Ergastolo “ostativo”. Il comunicato della Corte costituzionale cortecostituzionale.it, 24 ottobre 2019 “La Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4 bis, comma 1, dell’Ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. Sempre che, ovviamente, il condannato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo”. La sentenza stabilisce che i giudici di sorveglianza dovranno sempre valutare la “pericolosità sociale” del detenuto e non sarà più motivo di rifiuto (“ostativo”) il fatto che l’ergastolano non abbia collaborato con la magistratura. La Consulta incrina il muro dell’ergastolo senza benefici di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 24 ottobre 2019 Una crepa nel muro dell’ergastolo ostativo. Se diventerà una voragine si vedrà. Intanto la Corte costituzionale con una sentenza, le cui motivazioni saranno depositate tra qualche tempo, ma i cui contenuti sono stati anticipati ieri, ha aperto alla possibilità che anche il condannato al carcere a vita per reati di mafia possa usufruire di permessi premio. Sempre che “abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo”. Allarmata la reazione del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede per il quale “la questione è della massima importanza” e ne vanno analizzate con attenzione le conseguenze. Solo pochi giorni fa, l’8 ottobre, la Corte dei diritti dell’uomo aveva respinto il ricorso del Governo italiano contro la pronuncia del 13 giugno con la quale era stata giudicata in contrasto con la Convenzione dei dritti dell’uomo la norma che impedisce, sempre e comunque, l’accesso a benefici alternativi al carcere per chi condannato per reati legati alla criminalità organizzata, ha sempre rifiutato la collaborazione. Ieri la Consulta, decidendo su questioni sollevate dalla Cassazione e dal Tribunale di sorveglianza di Perugia, ha dichiarato l’illegittimità dell articolo 4 bis, comma 1, dell’Ordinamento penitenziario, nella parte in cui esclude la concessione di permessi premio per chi non collabora con magistratura e forze investigative, anche se sono stati acquisiti elementi che escludono sia l’attualità della partecipazione all’organizzazione criminale, sia il pericolo che vengano riallacciati rapporti con la stessa. Un recupero di margini di discrezionalità, quindi, per la magistratura di sorveglianza, nel segno di una presunzione che da assoluta si fa relativa, cioè con possibilità di essere incrinata sulla base della documentazione acquisita dalle relazioni dell’amministrazione penitenziaria, da informazioni e pareri di altri organismi come la Procura antimafia e il Comitato provinciale per ordine e sicurezza pubblica. La questione è stata, ed è, assai divisiva tra gli stessi pubblici ministeri. Con il fronte della più esposta magistratura antimafia arroccato a difesa di un meccanismo, storicamente giustificato, e di non perduta attualità, dal Procuratore Antimafia Federico Cafiero De Raho a Piero Grasso e Giancarlo Caselli, e altri come Gherardo Colombo che sostengono la necessità di una detenzione in linea con la funzione della pena delineata dalla Costituzione. A sintetizzare le posizioni il rovente botta e risposta di ieri sera tra il consigliere del Csm, storico Pm palermitano, Nino di Matteo e il presidente delle Camere penali Giandomenico Caiazza. Di Matteo chiama la politica a un’assunzione di responsabilità per “evitare che le porte del carcere si aprano indiscriminatamente ai mafiosi e ai terroristi condannati all’ergastolo”, Ma Caiazza contesta la “straordinaria gravità” delle dichiarazioni di Di Matteo: “egli non si limita ad esprimere un dissenso rispetto ad una decisione del giudice delle leggi, ma si spinge a chiedere che il legislatore in qualche modo adotti contromisure per vanificare quella decisione”. L’ergastolo ostativo è incostituzionale: sì al permesso premio di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 ottobre 2019 La Consulta dichiara l’illegittimità dell’articolo 4 bis, comma 1. D’ora in poi saranno i magistrati di sorveglianza a poter concedere o meno il permesso premio agli ergastolani ostativi che hanno scelto di non collaborare con la giustizia. La Corte Costituzionale ha, infatti, dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4 bis, comma 1, dell’Ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. Una sentenza storica, quella della Consulta, perché per la prima volta, da quando fu introdotto l’ergastolo ostativo con un decreto emergenziale dopo la strage di Capaci, viene dichiarata incostituzionale quell’automatica presunzione di assoluta mancata rieducazione di una specifica categoria di detenuti e precludendo a essi l’accesso al beneficio penitenziario. In una nota la Consulta ha sottolineato che tale concessione può essere data sempre che, ovviamente, il condannato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo. In questo caso, la Corte - pronunciandosi nei limiti della richiesta dei giudici rimettenti - ha quindi sottratto la concessione del solo permesso premio alla generale applicazione del meccanismo “ostativo” (secondo cui i condannati per i reati previsti dall’articolo 4 bis che dopo la condanna non collaborano con la giustizia non possono accedere ai benefici previsti dall’Ordinamento penitenziario per la generalità dei detenuti). In virtù della pronuncia della Corte, la presunzione di “pericolosità sociale” del detenuto non collaborante non è più assoluta ma diventa relativa e quindi può essere superata dal magistrato di sorveglianza, la cui valutazione caso per caso deve basarsi sulle relazioni del carcere nonché sulle informazioni e i pareri di varie autorità, dalla Procura antimafia o antiterrorismo al competente Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica. Cosa accadrà ora? Anche se il Parlamento non dovesse metterci mano, riscrivendo l’articolo 4 bis come prevedeva, d’altronde, la riforma originaria dell’ordinamento penitenziario, da oggi in poi i detenuti ergastolani potranno fare istanza alla magistratura di sorveglianza per richiedere il beneficio penitenziario. Ovviamente sarà il giudice a valutare se ci sia stata o meno la cessione di pericolosità, e lo farà anche in base alle informative delle varie Direzioni distrettuali e Nazionale Antimafia. Da ribadire che ciò riguarda esclusivamente il permesso premio e non gli altri benefici, come ad esempio la liberazione condizionale come sancito dalla sentenza della Corte Europea di Strasburgo, valutando il caso Viola. Ma inevitabilmente, tale sentenza di illegittimità costituzionale del comma uno del 4 bis, apre le porte alla questione degli altri benefici preclusi a prescindere per la mancata collaborazione. Quindi, se il Parlamento non riscrive da capo il 4 bis, magari facendolo ritornare al primo decreto voluto da Falcone, volto a un discorso premiale della collaborazione, ci saranno altri giudici - di Sorveglianza e di Cassazione - che potrebbero sollevare questioni di illegittimità costituzionale anche per gli altri benefici della pena. Prima del 1992, l’ergastolano del passato, pur sottoposto alla tortura dell’incertezza, ha sempre avuto una speranza di non morire in carcere, ora questa probabilità potrebbe in sostanza ritornare per chi ha svolto un percorso trattamentale volto alla visione critica del passato e alla riabilitazione come prevede la Costituzione italiana tutta centrata su una pena che sia proiettata verso la libertà. Non a caso, la parola “ergastolo” non è stata menzionata dai padri costituenti. La decisione della Consulta, arriva in concomitanza con la laurea in giurisprudenza, con tanto di 110 e lode, conseguita al carcere di Rebibbia dall’ergastolano ostativo Filippo Rignano. Ha 63 anni ed è in carcere dal 1993. “Quando l’hanno arrestato aveva solo la seconda elementare - annuncia il garante dei detenuti della regione Lazio Stefano Anastasìa - oggi, anche grazie all’impegno e alla dedizione dei docenti e dei tutor dell’Università di Tor Vergata, ha discusso una tesi di laurea in Diritto costituzionale sulla sua condizione giuridica, di condannato all’ergastolo senza possibilità di revisione, conseguendo il massimo dei voti: 110 e lode. Speriamo che la Corte costituzionale consegni alla storia la brutta pagina dell’ergastolo ostativo e dia anche a lui la possibilità di essere valutato da un giudice per il reinserimento sociale che la Costituzione prescrive a beneficio di qualsiasi condannato”. E così è stato. Ergastolo ostativo, “incostituzionale” se senza alcuna speranza di Eleonora Martini Il Manifesto, 24 ottobre 2019 Per la Corte costituzionale è illegittimo precludere automaticamente i permessi premio. Parte dell’art.4bis non è compatibile con la Carta. Sarà il giudice a decidere caso per caso. Il varco verso l’abolizione totale dell’ergastolo ostativo, quello che non lascia alcuna speranza al condannato, quello che lo rende un “uomo ombra” senza possibilità di redenzione, è stato aperto. Con una “sentenza storica”, come la definiscono in molti, la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo negare automaticamente i permessi premio a quei reclusi a vita che non vogliono collaborare con la giustizia ma che magari hanno dimostrato un profondo cambiamento interiore. La Consulta, riunitasi ieri in Camera di consiglio per analizzare i ricorsi in Cassazione e al Tribunale di sorveglianza di Perugia dei due mafiosi condannati all’ergastolo, Sebastiano Cannizzaro e Pietro Pavone, cui sono stati negati i benefici penitenziari, ha deciso infine di non fare differenza tra reati di mafia, terrorismo, corruzione, violazione delle leggi sulle droghe o sull’immigrazione o condannati per gli altri reati contemplati nell’articolo 4 bis dell’Ordinamento penitenziario. Però, delle varie voci connesse al primo comma - “lavoro all’esterno, permessi premio e misure alternative alla detenzione” - i giudici costituzionalisti si sono soffermati solo sui permessi premio. E hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale di quella parte del 4 bis comma 1 che vieta “la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. Sempre che, ovviamente - recita il comunicato della Consulta - il condannato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo”. Un pronunciamento che ha mandato subito in tilt le forze politiche che sul “buttare la chiave” hanno fatto la loro fortuna. Anche il Guardasigilli Alfonso Bonafede ha chiesto subito agli uffici del ministero di analizzare le possibili conseguenze, perché, ha detto, “la questione ha la massima priorità”. “In attesa di conoscere il testo della sentenza si può comunque evincere dal comunicato della Consulta, che è molto chiaro, il portato storico di questa decisione, perché va ad erodere il meccanismo ostativo”, commenta il costituzionalista Marco Ruotolo, docente dell’Università Roma Tre. Si legge infatti sul dispositivo che la Corte, “pronunciandosi nei limiti della richiesta dei giudici rimettenti, ha sottratto la concessione del solo permesso premio alla generale applicazione del meccanismo “ostativo” (secondo cui i condannati per i reati previsti dall’articolo 4 bis che dopo la condanna non collaborano con la giustizia non possono accedere ai benefici previsti dall’Ordinamento penitenziario per la generalità dei detenuti)”. Ruotolo fa poi notare al manifesto che “nell’indicazione finale, i giudici aprono un varco importante, così come avvenne con la custodia cautelare, perché la preclusione assoluta viene trasformata in preclusione relativa”. Tornando al testo del comunicato, si legge infatti: “In virtù della pronuncia della Corte, la presunzione di “pericolosità sociale” del detenuto non collaborante non è più assoluta ma diventa relativa e quindi può essere superata dal magistrato di sorveglianza, la cui valutazione caso per caso deve basarsi sulle relazioni del Carcere nonché sulle informazioni e i pareri di varie autorità, dalla Procura antimafia o antiterrorismo al competente Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica”. “È una sentenza importante, tuttavia la Consulta e non ha abbattuto l’ergastolo ostativo - commenta Emilia Rossi, componente del collegio del Garante dei detenuti e suo rappresentante davanti alla Consulta in questo procedimento -: ha superato l’assolutismo e ha restituito al giudice di sorveglianza la possibilità di valutare il recupero della persona e al condannato la possibilità di dimostrare la propria risocializzazione. Quello dei permessi premio è un beneficio di particolare rilievo perché tocca i legami affettivi e familiari, che sono il primo passo di risocializzazione”. In molti si augurano ora, dopo la condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo e il pronunciamento di ieri, che la politica agisca di conseguenza, “in nome del principio di legalità costituzionale”, come esorta l’associazione Antigone. “È un primo passo nell’affermazione del diritto alla speranza”, afferma Nessuno tocchi Caino. Ma a fare più rumore sono le voci di dissenso, come quella del consigliere del Csm Nino Di Matteo che ha lanciato un grido d’allarme e un appello alla “politica” a “reagire prontamente” per “evitare che le porte del carcere si aprano indiscriminatamente ai mafiosi e ai terroristi condannati all’ergastolo”. Un’affermazione di “straordinaria gravità”, secondo il presidente degli avvocati penalisti, Giandomenico Caiazza, perché si muove in direzione contraria al nostro “assetto democratico” di “equilibrio tra i poteri”. Una sponda a Di Matteo la offrono però in molti: la Lega, il M5S e FdI lamentano un “regalo alle mafie”, ma persino il segretario Pd Nicola Zingaretti a Porta a Porta parla di “sentenza un po’ stravagante”, con la quale “non mi sento in sintonia”. La strada è ancora lunga. La Consulta boccia l’ergastolo duro per i boss mafiosi di francesco grignetti La Stampa, 24 ottobre 2019 Incostituzionale negare permessi a chi non collabora. I giudici: il magistrato di sorveglianza valuta i casi. È la sentenza che chiude un’epoca nella legislazione antimafia: la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale l’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario. Il senso è chiaro agli addetti ai lavori. Finisce per incostituzionalità il cosiddetto ergastolo “ostativo”, chiamato così perché era di insormontabile ostacolo ai benefici carcerari. Ringraziano gli ergastolani destinati finora a morire in carcere, quelli che gli avvocati chiamano “sepolti vivi”. E entra in allerta rosso lo Stato. Il ministro Alfonso Bonafede ha già mobilitato gli uffici perché la “questione ha la massima priorità”. È una realtà poco conosciuta, quella dell’ergastolo “ostativo” che interessa circa 1250 ergastolani (in genere condannati per mafia) su 1790 che in Italia sono stati condannati all’ergastolo. Già, perché in Italia gli ergastoli sono di due tipi: ce n’è uno normale che lascia qualche speranza di uscire di cella, scontati almeno 30 anni di detenzione e dimostrata la rottura con la vita precedente; e ce n’è un altro definitivo, il “fine pena mai” che terrorizza i mafiosi. Funziona così dal 1992. Sull’onda dell’emozione per l’omicidio di Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo, e gli agenti di scorta, lo Stato inasprì fortissimamente le norme sull’ergastolo. Fu deciso che per alcuni reati di grave allarme sociale la cella doveva restare chiusa a vita. Allo stesso tempo fu stabilito che si poteva derogare soltanto se il mafioso o il terrorista avessero collaborato con lo Stato. Di qui il dilemma: o si diventava pentiti, o era carcere a vita. Carcere peraltro reso durissimo da un altro articolo dell’ordinamento penitenziario, il 41-bis, che impedisce i contatti del detenuto con l’esterno. Ecco, la Corte costituzionale, facendo il paio con una decisione della settimana scorsa della Corte europea dei diritti dell’uomo, ha stabilito che quel “dilemma” è incostituzionale. In futuro ogni ergastolano, mafioso compreso, potrà rivolgersi al giudice di sorveglianza per chiedere i benefici carcerari (che possono essere i permessi-premio, o la semilibertà, o la possibilità di lavoro esterno) in quanto l’automatica chiusura dell’articolo 4-bis contrasta con il principio costituzionale che “le pene devono tendere alla rieducazione”. Ventisette anni dopo quel fatale 1992, la Corte costituzionale dice che la collaborazione non può essere il requisito unico per valutare un mafioso all’ergastolo; ma ci sono altri requisiti: se si può escludere la partecipazione all’associazione criminale, o che non siano più collegamenti con la criminalità organizzata. Ovviamente, il condannato deve avere dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo. “La