Automatismi, quella sirena che strega i magistrati di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 21 ottobre 2019 Domani la Corte Costituzionale deciderà sull’ergastolo ostativo, che a mafiosi e terroristi impedisce anche solo di chiedere misure alternative. C’è di nuovo chi - come e quasi più di Berlusconi nel suo ventennio - sta sfiduciando i magistrati, vuole legare le mani ai giudici, e pretende di azzerarne la discrezionalità imprigionandola nelle gabbie di inderogabili automatismi dettati da rigide presunzioni legali di immutabilità: solo che quel “qualcuno” non è più il leader politico di turno, insofferente al controllo di legalità, ma paradossalmente sono proprio i magistrati. O, almeno, quella schiera per lo più di pm (in carica, in pensione, datisi alla politica o prestati ad altre amministrazioni) che, meglio accolti dal circuito mediatico-sociale in virtù dei crediti acquisiti con le proprie valorose indagini, da un mese stanno (come e più di politici quali Alfonso Bonafede e Matteo Salvini) sventagliando sui giornali e in tv una formidabile contraerea preventiva all’udienza di domani dei giudici della Corte Costituzionale: chiamata dalla Cassazione a decidere la norma che a ergastolani mafiosi o terroristi impedisce (salvo collaborino o la collaborazione sia impossibile) di poter dopo molti anni anche solo domandare ai Tribunali di Sorveglianza di valutare richieste di misure alternative contrasti o meno con gli articoli 3 e 27 della Costituzione. E cioè se far discendere dalla collaborazione con la giustizia la prova legale della cessata pericolosità sociale del condannato impedisca alla magistratura di sorveglianza di valutare in concreto l’evoluzione personale del detenuto, e vanifichi così la finalità rieducativa della pena. Tema confinante con quello affrontato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo prima il 13 giugno e poi l’8 ottobre, quando la Cedu ha ritenuto che l’ostatività dell’ergastolo, se agganciata alla mancata collaborazione, violi il divieto di “trattamenti inumani o degradanti”; che la collaborazione non sia (come peraltro sperimentato nell’opportunismo di parecchi condannati) di per sé prova automatica della cessata pericolosità; e che l’Italia debba quindi modificare la norma. Tra le istruttive munizioni argomentative sciorinate appunto dagli scandalizzati dal verdetto della Cedu in vista di quello della Consulta, spicca l’uso cinico del morto. Non soltanto l’uso avvoltoiesco del dolore di molti parenti delle vittime, fingendo di dimenticare che altrettanti familiari spieghino invece, pur con pari dignità di sofferenza, di non sentirsi vendicati o risarciti dall’ergastolo ostativo. Ma anche l’appropriazione indebita (e talvolta usurpata) dell’”ipse dixit” di assassinati illustri, secondo diverse sfumature di strumentalità che dal “Così si cancella un caposaldo di Falcone” approdano sino al più disinvolto “Hanno riammazzato Falcone e Borsellino”, titolo di una prima pagina sotto la faccia dei giudici di Strasburgo tacciati di “non sapere cosa sia la mafia” e di “armare di nuovo i boss”. Poi c’è il classico ricatto del “così si demolisce la lotta alla mafia” e “si esaudisce una delle richieste di Riina nel papello”, giacché la sola prospettiva teorica di poter non morire in carcere rilegittimerebbe il comando dei boss dal carcere: tesi contraddittoria in quanti, per motivare il no alla scarcerazione di Provenzano morente, argomentavano che proprio dall’ergastolo al 41 bis continuasse a esercitare il proprio ruolo. Neppure si teme il ridicolo di spargere terrorismo psicologico con l’allarme che “rischino di uscire mille ergastolani”. Pura mistificazione, perché la decisione della Consulta, come quella della Corte europea dei diritti dell’uomo, non solo non libererebbe i 1.106 ergastolani ostativi (sui 1.633 ergastolani definitivi), ma soprattutto consentirebbe soltanto che siano sempre e comunque i giudici dei Tribunali di Sorveglianza a poter valutare, caso per caso, il percorso rieducativo e la rescissione dei legami con la criminalità prospettati dai condannati dopo molti anni di carcere: esame individualizzato sulla scorta anche dei pareri delle Procure Antimafia, e nel quale è immaginabile che la mancata collaborazione continuerebbe a pesare in partenza come indice tendenzialmente negativo. Ma proprio qui si coglie il nervo scoperto di una parte di magistratura che, sotto la postura muscolare che inscena, in realtà tradisce una inaspettata fragilità, cercando nelle preclusioni automatiche e nelle rigide presunzioni di permanente pericolosità una “coperta di Linus” con la quale difendersi dal rischio di dover decidere, dalla complessità di dover fare una prognosi sul cambiamento o meno di una persona in carcere, dal travaglio di doversi assumere una responsabilità. Con l’unica attenuante, va riconosciuto, di vedersi poi pregiudizialmente massacrare dalla politica e dai mass media quella dolorosa volta (pur statisticamente infrequente) in cui a ricommettere un grave reato sia proprio un detenuto ammesso a qualche beneficio. Ma anche con l’aggravante “culturale” di alimentare inconsapevolmente, di automatismo in automatismo, quell’eterogeneo frullatore nel quale (si tratti di ostatività dell’ergastolo, di difesa “sempre” legittima in casa, o di sorteggio al Csm contro le nomine egemonizzate dalle degenerazioni correntizie) l’ingrediente-base è ormai l’abdicare alla funzione del magistrato, barattata con una qualche polizza di rassicurazione. L’ergastolo ostativo e il traino dei battelli sul Danubio di Davide Galliani* Il Sole 24 Ore, 21 ottobre 2019 L’ergastolo ostativo è equivalente al traino dei battelli controcorrente imposto nel 1778 dall’imperatore austriaco in seguito all’abolizione della pena di morte. Ecco perché. L’imperatore austriaco, nel 1778, abolisce la pena di morte. Per tenere alta la deterrenza, introduce: la detenzione, da trenta a cento anni, con cerchio di ferro al torace, ferri ai piedi, letto di assi, nutrimento a pane e acqua, isolamento; l’incatenazione, con totale impossibilità di movimento, che, una volta all’anno, per pubblico esempio, comprende anche delle bastonate; il traino dei battelli controcorrente sul Danubio. Questo terzo surrogato della pena capitale era già stato testato. Durante un