Ergastolo ostativo, la Consulta: “Nessuna relazione con la sentenza europea” di Eleonora Martini Il Manifesto, 23 ottobre 2019 Atteso per oggi il pronunciamento sull’incostituzionalità dell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario. “Più di 300 degli ergastolani ostativi che collaborano con la giustizia sono ancora detenuti, a riprova che non ci sono benefici penitenziari automatici per chi decide di parlare e di aiutare gli investigatori”. È il nodo della questione esaminata dalla Corte costituzionale nell’udienza pubblica di ieri, ed è così che lo affronta l’avvocata Mirna Raschi, tra i difensori dei due ergastolani - Sebastiano Cannizzaro e Pietro Pavone - dai cui ricorsi in Cassazione e al Tribunale di sorveglianza di Perugia è scaturita l’eccezione di illegittimità costituzionale sollevata per l’art. 4-bis della legge 354/1975. È attesa per oggi la sentenza che potrebbe dichiarare incompatibile con gli articoli 3 (principio di ragionevolezza) e 27 (funzione rieducativa della pena) della Costituzione quella norma che preclude qualunque beneficio penitenziario per gli ergastolani ostativi (sono 1250 attualmente) che non collaborano con la giustizia. In questo caso si eliminerebbe l’automatismo di legge e si lascerebbe al magistrato di sorveglianza la decisione, caso per caso. Oppure, come ha spiegato ieri il costituzionalista Marco Ruotolo dalle pagine di questo giornale, la Corte delle leggi potrebbe diversificare l’applicazione del 4 bis, distinguendo gli affiliati alle cosche mafiose da coloro che ne sono estranei pur avendo usato nei loro crimini il metodo mafioso. Anche se nei ricorsi presentati non si menziona il rispetto degli obblighi internazionali, la decisione della Consulta sarà inevitabilmente condizionata in qualche modo dalla recente condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti umani, che ha ritenuto l’ergastolo ostativo un regime che lede la dignità umana. Il giudice relatore Nicolò Zanon però ha premesso che “il tema presenta soltanto una coincidenza temporale, come talora può accadere, con la decisione espressa dalla Corte Ue”. Nel caso specifico, infatti, spiega Zanon, non si tratta di abolire la norma ma di discutere la specifica richiesta di usufruire del permesso premio. Per l’Avvocatura dello Stato l’incostituzionalità va negata: “Non si demolisca una norma che ha sempre funzionato nella lotta alla mafia e al terrorismo - chiedono gli avvocati Marco Corsini e Maurizio Greco - e che costituisce un incentivo alla collaborazione”. Viceversa, per i difensori degli ergastolani la mancata collaborazione non presuppone di per sé il mantenimento del legame con il clan. “È fuori dalla realtà sostenere che non ci sarebbe più alcuna collaborazione - ha fatto poi notare l’avvocato Michele Passione - perché i benefici per chi collabora resterebbero tutti”. Spiegano i difensori che, dopo tanti anni di reclusione, i condannati potrebbero aver subito “un cambiamento fortissimo” eppure non essere ancora disposti, per diverse ragioni, compresa la paura per le ritorsioni verso i propri familiari, a dichiararsi “pentiti”. D’altronde, la stessa Avvocatura dello Stato ha snocciolato le cifre: sarebbero cinque mediamente i familiari sotto protezione per ogni collaboratore di giustizia (in tutto 6 mila). “Il Tribunale di sorveglianza - ha aggiunto l’avvocata Raschi - deve poter valutare le ragioni del silenzio opposto da determinati detenuti. La concessione del permesso premio sarebbe da stimolo a vedere la luce in fondo al tunnel”. Un tunnel che invece alcune associazioni di familiari delle vittime di mafia vorrebbero sapere senza uscita. Nell’udienza pubblica di ieri però la Corte costituzionale ha deciso di rigettare la costituzione in giudizio del Garante nazionale dei detenuti, dell’Unione delle Camere penali, dell’ergastolano Marcello Dell’Anna e dell’associazione radicale Nessuno tocchi Caino. “Basta con i falsi allarmismi - hanno commentato i dirigenti di Nessuno tocchi Caino - La fine della collaborazione con la giustizia come unico criterio di valutazione del ravvedimento non farà altro che restituire ai magistrati di sorveglianza un potere che prima del 1992 avevano e cioè quello di valutare caso per caso, sentita la Procura antimafia, il cambiamento del detenuto e l’attualità o meno della sua pericolosità”. Sergio d’Elia, Rita Bernardini, Maria Brucale ed Elisabetta Zamparutti si sono detti “fiduciosi nei confronti della Corte e anche se non ammessi come terza parte interveniente continueremo a monitorare l’attuazione della sentenza Viola vs Italia. A tal fine abbiamo comunicato al Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa di tenere conto del monitoraggio che Nessuno tocchi Caino condurrà sull’esecuzione della sentenza Edu. Inoltre, abbiamo incardinato la prima azione collettiva di 252 ergastolani ostativi al Comitato Diritti Umani dell’Onu e abbiamo sollevato il problema anche nel processo di Revisione periodica universale nei confronti dell’Italia che sarà discusso a novembre a Ginevra”. Ergastolo ostativo e permessi premio: c’è attesa per la decisione della Corte costituzionale di Francesco Collina giornalettismo.com, 23 ottobre 2019 La Corte costituzionale deciderà oggi sulla costituzionalità o meno dell’ergastolo ostativo. Secondo la Corte di Strasburgo la pena si configura come un “trattamento inumano e degradante”. Per l’avvocatura dello Stato si tratta di una legge che ha sempre funzionato per combattere efficacemente la mafia e il terrorismo. La Corte costituzionale deciderà oggi sulla costituzionalità o meno dell’ergastolo ostativo, pena che non consente la concessione dei benefici penitenziari previsti per tutti i detenuti, salvo che i condannati non decidano di collaborare con la Giustizia. Il giudice costituzionale Nicolò Zanon - relatore del caso - ha ricordato che questa forma di ergastolo duro è stata decisa sopratutto per mafiosi e terroristi e venne introdotta come reazione alla strage di Capaci. Secondo la Corte di Strasburgo - che si è espressa sulla vicenda lo scorso 9 ottobre la pena si configura come un “trattamento inumano e degradante” e per tanto ha imposto alla giurisprudenza italiana di modificare la norma. Il giudice ricostruisce la vicenda: “La corte è chiamata a valutare sui benefici carcerari per chi rifiuta di collaborare con la giustizia” - “Il detenuto che sconta in carcere una condanna all’ergastolo per reati di mafia e che non collabora con la giustizia, può ugualmente avvalersi dei benefici di pena come i permessi premio? Oppure l’ergastolo ostativo ne impedisce il ricorso?” Così il il giudice relatore ha riassunto i termini della disputa precisando, al contempo che “il tema presenta soltanto una coincidenza temporale, come talora può accadere, con la decisione espressa dalla Corte Ue contro l’ergastolo ostativo ma in questo caso - prosegue Zanon - non si tratta di abolire la normativa penale, posta ‘sotto giudizio’ dall’Unione Europea, che lo prevede; ma soltanto di valutare l’applicazione o meno dei benefici carcerari a favore di chi rifiuta di collaborare con la giustizia”. “La richiesta di usufruire del permesso premio viene rigettata con la motivazione che così facendo si negherebbe la condizione di pericolosità sociale, per i legami intrattenuti con la sua associazione mafiosa, dall’ergastolano che non collabora con la giustizia. Chi si oppone alla normativa obietta invece - ha continuato Zanon - che la mancata collaborazione non presuppone di per sé il mantenimento del legame con il clan, in quanto potrebbe derivare da altri fattori, come la paura per la sua incolumità o per quella dei suoi familiari oppure la volontà di non accusare membri della propria famiglia”. Per l’avvocatura dello Stato la norma sui permessi premio ha funzionato contro la lotta alla mafia - Durante l’udienza davanti alla Consulta l’avvocato dello Stato Marco Corsini ha fornito anche il dato inedito sulle cifre in questione: in Italia sono oltre 6mila le persone sotto protezione: mille collaboratori di giustizia e 5mila loro familiari. Cifre, quelle fornite da Corsini, che non collimano con i numeri in possesso della Corte che ha pertanto chiesto al legale di fornire la documentazione in suo possesso per acquisirla. L’avvocatura dello Stato ha quindi perorato l’attuale norma sui permessi premio sostenendo che si tratta di una legge “che ha sempre funzionato contro la lotta alla mafia e al terrorismo e che costituisce al contempo un incentivo alla collaborazione”. Se la norma che impedisce la concessione dei permessi premio venisse cancellata “l’incentivo a collaborare verrebbe diminuito”, hanno sostenuto i due legali, invitando a “non dimenticare le vittime” di reati tanto gravi come quelli legati all’associazionismo mafioso e al terrorismo. Non ci saranno automatismi né permessi premio senza limiti, hanno precisato gli avvocati della difesa - Anche i legali delle parti nel loro intervento hanno citato alcuni numeri. L’avvocato Mina Raschi - difensore dei due ‘ergastolani ostativi’ dai cui ricorsi in Cassazione e al tribunale di sorveglianza di Perugia sono scaturite le questioni di legittimità oggi all’esame dei giudici costituzionali - ha ricordato che attualmente “più di 300 degli ergastolani ostativi che collaborano con la giustizia sono ancora detenuti, a riprova che non ci sono automatismi per coloro che decidono di collaborare”. “È la magistratura di sorveglianza che può comprendere quale sia stato il percorso rieducativo del detenuto - ha ribadito l’avvocato Valerio Vianello Accoretti, difensore dell’ergastolano Sebastiano Cannizzaro - e alla magistratura di sorveglianza quindi va restituita la possibilità di decidere caso per caso. Non vi sarebbero automatismi né un rischio di un accesso incontrollato ai permessi premio”. Sulla stessa linea i difensori dell’ergastolano Pietro Pavone, i cui atti sono stati trasmessi alla Consulta dal tribunale di sorveglianza di Perugia: “Non vi è nessun rischio di automatismo - hanno affermato gli avvocati Mirna Raschi e Michele Passione - né rischi sul 41 bis di cui qualcuno ha parlato in questi giorni. Basti pensare che più di 300 ergastolani ostativi - anche se collaborano con la giustizia - sono ancora detenuti e lo dimostra anche il recente caso di Brusca. Questa Corte ha visitato le carceri e conosce la realtà: l’ipotesi di accrescere le garanzie in un gioco di specchi con la Corte di Strasburgo non è una cessione di sovranità”. Quel doppio binario di lotta alla mafia che va rimodulato di Alberto Cisterna* Guida al Diritto - Sole 24 Ore, 23 ottobre 2019 Per Alberto Cisterna la sentenza Viola contro Italia non punta a scardinare il sistema delle preclusioni sui benefici penitenziari e a favorire la scarcerazione dei boss, impone solo una personalizzazione del trattamento penitenziario che sia rispondente alle effettive ed evidenti esigenze di prevenzione che giustificano le deroghe al principio di rieducazione e proporzionalità della pena nel tempo. Prima il caso Contrada sul concorso esterno (diritto penale), poi la sentenza De Tommaso (misure di prevenzione) adesso l’affaire Viola (ordinamento penitenziario). È del tutto chiaro che le traversine su cui si è costruito il “doppio binario” italiano per il contrasto alle mafie scricchiolano e qualche rotaia mostra preoccupanti crepe. Certo potrebbe imprecarsi alla perfida Strasburgo che, secondo talune vestali, così agisce perché disconosce o addirittura misconosce la piovra italica e i suoi velenosi tentacoli. Oppure si potrebbe immaginare con maggiore realismo (molti dei Paesi che siedono alla Corte europea sono afflitti da legislazioni emergenziali e da fenomeni criminali altrettanto gravi: si pensi al terrorismo in Francia, Belgio, Gran Bretagna, Germania. Spagna ect.) che sia entrata in fibrillazione la capacità delle autorità nazionali di rappresentare in modo convincente la persistente pericolosità delle organizzazioni mafiose e le deroghe che esse dovrebbero imporre alla mitezza e proporzionalità del diritto sanzionatorio in senso lato. Affrontare questo crinale della discussione è sempre scomodo, ma non si può mancare di evidenziare i segnali che provengono dalla Corte costituzionale (le sentenze n. 24 e n. 25 del 2019) e dalla Corte di legittimità (la sentenza n. 27766 del 2017 sul caso Riina che suscitò un nugolo di polemiche) che, sia pure gradualmente, si stando orientando in direzione di un parziale, ma progressivo rientro dal diritto emergenziale imposto dalle efferati stragi del 1992 e del 1993, il biennio dell’attacco feroce di Cosa nostra corleonese allo Stato. Il discorso dovrebbe essere molto più articolato e richiederebbe una molteplicità di approcci (giudiziari, sociologici, mediatici, criminologici per restare ai più rilevanti) tuttavia, schematicamente, possono dirsi alcune cose: a) taluni operatori non riescono proprio a capacitarsi di quali siano gli ostacoli che si frappongono all’espansione planetaria del reato di cui all’articolo 416-bis del Cp invocata in tutte le occasioni; ritengono che tale ritrosia sia il segnale di una incapacità di cogliere il fenomeno e si disperano innanzi alla chiara tiepidezza dei propri interlocutori europei e internazionali; b) la polemica deriva da una sorta di strutturale incomprensione della fattispecie di cui si discute la quale ha quale caposaldo fondamentale non tanto la dimensione associativa (nota nell’ordinamento di Francia molto prima che in Italia), quanto la capacità di intimidazione e la sua idoneità a determinare condizioni di assoggettamento e omertà; c) molti Paesi europei (praticamente tutti, per fortuna) non hanno neppure idea di cosa si stia discutendo poiché non riescono in alcun modo a rinvenire nelle proprie comunità questi segnali velenosi che si sprigionano dalle associazione mafiose autoctone, per cui, dopo aver ascoltato le agitate e, spesso, convulse relazioni italiane, i nostri interlocutori escono ancora più rafforzati nel convincimento di non avere alcuna necessità di approntare norme similari che, obiettivamente, affidano alle autorità di polizia e giudiziaria una grande discrezionalità nell’interpretare le realtà sociali che si ritengono sottoposte al giogo mafioso; d) questo non vuol dire, e quei Paesi certo non lo negano, che le associazioni mafiose e similari non operino all’estero (si pensi solo alla strage di Duisburg del 2007) e che abbiano in altri Stati basi operative, centri di interesse e quant’altro; semplicemente sta a significare che non agiscono altrove come fanno in Italia, ossia non sprigionano alcuna circostante capacità di intimidazione ed è molto ristretto il numero dei soggetti che percepiscono la condizione di omertà e assoggettamento come necessaria per evitare ritorsioni; quando