Ergastolo ostativo: ora tocca alla Corte costituzionale di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 ottobre 2019 Dopo la sentenza della Cedu oggi la Consulta dovrà decidere sui casi Pavone e Cannizzaro. Oggi la Corte costituzionale deciderà se l’articolo 4bis comma uno dell’ordinamento penitenziario, che prevede l’ergastolo ostativo, sia o no conforme alla nostra Costituzione. Ricordiamo che la Consulta torna a occuparsi di questo tema dopo sedici anni, perché già nel 2003 aveva esaminato e respinto la questione di costituzionalità. Ma oggi è diverso da allora, perché c’è stata la sentenza definitiva di condanna da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo (conosciuta come sentenza Viola) proprio in merito a quella parte del 4bis che respinge qualsiasi richiesta di beneficio se si sceglie di non collaborare. In sostanza, la Cedu fa cadere sostanzialmente la collaborazione con la giustizia come unico e imprescindibile criterio di valutazione. Perché è importante? Una legge contraria alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo è fortemente sospettata di incostituzionalità, visto che vige un obbligo costituzionale: la legge nazionale deve rispettare gli obblighi internazionali ratificati. Il ragionamento della Cedu è abbastanza semplice. Stigmatizza il fatto che la mancata collaborazione è sempre sinonimo di pericolosità sociale o mancato ravvedimento, perché - come evidenza sempre la Cedu - la scelta di non collaborare può essere anche non libera: ad esempio perché un ergastolano teme ritorsioni su se stesso o vendette nei confronti dei propri familiari, oppure perché a distanza di 20-30 anni di detenzione non c’è nulla di utile da confessare. D’altro canto, gli stessi giudici di Strasburgo, sottolineano che la stessa collaborazione molto spesso non è autentica, ma fatta solo per ottenere dei benefici. A differenza di ciò che si dice, i giudici europei dimostrano di conoscere molto bene la storia della mafia italiana e vicende giudiziarie connesse. Abbiamo il caso eclatante del falso collaboratore Vincenzo Scarantino che ha fatto arrestare e condannare persone innocenti, accusati di aver eseguito la strage di via D’ Amelio. Oppure il caso del falso pentito che fece condannare Enzo Tortora. Ma, se pensiamo al discorso del ravvedimento, abbiamo esempi di collaboratori di giustizie che, ottenendo i benefici, hanno commesso dei crimini. C’è l’esempio del boss Totuccio Contorno, uno dei primi a pentirsi subito dopo Tommaso Buscetta, arrestato nell’estate del 1988 per il suo “ritorno in armi” a Palermo con l’obiettivo di vendicarsi nei confronti dei clan rivali che gli avevano sterminato la famiglia. Anche Balduccio Di Maggio, un altro pentito “storico” che aveva parlato del presunto “bacio” tra Totò Riina e Andreotti, fu sorpreso dopo essere rientrato a San Giuseppe Jato proprio per regolare i conti con il clan di Giovanni Brusca. A proposito di quest’ultimo, come si è visto, anche se è un collaboratore di giustizia, per i giudici della Cassazione non ha dimostrato segni di ravvedimento. Nel passato ha comunque ottenuto numerosi benefici nonostante abbia commesso 200 omicidi, oltre ad aver ordinato di sciogliere i bambini nell’acido ed eseguito la strage di Capaci. Una volta, durante un permesso, era stato scovato con un cellulare che non doveva tenere. Oppure - storia archiviata con tanto di restituzione dei soldi - quando nel 2010 i carabinieri del gruppo Monreale, in provincia di Palermo, hanno trovato una grossa somma di denaro - circa 200 mila euro in contanti - a casa della moglie. L’accusa scattata nei suoi confronti era di riciclaggio, intestazione fittizia di beni ed estorsione. Oggi, come detto, la Consulta dovrà esaminare i due casi di ergastolani ostativi identici: quello di Sebastiano Cannizzaro e Pietro Pavone. In udienza saranno quindi presenti i rispettivi avvocati. L’avvocato Vianello Accorretti per il caso Cannizzaro e gli avvocati Michele Passione e Mirna Raschi per il caso Pavone. La parte però più interessante è che all’udienza parteciperanno anche i cosiddetti amicus curiae, ovvero le parti terze che, nonostante non siano parte in causa, offrono un aiuto alla Consulta per decidere. Per il caso Pavone si affiancherà l’avvocata Emilia Rossi, per l’autorità del Garante nazionale delle persone private della libertà, e l’avvocato Vittorio Manes per l’Unione Camere penali italiane. Per quanto riguarda il caso Cannizzaro si affiancherà l’avvocato Andrea Saccucci per Nessuno Tocchi Caino e l’avvocato Ladisalao Massari per Marcello Dell’Anna. Quest’ultimo un ergastolano ostativo, simbolo del riscatto e ravvedimento. Anche se ha scelto di non collaborare. L’ergastolo “ostativo” alla prova della Consulta di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 22 ottobre 2019 Dopo il no della Corte europea oggi l’udienza sui permessi a chi non collabora. L’ergastolo “ostativo” che nega benefici come i permessi premio, specialmente per mafiosi e terroristi che non hanno voluto collaborare con la giustizia, viola o no la Costituzione? È la domanda a cui dovranno rispondere, in sostanza, i giudici della Corte costituzionale che oggi, in udienza pubblica, affronteranno questo tema lacerante e divisivo. È un’udienza che cade dopo la decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu), che ha respinto, appena l’8 ottobre scorso, il ricorso del governo italiano, con il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, contro “l’invito” della stessa Cedu a modificare questo “divieto inumano”. La prima pronuncia della Cedu, contro la quale si è schierato il governo italiano, è del giugno scorso, quando ha accolto il ricorso del boss ergastolano Viola. Dunque, è normale che ci si chieda se questo giudizio di Strasburgo peserà sulla Consulta presieduta da Giorgio Lattanzi, alto giudice della Cassazione, giurista noto per le sue posizioni sul carcere e l’importanza della finalità rieducativa della pena. Non è un caso che la Corte costituzionale con la sua presidenza abbia deciso di andare nelle carceri per parlare della nostra Carta ai detenuti. È innanzitutto per un’ordinanza della Cassazione del dicembre 2018 che la Consulta si dovrà pronunciare. Nicolò Zanon il giudice relatore, nominato dal presidente Napolitano nel 2014. A difendere la legge e a sostenere che non viola alcun principio della Costituzione, neppure quello del fine rieducativo della pena, dato che l’obbligo della collaborazione della giustizia per avere benefici è dovuto a peculiari pericolosità di realtà criminali italiane, ci saranno gli avvocati dello Stato Marco Corsini e Maurizio Greco, i quali contesteranno anche la sentenza della Cedu. L’ordinanza della Cassazione finita in Corte riguarda l’ergastolano Sebastiano Cannizzaro, condannato per omicidio e occultamento di cadavere con l’aggravante del metodo mafioso. Il suo avvocato, Valerio Vianello, ha fatto ricorso in Cassazione contro il Tribunale di Sorveglianza de L’Aquila che ha negato un permesso premio, dato che Cannizzaro non ha collaborato con la giustizia. È la condizione obbligatoria, come dimostrazione tangibile di aver reciso il legame con la criminalità organizzata di cui un ergastolano ha fatto parte o ha sostenuto. Ma secondo la difesa, il 4bis dell’ordinamento penitenziario violerebbe la Costituzione. Una questione che la Cassazione ha ritenuto fondata e girato alla Consulta. Poiché per ottenere dei benefici è obbligatoria la collaborazione, la disciplina sarebbe “in contrasto con la finalità rieducativa della pena, non tenendo conto della diversità strutturale, rispetto alle misure alternative, del permesso premio che è volto ad agevolare il reinserimento sociale del condannato attraverso contatti episodici con l’ambiente esterno”. Sarebbe pure “irragionevole” perché “assimilerebbe condotte delittuose diverse tra loro, equiparando gli affiliati all’associazione mafiosa agli estranei responsabili soltanto di delitti comuni, aggravati dal metodo mafioso o dall’agevolazione mafiosa”. In udienza pubblica, oggi, si discuterà anche di un’altra ordinanza, del maggio scorso, analoga a quella della Cassazione. È del Tribunale di Sorveglianza di Perugia che aveva ricevuto la richiesta di un permesso premio per l’ergastolano Pietro Pavone, anche lui condannato per reati connessi al 416bis. Per i giudici umbri, legare la collaborazione con la giustizia alla prova del venir meno della pericolosità sociale del condannato impedirebbe alla magistratura di valutare nel concreto l’evoluzione personale dell’ergastolano, “vanificando la finalità rieducativa della pena”. Non si sa ancora se la sentenza arriverà oggi stesso. Ai magistrati il compito di decidere se trasformare il fine pena mai in una pena temporanea di Antonella Calcaterra* Il Sole 24 Ore, 22 ottobre 2019 Non ci saranno né la liberazione immediata degli ergastolani ostativi, né la sottrazione di strumenti di contrasto alla criminalità organizzata. Ma potrebbe essere restituita all’autorità giudiziaria la possibilità di esaminare i singoli casi. L’importante è non confondere le idee e non creare allarmismi. Soprattutto è opportuno che non lo faccia chi è tecnico e ben sa cosa succederà in caso di una pronuncia della Corte Costituzionale che dovesse ritenere irragionevole la permanenza nel nostro ordinamento di una presunzione assoluta di pericolosità. Quella che fa si che sia vietato un esame delle persone, perché ritenute sempre e comunque pericolose, salvo che le stesse non collaborino con la giustizia. Sul piano pratico non ci saranno né la liberazione immediata degli ergastolani ostativi, né la sottrazione di strumenti di contrasto alla criminalità organizzata. Semplicemente potrà essere restituita all’autorità giudiziaria la possibilità di esaminare le persone, la loro evoluzione e i percorsi detentivi; in sintesi i magistrati di sorveglianza riavranno il ruolo che gli compete per declinare i principi portati dall’articolo 27 della Costituzione. Per trasformare, ove possibile, il fine pena mai in una pena eventualmente temporanea. Con l’ergastolo ostativo la possibilità di accedere ai benefici penitenziari è stata per anni legata indissolubilmente alla sola ipotesi della collaborazione con la giustizia, senza considerare che questa, che doveva essere una scelta, tante volte una scelta non era, per le ragioni più svariate: da quelle relative alla incolumità personale delle persone interessate o dei loro familiari, a quelle dipendenti dall’inesorabile decorso del tempo, che molto spesso rende inutile un qualsiasi apporto collaborativo per la semplice ragione che, dopo tanti anni, non si ha nulla da poter dire. Lo Stato aveva deciso, in un momento di contingenza e urgenza, di rinunciare a esercitare un proprio potere e dovere, ossia quello di infliggere una pena in linea con gli irrinunciabili principi portati dalla Costituzione, che fanno riferimento alla rieducazione e risocializzazione del reo. Per gli ergastolani ostativi non vi è alcuna prospettiva, in una logica di assoluto divieto di esaminare e valutare le evoluzioni, ove evoluzioni positive ci siano state. In buona sostanza le persone sono private della speranza. La Corte Edu ha scritto a chiare lettere che una presunzione legale di pericolosità può essere giustificata solo quando non sia assoluta ed il ricorso dello stato italiano contro la sentenza Viola è stato rigettato. In sintesi la Corte di Strasburgo ha ritenuto una sentenza di condanna a vita senza speranza in violazione dell’articolo 3 della convenzione europea che vieta le pene e i trattamenti inumani o degradanti. Un passaggio di non poco conto. Ridare una speranza non significa scarcerare gli oltre 1.100 ergastolani ostativi, e neppure mancare di rispetto alle vittime di efferati crimini; significherà consentire ai magistrati di sorveglianza di valutare con gli esperti, e sulla base delle informazioni della Dda competente, i cambiamenti, ove ci siano, ed i percorsi trattamentali intrapresi e portati avanti. Nella fase dell’esecuzione della pena la previsione di automatismi si è dimostrata non avere alcun senso e già svariate volte è stata ritenuta illegittima poiché contraria a Costituzione. Si è via via affermata dunque la necessità, ancora più nel caso di reati gravi, che la valutazione della persona assuma un ruolo centrale nella fase dell’esecuzione della pena; centralità necessaria perché la carcerazione possa servire a far si che le persone provino ad attivare percorsi personali differenti e per fare in modo che la medesima carcerazione possa restituire alla società uomini e donne diversi alle quali uno stato civile non deve rinunciare. Perché questo è quello che vuole la nostra Costituzione. *Avvocato del foro di Milano Travisamenti e realtà dell’ergastolo ostativo di Riccardo De Vito* volerelaluna.it, 22 ottobre 2019 Il 13 giugno 2019 la Corte europea di Strasburgo (caso Viola c. Italia) ha sancito che l’ergastolo ostativo - quello per cui o collabori utilmente con la giustizia o muori in carcere - è contrario all’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Quest’ultima disposizione, come noto, proibisce la tortura e i trattamenti inumani o degradanti, ponendo un divieto che non tollera eccezioni per motivi di emergenza, fosse pure lo stato di guerra. Oggi, 22 ottobre, anche la Corte costituzionale è chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità della variante italiana della life sentence without hope (condanna a vita senza speranza) con la Carta fondamentale; dovrà farlo, necessariamente, confrontandosi con le statuizioni della sentenza Viola, che nel frattempo (7 ottobre 2019) è divenuta irrevocabile. Siamo di fronte a un passaggio saliente della penalità penitenziaria, che potrebbe cambiare la configurazione dell’armamentario repressivo dell’ordinamento italiano per renderlo nuovamente conforme all’articolo 27 della Costituzione e all’obbligo di tutte le pene di tendere alla rieducazione del reo. Ma cosa impone, in concreto, la sentenza Viola allo Stato italiano tutto, Parlamento e giudici? Certamente non prescrive l’automatica scarcerazione dei boss e dei capi-mafia, né di essere meno rigorosi nel contrasto alla criminalità organizzata, sebbene questa storiella sia stata ammannita all’opinione pubblica persino da qualificati e autorevoli esponenti della magistratura. Il messaggio che arriva dall’Europa - in verità già scolpito nella Costituzione -, viceversa, afferma con chiarezza il diritto di ogni ergastolano ostativo a che un giudice valuti il suo concreto ravvedimento, s’interroghi sul perché dell’eventuale mancata collaborazione ed effettui un bilanciamento, caso per caso, tra rieducazione e pericolosità. La ragione criminologica dell’ostatività, introdotta nel nostro ordinamento a seguito delle stragi di mafia del 1992, è presto detta: solo collaborando - dice la legge - il mafioso (o il terrorista) perde credito presso il sodalizio di appartenenza, dimostra di non poter più offrire e ricevere “fedeltà” e, dunque, offre la prova della cessata pericolosità sociale. La quasi trentennale sperimentazione di questa norma, tuttavia, ha dimostrato che i motivi di mancata collaborazione con l’autorità giudiziaria non si rinvengono soltanto nella persistente attitudine criminale, ma sono molteplici: la paura di esporre i propri familiari alla vendetta omicida degli ex-sodali; il rifiuto di barattare la propria libertà con quella di chi magari ha scontato la pena, riga dritto e si è ricostruito una vita lontano dalle mafie; l’impossibilità di conoscere - non tutti gli ergastolani ostativi hanno avuto posizioni verticistiche nell’organizzazione criminale - la completa dinamica dei fatti e l’intero orizzonte delle responsabilità; la circostanza, infine, di essere innocenti ma di non avere le prove per avviare un giudizio di revisione. I condannati che vivono sulla loro pelle anche una sola di queste ragioni possono essere ravveduti. Non è infrequente vedere nelle carceri italiane persone che nella vita non hanno avuto l’educazione, i mezzi e le opportunità per voltare le spalle alla mafia e che invece, dopo un percorso carcerario di decenni, hanno trovato il coraggio di dissociarsi, di accostare le vittime, di credere in un futuro diverso e di liberare la mente dall’appartenenza al clan. La Convenzione e la Carta costituzionale - ora anche la famosa sentenza Viola - impongono al magistrato di sorveglianza di vagliare seriamente la personalità e il cambiamento di quelle persone, senza chiudere le porte del carcere sulla base di un automatismo degno di un robot, ma non di una decisione giudiziaria. Impedire questa valutazione, in concreto e caso per caso, significa potenzialmente lasciare a vita nelle sezioni detentive persone rieducate, che attraverso le loro storie potrebbero offrire un contributo essenziale nel contrasto alla criminalità organizzata, anche per la presa che possono esercitare su altri detenuti. Vuol dire, in sostanza, fare un regalo alla mafia. Lo si era capito ai tempi del terrorismo, quando tra la categoria degli “irriducibili” e quella dei “pentiti” si andò delineando quella dei “dissociati” i quali, inseriti in aree omogenee, esercitarono appeal tra gli altri detenuti e dettero il colpo di grazia al metodo del terrore nella lotta politica. Eliminare l’ergastolo ostativo, dunque, non significa dare un colpo di spugna alla lotta alla mafia, né tanto meno abrogare alcuni strumenti strategici di questa lotta. Si tratta, piuttosto, di mantenere quella lotta nel solco della democrazia costituzionale, di liberarla da pratiche disumane e di renderla persino più efficiente attraverso la responsabilizzazione dei condannati, resa possibile da una rigorosa valutazione individualizzata sui progressi trattamentali e sulla meritevolezza dei benefici. Prova di questo rigore, del resto, la magistratura di sorveglianza l’ha fornita nel recente caso Brusca: niente detenzione domiciliare, nonostante la collaborazione avvenuta e il parere favorevole della procura antimafia. Al contempo l’automatismo basato sull’equiparazione tra collaborazione e cessazione della pericolosità ha mostrato in alcuni casi la sua fallacia, come l’affaire Scarantino insegna. Neppure la prevenzione generale risentirà dell’eventuale abrogazione dell’ergastolo ostativo, dal momento che per accedere ai benefici il detenuto non collaborante dovrà comunque espiare termini più lunghi di pena e provare l’assenza di ogni collegamento con la criminalità organizzata. Sul terreno dell’efficacia deterrente delle “pene esemplari”, infine, occorre svolgere alcune considerazioni che muovono dall’esperienza. Il Portogallo, ad esempio, ha eliminato la pena perpetua nel 1884 e ad oggi è uno dei Paesi con il minor tasso di omicidi al mondo. Si potrebbe obiettare che quel Paese, a differenza del nostro, non conosce la mafia. A tacer del fatto che l’ergastolo ostativo (e più in generale le pene ostative) non riguarda soltanto i mafiosi, va detto però che la mafia può certamente richiedere un diritto penale specifico, ma non può legittimare un diritto penale che rinuncia al paradigma dell’offensività