viaggio, il nostro si accorge della difficoltà di trasportare viveri, merci e armi sul Danubio. La corrente contraria è troppo forte: le navi devono essere trainate da uomini appostati sulla riva, grazie a lunghe corde. Così nasce il traino dei battelli e subito inizia la conta dei morti: informato, il sovrano incolpa le febbri palustri. Dei 1.173 uomini al traino dei battelli dal 1784 al 1789, nel 1790 ne sopravvivono 452. Per cinque anni, ogni anno muoiono un numero doppio di uomini di quanti erano stati giustiziati negli anni precedenti. Il 17 luglio 1790, un decreto di Pietro Leopoldo, succeduto al fratello, abolisce il traino dei battelli. Sono passati più di due secoli. Come dirci contrari alla pena di morte e favorevoli al moderno traino dei battelli, l’ergastolo ostativo? Proviamo a spiegare questa pena con un esempio, che non contiene tutti i casi, ma buona parte. Famiglia e contesto disagiati. Assenza completa dello Stato. Smetti di cercare te stesso. Pensi che realizzarsi non dipenda anche da te, ma solo da altri, che ti cercano e non respingi. Spari e poi ancora spari. Uccidi, quasi senza farci caso. Vuoi essere riconosciuto. Falsi valori, ipocrisia, niente conta: sei finalmente uno di loro. Anche se hai solo venti anni, hai già perso amici, parenti e di lì a poco perderai anche la tua libertà, quella fisica. Inevitabile e giusta, inizia finalmente la detenzione. Capisci però che il carcere a qualcosa serve: hai un attimo per stare con te stesso, finalmente un attimo di libertà, anche se dietro le sbarre. Lo Stato, prima assente, ora è presente. Non si preoccupa di te. Vuole che tu collabori con la giustizia. Se ti va bene, se i fatti sono tutti accertati, la collaborazione sarà impossibile. Non di meno, è una rarità: tu eri dentro un sistema, la mafia, dove di solito non si uccide per impulso, ma quasi sempre per utilità. Non usa la vendetta, di norma. Usa il calcolo, del quale tu nulla o quasi sapevi: quelli erano la pistola e l’obbiettivo, hai sparato, magari insieme a qualcuno di altro, perché così ti è stato detto di fare da tizio, incaricato da caio, con il via libera di sempronio. In poche parole, non hai scampo. Certo che puoi fare qualche nome, ma sei sovrastato dalle paure. La fiducia, lo Stato, se la deve meritare e i collaboratori morti ammazzati non sono una rarità. Ci vuole una bella fiducia per fidarsi di questo Stato, che non riesce ad essere più forte della mafia. Non solo. Non vuoi far arrestare tuo fratello o una persona che è uscita dal giro, scontata la pena. Che fare: baratto la sua detenzione con la mia possibilità di libertà? Qui inizia la storia, anzi finisce. Questo è l’ergastolo ostativo. I motivi che ti hanno spinto a non collaborare non cambiano nel tempo. Ma qualcosa succede. Eri quasi analfabeta, ora leggi romanzi, hai preso un diploma, poi una laurea. Ti sei impegnato in carcere e ora magari sai coltivare un orto. Hai iniziato a riscoprire te stesso: ti sei allontanato dall’uomo del reato. Inizi a capire chi sei. Solo così, riconoscendo te stesso, riconosci gli altri, quindi anche la società. Arriva poi la duplice svolta. Ripercorri la tua vita, ti ricredi, fai di tutto perché altri non commettano i tuoi stessi errori. La mafia “fa schifo”: lo dici una, due, tre, tante volte. Ovvio che quando parli sei sempre sulla linea di confine tra l’ammettere gli errori, nel senso di ripercorrere ricredendoti la tua esistenza, e il giustificarli. Ma lo dici: non ti stai giustificando, stai solo raccontando la tua storia, sbagliata, ma sempre la tua storia, per quella che è: anche questo è legalità. La seconda svolta. Chiedi scusa, al quartiere dove sei nato, alla comunità e alle persone che hai ferito, ai parenti delle persone che hai ucciso. A volte dici: “se però fossi nato altrove”. Anche questo sembra giustificazione, ma è rivedere criticamente la propria esistenza. L’uomo del reato, oggi, è cambiato. Ti senti pronto per andare di fronte ad un giudice: il percorso fatto è positivo, oppure manca qualcosa? Tutto qui. Quello che vorresti sarebbe questa possibilità. Senza mai nessuno che ti possa giudicare, ti sembrerebbe di morire, giorno dopo giorno, lentamente. Preferisci la pena di morte. Non sopporti che la tua pericolosità sia desunta e presunta, automatica, per via di quello che hai fatto quando eri ragazzino. Tanto vale farla finita subito: giustiziatemi. La collaborazione con la giustizia è importante, ma non può essere l’unica cosa da considerare. E se il giudice si convincesse, non ci sarebbe alcun automatismo. Leggerà le relazioni del carcere, le informative della polizia, i pareri della procura antimafia. Se qualcosa non torna, prevale la pericolosità rispetto alla rieducazione. Come il nostro protagonista, ce ne sono circa 1.200, gli ergastolani ostativi italiani. Non possiamo attendere che uno ad uno escano dal carcere nell’unico modo oggi possibile, da morti, come quelli che trainavano i battelli sul Danubio. *Professore di diritto pubblico Università degli studi di Milano Ergastolo ostativo: la prevenzione della criminalità e il rispetto della dignità umana di Marco Pelissero* Il Sole 24 Ore, 21 ottobre 2019 Non è facile comprendere le dinamiche che sorreggono il diritto penale, specie quando si tratta di fatti lesivi di diritti fondamentali delle persone e dell’intera comunità associata; soprattutto, non è facile trasmettere le ragioni che stanno alla base di decisioni che appaiono, a prima vista, un’inaccettabile concessione in favore di chi ha commesso un reato, specie se efferato. Il fatto è che siamo tendenzialmente propensi ad identificarci con chi è vittima del reato e mai con chi ne è l’autore (salvo che l’autore sia colui che si difende da un’aggressione ingiusta, ed allora il discorso cambia completamente). Il caso Viola deciso nel giugno di quest’anno dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, con sentenza divenuta definitiva, riguarda un condannato alla pena dell’ergastolo per reati gravi connessi alla criminalità organizzata; la vicenda giudiziaria ed il suo epilogo rappresentano un esempio emblematico della complessità delle questioni sottese alla pronuncia. È necessario provare a semplificare, senza banalizzare, il ragionamento seguito dai giudici di Strasburgo che hanno condannato l’Italia per violazione