretario Ferraresi. Nel frattempo, il numero degli animali da produzione sull’isola è enormemente aumentato, rappresentando un problema anche per la tenuta ambientale dell’isola. La nostra idea è quindi quella di unire istanze ambientali ad istanze sociali, trasformando la Gorgona in un vero e proprio laboratorio ambientale ed etico”. “Un ruolo da protagonisti, in questo, spetterà ai detenuti: toccherà a loro - conclude De Peppo - trasformare i progetti, quali quelli legati a coltivazioni biologiche, pet therapy e fattorie scolastiche, in atti pratici. È stato stilato un cronoprogramma che, nel giro di qualche settimana o qualche mese, prevede lo smantellamento del macello per poi arrivare alla creazione di attività alternative. Ci sono già molte realtà interessate a dare il loro contributo, come ad esempio il CNR e la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, oltre che, ovviamente, il Parco nazionale dell’arcipelago toscano”. “Avevamo preso l’impegno, prima della crisi di Governo, di rivoluzionare le attività della Casa di reclusione di Gorgona - spiega in una nota il sottosegretario alla Giustizia, Vittorio Ferraresi - e voglio comunicare con orgoglio che il nostro impegno si sta concretizzando. Proprio in questi giorni il capo del Dap, sotto mio impulso, ha proceduto alla conferma del cronoprogramma richiesto alla direzione di Gorgona per lo smantellamento del macello presente sull’isola, in modo che si ponga fine ad attività assolutamente inopportune per i detenuti, e si rilancino, invece, attività sostenibili, grazie alla collaborazione della direzione e di tutti i soggetti che hanno dato la disponibilità a contribuire a questa rivoluzione. È iniziato un nuovo percorso che porterà ad un cambio di visione delle attività sull’isola, anche in ottica di esempio per altre realtà, e potrà, inoltre, portare un minore impatto ambientale ed un risparmio per lo Stato”. Oristano. Diciotto detenuti diventano artisti: la loro storia è in un libro linkoristano.it, 25 ottobre 2019 Il progetto di arte relazionale che quest’anno ha coinvolto diciotto detenuti del Carcere di Oristano diventa un libro, che raccoglie passo per passo ciò che hanno vissuto e prodotto gli ospiti della casa circondariale di Massama. Il libro, scritto da Arianna Callegaro e Gian Vito di Stefano, sarà presentato sabato 26 ottobre, alle 18, nella Biblioteca Comunale. L’esposizione del progetto sarà invece allestita negli spazi della Pinacoteca Comunale. L’iniziativa rientra nel calendario di Oristanottobreventi. Ideato nel 2007 da Arianna Callegaro e da allora riproposto in molte occasioni, Airswap coinvolge artisti contemporanei e pubblico in un reciproco scambio, proponendo il concetto di dono come filo conduttore per una riflessione sulla pratica artistica. Ogni capo d’abbigliamento donato diventa, tra le mani degli artisti che lo modificano, ciascuno secondo la propria tecnica e sensibilità, un’opera d’arte. A quest’opera, i detenuti del carcere di Oristano hanno aggiunto un livello ulteriore, completandola con una parola scritta su una menda di tessuto poi cucita sul capo. Ne sono nate inaspettate connessioni tra gli artisti e i detenuti, testimoniate anche da scritti e corrispondenze. Un dialogo capace di trasformare tanto gli artisti quanto i detenuti, che attraverso questa esperienza hanno potuto superare la linea che separa lo spazio carcerario da quello della comunità. Il libro, curato da Luca Mazza e Arianna Callegaro, prodotto attualmente in tre esemplari, documenta e raccoglie i materiali relativi al progetto, dal concept iniziale alla sua realizzazione. Contiene le schede di spiegazione delle singole opere accompagnate dalla biografia dell’artista, quindi la parola scelta dal detenuto per completare il capo. Un oggetto che diventa, per artisti e detenuti, la metafora della relazione instaurata. Palermo. “L’Arte della Libertà”, il progetto che coinvolge detenuti e operatori museali di Rosa Guttilla Il Sicilia, 25 ottobre 2019 All’interno del progetto “L’Arte della Libertà”, iniziato lo scorso febbraio all’interno della Casa di Reclusione Calogero di Bona - Ucciardone di Palermo con l’artista Loredana Longo, si è svolta, a Palazzo Branciforte, la giornata di studio “Tra le righe. Esercizi di libertà in carcere”. L’incontro, sostenuto da Fondazione Sicilia, a cura di Acrobazie, con Elisa Fulco e Antonio Leone, curatori dell’interno progetto, è stato un’occasione di confronto tra esperienze condivise nell’interpretare attivamente l’articolo 27 della Costituzione. “I risultati dopo mesi di lavoro - ci ha detto Antonio Leone - sono tangibili e testimoniano come una costante attività integrativa migliori il clima generale legato alla permanenza dentro luoghi di reclusione”. Dare i numeri per fornire indicatori chiari dei benefici generati dall’investimento in cultura e raccontare le più significative case history che utilizzano i linguaggi artistici all’interno delle istituzioni penitenziarie: sono stati questi i temi centrali dell’incontro, che ha fatto emergere il valore della riabilitazione come momento di formazione e di crescita dei detenuti, mantenendo aperto lo scambio tra il dentro e il fuori. All’interno dell’Ucciardone al momento partecipano trenta persone, tra detenuti, operatori socio sanitari e operatori museali e, per la prima volta in Italia, coinvolge anche la polizia penitenziaria, utilizzando la formula del workshop con l’artista come dispositivo relazionale in grado di migliorare il clima interno e attivare percorsi di cambiamento. Persone provenienti da mondi diversi, sotto la guida dell’artista Loredana Longo e la supervisione scientifica dello psichiatra Sergio Paderi dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Palermo (ASP), da qualche mese si ritrovano per discutere di arte contemporanea e di libertà, sperimentando differenti linguaggi artistici per dare vita a una nuova rappresentazione del carcere dal volto umano: un racconto corale, una sorta di grande rete in cui mettere in scena con parole, immagini, fotografie e performance l’ambiguità insita nel concetto di libertà. Il workshop, la cui frase manifesto è “Volare per una farfalla non è una scelta”, è il primo step del progetto, che andrà avanti fino a febbraio 2020. L’obiettivo è di costruire ponti tra il dentro e il fuori, come ci dice nella video intervista Leone, attraverso differenti azioni che scaturiscono dalla fiducia nel credere che riqualificando esteticamente gli spazi di detenzione e offrendo occasioni di produzione e di fruizione culturale al