presunzione di “pericolosità sociale” del detenuto non collaborante - scrive la Corte - non è più assoluta, ma diventa relativa. Può essere superata dal magistrato di sorveglianza, la cui valutazione caso per caso deve basarsi sulle relazioni del carcere, nonché sulle informazioni di varie autorità”. È palpabile a questo punto l’imbarazzo della politica e l’allarme della magistratura. “È un varco potenzialmente pericoloso”, avverte il pm antimafia Nino Di Matteo, ora al Csm. “La mafia si può riorganizzare”, gli fa eco Sebastiano Ardita, altro pm antimafia al Csm. Cauto il commento di Nicola Zingaretti: “Una sentenza un po’ stravagante, non mi sento in sintonia”. Matteo Salvini invece urla allo scandalo: “Mi sale la pressione... Ma che testa hanno questi giudici? Vedremo se è possibile ricorrere perché è una sentenza che grida vendetta. O proviamo a cambiare la sentenza oppure la Costituzione, se è questa l’interpretazione che ne viene data”. Una scelta faticosa e contrastata, passata per un solo voto di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 24 ottobre 2019 Tra i giudici 8 favorevoli e 7 contrari. Le tre condizioni stabilite. La sentenza “è una breccia nel muro di cinta del fine pena mai”, affermano soddisfatti i dirigenti dell’associazione Nessuno tocchi Caino. E in effetti di breccia si tratta. Uno spiraglio. Perché pur dichiarando incostituzionale l’automatismo tra mancata collaborazione con i magistrati e impossibilità di accedere ai permessi-premio per uscire di prigione qualche ora o qualche giorno, i 15 “giudici delle leggi” non ne hanno stabiliti altri per cui a ogni eventuale domanda corrisponderà una concessione. Anzi: hanno introdotto esplicite e stringenti condizioni all’esito di una discussione in camera di consiglio approfondita e non semplice. Conclusa con una decisione presa con un solo voto di scarto: 8 favorevoli e 7 contrari. Questi ultimi espressi da chi si preoccupava di non intaccare le scelte di politica criminale compiute dopo le stragi del 1992. Come ricordato dall’Avvocatura dello Stato che chiedeva di rigettare le eccezioni di incostituzionalità, la norma sotto esame serviva ad aumentare la sicurezza della collettività perché era un incentivo ai “pentimenti” utili a combattere le mafie. Ed era stata inserita nell’ordinamento per impedire anche solo il tentativo di boss e gregari di tornare a dare manforte alle organizzazioni criminali. Dunque una misura eccezionale per fronteggiare una situazione eccezionale (la presenza delle organizzazioni criminali), sebbene poi il divieto dei permessi a chi non collabora sia stato esteso ad altri reati slegati dalla mafia. Alla fine ha prevalso però l’idea che il silenzio con i magistrati (che può derivare da ragioni diverse dal continuare ad essere un affiliato ai clan) non possa essere l’unico indce per valutare la presunta pericolosità sociale del condannato. D’ora in avanti i giudici potranno così valutare il grado di risocializzazione del condannato “non collaborante”, verificando però almeno tre condizioni che fanno da contrappeso all’abolizione della “presunta pericolosità assoluta”: la “piena prova di partecipazione” al percorso rieducativo durante la detenzione; l’acquisizione di elementi concreti per escludere “l’attualità della partecipazione all’associazione criminale”; la mancanza del “pericolo del ripristino” di quei collegamenti. Un tentativo di bilanciamento di interessi contrapposti (individuali e collettivi) per una decisione faticosa e contrastata. Ergastolo, la sentenza della Consulta è una garanzia per tutti. Anche per l’antimafia di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 24 ottobre 2019 Uno Stato forte, autorevole, autenticamente democratico non può tollerare una pena eliminativa. L’ergastolo ostativo, ossia l’ergastolo senza alcuna prospettiva di rilascio, è infatti una pena di tipo eliminativo. Cancella una persona dalla società vera, libera, per sempre. Non è in questo senso troppo diversa dalla pena di morte. La decisione della Corte Costituzionale dunque, oltre a essere profondamente giusta, è anche inevitabile. Una pena fino in fondo eliminativa non potrà mai assolvere a quella funzione rieducativa che l’articolo 27 della Costituzione gli attribuisce. L’articolo 27 non dice che la pena deve rieducare solo alcune persone. Afferma che deve tendere alla rieducazione di tutti e che per tutti deve essere conforme a umanità. La Corte Costituzionale, così come aveva già fatto la Corte europea dei Diritti umani nel caso Viola, ha recuperato quel principio di universalità che l’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario aveva invece ampiamente derogato. La pena non deve essere pura afflizione. Non è costituzionalmente ammissibile. L’ergastolo ostativo, nel momento in cui condiziona un’ipotesi seppur residua di ritorno in libertà alla sola collaborazione con la giustizia e non anche al percorso di risocializzazione, va a confliggere con principi inderogabili dello Stato di diritto e dei sistemi penali liberali contemporanei. Si tratta di conquiste oramai presenti in quasi tutto lo spazio europeo e ribadite dalle Corti supreme in non poche occasioni. Tutti i giudici e gli investigatori che sono impegnati nella sacrosanta lotta alle mafie non devono temere decisioni di giudici costituzionali che si limitano a disegnare i confini del potere di punire. È ciò una garanzia anche per loro, oltre che per la tenuta dell’intero sistema. È una sentenza che non smantella l’impianto antimafia della nostra legislazione. In primo luogo perché non sostituisce all’automatismo della pena dell’ergastolo un’uscita anticipata altrettanto automatica degli ergastolani. Affida ad altri giudici dello Stato italiano, ma anche a direttori di carcere e prefetti, una discrezionalità di valutazione intorno alla possibilità di un rientro in libertà per poche ore o per pochi giorni dopo decenni di pena scontata, talvolta in regimi detentivi duri. Viceversa, le prese di posizione di molti pubblici ministeri sembrano evidenziare una scarsa fiducia nei propri colleghi giudici di sorveglianza. Inoltre, visto che la lotta alla mafia avviene con gli strumenti della cooperazione giudiziaria su scala europea, l’Italia rischia con il proprio exceptionalism penitenziario e penale di porsi in una condizione di retroguardia che potrebbe indurre giudici di altri Paesi a non estradare nel nostro mafiosi che devono scontare la pena dell’ergastolo. Non è facile immaginarsi che il Parlamento modifichi la legge nella direzione auspicata dalla Corte. Però ci si aspetta quanto meno un rispetto profondo da tutti, politici e pubblici ministeri, per una decisione così autenticamente rispettosa della Costituzione. Ergastolo ostativo: non evochiamo Falcone, miglioriamo il sistema di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 24 ottobre 2019 Risparmiamoci, intanto, la gara a chi usi (peggio) i morti. Ora bisognerebbe fare le persone serie. Proprio ora che la Consulta piccona di nuovo gli automatismi. E tanto più ora che, per farlo, è rimasta impermeabile alla pressione atmosferica caricatale alla vigilia non solo dalla politica, ma anche da un “dream team” di pm. Anziché gridare a “Falcone riammazzato”, ora è cruciale insistere affinché giudici di Sorveglianza, cancellerie, e nelle carceri le equipe di educatori e psicologi, al pari delle opportunità di rieducazione su cui in concreto misurare vero o finto il cambiamento delle persone, siano rafforzati e dimensionati per consentire quella verifica “caso per caso” disposta ieri dalla Consulta. Risparmiandosi, intanto, la gara a chi usi (peggio) i morti. Specie Falcone. Perché se l’ergastolo ostativo bocciato mercoledì, che nel caso di detenuti non collaboranti non lasciava ai giudici alcun margine di valutazione, fu introdotto dalla legge successiva al suo assassinio (la n. 306 dell’8 giugno 1992), l’assetto appena precedente (legge 152 del 13 maggio 1991) prevedeva invece che anche il detenuto non collaborante potesse veder valutata dai giudici la propria richiesta di beneficio, solo dopo un più lungo periodo di tempo rispetto al detenuto collaborante: e in quel 1991 al ministero della Giustizia il Direttore generale degli Affari penali era proprio il magistrato poi ucciso a Capaci. Ecco: almeno su Falcone, il tiro alla fune no. L’umanità nelle mani dei giudici di Luigi Manconi La Repubblica, 24 ottobre 2019 Niente panico. Nessun mafioso e nessun terrorista sta per tornare in libertà. Spetterà al magistrato giudicare caso per caso. Manteniamo i nervi saldi e tranquillizziamoci: nessun boss della grande criminalità organizzata, nessun capo della mafia, della camorra, della ‘ndrangheta, della Sacra corona unita e nessun canuto terrorista sta per tornare in libertà. Dunque gli autori dei delitti più efferati non “torneranno a scorrazzare per le strade”. E non è vero che - sul piano simbolico, emotivo o della memoria storica - qualcuno ha riammazzato Falcone e Borsellino. Niente panico. Manteniamo i nervi saldi e tranquillizziamoci: nessun boss della grande criminalità organizzata, nessun capo della mafia, della camorra, della ‘ndrangheta, della Sacra corona unita e nessun canuto terrorista sta per tornare in libertà. Dunque gli autori dei delitti più efferati non “torneranno a scorrazzare per le strade”. E non è vero che - sul piano simbolico, emotivo o della memoria storica - “Qualcuno ha riammazzato Falcone e Borsellino” (come strillava un titolo non saprei dire se più imbecille o più farabutto). Tanto più che, a “riammazzarli”, quei due grandi magistrati, sarebbero stati prima i giudici della Corte europea dei diritti umani e, ieri, quelli della nostra Corte Costituzionale. Certo, è profondamente triste che, a pronunciare parole tanto irresponsabili, siano, oltre che politici grevi e giornalisti consunti, anche membri della magistratura, in genere pubblici ministeri, spesso responsabili di meritorie inchieste contro la criminalità organizzata. Eppure, la sentenza della Consulta risulta nitidissima sin dalla sintesi offerta all’opinione pubblica. “La Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4 bis, comma 1, dell’Ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata”. Sempre che, ovviamente, “il condannato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo”. Più chiaro di così. La sentenza mette in discussione radicalmente il cosiddetto ergastolo ostativo, ovvero la pena perenne inflitta a chi, condannato per gravi reati di mafia o terrorismo, e che non ha collaborato con la magistratura, non può essere ammesso ai cosiddetti benefici penitenziari: dai permessi premio, al lavoro esterno, alla semilibertà, alla liberazione condizionale. Rispetto a questo, la Consulta sostiene che “la presunzione di “pericolosità sociale” del detenuto non collaborante non è più assoluta ma diventa relativa e quindi può essere superata dal magistrato di sorveglianza, la cui valutazione caso per caso deve basarsi sulle relazioni del Carcere nonché sulle informazioni e i pareri di varie autorità”. (A partire da quelli della Procura nazionale antimafia e antiterrorismo). Quindi, in attesa delle motivazioni della sentenza, sappiamo innanzitutto quanto la Consulta, con prosa limpidissima, afferma: ovvero che tocca ai giudici giudicare. E che, dunque, su una questione tanto delicata, che incide sul bene prezioso della libertà personale, non può valere l’automatismo di una disposizione generale; e che deve essere il magistrato di sorveglianza (quello che ha maggiore conoscenza della realtà carceraria) a valutare i due fattori essenziali per l’accoglimento o il rifiuto della richiesta di permessi premio (o altri benefici). Il primo: il collegamento attuale o potenziale con la criminalità organizzata; il secondo l’adesione a un percorso di riabilitazione. Come si vede viene riconosciuta al giudice l’importanza e l’autonomia del ruolo (del quale, la discrezionalità è componente irrinunciabile). E gli vengono restituite la responsabilità di valutare in concreto la maturazione del detenuto, di formulare e argomentare una prognosi, di analizzare un insieme di comportamenti, di assumere una decisione. La Consulta, la più alta corte del nostro ordinamento giuridico, compie un atto di fiducia nei confronti dei giudici. E potrebbe essere proprio questo - il peso di una responsabilità indubbiamente gravosa - la ragione delle resistenze opposte da una parte della Magistratura: quasi una dichiarazione di debolezza. Ma la sentenza della Corte Costituzionale dovrebbe rappresentare un elemento di rassicurazione ben più solido di quello offerto dalle previsioni astratte e dagli automatismi rigidi. Sono essi che finiscono col negare il dettato costituzionale in quell’articolo 27 comma 3, che afferma: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Due settimane fa la Corte Europea dei Diritti Umani aveva chiesto all’Italia di modificare la norma sull’ergastolo ostativo proprio perché ritenuto “inumano”. Oggi la Consulta ne dichiara l’incostituzionalità. C’è da augurarsi che, contro queste sentenze, si ricorra, da parte di chi non le condivida, ad argomenti di merito. E che non si utilizzino ancora oscenamente i nomi di Falcone e Borsellino: nulla è più indecente del ricorrere all’autorevolezza altrui, resa sacra dalla morte, per supplire alla propria piccineria. La tentazione di abrogare il carcere a vita di Guido Neppi Modona Il Dubbio, 24 ottobre 2019 Il reinserimento sociale conta più della prigione. La Corte costituzionale ha ieri dichiarato illegittimo il primo comma dell’art. 4- bis dell’ordinamento penitenziario, nella parte in cui - per quanto qui interessa prevedeva che il condannato all’ergastolo potesse usufruire di permessi premio solo nel caso in cui avesse collaborato con la giustizia. La Corte è cioè intervenuta sul c. d. ergastolo “ostativo”, per tale intendendosi la situazione in cui il condannato all’ergastolo può essere ammesso ai benefici penitenziari solo se ha collaborato con la giustizia. L’ergastolo ostativo è il frutto velenoso di una disciplina che si fonda sul sistema del doppio binario penitenziario, descritto da quell’articolo dell’ordinamento penitenziario - appunto l’art. 4- bis - che prevede tre fasce di reati, posti in una scala decrescente di gravità, che di per sé comporterebbero la presunzione di pericolosità sociale del condannato. A sua volta la pericolosità verrebbe esclusa, per i reati di prima fascia (tra i quali figurano la prostituzione e la pornografia minorile), dalla collaborazione con la giustizia, ovvero, nel caso in cui la collaborazione risulti impossibile o oggettivamente irrilevante, da una sorta di probatio diabolica, cioè dall’acquisizione di “ elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata”. Per i reati della seconda fascia di gravità (tra cui l’omicidio) e della terza fascia (tra cui i reati di violenza sessuale) i benefici penitenziari possono essere concessi, rispettivamente, “purché non vi siano elementi tali da fare ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata” e “sulla base dei risultati dell’osservazione scientifica della personalità condotta collegial- mente per almeno un anno”. Come si vede, una disciplina estremamente articolata e complessa, che si fonda su una serie di presunzioni legali di pericolosità basate sulla gravità dei reati commessi e pone in una posizione secondaria e marginale la persona del condannato, che nel corso degli anni di detenzione può subire mutamenti anche notevoli, tali talvolta da poter escludere la persistenza della pericolosità sociale. Si ha cioè l’impressione che il legislativo - attraverso una disciplina che ha subito incessanti modifiche e aggiustamenti - abbia voluto creare un catalogo astratto e predeterminato dei livelli di pericolosità sociale, che in realtà può essere accertata solo attraverso l’esame concreto della persona del condannato. Frutto di tale disciplina è appunto l’ergastolo ostativo, ove la non collaborazione con la giustizia viene in astratto assunta quale criterio da cui desumere la persistenza della pericolosità sociale del condannato e la sua esclusione dai benefici penitenziari, nel caso di specie i permessi premio. A fronte di questa disciplina legislativa così contorta e di difficile se non impossibile applicazione, viene la tentazione - per quanto impopolare possa essere la proposta nell’attuale momento storico - di abrogare la pena dell’ergastolo. La stessa Corte costituzionale (da ultimo con la sentenza n. 179 del 2017), ha ripetutamente messo in rilievo, pur senza trarne le necessarie