del divieto di trattamenti inumani e degradanti in relazione ad una specifica disciplina in tema di ergastolo. L’ergastolo per essere compatibile con i principi costituzionali deve sempre assicurare al condannato effettive possibilità di interruzione della detenzione: la logica semplificatoria “si condanni alla galera e si butti via la chiave” non è compatibile con i principi fissati dalla Costituzione (le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato, art. 27 comma 3) e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (divieti di trattamenti inumani e degradanti, art. 3): ogni detenuto ha diritto al riesame della sua personalità in corso di detenzione, perché ogni personalità non è statica, ma è destinata a mutare nel tempo in ragione delle esperienze vissute, tanto più dopo anni di vita in carcere. Una volta che l’autorità giudiziaria abbia accertato le condizioni per ritenere il detenuto rieducato e privo di collegamenti con la criminalità organizzata, il mantenimento in carcere non avrebbe altro significato che quello di barbara ed inefficace vessazione. Per questa ragione anche l’ergastolano può accedere alle misure alternative alla detenzione e alla liberazione condizionale, sebbene con limitazioni temporali ben più gravose di quelle riservate agli altri detenuti. Se non che la recrudescenza della criminalità organizzata all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, ha indotto il legislatore a condizionare, per i condannati a reati connessi a tale forma di criminalità, l’accesso ai benefici penitenziari alla collaborazione con l’autorità giudiziaria. La collaborazione è divenuta, dunque, condizione necessaria per vedere effettivamente interrotta la pena detentiva e inevitabilmente per i condannati alla pena dell’ergastolo la mancanza di collaborazione con l’autorità giudiziaria rende l’ergastolo pena destinata a non finire effettivamente mai (c.d. ergastolo ostativo). Nella sentenza Viola contro Italia la Corte europea dei diritti dell’uomo rompe l’equazione “rieducazione-collaborazione”: vi possono essere, infatti, casi nei quali la collaborazione c’è, ma manca la rieducazione, perché il detenuto si decide a chiamate di correità semplicemente per beneficiare del premio della collaborazione; oppure vi possono essere situazioni - e sono le più - nelle quali la mancata collaborazione dipende dalla volontà di non voler far ricadere sui propri famigliari gli effetti di faide incrociate o di non voler coinvolgere altri nelle vicende giudiziarie. La Corte lacera il velo ipocrita di una rieducazione necessariamente condizionata alla collaborazione: la preclusione nell’accesso ai benefici penitenziari si traduce in un trattamento inumano e degradante. Alla luce di questa pronuncia, credo che la Corte costituzionale non possa che accogliere la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di cassazione in relazione all’impossibilità di accedere ai permessi premio per i condannati all’ergastolo per reati aggravati dal metodo o dalla finalità mafiosa. D’altra parte è la stessa sentenza Viola a richiamare nelle sue argomentazioni i più recenti orientamenti della Corte costituzionale che hanno ribadito la costante centralità della funzione rieducativa della pena in fase esecutiva, con accenti molto critici sulla disciplina delle preclusioni nell’accesso ai benefici penitenziari. Si tratta, sia chiaro, di una questione che non investe complessivamente la disciplina dell’ergastolo ostativo, perché interessa solo la concessione dei permessi premio (il vero banco di prova sarebbe l’accesso alla liberazione condizionale, l’unico istituto che consente all’ergastolano di uscire definitivamente dal carcere). Non di meno l’attesa pronuncia della Corte costituzionale costituirà un banco di prova sulla tenuta dell’intera disciplina dell’ergastolo ostativo: quale senso, infatti, avrebbe ammettere gli ergastolani ai permessi premio, se fosse poi loro precluso l’accesso a misure che garantiscono più ampi spazi di libertà? Sarà poi responsabilità del legislatore affrontare la revisione della disciplina dell’ergastolo ostativo, senza che ciò implichi l’abolizione della pena dell’ergastolo o l’apertura delle porte del carcere per tutti gli ergastolani (questo sì sarebbe un messaggio distorto, perché la sentenza della Corte europea non ha questo effetto). Ci sono ampi margini per formulare una nuova disciplina che assicuri il rispetto della dignità del detenuto, senza che questo implichi il mancato rispetto per le vittime dei reati ed il sacrificio delle esigenze di prevenzione della criminalità. La pena non può solo guardare al passato (il fatto commesso), ma deve guardare al futuro, sempre. *Professore ordinario di diritto penale, Università di Torino Il regime ostativo non risponde a esigenze di difesa sociale di Claudia Pecorella* Il Sole 24 Ore, 21 ottobre 2019 Il condannato alla pena dell’ergastolo non può mai essere privato di una prospettiva concreta ed effettiva di liberazione. La questione dell’ergastolo ostativo pone la Corte costituzionale di fronte a un bivio, dovendo scegliere se andare alla ricerca di possibili giustificazioni sul piano teorico della presunzione assoluta di non rieducabilità di chi non collabora con la giustizia oppure valutare quella presunzione alla luce dell’esperienza concreta maturata nei ventisette anni trascorsi dalla sua introduzione. La Corte Europea, con la sua recente sentenza nel caso Viola, ha ritenuto la disciplina italiana contraria all’art. 3 Cedu perché impedisce al detenuto di vedere riconosciuti i progressi compiuti nel suo percorso rieducativo, fino a quando non collabora con la giustizia. Smentendo quella presunzione in senso contrario, si prende atto del fatto che la mancata collaborazione non ha impedito che un percorso rieducativo sia stato intrapreso dal detenuto e si esige, anzi, che i risultati di quel percorso siano valutabili dal giudice in vista della possibile e graduale uscita dal carcere. Perché il condannato alla pena dell’ergastolo non può mai essere privato di una prospettiva concreta ed effettiva di liberazione. D’altra parte, abbiamo davanti agli occhi casi di ergastolani ostativi che, senza aver collaborato con l’autorità giudiziaria, hanno potuto ottenere dei benefici penitenziari o delle misure alternative