chiedono quali siano i reati commessi all’estero da queste propaggini non hanno mai risposte precise e il solo riciclaggio non allerta più di tanto; e) si potrà obiettare che, fuori dai confini italiani, le altre nazioni sono refrattarie a comprendere le lezioni che didascalicamente vengono loro impartite da anni e anni di missioni, convegni, relazioni e via seguitando nei più svariati consessi oltre che mediaticamente; ma, in effetti, basterebbe leggere con attenzione l’ottima ordinanza del 17 luglio 2019 con cui il Presidente aggiunto della Cassazione ha restituito ex articolo 172 delle disposizioni di attuazione del Cpp alla Prima sezione la questione dell’identificazione e della rilevanza delle stimmate di cui all’articolo 416-bis del Cp per le organizzazioni operanti fuori dai contesti storici di derivazione (le cd. cellule silenti o delocalizzate) - per comprendere quanto il problema sia avvertito anche all’interno della giurisdizione nazionale e quanto suoni decisivo il richiamo a una “capacità intimidatrice effettiva e obiettivamente riscontrabile” nella collettività che questa ordinanza evoca; f) per giunta tutta l’industria culturale (libri, serie televisive, convegni) che si aggira intorno al mondo della lotta alla mafia, con frequenti esagerazioni sanguinolente, parossismi e qualche gratuita atrocità contribuisce, in modo evidente, a ottenere il contrappasso di rassicurare gli osservatori stranieri i quali hanno gioco facile nel non riscontrare in patria analoghi virtuosismi criminali e nel ritenere che si tratti solo di urgenze nazionali da compatire e un po’ da condividere (si veda, in questa main stream la candidatura all’Oscar di un bellissimo film dedicato alla parabola di Tommaso Buscetta). Si potrebbe proseguire nell’enumerazione per parecchio, ma il punto che si intende porre al centro dell’attenzione è che appare molto difficile per le autorità nazionali rappresentare nei consessi internazionali un’emergenza mafiosa per la quale, obiettivamente, sono venuti progressivamente a mancare gli indicatori di maggiore efferatezza (stragi, attentati e via seguitando). Questo, si badi bene, soprattutto grazie all’eccezionale risposta delle forze di polizia e della magistratura, alla predisposizione di strumenti di prevenzione (confisca in primis) e repressione (articoli 4-bis e 41-bis dell’Ordinamento penitenziario) efficaci e a una generale, evidente, rivolta morale del Paese dopo la stagione del 1992-1993. Ma per nazioni che si confrontano con stragi eclatanti (si pensi alla Francia del Bataclan o del lungomare di Nizza e non solo) manca, per fortuna, un termine di riscontro adeguato: come dimenticare la chiusura del Parlamento europeo a Strasburgo nel corso dell’attentato dell’11 dicembre 2018. L’Italia è uno dei Paesi con i minori tassi di delittuosità al mondo, ha un rapporto forze di polizia/cittadini tra i più alti, ha un numero di omicidi annuo incomparabili in proporzione, a esempio, con quello della sola Londra: n. 131 nel 2018, mentre in Italia dal 1° agosto 2018 al 31 luglio 2019 sono stati n. 307 di cui solo 25 attribuiti alla criminalità organizzata, per gli altri spesso si tratta di orrendi femminicidi o di stragi in ambito familiare: n. 145 (fonte: ministero dell’Interno). Parlando delle mafie si usano sempre più spesso terminologie (inabissamento, cellule silenti, mimetizzazione ect.) - invero contraddittorie con i postulati fondamentali dell’articolo 416-bis del Cp tutti orientati verso la visibilità e la riconoscibilità collettiva delle associazioni mafiose (“comunque localmente denominate”) - che mettono in fibrillazione l’applicazione di regimi speciali tutti orientati verso l’emergenza percepita e percepibile. Una metamorfosi che non lascia indifferenti gli osservatori meno coinvolti e più disinteressati i quali percepiscono nel riallineamento dei connotati delle mafie in direzione di forme corruttive, di inclusione sistemica, di nascondimento sociale, di mimetizzazione economica e politica il rischio di una pericolosa espansione della discrezionalità giudiziaria e la dimostrazione che il modello dell’articolo 416-bis del Cp merita oculati e prudenti aggiustamenti, ormai invocati anche in modo autorevole. Tutto questo per rendere un po’ più comprensibile quella che sembra delinearsi come una sorta di progressiva insostenibilità del doppio binario italiano innanzi alla Corte di Strasburgo e non solo. L’ordinanza del Presidente aggiunto del luglio scorso, soprattutto nella parte in cui ricorda la necessità di una “generale percezione” nella collettività dell’agire mafioso, potrebbe avere un rilievo decisivo per dare vigore a questa riflessione o per affossarla definitivamente in una sorta di arroccamento al passato poco incline a correzioni e miglioramenti. In questo scenario in movimento la sentenza Viola contro Italia non può dirsi che punti a scardinare il sistema delle preclusioni sui benefici penitenziari (si veda il contributo di Fiorentin in questo numero) e neppure che voglia favorire la scarcerazione dei boss, impone solo una personalizzazione del trattamento penitenziario che sia rispondente alle effettive ed evidenti esigenze di prevenzione che giustificano le deroghe al principio di rieducazione e proporzionalità della pena nel tempo. È evidente che perché il regime duro di carcerazione possa apparire ragionevole dopo decenni di restrizione è indispensabile che alla magistratura di sorveglianza (presidio della legalità e costituzionalità della pena) siano rappresentate circostanze concrete che impediscano la mitigazione del trattamento o, per la difesa, che la impongano. E, questo, non sempre è agevole. L’ostacolo rappresentato dalla mancata collaborazione di giustizia (l’unica way out alle preclusioni ex articolo 4-bis) dovrebbe essere ora superato dal dictum della Corte di Strasburgo ed è chiaro che non saranno più sufficienti stereotipi e clausole di stile per interdire a vita l’accesso a misure alternative. La rielaborazione del modello mafioso, la rimodulazione dei suoi connotati è appena all’inizio e deve fare i conti con un fronte “conservatore” non sempre disinteressato al mantenimento dello status quo. Un redde rationem, come si è detto, avviato non a caso proprio dalla Cedu, prima che dalla giurisdizione nazionale, e questo sulla scorta di un approccio progressivamente meno contaminato dalla terribile esperienza dall’ultimo decennio del secolo scorso e più attento a valutare, qui e ora, la ragionevolezza dello stato d’eccezione alla luce dei principi convenzionali. Senza riesame periodico la pena perpetua è illegittima per la Cedu di Fabio Fiorentin* Guida al Diritto - Sole 24 Ore, 23 ottobre 2019 Strasburgo ha confermato l’accertamento della violazione da parte dell’Italia dell’articolo 3 della Cedu sotto il profilo della pena dell’ergastolo “ostativo” italiana: l’unica possibilità prevista per gli ergastolani di accedere ai benefici penitenziari, rappresentata dalla collaborazione con la giustizia, non costituisce un correttivo sufficiente. La Corte di Strasburgo, respingendo la richiesta di referral alla Grande Chambre avanzata dal Governo italiano, ha reso definitiva la decisione del 13 giugno scorso sul caso dell’ergastolano “ostativo” Marcello Viola (Viola c./Italy (no. 2) ric. n. 77633/16), chiudendo - dal punto di vista della procedura di violazione europea contestata all’Italia - una vicenda che, toccando uno strumento da molti considerato essenziale per la lotta alla mafia, ha suscitato comprensibilmente vivaci reazioni. La Corte europea dei diritti umani, ha dunque confermato l’accertamento della violazione da parte dell’Italia dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo sotto il profilo che la pena dell’ergastolo “ostativo” italiana, risolvendosi in una pena de iure e de facto “irriducibile” (cioè perpetuamente immodificabile), integra un trattamento contrario alla dignità della persona e al senso di umanità. Da questo punto di vista, i giudici di Strasburgo hanno ritenuto che l’unica possibilità prevista per gli ergastolani di accedere ai benefici penitenziari, rappresentata dalla collaborazione con la giustizia, non costituisca un correttivo sufficiente. Come è noto, il caso portato al vaglio della Corte europea riguardava la situazione di Marcello Viola, condannato all’ergastolo per gravissimi delitti che rendevano tale pena “ostativa” alla concessione di qualunque beneficio penitenziario (salva la liberazione anticipata di 45 giorni a semestre, che tuttavia risultava priva di effetto pratico, non potendo il condannato aspirare a nessuna prospettiva di accesso a misure penitenziarie esterne). Viola, detenuto in carcere ininterrottamente dal 1992, era stato condannato una prima volta a 12 anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso, aggravata dalla qualità di promotore e organizzatore, in un secondo processo era stato condannato alla pena dell’ergastolo, essendo stato ritenuto colpevole altresì dei reati di omicidio, con il riconoscimento delle aggravanti mafiose. La pena perpetua è divenuta definitiva nel 2004. Viola si è sempre proclamato innocente. Tra il 2000 e il 2006, Viola fu sottoposto al regime detentivo speciale di cui all’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario. Nel dicembre 2005, il ministro della Giustizia emise un decreto con cui prorogava tale regime per un ulteriore anno ma, nel marzo del 2006, il Tribunale di sorveglianza, accogliendo il ricorso del detenuto, annullò tale decreto e da quel momento Viola fu ammesso al regime penitenziario ordinario e inserito nel circuito di “alta sicurezza”, avendo dunque espiato 25 anni (di cui 6 al “41-bis”). Nel 2011 e nel 2013, da detenuto, ha formulato domanda di permesso premio, ricevendo una risposta negativa, mentre ha sempre ottenuto la liberazione anticipata. Nel marzo 2015, Viola ha chiesto la liberazione condizionale al Tribunale di sorveglianza, confermando la professione di innocenza, la quale, a suo giudizio, impedisce la utile collaborazione con la giustizia, puntando a una pronuncia incidentale di inesigibilità della medesima. Nell’istanza, il detenuto chiedeva, peraltro, al Tribunale di sorveglianza di sollevare questione di costituzionalità dell’articolo 4-bis, comma 1, dell’ordinamemto penitenziario per contrasto con la funzione rieducativa della pena (articolo 27, comma 3, della Costituzione) e per violazione dell’articolo 3 della Convenzione (assunto quale norma interposta ex articolo 117, comma 1, della Costituzione). Il Tribunale di sorveglianza nel dichiarare inammissibile e infondata la questione di costituzionalità, respingeva l’istanza, ritenendo che la professione di innocenza non avesse rilievo nella fase esecutiva. La Cassazione, adita su ricorso avverso la decisione del Tribunale di sorveglianza, si è pronunciata nel 2016 rigettando il ricorso e ritenendo, anch’essa, di non sollevare la questione di costituzionalità. A questo punto il Viola si rivolge alla Corte Edu, invocando la violazione di quattro articoli della Convenzione: l’articolo 3: non aver collaborato con la giustizia ha comportato il mancato riesame della detenzione, tanto è vero che i giudici non hanno mai motivato nel merito il rigetto della condizionale; l’articolo 5, § 4: la detenzione non è mai stata considerata “lawful” (legittima) sulla base di una valutazione nel merito; l’articolo 6, § 2: il diritto al silenzio è una conseguenza della presunzione di innocenza; l’articolo 8: l’obbligo di collaborare con la giustizia vìola l’integrità morale della persona e la pone in perenne conflitto con la propria coscienza. La Corte di Strasburgo, con la sentenza del 13 giugno scorso, ha accolto il ricorso di Marcello Viola, rispondendo con altrettanti “no” ai quesiti sollevati dal ricorso come punti di contrasto dell’istituto italiano con l’articolo 3 della Cedu: 1) l’ergastolo “ostativo” è una pena de jure e de facto “riducibile” ai sensi dell’articolo 3 della Cedu? 2) l’ordinamento italiano offre al detenuto una concreta prospettiva di liberazione e una possibilità di riesame della detenzione al fine di verificare se essa sia ancora giustificata da punto di vista penologico? 3) la possibilità di ridurre la pena perpetua solo tramite il meccanismo della collaborazione soddisfa i criteri stabiliti dalla giurisprudenza europea? 4) l’ergastolo “ostativo” consente la risocializzazione del condannato? La risposta negativa a tutti i quesiti si fonda essenzialmente sul valore preminente assegnato dalla Convenzione europea alla protezione della dignità umana, tanto più rilevante laddove venga in rilievo la situazione di soggetti sottoposti a detenzione, nei cui confronti è più forte, rispetto agli altri consociati, la limitazione dei diritti soggettivi fondamentali. In questa ottica, la Corte alsaziana attinge alla propria elaborazione che già aveva parametrato al principio in esame la valutazione delle condizioni di detenzione applicate in alcuni Paesi membri, tra cui l’Italia (sentenza Torreggiani c. Italia, Ocalan c. Turchia, Varga c. Ungheria, etc. vedi riquadro). La Corte Edu ha ritenuto che l’unica possibilità di accesso ai benefici penitenziari garantita, nel caso degli ergastolani “ostativi” italiani, soltanto dalla collaborazione con la giustizia di cui all’articolo 58-ter della legge 354/1975, costituisca una limitazione eccessiva alla prospettiva di recupero della libertà per il condannato. 2) l’ordinamento italiano offre al detenuto una concreta prospettiva di liberazione e una possibilità di riesame della detenzione al fine di verificare se essa sia ancora giustificata da punto di vista penologico? 3) la possibilità di ridurre la pena perpetua solo tramite il meccanismo della collaborazione soddisfa i criteri stabiliti dalla giurisprudenza europea? 