conseguenze, che le esigenze securitarie di difesa sociale non debbono mai avere prevalenza assoluta su quelle di recupero e di reinserimento sociale del condannato enunciate dall’art. 27 comma 3 della Costituzione. Ove per i reati più gravi all’ergastolo venisse sostituita una pena detentiva temporanea di 30 o anche 40 anni sarebbe il giudice ad accertare in concreto - dopo almeno 10- 15 anni di detenzione - il persistere della pericolosità sociale del condannato e a trarne le necessarie conseguenze in tema di ammissione ai benefici penitenziari. Si dovrebbe comunque prevedere che la competenza per la concessione dei benefici - ivi compresi i permessi premio - sia attribuita sempre ad un organo collegiale, cioè al tribunale di sorveglianza, per non esporre eccessivamente il singolo magistrato di sorveglianza al rischio di subire pressioni e minacce da parte di condannati appartenenti a gruppi particolarmente agguerriti e pericolosi della criminalità organizzata. La Consulta: “Diritto ai permessi anche per i mafiosi” di Liana Milella La Repubblica, 24 ottobre 2019 Berlusconi: “È giusto”. Salvini: “È indegno”. Zingaretti: “Scelta stravagante”. È contro la Costituzione negare per legge permessi premio al detenuto, anche mafioso, che abbia tagliato definitivamente i rapporti con l’organizzazione criminale e si sia comportato bene in carcere. La Consulta, inevitabilmente tra le polemiche, boccia tifi - pezzo dell’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario. Cancella il no automatico, dà potere ai magistrati di sorveglianza che dovranno valutare caso per caso. E dà ragione a due mafiosi all’ergastolo, Sebastiano Cannizzaro e Pietro Pavone, accogliendo i ricorsi della Cassazione e del tribunale di Perugia. Non cancella l’ergastolo ostativo, come aveva fatto, appena dieci giorni fa, la Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo. Ma allarma e divide i magistrati antimafia, Nino Di Matteo per il no, Armando Spataro per il sì; conquista il consenso delle organizzazioni come “Nessuno tocchi Caino” e “Antigone”, che da sempre si battono per un carcere dal volto umano. Ma soprattutto la Corte rivoluziona l’agenda del governo, tant’è che il Guardasigilli Alfonso Bonafede parla di “massima” priorità e mette al lavoro i suoi uffici. Il centrodestra si spacca, per un Berlusconi che vede una “decisione giusta”, all’opposto c’è Salvini che la giudica “indegna”, mentre per il segretario dem Zingaretti “la sentenza è stravagante”. Al presidente dell’Antimafia Nicola Morra parla di “sconfitta” perché la mafia “merita un doppio binario e una legislazione del tutto eccezionale”. Martedì l’udienza pubblica. Ieri la decisione. Quattro ore di discussione in camera di consiglio dopo la relazione di Nicolò Zanon. La Corte che da oltre un anno viaggia nelle carceri e parla della Costituzione come di “uno scudo anche per i detenuti” si misura con una questione estremamente calda e divisiva, che riguarda solo i permessi premio. Di mezzo non ci sono ergastolo e liberazione anticipata, ma solo la possibilità di concedere permessi a chi “non collabora” con la giustizia. Qui cade l’automatismo. Come scrive la stessa Corte, i non pentiti potranno ottenere permessi se i magistrati di sorveglianza verificheranno che non ci sono più rapporti con la mafia di origine e che c’è un percorso rieducativo. Non è certo la sentenza di Strasburgo, quel “no” al carcere senza speranza in generale, né il no a una detenzione “inumana e degradante”. È solo un sì ai permessi premio sganciati dall’obbligo di pentirsi dell’articolo 4bis. Ma è un passo che scatena allarme tra le toghe. Di Matteo teme il rischio che “si concretizzi l’obiettivo della mafia stragista con gli attentati del 1992-1994” perché la sentenza “apre un varco pericoloso”, e afferma che la politica deve “reagire subito per evitare che le porte del carcere si aprano indiscriminatamente a mafiosi e terroristi all’ergastolo”. Quei 1.250 che vivono nelle patrie galere. Sebastiano Ardita, oggi al Csm con Davigo, ma per anni al Dap e in procure di frontiera come Catania e Messina, immagina “una prevedibile pressione dei mafiosi sui magistrati di sorveglianza”. Lo stesso dicono Leonardo Agueci e Alfonso Sabella, che suggerisce di affidare la decisione sui permessi a tribunali di sorveglianza, anziché a singoli giudici che inevitabilmente sono più esposti. Sebastiano Cannizzaro: “La mia lotta dalla cella ridà un futuro ai detenuti” di Nicola Pinna La Stampa, 24 ottobre 2019 Parla l’ergastolano che si è appellato alla Consulta. L’ultima volta che Sebastiano Cannizzaro è uscito dalla cella era l’estate del 2007. Una scarcerazione e poi qualche mese di latitanza. Dal giorno della cattura e del ritorno in carcere, ha rivolto lo sguardo verso lo stesso soffitto ma con compagni di stanza spesso diversi e che nel frattempo sono tornati in libertà. Per lui i tribunali hanno deciso l’ergastolo ostativo. Fino alla fine degli Anni 90, secondo diverse inchieste antimafia, Sebastiano Cannizzaro era il leader del clan Santapaola e l’uomo di Cosa Nostra nel Catanese. Nella guerra di mafia del 1998, secondo i magistrati era stato il mandante di almeno due omicidi. Lui si è sempre proclamato innocente e a 65 anni ha vinto una battaglia legale di cui beneficeranno tutti gli esponenti della criminalità organizzata. Nel carcere di Sulmona ieri ha atteso la chiamata dell’avvocato Valerio Vianello, che per lui ha presentato il ricorso alla Corte costituzionale. Attraverso il legale risponde alle domande. Cosa vorrebbe fare durante i permessi per cui ha combattuto? “Vorrei stare con la mia famiglia, trascorrere qualche giorno con mia moglie, mia figlia e i miei due nipotini. Credo sia un diritto anche per un uomo che deve scontare una pena”. La Corte costituzionale ha accolto il suo ricorso. Lei ritiene di poter essere considerato non più pericoloso? “Non lo sono mai stato, ho chiesto anche la revisione del processo e ho tentato in ogni modo di dimostrare la mia estraneità alle accuse che mi sono state mosse. Dopo tanti anni di carcere, tra l’altro, che pericolo sarei? Ho perso i contatti persino con i miei compaesani”. Quando è uscito l’ultima volta dal carcere? “Sono stato scarcerato per un problema di termini della custodia cautelare. Da allora nulla”. Cosa vuol dire vivere in carcere senza avere la possibilità di uscire e di ottenere degli sconti? “Io a questa condizione non mi sono mai arreso. Ho provato prima ad ottenere la revisione del processo e poi con questo ricorso pur di ottenere i benefici. È importante combattere anche per pochi giorni di libertà”. Perché non ha collaborato? “Sono accusato di omicidio ma non ho mai ucciso nessuno. È scritto anche nelle sentenze. Dunque cosa avrei potuto raccontare? Avrei dovuto dire bugie per ottenere i benefici?”. È possibile che un condannato per reati mafiosi e che non ha collaborato con la giustizia possa fare un percorso rieducativo? “Nelle carceri ci sono tanti buoni esempi: persone con un passato complicato che hanno cambiato vita. Chiunque ha la possibilità di riprendere un percorso di rieducazione. Non solo la possibilità, direi il diritto”. C’è qualche altra battaglia che i detenuti per questo tipo di reati sentono di dover combattere? “L’aspirazione di tutti era quella di avere i benefici. I premi sembrano poca cosa, ma significano qualche giorno di libertà”. “Questa sentenza apre una breccia nel muro di cinta del fine pena mai” di Damiano Aliprandi Il Dubbio Parla Sergio D’Elia, di “Nessuno Tocchi Caino”. “Oggi viene data dignità, che poi è la dignità umana che viene affermata in questa sentenza, a una forma di ravvedimento che è ancora più autentica perché è interiore e fa fare i conti con se stesso”. Così Sergio D’Elia, attuale segretario nazionale dell’associazione del Partito Radicale “Nessuno Tocchi Caino”, commenta a Il Dubbio la pronuncia della corte costituzionale in merito all’ergastolo ostativo. D’Elia, ricordiamo, ha avuto un percorso di vita molto significativo. Da dirigente del gruppo extraparlamentare di Prima linea (ha fatto 12 anni di carcere per banda armata) ha avuto una svolta incontrando Marco Pannella e passò alla nonviolenza dando vita a numerose iniziative. Per tali attività, nel 1998 ricevette il Premio nazionale Cultura della pace. Come considera questo pronunciamento? Con Rita Bernardini ed Elisabetta Zamparutti di “Nessuno Tocchi Caino” abbiamo deciso di dare questa sintetica valutazione. La Consulta ha aperto una breccia nel muro di cinta del fine pena mai. Si è aperta una breccia attraverso cui il principio, per cui l’uomo della pena può divenire nella sua accezione un uomo diverso da quello del delitto, prende strada in una forma di un Diritto pieno alla speranza, ormai consolidato a livello europeo e che prende forma in Italia per la prima volta con questa sentenza. Quindi sicuramente è un primo passo, questo della decisione della Corte Costituzionale, nell’affermazione di questo diritto, finora inesistente nel nostro ordinamento. Si infrange e si supera il limite della collaborazione come unico criterio di valutazione del ravvedimento di un condannato. È dal dicembre 2015, dal Congresso di “Nessuno tocchi Caino” a Opera, che parte ciò che Marco Pannella chiamò Spes Contra Spem: da quel Congresso il fattore determinante di quello che è accaduto, a livello europeo con la sentenza della Cedu e a livello nazionale con la sentenza di oggi, è che l’essere speranza dei condannati ad una pena senza speranza ha prodotto effetti straordinari. I pensieri, i sentimenti, i comportamenti nella loro stretta e forte coerenza risuonano; illuminano il pensiero delle alte Corti. I condannati con il loro cambiamento hanno determinato il cambiamento del modo di pensare delle alte corti. Il cambiamento del modo d’essere, di pensare, di agire dei condannati ha prodotto effetti straordinari sull’ambiente e sul modo di agire delle persone che devono decidere su di loro. I comportamenti nella loro stretta e forte coerenza risuonano e producono effetti. Illuminano i pensieri delle alti Corti, anche se queste si trovano a migliaia di chilometri di distanza dal vissuto, dal luogo dove i condannati all’ergastolo hanno con il loro cambiamento determinando poi il cambiamento del modo di pensare, di sentire e di decidere. Non è un nesso meccanicistico, di causa ed effetto, ma proprio un campo di effetto di risonanza per cui il cambiamento dei detenuti è il cambiamento dei giudici. Questa è una cosa che c’entra a pieno con la visione di Marco Pannella, di Spes contra Spem: nella sua vita se Marco non avesse, nel suo modo di essere, previsto il modo in cui poteva crearsi e se non avesse pensato, sentito e agito in base alla visione della riforma possibile, lui non avrebbe creato le conquiste che poi si sarebbero avute nel futuro. Lui pensava all’aborto come ad una cosa talmente acquisita, che non ha fatto altro con questa sua visione, mettendoci l’azione politica sulle istituzioni in parlamento e la lotta nonviolenta dei digiuni, che darla per assodata. Vedeva il superamento come attuale, seppure era contrario alla realtà. Solo i visionari sono i realisti. Si può fare un paragone ad oggi, rispetto al governo che ha un orientamento carcerocentrico. È un segnale che va in controtendenza quello della Cedu e della Corte costituzionale rispetto all’ordine del momento? Esiste una coerenza tra Diritto e strutture, o questa coerenza è vera ed esiste, oppure è il disordine quello che tu crei. È coerente il modo alto di pensare della Corte di Strasburgo e della Corte costituzionale. Il loro modo di pensare è molto più coerente con i Diritti Umani fondamentali, che prevalgono e prevarranno, perché quello è l’ordine superiore rispetto ai livelli molto più bassi delle strutture pubbliche, maggioritarie e prevalenti. Nel modo di pensare dei demagoghi, dei populisti, di quelli che hanno una mentalità carcerocentrica non c’è la coerenza che puoi registrare tra i riferimenti della coerenza civile. Questa sentenza ha un dato di coerenza con la Costituzione che i panpenalisti e populisti non hanno. La differenza che c’è tra un modo di pensare irrazionale, di azione e reazione, e quello evoluto, che è più orientato ai valori umani: ebbene nella sentenza della Corte si è espresso questo, una coscienza superiore perché è orientata ai valori umani. Ma allora l’istituto della collaborazione, in questa maniera, si indebolisce? La posizione del detenuto non collaborante con la giustizia non è più assoluta ma relativa, questo dice la Corte. E cosa vuol dire? Che non è stata abolita la collaborazione, ma relativizzata rispetto al panorama dei criteri di valutazione della lettura con il passato e con le organizzazioni criminali. Il detenuto, pur non collaborando con la giustizia, ha fatto leva sulla propria coscienza e si è ravveduto nella maniera più intima, che poi è quella più duratura. La collaborazione è fondata sul do ut des, questa forma di ravvedimento è un confronto con la propria coscienza. Un detenuto nel film di Ambrogio Crespi, “Spes contra Spem”, dice “io ogni giorno mi guardo allo specchio e vedo la mia coscienza che è il tribunale più spietato, cui uno può essere sottoposto”. Oggi viene data dignità, che poi è la dignità umana che viene affermata in questa sentenza, a una forma di ravvedimento che è ancora più autentica perché è interiore e fa fare i conti con se stesso. Manes: “È un riconoscimento del diritto alla speranza. E valorizza i magistrati” di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 24 ottobre 2019 L’avvocato: “La collaborazione con lo Stato non può essere l’unico strumento di valutazione di un detenuto”. Avvocato Vittorio Manes, lei ha sostenuto l’intervento delle Camere Penali sulla questione dell’ergastolo ostativo, come commenta la decisione? “Con tutte le cautele possibili visto che siamo di fronte alla sintesi di un comunicato stampa, la Corte Costituzionale ha portato a coerenti conseguenze una giurisprudenza che da anni ritiene incostituzionale la presunzione assoluta di pericolo”. La Consulta apre le porte ai benefici per chi non si sia pentito o dissociato dalla lotta armata. Qual è il senso di questa pronuncia? “La collaborazione con lo Stato non può essere l’unico strumento di valutazione di un detenuto. Ecco qual è il significato”. Quindi? “La Consulta accoglie le ragioni di chi, pur non volendo collaborare con lo Stato, ha il diritto di essere valutato anche attraverso altri fattori”. Quali? “Sono molti, criteri già evidenziati dalla Corte. Si tratta di rimettere ai magistrati di sorveglianza la decisione su tutto un’insieme di valutazioni. Non solo la condotta carceraria ma anche le indicazioni provenienti dalle altre autorità, tutto questo sarà alla base della decisione sulla concessione o meno di benefici”. Una valorizzazione del ruolo del magistrato di sorveglianza insomma? “Certamente. Si tratta di riconoscere fiducia verso questa istituzione. La pronuncia della Consulta contiene un elemento di responsabilizzazione nei loro confronti”. Tuttavia questa decisione ha suscitato anche perplessità. Qualcuno l’ha definita “stravagante”. Altri temono che indebolisca la lotta alla mafia: insomma non c’è coralità ma divisioni di fronte al tema. “Io dico una cosa: in una democrazia matura non si può negare il diritto alla speranza, riflesso della dignità umana. Un valore che non si acquista per meriti né si perde per demeriti”. Cosa dovrebbe fare lo Stato allora? “Nessuno vuole concedere benefici a prescindere. Ripeto: sarà il magistrato di sorveglianza a decidere caso per caso. Nel momento in cui non dovessero sussistere i presupposti per la concessione di benefici, ecco, a quel punto, è ovvio che non saranno concessi. Se cioè il magistrato di sorveglianza dovesse riconoscere che la pericolosità del detenuto è ancora attuale, allora non ci saranno concessioni. D’altra parte...”