alla detenzione, avendo partecipato attivamente al programma rieducativo durante i lunghi anni trascorsi in carcere. Sono gli ergastolani usciti dal regime ostativo attraverso il riconoscimento della inesigibilità della loro collaborazione, perché tutto è stato ormai chiarito o niente sono in grado di ulteriormente chiarire. Come è potuto accadere? Nell’unico modo che l’ordinamento penitenziario contempla sulla base: a) di una relazione positiva dell’equipe penitenziaria che, avendo più di chiunque altro osservato l’evoluzione del condannato durante la detenzione, ha ritenuto da lui compiuta quella “presa di distanza dal suo passato criminale” necessaria, ma anche sufficiente, per poter intraprendere un graduale percorso di ritorno alla libertà; nonché b) sulla successiva pronuncia del giudice che quella relazione ha ritenuto di poter condividere, concedendo il beneficio penitenziario richiesto. Perché negare questo stesso percorso, lungo e faticoso, ma ricco di speranza agli ergastolani che non collaborano, pur essendo ritenuti astrattamente in grado di farlo? Si dice che serve la loro collaborazione, sia pure a distanza di tanto tempo dai fatti. Se anche questa fosse la ragione, e se anche questa ragione fosse ritenuta sufficiente a giustificare il sacrificio della funzione rieducativa della pena nei confronti di questi soggetti, dovremmo arrenderci all’evidenza dei fatti: chi non ha collaborato nella fase processuale, ricavandone sensibili benefici in termini di pena, non decide di collaborare una volta che è stato condannato, se non sono cambiate o venute meno le ragioni, qualunque esse fossero, che gli hanno impedito di farlo nel momento più vantaggioso. E se è vero che la preoccupazione per l’incolumità dei propri familiari è la ragione principale che inibisce la scelta di collaborare, difficile è immaginare che quella preoccupazione svanisca dalla mente del condannato proprio mentre si trova in carcere, lontano da tutto e da tutti e con il solo conforto dei suoi familiari. Una condizione, si noti, che l’ergastolano ostativo condivide con le persone condannate a pena temporanea e parimenti eseguite in regime ostativo: anche ad esse è precluso, se non collaborano con la giustizia, il normale percorso rieducativo e quindi un’effettiva chance di reinserimento una volta uscite dal carcere. Perché loro, a differenza degli ergastolani, riacquistano necessariamente la libertà, una volta terminata l’esecuzione della pena. E allora, possiamo davvero continuare a credere che il regime ostativo previsto dalla legge risponda a esigenze di difesa sociale? *Professore ordinario di diritto penale, Università di Milano-Bicocca Ergastolo ostativo: se Strasburgo confonde la giustizia con la clemenza di Francesco Carraro* Il Fato Quotidiano, 21 ottobre 2019 C’è qualcosa di giuridicamente “stonato” nella sentenza con cui la Grand Chambre della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha spiegato all’Italia che l’ergastolo ostativo va rivisto. E che prescinde dal caso specifico trattato. Ma forse, prima, c’è anche qualcosa di semanticamente fuorviante, e quindi di razionalmente sballato, nella locuzione “ergastolo ostativo”. I due termini costituiscono un magnifico esempio di tautologia: una figura retorica con la quale si usano vocaboli ridondanti rispetto al significato da veicolare. Un ergastolo dovrebbe essere “ostativo” di default: l’aggettivo è superfluo. E allora perché l’ergastolo ostativo è stato introdotto nel nostro ordinamento? Perché, in realtà, l’ergastolo in Italia non è mai stato davvero un “ergastolo”: il detenuto può temperare la sua pena con permessi premio, lavoro esterno, misure alternative alla reclusione, fino addirittura a uscire anzitempo e per sempre dal carcere. Cosicché, nei primi anni Novanta, dopo le stragi di mafia e la morte di Falcone e Borsellino, venne modificato l’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario: niente benefici né misure alternative per crimini particolarmente gravi connessi a mafia e terrorismo, salvo che vi fosse un ravvedimento palese del reo sotto forma di collaborazione con l’autorità giudiziaria (fenomeno del cosiddetto “pentitismo”). Ora, la sentenza della Grand Chambre è un grimaldello per disinnescare la gravità, ultimativa e non negoziabile né rivedibile, della pena “terminale” per eccellenza: l’ergastolo “ostativo”, appunto. Però, essa ci offre anche il destro per una riflessione più ampia e profonda sul tema, che potrebbe essere declinata, più o meno, con il seguente quesito: ha ancora senso l’ergastolo in quanto tale? Cioè una punizione che, per natura, è ostativa e quindi non necessitante di un aggettivo a qualificarne e rimarcarne la sostanza? Ha senso almeno nei confronti di chi non palesa una qualche resipiscenza attraverso la collaborazione con il sistema giudiziario? Per la cosiddetta Corte dei cosiddetti diritti, no. Ma forse la “ragione” sta da un’altra parte. L’ergastolo ostativo potrebbe avere ancora un senso nella misura in cui si vogliano mantenere delle pene estreme come punizione di atti estremamente gravi. E allora perché la Corte ha detto no? Perché - a dispetto del suo rappresentare il più alto consesso europeo in materia di giustizia - essa ha frainteso il concetto di giustizia con quello di clemenza. Siamo tutti figli di Beccaria, d’accordo. Ciononostante, sappiamo che la filosofia sui delitti e sulle pene di cui discorreva il grande giurista lombardo non può né deve “tendere” la categoria della giustizia fino a spezzarla. Essere giusti può anche implicare, in determinati casi, dimostrarsi clementi. Ma la Giustizia non può convertirsi in sistematica clemenza. Non al punto da negare la possibilità effettiva di una pena così dura e irrevocabile come il carcere a vita e senza sconti. C’è un’altra parola importante, trascurata dai giudici dell’Alta Corte, e fa rima con clemenza: deterrenza. Solo che essa viene troppo spesso dimenticata in nome di un principio, pur sacrosanto, quale il risvolto rieducativo della sanzione. Lo scrittore italiano Giuseppe Pontiggia sintetizzò così la faccenda: “Penso che questa società, indebolendo la certezza della pena, tolga alla giustizia una delle sue funzioni più importanti, cioè quella di deterrente: molte persone, sicure dell’impunità, commettono reati”. Ma