gruppo di lavoro, sia possibile migliorare la qualità dei rapporti e trasmettere all’esterno un’immagine positiva del carcere. Oltre al workshop, diversi saranno gli interventi messi in campo in questi mesi: dalla creazione di un nuovo spazio laboratoriale, alla realizzazione di un’opera d’arte site specific di Loredana Longo all’interno del carcere; dalla costruzione di un ricco palinsesto di attività per garantire una formazione continua ai detenuti, introducendo in carcere lezioni di arte contemporanea, invitando esponenti del mondo culturale e sociale a raccontare e far sperimentare la loro pratica. Tra questi Letizia Battaglia, Stefania Galegati, Marco Mirabile, Ignazio Mortellaro, Giulia Ingarao e Marco Stabile. Per arrivare alle visite guidate nei principali luoghi culturali cittadini che coinvolgeranno la Galleria d’Arte Moderna, Palazzo Branciforte e Palazzo Butera. A chiusura del progetto verrà allestita una mostra presso la Galleria d’Arte Moderna e Palazzo Branciforte, in cui saranno raccolte le opere e le installazioni prodotte: un racconto polifonico di immagini e parole emerse nel corso del progetto che darà spazio a voci diverse che difficilmente dialogano tra loro, per veicolare il tema della libertà. Paliano (Fr). Il segno della Croce dei detenuti di Davide Dionisi L’Osservatore Romano, 25 ottobre 2019 È partito dal penitenziario il pellegrinaggio dell’icona della Misericordia. “Le nostre mani sono quelle che abbiamo voluto raffigurare su questa croce. Sono le mani di Gesù che abbracciano e che rivolgono un messaggio di speranza a tutti i nostri fratelli che soffrono in carcere. Ci auguriamo che anche loro, attraverso la croce, possano fuggire dalla morte certa e tornare alla vita. Proprio come abbiamo fatto noi”. Pasquale è uno dei collaboratori di giustizia, detenuto nella casa di reclusione di Paliano, che ha realizzato la Croce della misericordia, l’icona benedetta da Papa Francesco lo scorso 14 settembre in occasione dell’udienza concessa alla Polizia penitenziaria, al personale dell’Amministrazione penitenziaria e della Giustizia minorile e di comunità in piazza San Pietro. Una croce pellegrina che toccherà gli istituti di pena italiani e che ha iniziato il suo cammino nel luogo in cui è stata pensata e realizzata. Paliano, appunto. L’antica fortezza della famiglia Colonna, in provincia di Frosinone, è davvero un luogo speciale se si pensa che già un’altra croce qualche anno fa aveva varcato le sue imponenti mura (quella delle Giornate mondiali della gioventù) e che il 13 aprile 2017 Papa Francesco scelse proprio questo carcere per celebrare la Messa in Cena Domini. Paliano, dunque, carcere dove un’altra reclusione è possibile. Partendo, come si è detto, dalla Croce. “Iniziare il pellegrinaggio in un istituto storico dove sono detenuti solo collaboratori di giustizia con pene molto lunghe è andare oltre il preconcetto. Qui ci sono comunque persone che soffrono” spiega la direttrice, Anna Angeletti. L’iniziativa, promossa dall’ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane, don Raffele Grimaldi, è stata interpretata come uno dei pochi mezzi per non troncare del tutto i legami con il mondo che sta fuori e non perdere la dignità e il rapporto con se stessi. Una dimostrazione che il lavoro dei detenuti si sposa con la riabilitazione e non con lo sfruttamento, e che si può tornare a vivere anche testimoniando il passaggio da un isolamento rabbioso e spaventato a un’accettazione dell’essere, inaspettatamente e imprevedibilmente, artista e artigiano. Realizzare icone diventa così una terapia che consente di ritrovare agganci con un mondo separato. Ne è convinta Luigia Aragozzini, volontaria della Comunità di Sant’Egidio, che a Paliano coordina il laboratorio artigianale e che ha guidato i ragazzi nella fase di preparazione e dell’esecuzione dell’opera. “Il laboratorio è nato in modo casuale. I detenuti avevano già una falegnameria. A loro avevo chiesto tempo fa di preparare alcune tavole da dipingere. La riposta è stata inattesa: “Noi ti diamo quanto ci hai chiesto, ma vogliamo imparare a realizzare queste opere”. Da lì è nata la nostra attività e abbiamo realizzato diversi pezzi, uno dei quali lo abbiamo donato a Papa Francesco quando è venuto a trovarci”. Luigia conosce i sentimenti di chi vive in questo moderno lazzaretto e interpreta il ruolo del volontario partendo da una diversa angolatura. Sa bene che il suo lavoro quotidiano è cambiato negli anni e che l’attenzione si è spostata su difficoltà personali che derivano dal contesto sociale di provenienza. E le sue iniziative diventano il luogo nel quale la persona può ritrovare quelle lacune che si porta dietro sin dall’infanzia. È un lavoro difficile e complesso che tende a rivalutare l’uomo o la donna che hanno sbagliato anche attraverso un riavvicinamento alla cultura e, nello specifico, all’arte. “L’icona raffigura Cristo crocifisso, ma è un Cristo trionfante perché già risorto. Con i suoi occhi, il suo sguardo e le sue braccia, abbraccia tutti noi. Siamo tutti uguali di fronte alla croce: volontari, detenuti, gente di passaggio, agenti penitenziari” continua Aragozzini. “Abbiamo riportato scene quotidiane dei nostri amici, gli affetti familiari, la sofferenza, i figli lontani dai loro genitori, una donna che esce dal carcere con il suo bambino. E poi ancora detenuti che pregano, parenti e amici che si abbracciano nonostante le sbarre segnino il confine tra la libertà e la prigionia. E c’è persino un detenuto africano, perché i detenuti di Paliano partecipano all’iniziativa per liberare i detenuti in Africa”. L’obiettivo dei ragazzi è ambizioso: far conoscere a tutti le sfumature della sofferenza per dire che esiste un disagio che punge il cuore del detenuto, la solitudine, e che questo disagio va superato facendo rete, coinvolgendo chi è fuori, aprendo a un progetto di community care. Ovvero a un tipo di assistenza che non sia solo tecnico funzionale, ma concorra a risolvere la solitudine esistenziale e sociale, offrendo sostegno psicologico e consentendo un ampio margine di autonomia a chi è stato privato della libertà. Non facendo leva solo sulla rete formale (istituzioni), ma anche su quella informale, che si avvale del supporto particolare del volontariato e integri la famiglia o la sostituisca quando è scomparsa. Ma andiamo ai dettagli dell’opera. Le immagini dipinte richiamano l’attenzione su alcuni episodi biblici: la liberazione di Pietro e di Paolo dalle prigioni, il buon ladrone e i protettori, San Basilide (patrono della Polizia