del fatto per abbracciare soltanto quello del modo di essere dell’autore. Dire infatti - come è stato detto - che un mafioso si libera dal vincolo criminoso solo con la morte o con la collaborazione comporta un’idea del diritto penale lontana dalla nostra tradizione costituzionale. Un’idea, come abbiamo visto, spesso non rispondente ai fatti, che la Corte costituzionale ha ora la possibilità di rimuovere dal nostro ordinamento. *Magistratura Democratica Ergastolo ostativo, Marco Ruotolo: “Non c’è rieducazione senza speranza” di Eleonora Martini Il Manifesto, 22 ottobre 2019 Intervista al costituzionalista dell’Università Roma Tre: “Il detenuto per cambiare deve poter immaginare un futuro in libertà. Una prospettiva che dipende dal suo comportamento: dalla collaborazione con gli inquirenti ma non solo. La Consulta potrebbe oggi decidere di restringere l’applicazione ai soli mafiosi”. Il diritto alla “speranza”, intesa in senso pannelliano del termine, non come condizione passiva ma come capacità di farsi portatori di cambiamento, è un elemento essenziale nella “rieducazione” del condannato. Lo ha affermato, come sottolinea il costituzionalista Marco Ruotolo, la Corte europea dei diritti dell’Uomo quando l’8 ottobre scorso ha condannato l’Italia per l’ergastolo ostativo. Ordinario di Diritto costituzionale all’Università Roma Tre, componente del Comitato degli esperti durante gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale del 2017, Ruotolo si augura che oggi la Corte Costituzionale possa ispirarsi a questo stesso principio pronunciandosi sulla questione di costituzionalità della norma che impedisce al mafioso non collaborante Sebastiano Cannizzaro l’accesso ai benefici penitenziari. Professore, la pronuncia della Corte di Strasburgo può avere ripercussioni giuridiche, prima ancora che psicologiche, sulla decisione della Consulta? Le questioni di costituzionalità sollevate dalla Cassazione e dal Tribunale di sorveglianza di Perugia fanno riferimento agli articoli 3 e 27 della Costituzione, non agli obblighi internazionali di cui all’art. 117. Ritengo però che ci si debba aspettare un’incidenza, sia pure indiretta, della sentenza Viola, perché la Consulta non può non tenere conto che secondo i giudici di Strasburgo il “diritto alla speranza” sarebbe violato da un fine pena mai senza possibilità di revisione. Infatti, il principio di rieducazione, invocato come parametro, dovrebbe sottendere la possibilità di liberazione prima della morte perché ciò che è in ballo è la possibilità di rivalutare la posizione del condannato alla luce del suo comportamento, a prescindere dall’elemento della collaborazione che invece oggi è considerato imprescindibile per eliminare l’ostatività all’ergastolo. L’articolo 3 della Convenzione europea che, secondo Strasburgo, è stato violato dall’Italia, è sovrapponibile con l’art. 27 della Costituzione italiana? Oltre al divieto di pene e trattamenti inumani e degradanti, imposto da entrambi gli articoli, proprio alla luce di questo principio, si dovrebbe interpretare l’art. 27 della Carta in modo tale da considerare la rieducazione comprendente il “diritto alla speranza”. Forse la Consulta dovrebbe chiarire cosa si intende oggi per rieducazione? Sì, io credo che la finalità della pena, la “rieducazione”, sia ricostruire un legame sociale. Se è così, il comportamento che il detenuto ha assunto nel corso della pena non può diventare insignificante al fine del ritorno alla libertà. A prescindere dal fatto che abbia deciso o meno di collaborare con la giustizia. Resta fermo che per un soggetto appartenente al consesso mafioso i benefici penitenziari saranno molto difficili da ottenere, però escludere del tutto questa possibilità a priori è incompatibile con il diritto alla speranza. L’ergastolo ostativo, creato negli anni 90 durante l’emergenza delle stragi per combattere meglio le mafie, è stato poi esteso ad altre tipologie di reato, come il terrorismo. La Consulta potrebbe tornare a limitare il range di applicazione? La Corte potrebbe distinguere la posizione del soggetto interno alle mafie da colui che invece ne è estraneo ma che si è avvalso del metodo mafioso o ha agevolato il reato di criminalità organizzata legato al 416 bis c.p.. E quindi potrebbe diversificare anche la questione della collaborazione, restringendo al solo caso degli affiliati alle mafie la preclusione ai benefici penitenziari imposta per legge. Negli altri casi la parola passerebbe al Tribunale di sorveglianza che verificherebbe caso per caso. Dico questo perché nel 2013 e nel 2015 la Consulta ha emanato due sentenze che riguardavano la custodia cautelare applicando un distinguo tra coloro che sono fortemente indiziati di reati di mafia e i soggetti che ne sono estranei pur avendo concorso all’associazione, lasciando solo in questi ultimi casi la decisione ai giudici. La Consulta però si era già espressa sull’ergastolo ostativo negli ultimi anni (sentenza n°306/1993, 273/2001 e 135/2003) rigettando sempre l’incostituzionalità. Perché questa volta potrebbe andare diversamente? Per due ragioni: per la sentenza della Corte Edu e perché va valutato anche storicamente l’elemento della collaborazione come decisivo ai fini dell’accesso ai benefici. Cambiando la norma, non si indebolirebbe la lotta alle mafie? Non nego che la collaborazione sia uno strumento utile, ma lasciare il giudice valutare caso per caso non significa far sì che il detenuto non collabori più con la giustizia. La collaborazione rimarrebbe sicuramente il modo più facile per ottenere i benefici, e la mancata collaborazione li renderebbe non impossibili ma improbabili. Come a dire: senza speranza non si cambia l’individuo e non si combattono le organizzazioni criminali? Sì, questo diritto alla speranza è un elemento che la Corte europea ha sempre valorizzato, quella italiana mai. Io però non la vedrei come un elemento di passività, la speranza in attesa della provvidenza, ma un modo per consentire al detenuto di immaginare un futuro in libertà. Un futuro che però dipende da se stesso. Giovanni Russo: “Il carcere duro non va cancellato” di Gigi Di Fiore Il Mattino, 22 ottobre 2019 Procuratore aggiunto alla Procura nazionale antimafia e antiterrorismo, Giovanni Russo è il numero due dell’ufficio guidato da Federico Cafiero de Raho. Procuratore Russo, con la sentenza prevista per oggi della Corte costituzionale in aggiunta alla decisione della corte di Strasburgo, si rimette in discussione il sistema detentivo per i mafiosi? “No, ma sicuramente si è avviato un confronto tra giuristi e in Parlamento per rendere compatibile il nostro sistema detentivo per i mafiosi con quanto invita a fare la corte di Strasburgo. Vedremo, poi, su una questione collegata ma diversa, cosa deciderà la Corte costituzionale”. Su quali idee si muove il confronto giuridico e normativo? “Sul concetto del ravvedimento del detenuto, da verificare in concreto, attraverso il trattamento carcerario. L’idea che si afferma è che il carcere può essere strumento di riabilitazione per qualsiasi tipologia di detenuto, ma questo va valutato in concreto”. Un passo indietro rispetto al sistema normativo antimafia? “Certamente no, l’impianto non si mette in discussione. La pericolosità di un affiliato di mafia viene affermata dal sistema detentivo del 41bis e da altre restrizioni. Quello che si discute, dopo la sentenza di Strasburgo, è se si possono applicare benefici a un condannato per mafia”. La risposta quale può essere? “Se dobbiamo seguire l’invito della Grande Camera di Strasburgo, l’unica strada è dare ai giudici di sorveglianza la discrezionalità di valutare l’effettivo ravvedimento del detenuto. Giudicare caso per caso, su elementi concreti e con particolare scrupolo quando si tratta di detenuti che hanno avuto posizioni di vertice e di pericolosità nelle organizzazioni mafiose”. Un criterio che sostituisce la decisione del giudice di sorveglianza alla collaborazione con la giustizia considerato oggi unico elemento oggettivo di ravvedimento per i mafiosi? “Proprio così, su questa ipotesi discutono diversi giuristi. Naturalmente, non si deve trattare di un ravvedimento furbesco, non devono esserci più contatti con l’organizzazione, né prove di capacità direttive odi influenza del detenuto nei confronti degli affiliati ancora in libertà”. Insomma, dovrebbe attuarsi una valutazione non più automatica, come è ora la collaborazione con la giustizia? “E così. Bisognerà capire se la pena ha svolto il suo compito, se la rieducazione ha portato a un ravvedimento reale che abbia trasformato il detenuto e ne abbia inficiato la pericolosità. Un ritorno alla centralità della valutazione del giudice di sorveglianza e alla decisione concreta caso per caso. Ma, naturalmente, senza toccare l’impianto della normativa antimafia”. Vincenzo Maiello: “No, qualsiasi pena deve rieducare” di Gigi Di Fiore Il Mattino, 22 ottobre 2019 Avvocato penalista, Vincenzo Maiello è professore ordinario di diritto penale all’Università Federico II di Napoli e consulente della commissione parlamentare antimafia. Professore Maiello, qual è il suo pensiero sulla questione che oggi deciderà la Corte costituzionale? “Voglio partire dal delineare il tipo di questione giuridica che sarà decisa. Siamo nell’ambito dei benefici penitenziari, legati ad un soggetto condannato per un omicidio all’ergastolo, ma non affiliato a un’organizzazione mafiosa”. Non si tratta di persona condannata per 416bis? “No, l’omicidio in concorso, al centro della pena, riguarda una persona cui è stato contestato il favoreggiamento all’associazione mafiosa, il famoso articolo 7, ma non l’inserimento organico”. È la prima volta che la Consulta affronta il tema dell’ergastolo e delle condizioni carcerarie di soggetti condannati per reati in qualche modo legati ad un’organizzazione mafiosa? “No, ci sono state due sentenze precedenti, una del 2013 e l’altra nel 2015. Hanno affrontato il tema, sempre legato a soggetti non affiliati ma indagati per favoreggiamento all’organizzazione, della possibilità che a loro potesse essere applicata la custodia preventiva domiciliare e non necessariamente quella in carcere. La conclusione è stata, in questi casi, per il non automatismo della detenzione in carcere”. Una differenziazione che si trova al centro anche nel nuovo ricorso alla Consulta? “In un certo senso sì. La Consulta entrerà nel merito delle finalità rieducative della pena previste dalla Costituzione. Non c’è alcun esame diretto della questione dell’ergastolo ostativo, su cui si è espressa la corte di Strasburgo, ma si valuta la possibilità, per i condannati all’ergastolo con favoreggiamento all’organizzazione mafiosa, di accedere a permessi premio”. La decisione della Grande Camera di Strasburgo affrontava un’altra questione? “Sì, quella decisione ha invitato l’Italia a rivedere il sistema dell’ergastolo ostativo, per cui un condannato per mafia non può uscire dal carcere prima come per altri tipi di reati, se non diventa collaboratore di giustizia. Mi sento di condividere quella decisione, che riporta al giudice di sorveglianza il potere di decidere caso per caso, se il detenuto si è ravveduto con un percorso educativo”. Un richiamo alla funzione rieducativa della pena? “Certo, una funzione riconosciuta dalla nostra Costituzione. D’altro canto, le tipologie di condannati per mafia sono varie e andrebbero valutate singolarmente. Già nelle due sentenze della Consulta che ho ricordato si faceva differenza tra chi viene condannato per l’articolo 7 e chi per concorso esterno rispetto agli affiliati diretti che scontano una pena per 416bis”. Prescrizione: lo sciopero degli avvocati di Aldo Fabozzi Il Manifesto, 22 ottobre 2019 Maggioranza ferma al palo: non c’è intesa tra Pd, Leu e Italia viva con i 5 Stelle. Ancora in sospeso la legge delega che dovrebbe velocizzare i processi penali, mentre la riforma voluta da Bonafede, contro la quale protestano i penalisti, sarà applicabile dal 1 gennaio prossimo. “Il ministro Bonafede sia coerente e tenga fede alle motivazioni per cui ha rinviato di un anno l’entrata in vigore delle norme sulla prescrizione. Non si è ancora intervenuti sulla durata dei processi, quindi le stesse ragioni dovrebbero essere alla base di un nuovo rinvio”. Lo ha chiesto ieri Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione camere penali, nel primo dei cinque giorni di astensione dalle udienze proclamati dagli avvocati che protestano contro la norma che cancella l’istituto della prescrizione dopo la sentenza di primo grado. La “riforma”, introdotta all’inizio di quest’anno nella legge anti corruzione (per M5S “spazza-corrotti”), entrerà in vigore il primo gennaio 2020 ma nel frattempo, prima e dopo il cambio di governo, le novità che dovrebbero velocizzare i processi non sono state approvate. E la nuova maggioranza è lontana dal trovare un accordo. Due vertici tra il ministro Bonafede e le forze politiche di maggioranza non sono bastati a portare una schiarita sul tema prescrizione, mentre passi in avanti - cioè indietro da Bonafede - sono stati fatti sul metodo di elezione dei togati del Csm: l’idea del sorteggio è uscita dai radar. Il Pd, spiega il sottosegretario alla giustizia Andrea Giorgis, considera la prescrizione “una sconfitta dello stato” ed è d’accordo con Bonafede che “bisogna fare in modo che non capiti mai”, da qui quindi l’impegno per nuove norme che velocizzino il processo penale. Ma mentre il ministro 5 Stelle resta dell’idea che la soluzione sia l’abolizione per legge della prescrizione, i dem insistono che deve prevalere il diritto dell’imputato, al quale la Costituzione garantisce la presunzione di innocenza fino a sentenza definitiva e un processo di ragionevole durata. Diversamente si andrebbe a creare la categoria dei presunti innocenti o presunti colpevoli - lo stop alla prescrizione vale sia in caso di condanna che di assoluzione in primo grado - a vita. L’imminente apertura della sessione di bilancio, le discussioni sulla legge di bilancio e sul decreto fiscale, hanno costretto a rinviare il confronto sulla giustizia. Che però ha fatto capolino nelle litigate sulla manovra, visto che uno dei punti di frizione ha riguardato le “manette per gli evasori” chieste a gran voce dai grillini. Sul punto si sarebbe trovato un compromesso, alzando le pene per gli evasori che organizzano con frode l’evasione di grandi somme, anche se resta la contrarietà - soprattutto dei renziani - a introdurre norme penali attraverso un decreto. Italia viva ha proposto ieri con la responsabile giustizia Annibali di rinviare di un anno l’entrata in vigore dello stop alla prescrizione. Così da avere il tempo per la riforma del processo penale. Bonafede a settembre si era detto sicuro di riuscire a far approvare la riforma entro fine anno. I disegni di legge saranno due (uno per il processo civile, uno per quello penale e Csm) e saranno disegni di legge delega. Per quanto alcune norme potranno essere di immediata applicazioni, il cuore della riforma dovrà ulteriormente attendere. Dunque non c’è alcuna possibilità che gli eventuali effetti positivi sui processi possano farsi sentire per l’inizio del 2020. Dalla maggioranza fanno però notare che le ricadute pratiche dello stop alla prescrizione si verificheranno nei tribunali non prima di quattro anni. Il presidente dell’Ucpi Caiazza, ieri, dati di una ricerca Eurispes alla mano, ha sostenuto che “la gravissima inciviltà giuridica che è stata prevista sulla prescrizione va a incidere sul 30% del 10% di tutti i processi”. Mentre il deputato di Forza Italia Costa ha annunciato una proposta di legge per cancellare la norma Bonafede sulla prescrizione: casomai dovesse arrivare all’esame in parlamento, spaccherebbe la maggioranza. L’Ucpi: prescrizione, se trent’anni vi sembran pochi... di Errico Novi Il Dubbio, 22 ottobre 2019 I dati dei penalisti nel primo giorno di astensione. I numeri. Servono i numeri. “Sapete in quanto tempo si prescrive una corruzione in atti giudiziari? Ci voglio 30 anni. A legislazione vigente, con la norma del ministro Bonafede non ancora efficace. Il disastro ambientale? Prescritto dopo 37 anni. Ce ne vogliono 37 e 6 mesi per i casi più gravi di maltrattamenti in famiglia, un quarto di secolo per fattispecie a elevato allarme sociale come rapina, traffico di droga, estorsione”. A parlare è l’avvocato Paolo Giustozzi, che fa parte della giunta dell’Unione Camere penali. A lui il presidente Gian Domenico Caiazza affida l’ingrato compito: dare i numeri durante la conferenza stampa indetta nel primo dei cinque giorni di astensione dalle udienze, proclamati dalla stessa Ucpi. “Abbiamo ritenuto opportuno che la nostra protesta sia segnata da un’opera di informazione”, spiega Caiazza. “La cifra costante delle norme in campo penale è la totale disinformazione. Non si spiega cosa avviene nella realtà. Lo facciamo noi”. E in effetti i penalisti sciorinano tabelle da brividi. Lo fanno nei giorni in cui nulla sembra in grado di scongiurare l’abbattersi, dal 1° gennaio, del blocca - prescrizione. Reduci da un congresso straordinario che hanno intitolato “Imputato per sempre”, gli avvocati fanno da avanguardia mentre gli alleati dei 5 Stelle esitano. “L’obiettivo minimo dovrebbe essere il rispetto, da parte del guardasigilli Bonafede, dell’impegno assunto un anno fa: rinviare, almeno, la norma sulla prescrizione finché non viene approvata una riforma che velocizzi davvero il processo”, aggiunge Caiazza. L’Ucpi si dà una mission: raccontare finalmente la verità sull’istituto che i giustizialisti hanno deformato in una sorta di leggenda nera. Allo scopo affidano una campagna social alla società The Skill, specializzata nel settore mediatico-giudiziario. Diffonderà su larga scala le cifre pazzesche enumerate da Giustozzi. Poi ci sono le statistiche scovate “con tecnica da hacker casereccio” da Giorgio Varano, che dell’Ucpi è il responsabile Comunicazione: “Mostrano le enormi differenze nei tempi di definizione dei giudizi: basti guardare al dato dei fascicoli aperti alla Procura di Brescia, 663 giorni, più di quattro volte superiore ai 161 di Trento”. Senza considerare “le prescrizioni dichiarate in Corte d’appello, che a parte i grandi e intasati distretti, fanno registrare dati come il 43% dei reati estinti per decorrenza termini a Venezia, il 35 a Catania, il 26 a Bologna”. Ma forse il numero chiave proposto da Varano è quello dei reati prescritti dopo il primo grado, sui quali interviene la nuova norma che abolisce l’istituto: “Sono solo il 25% delle prescrizioni totali. E ad andare in prescrizione è solo il 10% dei fascicoli”. Ecco in vista di quale esito, osserva Caiazza, “si afferma il principio gravissimo per cui dopo il primo grado la persona, persino se assolta, resta a disposizione dello Stato”. Si fanno a pezzi i cardini del diritto per casi che non superano il 2,5% del totale. “Ma c’è una conseguenza pratica”, fa notare il segretario dell’Ucpi Eriberto Rosso, “perché cancellare la data di prescrizione dalla copertina del fascicolo significherà togliere al giudice l’unico efficace