non è neppure la deterrenza il fattore dirimente: ci sono delitti così disumani (e non solo quelli connessi a mafia e terrorismo) da meritare una pena la quale sfiori, ma non oltrepassi, i confini stessi dell’umanità. Quella pena non può essere la morte, ma deve essere l’ergastolo, se necessario ostativo. Quantomeno per certi crimini particolarmente odiosi e per coloro che non dimostrano il benché minimo segno di pentimento e la benché minima volontà di cooperazione. E non è neppure corretto affermare, come suggeriscono i giudici europei, che negare i “benefici penitenziari” sia in assoluto “incompatibile con la dignità umana”. Può essere vero anche il contrario: solo una pena quasi intollerabile (come la privazione ad vitam del bene più prezioso, vita a parte, e cioè la libertà) è sufficiente, in taluni casi, a pagare il fio e a rendere giustizia, in modo “degno”, alle vittime. Una vita sotto chiave è terribile, ma lo è altrettanto, anzi di più, la vita rubata dei tanti bersagli innocenti di certi efferati delitti. E parliamo sia di chi la sua vita l’ha persa, sia di chi (madri, padri, figli e fratelli) deve “scontare” un’esistenza intera nel pianto e nel dolore provocato dal male altrui; senza poter fruire di alcun “beneficio penitenziario”. Ma oggi la sensibilità corrente, ai più alti livelli e non solo giudiziari, coltiva un’inquietante attenzione per Caino che cela, temiamo, un’insofferenza diffusa per Abele. E così la (malintesa) clemenza rischia di soppiantare la (mai compresa) giustizia. *Avvocato e scrittore Carofiglio: “Sì all’ergastolo, ma resti la speranza di uscire” di Liana Milella La Repubblica, 21 ottobre 2019 Dopo la bocciatura di Strasburgo, mercoledì è attesa la pronuncia della Consulta sull’ergastolo ostativo che nega i benefici a chi non collabora. “Sì alla speranza dopo una lunghissima detenzione e un radicale ravvedimento. Ma l’ergastolo deve restare”. Dice così a Repubblica Gianrico Carofiglio, romanziere ed ex pm. La Corte di Strasburgo ha bocciato l’ergastolo “duro”, detto “ostativo”, che fissa un principio, nessun beneficio a chi non collabora. In attesa della decisione della Corte costituzionale giuristi, opinionisti e magistrati si dividono. Lei da che parte sta? “Non condivido l’idea di irrigidire la diversità di opinioni su un argomento così delicato. Dunque mi permetta di dire che non sto da nessuna parte o meglio, sto dalla parte della Costituzione che all’articolo 27 prevede che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. “Fine pena mai”: non è un giusto deterrente per chi ha soppresso scientemente una vita? “Non sono favorevole all’abolizione dell’ergastolo. Ci sono reati di eccezionale gravità che richiedono pene altrettanto gravi. Deve però essere prevista la possibilità che anche i condannati all’ergastolo, dopo un lunghissimo periodo di detenzione in cui abbiano mostrato un radicale ravvedimento, possano avere una speranza”. Strasburgo è contro una detenzione “inumana e degradante”. Ma chi è entrato a far parte di Cosa nostra, dove l’omicidio è la regola, e magari ha compiuto una strage, ha diritto a una riabilitazione? “Non lo dico io, lo dice la Costituzione. Naturalmente rispetto a certi reati come quelli di mafia e di terrorismo i criteri per valutare l’eventuale ravvedimento devono essere particolarmente severi”. Tra i diritti dei singoli e la tutela e la sicurezza della collettività non è obbligatorio scegliere la seconda? “Attenzione: dire che si debba scegliere fra diritti dei singoli e tutela della collettività ci mette su una china pericolosissima. Alla fine di questa china ci sono i giudizi sommari senza garanzie e lo stato di polizia. Bisogna garantire la sicurezza della collettività senza violare i diritti costituzionalmente garantiti”. Magistrati come Grasso, Scarpinato, Di Matteo, Cafiero De Raho, Roberti, Tartaglia, considerano la richiesta di Strasburgo un antistorico cedimento alla mafia. E con loro stanno i parenti delle vittime. Gli si può dar torto? “Mi sono occupato di criminalità mafiosa, come pm, per oltre dodici anni. Su mia richiesta sono stati comminati centinaia di anni di carcere e decine di ergastoli. Si figuri se non sono sensibile al tema e alle ragioni dei familiari delle vittime. Ciò detto: la giusta, severa punizione di gravi reati non deve trasformarsi in spietata vendetta contraria al senso di umanità e alla Costituzione. Non si può negare a priori un beneficio a chi dopo aver scontato decine di anni di carcere provi di aver compiuto un proficuo percorso rieducativo e di aver troncato i collegamenti con le realtà criminose di provenienza. Bene sottolineare poi che la sussistenza di questi presupposti sarà sempre sottoposta al controllo di un magistrato di sorveglianza, senza la cui autorizzazione nessuno potrà ottenere benefici penitenziari”. Ha letto le parole di Elvio Fassone su Repubblica? Dopo aver comminato un ergastolo questo giudice ritiene che a quel detenuto non si possa precludere comunque un futuro… “Sono completamente d’accordo con Fassone. È stato uno straordinario magistrato ed è un uomo di grande cultura non solo giuridica”. Riina chiedeva nel1993, mentre pianificava le stragi di Roma, Firenze e Milano, e dopo aver ucciso Falcone e Borsellino, che lo Stato cedesse su ergastolo e 41bis. Non basta per rendersi conto che resiste una specificità criminale italiana da cui non si può prescindere? “Infatti di questa specificità criminale bisogna tenere conto. I criteri per l’eventuale attenuazione dell’ergastolo ostativo, devono essere particolarmente stringenti. Io credo si debba istituire, in questa materia, quello che in gergo tecnico si chiama “presunzione relativa”. Tradotto per i non addetti ai lavori: sì presume che un condannato per mafia o per terrorismo sia comunque pericoloso a meno che non venga fornita la “prova” del contrario. Il giudice di sorveglianza potrebbe concedere dei benefici solo dopo un lungo periodo di detenzione, in presenza di una radicale critica del passato criminale e una sicura cessazione di ogni rapporto coni contesti di provenienza”. Perché non è sufficiente la clausola dell’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario per cui l’accesso ai benefici è possibile solo se il detenuto collabora rompendo per sempre con il suo passato? “Perché, a