. Dica... “Mi ritrovo nel principio secondo il quale in una democrazia matura lo Stato deve avere il coraggio di combattere anche il più efferato criminale con un braccio legato”. Non una lotta alla pari senza quartiere insomma... “Appunto. Si tratta di riconoscere valori come il diritto alla speranza di ciascuna persona e quello alla dignità”. Giovanni Maria Flick: “Difficile che il condannato dimostri di aver tagliato i legami con le cosche” di Claudia Guasco Il Messaggero, 24 ottobre 2019 Le sentenze sull’ergastolo ostativo pronunciate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e dalla Corte costituzionale hanno un principio in comune. Entrambe pongono la rescissione degli antichi legami con le organizzazioni criminali come condizione fondamentale per ottenere permessi o misure alternative al carcere. “Dimostrare con certezza che il condannato non abbia più alcun contatto con gli ambienti nei quali è maturato il crimine è una questione cruciale. Deve essere l’ergastolano a portare prove che dimostrano la sua estraneità oppure il pubblico ministero a fornire gli elementi? Nel primo caso appare più complicato e il richiamo a tutta la documentazione fa pensare che l’onere della prova spetti al pm. Le motivazioni dei giudici chiariranno la questione”, afferma Giovanni Maria Flick, giurista, ex ministro della Giustizia e presidente della Corte costituzionale dal 2008 al 2009. In ogni caso, professore, la garanzia di estraneità non è facile da accertare… “Ma è alla base della sentenza e la Corte costituzionale vi fa ampio riferimento quando parla di valutazione caso per caso. Non devono esserci né collegamenti con associazioni criminali né attualità della partecipazione. A mio avviso è importante il riconoscimento attribuito dalla Consulta al giudice di Sorveglianza sulla verifica della pericolosità. La Corte da qualche anno ha cominciato a valorizzare l’accertamento della pericolosità in concreto e non come preclusione assoluta alle misure alternative, puntando sulla differenza tra partecipazione all’associazione e al concorso esterno, oppure guardando alla posizione della madre che deve occuparsi dei figli piccoli”. Siamo di fronte a novità sostanziali… “Sottolineando che occorre flessibilità e una valutazione concreta, la Consulta si sintonizza con la sentenza della Cedu. Lì l’attenzione è puntata su articolo 3 della Convenzione, secondo cui è inumano l’ergastolo ostativo, qui l’ottica è un’altra: non si può sbarrare completamente la strada al percorso rieducativo qualora non ci sia collaborazione con la giustizia. L’intervento della Consulta a mio parere è molto cauto, al pari di quello della Cedu: non obbliga il giudice di Sorveglianza a concedere la misura alternativa del permesso, ma a disporla in base a requisiti specifici. Comunque si esce dalla logica del “bastone” e della “carota”. Nel momento in cui la Corte europea stabilisce che è contrario al senso di umanità non riconoscere la speranza di una vita fuori da carcere e quindi non va limitata la possibilità di accesso a misure alternative solo al soggetto che ha collaborato, ha aggiunto anche che la collaborazione non può essere l’unica via. Perché la reticenza di un ergastolano può essere motivata dalla paura per sé o i propri familiari o dal rifiuto etico, pensiamo al terrorismo e alla dissociazione anche senza collaborazione con l’autorità giudiziaria”. Secondo alcuni ora il rischio è che si aprano le celle per boss mafiosi e pericolosi criminali… “Mi pare un’esagerazione, non sono d’accordo né con quel tipo di impostazione né con chi sostiene che non sia riconosciuta la pervasività del fenomeno mafioso. La Cedu è consapevole della pericolosità della mafia, richiamando però al giusto equilibrio con il trattamento rieducativo che l’articolo 27 impone per chiunque. Capisco che non sia facile accettarlo da parte di chi ritiene che le misure alternative servano solo a far uscire criminali di prigione, ma sono invece momenti essenziali del trattamento rieducativo”. Le voci critiche tuttavia sono numerose… “Chi chiede il permesso non deve avere rapporti attuali con la criminalità organizzata e non deve sussistere il pericolo che si riavvicini ad essa: tutto questo deve essere frutto di un accertamento a cui la Consulta fa ampio riferimento quando parla di valutazione caso per caso da parte del giudice di Sorveglianza. Alla luce di ciò, ritengo non ci sia il pericolo di frotte di mafiosi che si riversano nelle strade”. Gian Carlo Caselli: “Così c’è l’alto rischio che riprendano le loro attività criminali” di Fulvio Fiano Corriere della Sera, 24 ottobre 2019 L’ex procuratore capo a Palermo contrario all’ipotesi di un’apertura perché “metterebbe i peggiori mafiosi in condizione di riprendere le armi”. Gian Carlo Caselli, ex procuratore capo a Palermo, si è detto contrario all’ipotesi di un’apertura nell’ergastolo ostativo perché “significherebbe mettere i peggiori mafiosi in condizione di riprendere le armi”. È davvero così alto il rischio? “Più che altro vedo il rischio che i mafiosi riprendano, ordinandole e controllandole, le tipiche attività dell’organizzazione. Con il supporto, quando necessario, della violenza, armi comprese. Non si può dimenticare un dato incontestabile: il giuramento di fedeltà perpetua che prestano e l’adesione al codice d’onore che non si può tradire fino alla morte. Questo non significa ragionare in termini vendicativi, ma prevedere che per gli irriducibili potrebbero aprirsi spazi di libertà male usati”. La decisione di oggi riguarda solo la possibilità di ottenere permessi premio, valutando caso per caso... “È vero, occorre sempre una valutazione del giudice. Ma se non interviene il dato univoco del pentimento il giudice non ha nessun segno concreto che gli permetta di valutare l’effettivo distacco dal clan. Solo Alice nel paese delle meraviglie può affidarsi alla buona condotta come parametro, perché per il mafioso doc questo è un obbligo sancito dal loro codice”. Il dibattito in queste settimane ruota molto anche sul rispetto di quanto proponeva Falcone. In che cosa ci sarebbe un tradimento delle sue idee? “Non ho mai partecipato al gioco macabro del tavolino spiritico per evocare le sue presunte opinioni. Dico solo che il 41 bis è stato approvato subito dopo le stragi del ‘92 ed è letteralmente intriso del sangue di Falcone e Borsellino e della loro conoscenza approfondita della mafia. Non fu una decisione viziata dall’emozione del momento, come sento dire, ma la risposta seria ad un attacco subito con cui lo Stato rialzò la testa”. Chi ha accolto con favore la decisione parla di “Costituzione che finalmente si applica anche ai mafiosi”. Dov’è il dato negativo? “Certo, la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Ma attenzione: occorre che questo mostri in concreto di voler essere reinserito. La Costituzione non è un oggetto da usare quando fa comodo. I suoi valori fondamentali vanno rispettati sempre. I mafiosi non ne accettano nemmeno mezza virgola, perché dimenticarlo?”. Le Procure perdono un’arma contro la mafia? “I segnali hanno grandissima importanza in questa battaglia. Dopo le stragi, col 41bis che si innestava sulla legge per i collaboratori di giustizia, molti mafiosi in isolamento entrarono in crisi e si pentirono. Cosa Nostra crollò anche per questo. Poi i mafiosi, capita l’aria che tirava, hanno intrapreso la tattica del figliol prodigo con gli aiuti a chi minacciava di pentirsi. Se l’ergastolo ostativo viene meno, l’aria cambia e può essere un indebolimento”. Riforma penale, Bonafede: gli alleati scoprano le carte di Errico Novi Il Dubbio, 24 ottobre 2019 A chi ipotizza un rinvio della norma che abolisce l’estinzione dei reati, risponde che tanto fino, al 2022 “non produrra effetti”. Segno che non esclude ritardi peri provvedimenti sui tempi dei processi. La partita è in stallo. Una settimana fa Bonafede aveva interrotto la sua audizione a Montecitorio con un filo di ottimismo in più. Ieri, nuovamente interpellato dai deputati della commissione Giustizia sui ddl che dovrebbero velocizzare i processi, è stato più cauto: “La riforma è fisiologicamente in una fase di confronto tra le forze della maggioranza, ecco perché non sono in grado di indicarne i dettagli tecnici”. Il ministro della Giustizia sa bene che dal tempestivo via libera al ddl penale, che dovrebbe essere incardinato proprio alla Camera, dipende anche la coerenza con il cronoprogramma fissato un anno fa: nuova prescrizione in vigore dopo che saranno state approvate norme acceleratorie, tali da rendere assai improbabile che la durata del giudizio superi quella del termine entro cui si sarebbe estinto il reato. Ma da ieri comincia a profilarsi uno schema un po’ diverso: il guardasigilli non ha cambiato idea, però è anche pronto a consegnare la responsabilità del ritardo agli alleati. “Ci troviamo in una fase particolare per come sono andate le cose”, ha aggiunto, “con il cambio di governo che non ha consentito di elaborare le idee nel dettaglio e di individuare testi”. Un’analisi che va intrecciata con la tesi di Bonafede secondo cui l’entrata in vigore del blocca-prescrizione non determinerà alcuna “apocalisse”. Alla domanda postagli nell’intervista di ieri sul Corriere della sera rispetto alla possibilità di un “nuovo rinvio” del controversa norma, il ministro ha risposto che “i cittadini ci chiedono di fare le riforme, non di prendere tempo o rinviarle” e che “ora si tratta di fare quelle necessarie per dimezzare i tempi dei processi” bloccate “dalla Lega” nella fase precedente. Poi però ha aggiunto: “Del resto gli effetti del blocco della prescrizione si vedranno non prima del 2024”. Bonafede non lo dice in modo esplicito, ma certo la replica al quesito lascia intendere che se proprio le trattative si ingolfassero non si straccerà le vesti. È un discorso da prendere o lasciare. Siano gli alleati a farsi una ragione della norma che abolisce l’estinzione dei reati dopo il primo grado. Non chiedano più di limitarla con subordinate come quella proposta dal Pd, che vorrebbe far riprendere il timer della prescrizione una volta sforato il limite ideale di durata dei giudizi, portato addirittura a soli 4 anni: con una posizione più o meno così riassumibile, il guardasigilli rilancia la palla nel campo degli alleati. A notare l’incaglio della discussione sono innanzitutto le opposizioni. Finito il dibattito di ieri in commissione Giustizia, i deputati di Fratelli d’Italia Carolina Varchi e Ciro Maschio, per esempio, hanno parlato di “maggioranza che non ha ancora le idee chiare”, a cominciare appunto dalla “riforma del processo penale e del civile”. E dc è un parlamentare di maggioranza come il capogruppo di Leu in commissione Giustizia Federico Conte, avvocato, a ricordare che la prescrizione è “una norma di sistema” e che per questo andrebbe “stabilizzata in coerenza con i principi costituzionali” anziché “affidata alle diverse sensibilità delle maggioranze che si succedono”. D’altronde, nota, “senza una contestuale riforma del processo la norma che sospende la prescrizione dopo il primo grado trasferirà per intero sul cittadino il costo delle disfunzioni del sistema”. Il quadro non dovrebbe essere fissato al muro finché non è pronta la cornice, insomma. Che non ci sia intesa su come rendere davvero sopportabile lo stop alla prescrizione lo si capisce indirettamente anche dal fatto che in realtà su altre questioniBonafede fornisce più dettagli: dice per esempio che non si impunterà sul “sorteggio per il Csm”, a riprova che l’ipotesi è ormai accantonata, e ribadisce che “il magistrato eletto in Parlamento o nominato al governo non potrà mai più indossare la toga”. E solo sulle contromisure al processo potenzialmente illimitato che non si sbilancia. Nel frattempo continuano in moltissime città le iniziative delle Camere penali territoriali nell’ambito della settimana di astensione indetta dall’Ucpi. Fino a domani saranno in sciopero della fame i dirigenti di Radicali italiani, che hanno aderito con la più p annelliana delle lotte alla potesta dei p enalisti. Proprio il presidente dell’Unione Camere penali Gian Domenico Caiazza ha detto che il punto d’incontro con il governo potrebbe consistere nel rinviare l’entrata in vigore del blocca-prescrizione, “considerato che la riforma del processo ancora non c’è”. Ma ogni giorno che passa è proprio quest’ultima ad accumulare ritardo. Ridurre i tempi dei processi? Bonafede non sa come di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 24 ottobre 2019 Il ministro davanti alla Commissione della Camera ammette che non c’è accordo nella maggioranza sulle misure da adottare. Ma sullo stop alla prescrizione che scatterà dal 1 gennaio 2020 non ha intenzione di tornare indietro. “Non sono in condizione di indicare i dettagli tecnici perché sono in fase di elaborazione”. Così il ministro della giustizia Alfonso Bonafede, 5 Stelle, ha risposto ieri mattina ai deputati della commissione giustizia che gli chiedevano quali misure concrete il governo abbia intenzione di proporre per diminuire la durata dei processi penali. Com’è noto, è proprio in relazione alla annunciata velocizzazione dei tempi della giustizia che il governo Lega-5 Stelle aveva introdotto (a gennaio 2019) la cancellazione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, misura che altrimenti rischia di rinviare all’infinito la conclusione delle cause. Lo stop alla prescrizione scatterà il primo gennaio 2020, ma il nuovo esecutivo - che mantenuto lo stesso ministro della giustizia - non è ancora in grado di precisare in che modo i processi penali potranno accelerare. “Ci troviamo in una situazione particolare, la nuova alleanza di governo non ha avuto il tempo di individuare nel dettaglio i provvedimenti normativi”, ha spiegato Bonafede agli attoniti deputati. Che ricordano come dopo il primo incontro del ministro con la delegazione del Pd, malgrado le distanze registrate proprio sul tema della prescrizione, Bonafede avesse annunciato l’approvazione di due disegni di legge delega di riforma dei processi, penale e civile, entro la fine dell’anno. Di vertice sulla giustizia ce n’è poi stato un secondo, stavolta con le altre due forze di maggioranza - Leu e Italia viva - e le cose non sono migliorate. Se il Pd, che ha alla giustizia il sottosegretario Giorgis, ripete che la soluzione per la “patologia” della prescrizione non può essere quella di cancellarla per legge, i renziani adesso propongono di sospendere per un altro anno l’entrata in vigore dello stop alla prescrizione. E ieri in commissione il deputato di Leu Federico Conte ha sottolineato come “senza una contestuale riforma del processo, la norma che sospende la prescrizione dopo il primo grado trasferirà per intero sul cittadino il costo delle disfunzioni del sistema”. Intanto il deputato di Forza Italia Costa, che si dice sia tentato di passare con Renzi, ha presentato una proposta di legge per cancellare del tutto lo stop alla prescrizione: arrivasse mai a essere votata spaccherebbe certamente la maggioranza. Ieri ha comunicato di aver firmato la proposta di Costa anche il radicale di +Europa Magi, che ha votato al fiducia al governo Conte due. “La riforma - ha detto - è pura propaganda perché inciderà solo su una fetta marginale del fenomeno”. Anche Bonafede, intervistato dal Corriere della Sera, ha ammesso che “il blocco della prescrizione riguarda una minima parte dei processi”, confermando però di non voler tornare indietro dalla decisione. “Dal primo gennaio prossimo non succederà l’apocalisse - ha detto ieri durante l’audizione alla camera sulle linee programmatiche del suo ministero - la prescrizione è una norma di diritto sostanziale (che si applica dunque sempre nel senso più favorevole all’imputato, ndr) per cui lo stop dopo la sentenza di primo grado produrrà effetti nella più ottimistica delle previsioni non prima del 2024, forse nel 2027” - perché può applicarsi solo ai reati commessi dopo l’entrata in vigore della riforma. Dovendo restare sul vago, il ministro ha potuto annunciare solo un intervento per informatizzare tutte le notifiche - “col beneficio del dubbio, nella prima bozza c’è un accordo” - e una prossima convocazione dei capi degli uffici giudiziari per studiare quale sono le buone prassi da imitare per ridurre i tempi dei processi. Su una cosa invece ha confermato di aver cambiato idea: non insisterà nel proporre il sorteggio come metodo di elezione della componente togata del Csm: “Non mi impunto su un sistema elettorale, l’importante è blindare l’indipendenza del Consiglio”. Reati fiscali, sanzioni più severe. Inasprimento da fine anno di Antonio Iorio Il Sole 24 Ore, 24 ottobre 2019 Le modifiche ai reati tributari, previste nell’ultima bozza del decreto fiscale, in molte ipotesi trovano un’immediata applicazione. La nuova norma prevede l’entrata in vigore trascorsi 15 giorni dalla data di pubblicazione in “Gazzetta Ufficiale” della legge di conversione del decreto. Vi sono però reati che si consumano semplicemente con la presentazione della dichiarazione e altri in momenti differenti, con la conseguenza che il momento di consumazione del delitto diventa fondamentale per l’applicazione delle nuove previsioni (caratterizzate in generale da pene più alte sia nel minimo sia nel massimo edittale