penitenziaria) e San Giuseppe Cafasso (patrono dei cappellani delle carceri). Sul fondo della Croce immagini di bambini con le loro madri in carcere. “Questa raffigurazione vuole rappresentare il desiderio, affinché le tante madri con i loro piccoli possano scontare in luoghi alternativi al carcere la loro pena, in modo che, ai loro figli, loro malgrado, non venga tolta la speranza” riprende don Grimaldi. L’uomo contemporaneo è molto meno capace di sopportare la solitudine in una società che lo rende paradossalmente più solo. Figuriamoci in carcere, dove gli affetti rappresentano il legame mentale ed emotivo che unisce una persona alle altre e sono anche ciò che tiene assieme diverse parti e aspetti della persona dotandola di coerenza e di senso. E la fede in questo contesto fa la differenza. “L’elemento religioso in carcere è fondamentale per chi crede, perché nel momento in cui un detenuto decide di collaborare avvia una revisione critica del proprio passato. Se non ci fosse il supporto della fede, diventerebbe tutto più difficile” sostiene il commissario della casa di reclusione, Valentina Corda. Prima di salutare i ragazzi veniamo fermati da Francesco, un altro rappresentante dell’equipe: “Tengo a sottolineare che lavoro alle tavole da quattro anni. Non so dipingere, ma preparo i legni grazie a una tecnica molto antica che ho appreso in carcere. Lavorare per la realizzazione di queste opere d’arte mi fa sentire libero. Penso sempre che sto facendo qualcosa di buono e così allontano i fantasmi del passato. Mi impegno al massimo perché so che di fronte a quel legno tante persone andranno a pregare e questo mi fa sentire in pace con me stesso”. Il segno della Croce. Milano. Spettacolo sul dialogo coi detenuti stranieri, a partire dalle loro radici culturali Vita, 25 ottobre 2019 Il dialogo con il detenuto straniero come strumento per una presa di coscienza della propria cultura di provenienza e come chiave per un recupero della persona attraverso la pena. Questo è uno dei tanti significati di “Leila della tempesta”, spettacolo di Alessandro Berti, prodotto da Casavuota, in programma sabato 26 ottobre, alle ore 21, al Refettorio Ambrosiano di piazza Greco a Milano. Tratto dall’omonimo libro di Ignazio De Francesco, “Leila della tempesta” è il resoconto di quattro anni di incontri avvenuti all’interno del carcere di Bologna con detenuti e detenute di lingua araba. Tra le numerose storie e i diversi personaggi emerge la figura di una ragazza tunisina, Leila, interpretata da Sara Cianfriglia, con la quale nascono spunti di riflessione particolarmente interessanti come: la fede religiosa, il rapporto tra la Sharia e la legge costituzionale, sia italiana sia tunisina e l’importanza della detenzione quando quest’ultima si propone come momento di analisi interiore piuttosto che come un intermezzo di noia sedata. Spettacolo di Alessandro Berti, con Sara Cianfriglia e Alessandro Berti?una produzione Casavuota con la collaborazione di Unedi Roma, Associazione Ca’Rossa Bologna, I teatri del sacro Roma, Edizioni Zikkaron Reggio Emilia e l’aiuto di Caterina Bombarda e Maurizio Sangirardi. Lo spettacolo viene proposto in occasione della XVIII Giornata del dialogo cristiano-islamico, programmata per domenica 27 ottobre. La partecipazione alla serata è a ingresso libero sino a esaurimento posti. È consigliato iscriversi all’incontro inviando una mail all’indirizzo iscrizioni@perilrefettorio.it. Roma. Da Sordi ai detenuti-attori di Rebibbia: il carcere è (anche) set cinematografico di Luca Imperatore gnewsonline.it, 25 ottobre 2019 Un viaggio dentro le carceri attraverso sessant’anni di cinema italiano. Un lavoro coordinato da Mario Sesti e presentato lunedì scorso nell’edizione 2019 del Rebibbia Festival ospitato, come accade da cinque anni, all’interno del Festival del Cinema di Roma. Nella sala proiezioni dell’Auditorium del Maxxi è stata mostrata una serie di clip tratte da pellicole che dal 1955 a oggi hanno raccontato storie di vita all’interno dei penitenziari italiani. A commentare le immagini Giuliano Amato, giudice costituzionale, Carmelo Cantone, provveditore alle carceri di Lazio, Abruzzo e Molise e Fabio Cavalli, regista di diversi film e documentari sul mondo penitenziario. Alcuni ragazzi presenti hanno osservato per la prima volta pellicole, incentrate sullo stesso tema ma di diverso genere (commedie leggere, film comici e opere drammatiche), che hanno per circa due ore proiettato lo spettatore “dietro le sbarre”. Ladro lui ladra lei (1958) diretto da Luigi Zampa con il ‘ladro’ Cencio - interpretato da Albero Sordi - alle prese con un continuo entra ed esci da Regina Coeli; Il mattatore (1960) di Dino Risi con un fenomenale Vittorio Gassman; Mery per sempre (1989), film di Marco Risi, ambientato nel carcere minorile di Palermo; Cesare deve morire (2012) diretto dai fratelli Taviani nel carcere di Rebibbia; Come il vento (2013) diretto da Marco Simon Puccioni con Valeria Golino che interpreta Armida Miserere, direttrice del carcere di Pianosa; Fiore (2016) di Claudio Giovannesi che narra una storia d’amore nata in un carcere minorile. Questi alcuni dei titoli scelti e montati da Nicola Calocero e Tommaso Sesti. Si osserva, si ascolta e si riflette in questo scenario postmoderno nel cuore di Roma. Il costituzionalista Giuliano Amato è critico: “Il carcere andrebbe raccontato narrando le storie di personaggi che sono privati non solo della libertà personale ma anche della propria privacy. Perché nessuno ha mai fatto un film sui suicidi in carcere che sono il vero problema dei nostri giorni?”