stimolo a definirlo in fretta”. Non solo: proprio vista tale futilità del blocca-prescrizione, a fronte dei casi su cui interverrebbe, “l’altra vera conseguenza è lo scardinamento culturale: della presunzione d’innocenza e della finalità rieducativa della pena”. Riformare senza ancoraggio con la realtà vuol dire istigare ancora di più l’opinione pubblica a una visione rabbiosa della giustizia. “Ma noi siamo convinti che di fronte a numeri come questi, i cittadini possano cambiare idea”. I penalisti, almeno loro, ci credono. Già oggi prescrizione elevata su molti reati di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 22 ottobre 2019 Non pare proprio essere la prescrizione il male capitale del processo penale. Non per le Camere penali che ieri hanno aperto una settimana di astensione dalle udienze, proseguendo quell’opera di controinformazione cui in parte è stato dedicato il congresso concluso domenica a Taormina. Ieri l’accento è stato messo sui tempi di prescrizione di alcuni reati, con una finestra anche su alcuni delitti “comuni”, come il furto in abitazione e furto con strappo, prescritto in 12 anni e 6 mesi, e fattispecie gravi di rapina, prescritte in 25 anni, oppure l’usura, 12 anni e 6 mesi. Al netto di casi ritenuti, anche per effetto di interventi normativi recenti come assai gravi: dalla corruzione, per la quale con l’aumento della metà per il caso di interruzione, si può arrivare sino a 15 anni (12 per quelle per esercizio della funzione), all’omicidio stradale, con aumento di un quarto, 25 anni. Certo, sono i reati “di strada”, quelli che si prescrivono più facilmente e ci sono settori del diritto penale dove, come nel caso dei reati edilizi, si potrebbe intervenire in maniera più mirata. Ma un generale blocco della prescrizione per i penalisti è un atto di inciviltà giuridica da contrastare con ogni mezzo. Il tutto per corroborare con i numeri una battaglia contro il debutto della nuova disciplina fissato al 1° gennaio, che congela i termini dopo la sentenza di primo grado. Per il presidente dell’Unione delle Camere penali Giandomenico Caiazza, l’intervento è “delirante”, una “follia” (“è come se si volesse intervenire sul problema del deterioramento del cibo togliendo la data di scadenza”) che si basa su presupposti infondati: che la prescrizione sia lo strumento per sottrarre alla giustizia penale “cittadini furbi e ricchi” e che “questo Paese sia devastato dalla prescrizione, perché troppi reati si prescrivono con facilità. Ma 60 anni per il sequestro a scopo di estorsione sono troppo pochi? Dirlo è qualcosa di strabiliante, è un’assurdità”. La riforma, contestano i penalisti, non interviene sulla prescrizione che matura durante le indagini preliminari, ma dopo la sentenza di primo grado e così “inciderà solo su una fetta marginale del fenomeno: il 30% del 10% dei processi oggi prescritti. “Un fatto che andrebbe spiegato da parte di chi ha qualificato questa riforma come epocale”. Tutto questo senza intervenire sulle vere cause dell’eccessiva durata dei processi, tra cui un posto ce l’ha la cattiva organizzazione degli uffici giudiziari. Come dimostrano gli stessi dati del ministero della Giustizia sulla durata dei procedimenti. Se a Trento, con riferimento ai procedimenti per reati ordinari con autore noto, ci vogliono 161 giorni per le indagini della procura, a Brescia ne servono 663. E se sempre a Trento il procedimento davanti al giudice monocratico arriva a sentenza in 256 giorni a Salerno di giorni ne occorrono 1.199. Servizi segreti e sospetti, la Repubblica dei gialli infiniti di Antonio Polito Corriere della Sera, 22 ottobre 2019 La nostra democrazia è nata “a sovranità limitata”. E spesso si cerca una ricostruzione “occultista” della storia che deresponsabilizza i vincenti e giustifica gli sconfitti. La sottile linea d’ombra che separa i “Servizi” dai “servizietti” è da sempre un cruccio delle democrazie. Avvolti per dovere d’ufficio dal segreto, è difficile discernere quando agiscano nell’interesse nazionale e quando nell’interesse del governo del momento, o peggio ancora di un governo alleato del momento. Perché i due interessi non necessariamente coincidono. Soprattutto nell’Italia post-ideologica dei nostri tempi, in cui le maggioranze si ribaltano dalla sera alla mattina, e un povero premier come Conte può essere colto dalla richiesta di aiuto da parte di Trump mentre è a metà del guado tra Salvini e Renzi. E così, oltre all’interesse nazionale, può smarrire anche quello politico. Il mistero del caso Conte, il presidente del Consiglio italiano che autorizza il Procuratore generale degli Stati Uniti a fare riunioni con i nostri 007, va dunque ad aggiungersi, seppure in tono (molto) minore, alla lunga trama di misteri di cui è inestricabilmente intessuta la storia della Repubblica. Rilanciando di conseguenza le teorie cospirative più fantasiose, come quella secondo cui l’espulsione di Salvini dal governo sarebbe addirittura paragonabile a quella di Togliatti nel 1947, che De Gasperi fece fuori dopo un lungo viaggio negli Usa. Versione che sorvola sul piccolo dettaglio che è stato lo stesso Salvini a far cadere il governo di cui era parte, favorendo così il complotto di cui si dice vittima. Il Paese “protetto” - Perché il mistero ha questo di bello: consente una ricostruzione “occultista” della storia patria (una volta, nella ricerca della prigione di Aldo Moro, comparve perfino una seduta spiritica), che giustifica gli sconfitti e deresponsabilizza i vincenti. È infatti ormai storiografia accettata l’idea che la nostra sia nata come una democrazia “a sovranità limitata”, dunque “protetta”, perché destinata a un Paese trattato nella spartizione del dopoguerra come un semi-protettorato americano. Sono interpretazioni esagerate, che svalutano l’agire politico di grandi masse di uomini e donne sulla scena della storia, per privilegiare il retroscena del potere. Ma è pur vero che fin dall’atto di nascita della Repubblica il mistero la avvolge. I risultati del referendum istituzionale si fecero aspettare così tanto, e sembrarono a lungo così incerti, che i monarchici attribuirono a sicuri brogli la loro sconfitta. E si deve solo al senso di responsabilità di Umberto II, il “re di maggio”, (e a chi lo consigliò) se fece le valige e andò in esilio, senza cercare lo scontro. Il braccio di ferro - Servizi e militari, che poi spesso coincidono, sono stati protagonisti anche del lungo braccio di ferro tra la democrazia “dissociativa”, che voleva tener fuori la sinistra dell’area della legittimità a governare, e quella “consociativa”, che invece puntava ad assorbirla. Quando nel 1964 entrò in crisi il primo governo di centrosinistra con i socialisti, e mentre Aldo Moro trattava con Nenni un nuovo programma più radicale di riforme, fu il generale dei Carabinieri de Lorenzo a far sentire al leader socialista quello che lui chiamò “un tintinnio di sciabole”, avvisaglie di un potenziale colpo di stato che avrebbe avuto addirittura al Quirinale, nella figura del Presidente Antonio Segni, il suo lord protettore. Fu sulla base dei dossier del Sifar, il servizio segreto militare, che venne compilata la lista delle centinaia di persone da deportare, se fosse scattato il “Piano Solo”, a Capo Marrargiu, una base in Sardegna. Mistero su mistero, il giorno dopo la soluzione della crisi, in un tempestoso colloquio sul Colle tra Moro, Saragat e Segni, quest’ultimo venne colpito dall’ictus che l’avrebbe presto indotto ad opportune dimissioni. Il mistero, ahinoi, avvolge ancora molti degli esecutori materiali, ma non più dei moventi, di quella che il giornale inglese The Observer chiamò la “strategia della tensione”: un’incredibile scia di bombe e stragi che condizionò la nostra democrazia negli anni 70, fino a lasciare poi il testimone al terrorismo rosso e alla sua ferocia. L’obiettivo era quello della “stabilizzazione” della situazione politica. Giovanni Bianconi ha di recente raccontato su La Lettura che, quattro mesi dopo la bomba di piazza Fontana (a dicembre di quest’anno ricorrono i cinquant’anni), un documento dell’amministrazione americana, allora guidata da Nixon, istruiva i servizi segreti su che cosa fare per evitare il “pericolo dell’insorgenza comunista” in Europa occidentale. Il “manuale” suggeriva azioni di destabilizzazione, “violente o non violente”, utili a “stabilizzare” i governi. Notate la sottigliezza: l’obiettivo non era il golpe, ma diffondere la paura del golpe, per sconsigliare gli italiani dal tentare nuove avventure politiche. Poiché il mistero è ambivalente, lo si può usare anche rimuovendolo: come fece Andreotti quando nel 1990 rivelò l’esistenza di Gladio, una organizzazione paramilitare promossa dalla Cia, pronta ad agire in caso di invasione comunista dell’Italia. A rileggere oggi la sequenza degli attentati di quegli anni viene da chiedersi come abbia fatto la democrazia italiana a reggere. Nel solo 1974 ci furono due delle peggiori stragi terroristiche della nostra storia, quella di Piazza della Loggia a Brescia (8 morti) e quella sul treno Italicus a San Benedetto Val di Sambro (12 morti). Da allora la “strategia” mutò. Il Pci aveva infatti continuato a crescere, ottenendo la vittoria nel referendum sul divorzio, proprio nel 1974, e poi con lo sfondamento elettorale del biennio ‘75-76. Sarà un caso, ma da quel momento al posto delle bombe partì l’attacco delle Brigate Rosse, profeticamente annunciato dal generale Miceli, capo del Sid (Servizio informazioni della difesa) al giudice che lo inquisiva; un ben più sofisticato effetto avrebbe avuto sulle sorti della democrazia consociativa, chiudendone di fatto la storia con l’omicidio di Aldo Moro. Le nuove battaglie - Naturalmente l’89, la caduta della Cortina di ferro e la fine dell’Urss e del mondo di Yalta, hanno fatto dell’Italia un paese per nostra fortuna più “normale”, non più frontiera tra i due blocchi, crocevia di spie. I nostri Servizi non sono più inquinati da trame eversive. Ma sul nostro territorio si continuano a combattere battaglie, seppure ormai svuotate di ogni motivazione ideologica o geopolitica, e più che altro figlie degeneri di lotte di potere interne alla politica contemporanea: quella tra Trump e il Congresso è una di queste. Il rischio che gli 007 finiscano per essere usati come cortigiani del potere, non è però meno grave per una democrazia che non voglia sentirsi più “protetta”. L’abitudine alla “sovranità limitata” è dura da estirpare, soprattutto in certe stanze. La beffa ai figli dei femminicidi: non ci sono i fondi previsti dalla legge di Giusi Fasano Corriere della Sera, 22 ottobre 2019 Gli aiuti economici per loro e le famiglie affidatarie non sono mai arrivati: la legge è inapplicabile. Per il 2019 si aspettavano 5 milioni. “Traditi due volte dallo Stato”. Asia ha otto anni, una nonna che c’è e una mamma che “c’è ma è un angelo”, come dice lei. Si chiamava Giordana, la mamma di Asia. Aveva 20 anni e viveva a Catania. Il 7 ottobre del 2015 l’uomo dal quale aveva avuto Asia all’età di 16 anni l’ha uccisa a coltellate: 48, se vogliamo precisare l’entità della sua ferocia. Poi è andato a casa a salutare sua madre, è passato da un amico ad abbracciarlo e ha provato a scappare. Lo hanno fermato e arrestato a Milano, stava per prendere un treno per la Svizzera. Lui non meriterebbe una riga di più se non per un dettaglio: ha ucciso Giordana che erano le tre del mattino. Alle nove avrebbe dovuto comparire davanti al giudice come imputato per la prima udienza di un processo per stalking, nato da una denuncia che lei aveva firmato nel 2013, sfinita dai sui comportamenti aggressivi. “Non starò a fare la polemica sul fatto che lo Stato avrebbe dovuto proteggere mia figlia - premette Vera Squatrito, la madre di Giordana. Facciamo finta per una volta che dopo la denuncia sia stato fatto tutto il possibile per controllare quell’essere e tutelare lei. Però sentirsi presi in giro dalle istituzioni dopo la morte di una figlia è insopportabile. Non lo posso accettare. Si sono messi sul petto una legge come fosse un bellissimo fiore all’occhiello. Tutti a dire che gli orfani dei femminicidi ora sì che sarebbero stati aiutati. Ma di che parliamo? Nessuno di quei bambini e di quelle bambine, nessun ragazzo o ragazza ha mai ricevuto aiuto. Men che meno ne abbiamo avuto noi famiglie affidatarie”. Legge 4 dell’11 gennaio 2018 - Vera ha ragione. La famosa legge 4 dell’11 gennaio 2018, entrata in vigore un mese dopo, è per ora un esercizio scritto di belle intenzioni. Con quella legge per la prima volta il parlamento si era preso a cuore i problemi quotidiani degli orfani della violenza domestica. Assistenza medica e psicologica o accesso al gratuito patrocinio, per citarne alcuni. Ma anche soldi per “orientamento, formazione e sostegno” a scuola e nell’inserimento al lavoro. E parliamo di “minori o maggiorenni economicamente non autosufficienti”. Tutto lodevole ma, dopo quasi due anni, ancora tutto bloccato. Perché mancano i decreti attuativi cioè i regolamenti che devono stabilire i dettagli necessari a rendere operativa la legge. Per esempio: chi stabilisce la soglia dell’autosufficienza economica? Come sono ripartite le risorse? A partire da quale data si contano gli orfani di donne uccise? Quale ruolo tocca alle Regioni, ai Comuni, alle Asl? Niente decreti attuativi - Niente decreti attuativi niente risposte a nessuna di queste domande. E - di conseguenza - nemmeno un centesimo donato a un orfano o a una famiglia affidataria. Il Fondo per gli orfani dei crimini domestici (così si chiama) esiste nella teoria ma non in cassa, “di fatto è un salvadanaio vuoto”, per dirla con Vera Squatrito che ha fatto di tutto questo una sua battaglia personale. Nelle intenzioni della legge 4 il finanziamento per gli orfani doveva essere di due milioni ogni anno. La legge di bilancio votata a fine 2018 ne ha aggiunto altri tre a sostegno delle famiglie affidatarie, quindi nel 2019 i milioni sono diventati cinque. Ma c’è anche la legge battezzata come “codice rosso”: non soltanto ha confermato i 5 milioni del 2019 ma ne ha aggiunti altri due per il 2020. Benissimo. Ma i decreti attuativi previsti entro maggio del 2018? Se ne dovrebbe occupare il ministero dell’Economia con un lavoro di squadra che coinvolga anche i ministeri dell’Interno, Istruzione, Salute e Lavoro. Ma per farlo si devono trovare i soldi da mettere - fisicamente - in cassa e nessuno per adesso li ha trovati. Le difficoltà delle famiglie - “Tante famiglie affidatarie di questi orfani fanno fatica ad arrivare alla fine del mese”, se la prende Vera. “Io sono una nonna giovane e sono fortunata perché lavoro e perché Asia sta riuscendo ad elaborare la perdita di sua madre. Ma spesso questi orfani si ritrovano a crescere con nonni molto anziani e che faticano ad arrivare alla fine del mese. Lì il sostegno promesso dalla legge diventerebbe fondamentale. Questi bimbi subiscono traumi spaventosi. Hanno bisogno di psicologi, di terapie che li aiutino a crescere bene. Per anni. E tutto questo costa molto. Le famiglie che li accolgono sono già piegate dal dolore del lutto, si ritrovano ad affrontare improvvisamente lotte giudiziarie e spese enormi. A parole abbiamo il sostegno di tutti, nei fatti siamo ancora al palo”. Promesse non mantenute - La vicepresidente della Camera Mara Carfagna, da sempre molto attenta ai bisogni degli orfani di femminicidio, chiede al premier Conte e al ministro dell’Economia Gualtieri di “rimediare a questa vergogna”. E intanto gli anni passano e i bambini crescono senza gli aiuti promessi dalla politica. Asia aveva 4 anni quando sua madre Giordana fu uccisa. Va a trovarla spesso alla “casa degli angeli” dove vive. E lo ha detto a tutti. Allo psicologo, ai compagni di scuola, alle amichette di danza, perfino al cavallo della sua ippoterapia: “Io una mamma ce l’ho, solo che è un angelo”. Fisco, sopra i centomila euro manette per gli evasori di Francesco Grignetti La Stampa, 22 ottobre 2019 Nel decreto varato dal governo le pene passeranno da 6 a 8 anni. Ma i renziani puntano i piedi. Confindustria: distrazione di massa. Non sarà sulle manette agli evasori fiscali che cadrà il governo giallo-rosso. Nonostante i mal di pancia e le resistenze dei renziani, una giornata di vertici a palazzo Chigi ha ribadito il punto di fondo, ossia abbassamento delle soglie di punibilità a 100mila euro di evasione e aumento delle pene da 6 a 8 anni, che restano nel decreto fiscale, le cui bozze erano state approvate in consiglio dei ministri. Poi, certo, in ambito penale i dettagli fanno la differenza. Innalzare le pene edittali oltre certe soglie, ad esempio, apre alle procure la possibilità di intercettare i presunti evasori, il che non piace ai garantisti. Oppure, per questioni di metodo costituzionale, c’è chi critica la scelta di inserire modifiche al codice penale in un decreto, quale il fiscale. È quanto dice, ad esempio, Gennaro Migliore, di Italia Viva, ex sottosegretario alla Giustizia. E quindi fino all’ultimo si è discusso se inserire il pacchetto elaborato dal ministro Alfonso Bonafede nel decreto oppure farne un testo da far procedere in parallelo. Da una parte i grillini, testardi, che volevano portare a casa il risultato, per loro identitario. Dall’altra tutti gli altri. Politicamente parlando, il via libera c’è. Nicola Zingaretti ne aveva parlato già durante la sua intervista televisiva di domenica sera: “I grandi evasori rubano soldi a chi ha bisogno. Bisogna arrivare a sanzioni o al carcere. Non ho paura a sostenerlo”. Musica per le orecchie di Luigi Di Maio o del ministro Bonafede. Di Maio ha avuto gioco facile, su questa che era una delle sue tre richieste “irrinunciabili”, anche nell’incontro con Giuseppe Conte. Il premier è sempre stato convinto della necessità di ritoccare le pene per gli evasori, manovrando sulle soglie di punibilità oltre che sugli anni di pena. E per chi recalcitrava, vedi i dubbi espressi nei giorni scorsi a mezza voce dai renziani, è arrivata la classica randellata. “Noi - ha detto il vice ministro alle Infrastrutture, Giancarlo Cancelleri, M5S - vogliamo il carcere per i grandi evasori. Chi non lo vuole, si sta schierando con Berlusconi. Anche se sta dentro il governo”. Si è smosso perfino Romano Prodi a benedire l’accordo: “C’è bisogno di una durissima lotta all’evasione fiscale”, spiegava a Rete 4. Discorso rivolto innanzitutto a quell’uscita improvvida di Maria Elena Boschi, ripresa dal suo stesso partito. Stessa posizione per LeU, uno dei partner della coalizione. Parlava il senatore Federico Fornaro, capogruppo: “Nessuna retromarcia rispetto alla scelta di fare della lotta all’evasione fiscale uno degli assi portanti della manovra. Erodere la montagna di 110 miliardi di evasione fiscale e contributiva è fondamentale per recuperare risorse per la crescita e la lotta alle diseguaglianze”. È evidente che il governo vuole innalzare sul serio le sanzioni per i reati fiscali e rendere più ficcanti le norme. Tanto da far tremare le associazioni datoriali, che si sentono nel mirino. Protesta Vincenzo Boccia, presidente di Confindustria: “Speriamo in una politica economica coerente che non metta ansia alle imprese, a partire da questo dibattito di distrazione di massa sulla questione evasione che vede le manette prima ancora delle sentenze”. Anche i vertici della Confederazione nazionale artigiani, il presidente Daniele Vaccarino e il segretario generale Sergio Silvestrini, incontrando il ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, hanno accennato obliquamente ai “messaggi” che arrivano dalla politica in merito alla lotta all’evasione fiscale: “Rischiano di esemplificare e generalizzare alimentando luoghi comuni”. Carcere per gli evasori, la linea dura in Europa di Marco Esposito Il Mattino, 22 ottobre 2019 In Germania e Gran Bretagna non c’è una soglia minima per il reato penale. In Francia si evita la prigione se la somma nascosta è solo il 10% del reddito dichiarato. In Germania evadere non è reato. Avete letto bene. Però l’evasione consentita dal codice penale non è quella fiscale bensì l’evasione dal carcere. Si rispetta il principio che ogni essere umano ha un incomprimibile anelito verso la libertà e non può essere punito se riesce a fuggire, ma solo riacciuffato e ricondotto in cella. Invece l’evasione fiscale, quella sì, in Germania è reato penale, perché chi si sottrae ai doveri fiscali sta rubando scuole, strade e ospedali ai propri concittadini. In Italia è un po’ l’opposto. La fuga dal carcere è considerata un’offesa al sistema giudiziario e punita con una pena da uno a tre anni, aggiuntivi, di reclusione. Invece l’evasione fiscale è come un peccatuccio veniale (“kavaliersdelikt”, un delitto da gentiluomini, direbbero i tedeschi), una marachella perdonata dall’erario con gli immancabili condoni tributari. Ecco perché in Italia si discute con tanto fervore del carcere agli evasori fiscali, mentre nel resto d’Europa è del tutto ovvio che chi froda intenzionalmente il fisco commetta un reato che può portare in prigione. In Germania, come del resto in Gran Bretagna, non c’è neppure una soglia minima per il carcere, anche se l’obiettivo non è ovviamente chiudere in cella tutti gli evasori ma solo spaventarli a sufficienza affinché si autodenuncino e paghino le sanzioni. In Germania per chi chiede di mettersi in regola prima di essere scoperto dalla Finanza, la sanzione è limitata al 5% dell’importo dovuto, più gli interessi legali. Inoltre c’è una sorta di prescrizione, per cui non si può essere perseguiti per frodi fiscali più vecchie di dieci anni. Eppure il carcere come deterrente serve, eccome. Fece scalpore nel 2007 l’arresto dell’amministratore delegato di Deutsche Post, Klaus Zumwinkel, che aveva nascosto in modo illecito i soldi in Liechtenstein. Fu scoperto perché il governo tedesco comprò un file riservato con i nomi dei clienti di una banca locale. Il capo delle Poste tedesche fu condannato a due anni di reclusione, con pena sospesa, e multato per un milione di euro. Al processo il giudice affermò che il manager aveva “consapevolmente, meticolosamente e durevolmente” aggirato il fisco, mentre Zumwinkel si difese confessando tutto e dicendo alla corte di aver commesso “il più grande errore” della sua vita. Da allora sono fioccate le autodenunce, a decine di migliaia, di furbetti tedeschi con i conti nascosti in Svizzera o in altri paradisi bancari. Ed è proseguita la repressione, con centinaia di anni di carcere comminati ogni anno. In Germania la reclusione prevista per gli evasori va da uno a cinque anni, aumentabili a dieci in casi gravi, mentre in Gran Bretagna si arriva a sette anni, anche se il reato di solito viene punito con una multa fino al 100% dell’importo evaso. In genere però c’è una soglia oltre la quale scatta la punibilità penale dell’evasione fiscale. In Francia c’è un sistema che ricorda quello dei limiti di velocità e cioè una tolleranza pari al 10% del reddito dichiarato. Quindi un contribuente che dichiara 30mila euro e riceve un accertamento dal fisco che corregge la dichiarazione a 33mila euro, sui 3.000 in più deve solo versare una sanzione bonaria. Mentre se l’evasione supera il 10% scatta il codice penale e il carcere fino a cinque anni, che possono salire a sette per “circostanze gravi”. In Francia un condannato eccellente per frode fiscale è Jéróme Cahuzac, ex ministro delle Finanze sotto la presidenza di Frangois Hollande, finito nei guai dopo che un’inchiesta dalla procura di Parigi aveva scoperto i conti bancari segreti in Svizzera, nell’isola di Man e a Singapore per un valore complessivo di 3,5 milioni di euro. Cahuzac nel 2018 è stato condannato a quattro anni di prigione, di cui due con la condizionale, ma è riuscito tra il malumore dei parigini a evitare la prigione: deve rispettare una restrizione delle ore di uscita e sarà controllato con il braccialetto elettronico. In Spagna, invece, la soglia per le violazioni penali è fissa e scatta se l’evasione supera i 120 mila euro. In tale caso il processo per frode fiscale può concludersi con una reclusione da uno a cinque anni e una sanzione fino a sei volte la somma nascosta all’erario. Inoltre l’evasore, etichettato come contribuente inaffidabile, per un periodo da tre a sei anni perde il diritto a ottenere crediti o aiuti statali oppure di usufruire di incentivi fiscali o contributivi. Un evasore eccellente pizzicato da Madrid è l’ex allenatore del Manchester United, José Mourinho, portoghese, accusato in Spagna di non aver dichiarato i proventi derivanti dai suoi diritti di immagine nel periodo in cui allenava il Real Madrid, tra il 2011 e il 2012, per un danno al fisco spagnolo di oltre 3 milioni di euro. Mourinho è riuscito a evitare i dodici mesi di carcere patteggiando una multa aggiuntiva di 172.800 euro. Un buon prezzo per un anno di libertà. La lezione di Ilaria Cucchi di William Beccaro estremeconseguenze.it, 22 ottobre 2019 Ilaria Cucchi ha un indiscutibile merito, la sua battaglia, ci ha educati, ha fatto sì che fossero più forti gli anticorpi che presidiano i valori costituzionali nelle nostre carceri, nelle caserme e nelle questure. Ha reso più netta la differenza tra il grano e loglio, le eroiche donne e uomini in uniforme da chi quelle stesse uniformi infanga. E non è affatto poco. Da dieci anni sono il giornalista del Caso Cucchi. A chiamarmi, di solito, sono le scuole, a volte i colleghi giornalisti, soprattutto quelli giovani che dieci anni fa ancora frequentavano licei o università, ultimamente qualche studente che ha una tesi da scrivere. Lo scorso anno c’è stata un’impennata di chiamate per via del bel film, “Sulla mia pelle” di Alessio Cremonini, che di Stefano racconta le ultime ore. Nel film giustamente, io non ci sono e neppure il buon Daniele De Luca che mi faceva da vice in CnrMedia, la testata che il caso fece scoppiare pubblicando le ormai stranote foto dell’autopsia del giovane massacrato di botte. Giustamente non siamo nel film perché l’eroe del Caso Cucchi è la sorella Ilaria. È lei, con il supporto del buon avvocato Fabio Anselmo, che ha bussato a ogni porta per vedere riconosciuto il dramma che stava vivendo e per chiedere verità. Noi eravamo una delle porte cui ha bussato e abbiamo aperto. Punto. Non lo scrivo per una pudica modestia. I fatti sono questi. CnrMedia pubblicò le foto che altri non pubblicarono, poi Beppe Grillo e il suo blog rilanciarono le nostre pagine web e furono milioni di click e Ilaria iniziò il suo percorso verso la verità. A questo proposito fatemi sottolineare che il Caso Cucchi non è accaduto 10 anni fa, ma sta durando da 10 anni. Nel senso che non è finita e la verità sulla morte di Stefano e soprattutto su tutti gli odiosi depistaggi istituzionali sono ben al di là di essere svelati. Il Caso Cucchi è nei fatti uno dei misteri italiani e solo il disvelamento di insabbiamenti e coperture lo consegnerà alla storia, alla brutta storia del nostro Paese. Insabbiamenti e coperture che devono trovare nomi e cognomi, che si andranno ad aggiungere a quelli degli inqualificabili politici che di Stefano e Ilaria dissero e dicono le peggio cose. 10 anni fa nessuno sapeva chi fosse Stefano Cucchi, oggi si. Ed è importante sia così perché segna un’evoluzione nel sentire pubblico. Oggi un nuovo Caso Cucchi è più improbabile e non perché non ci possano essere pestaggi da parte di una qualche uniforme marcia, bensì perché l’opinione pubblica non è più incredula. Non è più impermeabile. Ilaria Cucchi ha un indiscutibile merito, la sua battaglia, ci ha educati, ha fatto sì che fossero più forti gli anticorpi che presidiano i valori costituzionali nelle nostre carceri, nelle caserme e nelle questure. Ha reso più netta la differenza tra il grano e loglio, le eroiche donne e uomini in uniforme da chi quelle stesse uniformi infanga. E non è affatto poco. Il caso di Stefano Cucchi ha risvegliato le coscienze assopite della maggior parte di noi di Roberto Bertoni articolo21.org, 22 ottobre 2019 Molte cose sono cambiate negli ultimi dieci anni, ahinoi quasi tutte in peggio. Fatto sta che la tragica vicenda di Stefano Cucchi, il trentunenne geometra romano trovato in possesso di alcuni grammi di hashish e cocaina e per questo portato in caserma e lì pestato a sangue da alcuni agenti, causandogli danni che in pochi giorni lo hanno condotto alla morte, ha risvegliato le coscienze assopite della maggior parte di noi circa il tema dei diritti umani. Dieci anni e ne abbiamo sentiti di insulti, farneticazioni e affermazioni vergognose da parte di alcuni esponenti politici, per non parlare di certi colleghi, di quella frangia della destra che su Cucchi ha rivelato la sua vera natura. Una natura che, purtroppo per il nostro Paese, ha poco a che vedere con la tradizione liberale e diversi punti in comune, invece, con paesi in cui, di fatto, non esiste l’habeas corpus e i diritti umani non sono tenuti in nessuna considerazione. Il caso Cucchi, come ben sa la sorella Ilaria, verso cui nutro sentimenti di profonda stima e sincera amicizia, ha avuto il merito di fare chiarezza su numerosi aspetti del nostro vivere civile. Il che mi induce a dire che la morte straziante di un ragazzo che mai sarebbe dovuto finire in carcere e, meno che mai, avrebbe dovuto subire lo scempio che ha subito, per fortuna, non è stata vana. Si è aperto, infatti, in Italia un dibattito sul ruolo e sulla funzione delle carceri e di chi vi lavora, sul senso di determinate pene detentive e sull’ingiustizia di molte di esse. Ci si è scontrati sul punto cruciale della prigione intesa da alcuni, i soliti, i già menzionati campioni del sovranismo all’amatriciana, alla stregua di una discarica sociale dove gettare gli scarti, i deboli, gli ultimi, coloro che non ce la fanno e per questo, secondo la vulgata corrente, sapientemente alimentata, non avrebbero diritto né alla redenzione né alla giustizia nel senso letterale del termine. Non c’è dubbio che Stefano Cucchi, nel corso della sua breve vita, abbia commesso degli errori, che abbia incontrato il gorgo pericoloso della droga e della dipendenza e che non sia riuscito a uscirne. Tuttavia, non c’è dubbio che è proprio per persone così che è necessario prevedere misure alternative al carcere, finanziando adeguatamente le comunità di recupero e restituendo alla piena cittadinanza chi ha commesso degli sbagli ma non per questo merita di essere abbandonato a se stesso o colpito in eterno da un marchio di infamia. Oltretutto, la tragedia di Cucchi ci ha permesso di conoscere una donna, Ilaria per l’appunto, che non ha mai elevato il fratello a eroe moderno né gli ha lesinato critiche, anche severe e immagino per lei quanto dolorose, preferendo, al contrario, farne un simbolo di lotta collettiva per una certa idea di società. Una società, quella per cui si batte Ilaria, e noi al suo fianco, nella quale nessuno sia lasciato indietro, nella quale un cittadino nelle mani dello Stato venga rispettato quanto e più degli altri, nella quale la giustizia sia giustizia e non faida medievale, nella quale il carcere abbia la funzione costituzionale di luogo di rieducazione e non di buco nero senza via d’uscita, nella quale la logica della vendetta che si è impadronita del nostro vivere civile venga contrastata con la massima fermezza e, infine, sconfitta. E ci ha consentito di conoscere anche un uomo, l’avvocato Fabio Anselmo, che della passione per la lotta di Ilaria ne ha fatto una ragione di vita, riportando l’umanità e la dignità indispensabili nelle aule di un tribunale in cui, in precedenza, si era discusso in termini burocratici e lesivi della memoria di un ragazzo assassinato per la sola colpa di non essere nessuno. Dieci anni dopo dobbiamo dire grazie a Ilaria per aver reso qualcuno tanti altri nessuno come suo fratello, per averli fatti sentire meno soli, per aver ricordato a tutti noi il ruolo costituzionale della politica e della magistratura, per aver fatto uscire dal silenzio il grido di rivalsa di quanti hanno subito per anni ogni sorta di angheria, per aver scelto di vincere sempre e comunque nella legalità, senza populismo, senza vittimismo, senza autocommiserazione, credendo nelle istituzioni e affidandosi a un iter che ha favorito la scoperta dei responsabili e dei depistatori e aperto una discussione sui corpi dello Stato che non si vedeva dai tempi del G8 di Genova. Ilaria ha vinto perché non ha mai cercato di strumentalizzare il dramma del fratello. E Stefano oggi può riposare se non in pace, quanto meno con un minimo di serenità. Vassalli, il partigiano che riformò la giustizia: “C’è l’uomo, poi lo Stato” di Ugo Intini Il Dubbio, 22 ottobre 2019 A dieci anni dalla scomparsa, il ricordo dello studioso e politico socialista il suo “pragmatismo rassegnato”. Ricorre il decennale della morte di Giuliano Vassalli, uno dei più grandi penalisti e giuristi del secolo scorso. Generazioni di cronisti hanno seguito i clamorosi processi di cui è stato protagonista. Generazioni di giovani hanno studiato sui suoi testi e seguito le sue lezioni nelle tante università dove è stato cattedratico. Lo ricordo per un omaggio doveroso, ma anche perché la sua storia personale aiuta a capire un’epoca. È stato uno straordinario professionista, ma anche un eroe della Resistenza, dirigente di partito e uomo di Stato. Oggi si usa contrapporre la “società civile” alla “classe” o “casta politica”. Tuttavia per Vassalli, come per tanti altri, non solo la contrapposizione, ma anche la distinzione non esisteva: è infatti difficile dire se fosse un professore prestato alla politica o viceversa. Certamente, nella vita di Vassalli, gli ideali politici sono venuti prima (anche temporalmente) e lo hanno condotto nella Roma occupata dai nazisti del 1943 - 1944 a avventure leggendarie. Socialista, a 28 anni era il comandante delle Brigate Matteotti nella zona centro. Quando il vice segretario del partito Pertini e Saragat vennero arrestati, Nenni era angosciato. I tedeschi non li conoscevano, ma prima o poi li avrebbero individuati come dei capi e uccisi. Chiamò Vassalli e gli chiese di liberarli. Con complicità all’interno del carcere e con documenti falsi, si riuscì a organizzare la loro fuga rocambolesca da Regina Coeli. Ma poco dopo anche Vassalli fu catturato e portato nella centrale delle SS di via Tasso. Lo torturarono e massacrarono di botte al punto tale che veniva spostato avvolto con una coperta, perché il suo aspetto faceva orrore. Fu liberato per l’intervento personale di Pio XII sul comandante delle SS in Italia generale Wolff, che trattava segretamente con il Vaticano tramite Virginia Agnelli (la madre di Gianni): una nobildonna legata alla Resistenza (come la mamma di Carlo Ripa di Meana, Fulvia Schanzer). Il cugino di Giuliano, Fabrizio, fu invece fucilato al forte di Bravetta. Vassalli, nell’Italia liberata, ha sempre fatto, oltre che il professore e l’avvocato, l’uomo politico. Ha seguito Saragat nella scissione a palazzo Barberini del 1947. È ritornato al partito socialista nel 1956, dopo la rottura con Mosca causata dalla repressione in Ungheria. Poi ha seguito prima Nenni e poi Craxi: sempre un socialista “autonomista”, dunque. A quei tempi, si votava e si sceglieva davvero liberamente: per essere eletti, bisognava avere i voti. Voti che non si conquistavano né per titoli accademici, né per volontà dei capi partito. Per Vassalli è stata dura. Ha trovato con fatica le preferenze per essere eletto consigliere comunale a Roma (1962- 66). Ce l’ha fatta a essere eletto deputato (1968- 72), ma una volta sola. Nel 1983, Craxi lo ha piazzato in un collegio sicuro del Lazio: è stato così eletto senatore e capogruppo al Senato (sino al 1987). Poi non è più riuscito. Subito dopo la mancata elezione, il presidente della Repubblica Cossiga voleva nominarlo alla Corte Costituzionale (della quale sarebbe diventato presidente nel 1999). Ma Craxi gli chiese di aspettare, perché voleva tenerlo disponibile per il ministero della Giustizia, dove infatti lo portò nel 1989. Lì Vassalli fece il nuovo codice di procedura penale, aiutato dal suo grande amico Gian Domenico Pisapia (repubblicano, cattedratico a Milano, il più grande esperto della materia, padre del futuro sindaco Giuliano). Non avrebbe mai immaginato che molti magistrati avrebbero interpretato il suo codice a modo loro e che il pool di Mani Pulite avrebbe usato il carcere preventivo come strumento per estorcere confessioni. Lo amareggiarono anche le polemiche furibonde per la legge che fece approvare nel 1990 contro l’uso della droga. Fu dipinto (proprio lui!) come forcaiolo e repressivo. A distanza di tanti anni, non saprei giudicare nel merito. Ma certamente la volontà era allora quella di dare un segnale chiaro sul fatto che la droga rappresenta una minaccia mortale, da combattere senza ambiguità e distinguo. Ricordo che se ne discusse molto anche con Craxi e che il punto di partenza fu un incontro a New York con il giovane prosecutor Rudolph Giuliani. Ci descrisse a lungo cosa succedeva per la droga in America e come lui la stesse combattendo con quella “tolleranza zero” che lo avrebbe reso popolare e portato a diventare sindaco. Giuliani è invecchiato male (come si vede dalle sue avventure con Trump), ma allora ci impressionò, così come ci colpirono le esperienze terribili che ci raccontava Vincenzo Muccioli, fondatore della comunità di San Patrignano. Nel 1978, durante la prigionia di Moro, Vassalli fu l’unico tra i “grandi vecchi” ad appoggiare apertamente gli sforzi di Craxi per aprire una via di trattativa con i brigatisti e per liberarlo. Pur con grande rispetto, diceva che i nostri capi storici, per età e formazione, erano “giacobini”: vedevano cioè la politica e lo Stato come un fine ultimo (il più elevato). Lui pensava invece (e con lui i cattolici come Baget Bozzo) che lo Stato fosse un mezzo. E infatti ha osservato: “Moro scriveva dal carcere quegli argomenti che, se libero, avrebbe cercato di far valere a favore di altri. In tutto il suo pensiero domina infatti l’idea del carattere subordinato dello Stato alla realtà dell’uomo. La persona nella sua singolarità rappresenta il principio e il fine dell’esperienza giuridica”. Vassalli mal sopportava la cosiddetta “interpretazione evolutiva” delle leggi. L’idea cioè che l’interpretazione delle norme potesse essere forzata per adattarle alla evoluzione della società e agli obiettivi da raggiungere. Non amava i magistrati che si fanno paladini di battaglie (anche nobili). Citando un famoso esponente della Corte Suprema americana, diceva: “I magistrati non perseguono cause, i magistrati giudicano cause”. Anche con questo spirito, Craxi e i socialisti si contrapposero al protagonismo e al giustizialismo di una parte della magistratura. Ma questo scontro ha radici molto più antiche. Lo stesso Nenni scriveva cose che sembrano adattarsi perfettamente alle polemiche di oggi (pensiamo allo scandalo del Csm). Annotava nel 1964: “L’indipendenza della magistratura va assumendo forme che fanno di quest’ultima il solo vero potere, un potere insindacabile, incontrollabile e a volte irresponsabile”. E nel 1974 aggiungeva: “L’abbiamo voluto indipendente e ha finito per abusare del potere che esercita. Per di più, è divisa in gruppi e gruppetti peggio dei partiti”. Invecchiando, Vassalli non era diventato cinico, ma manifestava quello che si potrebbe definire un “pragmatismo rassegnato”. Faceva quello che poteva e doveva, ma “rassegnato” - appunto - ad accettare che i risultati sarebbero stati inferiori alle necessità. Avevo una venerazione per lui e lui l’aveva per l’Avanti! del quale ero direttore. Raccontava che in quel terribile 1943- 44, a Roma, i compagni lo diffondevano clandestinamente. Vezio Crisafulli, che sarebbe diventato un famoso costituzionalista e giudice dell’Alta Corte, portava gli articoli da stampare in una tipografia nascosta a Monte Mario. Direttore era Saragat. Capo redattore era Eugenio Colorni, che con Altiero Spinelli scrisse il “Manifesto” europeista di Ventotene e che sarebbe diventato famoso come lui se non fosse morto troppo presto: riconosciuto in strada da una pattuglia di fascisti, fu falciato con una raffica di mitra pochi giorni prima dell’arrivo a Roma della Quinta Armata. Se gli chiedevo un articolo, Vassalli me lo mandava immediatamente, chiamandomi “direttore”. Su di lui, ho nella memoria quattro flash. Primo. Quando nel 1983 fui candidato capolista per la Camera in Liguria (al posto di Pertini) mi preoccupavo per i voti di preferenza e Vassalli venne in mio soccorso a Genova, dove aveva insegnato per anni. Era ancora ricordato come un mitico cattedratico di diritto penale e in città esisteva una cordata di professori socialisti: Mario Bessone (che sarebbe diventato membro del Csm), Fernanda Contri (giudice costituzionale), Beppe Pericu (futuro sindaco), Guido Alpa. Lo vedo ancora oggi mentre mi presentava ai suoi allievi diventati famosi e influenti. Secondo flash. Craxi lo considerava un mito (forse influenzato dal papà Vittorio, come lui avvocato e esponente della Resistenza). Tentò perciò due volte di farlo eleggere presidente della Repubblica: nel 1978 (quando riuscì Pertini) e nel 1992 (invece di Scalfaro). Nel, 1978 ce l’avrebbe fatta se non si fossero opposti i comunisti, che non gli perdonavano la posizione “trattativista” nel caso Moro. Craxi ripiegò su Pertini e fummo felici ugualmente. E qui viene il flash. Come direttore dell’Avanti!, cercavo quel giorno un fondo autorevole al volo. Ci volle coraggio per telefonare a Vassalli, che poche ore prima sembrava il candidato vincente. Ma mi disse subito di sì. In un lungo articolo, scrisse tra l’altro: “Per noi giovani socialisti di allora, l’elezione del nostro Sandro è come il coronamento di un sogno. Dal primo giorno in cui ci incontrammo, nell’agosto del 1943, a Roma, dove Sandro era arrivato dal confino, egli fu per noi giovani il nostro uomo, il nostro capo naturale”. Ed ecco il terzo flash. Nel novembre 2007, nel palazzo della Provincia, in piazza Venezia, andammo insieme a visitare una mostra su Nenni. Camminava piano, sorreggendosi con un bastone. Davanti alla vetrina con i documenti sulla guerra di Spagna, rimase inchiodato con le lacrime agli occhi. Fissava una vecchia foto di Mario Angeloni, volontario repubblicano morto in combattimento. “Era il fratello di mia mamma - mi disse - ed è per la sua morte che sono diventato un militante antifascista”. Il quarto e ultimo flash riguarda il suo tramonto. È morto a 94 anni: sempre lucido, ma depresso. Viveva da solo con un vecchio cameriere nella bella villa liberty di famiglia, in un giardino sul Lungotevere dei Vallati, a cento metri dal ministero della Giustizia di via Arenula. Stava nella penombra con le persiane chiuse. Aveva parlato e scritto troppo, non se la sentiva più nemmeno di fare interviste. Ma vedeva ancora volentieri i vecchi compagni come me. Che chiamava esattamente così: “Compagni”. Come fanno i militanti della sinistra ancora oggi in tutto il mondo. Secondo una tradizione il cui significato emotivo profondo era stato spiegato ai primi del 900 con un articolo ancora sull’Avanti! da un “compagno” che di emozioni si intendeva: Edmondo De Amicis. Infortunio all’alunno, preside e responsabile sicurezza condannati di Carlo Forte Italia Oggi, 22 ottobre 2019 La condanna definitiva della Corte di cassazione. Cosa si rischia e perché con la colpa generica e specifica. Un mese di reclusione con sospensione della pena e obbligo di risarcire il danno. E la pena inflitta a una dirigente scolastica e al responsabile del servizio prevenzione e protezione (Rspp) per non avere dato disposizioni per prevenire un grave infortunio accaduto ad un alunno precipitato al piano inferiore a seguito della rottura di un lucernaio. La pena era stata applicata dalla Corte d’appello di Potenza, che aveva confermato un’analoga pronuncia di I grado (cosiddetta doppia conforme). E adesso è stata confermata anche dalla quarta sezione penale della Corte di cassazione con una sentenza emessa il 12 settembre 2019, n. 37766. Ecco come si sono svolti i fatti. Uno studente che aveva terminato l’ultimo anno del liceo classico, sostenendo pochi giorni prima l’esame di maturità, si era recato a scuola per assistere all’esame orale dei compagni. L’esame si teneva in un’aula al secondo piano dell’edificio, alla quale si accedeva da un corridoio quadrangolare che delimitava, all’interno, un solaio-lucernaio sul quale si aprivano dei cupolini. La cui finalità era fare entrare luce al piano sottostante, il primo, adibito ad attività scolastiche. I cupolini erano costruiti in materiale plastico (plexiglass) sottile pochi millimetri e non in grado di sostenere pesi superiori a 50 kg. né urti e non erano protetti da grate o da altri sistemi. L’unico accesso al solaio-lucernaio era costituito da una porta-finestra con telaio in alluminio che si apriva nel corridoio percorribile a chi si trovasse nella scuola. Porta-finestra che era antistante proprio l’aula nella quale quel giorno si sostenevano le prove di maturità. La porta in questione normalmente era chiusa con un lucchetto di piccole dimensioni. E le chiavi del lucchettino erano normalmente riposte in una bacheca a disposizione di tutti i collaboratori scolastici. Quel giorno, però, come era accaduto anche in altre occasioni in cui faceva molto caldo, per fare passare aria nel corridoio la porta in alluminio era stata aperta da una collaboratrice scolastica. Lo studente, mentre si recava nell’aula, era inciampato in una sporgenza della porta (la battuta a terra) ed era caduto in avanti sfondando con il suo peso il fragile cupolino che era posto a soli 70 centimetri dalla base della porta. Ed era caduto al piano di sotto precipitando per più di sette metri, riportando gravi lesioni, plurime fratture, sfregio permanente del viso ed indebolimento permanente della teca cranica. A causa di questi fatti il dirigente scolastico e il Rspp sono stati ritenuti responsabili dell’infortunio, per colpa, sia generica che specifica, sotto vari profili. Ciò per avere omesso di valutare il rischio di caduta dall’alto nell’elaborazione del documento di valutazione dei rischi della scuola; per avere omesso di interdire in maniera idonea l’accesso al luogo pericoloso ovvero per avere omesso di segnalare in maniera adeguata la situazione di pericolo relativa a tale accesso. E per avere omesso, inoltre, di informare specificamente e di addestrare i collaboratori scolastici e i lavoratori della scuola con riguardo alle modalità di apertura e di chiusura della porta di accesso e per avere omesso di disciplinare adeguatamente la gestione delle chiavi di chiusura della porta finestra che dava accesso al lastrico. E infine, per avere omesso di segnalare il pericolo di caduta dall’alto attraverso i fragili cupolini sulla copertura in questione alla provincia ente tenuto per legge alla manutenzione dell’istituto scolastico, e anche per avere omesso di richiedere alla provincia interventi di manutenzione idonei a migliorare la situazione della sicurezza quanto, appunto, al rischio di caduta dall’alto. Toscana. Corleone: “Celle sovraffollate per la legge sulla droga. Ora cambiamola” di Maria Cristina Carratù La Repubblica, 22 ottobre 2019 “Bisogna distinguere i reati minori per spaccio e detenzione di stupefacenti da quelli più gravi. Normativa ferma a 30 anni fa”. Le carceri italiane scoppiano? Fra i tanti motivi del sovraffollamento c’è l’impropria presenza dietro le sbarre di persone incappate nelle maglie di una legislazione antidroga ideologica e antiquata, oltre che inefficace. Anche in Toscana, dove reti sociali più virtuose farebbero pensare ad un fenomeno attenuato. A renderlo evidente è il nuovo Rapporto promosso dal Garante regionale dei diritti dei detenuti in collaborazione con la Fondazione Giovanni Michelucci, il contributo di studiosi ed esperti di università e Camere penali, e il supporto delle amministrazioni penitenziarie di Firenze, Prato, Pisa, Massa e Livorno. I dati, sottolinea il Garante Franco Corleone, sono chiari: alla fine del 2018, più di un terzo dei detenuti toscani (il 33,8%, di cui il 62,39% stranieri) è in carcere per violazioni della legge antidroga. In particolare, dell’articolo 73 del Dpr 309 del 1990, la cosiddetta Iervolino-Vassalli, che introduce la distinzione fra droghe pesanti e droghe leggere, e il concetto di “lieve entità”. Abolita nel 2006, con la modifica dell’articolo 73, dalla legge Fini-Giovanardi, a sua volta dichiarata anticostituzionale nel 2014 dalla Suprema Corte, la distinzione fra pesanti eleggere è quindi tornata, ma non per la “lieve entità”. Una previsione che di fatto ha penalizzato moltissimo i responsabili di fattispecie minori, comprese la semplice detenzione o la cessione gratuita. L’imputazione generica per l’articolo 73, infatti, sottolinea Corleone, “permette comunque l’arresto e la custodia cautelare, in attesa che la “lieve entità” prevista al comma 5 venga eventualmente verificata durante il processo”. Così, le persone finiscono in carcere. Insomma: le distinzioni introdotte dal legislatore “appaiono appiattite nella concreta applicazione”, col risultato che “si arriva di fatto all’arresto anche per imputazioni che di norma non lo richiederebbero”. Soprattutto, e non a caso, per quanto riguarda gli stranieri, privi di adeguate reti sociali e con minori strumenti difensivi. Il tutto mentre la perdurante “opacità dei dati”, raccolti senza adeguati criteri, “rende arduo e spesso impossibile farsi un’idea esatta del fenomeno”. Il quadro che ne emerge, sottolinea Corleone, è che “se la tendenza internazionale è di distinguere i reati minori di droga da quelli più gravi, riservando ai primi sanzioni non carcerarie”, in Italia siamo fermi a una legge di 30 anni fa, “quando società, stili di vita, consumo di droghe, erano ben diversi”. Da qui la richiesta che “la politica riprenda il proprio ruolo e proceda a scelte strategiche”, riformando una legge obsoleta, in particolare scorporando il comma 5 e facendolo diventare un articolo 73bis, da poter applicare con chiarezza, e ripensando i servizi (vedi i Sert) e le misure alternative alle luce di nuove esigenze. E il Rapporto, adesso, consegna alla Regione Toscana “elementi per un dibattito sulle droghe fondato sui fatti, non su miti”. Genova. A Marassi si toglie la vita detenuto 53enne accusato di stalking telenord.it, 22 ottobre 2019 Era stato arrestato a luglio a Savona perché dopo l’ennesimo maltrattamento alla compagna aveva minacciato di darle fuoco: “Vado a prendere una tanica di benzina e ti brucio” aveva gridato alla donna. Ignazio Congiu, 53 anni, savonese di origine laziale, si è tolto la vita la scorsa notte in una cella della sesta sezione del carcere di Marassi, a Genova: a trovarlo senza vita un agente penitenziario. Per uccidersi l’uomo si è stretto intorno al collo un lenzuolo appeso ad una finestra. Poi gli è bastato piegare le gambe e il cappio si è stretto. I poliziotti e i medici del presidio sanitario del carcere accorsi nella cella per alcuni minuti erano riusciti a rianimarlo, ma dopo poco il cuore dell’uomo si è fermato ancora, stavolta senza più riprendersi. Congiu era in cella da solo perché i detenuti accusati di reati contro donne e bambini, come detta il regolamento non scritto che vige in carcere, rischiano ritorsioni da parte degli altri reclusi. Proprio perché solo è riuscito a mettere in atto il suo piano di morte. Si è svegliato in piena notte, ha formato una corda con lenzuola e si è impiccato. L’uomo era in attesa di giudizio per i maltrattamenti anche psicofisici, e le minacce denunciate dalla compagna. La donna a luglio, esasperata, si era recata a sporgere denuncia in questura raccontando che continuava a ricevere minacce sul suo telefonino anche mentre era davanti all’investigatori della squadra mobile che stavano raccogliendo la sua testimonianza. Congiu, invalido, residente in un alloggio di Villapiana, con diversi problemi alle spalle legati all’alcol, era già stato accusato in passato di tentato omicidio e lesioni gravissime per una storia di risse e bottigliate tra sbandati e clochard tra corso Mazzini e il Prolungamento. Pare che in quel caso Congiu si fosse intromesso in una rissa per difendere una donna. La compagna, sua convivente, lo aveva allontanato dalla casa; lui però non aveva accettato la decisione, cercando di ritornare ad abitare con lei. La donna, esasperata per le ingiurie e le minacce, però aveva sporto denuncia e lo aveva fatto arrestare e finire in carcere. Ai poliziotti la donna, molto attiva nel volontariato e nel sociale, poi aveva spiegato come l’aggressività dell’uomo sarebbe esplosa negli ultimi tempi anche per colpa di un mix di farmaci, assunti per curarsi dall’uomo, e alcol. Un’aggressività che ha portato Congiu, tornato ad abitare da solo, a scagliarsi contro la porta di casa dell’ex convivente chiedendole di poter rientrare in casa con lei. Richieste accompagnate da insulti e minacce sino a dirle: “Vado a prendere una tanica di benzina e brucio tutto” aveva minacciato. La notizia della tragedia nella cella di Marassi stamane è stata resa nota dal Sappe, il Sindacato di polizia penitenziaria: “Marassi segna purtroppo il secondo suicidio dall’inizio dell’anno. Un dramma che nessuno deve ignorare. Non conosciamo le cause che hanno indotto al suicidio ma di fatto esiste un disinteresse alle condizioni di vita della popolazione detenuta a Marassi che è indiscutibile: ci sono 730 detenuti che devono convivere in spazi per 525 posti”. Secondo il Sappe “gli eventi critici sono ormai quotidiani: nel primo semestre 2019 ci sono stati quasi 100 atti di autolesionismo, un suicidio, 73 colluttazioni e 40 ferimenti, un decesso per cause naturali e continue aggressioni alla Polizia penitenziaria. Poco più di un anno fa - continua la nota - la direzione di Marassi si è resa parte attiva con l’assessore regionale alla sanità di un protocollo sul rischio suicidario ma ancora nulla si sa, a distanza di quasi un anno dalla sua introduzione, sulle modalità attuative di tale protocollo. E allora le responsabilità di chi sono?”. Torino. Il Garante nazionale e l’inchiesta sui presunti casi di maltrattamento agensir.it, 22 ottobre 2019 Il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale segue “con attenzione” l’inchiesta della Procura di Torino su casi di maltrattamento nel carcere “Lorusso-Cutugno” di Torino. Lo si legge in una nota diffusa oggi. La situazione inizialmente riportata dalla Garante del Comune di Torino era stata oggetto di due visite all’Istituto da parte del Collegio del Garante nazionale. A queste aveva fatto seguito un incontro con il procuratore capo di Torino e la presentazione di un esposto alla Procura. “Insieme alla garante comunale, continuiamo a seguire gli sviluppi dell’indagine, nel rispetto del lavoro degli inquirenti”, prosegue la nota del garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. “Il garante nazionale ribadisce ancora una volta il proprio apprezzamento per il lavoro svolto quotidianamente dalla Polizia penitenziaria e anche per la capacità dimostrata di sapere andare fino in fondo nel portare avanti indagini su persone appartenenti allo stesso corpo di Polizia. Individuare, isolare e sanzionare chi, all’interno della Polizia penitenziaria, compie azioni illecite o commette reati è il modo migliore per tutelare tutti quei lavoratori che fedelmente svolgono il loro difficile compito”, osserva il garante. Ciò premesso, come meccanismo nazionale di prevenzione della tortura in ambito Onu, il garante nazionale esprime “preoccupazione per l’emergere di situazioni di abusi da parte di chi, al contrario, dovrebbe garantire la sicurezza di tutti” e ricorda che “nel 2017 fu la Corte europea dei diritti dell’uomo a condannare l’Italia per l’assenza di possibile effettiva reazione a violazioni del divieto di tortura, a seguito di episodi accertati nel carcere di Asti. Nello stesso anno l’Italia ha finalmente previsto nel proprio codice penale tale reato e suscita allarme che in almeno due casi, finora emersi, tale fattispecie sia ravvisabile”. Il garante nazionale, infine, riconferma “la propria disponibilità a cooperare con l’Amministrazione per esaminare le radici di un fenomeno che, al di là delle qualificazioni giuridiche, è espressione di un problema e impone la necessità di investire in modo sostanziale sull’analisi dei modelli culturali e sulla formazione del personale”. San Gimignano (Si). Trasferiti 100 detenuti, svolta nel “carcere dei pestaggi” di Maria Cristina Carratù La Repubblica, 22 ottobre 2019 Saranno trasferiti in altri Istituti, così da rendere più vivibile il penitenziario che sarà interamente destinato ai reclusi in regime di massima sicurezza. Ci sono volute rivolte, proteste, incidenti, fino al recente pestaggio di un giovane detenuto tunisino da parte di alcune guardie carcerarie (su cui la Procura di Siena ha aperto un’inchiesta per minacce, lesioni aggravate, falso ideologico nonché, per la prima volta a carico di pubblici ufficiali, per tortura, con l’immediata sospensione di quattro agenti da parte del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria). Ma adesso per la Casa di reclusione Renza di San Gimignano si profila una novità che potrebbe trasformarlo in carcere dal