e da soglie di punibilità più basse) o delle precedenti più favorevoli. Ipotizzando la conversione in legge nel mese di dicembre, sicuramente tutti i reati dichiarativi nelle rispettive nuove versioni interesseranno le dichiarazioni del prossimo anno (relative al periodo d’imosta 2019). E infatti questi reati si consumano alla data di presentazione della dichiarazione, che quest’anno è il 30 novembre (2 dicembre). Con riferimento a queste dichiarazioni, da presentare entro il prossimo mese, gli eventuali delitti di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di false fatture (articolo 2 del Dlgs 74/2000), dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (articolo 3), dichiarazione infedele (articolo 4) seguono le attuali regole (pene più miti e soglie più basse) e non quelle più stringenti previste dal decreto. Le nuove norme saranno invece operative prima della presentazione delle dichiarazioni 2020 (anno 2019) per i seguenti casi: a) dichiarazioni presentate verosimilmente a partire da gennaio (più precisamente dopo i 15 giorni successivi alla pubblicazione della legge di conversione) da parte di coloro che hanno l’esercizio sociale “a cavallo” i cui termini scadono alla fine del nono mese dall’approvazione del bilancio. Si pensi a una società avente esercizio sociale 1° maggio 2018 - 30 aprile 2019 obbligata a presentare la dichiarazione entro il 31 gennaio 2002 (quindi con i nuovi reati tributari già in vigore); b) dichiarazioni Iva (fraudolente e/o infedeli) che si presenteranno al 30 aprile 2020; c) dichiarazioni “infrannuali” fraudolente con uso di false fatture o altri documenti equipollenti, in quanto la condotta illecita criminalizza qualunque dichiarazione e non soltanto quelle annuali. In presenza di dichiarazioni “infrannuali” (per esempio per messa in liquidazione, trasformazione, fusione, scissione, dichiarazioni di operazioni intracomunitarie) presentate successivamente all’entrata in vigore della nuova norma si applicheranno le nuove sanzioni da quattro a otto anni di reclusione (per imponibili superiori a 100mila euro); d) casi di omessa presentazione delle dichiarazioni del sostituto di imposta e dei redditi scadenti rispettivamente alla fine del mese di ottobre e di novembre 2019, in quanto il reato omissivo si perfeziona non alla data della scadenza bensì decorsi, infruttuosamente, 90 giorni, che certamente saranno successivi all’entrata in vigore delle modifiche. Ciò comporta che alle dichiarazioni delle imposte sui redditi e del sostituto di imposta omesse (con imposta evasa superiore a 50mila euro) si applicheranno da subito le nuove regole e, in particolare, la reclusione da due a sei anni in luogo dell’attuale da 18 mesi a 4 anni. Per quanto concerne invece le false fatture, trattandosi di un reato che si consuma con il semplice rilascio del documento, le nuove norme troveranno immediata applicazione. In sostanza, chi emetterà una falsa fattura dopo 15 giorni successivi all’entrata in vigore della legge di conversione, andrà incontro immediatamente alla più grave reclusione da quattro a otto anni (sempre che gli elementi fittizi siano superiore a 100mila euro per periodo di imposta). Carceri ed evasori fiscali. Andiamo verso l’ingovernabile esplosione? di Vincenzo Donvito aduc.it, 24 ottobre 2019 Noi siamo tra coloro che non credono che il carcere possa essere il metodo punitivo più utile, per redimere i rei e per limitare nella nostra società la circolazione di persone potenzialmente pericolose. Di recente a questa nostra credenza si è aggiunto anche uno dei simboli delle manette di “Mani Pulite”, Gherardo Colombo, benvenuto. Nel contempo siamo consapevoli che abbiamo “eserciti” di giustizieri che la pensano in maniera diversa. Di questi ne pullulano diversi nel Governo. Questo accade per coloro che intendono combattere l’evasione fiscale aumentando le pene, incluse quelle carcerarie, con una sorta di Stato trasformato in un combattente della giungla dove vige il “occhio per occhio, dente per dente”. Noi crediamo che questo approccio peggiori la situazione: gli evasori fiscali non faranno che “raffinare” i loro metodi criminali. Per questo peroriamo un intervento dello Stato su giustizia (in particolare i tempi) e semplificazione amministrativa, sì da far venire meno le ragioni della criminalità fiscale. Consapevoli ovviamente che è un fenomeno di cui è impossibile liberarsi; e che se qualcuno reputa di farcelo credere, con per l’appunto più pene carcerarie, si sta solo parlando addosso e provocando più danni per tutti. Il più autorevole di questi giustizieri del governo è, per indiscusso livello istituzionale, il ministro della Giustizia. A cui, ovviamente, non chiediamo di agire per questo o quell’altro problema specifico che poi porta le persone a diventare criminali, ma “solo” di amministrare la Giustizia. Vorremmo che questa amministrazione fosse efficiente per cercare anche di rimediare alle mancanze di chi nel governo delega la soluzione dei problemi prioritariamente alla Giustizia (come nel caso degli evasori fiscali), ma prendiamo atto che si tratta solo di una nostra volontà, ché la realtà è ben altra. Vediamo. Il tasso di sovraffollamento delle carceri italiane “ha raggiunto il 128%” e il ministero della Giustizia “punta a un significativo incremento dei posti detentivi”. Lo ha detto il Guardasigilli Alfonso Bonafede, in audizione in Commissione Giustizia della Camera, spiegando che “entro il prossimo anno saranno pronti nuovi padiglioni a Taranto e a Sulmona e a Milano Opera”. Il ministro ha anche rilevato come i detenuti stranieri rappresentano il 33% del totale: “Il trasferimento e il rimpatrio sono un obiettivo prioritario per il 2020, anche senza il consenso del detenuto”, ha spiegato Bonafede (1). Potrebbe sembrare una battuta, ma non lo è: consigliamo al nostro ministro di dare un’occhiata al funzionamento delle carceri in Usa che, tra i Paesi a democrazia occidentale, è quello con il maggior numero di detenuti e il maggior numero di istituti di pena. Se i suoi obiettivi sono quelli dichiarati oggi, senza ovviamente pensare alle cause ma solo ai rimedi (sempre nella logica del “dente per dente”), ci sembra un buon riferimento. Dovrà digerire il fatto che nel Paese di Trump (e anche di Obama, prima del tyconn) molte carceri sono private, ma sappiamo che lui e il suo partito hanno uno stomaco forte anche in questo senso. Quindi, se tutto dovesse funzionare come auspicato dal nostro ministro, il sovraffollamento carcerario sarebbe risolto: costruiamo più carceri, rispediamo in patria gli stranieri. Porca miseria! Era così semplice e facile… possibile che i precedenti ministri non ci avessero pensato, risolvendo anche diversi problemi occupazionali del settore edilizio, oltre che elargire caramelle a chi reputa la presenza degli immigrati (a maggior ragione quelli in carcere) come usurpazione del proprio diritto sovrano oltre che inquinamento. E del resto, visto che dirigere un ministero significa amministrare il Paese, facendo tesoro dei più elementari principi di un qualunque business, se c’è qualcosa che manca, aggiungiamolo, se c’è qualcosa che è troppo leviamolo. Una logica che se fosse applicata al denaro, ci dovrebbe portare a qualcosa tipo: ci sono pochi soldi? Stampiamone di più e facilitiamo la circolazione. Non ce ne voglia un qualunque economista (di governo o meno) per questa semplificazione, ma stiamo solo facendo un semplice 2+2 delle politiche del ministro della Giustizia. E ci vengono fuori questi dati. Non avremmo preteso una soluzione ai problemi sollevati dal ministro Bonafede, ma quantomeno un indirizzo, una logica, un percorso. Che fossero stati presi in considerazione i fenomeni strutturali che portano oggi il nostro sistema giudiziario a sentirsi carente di celle e abbondante di delinquenti che finalmente possono essere mandati altrove (nella loro patria) piuttosto che in giro per le nostre strade. Ma uno Stato crediamo non si amministri come un’azienda. Per cui se finiscono i lecca-lecca, per esempio, non basta aumentare la produzione. Andiamo verso l’ingovernabile esplosione? “La mafia a Roma esiste e non è solo quella del Sud: la Procura non si rassegna” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 24 ottobre 2019 L’aggiunto Prestipino e la sentenza della Cassazione: “Ora c’è un nuovo verdetto, ma la corruzione resta la vera emergenza criminale della Capitale”. “Mafia capitale” non era mafia, ha stabilito la Corte di Cassazione, e la Procura di Roma ha perso la sua scommessa. Ma il procuratore aggiunto Michele Prestipino, che da maggio guida l’ufficio in qualità di capo “facente funzioni”, rifugge da questa logica. “Non era una scommessa, e la nostra ricostruzione giuridica sull’associazione criminale di Massimo Carminati e Salvatore Buzzi è stata condivisa dalla Procura generale che ha presentato appello dopo la sentenza del tribunale e dalla Procura generale della Cassazione che ha chiesto la conferma delle condanne inflitte in secondo grado. E prima ancora c’erano stati il giudice che ha concesso gli arresti, il tribunale del Riesame e la stessa Cassazione che respinse i ricorsi cautelari”. Poi però è arrivata la bocciatura, senza nemmeno il rinvio a nuovi giudici. Dunque la vostra impostazione era un azzardo? “Niente affatto. Anche perché la stessa Cassazione dal 2015 fino al marzo scorso ha ribadito con diverse pronunce l’esistenza delle “piccole mafie” slegate dal controllo del territorio. Ora c’è questo nuovo verdetto, e dalle motivazioni scopriremo se è stato messo in discussione quel principio giuridico oppure se, come ritengo più probabile, si è ritenuto che in questo caso specifico non ci fossero i presupposti per applicarlo”. Sta dicendo, nonostante la secca smentita, che non avete sbagliato niente? “Sto dicendo che per scoprire se e dove abbiamo sbagliato dobbiamo leggere quello che scriverà la Cassazione. Dopodiché ci adegueremo e faremo le nostre valutazioni. Ma io rivendico il lavoro fatto, che grazie al prezioso sforzo investigativo dei carabinieri del Ros, ha comunque scoperto e smantellato un sistema criminale che, al di là della qualificazione giuridica, era penetrato in maniera importante in alcuni settori dell’amministrazione comunale di Roma”. Ma era corruzione, non mafia. Non è una differenza da poco. “A parte il fatto che per noi il “mondo di mezzo” era un unicum non esportabile ad altre situazioni e realtà, vorrei fare due precisazioni a nome mio e dell’ufficio che rappresento. La prima: non ci rassegniamo all’idea che la corruzione, diffusa e capillare, venga considerata come un fattore fisiologico nelle dinamiche amministrative di questa città. Invece resta la vera emergenza criminale di Roma, una componente gravissima che ne inquina e compromette il tessuto sociale e le possibilità di sviluppo economico”. La seconda precisazione? “Con questa sentenza la Cassazione non ha detto che a Roma non c’è la mafia o non ci sono mafiosi, ma solo che a quel particolare sodalizio non si può addebitare il metodo mafioso. Restano altri gruppi autoctoni, qualificati come mafiosi con sentenze a volte definitive e altre ancora provvisorie, dai Fasciani, agli Spada ai Casamonica e altre organizzazioni. E pure su questo fronte la Procura di Roma non si rassegna”. A che cosa? “Al paradigma secondo cui per riconoscere il metodo mafioso si debba ricorrere al “criterio etnico”: in presenza di siciliani, calabresi o campani c’è, altrimenti no”. Quindi continuerete con le “interpretazioni evolutive” in materia di mafia? “Non interpretazioni evolutive, ma stretta e rigorosa applicazione di ciò che dice l’articolo 416 bis e che la Cassazione conferma da cinque anni. L’assoluta particolarità del Mondo di mezzo non era di essere una “piccola mafia”, bensì l’ipotesi che l’intimidazione derivante dal vincolo associativo potesse avvenire anche con il controllo di un ambiente sociale, come alcuni settori dell’amministrazione comunale. Ora vedremo che cosa dirà, su questo punto, la Cassazione”. C’è chi dice che lei e il procuratore Pignatone, forti delle esperienze siciliane e calabresi, avete esagerato. “Non capisco in che cosa. Il codice penale è sempre lo stesso, a Palermo come a Reggio Calabria e a Roma. Sono diverse le realtà locali, e sono diverse le mafie”. La vostra inchiesta creò un terremoto politico per via dell’ipotesi mafiosa, che ora è caduta. “Credo che questa Procura abbia dimostrato di svolgere indagini senza preoccuparsi delle ricadute politiche e di chi avrebbero coinvolto. Noi verifichiamo notizie di reato, a volte chiediamo di fare i processi e molte altre volte archiviamo; poi nei processi i giudici molte volte ci danno ragione e a volte no, anche nello stesso procedimento, come in questo caso. È il nostro lavoro, che di certo non ha finalità politiche”. La crisi di liquidità va provata dall’imprenditore di La. A. Il Sole 24 Ore, 24 ottobre 2019 I delitti omissivi, come per i versamenti di ritenute ed Iva, hanno natura di reato istantaneo e si perfezionano alla scadenza del termine previsto. Sotto il profilo dell’elemento soggettivo non occorre il fine di evasione poiché sono punibili per dolo generico, ossia per la consapevolezza di non versare all’erario le imposte dichiarate e dovute alle previste scadenze. Spesso, l’omissione è la conseguenza di una crisi di liquidità dell’azienda. Secondo la Suprema Corte, può escludersi la responsabilità, solo dimostrando l’assoluta impossibilità di adempiere al pagamento del dovuto e, a tal fine, occorre provare la non imputabilità all’imprenditore della crisi economica e di non aver potuto fronteggiare la crisi attraverso altre misure (finanziamenti ed esposizione anche personali, crediti, eccetera). Va data prova che non sia stato altrimenti possibile reperire le risorse economiche e finanziarie necessarie a consentire il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il patrimonio personale dell’imprenditore. Non è sufficiente, a tal fine, sostenere che, con il mancato versamento del dovuto, è stato evitato il fallimento, ossia un dissesto anche maggiore, poiché i pagamenti a taluni creditori secondo un programma per la salvaguardia dell’azienda, palesano l’esistenza di disponibilità finanziarie destinate in violazione di precisi obblighi di legge (tra le ultime Cassazione penale 42856/2019, 36378/2019). Da evidenziare, in ogni caso, che il reato di omesso versamento di ritenute non è punibile se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, il debito tributario, comprese sanzioni e interessi, è estinto mediante integrale pagamento del dovuto, anche attraverso conciliazione, adesione o ravvedimento operoso. Ricorre, quindi, la non punibilità se il contribuente: corrisponde le somme dovute beneficiando del ravvedimento operoso; esegue il pagamento a seguito dell’avviso bonario dell’agenzia delle Entrate; esegue il pagamento a seguito della ricezione della cartella da parte di Equitalia/agenzia delle Entrate-Riscossione. Ove l’interessato abbia avviato un piano di rateazione, ai fini della non punibilità occorre l’integrale pagamento entro la dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado. Se all’apertura del dibattimento di primo grado il debito tributario è in corso di rateazione, è concesso un termine di tre mesi per eseguire i residui versamenti. Il Giudice ha poi la facoltà di prorogare tale termine di ulteriori tre mesi. Sempre responsabile l’amministratore di diritto per la bancarotta fraudolenta di Andrea Magagnoli Il Sole 24 Ore, 24 ottobre 2019 Corte di Cassazione - Sezione V - Sentenza 12 settembre 2019 n. 37848. La corte di cassazione con la sentenza n.37848/2019 pone il principio di diritto per il quale in ogni caso di reato di bancarotta fraudolenta si sia in presenza di una responsabilità dell’ amministratore di diritto. Il caso di specie trae origine dalla sentenza di condanna della corte di appello, a carico dell’imputata per il reato di bancarotta fraudolenta, contestato nel corso di un fallimento a seguito dell’ accertamento di alcune condotte fraudolente sulle scritture contabili dell’ impresa. Il reato era stato contestato sulla base dell’ inerzia e dell’ omesso controllo in ordine a condotte che avevano avuto ad oggetto le scritture contabili dell’ impresa, le quali erano state fatte oggetto di alterazione da parte di coloro che effettivamente gestivano l’ attività aziendale. Tali condotte era state tali da determinare una modificazione illegittima delle scritture contabili, così da non potere consentire la comprensione degli affari dell’ impresa. L’ imputata era stata