tacere d’altro, ci sono molti casi, dopo anni di detenzione, in cui la collaborazione è impossibile. E perché ci sono casi in cui un soggetto ha deciso di non collaborare (e la scelta di collaborare, in un paese civile, può essere sollecitata ma non imposta) ma ha comunque cambiato vita, troncando i rapporti con l’ambiente criminale di origine”. Ammorbidire l’ergastolo non rende inutile la spinta stessa a collaborare? “Nessuno vuole ammorbidire l’ergastolo. Bisogna solo rendere la normativa antimafia compatibile con la Costituzione. Chi decide di collaborare seriamente lo fa per un concorso di ragioni. Anche evitare lunghissimi anni di carcere duro. E questa motivazione rimarrà del tutto integra anche dopo un eventuale intervento su questa normativa. Non dimentichiamo che tutto il discorso fatto non riguarda i141 bis, la norma che prevede il carcere duro per i mafiosi. La norma è fondamentale per il contrasto delle mafie e rimane, giustamente, intatta e operativa”. Eutanasia ed ergastolo ostativo come due facce della stessa medaglia di Iris Lidonnici salvisjuribus.it, 21 ottobre 2019 C’è chi ambisce al diritto di morire, perché costretto ad un’esistenza talmente indignitosa da non poter essere chiamata “vita” (eutanasia). E poi, dall’altra parte della carreggiata, c’è chi, non avendo vissuto dignitosamente, chiede allo Stato un’altra possibilità per poter vivere secondo le regole. E lo Stato italiano gliela nega questa possibilità (ergastolo ostativo). Ebbene, recentemente abbiamo assistito a due importanti e autorevoli arresti, che mettono sull’ago della bilancia le questioni, personalissime, del “fine-vita” e del “fine pena mai”. Il primo sul c.d. Caso Cappato. La Corte Costituzionale, all’esito della Camera di Consiglio del 25/09/2019, chiamata ad esaminare le questioni sollevate dalla Corte d’Assise di Milano sull’articolo 580 del Codice penale, riguardanti la punibilità dell’aiuto al suicidio di chi sia già determinato a togliersi la vita, ha ritenuto “non punibile ai sensi dell’articolo 580 del codice penale, a determinate condizioni, chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”. In attesa di un indispensabile intervento del legislatore, la Corte ha subordinato la non punibilità al rispetto delle modalità previste dalla normativa sul consenso informato, sulle cure palliative e sulla sedazione profonda continua (articoli 1 e 2 della legge 219/2017) e alla verifica sia delle condizioni richieste che delle modalità di esecuzione da parte di una struttura pubblica del SSN, sentito il parere del comitato etico territorialmente competente. Inoltre, la Corte sottolinea che l’individuazione di queste specifiche condizioni e modalità procedimentali, desunte da norme già presenti nell’ordinamento, si è resa necessaria per evitare rischi di abuso nei confronti di persone specialmente vulnerabili. Il secondo sul c.d. Caso Viola. La Grande Camera della Corte Europea dei diritti dell’uomo rigetta il ricorso presentato dal Governo Italiano contro la sentenza del 31/06/2019 che aveva negato la compatibilità del cd. ergastolo ostativo - previsto dal combinato disposto di cui agli artt. 22 c.p., 4-bis e 58-ter della legge sull’ordinamento penitenziario - con l’art. 3 della Cedu che vieta la tortura, le punizioni degradanti e disumane, con ciò negando di fatto la possibilità per il detenuto di intraprendere un percorso rieducativo. In particolare, con la sentenza in oggetto - che riguardava il caso del boss di ‘ndrangheta Marcello Viola - i giudici di Strasburgo hanno stabilito che la condanna al carcere a vita senza poter accedere a permessi e benefici inflitta al boss di ‘ndrangheta viola l’art. 3 Cedu poiché, per effetto del regime applicabile alla pena inflitta al ricorrente, le sue possibilità di liberazione risultano eccessivamente limitate e un tale assetto non soddisfa i criteri che consentono di ritenere “riducibile” una pena perpetua e si traduce nella violazione del principio di dignità umana, desumibile dall’art. 3 ma immanente all’intero sistema convenzionale. L’Italia, in tema di ergastolo ostativo, aveva evidenziato la pericolosità di certe condotte criminali legittimando così una reazione severa nei confronti degli aderenti ad una organizzazione mafiosa o terroristica. L’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario concede al detenuto di fruire di permessi premio, lavoro esterno al carcere e misure alternative al carcere, tranne che la liberazione anticipata, qualora egli decida di collaborare con la giustizia al fine di dimostrare la rottura dei legami con l’organizzazione criminale Tuttavia, secondo la Corte Edu, l’ergastolo ostativo, definito trattamento inumano e degradante, viola i diritti umani: al detenuto non è possibile “rubare” anche la speranza di un recupero sociale, ma a costui va riconosciuta la possibilità di pentirsi e di avere una occasione di miglioramento delle proprie condizioni di vita. Anche nell’ambito di tale materia si auspica un intervento del legislatore, poiché la sentenza in oggetto fa da apripista rispetto a ricorsi proponibili da altri detenuti, che versano in condizioni analoghe. Il leit-motive dei due arresti si fonde e si perpetua al servizio del bisogno di giustizia dei più deboli: due facce di una stessa medaglia, appunto. In Lombardia 106 con il fine-pena-mai: salta l’equivoco del “liberi tutti” di Mario Consani Il Giorno, 21 ottobre 2019 Dibattito sulla sentenza europea: “Nessun automatismo, sceglie il giudice”. Ora tocca alla Consulta. Fine pena, forse. In Lombardia sono 106 i detenuti a vita che in queste ore sperano. Dopo la Corte europea dei diritti dell’uomo che ne ha bocciato gli automatismi, domani tocca alla Corte costituzionale pronunciarsi sulla legittimità dell’ergastolo ostativo - il “fine pena mai” - il carcere a vita che non ammette permessi né sconti né rieducazione possibile a meno che il condannato, per lo più mafioso o ‘ndranghetista, scelga di collaborare con la giustizia. È un dibattito incandescente quello seguito alla decisione della Corte europea e che ora precede la sentenza della Consulta. Da una parte chi, in politica e nella magistratura, sostiene che dare anche a chi non si “penta” la speranza di uscire un giorno di cella (purché un giudice lo consenta) compromette gravemente il contrasto