4) l’ergastolo “ostativo” consente la risocializzazione del condannato? La risposta negativa a tutti i quesiti si fonda essenzialmente sul valore preminente assegnato dalla Convenzione europea alla protezione della dignità umana, tanto più rilevante laddove venga in rilievo la situazione di soggetti sottoposti a detenzione, nei cui confronti è più forte, rispetto agli altri consociati, la limitazione dei diritti soggettivi fondamentali. In questa ottica, la Corte alsaziana attinge alla propria elaborazione che già aveva parametrato al principio in esame la valutazione delle condizioni di detenzione applicate in alcuni Paesi membri, tra cui l’Italia (sentenza Torreggiani c. Italia, Ocalan c. Turchia, Varga c. Ungheria, etc.). L’iter argomentativo seguito dal panel europeo parte dalla premessa che la collaborazione con la giustizia integra una manifestazione significativa di dissociazione con il sodalizio criminale di appartenenza interrogandosi, tuttavia, sullo snodo centrale della questione: “se l’equilibrio tra le finalità di politica criminale e la funzione di risocializzazione della pena non finisca, nella sua applicazione pratica, per limitare eccessivamente la prospettiva di liberazione dell’interessato e la possibilità per quest’ultimo di chiedere il riesame della sua pena”. In altri termini, la Cedu ha preso in esame la legittimità convenzionale della scelta di politica legislativa che ha elevato, nel sistema penitenziario italiano, la collaborazione con la giustizia a indice legale di avvenuto ravvedimento del condannato, cristallizzando su tale assunto una presunzione assoluta di pericolosità del soggetto a meno che quest’ultimo non dimostri vincibile solo per facta concludentia (attraverso, appunto, la collaborazione con la giustizia) il proprio distacco dalla cosca mafiosa. La Corte ha dubitato che la prestazione della collaborazione con la giustizia possa rappresentare, in tutti i casi, una scelta individuale veramente libera e consapevole; per contro, la mancata collaborazione non sempre è indice di pericolosità sociale, dato che il silenzio mantenuto dal condannato potrebbe essere dipeso da valutazioni che nulla hanno a che vedere con la perdurante appartenenza mafiosa (ad esempio, il rischio di ritorsioni che il collaborante affronta per sé e per i propri familiari, la intima convinzione della propria innocenza, il rifiuto di accusare altri, facendo andare in carcere altre persone al posto proprio, il ripudio morale di accusare persone spesso legate all’interessato da stretti rapporti di amicizia o parentela, e così via). Ne deriva, ad avviso dei giudici europei, che non può aversi equazione tra il rifiuto della collaborazione e la diagnosi di persistente collegamento del condannato con i sodali, quantomeno nei termini di una presunzione assoluta e non superabile da parte della valutazione del giudice, neppure nei casi di evidenti progressioni positive nel trattamento penitenziario e addirittura nell’ipotesi di aperta “dissociazione” del soggetto dalla consorteria mafiosa. La Corte europea ha quindi osservato che il sistema penitenziario italiano è impostato su una logica di progressione trattamentale che offre una serie di graduali occasioni di contatto con la società - che vanno dal lavoro all’esterno alla liberazione condizionale, passando attraverso i permessi premio e la semilibertà - ma rileva altresì che tale prospettiva, nel caso di assenza di collaborazione con la giustizia fa scattare una presunzione inconfutabile di pericolosità, che ha come effetto quello di privare il ricorrente di qualsiasi prospettiva realistica di liberazione. Qualsiasi cosa faccia in carcere, infatti, l’ergastolano ostativo vede la sua pena restare immutabile e senza alcuna speranza di cambiamento. Tale situazione indotta dalla sussistenza di una presunzione legale assoluta contrasta con i principi convenzionali (e costituzionali): “una presunzione legale di pericolosità può essere giustificata, in particolare, quando non è assoluta, ma si presta ad essere contraddetta dalla prova contraria” e ciò vale, tanto più - rammenta la Corte Edu - nel caso in cui si prenda in considerazione il principio di cui all’articolo 3 della Cedu, che non ammette accezione alcuna al divieto di tortura e di trattamenti e di pene inumane e degradanti, neppure nelle situazioni più gravi e persino nel caso in cui in gioco ci sia la sopravvivenza stessa dello Stato. L’ergastolo perpetuo e irriducibile, fondato su una presunzione di pericolosità nascente dall’assenza di collaborazione con la giustizia integra pertanto - così hanno statuito i giudici di Strasburgo - una pena de facto irriducibile, non potendo essere riesaminata nel merito, sulla base di altri elementi che possano provare il ravvedimento e la progressione trattamentale del condannato. L’irriducibilità della pena risulta in flagrante contrasto con il principio di tutela della dignità umana protetta dalla Convenzione che “impedisce di privare una persona della libertà con la costrizione senza operare, al contempo, per il suo reinserimento e senza fornirgli una possibilità di recuperare un giorno tale libertà” (Cedu, sentenza Viola c. Italia, § 113). *Magistrato presso il tribunale di sorveglianza di Venezia Il carcere drogato. La denuncia di una ricerca di Franco Corleone Il Manifesto, 23 ottobre 2019 Ieri è stata discussa a Firenze una ricerca sugli effetti della legislazione antidroga sul carcere, condotta in cinque Istituti della Toscana. Dieci anni fa, la Fondazione Michelucci e l’associazione Forum Droghe condussero con il patrocinio della Regione Toscana una ricerca nelle carceri toscane per conoscere più a fondo il peso della legislazione antidroga, e in particolare il peso dei reati minori di droga (l’art. 73 sulla detenzione e il piccolo spaccio), pubblicata con il titolo “Lotta alla droga. I danno collaterali”. Il risultato fu clamoroso: da un’indagine in profondità emerse che quasi la metà dei detenuti per violazione della legge sulla droga era rinchiusa per reati di lieve entità. Emerse anche che le previsioni per attenuare la punizione nei casi meno gravi (di “lieve entità”) erano sostanzialmente vanificate dal bilanciamento fra aggravanti e attenuanti. Più grave, l’imputazione generica per l’art.73 permetteva l’arresto e la custodia cautelare, in attesa di verificare nel processo la “lieve entità”. Venne avanzata la richiesta di modificare il comma 5 dell’art. 73, da attenuante a fattispecie autonoma. Per raggiungere questo obiettivo si dovette attendere il 2014; il quadro normativo e l’iter completo si può consultare nel fascicolo “La droga in carcere: fatti e misfatti. Gli approfondimenti del garante”, edito nel novembre 2015. Il risultato della ricerca confermava l’assunto alla base dello studio, cioè la stretta relazione tra la penalizzazione dell’uso di droghe e il sovraffollamento carcerario. Si trattava anche di un primo tentativo di valutazione delle politiche penali e un passo verso un approccio scientifico al tema droga come indicava l’Introduzione di Grazia Zuffa. L’Ufficio del garante ha ritenuto opportuno riprendere dopo tanti anni e dopo le modifiche, seppure parziali, della legislazione l’approfondimento del problema scavando su un punto specifico e cioè il peso del comma 5, relativo ai fatti di lieve entità, negli arresti e nelle condanne e quindi nel carcere. Una ricerca qualitativa che si è rivelata assai difficile. Pesa l’opacità dei dati ufficiali riferiti all’ articolo 73, che compare senza distinzione dei commi 1, 4 e 5 nei documenti delle matricole del carcere e nelle rilevazioni delle cancellerie dei tribunali. Ciò in concreto significa non avere la possibilità di distinguere fra traffico, spaccio di rilevante consistenza, piccolo spaccio, cessione e semplice detenzione. Ci sono altri risultati da segnalare. In primo luogo, si riconfermano le gravi lacune dei dati, anche sui motivi dell’uscita dal carcere che non vengono neppure registrati (perciò si ignora se le persone escano per fine pena, per scadenza dei termini di custodia cautelare o per misure alternative). Inoltre, compare la grave discrepanza tra le norme e la loro applicazione. Troppi casi lievi, relativi al quinto comma dell’art. 73, che non dovrebbero entrare in carcere, subiscono questo destino. Clamoroso è il dato del peso straordinario dei reati di droga sul carcere rispetto ai delitti contro il patrimonio, la persona o la pubblica amministrazione. Ogni due processi per droga vi è una condanna, mentre per i reati contro la persona e contro il patrimonio vi è una condanna ogni dieci processi. Questa piramide rovesciata merita una riflessione. Ancora più clamoroso il dato dell’indagine particolare sulla Corte d’Appello di Firenze: le condanne relative al comma 5 dell’art. 73 sono esplose dal 25% nel 2013 al 49% nel 2017; in cifre assolute da 145 a 943. Una conclusione si impone. La politica deve riprendere il proprio ruolo e procedere a scelte strategiche. In primo luogo rendendo il comma 5 dell’art. 73 del Dpr 309/90 un articolo autonomo. Da questa ricerca si acquisiscono preziosi elementi per un dibattito sulla politica delle droghe fondato su fatti e non su miti. Se il carcere è un freezer che ci restituisce uomini violenti di Cristina Obber letteradonna.it, 23 ottobre 2019 Dovrebbe essere un luogo di rieducazione ma nella realtà è un deposito, che troppo spesso non riabilita. Lo dimostra il caso di Mohamed Safi, che, condannato a 12 anni per un femminicidio, ha tentato di commetterne un altro. Mohamed Safi, 36 anni, a Torino ha cercato di uccidere la fidanzata sgozzandola con il vetro di una bottiglia rotta. L’ha salvata la sciarpa, che ha attutito il taglio. Poco ci importa di come si sono conosciuti e come è scoccata la scintilla, come riporta un giornalismo che si potrebbe definire “noioso” se non stessimo parlando di femminicidio. Ci importa sapere che Safi - che dopo l’aggressione ha tentato il suicidio - stava scontando presso il carcere Le Molinette di Torino una pena di 12 anni per aver ucciso nel 2008 a Bergamo Alessandra Mainolfi, 21 anni, la fidanzata dell’epoca, e che nonostante ciò aveva il permesso di lavorare all’esterno del carcere come cameriere, occupazione che aveva da due anni. Quando lo ha scoperto la sua attuale compagna voleva lasciarlo e per questo lui ha cercato di ucciderla, di compiere un altro femminicidio. Perché questo fanno gli uomini violenti, picchiano, sottomettono, uccidono. Un caso, quello di Torino, che ci ricorda Angelo Izzo, che uccise due donne mentre godeva del regime di semilibertà. E non è il carcere a cambiarli. Soprattutto se ci torni solo a dormire, come una pensione a mezza stella, mentre ti costruisci una vita esterna che ti permette di allacciare nuove relazioni omettendo di raccontare chi sei. Un carcere che secondo la Costituzione dovrebbe essere un luogo di rieducazione ma che nella realtà è un deposito, un “freezer” come lo definisce il criminologo Paolo Giulini del Cipm di Milano che sperimenta da dieci anni trattamenti riparativi in carcere con gli uomini maltrattanti (qui l’intervista che gli avevamo fatto nel 2017). Un freezer che ci restituisce gli uomini violenti così come sono entrati, se non di più, incattiviti da donne che li hanno denunciati o che, secondo la loro visione vittimistica, sono la causa della loro detenzione. La recidiva, ovvero la reiterazione del medesimo reato, è il grande problema che riguarda i femminicidi, i pedofili, gli stupratori, gli autori di violenza domestica. “Mai un atteggiamento aggressivo”, leggiamo di Mohamed Safi. Lo sappiamo. Gli uomini che agiscono violenza contro le donne spesso sono affabili nelle loro relazioni amicali e professionali, e per questo ancor meno riconoscibili. Quando nel 2012, con il Cipm, ho potuto entrare nel carcere di Bollate (MI) per incontrarne alcuni, mi aveva stupito proprio l’aspetto ordinario, l’atteggiamento mite di alcuni di loro. I femminicidi sono sempre insospettabili, ‘brave persone’, ‘stimati professionisti’; gli stupratori dei ‘bravi ragazzi’. In carcere si distinguono per buona condotta, in attesa di un permesso premio. Non abbiamo bisogno di un Codice rosso che stabilisce sei mesi in più di condanna se poi questa condanna, già ridotta a tempi ben più brevi, non serve al criminale per comprendere la gravità di quello che ha fatto, non protegge le sue potenziali vittime future, che in questo caso Mohamed Safi ha potuto incontrare ancor prima di aver scontato la pena. Come non pensare ad Angelo Izzo, che mentre scontava un ergastolo per un crimine atroce come il massacro del Circeo (nel 1975 con due amici stuprò e torturò per due giorni Rosaria Lopez e Donatella Colasanti; la prima morì mentre la seconda si salvò fingendosi morta) si vide concedere il regime di semilibertà. Dopo soli sei mesi uccise la moglie e la figlia di un compagno di carcere, la ragazza aveva solo 14 anni e fu trovata nuda, con le mani legate dietro la schiena, lo scotch sulla bocca. Entrambe le donne morirono per asfissia dentro due sacchi di plastica. Un altro crimine disumano per un detenuto che qualcuno, concedendogli dei benefici, avrà definito meritevole di fiducia. Morti che pesano sulla coscienza di un Paese intero, di un sistema giustizia che non considera la violenza contro le donne per ciò che è, un crimine dalle radici culturali profonde, che come tale va affrontato. In un recente incontro alla Casa dei diritti di Milano proprio il dottor Giulini (per il quale il Codice rosso “sembra avere meno incidenza pratica di quanto invece sia una suggestione mediatica) ha sottolineato come sia necessario agire “con una concezione clinica criminologica di intervento, con la consapevolezza che non si argina la potenzialità distruttuva di un uomo - con problematiche che non sono di tipo psico-patologico, ma di tipo multifattoriale e culturale -, con qualche colloquio con lo psicologo”. “Ci vuole una scossa”, ha detto, “e la scossa la dà un contesto operativo che si muove con un sistema, ed è questo sistema operativo che va costruito”. Ha ricordato che il modello milanese di presidio criminologico territoriale è unico in Europa e la sua efficacia è comprovata dalla bassissima recidiva. Carceri. Il legislatore dovrebbe fermare il libero arbitrio dei giudici di Bruno Ferraro* Libero, 23 ottobre 2019 Il sistema carcerario e la stessa funzione della pena in carcere sono tra gli argomenti più discussi, sia nell’immaginario collettivo sia nelle analisi di studiosi e giuristi. Sussistono pregiudizi di ogni genere in ordine ad un istituto vecchio come il mondo, per il quale la nostra Costituzione stabilisce il principio che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato, preparandolo al ritorno nella società con caratteristiche diverse da quelle che lo hanno portato dietro le sbarre. Alcune situazioni evidenziano il permanere di equivoci su cui è opportuno fare chiarezza. Custodia cautelare. Vigendo il principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza, le ordinanze restrittive del gip su conforme richiesta del pm dovrebbero costituire l’eccezione. La sensazione invece è che se ne faccia un uso eccessivo, con il paradosso della restituzione alla libertà a distanza di pochi giorni e spesso di poche ore, con una sostanziale delegittimazione delle Forze dell’Ordine. Così non va: tocca al legislatore introdurre dei correttivi ed ai giudici di intervenire. Capienza carceraria. Il numero delle carceri in Italia è più che sufficiente. Al netto dei detenuti in custodia preventiva la percentuale di utilizzo sarebbe senz’altro adeguata e sarebbe evitato il fenomeno del sovraffollamento. Quando esistevano ancora le Preture (fino al 1999), ciascuna di esse era