condannata da parte dei giudici di merito per la sua funzione di amministratrice di diritto dell’ impresa della quale era stato dichiarato il fallimento, pertanto deducendo un evidente illegittimità della decisione dei giudici di merito, ricorreva in cassazione chiedendo la riforma della sentenza. Il legale dell’imputata infatti rappresentava nell’ atto introduttivo del giudizio di legittimità, il difetto di uno dei presupposti per la configurazione del reato, insisteva infatti il difensore che nel caso di specie difettasse in maniera evidente la condotta prevista dalla normativa per la configurazione del reato di bancarotta fraudolenta, non potendosi ad ogni modo inferire in via automatica una responsabilità penale dalla semplice posizione di amministratore di diritto dell’ impresa fallita. Il procedimento dopo aver compiuto il proprio corso veniva deciso da parte dei giudici della corte suprema di cassazione con la sentenza qui in commento. La decisione si presenta come piuttosto interessante, in relazione alla delicata questione dell’ applicabilità del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale sotto il punto di vista della diverse posizioni soggettive, ed in particolare in relazione al valore della stessa in relazione alla configurabilità della responsabilità penale. In altri termini a quali posizioni soggettive sarà applicabile il reato di bancarotta fraudolenta, ed in particolare essa potrà venire applicata alla figura dell’ amministratore di diritto che di fatto non compie alcun atto di gestione della realtà aziendale. I giudici della corte suprema di cassazione con la sentenza n.37848/2019 giungono ad una soluzione che vede un ampliamento della responsabilità per il reato di bancarotta fraudolenta. I giudici della corte suprema di cassazione osservano nella motivazione della sentenza come dalla semplice posizione di amministratore di diritto di un impresa derivino conseguenza giuridiche ben precise in ordine ad eventuali responsabilità penali. In particolare, osservano gli ermellini, all’amministratore di diritto in ogni caso compete una responsabilità per la corretta gestione della contabilità dell’ azienda, il cui esercizio deve sempre essere oggetto di rigoroso controllo da parte dell’amministratore di diritto dell’impresa indipendentemente dal fatto che l’ attività aziendale venga di fatto gestita da altri soggetti. Nel caso in cui l’amministratore di diritto non osservi con rigore tale obbligo, impedendo o comunque limitando le condotte illecite poste in essere nei confronti delle scritture contabili dell’ impresa, quest’ ultimo sarà ad ogni modo responsabile per le alterazioni poste in essere anche da parte di altri soggetti che abbiano effettuato azioni di falsificazione della documentazione dell’ azienda oggetto del fallimento. La condanna dell’imputata pertanto si presentava come del tutto legittima, dato che i giudici di merito avevano correttamente applicava il dettato normativo vigente ed in particolare il reato di bancarotta fraudolenta. Liguria. Pastorino sul Garante dei Detenuti: “Legge ferma in commissione senza motivo” lavocedigenova.it, 24 ottobre 2019 Il Consigliere regionale di Linea Condivisa: “Liguria ultima, chiediamo che la discussione sia portata in consiglio regionale”. La proposta di legge per l’istituzione anche in Liguria (ultima regione italiana) del Garante dei Detenuti continua a restare ferma in Prima Commissione, nonostante siano stati votati con parere favorevole tutti gli articoli, mentre resta in sospeso quanto disposto in merito alla copertura finanziaria. “È la prima volta che un fatto simile accade in questa legislatura. Anzi, sembra addirittura trattarsi di una prima volta in assoluto, nella storia dell’Assemblea Legislativa della Liguria - dichiara il capogruppo di Linea Condivisa Gianni Pastorino, primo proponente della proposta di legge in oggetto -. Abbiamo inviato una lettera di sollecito 8 giorni fa. Eppure non si è aperta un’ulteriore interlocuzione sulla questione del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive. I tempi di questa giunta sono lunghissimi, quando si tratta di materie che non le interessano. Nel frattempo la situazione negli istituti correzionali purtroppo peggiora: è solo di 2 giorni fa la notizia di un suicidio nel carcere di Marassi - spiega Pastorino -. Detenuti e guardie carcerarie vivono una condizione di forte difficoltà, nell’unica regione italiana che ancora non ha istituito questa fondamentale figura di garanzia. Di cui, evidentemente, c’è bisogno”. “Tutto rimane fermo per volontà del governo regionale a trazione leghista che, indispettito dal sostegno alla PdL di una parte del centrodestra, si appiglia a uno specioso cavillo circa la copertura finanziaria del provvedimento - puntualizza Pastorino -. E allora facciamo due conti: il governo regionale cavilla per un incarico che costerebbe 1/3 della retribuzione annua di un solo consigliere regionale. Peraltro, questa è la giunta che non ha voluto ridurre gli emolumenti proprio dei consiglieri regionali, bocciando l’unica proposta, la nostra, presentata in proposito”. “Tutte le altre regioni italiane, invece, hanno provveduto. Comprendendo che il Garante dei Detenuti sia una figura necessaria, che assicura un alto livello di intervento e capacità di mediazione fra istituti di pena, detenuti, polizia penitenziaria e associazioni che svolgono attività volontarie nelle carceri. Un’azione che varrebbe molto più di quanto costi - conclude Pastorino -. La giunta di centrodestra tiene un atteggiamento sbagliato e inopportuno, che ancora una volta conferma l’approccio negativo, in particolare della Lega, su determinate tematiche. A questo punto chiediamo che la discussione sia portata in consiglio regionale, senza se e senza ma, affrontando a viso aperto il voto con la stessa chiarezza e trasparenza che ha caratterizzato tutti gli altri provvedimenti”. Lazio. Ciani (Demos) incontra il nuovo Provveditore dell’A.P. Carmelo Cantone democraziasolidale.it, 24 ottobre 2019 Promuovere azioni per il reinserimento sociale dei detenuti significa sicurezza per la società e integrazione per le persone. Su questa base comune di lavoro si è svolto il primo incontro tra Carmelo Cantone, nuovo Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria di Lazio, Abruzzo e Molise e Paolo Ciani, capogruppo di Democrazia Solidale alla Regione Lazio. Un confronto nel quale sono stati trattati i temi centrali su cui Regione e Provveditorato lavorano quotidianamente in una realtà amministrativa e detentiva complessa come quella del Lazio: 14 istituti penitenziari presenti sul territorio, 2 reparti ospedalieri per detenuti, 5residenzeper l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), oltre 6500 persone detenute che rappresentano il 10% del totale in Italia (quasi 61 mila al 30 settembre 2019). Nell’incontro sono stati affrontati molti temi: la necessità di armonizzare le procedure con le Asl del territorio in cui si trovano gli istituti penitenziari, la salute mentale di un numero crescente di detenuti, le condizioni di operatività del personale di Polizia penitenziaria e dell’area civile, l’idea di creare una rete tra le varie competenze della Regione in materia di formazione, lavoro e scuola insieme all’amministrazione penitenziaria. Il confronto ha messo al centro alcuni punti nevralgici della situazione delle carceri, grazie anche alle specifiche competenze dei due rappresentanti di Regione e Provveditorato. Paolo Ciani, già volontario nelle carceri del Lazio per lunghi anni, come vicepresidente della Commissione Sanità e Affari Sociali della Regione ha proposto diversi emendamenti che sono stati inseriti nel Piano sociale regionale, riguardanti l’attivazione dell’Osservatorio salute in carcere, il potenziamento di progetti su giustizia riparativa e mediazione penale. Carmelo Cantone è stato direttore in diversi istituti italiani, tra i quali Rebibbia Nuovo Complesso a Roma, poi Provveditore regionale in Toscana e in Puglia-Basilicata. Dallo scorso anno, Ciani sta conducendo una serie di visite in alcune carceri del Lazio (Viterbo, Latina, Rebibbia Nuovo Complesso, Rebibbia Femminile e Regina Coeli) e nelle Rems di Palombara Sabina e Ceccano. L’incontro con il rappresentante del provveditorato è un passo importante per una collaborazione sinergica tra le due amministrazioni. Sondrio, Rita Bernardini: “Garante dei detenuti, il candidato c’è, basta con i bandi a vuoto” altarezianews.it, 24 ottobre 2019 In merito al bando emesso dal Comune di Sondrio per la selezione di un “Garante per il diritti delle persone limitate nella libertà personale”, andato a vuoto per la terza volta, Rita Bernardini, membro del Consiglio Generale del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito ha rilasciato la seguente dichiarazione: “Per la terza volta consecutiva è andato deserto il bando comunale per l’elezione del locale Garante dei detenuti. Conosco a Sondrio sicuramente una persona che ben potrebbe svolgere questo importantissimo ruolo a tutela delle persone private della libertà, ma che non può nemmeno presentare la candidatura perché fra i requisiti è richiesta la laurea… che lui non ha. Si tratta di Giuliano Ghilotti che per dedizione e impegno sul fronte dei diritti umani certamente sarebbe la persona giusta al posto giusto. Tanto più che il titolo di laurea non è previsto nemmeno per l’elezione del Garante Nazionale. La legge nazionale istitutiva di questa fondamentale figura istituzionale, infatti, prevede genericamente che egli (il Garante) sia scelto tra persone non dipendenti delle pubbliche amministrazioni, che assicurino indipendenza e competenza nelle discipline afferenti la tutela dei diritti umani. Basterebbe una piccola modifica del “Regolamento sul Garante” per sciogliere una situazione impantanata da tempo. Lo “sblocco” potrebbe magari anche invogliare altri, finora silenti, a entrare in corsa insieme a Ghilotti.” Sulla vicenda Giuliano Ghilotti, ha dichiarato: “Appare, a questo punto, opportuno un intervento di modifica dell’art. 3 del Regolamento per il Garante” da parte del Consiglio Comunale, al fine di allargare la platea dei candidati ai possessori di diploma, anziché necessariamente di laurea, per un incarico delicato e impegnativo da svolgere a titolo completamente gratuito. Al verificarsi dell’eventuale modifica regolamentare avanzerei la mia candidatura anche al fine di favorirne di altre e migliori della mia”. Siracusa. I detenuti lavorano nei licei di Milena Castigli interris.it, 24 ottobre 2019 Progetto “Legalità” della Caritas; si occupano di pulizia, giardinaggio, manutenzione. Cinque detenuti del carcere di contrada Cavadonna lavoreranno in due licei siracusani. L’intesa sarà siglata questa mattina giovedì 24 ottobre, alle ore 10, al liceo classico “Tommaso Gargallo” di via Luigi Monti a Siracusa. Attività di lavoro di pubblica utilità che vedrà impegnati i detenuti al liceo scientifico “Einaudi” e al liceo classico “Gargallo”. I detenuti si occuperanno di pulizia, giardinaggio, piccoli lavori di manutenzione. L’accordo rientra nell’ambito del progetto “Legalità” promosso dalla Caritas diocesana. Alla firma presenziano il direttore del carcere, Aldo Tiralongo, il direttore dell’Ufficio esenzione penale esterna, Stefano Papa, il direttore della Caritas, don Marco Tarascio e le dirigenti scolastiche, Maria Grazia Ficara e Teresella Celesti, che spiegheranno ai giornalisti le finalità del progetto. Bologna. Domani presentazione del percorso rieducativo “Religioni per la cittadinanza” di Cristian Casali cronacabianca.eu, 24 ottobre 2019 Un progetto realizzato all’interno della Casa circondariale “Dozza” di Bologna, anche grazie alla collaborazione dell’ufficio del Garante regionale dei detenuti. Un confronto sulle religioni tra i detenuti della Dozza, anche per individuare strumenti utili al successo del percorso rieducativo: Religioni per la cittadinanza è un progetto sul dialogo multiculturale rivolto agli studenti del Centro per l’istruzione degli adulti metropolitano di Bologna (Cpia), realizzato nel biennio 2018-2019 con la collaborazione dell’ufficio del Garante regionale dei detenuti e della direzione del carcere. Al programma hanno partecipato 34 detenuti (italiani, tunisini, marocchini, pakistani, romeni, algerini, bosniaci, colombiani, ghanesi, nigeriani e portoghesi), che si sono confrontati con esperti di religione, costituzionalisti, sociologi, antropologi e psicologi sociali. Il report di questa esperienza (edito dalla Regione Emilia-Romagna) verrà presentato venerdì mattina 25 ottobre nella sala Poggioli di viale della Fiera 8 a Bologna (l’incontro è programmato dalle 9.30 alle 13.30). Durante la giornata verranno anche proiettati estratti del docufilm Nel bene nel male. Dio in carcere, realizzato dal documentarista Lorenzo K. Stanzani, che racconta le esperienze della classe coinvolta nel progetto. “Questo progetto - ha spiegato il Garante regionale delle persone private della libertà personale Marcello Marighelli- rivela come l’interrogarsi insieme sulle contraddizioni del rapporto con l’altro in una comunità plurale di fedi e di culture sia il modo migliore per cercare la cooperazione delle persone a un’esperienza educativa, che aiuti a superare la rottura con la legalità e l’adesione a comportamenti criminali”. Obiettivo dell’iniziativa è anche quello di comprendere il ruolo delle religioni all’interno delle strutture carcerarie, in particolare nella casa circondariale Rocco D’Amato di Bologna. L’importanza di intervenire in questo campo è segnalata dalle cifre: da un censimento del 2018 si rileva che sul totale dei circa 58mila detenuti nelle strutture italiane quasi 20mila sono stranieri, di cui più di 12mila provengono da paesi tradizionalmente di religione musulmana, di questi almeno 7mila sarebbero praticanti. Religioni per la cittadinanza nasce come naturale continuazione e sviluppo della precedente edizione “Diritti, doveri, solidarietà”, un progetto di dialogo tra culture e costituzioni realizzato nel triennio 2014-2016, che, grazie alla pubblicazione di due report (editi sempre dalla Regione Emilia-Romagna) e del docufilm Dustur di Marco Santarelli, ha fatto conoscere in Italia e all’estero un efficace modello d’intervento educativo, fondato sull’approccio interculturale. Il programma dell’evento: Alle 9.30 sono previsti gli interventi introduttivi della presidente dell’Assemblea legislativa regionale Simonetta Saliera, del cardinale arcivescovo di Bologna Matteo Maria Zuppi, del provveditore dell’Amministrazione penitenziaria della regione Emilia-Romagna e delle Marche Gloria Manzelli, del direttore dell’Ufficio scolastico regionale Stefano Versari e della direttrice della casa circondariale di Bologna Claudia Clementi. Seguiranno, alle 10.00, gli interventi a presentazione del progetto dei coordinatori Ignazio De Francesco (ideatore del laboratorio, che esporrà i dati e premesse teoriche) e Maria Caterina Bombarda (che traccerà un bilancio della realizzazione). Alle ore 11.00, per approfondire la complessità dei temi emersi, interverranno Yassine Lafram (presidente nazionale dell’Ucoii, l’Unione delle comunità islamiche), Piero Stefani, Marcello Matté, Massimo Ziccone e Maria Inglese. Alle 13.00 la giornata si concluderà con i contributi del dirigente scolastico del Cpia metropolitano Bologna Emilio Porcaro e del garante regionale delle persone private della libertà personale Marcello Marighelli. Roma. In carcere dal 1993, Filippo si laurea con lode: “la mia tesi contro il Fine Pena Mai” di Paolo G. Brera La Repubblica, 24 ottobre 2019 “Bravo dottor Filippo Rigano”, gli stringono la mano e l’abbracciano. Tesi di laurea in Diritto costituzionale, “Sopra la Costituzione... l’ergastolo ostativo: per chi ha sete di diritti”, e giù 139 pagine d’accusa per la “condanna infame” che gli ha tolto il sonno e cancellato il futuro. Bravo Filippo l’ergastolano: da ieri l’uomo del clan con la seconda elementare, a 63 anni, è dottore in Giurisprudenza con “110 e lode”“. Cin cin! con l’aranciata, in carcere niente bollicine. Poche ore prima che arrivasse la notizia che l’ergastolo ostativo inizia a scricchiolare, nella sala del teatro di Rebibbia l’ex mafioso del clan Santapaola entrato in cella 26 anni fa - e mai un piede fuori se non al capezzale della mamma - era circondato dai chiarissimi professori dell’università di Tor Vergata e dai compagni di sventura dell’Alta sicurezza, dalla moglie Giuseppina “che da 26 anni aspetta il mio ritorno a casa” e dalle figlie “Venera e Cristina, la mia