volto (un po’ più) umano, o almeno si spera. Il provveditore reggente dell’amministrazione regionale penitenziaria, Antonio Fullone, ha avviato il trasferimento (“in realtà deciso da tempo”) da San Gimignano ad altre carceri, toscane e del resto d’Italia, di circa 100 detenuti del settore media sicurezza (cui apparteneva anche il ragazzo tunisino). Nel giro di qualche settimana il Renza sarà così interamente destinato ai detenuti in regime di alta sicurezza (circa 250, il livello massimo di capienza del carcere). Una svolta, nella storia infelice della struttura, inaugurata alla fine degli anni 90 in mezzo alla campagna, senza né una strada adeguata, né un servizio di trasporto pubblico (oggi c’è un bus navetta ma solo in alcuni giorni), e dove tuttora non arriva l’acquedotto comunale (l’acqua viene da pozzi spesso secchi o inquinati). Il tutto mentre l’aumento dei detenuti, soprattutto nell’alta sicurezza, l’altissimo turn over del personale e le frequenti vacatio di ruoli (direttori e comandanti compresi: l’attuale, reggente, è anche direttore del carcere di Arezzo) hanno messo a rischio gestione e sicurezza. Il trasferimento dei 100, insomma, potrebbe segnare una svolta, mentre a breve dovrebbe partire il bando per un nuovo direttore titolare. Nel frattempo, nel carcere è stata istituita una sezione Universitaria, anche se, ha già fatto notare il garante regionale dei detenuti Franco Corleone, “da completare con locali idonei”, mentre “continua a mancare un polo scolastico ben organizzato” per la scuola media superiore. E novità ci sono anche per altre carceri toscane. A Volterra, dove da anni lavora con i detenuti la Compagnia teatrale diretta da Armando Punzo, il Provveditorato alle opere pubbliche ha dato l’ok all’avvio alle indagini archeologiche necessarie alla realizzazione di un vero e proprio teatro interno. A Pistoia i Frati minori Cappuccini hanno offerto in comodato l’uso di un’ala del loro Convento per la sezione dei detenuti in semilibertà (una ventina), finora costretti, la sera, a tornare in carcere (i primi arrivi entro l’anno). Buone notizie anche da Grosseto, dove la consegna della Caserma Barbetti da parte del demanio militare sbloccherà l’iter esecutivo per la realizzazione del nuovo carcere. Brutte, invece, da Massa, dove i lavori per bloccare le infiltrazioni d’acqua nella sezione sanitaria e nell’infermeria non hanno risolto problemi come l’automazione delle porte, il distacco delle mattonelle nei bagni, le infiltrazioni dagli infissi, ed è in atto un contenzioso con l’appaltatore. Quanto a Firenze, il provveditore regionale ha proposto di destinare alle donne (oggi a Sollicciano) la Casa circondariale Gozzini per la custodia attenuata di detenuti a bassa pericolosità, finora tutta maschile. Nessuna novità invece, né per la Casa per i detenuti in semilibertà a San Salvi, né (per le difficoltà burocratiche legate all’eventuale accoglienza anche di detenute di altre carceri italiane) per il progetto di una Casa delle mamme detenute con bambini, nonostante l’accordo fra Madonnina del Grappa, Regione, e Dap, risalga al 2010. Milano. Gli 80 anni di don Rigoldi, cappellano del carcere minorile Corriere della Sera, 22 ottobre 2019 Don Gino Rigoldi, lo storico cappellano del carcere minorile di Milano, compie 80 anni. Per celebrare e ricordare l’impegno per i tanti ragazzi che ha aiutato, i suoi collaboratori hanno organizzato insieme a Buone Notizie un evento che si tiene il 30 ottobre, giorno del compleanno, in Triennale. Sarà un’occasione per ripercorrere le tappe della storia cominciata nel 1972, anno in cui don Rigoldi chiede e ottiene di diventare prete dell’Istituto penale Cesare Beccaria, incarico che tuttora esercita. Nello stesso anno, don Gino comincia a ospitare a casa sua minori che escono dal carcere senza casa e famiglia, coinvolgendo i servizi sociali perché nascano risposte concrete a favore dei giovani abbandonati. Quando entra nel carcere, gli è subito chiaro che da solo non riuscirà a dare un aiuto concreto. Così organizza un gruppo di volontari per realizzare progetti dentro e fuori le sbarre, dando poi vita alle associazioni Comunità Nuova, Bir e oggi alla Fondazione che prende il suo nome. La costante opera di sensibilizzazione della società civile, degli enti e delle istituzioni nei confronti delle ragazze e dei ragazzi a rischio di emarginazione è stata fondamentale per raccogliere le risorse e le competenze che da oltre 40 anni sono dedicate alle giovani generazioni. Durante l’evento si alterneranno sul palco persone legate a tappe significative della sua storia, ciascuna per un ambito d’azione specifico: giovani, educazione, sport, cultura e musica. Intervengono tra gli altri Stefano Boeri, Beppe Sala, don Ciotti, don Mazzi, Gustavo Pietropolli Charmet, Luigi Pagano, Maria Carla Gatto, Giuseppe Guzzetti, Umberto Ambrosoli, Maurizio Beretta, e campioni dello sport come Dino Meneghin, Demetrio Albertini e Javier Zanetti. Trieste. “A vele spiegate”, ci chiude a la mostra dei detenuti della Casa circondariale triesteallnews.it, 22 ottobre 2019 “Nella stanza di pernotto, in carcere, la forbice consentita per tagliare la carta e lo spago è quella della Chicco”, spiega il manifesto che introduce chi guarda nell’atmosfera della mostra. “Puoi portare carta, stoviglie di plastica, colla stick e scotch”. Alla presenza di Piervalerio Reinotti, presidente del tribunale di Trieste che ha ospitato la parte più visibile dell’iniziativa, di Giovanni Maria Pavarin, presidente del tribunale di sorveglianza, Alessandro Cuccagna, presidente degli ordine avvocati, e Laura Famulari, dirigente amministrativo, si è avviata la settimana scorsa alla sua conclusione la mostra “Barcoliamo… a vele spiegate”, organizzata dalla Casa Circondariale di Trieste assieme al Garante comunale dei diritti dei detenuti, Elisabetta Burla, che è rimasta allestita dal 7 al 19 ottobre 2019. L’iniziativa è partita dall’idea di coinvolgere anche la popolazione privata della libertà nello spirito di “Barcolana 51”: niente è più libero del mare, e l’occasione di avvicinare il mondo di fuori a quello di dentro ha permesso di spaziare nella creatività e nella fantasia. La mostra, i collaboratori della quale sono stati coordinati dalla sua curatrice, Gianna Zago, grafologa, e che ha visto la partecipazione dei fotografi Andrea Carloni e Giuliana Raspar che hanno unito il loro lavoro a quello dei detenuti, è stata accreditata all’interno delle iniziative collegate alla regata triestina, e ai primi di settembre le idee, raccolte assieme ai detenuti della Casa Circondariale di Trieste hanno iniziato a prendere, letteralmente, una forma: quella di una installazione temporanea di grandi dimensioni, grazie alla disponibilità manifestata dal presidente Reinotti rinnovata anche per occasioni future, sistemata all’interno del Palazzo di Giustizia. Non facile, per i volontari e per il personale che ha coadiuvato l’opera creativa dei detenuti, trovare un modo per far avere loro, nel rispetto delle normative di sicurezza, i materiali giusti e gli attrezzi necessari all’esecuzione del lavoro manuale e alla realizzazione dell’installazione. Il piccolo miracolo, utilizzando tutto ciò che si poteva trovare e soprattutto portare all’interno, si è realizzato e concretizzato attraverso laboratori al lunedì e martedì nella sezione femminile del carcere di Trieste e al giovedì e venerdì in quella maschile. In tutto, poco meno di una trentina, con una maggioranza maschile così come la stessa popolazione del carcere, i detenuti e le detenute che hanno partecipato alla creazione dell’installazione artistica. Bologna. Il primo cinema dentro un carcere Corriere di Bologna, 22 ottobre 2019 Alla Dozza da giovedì le proiezioni aperte al pubblico: ingresso gratuito per tutti. Un nuovo schermo, un impianto audio rinnovato e poltroncine per 150 posti come al cinema: la sala AtmospHera del carcere Dozza è pronta ad aprire le porte al pubblico. Per motivi logistici ci saranno solo proiezioni mattutine e pomeridiane. Il carcere avrà a disposizione una videoteca di 700 titoli donati da Rai Cinema. Primo appuntamento in programma giovedì alle 9:30 del mattino con Ammore e malavita dei Manetti Bros, alla presenza dei registi. Una nuova sala cinematografica a Bologna, per rispondere all’emorragia delle troppe sale chiuse negli ultimi anni. La particolarità risiede nel fatto che la Sala AtmospHera, come è stata ribattezzata, è allestita all’interno della Casa circondariale della Dozza. Con i suoi 150 posti debutterà giovedì mattina alle 9.30 con Ammore e malavita, pluripremiato film dei Manetti Bros che per l’occasione saranno presenti. Alla base dell’esperienza pionieristica in Italia, anche se in primavera potrebbe arrivare un esperimento simile pure nel carcere di Bollate, nel Milanese, stanno le due edizioni del festival “Cinevasioni”, il gruppo costituito attorno ai registi Filippo Vendemmiati e Angelita Fiore e i corsi formativi in ambito cinematografico sostenuti dalla Fondazione del Monte. Dopo mesi di lavori è arrivato un autentico salto di qualità, con lo spazio polivalente della Dozza trasformato con tutti i crismi in una sala di prim’ordine grazie al sostegno del Gruppo Hera. Con un nuovo schermo, pannelli rossi fonoassorbenti, un impianto audio di tutto rispetto e poltrone in velluto verde mescolate alle confermate sedie bianche. Una sala che l’associazione Cinevasioni, costituita un anno fa, metterà a disposizione anche delle tante altre realtà associative che operano dentro la Dozza. Le proiezioni gratuite, una al mese come cadenza, vedranno insieme detenuti e pubblico proveniente dall’esterno, con particolare attenzione rivolta a studenti di scuole e università e richiesta da inviare utilizzando il modulo predisposto sul sito internet www.cinevasioni.it. “La magìa del cinema non riempirà più solo Piazza Maggiore - commenta l’assessore comunale alla Cultura Matteo Lepore - ma anche questa sala. Era un progetto che aveva bisogno di luce e della speranza di guardare laddove di solito nessuno guarda. È un compito che ci affida la Costituzione, le persone che vivono dentro alla Dozza sono cittadini a tutti gli effetti, esattamente come chi ci lavora”. Una sala per accorciare la distanza che separa il carcere dalla città, aggiunge Giusella Finocchiaro, presidente della Fondazione del Monte: “Un modo per costruire un legame che non c’è sempre perché la città spesso preferisce non vedere. Ma il carcere è un luogo della città, anche se è una realtà che passa inosservata. Il nostro è un investimento, non un contributo, per dare sostanza al principio per cui la pena deve avere una funzione rieducativa. Una modalità efficace solo se serve a ricostruire, anche se non è semplice, un futuro”. Le proiezioni sono previste nella fascia mattutina o in quella pomeridiana. Non di sera, per la difficoltà di gestire una sala così atipica, come ricorda la direttrice Claudia Clementi: “Ogni persona che entra qui dentro è un procedimento amministrativo da avviare, che richiede un lavoro lungo che non sempre viene considerato. Ora abbiamo un vero cinema ma non è importante solo far vedere un bel film, perché ci interessa anche creare percorsi di reinserimento per i detenuti, perché possano uscire con una prospettiva. Altrimenti il rischio è di tornare qui dentro”. L’idea, sostenuta anche da Legacoop, è nata durante i percorsi di formazione, quando alcuni detenuti avevano chiesto ai docenti impegnati nei corsi di raccontare loro i film nuovi che erano in sala e che non potevano vedere. “Quello che ci hanno chiesto sottolinea Angelita Fiore, presidente di Cinevasioni - è di non vedere film deprimenti. Per questo pensavamo di proporre commedie e film che facciano comunque riflettere. Facciamo un appello anche ai distributori, perché ci diano produzioni nuove da proiettare ad AtmospHera, anche rischiando, come pure è già accaduto per il festival”. Oltre alle future proiezioni, nel frattempo sta continuando il corso “Cinevasioni Scuola”, mentre alle porte c’è anche l’apertura della prima videoteca della Dozza grazie alla donazione di settecento film in dvd da parte di Rai Cinema. Ravenna. “Dante in Carcere 2019”, detenuti e studenti alle prese con il Sommo Poeta ravennanotizie.it, 22 ottobre 2019 Nel pomeriggio di sabato 19 ottobre i cancelli di via Port’Aurea 57 si sono riaperti alla città per l’ottava edizione dello spettacolo teatrale dei “Dante in carcere” dal titolo “Oltre il muro” per la regia di Eugenio Sideri di Lady Godiva teatro, coordinatore del laboratorio teatrale “Sezione Aurea”, parte del Coordinamento Teatro Carcere dell’Emilia Romagna, con la collaborazione di Carlo Garavini. Prosegue il viaggio nelle cantiche dantesche, alla ricerca di maestri e modelli che ci accompagnino verso la “retta via”, ieri come oggi. Un viaggio in cui il punto di vista è “oltre il muro”. Allo spettacolo hanno preso parte, come per gli anni precedenti, gli studenti del Liceo Classico Dante Alighieri, il coro Ludus Vocalis VB di Elisabetta Agostini. La serata ha visto anche la partecipazione del fotoreporter Giampiero Corelli che ha condotto all’interno del carcere un laboratorio fotografico i cui scatti più belli e significativi sono diventati oggetto della mostra fotografica che gli ospiti della serata hanno potuto ammirare. Anche quest’anno lo spettacolo è stato di grande intensità ed ha emozionato il numeroso pubblico presente. È intervenuta l’Assessora alla Cultura Elsa Signorina che ha espresso parole di grande apprezzamento dando appuntamento al prossimo anno. La serata è stata dedicata a “Giuseppe” il detenuto tragicamente scomparso nel mese di settembre. Al termine dello spettacolo è stato offerto a tutti i presenti un ricco apericena. Il progetto è stato reso possibile grazie al sostegno di Fondazione Cassa di Risparmio di Ravenna, Bper Banca, Bambini Ravenna, Valeria e Roberto Ridolfi, Cooperativa sociale La Pieve, Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna, Pro Loco Marina di Ravenna, Proloco Lido Adriano, Comitato Pro Detenuti e famiglie, Arcidiocesi di Ravenna- Cervia. Catania. Ospedali Psichiatrici Giudiziari chiusi 5 anni fa: convegno al “Cenacolo” di Vittorio Fiorenza biancavillaoggi.it, 22 ottobre 2019 L’Opera Cenacolo Cristo Re di Biancavilla ha promosso e ospitato il convegno “Rems in Sicily”. Un’occasione di valutazione, tra vantaggi e criticità, dei primi cinque anni della legge 81/2014 di chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari e di attivazione delle Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza). Il convegno è stato voluto e organizzato dalla comunità terapeutica assistita che opera da anni nel territorio etneo. La tematica della salute mentale è stata affrontata da cinque punti di vista: psichiatrico, giuridico, psicologico, sociologico, neurobiologico. Dopo i saluti del direttore Generale dell’Opera, dott. Giosuè Greco, del sindaco, Antonio Bonanno, del direttore sanitario dell’Asp di Catania, dott. Antonello Rapisarda, e del direttore sanitario della C.T.A. dott. Gaetano Interlandi, sono intervenuti, nella sessione mattutina, il Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Catania, dott. Carmelo Giongrandi, che ha illustrato i fattori di criticità e miglioramento della legge 81/2014; il dott. Giuseppe Ortano, psichiatra responsabile della Commissione ex Opg e carceri della S.I.P.D. e Direttore della Rems di Mondragone, che ha illustrato le proposte di “Psichiatria Democratica”; la dott.ssa Deborah De Felice, Docente di Sociologia della devianza all’Università di Catania, che ha evidenziato il ruolo del Territorio e della Comunità nella funzionalità delle Rems; il dott. Carmelo Florio, direttore Modulo Dipartimento Salute mentale CT Sud, che ha presentato la realtà attuale nella provincia di Catania; il dott. Salvatore Aprile, Direttore di due Rems di Caltagirone, che ha portato concretamente l’esperienza di Caltagirone attraverso gli interventi di cinque persone attualmente ricoverate; la dott.ssa Vera Trassari, dirigente psichiatra SerD Adrano-Paternò, ha affrontato il problema del trattamento residenziale dei pazienti psichiatrici giudiziari nelle Comunità per Tossicodipendenti. Nella sessione successiva è stato trattato il ruolo delle strutture residenziali nel trattamento terapeutico dei pazienti psichiatrici giudiziari: l’Avv. Michele Sciuto, Amministratore della Cta “Belvedere” di Zafferana Etnea, ha illustrato il ruolo delle Comunità Terapeutiche Assistite, e invece, il dott. Luca Interlandi, responsabile della Cooperativa Sociale “Alisea” di Caltagirone, il ruolo delle Comunità Alloggio o Case Famiglia. Successivamente è stato affrontato il tema dei disturbi antisociali dal punto di vista neurobiologico e ambientale dal dott. Renato Scifo dell’ospedale di Acireale e dal punto di vista psicodinamico, dott. Angelo Garigliano, psicologo-psicoanalista del “Cenacolo Cristo Re” di Biancavilla. La dott.ssa Marina Intelisano, Sociologa ASP 3 CT, ha presentato il lavoro di Prevenzione Primaria dei comportamenti antisociali svolto in alcune scuole dall’Ufficio di Educazione alla Salute dell’Asp 3 di Catania. Il Convegno si è concluso con la Tavola rotonda e il dibattito sullo stato di attuazione a livello regionale dei Protocolli Operativi del Consiglio Superiore della Magistratura, con l’intervento preordinato del dott. Livio Forturello, dirigente Psichiatra del SPDC, Ospedale di Paternò. In merito all’entità del fenomeno, allo stato attuale, è emerso che in provincia di Catania, nelle Comunità Terapeutiche Assistite, circa il 35% dei Posti Letto (110 su 320) è occupato dai pazienti psichiatrici giudiziari, mentre nelle Case Famiglia e Gruppi Appartamento dei Distretti sanitari di Caltagirone e Acireale, l’occupazione dei Posti Letto riguarda circa il 30% (100 su 340). Il totale dei pazienti giudiziari ricoverati solo nelle Comunità psichiatriche del catanese, escluse le due Rems di Caltagirone, sono in numero di 210. In merito alle liste di attesa di ricovero presso le tre Rems siciliane, secondo i dati del Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria, risultano 180 persone in attesa; ma tale dato non è reale perché nel frattempo circa due terzi delle persone in lista d’attesa, hanno trovano collocazione presso le altre comunità residenziali della Regione. Il convegno, che ha avuto una grande affluenza di pubblico, segna l’inizio di un dialogo multidisciplinare nella comprensione e trattamento delle persone con malattia mentale autori di reato. Sono state evidenziate oltre alle positività anche delle criticità, dovute al fatto che la legge è ancora ai primi passi nella sua attuazione e quindi tutto il complesso sistema, Sanità-Giustizia-Società, che ha sostituito l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario, è in evoluzione e necessità del rafforzamento nell’integrazione tra le diverse istituzioni coinvolte. Porto Azzurro. Gesto di generosità di alcune persone detenute a Porto Azzurro di Licia Baldi tenews.it, 22 ottobre 2019 Vorrei rendere noto il gesto di generosità di alcune persone detenute