dotata di una o più celle destinate agli arrestati ed ai soggetti non pericolosi. Il problema da affrontare è invece quello dei contatti fra i detenuti, per evitare che le carceri si trasformino in scuole del crimine. Minorenni detenuti. Gli Istituti di osservazione ed i reclusori per i minorenni sono sufficienti per numero e qualità del trattamento. I vari servizi vengono assicurati da personale in gran parte preparato e motivato. La permanenza in tali strutture di soggetti che hanno commesso reati prima dei 18 anni evita i rischi di promiscuità con i maggiorenni. Madri detenute. Nel 2018 ha fatto molta impressione il caso di una mamma trentunenne di nazionalità tedesca che a Rebibbia ha scaraventato i due figli nella tromba delle scale provocandone la morte. Al di là del fatto che le madri detenute erano in Italia solo 52 (25 straniere) e che in genere godono di molte attenzioni, quale sarebbe l’alternativa: il diritto a rimanere libere o l’affidamento dei loro figli a famiglie di affidatari? Stranieri detenuti. Costituiscono un problema, sia per il loro numero complessivo, sia per l’entità di coloro che sono in attesa di giudizio (quindi non estradatili), sia per la varietà legislativa dei Paesi di loro provenienza. La permanenza in carcere crea il paradosso di un onere economico a carico dello Stato. Per i condannati la soluzione c’è ed è quella del trasferimento dell’espiazione nei loro Paesi e non nelle nostre carceri, generalmente più generose ed accoglienti. È questo il compito cui dovrebbe attendere il Ministero della Giustizia. *Presidente Aggiunto Onorario Corte di Cassazione Dap e Soroptimist rinnovano l’intesa per le donne detenute di Marco Belli gnewsonline.it, 23 ottobre 2019 È stato rinnovato oggi il Protocollo di Intesa tra Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e Soroptimist International d’Italia, finalizzato alla realizzazione, nell’ambito del Progetto “Si Sostiene”, di percorsi di inclusione destinati alle detenute ristrette nelle sezioni e negli istituti femminili. L’intesa è stata sottoscritta presso la sede del Dap dal Capo del Dipartimento Francesco Basentini e dalla Presidente dell’Associazione Maria Coppola. L’iniziativa progettuale, siglata per la prima volta due anni fa, conferma per una altro biennio la reciproca e fruttuosa collaborazione instaurata, che prevede la promozione di iniziative di sostegno della formazione professionale e dell’attività lavorativa delle donne detenute e ha portato all’attivazione di laboratori specifici, come quelli di gelateria, parrucchiere, sartoria e cucina. Nei primi due anni di attuazione del Protocollo, infatti, il progetto “Si Sostiene” ha promosso 60 iniziative formative in una trentina di sezioni e istituti femminili, arrivando a coinvolgere 340 detenute. Sono stati realizzati corsi per parrucchiera, estetista, pasticciera, sarta, cake design, governante, per la manutenzione del verde e la coltivazione di orti, ed altri 20 stanno per essere avviati. Ventuno sono le detenute che, dopo aver seguito i corsi, hanno fruito di borse-lavoro retribuite. Soroptimist International d’Italia è un’associazione no profit che opera per l’avanzamento della condizione femminile, la promozione dei diritti umani, l’accettazione delle diversità, lo sviluppo e la pace; è rappresentata presso la Commissione Parità del Ministero del Lavoro e presso la Commissione Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri. La sua capillare diffusione sul territorio nazionale conta di 144 club e più di 5.000 iscritte. Già prima della stipula del Protocollo di due anni fa, Soroptimist aveva collaborato con il DAP offrendo un contributo fattivo al miglioramento della condizione delle detenute: presso la Casa di reclusione di Bollate aveva realizzato infatti, a titolo gratuito, una sala lettura al piano terra del reparto femminile, destinata a momenti di condivisione e formazione, ed elaborato il progetto dello spazio ludoteca per i bambini ospiti della sezione nido. Biblioteche, teatro, lettura: le iniziative in carcere a ottobre di Antonella Barone gnewsonline.it, 23 ottobre 2019 Leggere “è custodia dell’interiorità, è un ascolto silenzioso, è fare esperienza del tempo, contro la dissipazione, la distrazione, la spettacolarizzazione”. Sono parole del critico letterario Antonio Lo Prete scelte dagli organizzatori di “Fiato ai libri” per introdurre la XIV edizione del Festival Teatrolettura, in corso a Bergamo dal 5 settembre al 5 novembre 2019. Per il secondo anno la manifestazione, voluta dal Sistema Bibliotecario Provinciale, è entrata nella casa circondariale organizzando una lettura attoriale dei “Promessi Sposi”. Il valore della lettura come mezzo di crescita individuale e cambiamento è al centro di altre iniziative organizzate nel mese di ottobre all’interno di istituti penitenziari. Come #ioleggoperché#, settimana nazionale dedicata alla promozione della lettura (sabato 19 - domenica 27 ottobre) che, nelle tante sedi in cui si svolge, ha inserito il carcere di Piazza Armerina contribuendo alla riapertura della biblioteca. La dotazione di libri è stata arricchita, infatti, di 400 nuovi testi di narrativa, saggistica e lingua straniera, donati da privati e associazioni che hanno aderito alla campagna per l’incremento dei volumi. Una volta terminata la ristrutturazione di alcuni ambienti della struttura, anche la biblioteca sarà ospitata in un nuovo e più ampio locale cui i detenuti potranno accedere per consultare i libri da chiedere in prestito. “Come sa bene chi ama leggere - dice la giornalista Pierelisa Rizzo, volontaria e promotrice dell’iniziativa - un libro va guardato, toccato, sfogliato e solo dopo comprato o preso in prestito”. Potranno consultare libri in ambienti adeguati e accoglienti anche tutti detenuti della casa circondariale di Bari dove domani, 23 ottobre, si inaugurano la biblioteca della Sezione Prima dedicata alla memoria di suor Vincenzina Minenna, volontaria “storica” dell’istituto, scomparsa qualche anno fa, e quella destinata ai ricoverati nell’annesso centro clinico. Si completa così nell’istituto barese quello che è, a tutti gli effetti, un articolato sistema costituito da biblioteche per ogni sezione, scelta che rende più semplice la fruizione dello spazio da parte degli utenti. Il sistema, curato dall’associazione Liberos, sarà presto collegato al catalogo di volumi del dipartimento di Scienze della Formazione, Psicologia e Comunicazione dell’Università di Bari. Colombo: “Da giovane pm credevo nel carcere, ma oggi mi chiedo: a cosa serve?” di Giulia Merlo Il Dubbio, 23 ottobre 2019 Ogni magistrato si interroga sul senso della pena: che la chieda o che irroghi. Gherardo Colombo, ex pm del pool di Mani Pulite, si risponde così: “Da giovane giudice credevo nella funzione educativa del carcere, della punizione. Oggi, dopo aver conosciuto le prigioni e anche molti che vi sono finiti, conosco la distanza immensa tra quanto scritto in Costituzione e la realtà delle cose. E non credo il carcere sia uno strumento giusto”. Eppure in Italia far tintinnare le manette è sempre stata una cifra del legislatore... In alcuni periodi sono stati presi provvedimenti in direzione diversa. Di solito a causa di eventi esterni, però. Penso alla sentenza Torregiani, con la quale la Cedu ci condannò pesantemente per la condizione delle nostre carceri e dunque si presero provvedimenti per prevenire il sovraffollamento. Nel giro di qualche anno, tuttavia, siamo tornati quasi agli stessi numeri. Come mai è così impensabile invertire la rotta? Anche per timori elettorali. Pensi alla riforma dell’ordinamento penitenziario a cui lavorò il ministro Orlando: gli Stati generali dell’esecuzione penale e le tre commissioni di riforma erano arrivate a stendere anche l’articolato, finì tutto praticamente in nulla. Invece le leggi che inaspriscono le pene vengono approvate a furor di popolo, come nel caso del reato di evasione fiscale... E’ vero, ma io credo che la fede salvifica nelle manette non tenga conto della relazione tra lo strumento e le conseguenze che esso produce. Le faccio l’esempio della corruzione: sono anni che si aumentano le pene, ma il fenomeno corruttivo sostanzialmente rimane invariato. E dunque perchè si continuano ad aumentare le pene, se i fatti dimostrano che non serve? Perchè è la strada più semplice, e permette di guadagnare il consenso dell’opinione pubblica. Quel che però non si ottiene, purtroppo, è di mettere a fuoco il problema. Perchè il giustizialismo paga, elettoralmente parlando? Prima facie sembra strano, considerando che a fronte di una maggior richiesta di sicurezza, i reati in Italia continuano a diminuire. E questo, pur con un processo penale disastrato, anche per quel che riguarda l’esecuzione. Lei come se lo spiega? Il carcere rassicura. Da un lato, logicamente, si pensa che le persone in carcere non possono commettere reati (ma si dimentica che la gran parte delle pene è temporanea), e chi ha subito una detenzione non conforme ai principi costituzionali, quando esce torna facilmente a delinquere: la recidiva in Italia è molto alta. Dall’altro, pensare che i colpevoli stanno in carcere ci fa sentire tutti innocenti. Tutti noi abbiamo bisogno di sentirci giusti, e per farlo la strada più semplice consiste nel guardare alle carceri: se i colpevoli stanno in prigione, noi, che stiamo fuori, siamo innocenti. Il problema dunque è trovare un diverso deterrente alla commissione del reato. Quale altro strumento si potrebbe adottare? Prendiamo l’evasione fiscale. Perché gli italiani paghino le tasse, bisognerebbe convincerli che, con quel denaro, le istituzioni garantiscono i loro diritti: l’istruzione, la salute, la libertà personale e così via: non possono esistere diritti se non esistono le risorse per renderli effettivi. Per dire, il diritto all’istruzione esiste solo se esistono i soldi per pagare gli stipendi agli insegnanti. Poi il denaro pubblico andrebbe speso con maggiore oculatezza: in questo modo si toglierebbe un alibi a chi non paga le tasse e si giustifica sostenendo che i suoi soldi vengono sperperati. Questo però non può valere per tutti i reati... Mi limito a una considerazione: nonostante l’impegno e i mezzi messi nelle indagini di Mani pulite, la corruzione è ancora qui. Nonostante l’impegno rilevantissimo nella lotta alla mafia, anche con misure che, a mio parere, talvolta travalicano il dettato della Costituzione come l’ergastolo ostativo, la mafia esiste ancora e sta progressivamente conquistando regioni che ne erano indenni. Allora mi chiedo: vogliamo osservare questi dati di realtà, per tentare una riflessione? La voce della magistratura, invece, rimane ancora molto orientata al carcere... È il loro lavoro, del resto: difficile pensare che chi manda in prigione la gente pensi che non sia utile. Però la invito a considerare che le voci che si fanno sentire di più nel sostenere la necessità del carcere sono poche, ripetitive, spesso di pm, raramente di giudici. Anche lei, quando entrò in magistratura, la pensava così? A diciotto anni mi iscrissi a giurisprudenza per diventare giudice penale (e non pubblico ministero), perché ritenevo che l’inflizione della pena fosse educativa e mi fidavo che quanto si legge nella Costituzione: che le pene non dovessero essere contrarie al senso di umanità, dovessero tendere alla rieducazione, che fosse vietata qualsiasi forma di violenza fisica o psicologica sulle persone recluse. Non solo, entrai in magistratura con la voglia e l’intenzione di contribuire al lavoro della Corte costituzionale (che decide su impulso del giudice) e, conseguentemente, del legislatore per l’adeguamento del nostro sistema penale alla Carta. E poi? Entrai in magistratura nel 1974 e, nei primi tre anni, feci il giudice in dibattimento in una sezione specializzata nei reati di sequestro di persona, che allora erano molto diffusi e nella quale si infliggevano pene spesso non inferiori ai 20 anni. Nonostante credessi che la pena dovesse essere strumento educativo, mi accorsi che facevo molta fatica a infliggere pene. Così chiesi di passare all’ufficio istruzione. Cosa ha imparato in tanti anni e tanti processi? Come le dicevo, credevo che la pena, circondata dalle garanzie costituzionali, fosse educativa. Notavo però che in carcere ci andava quasi esclusivamente la povera gente, quasi mai i ‘ colletti bianchi’. Pensavo che si dovesse riequilibrare la situazione applicando il carcere anche a questi, quando colpevoli. Progressivamente, tramite la lettura, l’approfondimento, la conoscenza delle condizioni concrete del carcere, rendendomi sempre più conto della distanza tra ciò che sta scritto nella Costituzione e quel che succede nella realtà, i dubbi sono diventati sempre più consistenti, ho iniziato a farmi domande per culminare con quella decisiva: è giusto il carcere, è efficace? Specie quando si incomincia a riconoscere come persone coloro che commettono reati. Si diventa garantisti solo quando si viene toccati in prima persona dal sistema penale? La parola non mi piace, come non mi piace giustizialista. Io credo che si diventi “garantisti” quando si iniziano a considerare coloro che hanno commesso un reato esseri umani. Purtroppo la nostra società vive in un equivoco formidabile: la Costituzione è una legge di inclusione sociale, la cultura sta dalla parte dell’esclusione. Quando regola e cultura confliggono, a vincere è quest’ultima. Tanto che, alla fine, il legislatore finisce con il produrre leggi in sintonia con la cultura dominante e quindi in contraddizione con lo spirito della Carta. Si può sciogliere, questo equivoco? Il problema è che alla fin fine si tratta di fede. Parlare di giustizia oggi è come mettere a confronto due tifoserie di calcio, dominate dalla passione ma non propense al dialogo. Questo rende molto difficile lavorare nella direzione giusta. Se dovesse ipotizzare una strada? Le parlavo dei miei anni ad occuparmi di sequestri di persona a scopo di riscatto. Oggi il fenomeno è praticamente scomparso. Non credo che ciò sia dovuto all’aumento delle pene, ma all’introduzione del blocco dei beni, del divieto di pagare il riscatto. Il reato è diventato infruttifero, quindi si è smesso di commetterlo. Bonafede: “I grandi evasori sono parassiti. Il carcere è una svolta culturale” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 23 ottobre 2019 Parla il ministro della Giustizia: “Dagli alleati non temo trappole”. “È una svolta epocale” ripete soddisfatto il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede a proposito del decreto che prevede il carcere per i grandi evasori. “Epocale” è un termine che aveva usato anche per la riforma del processo penale che dovevate approvare insieme alla Lega, e s’è visto com’è andata... “La