forza per andare avanti”. Lo ha detto mille volte, alle tutor Cristina Gobbi e Marta Mengozzi che gli hanno portato l’università dietro le sbarre, che avrebbe fatto volentieri “un’altra vita, se non fossi nato in un contesto in cui non c’erano molte alternative”. Filippo lavora duro, dietro le sbarre. Fa l’imbianchino, ha ridipinto mezza Rebibbia, e studia “con grandissimo impegno e ottimi risultati”. “Ora speriamo che la Corte costituzionale consegni alla Storia la brutta pagina dell’ergastolo ostativo e dia anche a lui la possibilità di essere valutato per il reinserimento sociale”, dice il Garante dei detenuti del Lazío, Stefano Anastasia. Lui li ha contati, i giorni e i minuti trascorsi in cella. Avrebbe potuto accorciarli ma non si è “pentito”: “Collaborare in alcuni contesti equivale a mettere a rischio la vita propria e dei propri cari”, scrive nella tesi. Li ha contati: “324 mesi, 851.472.000 secondi. Avrei potuto pensare 851 milioni di volte di suicidarmi, ma non l’ho fatto”. Ha scelto invece “di scrivere questa tesi sulle pene ostative perché vivo tutti i giorni sulla mia pelle la tragedia insita in questa pena. Benvenuti nel “regno del diavolo”. Quando la pena e il penare sono eterni, evocare l’inferno non è esagerato”. Nella tesi, passato e vittime non compaiono. C’è l’incubo del presente: “Questa pena mi costringe tutti i giorni a pensare che cosa ne sarà di me? Come finirà la mia vita? Morirò qui dentro? Mi perseguita”. “In tutti questi anni mi sono dato da fare per ricostruirmi. Mi sono messo in gioco per dimostrare che ero in grado di fare cose buone”. Gli studi, il lavoro, “ho maturato l’idea di guardare al futuro da un punto di vista che doveva tenere conto dei miei errori del passato, delle mie condotte illecite. Non sono più un ragazzino. Per la lunga detenzione non ho potuto crescere le mie due figlie, allevate da mia moglie”. La laurea, il riscatto. Il diritto, dove c’era solo violenza. Il futuro, forse. Civitavecchia (Rm). “Fortezza”: quando il carcere è tempo per “guardarti dentro” di Antonella Barone gnewsonline.it, 24 ottobre 2019 “Fortezza”, spettacolo teatrale ispirato al “Deserto dei Tartari” di Dino Buzzati, realizzato con i detenuti della casa di reclusione di Civitavecchia “è divenuto un film perché - spiega la regista Ludovica Andò - sentivo forte la frustrazione di non poter raccontare all’esterno quel miracoloso processo di trasformazione interiore che spesso ho visto attivarsi negli uomini che ho incontrato nei miei laboratori”. Ludovica Andò lavora da molti anni come regista e autrice in contesti di disagio sociale e da dieci negli Istituti penitenziari di Civitavecchia. A dirigere con lei la versione cinematografica di “Fortezza”, proiettata in anteprima oggi nella casa di reclusione di Civitavecchia e in programma il 25 ottobre alla Festa del Cinema di Roma, Emiliano Aiello, regista, ricercatore e autore sensibile alle tante variabili della diversità (è autore Sogno di Omero, viaggio nei sogni dei ciechi dalla nascita). “Ma, in realtà - precisa la regista - coautori sono anche i detenuti perché lo hanno arricchito con i loro contributi. In genere, se si affrontano testi classici in carcere, si cerca un coinvolgimento dei detenuti su argomenti in cui si riconoscono. Quando ho cominciato a lavorare per lo spettacolo teatrale, ho iniziato a portare i grandi temi del libro, come il tempo, l’abitudine, gli spazi. Temevo che il testo fosse un po’ ostico, invece ho riscontrato subito una grande adesione”. Nella scrittura della sceneggiatura sono stati coinvolti tutti gli ottanta detenuti presenti nell’istituto mentre dieci sono gli interpreti. Protagonista del capolavoro di Buzzati, Drago è interpretato da tre personaggi, ognuno con un percorso proprio: la prospettiva del nemico, l’ostacolo della burocrazia, il disagio mentale. Quanto alla location, la casa di reclusione di Civitavecchia, con i suoi passaggi, i cortili e i camminamenti, racchiusi tra imponenti mura ottocentesche che si affacciano sull’area portuale è stata l’interprete ideale della Fortezza Bastiani. Il tempo è uno dei temi più sentiti nel film: “un tempo che da vuoto può acquisire un senso” come dice Marco, uno dei protagonisti, nel monologo che chiude lo spettacolo e che, non a caso, è stato scelto per iniziare il film: “Qui il tempo non corre. Qui il tempo è spazio per te stesso, per guardarti dentro…”. “Un altro tema interessante emerso è quello della recidiva - aggiunge Ludovica Andò - C’è un momento del libro di Buzzati in cui Drago va in licenza ma si sente ormai estraneo alla sua vita precedente e torna prima alla Fortezza perché attratto dai suoi ritmi immutabili. È un episodio assimilato alla storia vera di un detenuto che racconta le difficoltà del riadattamento a un contesto esterno e l’attrazione per un’istituzione protettiva con le sue regole e abitudini radicate”. Prodotto da Compagnia Addentro/Associazione Sangue Giusto in collaborazione con CPA - Uniroma 3 e il supporto della Regione Lazio, il film è stato realizzato grazie a una virtuosa collaborazione tra i vari partner, ognuno dei quali ha messo a disposizione, a seconda dei propri mezzi, risorse umane, tecniche o economiche. “Tra i vari sostenitori - sottolinea Ludovica Andò - l’ASL 4 che ha così riconosciuto il ruolo importante in termini di prevenzione e trattamento del disagio svolto dalla nostra associazione con progetti destinati a detenuti in osservazione psichiatrica”. Lanciano (Ch). La coppa Disciplina alla squadra dei detenuti di Andrea Rapino Il Centro, 24 ottobre 2019 Calcio a 5 serie D, la Libertas Stanazzo di Lanciano vince il premio fair play per la seconda volta. Una festa speciale per una vittoria speciale: la Libertas Stanazzo, la squadra dei reclusi del carcere di Lanciano che partecipa al campionato di serie D di calcio a 5, ha vinto la seconda coppa disciplina in cinque anni di attività. Dopo la consegna nella cerimonia ufficiale a Chieti, lunedì scorso i vertici della Figc abruzzese hanno voluto celebrare il riconoscimento anche nell’istituto di pena, con i detenuti-calciatori e il loro allenatore Vittorio Di Meco, i dirigenti del club, cioè la direttrice dell’istituto di pena Lucia Avantaggiato e il responsabile del progetto Enrico Capitelli, e gli “accompagnatori”, ovvero gli agenti di polizia penitenziaria. “Mettiamoci in gioco” è il nome del progetto avviato nel giugno 2014, con l’allestimento di un campetto (col tempo migliorato) dentro il carcere e le prime selezioni tra i detenuti. Alla prima partecipazione la Libertas, composta in buona parte da campani e calabresi, è arrivata penultima ma terza nella coppa Disciplina. Nel 2015-16 ha vinto la prima coppa disciplina. Negli ultimi due anni poi sono migliorati anche i risultati sportivi, con un quarto e un quinto posto nella stagione regolare, una semifinale play off, oltre al secondo riconoscimento come squadra più corretta. Per consegnare il premio sono entrati in carcere il presidente della Figc Abruzzo Daniele Ortolano, il vicepresidente vicario Ezio Memmo, il responsabile regionale del calcio a 5 Salvatore Vittorio e il responsabile nazionale Sandro Di Berardino, Daniele Martone della delegazione Figc di Vasto che cura l’organizzazione del girone, e Ivan Geniola, che per la delegazione vastese assiste la Libertas nelle questioni logistiche e burocratiche. A detenuti e direttrice, insieme alla coppa, è stato affidato anche il pallone d’oro come miglior progetto sociale, uno dei riconoscimenti ideati per i 60 anni della Lnd presieduta da Cosimo Sibilia. Ai nove detenuti ancora in carcere tra quelli che erano in squadra nell’ultimo anno, è andato anche un encomio particolare della direzione del penitenziario, e nell’occasione poi sono stati presentati gli otto “nuovi acquisti” che integrano la rosa per il campionato 2019-2020 che prende il via il 2 novembre. “Dopo tante vittorie nella disciplina, ci auguriamo adesso che arrivi la vittoria del campionato”, ha stuzzicato la direttrice nel suo intervento, “anche se una vera vittoria sarebbe riuscire a giocare almeno una partita fuori dal carcere”. Tutte le gare della Libertas, d’accordo con le altre squadre, vengono infatti ospitate nel penitenziario di Villa Stanazzo. Lunedì nell’istituto di detenzione di Lanciano erano presenti anche delegazioni di altre squadre: Real Casale di Casalbordino, Sant’Eusanio e Torino di Sangro che sono nello stesso girone, e del club di Cerchio presieduto da Gianluca D’Amore, che gioca invece nel girone aquilano di serie D. I cerchiesi hanno conosciuto la Libertas durante la premiazione generale a Chieti, hanno deciso di donargli due divise di gioco, e durante l’anno verranno a Lanciano per un’amichevole. “Sociologia del carcere”, di Francesca Vianello letture.org, 24 ottobre 2019 Prof.ssa Francesca Vianello, lei è autrice del libro “Sociologia del carcere” edito da Carocci: quali prospettive teoriche sono impegnate nell’analisi sociologica dell’istituzione penitenziaria? Il testo presenta in modo introduttivo le principali prospettive che in ambito sociologico si sono confrontate con il tema del carcere. Ogni capitolo si apre con alcune domande a cui le diverse letture hanno tentato di offrire una risposta. Il primo capitolo è dedicato alle analisi proposte dagli storici sociali che hanno voluto cercare una risposta alla domanda: quando e perché nasce il moderno penitenziario? Come ben sottolinea Cohen, se pare esservi un generale consenso sull’epoca storica che vede l’emergere ed il consolidarsi del carcere come lo conosciamo oggi, molto diverse sono le spiegazioni offerte del perché, ovvero in risposta a quali esigenze sociali, il carcere si sia affermato quale risposta al fenomeno criminale. Il secondo capitolo affronta invece un’altra importante domanda: a che cosa serve il carcere, quali sono le sue funzioni? Si tratta della prospettiva sociologico-giuridica che, senza affidarsi alle risposte che la scienza del diritto offre da un punto di vista interno, si confronta con la criticità delle funzioni dichiarate del carcere e con la necessità di indagare anche da un punto di vista sociologico ed empirico i principi fondativi della sanzione detentiva. Il terzo capitolo propone invece una panoramica delle diverse teorie che si sono occupate di descrivere l’organizzazione della vita sociale all’interno del carcere, rispondendo così alla domanda: come si struttura la quotidianità penitenziaria? A che processi vanno incontro gli attori sociali che entrano nell’istituzione totale? Sono temi a cui tengo molto perché introducono l’opportunità di promuovere la ricerca sociologica all’interno degli istituti penitenziari che in Italia si sta sviluppando, con grande ritardo, solo negli ultimi anni. L’ultimo capitolo risponde alla domanda: chi c’è oggi in carcere? Qual è la composizione sociale della popolazione detenuta? Quali sono le criticità con cui le più recenti normative devono confrontarsi? E, infine, a che esigenze le recenti proposte di riforma del carcere non hanno saputo rispondere? Quali sono le origini del carcere e i suoi successivi modelli di sviluppo? Come si diceva, se esiste un consenso sull’epoca in cui, a cavallo tra Settecento e Ottocento, la reclusione diventa il principale strumento sanzionatorio in ambito penale e il vecchio sistema di imprigionamento si trasforma in quello che Beaumont e Tocqueville definiranno il nuovo sistema penitenziario, contrastanti sono invece i tentativi di ricostruzione del perché ciò avvenga. A fini analitici il testo ricostruisce e propone tre letture: la prima, riferibile al modello idealista, presenta il carcere odierno come il punto di arrivo di una storia di riforme aventi come obiettivo l’umanizzazione della pena. Si tratta di un mito fondatore, in Italia riferibile alle teorizzazioni di Beccaria, che ancora oggi legge il consolidarsi del penitenziario come il risultato di un processo evolutivo in campo culturale, del progresso scientifico e dell’evolversi delle sensibilità. In tempi più recenti questo modello saluta il potenziamento del trattamento penitenziario e il recente emergere dei diritti dei detenuti come delle conquiste che progressivamente rafforzano il volto umano del carcere. Una lettura diversa dei modelli di sviluppo del carcere pone invece l’accento sulla relazione tra congiuntura economica e forme del penitenziario moderno. Si tratta del modello strutturalista che, a partire dagli studi di Rusche e Kirchheimer ripresi in Italia da Melossi e Pavarini nel testo “Carcere e fabbrica”, propone una spiegazione storico-materialista dei cambiamenti delle pratiche penali. È un modello che, aggiornato, è sostenuto ancora oggi da chi ritiene di dover cercare nell’economia politica di un dato periodo storico gli elementi che fondano l’evoluzione delle pene. Un terzo modello, che nel testo viene definito disciplinare, individua invece le origini della prigione nelle esigenze storicamente determinatesi dell’ordine sociale. In origine l’istituzione carceraria sarebbe deputata alla segregazione e al disciplinamento di quella massa di persone, mobile e senza lavoro, che rappresenta una minaccia per l’emergere del moderno ordine sociale. Di questo modello rimane oggi l’idea, empiricamente discutibile, che il trattamento penitenziario possa “rieducare” il detenuto, ricondurlo alla funzionalità e favorirne il reinserimento sociale. Quali sono i principi fondativi della pena detentiva? Storicamente i principi fondativi della pena detentiva sono rinvenibili nella filosofia retributiva, riconducibile alla scuola classica del diritto penale, e nella filosofia della rieducazione, discendente dalle teorizzazioni della scuola positiva del diritto penale. Le teorie del primo tipo sono conosciute come teorie assolute della pena, nella misura in cui sanciscono un valore della retribuzione in sé, indipendentemente dalla sua utilità sociale. La pena per essere equa dev’essere proporzionale al danno commesso e certa nella sua durata. L’attore sociale immaginato dalla scuola classica è infatti un soggetto razionale, in grado di prevedere i rischi che si assume con il proprio comportamento nel contesto delle norme e delle sanzioni vigenti. Le teorie positiviste invece hanno in mente un attore sociale completamente diverso, influenzato da fattori ambientali e sociali esterni, dalla disponibilità di risorse e opportunità, e tendono a legare la criminalità alla presenza di uno svantaggio sociale: una famiglia “disfunzionale”, l’appartenenza ad una “subcultura”, una condizione di marginalità sociale possono concorrere, in una prospettiva eziologica, a spiegare il comportamento criminale. Da qui discende l’opportunità di mettere a disposizione risorse utili al trattamento e alla rieducazione del condannato e di modulare la pena in risposta al riscontro in termini di comportamento intramurario. Secondo alcuni la funzione rieducativa sarebbe una funzione accessoria della pena, il cui valore assoluto rimarrebbe nella retribuzione del danno provocato dal reato. Nonostante che sia sempre citato a sostegno del fondamento rieducativo della pena detentiva, non aiuta la dicitura dell’articolo 27 della nostra Costituzione che, pur avanzando in modo esplicito l’idea che la pena debba “tendere alla rieducazione del condannato”, non arriva fino a negare legittimità ad una giustificazione meramente retributiva della pena detentiva. In che modo è possibile studiare il carcere come mondo sociale e analizzare le dinamiche della vita detentiva? Da un punto di vista sociologico il carcere può essere studiato come una società particolare, un ambiente morale e sociale unico, al cui interno si possono analizzare, quasi fosse un laboratorio delle relazioni umane, dinamiche sociali utili alla comprensione della società più ampia. A partire dagli interessi che hanno mosso le prime ricerche di sociologia carceraria, interessate alla natura, alle conseguenze e ai limiti dei sistemi di dominio, è possibile guardare al carcere per domandarsi: come si costruisce l’ordine all’interno di un mondo sociale composito e differenziato? Come si gestisce il conflitto? Quali sono i meccanismi della socializzazione alla subcultura carceraria, quali le pratiche dell’oppressione e le possibilità di resistenza (visto che, come notoriamente sostenuto da Foucault, dove c’è potere c’è sempre resistenza)? E ancora: quali sono le conseguenze della diseguaglianza sociale, delle relazioni di potere, della convivenza interculturale? L’idea sottesa all’osservazione etnografica del campo del penitenziario è che il carcere possa costituire un laboratorio all’interno