nella Casa di reclusione di Porto Azzurro, che hanno raccolto e donato all’Associazione di Volontariato Dialogo una somma, provento di un loro lavoro eseguito nei laboratori penitenziari, con la quale si sono acquistati un materasso matrimoniale ed una cucina a gas per la Casa d’accoglienza che, in Portoferraio, ospita familiari di detenuti in visita ai loro cari e gli stessi quando usufruiscono di un permesso premio. Grazie di cuore da parte dell’Associazione e personalmente dalla sottoscritta Licia Baldi. Trento. L’economia carceraria a “Fa’ la cosa giusta!” di Sandra Matuella ladigetto.it, 22 ottobre 2019 L’importanza dell’attività lavorativa in carcere: “Quando i detenuti scoprono il lavoro, la recidiva crolla del 70 percento” - Dalla “cella in piazza” alle cooperative che producono in carcere, la fiera del consumo critico e degli stili di vita sostenibili “Fa’ la cosa giusta!” di Trento ha dedicato uno spazio speciale all’economia carceraria, inclusa una tavola rotonda intitolata: “Fare impresa in carcere. Il lavoro dei detenuti conviene a tutti”. Coordinata dal giornalista Francesco Terreri, questa tavola voleva costituire una opportunità di incontro tra il mondo imprenditoriale trentino e le realtà che fanno impresa in carcere, alcune delle quali presenti in fiera con i loro prodotti come la “Banda Biscotti”, “Caffè Lazzarelle”, “Dolci evasioni” e “Made in carcere”. “Il lavoro ha un impatto trasformativo sulla vita dei carcerati, aiuta a far nascere il desiderio di una vita regolare e serena, e con i corsi scolastici serali che ho frequentato, ho scoperto che si può vivere in maniera diversa, coltivando i rapporti affettivi e la legalità” - ha spiegato un giovane ex detenuto nella sua accorata testimonianza. Dall’incontro è emersa un’idea di carcere ben precisa, che non deve essere inteso come una entità fisicamente lontana, ma territorio che dia possibilità di ricostruire un progetto di vita e che favorisca l’inclusione sociale, e che preveda sconti di pena ulteriori per chi partecipa a lavori di pubblica utilità all’interno della struttura. In tal senso, una commissione lavora per definire una graduatoria di accesso ai lavori, relativa alla casa circondariale di Spini di Gardolo, dove ci sono 330 persone ristrette, di cui una trentina sono donne. Il lavoro individuato come trattamento rieducativo, in Trentino ha però dei problemi che riguardano il numero di posti disponibili, sia che si tratti di lavori alle dipendenze di cooperative che di lavori professionalizzanti come cuochi e relativi alla manutenzione, che garantiscono continuità nel tempo e per questo sono particolarmente ambiti dalle persone ristrette. Antonia Menghni la Garante dei diritti dei detenuti della Provincia di Trento, ha spiegato che i dati inerenti alla recidiva si abbattono quando una persona può accedere a una attività lavorativa, ed è per questo che il carcere di Spini sta studiando le modalità di lavoro offerte da un carcere spagnolo di Barcellona, in cui il 50% delle persone ristrette sono occupate a tempo pieno. “Proveremo a replicare questa soluzione spagnola perché il lavoro è la chiave della sicurezza sociale, e offrire un lavoro alle persone detenute è un’occasione, una opzione di cambiamento che la comunità deve offrire, perché la persona non se la può creare da sé”. Tra i progetti del carcere di Spini c’è il corso di avvicinamento all’imprenditoria che ha coinvolto 8 persone ristrette, mentre le politiche per il reinserimento sociale degli ex detenuti individuano le linee di indirizzo per il reinserimento lavorativo sia interno che esterno al carcere, e per individuare i profili delle competenze dei singoli detenuti, in modo da favorire la formazione professionale in accordo con le reali esigenze del mercato. Tra le linee di reinserimento ci saranno, quindi, percorsi individualizzati in modo da far emergere le potenzialità e le risorse di ciascuno, ed anche un incontro con l’Agenzia del lavoro volto al riconoscimento del fatto che “le persone ex detenute siano delle persone svantaggiate e sarà pertanto, necessario incrementare le opportunità lavorative, promuovendo mediazioni con le aziende profit e non profit”. Palermo. “Tra le righe. Esercizi di libertà in carcere”: convegno sul tema balarm.it, 22 ottobre 2019 Si tiene a Palermo, giovedì 24 ottobre dalle 14.30 alle 18.30 presso Palazzo Branciforte, la giornata di studio dal titolo “Tra le righe. Esercizi di libertà in carcere”, sostenuta da Fondazione Sicilia, a cura di Acrobazie, Elisa Fulco e Antonio Leone. L’appuntamento, inserito nel progetto “L’Arte della Libertà”, in corso all’interno della Casa di Reclusione Calogero di Bona - Ucciardone di Palermo con l’artista Loredana Longo, vuole essere un’occasione di confronto tra esperienze accomunate dall’interpretare attivamente l’articolo 27 della Costituzione. Un modo per dare i numeri per fornire indicatori chiari dei benefici generati dall’investimento in cultura e raccontare le più significative case history che utilizzano i linguaggi artistici all’interno delle istituzioni penitenziarie, sono i temi centrali dell’incontro, che intende la riabilitazione come momento di formazione e di crescita dei detenuti, mantenendo aperto lo scambio tra il dentro e il fuori. Durante la giornata si riflette sugli impatti generati dall’investimento in cultura come fattore di “sicurezza” e di recidiva. Si parla di unicità e di replicabilità dei modelli che funzionano e del ruolo della creatività nell’avviare percorsi duraturi di cambiamento, con la testimonianza di Armando Punzo. Per l’occasione, il regista e drammaturgo, fondatore e direttore artistico della Compagnia della Fortezza di Volterra, racconta la sua esperienza trentennale. Elisa Fulco e Antonio Leone, raccontano insieme all’artista Loredana Longo e a Sergio Paderi, psichiatria dell’ASP, con la testimonianza dei detenuti, la metodologia adottata per generare condivisone tra il carcere e le istituzioni cittadine; Filippo Giordano, professore di Economia aziendale alla Lumsa di Roma e di Imprenditoria sociale alla Bocconi, presenta i dati dell’investimento in cultura; Armando Punzo dialoga con Daniela Mangiacavallo, regista teatrale all’interno del carcere Pagliarelli di Palermo, sul fare teatro nei luoghi di reclusione e sul perché il teatro renda liberi. Carlo Mazzerbo, direttore del carcere di Livorno e di Gorgona, si confronta con Stefano Simonetta, docente di Storia della filosofia medievale presso la Statale di Milano e Referente di Ateneo per il sostegno allo studio universitario delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà. La giornata si apre con i saluti istituzionali di Raffale Bonsignore (Presidente Fondazione Sicilia), Leoluca Orlando (Sindaco di Palermo), Salvatore Di Vitale (Presidente Tribunale di Palermo), Luisa Leone (Magistrato Tribunale di Sorveglianza di Palermo), Giovanni Fiandaca (Garante detenuti Sicilia), Giovanna Re (Direttore Reggente Casa di Reclusione Calogero di Bona - Ucciardone), Antonella Purpura (Direttrice Galleria d’Arte Moderna), Daniela Faraoni (Direttore Asp Palermo) e Francesca Vazzana (Direttore Carcere Pagliarelli Lo Russo di Palermo). Milano: “Valelapena”, storie dal carcere di Alba in mostra dal 7 novembre gazzettadimilano.it, 22 ottobre 2019 Dal 7 al 15 novembre, il Palazzo Lombardia a Milano ospiterà la mostra fotografica “Valelapena. Storie di riscatto dal carcere d’Alba”, che attraverso le immagini, racconta l’omonimo progetto di agricoltura sociale nato grazie alla collaborazione del Ministero della Giustizia, della Casa di Reclusione d’Alba, dell’Istituto “Umberto I” - Scuola Enologica di Alba, del Comune di Alba e di Syngenta. Obiettivo del progetto è contribuire alla riabilitazione sociale e professionale dei detenuti, fornendo loro le competenze e l’esperienza necessarie per imparare un lavoro e trovare impiego presso le aziende del territorio, una volta scontata la pena. Dal 2006 infatti ogni anno un gruppo di detenuti del carcere di Alba è impegnato in un’attività di formazione specifica e nella cura del vigneto interno al carcere per la produzione dell’omonimo vino. Nel 2014 nacque l’idea di realizzare un libro fotografico, curato dal fotoreporter Armando Rotoletti, per raccontare attraverso la potenza delle immagini il ruolo fondamentale dell’agricoltura come occasione di riscatto umano, psicologico e sociale. Gli scatti della mostra approdano ora a Milano, in collaborazione con la Regione Lombardia, per raccontare, ancora una volta, come l’agricoltura possa rappresentare uno strumento non solo di valorizzazione territoriale ed economica, ma anche sociale. La mostra sarà aperta al pubblico gratuitamente da giovedì 7 a venerdì 15 novembre ed esposta presso: Palazzo Lombardia - spazio espositivo a piano terra N3 - Piazza Città di Lombardia, 1. Orari di apertura: 10:00 - 18:00. “Liberi dentro. Cambiare è possibile, anche in carcere”, di Ezio Savasta recensione di Piergiacomo Oderda vocepinerolese.it, 22 ottobre 2019 “Adesso prendo tutti questi tuoi pensieri, li nascondo nella mia borsa e li porto fuori di qua. Li faccio diventare liberi. Possono correre e realizzarsi”. “I loro bigliettini usciranno insieme a me dal carcere e saranno depositati presso l’altare dei poveri si che si trova nella piccola chiesa di Sant’Egidio. Le loro intenzioni saranno così accolte in una preghiera più ampia”. Ezio Savasta pubblica per Infinito Edizioni, “Liberi dentro. Cambiare è possibile, anche in carcere” (2019). Professore di elettronica, si dedica “con tutto il cuore e con tutta l’anima”, come direbbe un pio ebreo (2 Re 23,3), al volontariato in carcere. Inanella una serie di storie narrate con la passione di chi è convinto che “ricevere una visita, fare un colloquio, è un modo di riallacciare dei legami che sono fili di speranza e anticipi di libertà”. Al contempo, Savasta racconta l’esperienza della comunità di Sant’Egidio che organizza anche distribuzioni di generi di prima necessità, sempre con l’obiettivo di allargare la conoscenza. “Anche se la distribuzione è necessariamente veloce, ci teniamo che ognuno possa essere salutato personalmente e che a sua volta abbia la possibilità di individuarci, per potersi mettere in contatto e chiedere aiuto anche in seguito”. Nel dipanarsi degli eventi, in cui alle procedure per ottenere l’autorizzazione alla visita (trasferimenti improvvisi obbligano a contattare diverse istituzioni carcerarie) si alternano lunghe camminate nei corridoi che separano i cancelli, Savasta si costruisce un’invidiabile conoscenza del mondo carcerario. Sa dove trovare indicazioni delle celle, come approcciarsi agli agenti di custodia, talvolta tenendo testa ai pregiudizi con cui infieriscono sui detenuti (cronaca di questi giorni, proprio a Torino). Parlando del diciottenne Mihai, ricorda come “attualmente il 70 per cento dei detenuti che scontano l’intera pena reclusi tornano a commettere reati” con buona pace dell’art. 27 Cost. “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Emozionante il racconto dell’organizzazione sempre curata da Sant’Egidio del pranzo di Natale a cui partecipano le autorità giudiziarie, gli educatori (“per un giorno si è tutti uguali e si mangia tutti allo stesso tavolo”. Hassan, egiziano, assiste ai preparativi e pensa: “Mamma mia, oggi a Regina Coeli deve venire un pezzo grosso” per poi scoprire di essere lui il pezzo grosso invitato al pranzo. Said cerca Savasta per ringraziare dell’azione di mediazione svolta nel 1994 dalla comunità di Sant’Egidio tra i leader dei maggiori politici algerini che non si vedevano da anni. Un momento difficile nella storia dell’amicizia con lui è il giorno della liberazione. “Attendo Said fuori dalla porta “carraia” di Rebibbia. Ha un saccone nero, quelli che si usano per la spazzatura, che contiene tutti i suoi averi”. All’uscita dal carcere, c’è chi chiede di essere sostenuto anche solo nell’attraversare la strada ma le difficoltà principali consistono nel trovare una sistemazione, un’occupazione. Dopo qualche tempo, Said viene recuperato su indicazione di Giuseppe, un anziano barbone: “me sa’ che dorme ar Tevere, sotto ponte Principe Amedeo”. Patrick chiede una Bibbia, “settimana dopo settimana è sempre più consumata, piena di sottolineature e contrassegnata da segnalibri, realizzati con pezzetti di carta, su cui scrive brevi appunti”. Insieme ai suoi amici usano una traduzione del libro “La Parola di Dio ogni giorno” del card. Vincenzo Paglia. “Si sistemano in un angolo dello spazio dedicato all’ora d’aria, lui legge il brano del giorno, poi assieme ascoltano il commento, infine concludono con la recita del Padre Nostro”. Altra preghiera viene animata con Petru nella stanza dove si fa scuola, Savasta distribuisce dei foglietti “dove scrivere i nomi dei familiari o dei malati che vogliono ricordare nella preghiera”. Una chiave di lettura presentata nella premessa è il “kintsugi”, la pratica giapponese di ricomporre oggetti di ceramica andati in frantumi, utilizzando oro o argento per saldare i frammenti. Si ottiene un vaso originale, unico, più prezioso del precedente. “Non bisogna vergognarsi delle ferite, ognuna di esse, come ogni dolore e ciascuna imperfezione, possono, se affrontate, trasformarci in persone nuove, migliori, più sagge”. Firma l’introduzione Mario Marazziti, presidente della Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati (XVII legislatura). “Il carcere, per definizione, è luogo separato. Luoghi invisibili. Umanità invisibili. La vita scorre e quelle mura alla fine risultano rassicuranti. “Tutto il male dentro e il bene fuori”. Per Savasta, “il volontario in carcere è portatore di un’altra cultura, di una pacificazione sociale, promuovendo un processo di riconciliazione tra la società e gli uomini che l’hanno ferita con i loro reati”. Ancora Marazziti ricorda Giovanni XXIII nella “rotonda” di Regina Coeli, Paolo VI nel 1964, san Giovanni Paolo II nel 2000, Benedetto XVI nel 2011. Di Papa Francesco cominciano ad apparire le immagini anche nelle celle, le sue parole nel Giubileo della misericordia (6 novembre 2016) sono state: “Perché loro e non io? Tutti abbiamo la possibilità di sbagliare: tutti. E l’ipocrisia fa sì che non si pensi alla possibilità di cambiare vita: c’è poca fiducia nella riabilitazione, nel reinserimento della società”. “Prima di Piazza Fontana”, di Paolo Morando recensione di Saverio Ferrari Il Manifesto, 22 ottobre 2019 Come si arrivò alla “prova generale” della strage di Stato. La “strategia della tensione” non ebbe inizio con la bomba di piazza Fontana. La strage fu cercata ben prima. Alla fine del 1969 si contarono ben 145 attentati, dodici al mese, uno ogni tre giorni. Per quanto la maggior parte degli attentati di quell’anno fossero di marca neofascista stante gli obiettivi (sedi dei partiti di sinistra, monumenti partigiani, sinagoghe) o perché erano stati identificati gli autori, gli anarchici furono messi sul banco degli accusati. Si sviluppò una campagna virulenta nei loro confronti, in particolare dopo l’arresto di alcuni militanti per le bombe milanesi del 25 aprile. La ricostruzione minuziosa e accurata di questa vicenda la dobbiamo a Paolo Morando (Prima di Piazza Fontana. La prova generale, Laterza, pp. 369, euro 20), che anche sulla base degli atti giudiziari (dodici faldoni messi a sua disposizione dalla Casa della Memoria di Brescia), è riuscito a riportare alla luce una pagina fondamentale della “strategia della tensione”. La Questura di Milano, tramite l’Ufficio politico, guidato da Antonino Allegra, cercò con ogni mezzo di costruire dei “mostri” da sbattere “in prima pagina”. A questo scopo, passo dopo passo, furono artefatti i verbali d’interrogatorio, estorte confessioni con autentiche torture, condotti arresti illegali, manipolate le perizie e subornati i testi, come nel caso di una figura, Rosemma Zublema, che si rivelò comunque una calunniatrice seriale. In prima fila si distinsero il commissario Luigi Calabresi e i brigadieri Vito Panessa e Pietro Mucilli, protagonisti di innegabili violenze ai danni degli imputati verso cui dispensarono botte e minacce di morte. Gli stessi tre che si ritrovarono nel dicembre successivo a interrogare in questura Giuseppe Pinelli, nella notte fra il 15 e il 16 in cui l’anarchico si ritrovò defenestrato. Dietro al gruppo di anarchici si cercò di incolpare come presunta “mente” l’editore di sinistra Giangiacomo Feltrinelli, uno degli obiettivi politici principali dell’”operazione”, per cui già da anni si stava lavorando con una martellante campagna diffamatoria orchestrata dall’Ufficio affari riservati. Il processo si rivelò un boomerang. Le accuse franarono miseramente e il castello di falsità, costruito con testimoni tanto manipolati quanto inattendibili, crollò al punto che fu lo stesso pm, Antonino Scopelliti, a chiedere l’assoluzione di tutti gli imputati per gli attentati del 25 aprile. La sentenza si uniformerà a queste richieste, come successivamente l’Appello e la Cassazione. Nel frattempo i sei imputati si erano fatti chi un anno e mezzo e chi due anni di carcere. Pietro Valpreda, dal canto suo, nel corso temporale del processo, iniziato nel marzo 1971, era ormai detenuto da sedici mesi con l’accusa di essere l’autore della strage di piazza Fontana, proprio quando, di lì a poche settimane, il 9 aprile, si incardinerà ufficialmente la cosiddetta “pista nera” per le bombe del 12 dicembre con i mandati di cattura per i neofascisti Franco Freda e Giovanni Ventura. La verità cominciava a venire a galla. Con gli attentati del 25 aprile 1969, questi i fatti, si sperimentò da parte dei registi della “strategia della tensione”, l’Ufficio affari riservati in testa con l’Ufficio politico della Questura di Milano, la trama che avrebbe dovuto incastrare gli anarchici. “Una prova generale”, prima del 12 dicembre. Unicef: per i 30 anni della Convenzione Onu diritti minori servono impegni concreti di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 22 ottobre 2019 “Il prossimo 20 novembre ricorrono i 30 anni dall’approvazione della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, il trattato sui diritti umani maggiormente ratificato al mondo. Chiediamo a tutti che il Trentennale della Convenzione non sia solo un momento celebrativo, ma che vengano presi impegni concreti - anche a partire dalla prossima legge di Bilancio - per realizzare i diritti di tutti i bambini e tutte le bambine”. Sono queste le parole del presidente dell’Unicef Italia Francesco Samengo che è intervenuto oggi a Roma, a Palazzo Giustiniani al Convegno “Diritti dell’infanzia e dell’adolescenza a 30 anni della Convenzione dell’Onu: Soluzioni e prospettive”, promosso su iniziativa della Conferenza dei Presidenti delle Assemblee legislative delle Regioni e delle Province Autonome. Le nuove sfide - “La Convenzione in questi 30 anni è stata determinante nel migliorare la vita di bambini, bambine e adolescenti. In questi 30 anni, la vita dei bambini è cambiata: si sono ridotte di oltre il 50% le morti dei bambini sotto i 5 anni; la percentuale dei bambini denutriti è quasi