differenza è evidente, la Lega ha bloccato la riforma, questo governo invece fa norme coraggiose. Io rivendico che dal punto di vista anche solo culturale la norma che prevede pene da 4 a 8 anni per chi evade cifre superiori ai 100.000 euro rappresenti un grande cambiamento. La soglia minima di quattro anni fa sì che non si acceda automaticamente a misure alternative alla detenzione, anche se poi toccherà sempre ai magistrati valutare i singoli casi e decidere”. Il carcere una svolta culturale? “Sì, perché questa riforma è uno dei tasselli della lotta all’evasione fiscale, fra i più importanti. I cittadini devono sapere che lo Stato fa pagare il dovuto a tutti, e ciò consentirà a tutti di pagare meno. I grandi evasori sono parassiti che camminano sulla testa dei cittadini onesti, un fenomeno che non può rimanere impunito. Governo e maggioranza compatti hanno dato un segnale chiarissimo e netto”. Ci sono magistrati che i Cinque Stelle hanno sempre guardato con rispetto e simpatia, come Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita, che ritengono la riforma sostanzialmente inutile: rischia di ingolfare i tribunali con migliaia di nuove inchieste e processi, senza risultati concreti... “Rispetto l’opinione di tutti, ma non condivido questa preoccupazione. Si parla di una soglia minima di 100.000 euro, non di tutte le evasioni fiscali. Secondo l’Agenzia delle Entrate, coloro che evadono oltre quel limite rappresentano l’82,3 per cento delle somme evase nel totale: di fronte a questa situazione è inaccettabile che lo Stato rinunci all’azione penale. Il problema dell’ingolfamento dei tribunali ci sarebbe stato senza la soglia minima, ma così mi pare che non si ponga”. Però, replica Davigo, l’entità dell’evasione si scopre alla fine del procedimento penale, non prima, quindi va fatto comunque... “Ripeto che non si può rinunciare a misure drastiche. E poi ho sentito dire che sarebbe più utile la confisca di fronte alla sproporzione tra redditi dichiarati e beni posseduti; vorrei ricordare che questa misura è contenuta nel decreto: applicheremo la confisca, anche qui, sopra la soglia dei 100.000 euro. È un altro modo per cercare di recuperare le somme sottratte all’erario. Come fa la norma che allarga le responsabilità anche alle società: è paradossale che paghino per tanti illeciti ma non per i più gravi reati tributari di cui si avvantaggiano”. Lei parla di maggioranza compatta, ma avete dovuto superare ostacoli e resistenze politiche, soprattutto da parte del nuovo partito di Renzi. Non teme che possano riproporsi in Parlamento durante la conversione del decreto? “Il decreto è stato votato nei suoi contenuti dopo un’attenta interlocuzione con tutte le forze politiche che sostengono il governo. Ho fatto parlare e ho ascoltato tutti, anche i rappresentanti di Italia viva, e alla fine questo è il testo concordato. È il risultato di un lavoro di squadra, perciò non mi aspetto ripensamenti né trappole in Parlamento”. Ma le divergenze c’erano oppure no? “In materia di giustizia penale è normale che esistano sensibilità diverse, ma poi s’è trovato il punto d’incontro. In ogni caso abbiamo fatto slittare l’entrata in vigore a dopo la conversione in legge, per evitare problemi in caso di modifiche in Parlamento”. Che dunque possono arrivare? “Io penso di no, l’impianto è quello e resterà intatto”. E le tensioni nella maggioranza? I veti incrociati e gli aut aut di Renzi e del Pd nei vostri confronti, e viceversa? Tutto normale? “Se devo giudicare dall’atmosfera che c’era ieri nel vertice di maggioranza e poi in Consiglio dei ministri, le confermo che questa è una maggioranza nella quale si discute e ci si confronta, ma che poi al momento di prendere decisioni anche coraggiose, come quella contenuta nel mio pacchetto, si trova un accordo e si va avanti”. Nel dualismo interno al vostro mondo, tra Giuseppe Conte e Luigi Di Maio, lei con chi si schiera? “Non esiste dualismo, ci sono solo momenti di maggiore o minore convergenza su singoli punti che si risolvono nel giro di 24 ore”. Mentre lei esulta per le manette ai grandi evasori gli avvocati sono in sciopero per l’abolizione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado che entrerà in vigore a gennaio. Perché non concede un nuovo rinvio, in attesa della riforma che dovrebbe snellire i processi? “Perché i cittadini ci chiedono di fare le riforme, non di prendere tempo o rinviarle. Ora si tratta di fare quelle necessarie per dimezzare i tempi dei processi, che la Lega ha bloccato nel precedente governo. Del resto gli effetti del blocco della prescrizione si vedranno non prima del 2024, e riguardano una minima parte dei processi”. Allora mantenere quella data è solo un’impuntatura? “Non è un’impuntatura, è giusto non tornare indietro sulle cose fatte e impegnarsi per farne altre”. Giustizia per l’Italia di Alfredo Bazoli (Deputato del Pd) Il Foglio, 23 ottobre 2019 Perché chiedo al mio partito (e al governo) di combattere contro l’abolizione della prescrizione Il ministro Bonafede ha più. volte richiamato alla necessità di affrontare con coraggio le riforme della giustizia necessarie a velocizzare e snellire i processi. Sono d’accordo con lui, e come lui credo che questa debba essere una priorità del nuovo governo. Non solo, ritengo anche che nei disegni di legge di riforma del processo penale e del processo civile in corso di elaborazione vi siano spunti molto interessanti in quella direzione. Sono pertanto ottimista sul fatto che il nuovo governo possa fare un buon lavoro, e raggiungere risultati significativi nella direzione auspicata. Occorrerà tuttavia fare uno sforzo di sintesi che tenga conto delle diverse sensibilità su tutto il pacchetto di riforme che riguardano la giustizia. E’ ben noto che vi sono nodi sui quali quella sintesi è ancora in costruzione, altri ove è ancora lontana. Mi riferisco alla riforma delle intercettazioni e del Csm, sui quali l’interlocuzione mi sembra avviata in modo positivo, alla separazione delle carriere, su cui non è ancora iniziato un confronto, e alla riforma della prescrizione, su cui invece le posizioni sono ancora decisamente distanti. Sotto quest’ultimo profilo la posizione della Partito democratico è nota. Bloccare la prescrizione dopo il primo grado di giudizio, come Lega e M5s hanno previsto a far data dal 1.1.2020, astrattamente sembra una buona idea, perché appare ingiusto che, una volta iniziato, un processo si estingua per il decorso del tempo, prima che sia stato raggiunto un verdetto definitivo. Ma applicarla nel sistema attuale comporterebbe la conseguenza pressoché certa di allungare ulteriormente la durata già oggi insopportabile dei processi, con grave danno per gli imputati, che si vedrebbero sottoposti al rischio di un processo a vita, e delle vittime, che dovrebbero anch’esse aspettare per un tempo inaccettabile prima di avere giustizia. Questi rischi sono stati denunciati non solo dal Partito democratico ma anche, e direi soprattutto, dall’intero mondo universitario (150 professori di diritto penale hanno scritto un appello al presidente della Repubblica ), dal Csm, dall’Associazione nazionale magistrati, dal procuratore generale presso la Cassazione, dagli avvocati. Insomma da tutto il mondo che ruota attorno alla giurisdizione. Il ministro obietta che quelle critiche non tengono conto delle riforme allo studio, che modificheranno radicalmente la durata dei processi, risolvendo alla radice il problema. Ma perché non aspettare allora che la riforma produca i suoi effetti, prima di fare entrare in vigore una norma così contestata? Spesso poi si ricorda che il nostro è l’unico sistema dove la prescrizione decorre per tutta la durata del processo. Ma si omette sempre di sottolineare che negli altri sistemi giudiziari paragonabili al nostro, ove la prescrizione si blocca quando inizia un procedimento giudiziario, vi sono rimedi e accorgimenti che nemmeno la riforma della giustizia studiata dal ministro prevede, dalla discrezionalità dell’azione penale, che riduce enormemente il carico di lavoro dei tribunali, come in Francia, allo sconto di pena come risarcimento per la durata eccessiva del processo, come in Germania. Allora io credo che per favorire il tempestivo raggiungimento degli obiettivi di governo, e altresì per evitare incidenti di percorso sulla strada della riforma della giustizia, occorra fare un passo in avanti anche su temi come la prescrizione che oggi vedono profonde divisioni interne alla maggioranza (ma una riflessione andrebbe avviata anche sulla separazione delle carriere), studiando e concordando fin da subito i correttivi che possano mettere al riparo dai rischi sopra ricordati. Non si tratta di chiedere a nessuno abiure rispetto ai propri convincimenti, ma di prendere atto del cambio del quadro politico, e di affrontare in modo intelligente e politicamente efficace l’avvio di un nuovo, ambizioso e promettente percorso di riforme. Riforma della prescrizione. E se l’innocente sotto processo fossi tu? camerepenali.it, 23 ottobre 2019 Prescrizione, con la riforma meno garanzie per le vittime di errori giudiziari. Ogni anno, in Italia, circa 1000 innocenti finiscono in carcere. Ciascuno di loro avrà da questa esperienza danni incalcolabili che si protrarranno per anni, se non per sempre: sulla vita privata, gli affetti, la famiglia, il lavoro, la reputazione. Perché spesso le loro vicende processuali si trascinano incredibilmente a lungo, prima di risolversi. Un solo esempio, tra i tantissimi che si potrebbero fare: Vittorio Gallo, arrestato per rapina, 12 mesi di ingiusta detenzione, assolto per non aver commesso il fatto dopo ben 13 anni. Gli errori giudiziari sono insiti in qualunque sistema processuale, è vero. E non saranno mai del tutto eliminabili. Ma i numeri dell’ingiusta detenzione in Italia non sono affatto fisiologici, ma piuttosto il sintomo chiaro di una patologia. Non solo. Oggi i tempi già infinitamente lunghi della nostra giustizia si apprestano a subire un ulteriore allungamento: dal primo gennaio 2020 entrerà in vigore la riforma della prescrizione che vedrà la sostanziale abolizione dell’istituto rendendo, di fatto, i reati imprescrittibili dopo la sentenza di primo grado, tanto di condanna quanto di assoluzione. Nell’assoluta mancanza, nel nostro ordinamento, di istituti che regolino la durata del processo, la prescrizione ha sempre rappresentato uno strumento di civiltà giuridica, in quanto ponendo un limite alla potestà punitiva dello Stato consente di pervenire ad una sentenza in tempi ragionevoli. Sotto la spinta del peggior populismo penale, con la riforma della prescrizione si rompe il patto di civiltà tra Stato e cittadino in nome di una richiesta sempre più pressante di giustizia ad ogni costo. Ma fermatevi un attimo a riflettere: cosa accadrebbe se domani foste voi quegli innocenti che vengono svegliati nel cuore della notte per essere ingiustamente arrestati? Vorreste un processo lungo 30-40 anni per accertare la vostra innocenza o preferireste, piuttosto, un processo che si esaurisca in tempi brevi e vi consenta di riprendere al più presto, e per quanto possibile, la vostra vita familiare e lavorativa? L’errore in cui incorriamo è quello di credere che il processo penale sia qualcosa riservato ai soli delinquenti e che noi, persone oneste, non potremo mai rimanerne invischiati. I dati ci dimostrano, invece, che tutti possiamo essere coinvolti, da innocenti, in un processo penale e, solo quando ci troviamo tra color che son sospesi ci rendiamo conto, con irrimediabile ritardo, che le garanzie processuali non sono inutili ammennicoli e che il processo deve consentire di pervenire in tempi brevi all’accertamento della verità. Le garanzie processuali e la prescrizione, come già ci insegnava Francesco Carrara, sono una tutela per gli onesti, prima ancora che per i colpevoli, perché li proteggono proprio dal cadere vittima di possibili errori giudiziari o, laddove ciò sventuratamente dovesse accadere, consentono loro di vedere riconosciuta la propria innocenza in tempi ragionevoli. Il garantismo, accolto dalla nostra Costituzione nell’art. 111, delineato nel paradigma del giusto processo e della sua ragionevole durata, oggi demonizzato in ragione di una non meglio specificata esigenza di “certezza della condanna” (o variamente, della pena) non è una “mossa” per assicurare ad alcuni l’impunità, ma fonda le sue radici fin dall’epoca illuminista. Anche solo il rischio di vedere condannato un innocente dovrebbe, quindi, spingere il legislatore al progressivo miglioramento degli istituti processuali e del diritto probatorio, al fine di impedire che un innocente possa restare vittima di un errore giudiziario e vi resti invischiato per decenni, in attesa di riuscire a dimostrare la sua innocenza. La nuova normativa sulla prescrizione, senza una strutturale e organica riforma della giustizia e dei tempi del processo, farà sì che i processi si concluderanno a distanza di decenni dai fatti. Quando ormai il colpevole sarà un’altra persona, la vittima non avrà più interesse alla decisione e l’innocente avrà irrimediabilmente visto cadere in frantumi tutta la sua vita. I Responsabili dell’Osservatorio sull’errore giudiziario Ucpi Avv. Alessandra Palma, Dott. Valentino Maimone Il ruolo del magistrato non è “combattere le ingiustizie”, ma “amministrare la giustizia” di Iuri Maria Prado Il Dubbio, 23 ottobre 2019 L’altro giorno, alla presentazione del “Bilancio di responsabilità sociale 2018 degli uffici giudiziari milanesi”, il capo della Procura della Repubblica di Milano, Francesco Greco, ha detto che il suo ufficio è impegnato a combattere il” circolo vizioso” determinato dalla corruzione internazionale, una pratica “che ha sostenuto regimi corrotti e dittatoriali” e “che incide direttamente o indirettamente sulla popolazione dei Paesi coinvolti”. Il fatto che il dottore Greco abbia avuto cura di precisare che in questo impegno combattente la Procura si esercita “nell’ambito delle proprie competenze” non cambia il significato profondo delle sue dichiarazioni: ancora una volta, l’idea che al magistrato stia il compito di rimediare alle ingiustizie sociali. Pericolosissima idea, anche se coltivata in buona fede. Perché non sta in nessun modo al magistrato di rimettere in riga le società corrotte, mentre proprio questo intendimento, l’intendimento di far “giustizia sociale”, significativamente determina l’uso di quel verbo incongruo: “combattere”. Il netturbino che meritoriamente pulisce le strade di una periferia degradata non pensa di combattere l’ingiustizia sociale perché garantisce anche ai poveri il decoro assicurato ai ricchi: e non lo pensa perché non si intesta una missione che non ha. Se lo pensasse, potrebbe