del quale riscontrare in forma cristallizzata dinamiche e tendenze che in forma diluita - e quindi meno immediatamente visibile - sono onnipresenti nella vita sociale. Mi preme dire che perché questa linea di ricerca sia percorribile è assolutamente necessario che la sociologia carceraria si riconosca - e venga riconosciuta - come un ambito autonomo di studio e di ricerca, e abbandoni gli intenti correzionali che definiscono il terreno della cosiddetta “criminologia amministrativa”. Detto più chiaramente, e non intendendo trascurare in alcun modo le possibili implicazioni politiche dei risultati della ricerca sul carcere, va ribadito che compito della sociologia carceraria non è quello di porsi al servizio dell’amministrazione della pena ma, semmai, di promuovere una proficua riflessione sulle sue pratiche e le sue finalità. Qual è la composizione sociale della popolazione detenuta? Nel corso di Sociologia della devianza presento ai miei studenti il carcere come il precipitato delle politiche di criminalizzazione. Dopo aver spiegato che la configurazione del fenomeno criminale è il risultato di processi selettivi (la selezione dei beni degni della tutela rafforzata offerta dalla legge penale, la selezione attuata attraverso le pratiche investigative delle forze dell’ordine e la selezione prodotta dalle attività interpretative dell’autorità giudiziaria) andiamo a vedere qual è la composizione sociale della popolazione detenuta: tendenzialmente, ovunque, povera gente. In Italia la popolazione detenuta è costituita prevalentemente da uomini adulti relativamente giovani (tre quarti della popolazione detenuta ha tra i 25 e i 50 anni) con un limitato livello di istruzione, trascorsi di dispersione scolastica (che a volte vengono recuperati proprio in carcere), di disoccupazione o di precarietà lavorativa. Tra i detenuti italiani, la provenienza regionale vede una netta prevalenza delle regioni più povere del Sud Italia. Si tratta di una popolazione socialmente debole, senza significative risorse personali e di contesto. La situazione è aggravata dalla cospicua presenza di detenuti stranieri, circa un terzo del totale, con punte anche del 50% negli Istituti del Nord. Tale realtà, risultato congiuntamente di condizioni di vita particolarmente precarie e di controlli maggiormente restrittivi nei confronti dei migranti, è riferibile spesso a reati di lieve o media entità e collegabile soprattutto alla rilevanza che per gli stranieri assume la custodia cautelare, non presentandosi per loro quelle condizioni di affidabilità sociale (una casa, un lavoro, un sostegno esterno) che consente agli Italiani di evitare il carcere. Altri fenomeni rilevanti per la composizione della popolazione detenuta sono la tossicodipendenza (sono più di un terzo i detenuti presenti per violazione delle leggi sulla droga) e il disagio mentale. Complessivamente possiamo dire che il carcere si presenta a tutti gli effetti come un contenitore della marginalità sociale. Quali sono le problematiche emergenti sulle condizioni di detenzione e i diritti dei detenuti? Nel 2013 la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) ha condannato il nostro Paese per trattamento inumano e degradante, a causa dello stato deplorevole in cui spesso si trovano a vivere i detenuti. Il problema principale (ma non l’unico) è stato individuato nel sovraffollamento, che oltre a costringere i detenuti in spazi vitali indegni finisce sempre per avere delle ripercussioni sulla disponibilità di risorse materiali e trattamentali all’interno degli Istituti. Negli anni successivi abbiamo assistito ad una serie di interventi legislativi tesi a contenere il fenomeno promuovendo delle alternative al carcere in entrata e un potenziamento delle pene alternative al carcere già esistenti in uscita. Tra il 2015 e il 2016 gli Stati generali dell’Esecuzione penale hanno rappresentato un originale esperimento di riflessione e discussione sul carcere creando importanti aspettative di riforma. In questa sede sono emerse, all’interno dei 18 Tavoli di discussione composti da più di 200 esperti sul territorio nazionale, le principali criticità relative all’urgenza di un potenziamento dell’esecuzione penale esterna e, dentro al carcere, la necessità di una maggior tutela dei diritti dei detenuti. Importanti elaborazioni hanno riguardato i temi della salute, del lavoro e dell’affettività, ma anche le forme della gestione degli istituti e i rapporti con i servizi territoriali. La successiva discussione alla Camera ha portato nel 2017 all’emanazione di una legge delega per la riforma dell’ordinamento penitenziario da realizzarsi entro un anno. Purtroppo, in un clima particolarmente acceso per la prossimità della cadenza elettorale, i decreti attuativi della legge delega hanno saputo tradurre solo in minima parte l’esito delle riflessioni avanzate dagli esperti, con il sacrificio di alcune importanti proposte che avrebbero inciso significativamente sulla qualità della vita detentiva. Francesca Vianello, ricercatrice confermata in Sociologia del diritto, della devianza e del mutamento sociale, insegna Sociologia della devianza presso l’Università di Padova. È direttrice del Master interateneo in Criminologia critica e sicurezza sociale delle Università di Padova e di Bologna. Responsabile scientifico di progetti europei e nazionali sulle condizioni di detenzione, è autrice di numerose pubblicazioni nell’ambito della sociologia del diritto penale e della sociologia carceraria. L’integrazione è una garanzia per gli italiani e i non italiani di Andrea Riccardi Corriere della Sera, 24 ottobre 2019 La condizione fondamentale per la cittadinanza non è il luogo di nascita, ma il ciclo di studi o un corso professionale, condividendo comuni aspirazioni di futuro. La scorsa legislatura si è persa un’occasione: risolvere il problema dei bambini, figli di stranieri, cresciuti in Italia ma senza cittadinanza italiana. Una svista grave di due governi dalla forte presenza del Pd, tanto da far pensare che sia stata voluta. Eppure una proposta c’era, approvata alla Camera e giacente al Senato fino alla fine della XVII legislatura. Non è mai stata calendarizzata, lasciando il campo a un dibattito mal impostato e gridato. Sono stati gli avversari a dare il nome di ius soli al provvedimento per la cittadinanza, considerandolo un’apertura indiscriminata agli stranieri. Lo ius soli è l’acquisizione della cittadinanza da parte dei nati sul territorio dello Stato anche da genitori stranieri. Come negli Stati Uniti, dove la Costituzione concede la cittadinanza ai nati in terra americana. In realtà, la proposta di legge prevedeva tre fattispecie: l’acquisizione della cittadinanza per i nati in Italia da almeno un genitore titolare di diritto di soggiorno permanente; l’acquisizione della cittadinanza da parte di minore straniero (in Italia entro i 12 anni) che avesse frequentato un ciclo scolastico o formativo; l’acquisizione per i giovani arrivati dopo i 12 anni che si sono poi diplomati. Queste ultime due fattispecie sono lo ius culturae, che insiste sulla cultura italiana per ottenere la cittadinanza. Per l’Italia, paese di transito, è molto più appropriato lo ius culturae: un’espressione che avevo lanciato alla fine del 2011 - non a caso - quand’ero ministro dell’integrazione e della cooperazione del governo Monti. Supera gli automatismi dello ius soli e dello ius sanguinis. Valorizza il processo d’integrazione del bambino, figlio di stranieri, nato in Italia o arrivato nel paese. La condizione fondamentale non è il luogo di nascita, ma il ciclo di studi o un corso professionale. Studi, cultura e lingua portano a integrarsi, mentre si condividono comuni aspirazioni di futuro. Corrisponde anche alla storia nazionale, dove sentirsi italiani - ricordava Federico Chabod - è fatto di volontà e cultura, non etnico. Far crescere ragazzi di origine non italiana assieme agli italiani nelle scuole (uno su dieci è non italiano nelle classi), senza riconoscere loro il diritto di acquisire la cittadinanza, significa non avviare il processo d’integrazione. Questi ragazzi fanno gli studi dei loro compagni italiani, ne parlano la lingua, hanno passioni e gusti simili, pensano il futuro in Italia, ma in radice sono diversi: non si pensano come cittadini italiani. È un’ipoteca alla formazione che li segna da giovani, tanto più assurda, quanto è evidente che l’Italia avrà bisogno di loro, come gli imprenditori sanno. È quindi da salutare positivamente la ripresa dell’iter parlamentare della legge sull’acquisizione della cittadinanza da parte dei minori, sotto la forma dello ius culturae. Se approvata, porterà alla cittadinanza 800.000 giovani, che vivono in Italia da anni, di cui 166.000 studenti. La prospettiva è un’integrazione efficace per evitare ghetti e mondi a parte, terreno di scontri etnici e di radicalizzazioni. È una prospettiva che impegna anche i genitori dei ragazzi sulla via dell’integrazione. È questo l’aspetto su cui lavorare, più che fermarci a un dibattito sterile (anche se forse pagante in termini elettorali). L’italiano sa bene, nella vita quotidiana, a causa di un parente anziano o di necessità domestiche, il valore dei lavoratori stranieri. Apprezza il volto “domestico” dell’emigrazione. La paura viene, quando si guarda al fenomeno da fuori come una massa minacciosa. Gli studiosi mostrano come la paura renda la percezione smisurata. L’integrazione è garanzia per tutti, italiani e non italiani. Giustamente, ha dichiarato il presidente della Cei, card. Bassetti: l’integrazione “senza un riconoscimento normativo sarebbe un contenitore vuoto”. Un grande italiano, il presidente Carlo Azeglio Ciampi, cui molto dobbiamo per una rinata narrativa dell’identità nazionale, nel 2004, consegnando il diploma di lingua della Dante Alighieri agli studenti stranieri, auspicò, per chi lavorava in Italia, “il conseguimento della cittadinanza italiana”: “Dovrebbe essere possibile ottenerla in un lasso di tempo inferiore a quello richiesto oggi, ma condizionato ad alcuni fondamentali requisiti”. Prima di tutto - spiegò - la conoscenza certificata della lingua, poi l’adesione ai principi della Costituzione anche attraverso il giuramento. Purtroppo, in quindici anni, il dibattito si è allontanato da questo sano realismo, mentre il tema immigrazione fa emergere le paure che si nascondono nel cuore di una popolazione invecchiata e spaesata. Le grandi trasformazioni degli ultimi due decenni “globali” (tra cui il contatto con gli emigrati) sono avvenute senza preparazione e investimento culturale. Non solo gli immigrati in Italia ma anche gli italiani hanno un grande bisogno d’investimento sulla cultura. Turchia. La tortura dell’isolamento per gli avvocati invisi al regime di Ezio Menzione Il Dubbio, 24 ottobre 2019 Il calvario dei legali rinchiusi nel famigerato carcere di Sliviri. Vado incontro al collega pistoiese Andrea Mitresi di ritorno, come mi racconta, da una Istanbul pavesata di bandiere turche non solo sui luoghi pubblici, ma che sventolano, enormi, anche dai grattacieli di periferia; dove i giocatori di calcio sul campo fanno il saluto militare; dove secondo i sondaggi l’80% dei turchi sarebbe d’accordo con l’aggressione alla Siria, e se si pensa che i curdi sono il 18% della popolazione, significa che tutti i turchi sarebbero consenzienti, per quanto valgono i sondaggi specie da quelle parti e con quel regime. Del resto 6 giorni fa tutto il parlamento ha ratificato l’iniziativa di Erdogan di scendere in guerra, lasciando all’opposizione solo il partito democratico curdo, l’Hdp (11%). Mitresi, che è andato come Osservatore Internazionale dell’Ucpi, è ancora palesemente turbato da quanto ha visto e ascoltato nella missione, la prima per lui. I colleghi turchi e associazioni europee di avvocati avevano convocato un meeting a Istanbul per esaminare la situazione creatasi per la giustizia turca a seguito delle udienze e della sentenza del marzo scorso contro 18 avvocati, di cui 6 in carcere da quasi due anni. Di questo processo il Dubbio ha dato ampiamente conto con dovizia di particolari, raccapriccianti per chi ha a cuore le regole del processo e il diritto di difesa: è inutile raccontarlo di nuovo. “Ma il momento cruciale della missione era la visita nel supercarcere di Silivri da parte degli avvocati stranieri ai colleghi detenuti. Si immagini un po’: un complesso di 9 padiglioni per 23.000 detenuti in una zona ben lontana dalla città. Nel padiglione in cui stanno in isolamento i colleghi ci sono 5.000 detenuti. I colleghi sono in un’ala in cui ci sono gli isolati (su 6, tre in totale isolamento, ma 3 in un’altra cella assieme, ma senza contatti con gli altri detenuti)”, racconta Mitresi, riportando le parole di Selgiuk Kosagacli, il presidente dell’associazione di avvocati Chd, che ha riportato più di 11 anni di pena in primo grado (altri sono arrivati a più di 18). Lo stesso Selgiuk, dopo tanta carcerazione sempre nelle stesse condizioni, ormai si lamenta: “È l’isolamento la tortura maggiore; le strutture carcerarie non sarebbero neanche male; mentre il personale è decisamente ostile nei nostri confronti. Del resto anche la nostra visita si è caratterizzata per un estenuante controllo: tre filtri, anche con analisi dell’iride e del viso, per accedere poi ad uno spazio angusto, dove a malapena sta un tavolo, e dove incontri non più di un detenuto, con le pareti tutte di vetro e le guardie al di là del vetro”. Ma l’incontro, svoltosi lunedì scorso, ha riservato a Mitresi anche una specie di colpo di teatro. Quando ha lasciato il collega detenuto Behic per incontrare Selgiuk, proprio in quel frangente, i militari (che fanno le veci delle guardie penitenziarie a Silivri), hanno notificato a Selgiuk l’esito dell’appello contro la sentenza del marzo scorso. Si aspettava la sentenza da almeno due mesi ed era dubbio se sarebbe stata emessa in pubblica udienza o in camera di consiglio. Data l’importanza del caso e la corposità delle questioni sollevate, sembrava logico che si discutesse in pubblica udienza. Niente affatto. Decisione presa in udienza “camerale”, senza nessuno, e di rigetto di ogni capo di appello con una motivazione di tre paginette che non elenca nemmeno i motivi di gravame, ma semplicemente conferma le condanne “perché prese conformemente alla legge”. “Io ero allibito”, ammette Mitresi “e sono sicuro che l’hanno notificata proprio in quel momento, di fronte anche a me e con altri colleghi stranieri nei paraggi apposta per jattanza, per ribadire che loro possono fare quello che vogliono, che si sentono legibus soluti. Ma Selgiuk ha sorriso e non ha fatto una piega perché, dice, se l’aspettava ed anche il fatto che non motivino sarà elemento che rafforzerà la nostra posizione in Cassazione. Certo, questo significa un’attesa di un altro annetto in carcere”. In carcere, lo si è detto, ci sono 6 colleghi su 18, ma ora rischiano un mandato di carcerazione anche gli altri 12, poiché il merito è definitivo. Soprattutto è definitivo per chi ha preso una condanna inferiore ai 5 anni e, per legge, non può accedere al Supremo Collegio. Ma qui si situa un secondo colpo di scena: il parlamento turco, proprio due giorni fa, ha varato un “pacchetto giustizia” che, per quanto riguarda il penale, consente anche a chi ha riportato condanna inferiore ai 5 anni di ricorrere in Cassazione. “Così vanno le cose in questa Turchia, quando si crede di toccare il fondo, ma proprio il fondo, ecco che un nuovo provvedimento ti dà una boccata di ossigeno”, osserva Mitresi. “Abbiamo incontrato anche il Presidente del Consiglio dell’Ordine di Istanbul (Istanbul Barosu) tutto impettito e incravattato” racconta Mitresi, “e sapendo che è assai vicino alla maggioranza governativa, non mi aspettavo grandi discorsi di solidarietà. Invece, attorno a questo caso anche lui è rimasto assai indignato. “Non mi esprimo e non potrei farlo nel merito della vicenda, ma ciò che è accaduto dal punto di vista processuale e del diritto di difesa, è stato scandaloso. Peccato che i media non abbiano colto questo dato, perché è stato un vero e proprio terremoto per tutta la categoria dei difensori. Meno male che c’è la Cassazione”. Un terremoto, ha proprio detto il Presidente degli avvocati della capitale morale, che non sembrerebbe così sensibile ai problemi di democazia”. Ma, come mi conferma Mitresi, per averglielo detto molti colleghi turchi, la guerra in corso serve - come tutte le guerre - per ricompattare il consenso al governo e non far pensare ai problemi di economia o democrazia interni. Almeno per un po’.