alla criminalità organizzata. Dall’altro, chi ritiene invece che l’automatismo di legare ogni possibile beneficio alla sola collaborazione con la giustizia non sia in linea con la Costituzione. Nel mezzo, chi è convinto che il nodo non si possa tagliare con l’accetta e riflette sulle mille sfaccettature della questione. In Lombardia, più o meno come per il totale nazionale, la percentuale di ergastolani ostativi sfiora i 2/3 di tutti i condannati al carcere a vita, che in Regione sono al momento 168. I 106 “ostatitivi” sono per lo più boss ed esponenti di spicco della criminalità organizzata, e comunque tutti detenuti nel carcere di Opera. Per una piccola quota di costoro, però, la collaborazione è riconosciuta impossibile: perché non c’è più nessuno che possano chiamare in causa o perché non hanno mai avuto un ruolo che consenta loro di farlo. Per quanto “ostativi”, questi ergastolani possono dunque usufruire di permessi e di sconti. Il procuratore aggiunto Maurizio Romanelli, già nella Direzione nazionale antimafia e ora coordinatore del settore esecuzione penale della Procura, rifiuta il conflitto ideologico “tra i sostenitori dei principi costituzionali della pena ed i sostenitori della necessaria efficacia” dell’azione di contrasto a mafie e terrorismo. “Chi pratica il contrasto all’agire terroristico e mafioso - dice - ha ovviamente il massimo rispetto delle regole costituzionali”. E quindi va valutato “se le aperture all’ergastolo ostativo, rappresentate dalla collaborazione, e dalla collaborazione impossibile ed inesigibile, siano o meno idonee a garantire il rispetto della funzione rieducativa della pena”, a fronte di “fenomeni criminali pericolosissimi e consolidati”. Romanelli ritiene di sì, anche se - aggiunge - “senza far cadere le caratteristiche di fondo del sistema, forse è ipotizzabile un qualche ampliamento della collaborazione “impossibile”“. E proprio il caso degli ergastolani ostativi con collaborazione “impossibile”, quelli “che perciò stanno usufruendo dei benefici di legge e non hanno mai dato problemi”, è l’esempio citato dalla presidente del tribunale di sorveglianza Giovanna Di Rosa, sul cui ufficio, nel caso di abolizione degli automatismi, ricadrà la responsabilità di valutare una per una le future richieste dei boss rinchiusi a vita. “Ma credo che l’allarme generale - osserva Di Rosa - sia focalizzato più che altro su una strategia di prevenzione generale che finora ha avuto successo anche grazie alla norma sull’ergastolo ostativo e che però potrebbe arricchirsi anche di condotte risarcitorie e riparative”. Chi non ha molti dubbi è il capo dell’Antimafia milanese Alessandra Dolci: “Dalla criminalità mafiosa - sostiene - si esce solo collaborando con l’autorità giudiziaria o con la morte. La riabilitazione senza pentimento è solo una “bella illusione”. Non ho memoria di esempi positivi”. Sull’altro fronte, l’avvocato penalista Valentina Alberta, che ha seguito progetti carcerari con il coinvolgimento di ergastolani “ostativi”, respinge l’argomento di chi sostiene che la formula attuale della norma sia quella voluta da Giovanni Falcone. “La versione originaria - ricorda - prevedeva il divieto di benefici a meno che non fossero acquisiti elementi idonei ad escludere collegamenti attuali con la criminalità organizzata. Prova definita “diabolica”, ma di certo non obbligo di collaborazione”. A suo modo categorico è il Garante dei detenuti della Lombardia, Carlo Lio. “Vengo da una formazione socialista - premette - e la mia convinzione, che ritrovo nella Carta costituzionale, è che anche l’autore del delitto peggiore debba poter sperare che una volta scontata la sua pena gli venga offerta una seconda possibilità”. Guido Salvini, tra i giudici di tribunale con maggiore esperienza, ha una posizione più sfumata. “Non sarà forse necessario esigere una collaborazione processuale - osserva - ma qualcosa lo Stato ha il diritto di pretendere. Quantomeno, che il detenuto rigetti in modo convincente le scelte passate, dica pubblicamente “non fate come me”, non seguite la mia strada. Serve almeno una resa, pubblica e inequivocabile”. Il rodigino Livio Ferrari al vertice del Movimento italiano “No prison” di Nicola Astolfi Il Gazzettino, 21 ottobre 2019 Il rodigino Livio Ferrari è stato nominato portavoce nazionale di “No prison”, il Movimento che chiede di superare il carcere con provvedimenti alternativi alla detenzione e riservando le misure reclusive a casi di estrema pericolosità. A Roma “No prison” è diventato una realtà associativa, con l’approvazione dello statuto e la nomina del consiglio direttivo. Le votazioni dell’assemblea costituente sono arrivate al termine di una due giorni iniziata con il seminario internazionale ospitato dalla Fondazione Basso, con relazioni di Gherardo Colombo, Luigi Ferrajoli, Giuseppe Mosconi, Elisabetta Zamparutti e Mauro Palma, coordinati dal direttore di Avvenire, Marco Tarquinio. Giornalista, scrittore e cantautore, fondatore e presidente del Centro francescano di ascolto di Rovigo, Livio Ferrari aveva scritto nel 2012, insieme a Massimo Pavarini, compianto professore di Diritto penale alla facoltà di Giurisprudenza di Bologna, il manifesto del movimento. Nel 2015 era seguita la pubblicazione del volume “No prison”, scritto da Ferrari per la Rubbettino Editore, e nell’agosto 2018 era stato edito da Eg Press di Londra un libro in inglese con lo stesso titolo, ma con contributi di intellettuali di vari Paesi del mondo che condividono l’idea abolizionista del carcere: era stato poi presentato in un convegno internazionale a Lubiana e da qui era nata l’idea di un’edizione italiana, curata dallo stesso Ferrari per Edizioni Apogeo di Adria, intitolata “Basta dolore e odio. No prison”, con la prefazione di Pavarini. Ora inizia una nuova fase, spiega Ferrari, “per costruire iniziative, progetti e documenti che riescano a porre nel dibattito pubblico l’abolizione del carcere”. Perché abolire e non riformare il carcere? “Contrariamente alla centralità del carcere proposto all’opinione pubblica come riferimento fondamentale contro i mali - risponde Ferrari - sono il sovraffollamento, il deterioramento delle condizioni di vita interne, il diradarsi e l’indebolirsi degli strumenti trattamentali come i permessi premiali e l’assegnazione