peraltro ritenere che per ricondurre a equità la faccenda potrebbe smettere di pulire le vie dei benestanti. E peggio per chi non capisce come l’esempio sia adattissimo a illustrare i pericoli implicati nella convinzione che un processo sia il luogo in cui si celebrano i riti del miglioramento sociale. Il netturbino non “è” pulizia: pulisce, bene o male. E il magistrato non “è” giustizia: la amministra, bene o male. Ma come può amministrarla male, come può accettare di star soggetto alla vigilanza critica di quelli in nome dei quali emette i suoi provvedimenti (cioè i cittadini), come può riconoscere il proprio errore se il suo ruolo è quello di un “combattente”, per soprammercato contro cosucce come i “regimi dittatoriali” e in favore di “intere popolazioni mantenute a livello di povertà”? E per lo stesso tratto si segnalano le dichiarazioni del Procuratore Greco sulle imprese che preferirebbero investire in tangenti anziché in innovazione. Il desiderio che le imprese facciano innovazione è ottimo, ma è un progetto di governo. E torniamo al punto: che fa il magistrato? Combatte l’arretratezza tecnologica? La Corte di Cassazione: “Mondo di Mezzo non è un mafia” di Ivan Cimmarrusti Il Sole 24 Ore, 23 ottobre 2019 Mondo di Mezzo non è una mafia. Così ha deciso la Corte di Cassazione, che ha escluso definitivamente il reato di associazione per delinquere di tipo mafioso per l’organizzazione criminale definita “semplice”, capeggiata da Massimo Carminati e dal suo “braccio imprenditoriale” Salvatore Buzzi. Adesso il processo tornerà alla Corte d’Appello, che dovrà rideterminare le pene alla luce delle disposizioni della VI sezione penale della Cassazione, presieduta da Giorgio Fidelbo. Intanto però si dovrà attendere il deposito delle motivazioni, per comprendere quali siano state le valutazioni della Corte, nel ritenere insussistente l’ipotesi del 416 bis. Il processo - fiore all’occhiello dell’ex procuratore capo Giuseppe Pignatone (oggi presidente del Tribunale vaticano) - si basava sull’ipotesi che a Roma era sorta una mafia “originaria” che teneva sotto scacco il settore degli appalti del Comune di Roma Capitale. Una ricostruzione già smontata dal primo grado, con una sentenza criticata in ambienti giudiziari. È stata la Corte d’Appello di Roma a rimettere le carte in tavola, con una sentenza che aveva invece riconosciuto l’esistenza dell’associazione per delinquere di tipo mafioso. “La Corte di Cassazione ha sigillato in maniera definitiva la nostra versione, perché c’è l’annullamento senza rinvio sulla questione principale della mafia a Roma”, ha commentato l’avvocato Alessandro Diddi, difensore di Buzzi. Inoltre il legale ha aggiunto che “Buzzi su mia indicazione aveva ammesso alcune delle contestazioni. A Roma c’era un sistema marcio e corrotto e la sentenza di primo grado l’ha riconosciuto. La Procura ha provato a sostenere la mafia. La Cassazione ha detto quello che avevamo sostenuto fin dall’inizio”. Per uno dei difensori di Carminati, l’avvocato Cesare Placanica, “per annullare (il capo di imputazione dell’associazione mafiosa, ndr) senza rinvio significa che la Cassazione ha ritenuto la sentenza (di appello, ndr) giuridicamente insostenibile”. Non è spaccio di droga solo in base alla quantità e perché si fugge davanti alla Polizia di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 23 ottobre 2019 Corte di Cassazione - Sezione III - Sentenza 22 ottobre 2019 n. 43262. Non scatta lo spaccio se si tenta di sottrarsi al controllo di polizia con addosso un quantitativo di droga eccedente quella riconosciuto dalla legge come destinato a uso personale. La Cassazione ritorna sulla questione del possesso di droga e la presunzione della destinazione ai fini di spaccio, ribadendo che i giudici di merito non possono ritenerla sussistente in base a uno solo degli elementi sintomatici della “destinazione commerciale” dello stupefacente, come il dato quantitativo. Infatti, con la sentenza n. 43262 depositata ieri la Cassazione spiega che la detenzione di sostanza stupefacente in quantità superiori al parametro ministeriale che individua l’uso personale non basta di per sé a invertire l’onere della prova a carico dell’imputato. Cioè la detenzione di droga oltre la soglia di legge che individua l’uso personale non fa venir meno l’onere del giudice di valutare “globalmente” la ricorrenza dei dati di fatto che l’articolo 73 del Testo unico sulla droga che portano a escludere la destinazione all’uso personale. Il caso concreto - Nell’accogliere le ragioni del ricorrente - che era stato condannato per il reato di spaccio in base alla quantità e alla tentata fuga al momento del controllo di polizia - la Cassazione ribadisce che il giudice non poteva considerare univocamente dirimente l’atteggiamento assunto dall’imputato alla vista degli agenti. Nel caso concreto restavano infatti esclusi tutti gli altri “sintomi” del reato cioè il possesso di banconote di piccolo taglio, la strumentazione per porzionare la droga e soprattutto il possesso della stessa già suddiviso in dosi. Infine, la Cassazione - nel ribadire l’applicazione di tale orientamento rigoroso e di puntuale riscontro dei diversi indizi di un attività di spaccio - fa rilevare che comunque se non è provato il reato la persona che detiene (importa, esporta o acquista) sostanze stupefacenti per consumo personale soggiace comunque a tutto un apparato sanzionatorio di carattere amministrativo, che comporta “grave e inevitabile nocumento per la libertà e per l’onore”. E conclude sottolineando che proprio tale nocumento ha condotto a ritenere applicabile la specifica causa di non punibilità dell’articolo 384 del Codice penale all’acquirente di droga, che venga chiamato a testimoniare. Tenuità del fatto per il rifiuto dell’alcool test di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 23 ottobre 2019 Tribunale di Napoli - Sezione V penale - Sentenza 30 aprile 2019 n. 4893. La causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto è in generale applicabile al reato di rifiuto di sottoporsi all’alcool test. Ai fini del suo riconoscimento occorre valutare se la condotta dell’imputato, che ha portato prima alla necessità di controllo dell’autovettura guidata e poi ad opporsi all’accertamento, abbia messo o meno in pericolo i beni della vita e della integrità personale, tutelati dall’articolo 186 del Codice della Strada. Ad affermarlo è il Tribunale di Napoli con la sentenza n. 4893/2019. Il caso - Protagonista della vicenda è un uomo il quale, mentre era alla guida della sua vettura, veniva inseguito e fermato da una pattuglia dei Carabinieri, i cui agenti si erano insospettiti per via del fatto che l’automobile proveniva da una nota piazza di spaccio del capoluogo partenopeo. A causa del forte stato di agitazione del guidatore, gli agenti provvedevano ad eseguire l’alcool test, senza tuttavia riuscirvi poiché l’uomo per ben tre volte faceva finta di soffiare nel boccaglio e non dava seguito alle istruzioni impartitegli. Di conseguenza, l’uomo veniva rinviato a giudizio per rispondere del reato di rifiuto dell’accertamento, di cui all’articolo 186 commi 3,4 e 5 del Codice della Strada. La decisione - Il Tribunale riconosce che la condotta dell’imputato integra il reato a lui ascritto, ma ne esclude la punibilità ritenendo sussistente la particolare tenuità del fatto. Ebbene, spiega il giudice, ferma la incontestata ricostruzione dell’accaduto, ricorrono tutti i presupposti di applicazione della causa di esclusione della punibilità ex articolo 131-bis cod. pen. Il Tribunale richiama, innanzitutto, la giurisprudenza di legittimità che ha ritenuto in astratto compatibile tale istituto con il reato di rifiuto dell’accertamento, per poi affrontare nello specifico i requisiti della modalità della condotta e dell’esiguità del danno o del pericolo, previsti dalla norma del codice penale. Ebbene, il giudice considera doveroso analizzare “lo sfondo fattuale nel quale la condotta si inscrive”, al fine di valutare il “concreto possibile impatto pregiudizievole rispetto al bene tutelato”. Bene che secondo il Tribunale non può essere la “regolarità della circolazione”, ma deve essere individuato nella “vita e integrità personale”, come dimostrato dal fatto che se il conducente in stato di ebbrezza provoca un incidente stradale, il reato è aggravato. Nello specifico, dunque, in relazione al bene tutelato dalla fattispecie, la condotta non può che essere considerata di particolare tenuità, in quanto l’imputato è stato fermato non per velocità eccessiva o manovra imprudente, ma semplicemente perché proveniente da una piazza di spaccio, ed è stato sottoposto ad alcool test senza che presentasse alcun sintomo di alterazione alcolica, ma solo per via dello stato di agitazione in cui si trovava, “condizione che può trovare spiegazione in cause diverse dall’alcool”. Toscana. Sei anni da Garante dei detenuti, parla Franco Corleone toscanamedianews.it, 23 ottobre 2019 Relazione di fine mandato: “Lascio un cantiere aperto. Fiori all’occhiello: chiusura dell’Opg di Montelupo e il Giardino degli incontri a Sollicciano”. Il garante dei detenuti Franco Corleone ha tenuto oggi una relazione di fine mandato, quando ormai manca poco tempo alla fine del suo lavoro. “Mi appresto a concludere il mio mandato con la consapevolezza che al mio successore lascerò un cantiere aperto, perché le difficoltà in cui si dibatte il sistema carcerario e le questioni da risolvere sono ancora molte. Ma in questi sei anni di lavoro, oltre ad aver affrontato le emergenze e individuato interventi di miglioramento per le condizioni di vita dei detenuti e degli operatori del carcere, il mio ufficio ha conseguito anche due risultati straordinari: la realizzazione del Giardino degli incontri nel carcere di Sollicciano, ultimo progetto di Giovanni Michelucci, e la chiusura dell’Opg di Montelupo Fiorentino”. L’appuntamento di fine mandato si è svolto nella sala Gonfalone del palazzo del Pegaso. “Si chiude il mio mandato - ha aggiunto - ma continuerò a lavorare fino a che non si sarà insediato il mio successore”. “Ho improntato il mio lavoro - ha spiegato Corleone - all’affermazione della cultura del diritto, dei diritti e dei valori sanciti dalla Costituzione”. In quest’ottica “ho mirato a insegnare a tutti, detenuti e operatori degli istituti penitenziari, a non agire con la violenza, ma a ricorrere alle corti nazionali e internazionali”. Molti problemi restano, ha aggiunto, “e s’impone un cambio di passo da parte di tutti: istituzioni, amministrazioni, operatori, volontari; e soprattutto serve che la politica riprenda uno slancio riformatore”. Il richiamo a un intervento riformatore da parte della politica è riemerso con forza anche nel corso della presentazione della ricerca intitolata “Droghe, i danni certi. Trent’anni di leggi punitive, gli effetti nelle carceri toscane”, promossa dall’ufficio del Garante e condotta in collaborazione con la Fondazione Michelucci. Il rapporto, elaborato da Michela Guercia, Saverio Migliori, Katia Poneti e Massimo Urzi, mette in evidenza che in un decennio - nonostante la cancellazione “dalla legge oltremodo punitiva Fini-Giovanardi”, come la definisce Corleone, e il ritorno alla legge Iervolino-Vassalli - il 50 per cento dei detenuti è in carcere per reati di droga. “Ma se si va più nello specifico - sottolinea il Garante - si vede che il 31 per cento dei detenuti è in carcere per reati di droga legati alla lieve entità o di carattere minore, reati per cui non sarebbe prevista la detenzione. Come si vede, gli effetti di una sola legge sono sufficienti a spiegare il fenomeno del sovraffollamento degli istituti penitenziari. Ed evidenzia una volta di più la necessità di riformare una legge che ormai è vecchia di trent’anni”. A commentare i dati della ricerca, che hanno sottolineato “l’opacità di dati” che spesso sono difficilmente desumibili dalle carte e la necessità di affrontare i reati per droga anche e soprattutto nell’ottica non della carcerazione ma delle pene alternative e della “messa alla prova”, sono intervenuti Antonio Fullone, Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria, Filippo Focardi, magistrato della Procura minorile,Patrizia Meringolo, docente dell’Università di Firenze, l’avvocato Luca Maggiora, Susanna Rollino, funzionario di servizio sociale del ministero della Giustizia, Maria Stagnitta, del Forum droghe. In chiusura dell’iniziativa sono intervenuti, per portare i loro saluti, il Difensore civico regionale, Sandro Vannini, e la Garante regionale per l’infanzia, Camilla Bianchi. “I nostri uffici hanno lavorato con una grande sinergia - ha detto Sandro Vannini - e nelle tante situazioni affrontate insieme ho potuto apprezzare il senso delle istituzioni, la capacità di gestire questioni di grande delicatezza, il buon senso e lo spessore umano e culturale di Franco Corleone”. Camilla Bianchi, nominata Garante dell’infanzia nello scorso maggio, si è detta dispiaciuta di aver incontrato Corleone soltanto adesso e ha sottolineato “che il suo bilancio di fine mandato non lascia in eredità solo dei numeri, ma anche riflessioni, suggestioni e emozioni. Quindi è giusto il titolo che ha scelto per il suo commiato:’Il vizio della speranza’, perché non si deve mai rinunciare a operare per la dignità della persona e alla costruzione di un piccolo pezzo di mondo migliore”. Calabria. Il Garante dei diritti dei detenuti Siviglia incontra l’industriale Callipo ildispaccio.it, 23 ottobre 2019 “Dialogo su consolidamento percorsi lavorativi stabili”. “Continua il viaggio nelle carceri calabresi del Garante regionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Agostino Siviglia, al fine di verificare le condizioni strutturali e di vita all’interno degli istituti penitenziari della Regione Calabria, di cui darà una prima restituzione pubblica il prossimo lunedì 28 ottobre, alle ore 10:30, presso la Sala Giuditta Levato, in occasione della presentazione delle “Linee Guida dell’attività istituzionale del Garante Regionale”. Vale la pena, tuttavia, di segnalare fin d’ora - è scritto nella nota stampa del Garante - la preziosa prassi realizzata oramai da quattro anni presso l’istituto penitenziario di Vibo Valentia, visitato nei giorni scorsi dal Garante Siviglia, grazie alla collaborazione dell’Amministrazione Penitenziaria con la famiglia Callipo, ed in particolare grazie all’intuizione di Giacinto Callipo, primogenito di Filippo, che, anche quest’anno, ha assunto, a tempo determinato, sette detenuti del carcere di Vibo, per il confezionamento di 120.000 cassette natalizie contenenti un minimo ed un massimo di conserve di tonno, che vanno rispettivamente da 2 a 20. Certamente, a parere del Garante Regionale, questo