. Secondo Fabio Cavalli dopo Detenuto in attesa di giudizio, film di Nanni Loy del 1971 con protagonista Alberto Sordi, finisce la voglia di ridere e inizia il compito di raccontare il carcere da parte dei registi e sceneggiatori italiani. “Il cinema va in carcere - spiega Fabio Cavalli - perché il tempo vuoto della detenzione deve essere riempito di opportunità: istruzione, formazione, lavoro per chi sconta la pena. E tra tanti ‘ponti’ c’è anche spazio per il cinema, capace di illuminare l’oscurità oltre le sbarre”. Carmelo Cantone racconta la sua esperienza nell’introdurre il teatro come forma di rieducazione quando era direttore di carcere: “Le opere di Shakespeare esercitano un fascino enorme all’interno dei laboratori teatrali dei detenuti perché le sue opere trattano una serie di temi essenziali nella vita delle persone che nel carcere hanno una ridondanza particolare come la sete di potere, la violenza, il ricatto, il perdono, la comprensione e il dolore”. Non a caso il film Cesare deve morire narra la messa in scena del Giulio Cesare di William Shakespeare da parte dei detenuti di Rebibbia. In questa carrellata c’è spazio anche per un estratto dell’ultimo film di Cavalli, Viaggio in Italia, la Corte Costituzionale nelle carceri, un docu-film che racconta il viaggio della Consulta che, a partire dall’anno scorso, ha portato sette giudici in sette diversi istituti penitenziari italiani per diffondere la Costituzione. Spettatori di questa interessante proiezione anche gli studenti dell’Istituto alberghiero statale “Amerigo Vespucci” accompagnati dalla professoressa d’italiano già insegnante dei detenuti del carcere di Rebibbia e in particolare dei protagonisti del film Cesare deve morire. “Abbiamo partecipato per avere spunti di riflessione in previsione della preparazione della maturità” ha detto uno di loro poco prima di fare una foto ricordo davanti alla bellezza e il fascino del Museo nazionale delle arti del XXI secolo. Violenza sulle donne, lo strano caso del convegno dove i relatori sono tutti uomini di Elvira Serra Corriere della Sera, 25 ottobre 2019 La donna che nella locandina si tiene la testa tra le mani, probabilmente non lo fa perché ha appena subìto una violenza, ma perché ha visto l’elenco dei relatori. Tutti maschi. Nel convegno intitolato “Dai maltrattamenti all’omicidio. L’analisi della legislazione in materia di violenza di genere” che si svolgerà il 4 novembre presso la Corte d’Appello di Roma nell’”Aula Europa”, sono maschi i “dottori” che faranno i saluti: Giovanni Mammone, primo presidente della Corte di Cassazione, e Giovanni Salvi, procuratore generale della Repubblica di Roma. Sono maschi gli 8 relatori: Maurizio Block, procuratore generale militare presso la Corte di Cassazione, Francesco Paolo Tronca, consigliere di Stato, Costantino De Robbio, gip del Tribunale di Roma, Stefano Pizza, sostituto procuratore presso il Tribunale di Roma, Gian Maria Fara, presidente dell’Eurispes, Roberto De Vita, presidente dell’Osservatorio IT e sicurezza Eurispes, Fabio Iadeluca, sociologo e criminologo, Michele Scillia, criminologo. Ed è maschio il moderatore: Pierpaolo Rivello, già procuratore generale militare presso la Corte di Cassazione. È bizzarro che sul tema della violenza di genere, dove il genere che la subisce di più è quello femminile, non sia stata prevista almeno la voce di una donna (non diciamo quattro, come prevede la legge Golfo-Mosca per i cda delle aziende quotate in Borsa). Sul perché di questa assenza (che faceva già notare su Twitter la giornalista di SkyTG24 Mariangela Pira), gli organizzatori con noi al telefono hanno replicato che “tutte le donne contattate erano già impegnate il 4 novembre”. Da cui si potrebbe concludere che le donne lavorano molto più degli uomini. Ma resta aperta una domanda? Davvero non c’erano altre magistrate, sociologhe, criminologhe da consultare? E poi ci sarebbe qualcosa da ridire anche sui relatori: hanno giudicato normale questo schieramento soltanto maschile? Perché, in realtà, un’alternativa era possibile. Lo scorso fine settimana si è svolto a Trento il Focus-Live, un Festival dedicato alla scienza. Carlo Miniussi, direttore del Centro Mente e Cervello dell’Università di Trento, doveva intervenire sul ruolo del tempo nell’interazione tra percezione e azione. Ma quando si è reso conto che le relatrici erano pochissime ha chiesto di farsi sostituire dalla collega Simona Monaco. E gli organizzatori hanno accolto subito il cambio. Migranti. Strasburgo dice no alle Ong, respinta risoluzione porti aperti di Adriana Pollice Il Manifesto, 25 ottobre 2019 Immigrazione. Non passa per due voti la proposta di sinistra e verdi. M5s decisivo: si astiene e dà il via libera al muro alzato da destra e sovranisti. All’appello mancano anche 4 voti socialisti. Il parlamento europeo, con due soli voti di scarto, ha respinto ieri la risoluzione sui salvataggi in mare dei migranti che chiedeva di aprire i porti alle ong. La maggioranza che ha eletto Ursula von der Leyen presidente della Commissione Ue non ha tenuto mentre la destra è stata compatta. La plenaria ha bocciato il testo con 290 voti contrari, 288 a favore e 36 astenuti. Tra gli astenuti, risultati quindi decisivi, la pattuglia M5s (che conta 14 deputati) scatenando così in Italia una nuova polemica tra alleati nel governo Conte bis. La proposta di Risoluzione invitava gli stati membri “a mantenere i loro porti aperti alle navi, comprese le navi delle ong, che hanno effettuato operazioni di salvataggio”. Al testo era stato aggiunto un emendamento presentato dai Socialisti, Verdi e 5Stelle, che chiedeva “un meccanismo permanente e obbligatorio di ricollocamento per gli arrivi via mare”. La risoluzione chiedeva anche di “potenziare le operazioni proattive di ricerca e soccorso, fornendo una quantità sufficiente di navi e attrezzature per le operazioni lungo le rotte sulle quali possono contribuire al salvataggio di vite umane”. Il testo menzionava anche una nuova missione Ue “coordinata da Frontex” o una serie di “operazioni internazionali, nazionali o regionali distinte, preferibilmente civili”. Amaro il commento del presidente della commissione Libe, il socialista Juan Fernando Lopez Aguilar: “Piangiamo le vittime delle reti mafiose che trafficano persone e per due voti non si è potuto trasmettere un messaggio di solidarietà, non solo con chi perde la vita ma anche con gli stati membri perché ci sia un meccanismo europeo di salvataggio”. A votare contro sono stati gli eurodeputati dell’Ecr (Conservatori e Riformisti), di Identità e Democrazia (il gruppo di cui fa parte la Lega), il Ppe, più una decina di liberali di Renew Europe (per lo più di paesi dell’Est) ma anche quattro socialisti e un deputato della Gue/Ngl (sinistra). A favore la maggioranza della Gue, dei Liberali, dei Socialisti&democratici (di cui fa parte il Pd) più i Verdi. Se lo schieramento socialista avesse votato compatto a favore, la risoluzione sarebbe passata. Ma a causa dell’astensione dei 5 stelle, in Italia è di nuovo cresciuta la tensione nella maggioranza di governo. I grillini hanno provato a scaricare la responsabilità su Socialisti e Verdi: “Avevamo presentato degli emendamenti che restituivano concretezza a un testo vago - ha spiegato l’europarlamentare Laura Ferrara -. Al paragrafo sull’apertura dei porti chiedevamo il rispetto delle leggi internazionali e di altre leggi applicabili, con un emendamento cofirmato da M5s e dai gruppi Verdi e S&d. Il rimando esplicito al rispetto della Carta dei diritti umani e delle leggi e convenzioni internazionali metteva a tacere chi voleva sintetizzare le nostre proposte come emendamenti anti-Carola. Questi emendamenti non hanno trovato il sostegno della maggioranza, da qui l’astensione”. Il nodo insuperabile sarebbe stato quindi in quel “altre leggi applicabili”, in cui evidentemente far rientrare i decreti Sicurezza approvati ai tempi del governo giallo verde a cui Luigi Di Maio non vuole rinunciare. Il capo politico pentastellato ieri ha esultato sui social: “In Europa siamo l’ago della bilancia. L’Italia non può farsi carico da sola di un problema che riguarda tutta l’Ue!”