dimezzata; 2,6 miliardi di persone in più hanno oggi acqua potabile più pulita. Ma sono ancora molte le sfide da affrontare: 262 milioni di bambini e adolescenti sono fuori dalla scuola; 650 milioni di bambine e ragazze si sono sposate prima dei 18 anni; 1 bambino su 4 vive in aree in cui le risorse idriche saranno estremamente limitate entro il 2040”, ha proseguito il presidente Samengo. Rischio povertà in Italia - “In Italia vivono circa 10 milioni di bambini e ragazzi sotto i 18 anni di età: sono la popolazione a maggior rischio di povertà: circa il 12,1% dei minorenni vive in povertà assoluta. La povertà minorile in Italia non è solo privazione materiale. È povertà di protezione sociale, di istruzione, di cure sanitarie adeguate, di cibo sano, di alloggi salubri, ma anche di giochi, di sport e di vacanze, È povertà di vita. Inoltre, l’andamento della povertà minorile si caratterizza - come molti altri indicatori di benessere nel Paese - per una forte disparità a livello regionale. La sfida che ha davanti il nostro Paese è quella di dare continuità ad investimenti e politiche efficaci capaci di fare la differenza nella vita di bambini e adolescenti. Vogliamo che il nostro Paese diventi sempre più a misura di bambini e adolescenti”, ha concluso il Presidente. La Consulta gela le mamme gay: “Sui figli non tocca a noi decidere” di Maria Novella De Luca La Repubblica, 22 ottobre 2019 Niente iscrizione sull’atto di nascita per l’altra madre. La Corte: quesito inammissibile. Non sarà la Consulta (per adesso) a decidere se Giulia e Denise potranno essere iscritte, insieme, sul certificato di nascita di Paolo, il bimbo partorito da Denise, ma figlio di un progetto comune di amore e di vita. La Corte Costituzionale ha infatti dichiarato “inammissibile per difetto di motivazione” la questione sollevata dal Tribunale di Pisa. Ossia la costituzionalità o meno di quegli “impedimenti” insiti in diverse norme del codice civile, che impedirebbero la formazione di un atto di nascita con due mamme. In questo caso poi un atto di nascita dove il bambino Paolo, 4 anni (nome di fantasia) pur essendo nato in Italia è di nazionalità straniera, perché Denise Rinehart, la “madre gestazionale” è americana, mentre Giulia Garofalo Geymonat, sua moglie, è italiana. Denise e Giulia si sono sposate a Chicago e per la legge dell’Illinois Paolo sarebbe figlio di entrambe. Ma la Consulta ha rigettato il quesito del tribunale di Pisa, perché i giudici avrebbero formulato in modo non chiaro il quesito. “Il Tribunale ha riferito il proprio dubbio di costituzionalità a una norma interna, ma non ha individuato con chiarezza la disposizione contestata”. Dunque tutto torna al tribunale di Pisa. Paolo, per lo stato italiano continua ad avere una sola madre, Denise, mentre nella realtà ne ha due, Denise e Giulia. Ma Giulia Garofalo Geymonat resta invece, per la burocrazia, una delle tante “mamme fantasma” di figli di coppie omogenitoriali, cui la legge vita di essere iscritte nel certificato di nascita di quei bambini di cui sono mamme dal primo istante di vita. Ma l’avvocato di Denise e Giulia Alexander Schuster, dà invece una lettura un po’ diversa. “La sentenza pare di fatto smentire la tesi del Tribunale di Pisa per cui vi sarebbe un ostacolo a formare un atto di nascita con due madri in Italia. Nessuna disposizione in Italia vieta di formare un atto di nascita con due madri nel caso di figlio nato da fecondazione assistita. Le regole per stabilire chi è genitore in caso di procreazione assistita, infatti, sono diverse da quelle di una procreazione tramite rapporto sessuale, situazione nella quale è del tutto ovvio che non vi potrà che essere un padre ed una madre. Se dunque nemmeno la Consulta vede quale sarebbe la norma ostativa, questo vuole dire che “tale principio non può certo essere rinvenuto nelle norme del codice civile”. Conclude Schuster: “Spero che la sentenza faccia chiarezza sulla validità dei tanti atti di nascita di bambini già iscritti all’anagrafe con due mamme in moltissimi comuni italiani”. Migranti. Rotta balcanica, i maledetti di Vucjak di Alessandra Briganti Il Manifesto, 22 ottobre 2019 I migranti in fuga nei Balcani, cacciati dalla polizia croata e costretti a vivere in Bosnia su una discarica tossica, da ieri non hanno più nemmeno l’acqua. E l’Ue sta a guardare. Suhret Fazlic è stato di parola. Da ieri la città di cui è sindaco, Bihac, ha interrotto i pagamenti per l’erogazione dei servizi essenziali nel vicino campo profughi di Vucjak al confine tra Bosnia Erzegovina e Croazia. E quindi niente acqua, niente assistenza sanitaria, niente raccolta dei rifiuti. A Vucjak resterà solo la Croce rossa. L’organizzazione, che ha chiesto a più riprese la chiusura immediata del campo profughi, ha messo in piedi un programma di emergenza per garantire due pasti al giorno ai migranti che vivono nella tendopoli. La stretta era stata annunciata la settimana scorsa dallo stesso Fazlic. Il sindaco della città di frontiera ha minacciato anche di non rinnovare i contratti, in scadenza il prossimo 15 novembre, alle organizzazioni internazionali che hanno preso in affitto i due centri temporanei di accoglienza nel comune di Bihac. I proprietari del Miral e del Bira, le due strutture che accolgono i profughi in città, potranno estendere i contratti di affitto solo se autorizzati dal governo cantonale. Una decisione drastica presa in aperta polemica con le autorità federali e statali della Bosnia-Erzegovina. In particolare Fazlic ha accusato il ministro della Sicurezza Dragan Mektic di aver minimizzato la gravità della crisi e di aver fatto ricadere gli oneri della gestione dei migranti interamente sul cantone di Una-Sana, il più colpito dalla crisi dei migranti che attraversa il Paese da circa due anni. “Avevamo suggerito di ricollocare i migranti in altri centri già due anni fa, ha dichiarato il ministro degli Interni del cantone di Una-Sana Nermin Kljajic, ma le nostre controparti del Consiglio dei ministri (del governo bosniaco, ndr) non ci hanno sostenuto. Ad oggi non siamo in grado di trovare una sistemazione migliore”. Già lo scorso giugno c’era stato un incontro a Bruxelles con i rappresentanti della città e del cantone di Una-Sana per cercare una soluzione per i migranti, ma - a detta del sindaco - quegli impegni sono rimasti lettera morta. Da qui l’ennesima mossa disperata di Fazlic per spingere le autorità bosniache e l’Europa a farsi carico di una situazione che rischia di andare fuori controllo soprattutto con l’arrivo dell’inverno. Da quando la crisi dei migranti ha colpito la Bosnia-Erzegovina, nell’area intorno a Bihac e Velika Kladusa si sono riversati migliaia di migranti che sperano di proseguire il cammino verso l’Europa. Con l’inizio dell’offensiva turca in Siria c’è poi il rischio fondato che il flusso dei profughi possa aumentare a un ritmo insostenibile per il Paese. D’altra parte i respingimenti sistematici e collettivi della polizia di frontiera croata hanno avuto l’effetto di trasformare la Bosnia nord occidentale in un immenso hotspot per migranti. Allo stato attuale, ha ricordato Fazlic, ci sarebbero almeno 6-7mila profughi nel cantone di Una-Sana, il 90% dei quali a Bihac e il 9% a Velika Kladusa. Eppure la decisione del sindaco di interrompere i servizi nel campo di Vucjak rischia di provocare una catastrofe umanitaria, soprattutto ora che nella tendopoli sono stipati più di duemila migranti. “Ovviamente il numero dei migranti che entra in Bosnia è aumentato. I profughi hanno difficoltà a lasciare il Paese così molti di loro restano nel Paese senza alcuna supervisione o controllo” ha spiegato il vice ministro della Sicurezza Mijo Kresic che respinge le accuse del sindaco di Bihac ed esprime preoccupazione riguardo alla situazione dei migranti a Vucjak e al rischio di una crisi umanitaria. La tendopoli allestita alla bell’e meglio proprio dal comune di Bihac dopo le proteste della comunità locale, era stata già in passato oggetto di critiche. Il campo profughi sorge su un’ex discarica situata nei pressi di un’area minata, senza contare che nella tendopoli manca di tutto, dall’elettricità ai servizi igienici all’acqua corrente. Le agenzie delle Nazioni Unite, l’Ue e le ong che operano in Bosnia ne avevano denunciato l’inadeguatezza e la pericolosità e ora tornano a chiedere che i migranti siano ricollocati negli altri centri di accoglienza in Bosnia, quelli a Deljias, Solakovac e Usivak. In particolare Bruxelles si è offerta di finanziare un altro centro di accoglienza in cambio di un immediato trasferimento dei migranti. Quel che sembra stare a cuore dell’Europa però è tenere i migranti il più lontano possibile dalle sue frontiere esterne, più che le condizioni in cui versano i profughi o le difficoltà oggettive di un Paese come la Bosnia già profondamente destabilizzato al proprio interno. Val la pena di ricordare che a un anno dalle elezioni Sarajevo è ancora senza governo. Difficile con queste premesse che la Bosnia-Erzegovina possa in effetti far fronte a una crisi di questa dimensione. Una crisi senza fine che l’Europa ha dimostrato di non sapere o volere affrontare. I “bambini dell’Isis” in Siria: l’Europa è distratta di Marta Serafini Corriere della Sera, 22 ottobre 2019 Alcuni sono orfani, altri si trovano ancora in condizione di prigionia con le madri. Il rischio è che possano essere vittime di ulteriori ondate di radicalizzazione o possano finire reclutati dalle milizie jihadiste schierate al fianco delle truppe turche. Alcune vedove o spose dei foreign fighters sono già fuggite dai campi nel nord della Siria. Altre si stanno organizzando per tentare di tornare a casa. Ora che le forze curde perdono il controllo dei prigionieri dell’Isis, si ripropone un tema che fin qui l’Europa ha tentato di ignorare. A preoccupare le organizzazioni per i diritti umani come Save the Children, è il destino dei bambini nati da queste donne e dai miliziani dell’Isis. Alcuni sono orfani, altri si trovano ancora in condizione di prigionia con le madri. Il rischio è che, qualora dovessero rimanere in Siria, possano essere vittime di ulteriori ondate di radicalizzazione o possano finire reclutati dalle milizie jihadiste schierate al fianco delle truppe turche. Secondo il Guardian, la Gran Bretagna, dopo aver negato a questi cittadini il rientro, sta muovendo per rimpatriare i minori, almeno quelli rimasti senza genitori. Qualche segnale in queste ore arriva anche da Parigi e da Bruxelles. Settimana scorsa il ministro degli Esteri francese Jean-Yves Le Drian è volato a Bagdad a trattare la creazione di un tribunale congiunto con gli iracheni per giudicare le donne francesi che si sono unite all’Isis (il governo francese ha fin qui preferito pagare gli iracheni per la custodia dei foreign fighters). Da Berlino e da Bruxelles hanno invece tentato di sfruttare le 120 ore concesse ai curdi da Ankara per evacuare i loro “prigionieri”. Insomma, come al solito, sul tema dei foreign fighters, nonostante gli appelli statunitensi e curdi, l’Europa procede in ordine sparso, cercando di mettere una toppa senza una linea comune. Ora però lo scenario è decisamente mutato. I curdi hanno problemi ben più gravi da gestire mentre per i turchi la fuga di qualche centinaia di donne e bambini non rappresenta una priorità. Tuttavia non va dimenticato un dato: questi prigionieri potrebbero un giorno tornare in Europa. Che lo facciano al di fuori del controllo europeo non solo è lesivo dei loro diritti. È anche un pericolo per tutti noi.. Turchia. La giustizia secondo Erdogan: in carcere gli avvocati di Chiara Cruciati Il Manifesto, 22 ottobre 2019 Il caso dell’Associazione degli avvocati progressisti: 18 legali condannati a pene pesantissime con l’accusa di favoreggiamento al terrorismo. A difenderli ora c’è una missione internazionale, a cui prendono parte anche avvocati italiani. La guerra che la Turchia ha scatenato contro la Siria del nord ha da anni ormai un suo versante interno. Rilanciata nel 2015 contro il sud-est a maggioranza curda, ha ripreso vigore l’anno successivo, dopo il fallito golpe del luglio 2016: è la guerra del governo di Ankara contro ogni forma reale o presunta di opposizione. In stato di emergenza permanente, da oltre tre anni è impossibile in Turchia svolgere il proprio lavoro se questo è considerato minaccia alla politica di potenza del presidente Erdogan. La campagna di epurazioni, che ha investito il paese, gettando in mezzo alla strada o in prigione decine di migliaia di persone, ha colpito anche gli avvocati. Quelli che dovrebbero difendere giornalisti, attivisti, oppositori, scrittori dalla prigione. In cella ci finiscono anche loro, con le stesse accuse. “Sono circa 600 gli avvocati detenuti in Turchia, a fronte di un’identificazione del legale con il protetto - ci spiega Roberto Giovene Di Girasole del Consiglio nazionale forense (Cnf), autore del libro appena pubblicato La difesa dei diritti umani, scritto con Barbara Spinelli per Nuova Editrice Universitaria - Un meccanismo chiaro: accusano di terrorismo curdi, oppositori, giornalisti e poi di conseguenza i legali, come compartecipi dell’ipotetico reato”. Tra quei 600 avvocati ci sono i legali di Chd (Çagdas Hukukçular Dernegi), l’Associazione avvocati progressisti. In 18 sono stati condannati lo scorso marzo a pene da tre anni e mezzo a 18 anni e nove mesi di carcere. Lunedì 14 ottobre hanno ricevuto la notifica della sentenza d’appello: pena confermata, senza motivazione né dibattimento pubblico. “Chd è un’associazione di sinistra di avvocati turchi, sparsa in tutto il paese ma particolarmente forte a Istanbul e Ankara. Da anni si occupa di difendere oppositori al governo”, ci racconta Fausto Giannelli di Giuristi democratici, insieme a Giovene parte di una missione di 15 avvocati europei che sta seguendo il caso. Nel 2013 contro Chd si apre un primo processo: gli avvocati vengono accusati di favoreggiamento e collusione, ovvero di portare messaggi dentro e fuori dal carcere a favore degli imputati, spesso in isolamento. “Per quel processo la sentenza non è ancora arrivata, ci sono stati rinvii continui e i giudici stessi sono cambiati: due di loro sono stati arrestati nell’ambito della campagna di epurazione post-golpe - continua Giannelli - Intanto però 18 avvocati, di cui alcuni degli imputati di quel processo, hanno visto partire un secondo procedimento, stavolta davanti alla famigerata 37° sessione della Corte d’Assise di Istanbul, quella che ha condannato tra gli altri il co-leader dell’Hdp Demirtas e lo scrittore Ahmet Altan”. Tutti arrestati e portati nel carcere di massima sicurezza di Silivri. “Questo secondo processo è velocissimo: il 20 marzo 2019 arriva la sentenza di primo grado con pene pesantissime, fino a 18 anni e nove mesi”. Tra i condannati anche il presidente di Chd, Selçuk Kozagacli, prende 11 anni. Un processo farsa con testimoni sentiti in videoconferenza con volto coperto e voce distorta, divieto per la difesa di controinterrogare e rifiuto del tribunale di sentire i teste della difesa. Il 14, mentre la missione europea sta incontrando gli avvocati condannati in prigione, arriva la sentenza di appello che conferma le pene. Ora si attende quella di terzo grado. Solo allora la missione internazionale potrà rivolgersi alla Corte europea dei diritti dell’uomo: “Il Chd ci ha nominati difensori. Per questo abbiamo potuto incontrare i legali detenuti a Silivri - aggiunge Giovene - Un enorme compound, caseggiati bassi, un carcere di massima sicurezza. Sono detenuti in isolamento in piccole celle da tre persone, non possono avere contatti con altri detenuti. Le celle hanno un soppalco con i letti e sotto un piccolo bagno e un fornello. Non hanno contatti con i familiari se non sporadicamente”. “Il nostro obiettivo è difendere lo Stato di diritto: dopo il tentato golpe, la Turchia ha dichiarato lo stato di emergenza e sospeso la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Dopo la campagna di epurazioni la magistratura non è più indipendente”. “La situazione è grave - conclude Giannelli - Un arresto di massa di avvocati, un’intera associazione decapitata, condanne abnormi, violazioni processuali tra cui la cacciata della difesa durante le ultime udienze. Continueremo a seguire il caso nell’ambito del progetto “Endangered lawyers”, proteggere gli avvocati nel mondo, sostenuto anche dal Cnf e dall’Unione Camere penali”. Arrestato il sindaco di Diyarbakir - Era stato sospeso due mesi fa, ora è stato arrestato: il co-sindaco di Diyarbakir, Adnan Selçuk Mizrakli, è stato portato via dalla polizia turca ieri alle prime ore del giorno con l’accusa di legami con un’organizzazione considerata terroristica, il Pkk. Eletto lo scorso marzo con l’Hdp, il partito di sinistra pro-curdo, non è stato il solo a finire in manette ieri: arrestati all’alba anche i co-sindaci (tutti Hdp) di Kayapinar, Kezban Yilmaz, e di Bismil, Orhan Ayaz. I mandati di arresto, fanno sapere gli avvocati di Mizrakli, dicono poco: “inchiesta in corso”, nulla di più, ma si immagina siano legati alle stesse accuse per cui il 19 agosto era stato sostituito da un commissario del governo turco, insieme ai co-sindaci delle città di Van e Mardin. Emirati Arabi Uniti, dove occuparsi di diritti umani costa 10 anni di carcere di Riccardo Noury Il Fatto Quotidiano, 22 ottobre 2019 Domani Ahmed Mansoor compirà 50 anni e, per la terza volta, trascorrerà il compleanno in carcere. Per la precisione, nella prigione di al-Sadr, negli Emirati Arabi Uniti: un paese dove occuparsi di diritti umani è un reato. Mansoor, insignito nel 2015 del premio Martin Ennals per i difensori dei diritti umani, ha a lungo collaborato col Centro per i diritti umani del Golfo e Human Rights Watch. Arrestato il 20 marzo 2017 e detenuto per sei mesi in isolamento senza poter contattare un avvocato, il 29 maggio 2018 è stato giudicato colpevole di “offesa allo status e al prestigio degli Emirati Arabi Uniti e dei suoi simboli, compresi i suoi leader”, “pubblicazione di notizie false per screditare la reputazione degli Emirati Arabi Uniti all’estero” e per aver descritto lo stato come “una terra senza legge”. La condanna, confermata in appello sette mesi dopo, è stata pesante: 10 anni di carcere seguiti da tre anni di libertà vigilata, oltre a una multa di un milione di dirham (circa 250.000 euro). Quest’anno, a maggio e a settembre, ha intrapreso scioperi della fame per protestare contro le condizioni detentive. La seconda volta l’hanno picchiato duramente. Resta in isolamento, in una cella priva di acqua corrente e di un letto, da cui può uscire solo in occasione delle visite familiari. Di questa storia, così come delle leggi liberticide degli Emirati Arabi Uniti e del ruolo di primo piano di questo stato nel conflitto dello Yemen, la comunità internazionale si disinteressa. Gli Emirati Arabi Uniti sono un generoso acquirente di armi, un vantaggioso partner per investimenti economici e uno scintillante esempio di modernità e globalità: tanto che ospiteranno addirittura Expo 2020. Con Mansoor, probabilmente e purtroppo, ancora in carcere.