tipo di sostegno lavorativo, da parte cioè di una impresa esterna al carcere, costituisce la via maestra per il più efficace trattamento penitenziario rieducativo, fondato, fra l’altro, proprio sul lavoro intramurario. Il Garante Siviglia, pertanto, dopo la visita all’istituto dì Vibo, si è recato presso l’azienda Callipo per incontrare il Giacinto Callipo, al fine di avviare una interlocuzione costante con l’impresa di tonno più nota della Calabria, tesa a rendere permanente questa collaborazione lavorativa dentro il carcere, ma anche in fase post-penitenziaria, vista la disponibilità in tal senso espressa dallo stesso Filippo Callipo. Per vero, l’azienda Callipo ha espresso la propria disponibilità a strutturare e sostenere percorsi lavorativi stabili volti al reinserimento sociale dei detenuti, anche in misura alternativa alla detenzione o ammessi dalla Magistratura di Sorveglianza al lavoro all’esterno. È evidente che il consolidamento di una simile prassi costituirebbe uno snodo cruciale nell’ottica della rieducazione penale e del reinserimento socio-lavorativo delle persone provenienti dai circuiti penali, mediante un’opera esiziale di reinserimento legale nella società, fondata sul lavoro. Va da sé che, soprattutto, alle nostre latitudini, un simile segnale di legalità, costituzionalmente orientato, se accompagnato e consolidato nel tempo, può diventare prorompente - è scritto nella nota dell’ufficio del garante regionale dei detenuti - nell’ottica della riabilitazione penale e della graduale sottrazione delle persone che hanno delinquito dai tentacoli della devianza e della criminalità. E’ bene rammentare, in effetti, che i detenuti selezionati dalla Direzione dell’istituto penitenziario, con l’imprescindibile vaglio della Magistratura di Sorveglianza, per essere contrattualizzati dall’impresa Callipo, devono serbare un comportamento progressivamente orientato alla revisione critica del proprio vissuto, conformandosi ai valori portanti della legalità, oltre che al più scrupoloso rispetto degli impegni lavorativi assunti. In tal senso, un ruolo fondamentale stanno svolgendo le tre dipendenti dell’azienda Callipo che, quotidianamente, varcano i cancelli del carcere di Vibo Valentia per formare i detenuti al lavoro, coordinandone l’attività. Il Garante Siviglia auspica, pertanto, che altri imprenditori calabresi seguano l’esempio dell’azienda Callipo ed in tal senso, l’opera del Garante, conclude Agostino Siviglia, sarà instancabile, al fine di accorciare e qualificare sempre di più le distanze fra il carcere e la società. Perché il carcere non è una società a parte, ma una parte della società”. Parma. Duecento detenuti in più e direttore in uscita, nuovo allarme sul carcere La Repubblica, 23 ottobre 2019 Imminente l’apertura di un nuovo padiglione. I tanti interrogativi e le incertezze che ruotano attorno al carcere di Parma hanno nuovamente occupato il Consiglio comunale di Parma. Il presidente Alessandro Tassi Carboni ha evidenziato le criticità in atto: dall’imminente apertura di un nuovo padiglione che ospiterà 200 detenuti in più (attualmente sono 600), la direzione temporanea e l’ulteriore “segnale di incertezza” a seguito di un bando emanato dall’amministrazione carceraria per la ricerca di un nuovo direttore, segnale implicito che ci sarà un nuovo cambio alla guida a pochi mesi dall’insediamento di Tazio Bianchi. E ancora i disagi espressi più volte dagli agenti di polizia penitenziaria, il cui numero permane inferiore al necessario, le incognite sulla tipologia di detenuti che occuperanno il nuovo padiglione, la mancata previsione di un innalzamento dei fondi statali a favore del penitenziario nonostante l’aumento della popolazione carceraria, la difficoltà a fare partire progetti di lavoro interni come nel caso della lavanderia a cui si erano interessati anche soggetti privati di Parma. “Occorre una direzione stabile e il riconoscimento all’istituto di via Burla di una classificazione superiore, solo in questo modo verrebbero garantite una programmazione e una gestione stabili. Con l’aumento di 200 posti, Parma diventerebbe il primo carcere in regione ma senza con una direzione di livello inferiore rispetto a Bologna”. Le preoccupazioni espresse da Tassi Carboni sono state condivise dai consiglieri comunali. Lorenzo Lavagetto, capogruppo Pd: “Aggiungere oggi altri duecento detenuti (ed in questo senso sottolineo che la qualità della popolazione accolta nel nuovo braccio non è affatto secondaria), raggiungendo così la ragguardevole cifra di circa 800 persone presso il nostro istituto, implica aumentare il rischio di ricadute sul territorio visti i dati statistici. Il carcere attualmente ha in custodia già 200 detenuti in più dei posti per i quali è stato progettato, quindi è già oggi sovraffollato. Conosciamo oggi la propensione di certe forze politiche a voler strumentalizzare il tema sicurezza focalizzandosi sul singolo episodio, senza guardare il sistema generale. È un modo di fare politica che non risolve i problemi, ma probabilmente li aggrava se si considera che poi, la soluzione proposta è spesso solo quella del carcere”. Laura Cavandoli, deputata della Lega, ha detto che il decreto ministeriale di nomina non prevede un passagio “di classe” della struttura a un livello superiore. “Presenterò una interpellanza urgente al ministro Bonafede per affrontare tutte le problematiche. In particolare i 200 detenuti in arrivo, a differenza di quanto era stato annunciato, andranno inseriti come media sicurezza quando il nuovo padiglione era stato previsto per reati più gravi. L’apertura è prevista entro il 31 dicembre”. La funzione pubblica Cgil: “Finalmente anche da parte degli enti locali e non solo emergono voci allarmanti sul tema. Una situazione difficilissima anche in forza all’assenza di un dirigente di nomina stabile da anni e di una nuova eventuale sostituzione della figura attuale; a ciò va aggiunto anche la carenza di figure dirigenziali rispetto al previsto. Quello parmigiano è un istituto che ospita detenuti assai complessi, sicuramente unico nella regione, che non risulta istituto di primo livello superiore; in più il carcere ducale ha una carenza di commissari e sottoufficiali elevatissima, manca poco meno del 90% per questi ultimi; la carenza investe anche l’area trattamentale che è di circa il 50%. Tutto ciò preoccupa non poco questa organizzazione sindacale in previsione dell’arrivo di 200 nuovi detenuti, a fronte di quella odierna di oltre 600, rispetto ad una capienza attuale di circa 450 posti letto. È un dato che deve far riflettere per due motivi. Il primo è di sicurezza interna, perché le criticità all’interno dell’Istituto aumenteranno notevolmente, anche in previsione di risorse ridottissime da destinare a progetti per il 2020, e perché tante problematiche e criticità si sono verificate già nel corso di questo 2019 senza i nuovi 200 detenuti. Il secondo motivo è per le ricadute che si avranno sul territorio. La Fp Cgil chiede che quel padiglione non si apra o che si apra solo quando l’Amministrazione avrà saputo colmare il gap di personale e di risorse che oggi mancano. Non c’è bisogno di incrementare il numero di detenuti, anzi quello attuale necessita di provvedimenti deflattivi per poter lavorare e garantire gli obiettivi che la legge ci chiede. Il personale deve poter lavorare non in emergenza, ma bensì seguendo i binari di una seria programmazione che oggi è assente, grazie alla quale sarebbe possibile garantire il vero benessere a chi opera in condizioni difficilissime”. Monreale (Pa). Detenuti al servizio della comunità: il protocollo tra Comune e carcere monrealepress.it, 23 ottobre 2019 Presso il teatro della Casa Circondariale Pagliarelli Lorusso la stipula del protocollo. I detenuti al servizio della comunità. Si terrà giovedì 24 Ottobre alle ore 10 presso il teatro della Casa Circondariale Palermo Pagliarelli Lorusso, alla presenza di autorità civili e militari, un incontro sul tema dei lavori di pubblica utilità dal titolo “Mi riscatto per il Comune di Monreale, Altofonte e Santa Flavia”, per lo svolgimento di attività riparative dei detenuti a favore della collettività. L’iniziativa prevede l’individuazione, in sinergia con la magistratura di sorveglianza, dei percorsi di riabilitazione e reinserimento sociale, con valenza di riparazione del danno conseguente alla commissione del reato. Saranno impiegate persone in base alle specifiche professionalità e attitudini lavorative e verranno impiegate presso i servizi di pulizia, manutenzione e conservazione del verde pubblico e siti di interesse pubblico del Comune. Nel corso del lavori si procederà alla stipula di un protocollo di intesa tra la Casa Circondariale ed il Comune di Monreale finalizzato alla realizzazione del progetto. Interverranno all’incontro: il Prefetto di Palermo Antonella De Miro, il presidente del tribunale di sorveglianza Giancarlo Trizzino, il sindaco di Monreale Alberto Arcidiacono, il garante dei detenuti per la Regione Sicilia Giovanni Fiandaca, la direttrice del Carcere Pagliarelli di Palermo Francesca Vezzana e il provveditore Regionale dell’amministrazione penitenziaria Cinzia Calandrino. Bari. Firmato Protocollo per i giovani su “Educazione alla legalità e alla Costituzione” La Repubblica, 23 ottobre 2019 Avviare progetti di educazione alla legalità e di conoscenza della Costituzione attraverso un percorso di informazione che diffonda i valori e i principi della democrazia rappresentativa presso gli istituti penali minorili e nelle scuole al fine di consolidare il senso di cittadinanza attiva negli studenti”. È l’obiettivo del protocollo d’intesa sottoscritto nel carcere minorile Fornelli di Bari dal presidente della Camera dei Deputati, Roberto Fico, dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede e dal ministro dell’Istruzione, dell’università e della ricerca, Lorenzo Fioramonti. Il protocollo, che si rinnova dopo la prima firma risalente al settembre 2018, avrà la durata di un anno e consisterà in incontri tra i ragazzi degli istituti penitenziari e studenti delle scuole del territorio attraverso “un programma di sviluppo dell’insegnamento della cittadinanza e della Costituzione”. Il primo incontro è avvenuto già oggi, in occasione della firma, con i due esponenti del Governo e il presidente della Camera che hanno risposto alle domande dei ragazzi, circa 70, su legalità, immigrazione, significato della rappresentanza, dopo aver ricevuto una copia della Costituzione. “Credo sia un protocollo fondamentale - ha detto il presidente Fico - perché dà il senso profondo delle istituzioni all’interno di luoghi e realtà difficili, che devono essere parte integrante del nostro Stato”. Il ministro Bonafede lo ha definito “un progetto meraviglioso”. Vercelli. Recuperare i detenuti per reati sessuali: il carcere ne ha parlato “Oltre il muro” tgvercelli.it, 23 ottobre 2019 La dottoressa Giordano: prima direttrice a Biella, ora a Vercelli. In un momento in cui, di fronte ai reati di natura sessuale, l’opinione pubblica, in larghissima parte, speci sui social, reagisce con la classica frase “cacciateli in prigione e buttate via la chiave”, assume un’importanza davvero rilevante l’iniziativa della Casa circondariale di Vercelli, diretta dalla dottoressa Antonella Giordano, di un progetto di trattamento per il recupero degli autori di reati sessuali, i cosiddetti “sex offenders”, detenuti appunto nel carcere di Billiemme. Perché in ogni caso, pur di fronte a crimini di questa natura, che sconvolgono l’opinione pubblica, non va dimenticato il comma 3 dell’articolo 27 della Costituzione che dice che “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”. Ma c’è di più. La nuova direttrice del carcere di Vercelli ha deciso di dedicare un “Workshop” di sensibilizzazione e di formazione per gli operatori su questo tema e l’ha portato fuori dal carcere, “Oltre il Muro”, realizzandolo l’altra mattina all’Istituto “Santa Maria di Loreto” di piazza D’Angennes, con la collaborazione della Società italiana di Sessuologia clinica e Psicopatologia Sessuale, presieduta dal professor Carlo Rosso. Un workshop aperto ad ospiti qualificati, tra cui diversi operatori volontari, avvocati e magistrati. E, tra le relazioni più attese, appunto quella del magistrato che ha il delicatissimo compito di esaminare le istanze dei benefici penitenziari anche per gli autori di questo tipo di reati: il giudice di Sorveglianza dottoressa Sandra Del Piccolo. Importante il saluto della direttrice del carcere, che ha spiegato le finalità del progetto di recupero, finanziato dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Vercelli, e illustrato il perché della scelta di far svolgere il dibattito al di fuori della Casa circondariale. “Ringrazio - ha detto la dottoressa Giordano - per aver riscontrato in tanti l’invito a partecipare alla giornata formativa sugli autori di reato sessuale. E’ un evento che conclude il progetto di trattamento svolto nella sezione destinata ai sex offenders del carcere di vercelli. Il progetto ha potuto aver luogo grazie al finanziamento ricevuto dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Vercelli, che da anni riserva al carcere di Vercelli un’ attenzione particolare, finanziando iniziative trattamentali importanti, una per gli autori di reato sessuale, l’altra a sostegno delle madri detenute, che altrimenti non potrebbero avere luogo”. “Le precedenti edizioni di questa iniziativa formativa - ha proseguito lunedì mattina la direttrice del carcere - hanno avuto luogo all’interno della casa circondariale, questa odierna ci vede ospiti delle Suore di Santa Maria di Loreto. Si concretizza cosi il mio desiderio di portare fuori dall’istituto, in un contesto peraltro indubbiamente più accogliente, questo nostro appuntamento. Perché se è vero che l’attività oggetto del progetto si svolge per lo più all’interno del carcere ed e’ rivolta al superamento delle condizioni personali che in ogni autore di reato sessuale hanno favorito o determinato la messa in atto di una condotta d’abuso penalmente rilevante, è anche vero che il riverbero positivo degli effetti degli interventi previsti dal progetto si estrinseca e misura all’esterno, quando il detenuto sarà rientrato nel tessuto sociale avendo acquisito consapevolezza delle proprie fragilità e limiti e attrezzato a sapersi preservare da atteggiamenti o condotte in grado di riportarlo in carcere”. Ma il il riverbero positivo - ha aggiunto la dottoressa Giordano - si misura all’esterno anche in termini di sicurezza sociale….ad ogni autore di reato recuperato corrisponde sicuramente una o più potenziali vittime in meno, e se tutte le potenziali vittime di ogni tipo di reato meritano