.La bocciatura ha provocato il tripudio di Matteo Salvini: “Schiaffo alla maggioranza delle poltrone Macron-Pd-5Stelle-Renzi. Vittoria della Lega e dell’Italia: non perdoniamo chi infrange le nostre leggi, vuole riempirci di clandestini spalancando le porte alle ong e ha messo a rischio la vita dei finanzieri, come fatto da Carola Rackete. Rialziamo la testa, a cominciare da domenica quando gli umbri spazzeranno via l’inciucio Pd-5Stelle”. Sul carro dei vincitori sono saliti anche Fi e Fdi, a destra è stata una gara a intestarsi il risultato. L’azzurra Mariastella Gelmini ha affondato il colpo: “Si sono spaccati i partiti che sostengono l’esecutivo. Qual è, dunque, la posizione del governo italiano sul tema?”. Imbarazzo in casa dem: “L’astensione del M5s segnala un problema rilevantissimo. Non credo sia possibile costruire un’alleanza con un movimento che ha una posizione sostanzialmente molto simile a Salvini sui salvataggi” ha dichiarato il presidente dei senatori, Andrea Marcucci. E Matteo Orfini: “Inseguire Salvini sul suo terreno è la specialità dei 5S. Lo dico a chi insiste nel proporci di costruire con loro un nuovo centrosinistra: aprite gli occhi”. L’eurodeputato e medico di Lampedusa, Pietro Bartolo il più amaro: “Il rammarico maggiore è per l’astensione dei 5S, che sembrano aver dimenticato che non governano più con la Lega ma col Pd”. Da +Europa Della Vedova non rinuncia a una stoccata: “Il partito di Di Maio ha votato i decreti sicurezza di Salvini e si comporta di conseguenza. Il Pd, per rivendicare coerenza, dovrebbe prima chiedere di cancellarli”. Chi ha inventato i Centri di detenzione per migranti? di Sergio Bontempelli Left, 25 ottobre 2019 Luoghi di trattenimento per gli stranieri esistevano nel Regno Unito già nel 1970 e poi in Germania a metà anni Ottanta. Nel 1977, la Francia varò un decreto ad hoc per “sanare” il caso di un pescatore marocchino sequestrato dalla polizia di Marsiglia e rinchiuso illegalmente e in segreto in un ex hangar commerciale. Negli anni, i tribunali finirono per avallare la legittimità di questi centri di detenzione per “sans papiers”. Mohamed Chérif era un pescatore marocchino emigrato in Francia, a Marsiglia, a lavorare nei pescherecci del porto. Il 6 agosto 1974 si presentò al Consolato del Marocco per sbrigare una pratica burocratica, ma ebbe un alterco con un funzionario: fu cacciato in malo modo dagli uffici, e il piantone di guardia gli dette un pugno mentre stava uscendo. Chérif era un tipo orgoglioso, e decise di sporgere denuncia in tribunale. Nella prima udienza, il legato consolare non esitò a passare alle minacce: “Il signor Chérif”, disse, “ha tutto l’interesse a rinunciare a questa causa. Se si ostina a proseguirla, lo faremo rimpatriare in Marocco”. Nove mesi dopo, Chérif ricevette una comunicazione scritta che lo invitava a presentarsi al Commissariato di Marsiglia: entrato negli uffici di polizia, 1’11 aprile 1975, non fece più ritorno a casa. Preoccupati della sua scomparsa, gli amici si rivolsero al suo legale, l’avvocato Sixte-Ugolini. Questi si ricordò delle minacce proferite mesi prima dal legato consolare e sospettò il peggio: provò a chiamare il Commissariato, ma le risposte furono evasive. Così, dopo alcuni giorni, l’avvocato decise di convocare una conferenza stampa per denunciare la scomparsa del suo cliente. A quel punto però Mohamed Chérif si fece vivo. Il 19 aprile telefonò a Ugolini, raccontando una storia che aveva dell’incredibile: dopo essere entrato in Questura, era stato ammanettato e portato nelle banchine del porto di Marsiglia. Qui, gli agenti lo avevano fatto salire al secondo piano di un ex hangar commerciale, utilizzato dalla polizia come luogo segreto di detenzione per stranieri irregolari. A Chérif era stato proibito ogni contatto col mondo esterno: niente avvocati, niente telefonate ai familiari, niente visite. Un sequestro in piena regola, che avrebbe dovuto concludersi con il rimpatrio in Marocco: ma la conferenza stampa tenuta da Ugolini costrinse la polizia a interrompere l’operazione. Le polemiche divamparono: il governo si difese spiegando che quella di Arenc non era una prigione ma un semplice “centro di accoglienza” per irregolari, inaugurando così un equivoco destinato a durare per decenni (ancora oggi, nel dibattito pubblico, è frequente la confusione tra luoghi di accoglienza e spazi di trattenimento o di detenzione). Nel 1977, una circolare provò maldestramente a “sanare” l’illegalità del centro di Arenc, autorizzando in via provvisoria il suo utilizzo da parte della polizia. Il sindacato degli avvocati francesi non esitò a presentare ricorso, ma il Consiglio di Stato fornì un aiuto inatteso al governo: secondo i giudici, le disposizioni emanate dai ministri dell’Interno e della Giustizia non erano illegittime in sé; il problema era che esse erano state introdotte con una circolare e non con un atto normativo. Il governo colse la palla al balzo, e varò un decreto che legalizzava la detenzione degli stranieri irregolari. La Francia, peraltro, non fu l’unico Paese europeo ad introdurre forme di detenzione, più o meno ufficiali, per gli stranieri privi di documenti. Il Regno Unito aveva aperto già nel 1970 due centri di trattenimento. Più tardi, nel 1987, fece scalpore la notizia che un centinaio di profughi di etnia Tamil erano stati internati per settimane su un traghetto in disuso ormeggiato nel porto di Harwich. In Germania, la notte di Capodanno del 1984, un incendio di vaste proporzioni era divampato nelle celle di sicurezza della stazione di polizia di Augustaplatz, a Berlino. Si seppe poi che in quelle celle erano detenuti alcuni immigrati in attesa di espulsione, e che sei di loro erano morti perché i secondini non li avevano liberati durante l’incendio. Nel dibattito che ne seguì, l’opinione pubblica tedesca apprese con stupore che gli stranieri irregolari, e anche i