tutela preventiva, ancor più questo vale per i reati sessuali, in cui le vittime d’ abuso sono spesso soggetti di minore età, o comunque soggetti adulti in condizione di minorata difesa”- Poi la direttrice del carcere ha spiegato perché l’evento è stato organizzato proprio con le suore di Loreto. “La scelta dell’istituto - ha affermato. non e’ stata casuale. Nel momento in cui ho osato chiedere alla Madre Superiora la disponibilità ad ospitare l’evento, ero convinta di ottenere riscontro positivo perché l’istituto delle Suore di Loreto ha alle spalle una antica e solida collaborazione con la Casa Circondariale di Vercelli. In particolare, suor Rosangela Brioschi e’ una assistente volontaria decana dell’istituto e svolge la sua missione soprattutto a favore dei detenuti autori di reato sessuale, seguendoli senza pregiudizio nei bisogni di sostegno materiale, di catechesi e di ascolto. Per alcuni di essi l’attività di sostegno interna all’istituto si trasforma in accoglienza presso questa casa in occasione dei permessi premio, in cui i detenuti, spesso raggiunti dai famigliari, trovano accoglienza e calore umano come in casa propria. Si tratta di soggetti impossibilitati per vari motivi a utilizzare una risorsa allocativa personale e che pertanto non potrebbero sperimentarsi in una importante tappa del percorso di reinserimento, come appunto quella del permesso premio, se venisse a mancare la disponibilità di questo istituto all’accoglienza. Per questo ringrazio Suor Rosangela e le suore tutte”. Hanno successivamente parlato la dottoressa Del Piccolo e il professor Rosso, che ha trattato la “caratterizzazione degli autori di reati sessuali”. Quindi, il programma di trattamento e la ricerca di soluzioni sempre più efficaci per rispettare appunto l’articolo 27 della Costituzione sono stati esposti dalla dottoressa Maura Garombo, dalla dottoressa Antonella Contarino, dalla dottoressa Sonia Gamalero e dal dottor Fredrick Bordino. E’ seguito un interessante e approfondito dibattuto. Cagliari. Studenti e detenuti si incontrano in due mostre all’Università vistanet.it, 23 ottobre 2019 “In/out. Percorsi di prigionia e di libertà”: inaugurate due mostre alla cittadella dei musei. Una è realizzata dagli studenti dell’Università di Cagliari, l’altra propone l’interazione tra detenuti e un gruppo di artisti. Fino a domani, in una conferenza internazionale, i ricercatori dell’ateneo indagano sui più delicati temi sociali, dalla privazione della libertà alla segregazione, dall’esclusione all’inclusione. Sono state inaugurate ieri pomeriggio alla Cittadella dei Musei di Cagliari due delle tre mostre collegate alla conferenza internazionale “In/OUT. Percorsi di prigionia e di libertà”, che prosegue oggi e domani nell’Aula Motzo della Facoltà di Studi umanistici dell’Università del capoluogo sardo. La serata ha visto la partecipazione tra gli altri dell’artista cagliaritano Joe Perrino, che - a margine dell’inaugurazione - ha proposto nel suggestivo spazio della Cittadella alcuni dei suoi brani più famosi. La prima esposizione è una mostra fotografica - dal titolo “In/Out. Immagini di prigionia e libertà” - realizzata dagli studenti che frequentano i corsi di laurea triennale in Beni culturali e spettacolo e magistrale in Storia dell’arte dell’Università degli Studi di Cagliari con la collaborazione nella fase di ideazione di Luisa Siddi e Paola Corrias (dell’associazione culturale S’Umbra). L’eterogeneità dei soggetti proposti testimonia differenti declinazioni della complessità del tema, spaziando da una dimensione soggettiva e individuale a contestualizzazioni sociali e culturali più ampie. La mostra può essere visitata fino a mercoledì 30 ottobre nella Sala delle Mostre temporanee della Cittadella dei Musei. La seconda esposizione, “Airswap & Massama: a book”, visibile fino a domani nello stesso spazio della Sala delle Mostre temporanee, è un progetto pilota di arte relazionale nelle carceri ideato da Arianna Callegaro, in collaborazione con Gianvito Distefano, e curata nella sua installazione cagliaritana da Simona Campus. Il contemporaneo artistico si inserisce nella realtà carceraria, attraverso la creazione di vestiti modificati, scommettendo sull’energia di condivisione e di sperimentazione, individuando uno spazio in cui si cercano alternative e comunanze, superando la linea che separa dalla comunità. Alla Cittadella sono esposti alcuni vestiti modificati dalle interazioni di alcuni artisti con i detenuti e una selezione della documentazione fotografica dei vari momenti di realizzazione. “Airswap coinvolge artisti contemporanei e fruitori in un reciproco scambio - scrivono gli autori - proponendo il concetto di dono come filo conduttore per una riflessione sulla pratica artistica. Oggetto del dono sono i capi d’abbigliamento, diventati, attraverso le mani degli artisti che li hanno modificati - ciascuno secondo la propria tecnica e sensibilità -un’opera d’arte. A quest’opera, i detenuti del carcere di Oristano hanno aggiunto un livello ulteriore, completandola con una parola scritta su una menda di tessuto poi cucita sul capo. Ne sono nate inaspettate connessioni tra gli artisti e i detenuti, testimoniate anche da scritti e corrispondenze”. La conferenza internazionale prosegue nell’Aula magna Motzo della Facoltà di Studi umanistici a Sa Duchessa, oggi, con la sessione coordinata da Marco Giuman e Marina Guglielmi, mentre domani coordinatori dei lavori saranno Andrea Cannas e Claudia Ortu. L’iniziativa è organizzata dai Dipartimenti di Lettere, lingue e beni culturali e di Pedagogia, Psicologia e Filosofia di UniCa in collaborazione con l’Università di Paris Nanterre e la Rivista di Studi interculturali Medea. Cannabis terapeutica, l’appello di un malato di artrite reumatoide La Repubblica, 23 ottobre 2019 “Rischio il carcere per curarmi”. Tutto comincia alcune settimane fa. Walter usa la cannabis per combattere i dolori provocati dalla malattia: non gli basta il grammo al giorno che gli ha prescritto il medico e per questo ne prende altra, che viene coltivata nel giardino di casa sua. “È l’unica sostanza che funziona davvero su di me, però ho bisogno anche di due o tre grammi al giorno”, racconta. A inizio ottobre i carabinieri sono arrivati a casa sua, a Ripa di Olmo in provincia di Arezzo e hanno arrestato un suo amico che stava annaffiando 12 piante in giardino. Lo stesso amico era stato visto altre volte fare la stessa cosa nei mesi precedenti. Per questo i militari sono intervenuti. In un anesso di quello spazio verde sono stati trovati 800 grammi di sostanza e invece a casa dell’amico c’erano un bilancino di precisione e alcuni grammi di marijuana. L’uomo, che ha raccontato al giudice di non aver piantato la cannabis e di aiutare Walter a consumarla, visto che praticamente non riesce a muoversi, è stato subito scarcerato. A novembre si svolgerà l’udienza del processo per direttissima. Lo scorso 11 ottobre il legale che segue il malato ha scoperto che anche il suo assistito è stato indagato dalla procura. “Da almeno 10 anni il medico mi ha prescritto la cannabis - racconta Walter - Non uso solo quella, prendo anche il cortisone e mi metto un cerotto di Fentanyl “. Si tratta di un potente antidolorifico, che negli Stati Uniti nella versione in compresse (con dosaggi molto più alti) ha creato gravissimi problemi di dipendenza a migliaia di persone. “A me ormai fa ben poco effetto - prosegue De Benedetto - Mi funziona la cannabis ma a dosaggi alti. La consumo ad esempio facendo l’olio o usandola nell’impasto di dolci”. Sono gli amici ad aiutarlo nell’assunzione, sostiene e adesso anche nella coltivazione. Per questo ha fatto un appello per la persona che è stata arrestata, il suo amico Marco, dicendo che gli stava soltanto dando una mano. A Walter era già capitato di essere denunciato perché sempre per lenire i dolori dell’artrite reumatoide aveva in casa un etto di marijuana ma è stato assolto perché ha dimostrato che si trattava di una sostanza per uso personale. Dalla parte di Walter si sono schierati in molti (e tra questi anche Adriano Sofri) tra coloro che ritengono necessario dare la possibilità ai malati di coltivare a casa la cannabis di cui hanno bisogno. Per la legge invece la marijuana terapeutica deve essere prescritta da un medico, consegnata dalla Asl e soprattutto prodotta o acquistata all’estero, dallo Stato. A Firenze lo Stabilimento farmaceutico militare coltiva la canapa per uso medico e proprio quest’anno sta realizzando nuove serre per aumentare la quantità di sostanza messa a disposizione dei malati. La domanda infatti è in crescita e l’Italia è costretta ad acquistare all’estero, in particolare in Olanda, la cannabis. Secondo le linee guida dettate dal ministero della Salute, sulla base di studi e pratica clinica, questa sostanza non può essere considerata di prima scelta nella lotta al dolore e alla spasticità muscolare e per le altre indicazioni, ma deve essere prescritta dopo aver tentato altre strade farmacologiche. Gli specialisti spiegano che la sua efficacia varia da paziente a paziente, nel senso che ce ne sono alcuni che traggono molto giovamento dal suo utilizzo e altri meno. Walter appartiene al primo gruppo e vorrebbe poter ricevere un dosaggio più alto dall’azienda sanitaria. Migranti. L’accordo con Tripoli va rispedito al mittente di Gian Giacomo Migone Il Manifesto, 23 ottobre 2019 Il posto sicuro. Una parte delle forze di maggioranza si oppone al rinnovo dell’accordo con la Libia, che l’ex ministro Minniti, autore della trattativa, invece vorrebbe replicare. Nella primavera-estate del 2017 si verificò una drastica riduzione dei tragici traghettamenti di migranti, in partenza dalle coste libiche, ma a caro prezzo. Da quel momento, i naufraghi hanno manifestato un timore di essere consegnati alla guardia costiera libica pari o superiore a quello di combattere il mare che stava per inghiottirli. Perché il ritorno il Libia li avrebbe consegnati, o riconsegnati, a quella galleria degli orrori che è tuttora in atto, nella forma di campi di concentramento che sfuggono ad ogni controllo delle Nazioni Unite. A questo proposito, sconcertante l’intervista di Marco Minniti a La Repubblica (19 ottobre), malgrado le domande doverosamente dialettiche di Giovanna Casadio. Il messaggio è tutto nel titolo: “L’accordo con la Libia va rinnovato o la situazione precipiterà”. Si tratta dell’accordo sottoscritto dall’Italia, e poi approvato dall’Ue, con cui essa s’impegna, tra l’altro, a privilegiare la guardia costiera libica, addestrata a nostre spese, nel determinare il destino degli migranti sopravvissuti nelle acque del Mediterraneo. Perché siano restituiti al porto libico tuttora dichiarato “insicuro” dalle competenti organizzazioni internazionali. Una parte, ma non tutta la maggioranza governativa si oppone giustamente al rinnovo di quell’accordo stipulato con il governo di Tripoli, previsto in un comma surrettiziamente inserito in un provvedimento di altra natura. Non così Minniti, padre (in quanto allora ministro dell’Interno del governo Gentiloni) di quel frutto della trattativa da lui condotta, e conclusa con la rete degli scafisti, adibiti a guardiani di campi di concentramento libici, ad oggi dichiarati inaccessibili dall’Unhcr e dall’Oim. A suo tempo un editoriale del New York Times (25 settembre 2017) imputò all’Italia, e in una precedente inchiesta (Nyt, 17 settembre 2017) a Minniti, la responsabilità di “essersi collocata nel ruolo di chi assume come sorveglianti [dei campi di concentramento] la stessa gente che trae profitto dall’estorcere denaro, affamare, vendere come schiavi, torturare e stuprare migranti”. Persino l’allora vice ministro degli esteri, Mario Giro, interrogato dal medesimo giornale, se i servizi segreti italiani avessero retribuito quella rete di gentiluomini, seppe soltanto rispondere: “Non posso parlare a nome di altri, ma lo escluderei”. Lo stesso governo, che precedentemente aveva sottoposto le navi delle Ong impegnate nei salvataggi, non ebbe modo di rintuzzare le severissime dichiarazioni degli alti commissari per i diritti umani del Consiglio d’Europa e dell’Onu. Successivamente, Salvini si attribuì il “merito” di quella politica, rincarando la dose con la chiusura dei porti italiani. Una macchia che annullò il credito internazionale conquistato dalla nostra guardia costiera - ricordo bene le parole lusinghiere spese nei confronti dell’Italia, dal vice segretario generale dell’Onu, Jan Eliasson, in una fase antecedente -’ per la professionalità e il coraggio dimostrato nel salvataggio di numerose vite umane. E che l’attuale governo potrebbe in parte cancellare, ponendo come condizione per un nuovo accordo la collocazione di quei campi sotto l’egida dell’Alto Commissariato per i rifugiati (Unhcr) e dell’Oim, e l’apertura di canali garantiti di accesso all’Europa per gli aventi diritto d’asilo. Un obiettivo oggi più a portata di mano per la solidarietà internazionale che potrebbe raccogliere e per la relativa debolezza delle fazioni armate libiche. Ecco un altro banco di prova che il governo Conte dovrà affrontare prossimamente. Libia. Crimini di guerra nella battaglia per Tripoli di Riccardo Noury Corriere della Sera, 23 ottobre 2019 Nel conflitto scoppiato il 4 aprile in Libia per il controllo della capitale Tripoli tra il Governo di accordo nazionale, riconosciuto dalle Nazioni Unite, e l’autoproclamato Esercito nazionale libico, sono stati uccisi o feriti oltre 100 civili - compresi migranti e rifugiati trattenuti nei centri di detenzione - e più di 100.000 persone sono state costrette a lasciare le loro case. Amnesty International ha raccolto e reso note oggi le prove di possibili crimini di guerra commessi da entrambe le parti a seguito di attacchi indiscriminati e mediante l’impiego di armi esplosive imprecise dirette contro insediamenti urbani: dai razzi privi di guida dell’era-Gheddafi ai moderni missili montati su droni. Attacchi aerei, colpi d’artiglieria e bombardamenti hanno distrutto abitazioni e importanti infrastrutture civili tra cui ospedali da campo, una scuola e un centro di detenzione per migranti e hanno costretto alla chiusura l’aeroporto di Mitiga, per mesi l’unico funzionante della capitale. Tra le vittime civili figurano bambini anche di soli due anni che giocavano sulla porta di casa, persone che prendevano parte a un funerale o che stavano svolgendo le loro abituali attività quotidiane. Nonostante l’embargo sulle forniture di armi proclamato da una risoluzione delle Nazioni Unite già nel 2011, diversi stati hanno fornito armi ai contendenti. Tra questi, Emirati Arabi Uniti e Turchia, schierati rispettivamente con l’Esercito nazionale libico e col Governo di accordo nazionale.