richiedenti asilo, erano spesso trattenuti in strutture detentive, in violazione delle garanzie costituzionali. Queste vicende mostrano quanto apparisse “scandalosa”, all’epoca, l’idea stessa della detenzione amministrativa. L’opinione pubblica, non abbastanza “assuefatta” alle politiche restrittive, reagiva ancora con sdegno alle pratiche di internamento degli stranieri irregolari. Per molti commentatori, queste pratiche rappresentavano uno stravolgimento dello stato di diritto: individui che non avevano commesso alcun reato, che erano semplicemente sans p apiers, venivano trattati alla stregua dei peggiori criminali. Nel corso degli anni, però, queste reazioni di indignazione si fecero via via meno intense, e le pratiche detentive vennero gradualmente accettate dall’opinione pubblica. A questo processo di progressiva “normalizzazione” contribuì il sapere giuridico: chiamati ad esprimersi sul trattenimento, infatti, i tribunali finirono per avallarne la legittimità, pur richiamando gli Stati al rispetto di alcune garanzie procedurali (durata massima della detenzione, coinvolgimento dei giudici per la convalida dei provvedimenti, diritto alla tutela legale per gli stranieri trattenuti ecc.). Così, la detenzione amministrativa è stata progressivamente “incorporata” nelle procedure ordinarie di trattamento dell’immigrazione irregolare, e si è diffusa in tutto il Continente: secondo una stima molto approssimativa esistono oggi, sul territorio dell’Ue, almeno 230 centri di detenzione variamente denominati. Tali centri, peraltro, non agevolano affatto le espulsioni: meno del 40% dei migranti destinatari di un provvedimento di rimpatrio ha effettivamente lasciato il territorio dell’Ue, e questa percentuale non ha subito alcuna variazione con l’aumento del periodo massimo di detenzione. L’escalation dí misure restrittive si dimostra inefficace sul suo stesso terreno, quello del contenimento delle migrazioni. Cannabis legale, nasce l’intergruppo parlamentare e la legge raccoglie altre 25mila firme di Eleonora Martini Il Manifesto, 25 ottobre 2019 Alla Camera, 50 parlamentari promuovono il testo di iniziativa popolare. Radicali italiani, Associazione Luca Coscioni e il malato Walter De Benedetto ricevuti dal presidente Roberto Fico. Nasce alla Camera un intergruppo parlamentare per la legalizzazione della cannabis, e al presidente Roberto Fico vengono consegnate altre 25 mila firme a sostegno della proposta di legge d’iniziativa popolare “Legalizziamo” presentata a Montecitorio dall’Associazione Luca Coscioni e dai Radicali italiani nel 2016 e sottoscritta da oltre 68 mila persone. Una legge che da allora giace in qualche cassetto e non è ancora mai stata calendarizzata. “Sono oltre 50 le adesioni all’intergruppo parlamentare, e molte altre stanno arrivando”, fa sapere uno dei promotori, Riccardo Magi, deputato radicale di +Europa. Sono soprattutto deputati del M5S, del Pd e di Leu, ma anche di Italia Viva e del Gruppo misto. Al momento, ancora nessuno del centrodestra, anche se Magi non perde le speranze: “Li solleciterò ancora, e spero che, come è già accaduto, arrivi l’adesione di quei liberali che vedono nella legalizzazione della cannabis una misura ragionevole di riduzione del danno e di lotta alla criminalizzazione”. “La prima richiesta - precisa il deputato radicale - sarà la calendarizzazione della legge di iniziativa popolare del 2016 e l’avvio di un dibattito parlamentare sul tema, anche perché lo stesso presidente Fico ha più volte assicurato la priorità che avrebbe dato alle leggi che provengono dall’impulso dei cittadini”. Una promessa che è stata ricordata al pentastellato presidente della Camera che mercoledì, poco dopo l’inizio della manifestazione antiproibizionista convocata davanti a Montecitorio, ha ricevuto una piccola delegazione composta, tra gli altri, da Filomena Gallo, Segretaria dell’associazione Coscioni, Antonella Soldo, Tesoriera di Radicali Italiani, e Walter De Benedetto, il malato di artrite reumatoide che nei giorni scorsi ha scritto una lettera e lanciato un accorato appello al premier Conte, ai ministri della Salute e della Difesa, e al Parlamento, per chiedere un incremento della produzione statale di cannabis terapeutica. All’uomo infatti sono state sequestrate recentemente, ad Arezzo, 9 piante di marijuana coltivate per uso personale. “Rischio il carcere per curarmi”, ha spiegato De Benedetto facendo notare che la richiesta di farmaci cannabinoidi è superiore alla produzione statale nello stabilimento militare di Firenze, e all’importazione dei prodotti dall’Olanda e, nel 2018, anche dalla Germania (secondo il governo il fabbisogno nazionale è di mille kg, ma non ci sono dati sul numero di malati che ricevono il prodotto). I malati come lui hanno sempre meno accesso a questo tipo di cura, che comunque continua ad essere molto costosa, malgrado dal 2012 una quindicina di Regioni hanno adottato leggi per rimborsare alcuni prodotti. Si rischia di spingere i pazienti verso il mercato criminale. “Legalizzare la cannabis - spiega il radicale Marco Percuca - vuol dire eliminare i costi del proibizionismo e togliere lavoro alla criminalità organizzata”. Il M5S si è sempre dichiarato favorevole alla legalizzazione. È il momento di dimostrarlo con i fatti. “Giustizia per Giulio Regeni”: il Parlamento Ue condanna l’Egitto Il Manifesto, 25 ottobre 2019 La risoluzione all’indomani della ripresa del “dialogo” tra procure. La famiglia: “Ennesima presa in giro”. Il Parlamento europeo si schiera al fianco dell’Italia nel chiedere verità e giustizia per Giulio Regeni. Con una risoluzione approvata ieri, Bruxelles denuncia le autorità egiziane per aver ostacolato le indagini sulla morte del ricercatore friulano e condanna le continue violazioni dei diritti fondamentali in Egitto, in particolare la libertà di espressione, di associazione e lo Stato di diritto. Una presa di posizione importante, che arriva all’indomani della lettera di invito al Cairo per un incontro inviata al procuratore capo di Roma, tramite ambasciatore, dal procuratore generale egiziano Hamada al Sawi, “al fine di confermare la volontà di fare progressi nel campo della cooperazione giudiziaria tra i due Paesi nelle indagini sul caso Regeni”. Li chiama “progressi”, il magistrato cairota, ma dal 2016, da quando Giulio Regeni venne torturato e ucciso in Egitto, le indagini sono ferme mentre i depistaggi sono continuati. Motivo per il quale un anno fa il parlamento italiano ha sospeso le relazioni diplomatiche con quello egiziano. Dal novembre dello scorso anno, quindi, non c’erano più contatti tra le due procure e, malgrado la ripresa del dialogo fosse stata sollecitata dallo stesso ministro degli Esteri Luigi Di Maio - il quale naturalmente ha accolto “positivamente” la notizia e l’ha divulgata - per la famiglia Regeni si tratta solo dell’ennesima “presa in giro”. Nella risoluzione, i deputati europei hanno denunciato la mancanza di un’indagine credibile e di un’assunzione di responsabilità, e hanno ribadito alle autorità egiziane la ferma richiesta di fare luce su quanto accaduto e punire i responsabili. Il testo invita poi i Parlamenti degli altri Paesi Ue a interrompere le relazioni con l’Egitto, seguendo l’esempio dell’Italia, e sottolinea che la situazione dei diritti umani nel Paese di Al Sisi giustifica un riesame delle relazioni e del sostegno finanziario che la Commissione Ue offre al Cairo. Stati Uniti.La banalità della guerra civile di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 25 ottobre 2019 Trump di recente ha parlato dell’impeachment come di un colpo di Stato e si è detto vittima di un linciaggio: un termine off limits nella politica americana, dato che ha un significato più crudo di quello figurato diffuso da noi. “Domani mi compro un AR-15 (arma semiautomatica da assalto, ndr) perché se danno l’impeachment al mio presidente ci sarà un’altra guerra civile”. Rob Drake, celebre arbitro del baseball americano ha subito cancellato questo suo tweet, ma il caso è esploso, anche perché i riferimenti sempre più frequenti alla guerra civile che dilaniò l’America a metà ‘800 stanno intaccando la diffusa convinzione che le istituzioni della democrazia Usa siano invulnerabili: abbastanza forti da resistere alle scosse di Trump e ad anni di paralisi politica, col Congresso bloccato fin dall’era Obama dal muro contro muro tra democratici e repubblicani. Un presidente che considera l’iperbole il suo linguaggio naturale alimenta questo clima fin da quando, due anni fa, difese i suprematisti bianchi che a Charlottesville si opponevano, anche in modo violento, alla rimozione della statua del generale sudista Robert Lee. Di recente ha parlato dell’impeachment come di un colpo di Stato e si è detto vittima di un linciaggio: un termine off limits nella politica americana, dato che ha un significato più crudo di quello figurato diffuso da noi. Ma, che si tratti di effetto-Trump o che il presidente sia il prodotto del malessere diffuso nell’America “profonda”, fatto sta che un clima da guerra civile cominciano a respirarlo in tanti: dal pastore battista (prontamente ritweettato da Trump) secondo il quale “l’impeachment creerà una frattura simile alla guerra civile dalla quale il Paese non guarirà mai” all’ex speaker della Camera Newt Gingrich per il quale “dal 1860 non siamo mai stati così vicini a una guerra civile culturale”. E il conduttore tv della Fox Tucker Carlson elimina l’aggettivo culturale quando afferma che già un’eventuale legge contro la diffusione delle armi con un programma di buy back di quelle più pericolose “porterebbe a scontri armati”. Il malessere di molti parlamentari repubblicani verso Trump è reale, ma sull’impeachment faranno quadrato perché altrimenti, avverte Hugh Hewitt, gli elettori li massacreranno. Hewitt, politologo reaganiano e presidente della Fondazione Nixon, è uomo di establishment, ma conosce come pochi la pancia dell’America grazie alla sua trasmissione radiofonica: “Per il 90% dei conservatori americani Trump non ha fatto nulla di illegale, i democratici cercano di inchiodarlo perché sanno che nel 2020 vincerà di nuovo”. Stati Uniti. La California abolisce le prigioni dei privati di Marta Oliveri Italia Oggi, 25 ottobre 2019 Il governatore della California, Gavin Newsom, vuole mettere fine allo scandalo delle prigioni private. Se manterrà l’impegno, a gennaio la cercerazione dei detenuti negli istituti penitenziari privati non sarà più possibile, secondo quanto ha riportato Le Figaro. Un nuovo progetto di legge è stato adottado dall’assemblea californiana presentato dal deputato democratico Rob Bonta, con l’obiettivo dichiarato di “proteggere la dignità dei detenuti delle imprese carcerarie interessate soltanto al denaro onnipotente”. Se il governatore Gavin deciderà di firmarla, le prigioni gestite da due società, Geo in Florida e CoreCivic in Tennessee, diventeranno illegali entro il 2028o al termine dei loro contratti con il dipartimento dei servizi penitenziari e di riabilitazione dello Stato. All’incirca 184 mila criminali e delinquenti sono attualmente rinchiusi nelle carceri della California. A questi si aggiungono all’incirca 6.500 migranti che per la maggior parte sono rinchiusi in uno dei quattro centri di detenzione privati. La California era un mercato promettente per le carceri private, fenomeno che risale all’inizio degli anni 80 e che si deve principalmente alla guerra contro le droghe che ha determinato l’impennata della popolazione carceraria. E, più di recente, alla detenzione quasi sistematica dei migranti irregolari. Inoltre, nè lo Stato, nè il governo federale hanno voluto finanziare la costruzione di nuove prigioni aprendo così le porte ai penitenziari privati di fronte anche al sovraffollamento dei detenuti giudicato incostituzionale da un tribunale federale nel 2009. Settemila detenuti, circa il 5% della popolazione carceraria, era rinchiusa nelle prigioni private secondo l’ufficio federale dell’ispettorato generale del ministero della giustizia. A suo dire, gli istituti di pena privati spendevano meno per il personale ed erano meno sicuri della prigioni pubbliche tendendo a massimizzare i profitti con il maggior numero di prigionieri. Alla fine si è venuto a creare un conflitto di interessi con le prigioni pubbliche che tendevano, invece, a voler reinserire i detenuti nella società, alleggerendo i costi per i contribuenti. Bangladesh. Nusrat Jahan, 16 condanne a morte per la ragazza bruciata viva di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 25 ottobre 2019 Lo scorso aprile la studentessa aveva avuto il coraggio di raccontare alla polizia che il preside della sua scuola coranica l’aveva toccata. Per questo era stata uccisa. Nusrat Jahan Rafi, 19 anni, era una studentessa appassionata che non tollerava le ingiustizie. Viveva a Feni, una piccola città 160 chilometri a sud di Dacca, in Bangladesh. Lo scorso sei aprile la ragazza è stata bruciata viva per avere denunciato il preside della sua scuola islamica che l’aveva molestata. Oggi le sedici persone rinviate a giudizio sono state condannate a morte. Tra loro c’è il dirigente della madrassa, Siraj Ud Doula, giudicato colpevole di essere il mandante dell’omicidio, organizzato “come un piano militare”. E ci sono anche le due compagne di scuola che avevano attirato Nusrat nella trappola mortale. Una storia orribile che ha scioccato il Bangladesh e scatenato un’ondata di proteste. Il 27 marzo Nusrat aveva raccontato che il preside l’aveva chiamata nel suo ufficio e l’aveva molestata. Lei era riuscita a fuggire e poi era andata alla polizia dove, invece di essere protetta dopo il trauma subito, era stata filmata da un agente con un telefono cellulare. Per il preside era scattato comunque l’arresto, tuttavia a Dacca e a Feni molta gente era scesa in piazza per chiedere il suo rilascio. Il sei aprile, nonostante tutto, la ragazza si era presentata a scuola per svolgere gli esami finali ma un’amica l’aveva attirata nella trappola mortale conducendola sul tetto dell’edificio con la scusa di aiutare un’altra studentessa in difficoltà. Di lì a poco erano giunte alcune persone, nascoste sotto dei burqa, che avevano chiesto alla ragazza di ritrattare le accuse e, davanti al suo categorico rifiuto,l’avevano legata, imbevuta di kerosene e le avevano fuoco. Il piano era di far apparire la morte un suicidio ma la ragazza, che aveva l’80% del corpo bruciato, era riuscita a raccontare al fratello, Mahmudul Hasan Noman, quello che era successo e ad identificare alcuni dei suoi assassini. Nusrat morì quattro giorni dopo, il 10 aprile. La sua testimonianza, filmata su un telefonino, è stata fondamentale per arrivare alla verità. Le indagini - L’inchiesta sulla morte della studentessa ha svelato un vasto complotto per ridurre la giovane al silenzio, coinvolti persino due leader locali dell’Awami League Party, che è al governo. Tra i complici anche alcuni poliziotti che hanno tentato di sviare le indagini diffondendo l’informazione, falsa, che la ragazza si era suicidata. Il processo - La macchina della giustizia si è mossa con incredibile velocità. Di solito per avere una sentenza in casi del genere ci vogliono anni, invece, questa volta, sono passati meno di cinque mesi dal rinvio a giudizio al verdetto. Il pubblico ministero Hafez Ahmed ha dichiarato alla stampa che “nessuno può cavarsela in Bangladesh se uccide”. Il fratello della vittima si è detto soddisfatto e Mahila Parisha, presidente di un’associazione locale per i diritti delle donne, ha espresso la speranza che la “pena esemplare” possa essere un deterrente per i molestatori. All’indomani dell’omicidio il primo ministro Sheikh Hasina aveva assicurato che tutti i colpevoli sarebbero stati trovati e condannati. “Nessuno se la caverà” aveva promesso. E così è stato. Schiaffo alla Cina sui diritti umani: l’Europa premia il dissidente uiguro di Roberto Fabbri Il Giornale, 25 ottobre 2019 Il premio Sacharov va all’economista Ilham Tohti condannato all’ergastolo da Pechino. “Una voce moderata e conciliante”. Se i governi dei Paesi dell’Ue sono sempre più cauti nel provocare l’irritazione del colosso cinese lamentando il mancato rispetto dei diritti civili lo stesso non si può dire ed è un bene - del Parlamento europeo. Che ieri ha deciso di dare un vero schiaffo sul viso del presidente Xi Jinping attribuendo il premio Sacharov 2019 al leader carismatico della minoranza uigura, Ilham Tohti, che da cinque anni sconta l’ergastolo in una prigione cinese dopo essere stato condannato per separatismo. Il premio Sacharov, che è dotato di un assegno di 50mila euro ed è intitolato alla memoria del celebre dissidente sovietico Premio Nobel per la pace nel 1975, viene assegnato ogni anno a una figura significativa della lotta per il rispetto dei diritti umani nel mondo. Già l’anno scorso era stata fatta, con il regista ucraino Oleh Sentsov, oppositore dell’annessione della Crimea alla Russia, una scelta sgradita a un regime autocratico come quello di Mosca. Ora, con Tohti che è stato proposto dai liberali e preferito dagli eurodeputati ad altri candidati tra cui tre personalità brasiliane impegnate nella difesa delle minoranze e dell’ambiente viene premiata una figura che Pechino aveva deciso cinque anni fa di colpire nonostante si fosse resa protagonista di sforzi per avvicinare la comunità musulmana degli uiguri a quella cinese Han. Tohti, che è stato professore di economia presso un ateneo di Pechino, rappresenta la minoranza islamica che abita il Turkestan orientale o Xinjiang, la vasta regione semidesertica all’estremo ovest della Cina. Il regime comunista cinese attua da sempre nei confronti di queste popolazioni una politica intollerante e repressiva: si calcola che siano decine di migliaia gli uiguri rinchiusi nei famigerati campi di rieducazione. Questa durezza ha causato lo svilupparsi di movimenti indipendentisti islamici che hanno commesso attentati anche gravi in alcune città cinesi e Tohti è stato accusato, nel tentativo di accomunare ai terroristi chi si batte con mezzi pacifici per la libertà del suo popolo, di propaganda presso i suoi studenti a favore del gruppo radicale Movimento Islamico del Turkestan orientale. Nell’annunciare l’assegnazione del Premio Sacharov a Ilham Tohti, il presidente dell’Europarlamento David Sassoli ha definito la voce dell’esponente uiguro “moderata e conciliante” e ha chiesto la sua immediata liberazione. Così facendo, ha provocato come si diceva la forte irritazione delle autorità comuniste cinesi, che già il mese scorso, quando la candidatura di Tohti era stata annunciata, avevano accusato il Parlamento europeo di “sostegno al terrorismo”. Questo avviene in un momento in cui Xi ha già altre ragioni di risentimento verso il mondo occidentale, fonte di ispirazione per quanti in Cina si oppongono al potere assoluto del partito comunista. Il regime investe risorse enormi per mantenere un capillare stato di polizia che soffochi ogni anelito democratico. Tohti è un simbolo di tale repressione, ma la grande festa per il settantesimo anniversario della fondazione della Repubblica popolare, lo scorso 1° ottobre, è stata guastata dalla rivolta di Hong Kong, e pare ormai chiaro che Xi intenda far sostituire l’inetta governatrice Carrie Lam con una figura più allineata. Anche perché l’ultimo osso gettato ai rivoltosi, la liberazione mercoledì scorso del giovane omicida Chan Tong-kai il cui caso aveva scatenato la ribellione generale perché apriva la via delle estradizioni da Hong Kong verso la Cina, non è servito a fermare una protesta che ha ormai chiaramente obiettivi politici anticinesi e anticomunisti.