al lavoro extra murario, e la restrizione delle opportunità di fruire delle misure alternative, a far riconoscere che il carcere è di per sé uno strumento inutile e dannoso, almeno nelle funzioni che oggi riveste”. Cosa propone No prison? “Lo sviluppo di ulteriori provvedimenti alternativi alla detenzione, riservando le eventuali misure reclusive a casi di estrema pericolosità. Chiediamo di gestire i comportamenti devianti e antisociali tenendo conto delle specificità che caratterizzano l’esperienza dei soggetti coinvolti, per trovare risposte che prevengano la stigmatizzazione sociale e l’emarginazione, e di andare oltre la cultura della vendetta, per introdurre metodi alternativi di gestione dei comportamenti devianti e illeciti. No prison guarda ai conflitti nella prospettiva di ricomporre i legami sociali: per questo promuove una riflessione sulla questione penale e carceraria che possa orientare i teorici, gli addetti ai lavori, i soggetti istituzionali e l’opinione pubblica alla consapevolezza che occorre modificare le normative verso il superamento dell’istituzione carceraria”. La super Procura Ue contro frodi Iva e truffe comunitarie di Valentina Maglione e Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 21 ottobre 2019 Arriva la super Procura europea che indagherà sui reati che danneggiano gli interessi finanziari dell’Unione: dalle frodi Iva alle truffe sui contributi Ue. La legge di delegazione europea 2018 (pubblicata in Gazzetta ufficiale venerdì scorso e in vigore dal 2 novembre) dà al Governo nove mesi di tempo per adeguare le norme nazionali. L’obiettivo è arrivare pronti all’appuntamento del n novembre 2020, data a partire dalla quale la Procura europea potrà cominciare a operare. Ma è tutta la giustizia penale a diventare sempre più europea. In base alla legge di delegazione 2018, il Governo dovrà anche rendere più stringente il mandato d’arresto europeo e adeguare le regole nazionali sul sequestro dei conti bancari per facilitare il recupero transfrontaliero dei crediti. E cresce anche l’utilizzo degli strumenti esistenti: dagli interventi di “facilitazione” della cooperazione tra autorità giudiziarie fatti dall’agenzia Eurojust (dal 2015 al 2018 i casi seguiti sono saliti del 34%) ai mandati d’arresto europei (+8% di provvedimenti emessi dal 2015 al 2017), fino agli ordini europei di indagine penale, che hanno debuttato due anni fa. La Procura europea La nuova super Procura - prevista dal regolamento Ue 2017/1939 - è stata pensata per migliorare il contrasto alle frodi contro la Ue e ai reati connessi, come corruzione e riciclaggio, anche in collegamento con l’agenzia Europol. Ma la Commissione europea ha proposto di allargare l’ambito d’azione anche ai reati di terrorismo. La Procura Ue è strutturata in un ufficio centrale, che ha sede a Lussemburgo ed è guidato dal Procuratore capo, in carica per sette anni: è stata nominata Laura Codruta Kiivesi, già a capo della direzione nazionale Anticorruzione rumena. A seguire le indagini saranno i “procuratori europei delegati”, vale a dire Pm operativi nelle procure nazionali che però dipenderanno dalla Procura del Lussemburgo. “È un cambio di prospettiva rivoluzionario per l’organizzazione giudiziaria italiana”, rileva Francesco Lo Voi, procuratore capo a Palermo ed ex membro di Eurojust. “Sono necessarie modifiche ordinamentali rilevanti. Ritengo inoltre che non potrà essere una riforma a costo zero perché i Pm europei avranno bisogno di personale e di risorse e dovranno avvalersi della polizia giudiziaria”. Per facilitare il recupero dei crediti civili e commerciali transfrontalieri, il regolamento Ce 655/2014 ha introdotto una procedura (l’ordinanza europea di sequestro conservativo su conti bancari) che permette a un giudice di un Paese Ue di congelare il conto detenuto dal debitore in un altro Paese Ue (eccetto Danimarca e Regno Unito). È uno strumento rapido e incisivo soprattutto perché non prevede un’informazione preventiva al debitore, evitando così che utilizzi o occulti i fondi. La legge di delegazione dà al Governo sei mesi per adeguare le regole nazionali. La legge prevede anche il rafforzamento del mandato d’arresto europeo. La disciplina attuale (legge 69/2005) andrà modificata trasformando in facoltativi alcuni motivi di rifiuto obbligatorio alla consegna del ricercato da parte delle autorità italiane. Fra questi, il caso in cui il mandato riguardi l’esecuzione di una pena per cittadini italiani che devono già scontarla in Italia. “È uno strumento che funziona molto bene” dice il procuratore di Napoli Giovanni Melillo. Fisco, in cella chi froda oltre i 100 mila euro e confisca dei beni come per i reati di mafia di Michela Allegri e Andrea Bassi Il Messaggero, 21 ottobre 2019 Carcere se si superano i 100 mila euro di evasione fiscale. Confisca per sproporzione, già prevista per i mafiosi. E ancora: un inasprimento delle pene detentive per i principali reati tributari. Tradotto: soglie più basse per la punibilità e più anni di carcere per chi viene scoperto. Ma sono previste anche attenuanti nei confronti di chi ammetta eventuali illeciti, abbia in corso procedure di regolarizzazione e per le imprese che avviino percorsi di concordato. Il pacchetto è pronto, ha spiegato ieri il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. E oggi sarà in discussione in consiglio dei ministri per stabilire i dettagli della norma e decidere quale strumento utilizzare per inserirlo nella manovra: “Ancora non sappiamo se entrerà tutto nel decreto fiscale. Potrebbe infatti entrare anche nell’emendamento e quindi in corsa, in sede di conversione. Al di là di questo l’importante è che abbiamo il pacchetto sul carcere e la confisca per sproporzione per i grandi evasori”, ha detto il Guardasigilli. Ma cosa cambia? Anche se la proposta è già sul tavolo, per avere le cifre precise sarà necessario attendere, perché sono ancora oggetto di confronto e discussione. Le sanzioni detentive sono già previste nell’ordinamento italiano, ma il nuovo pacchetto prevede un inasprimento delle pene per i reati fiscali fino 8 anni di carcere, la confisca dei beni e un abbassamento da 150 mila a 100 mila euro - ma la cifra non è definitiva - della soglia per la dichiarazione infedele, per l’omessa dichiarazione e per l’omesso versamento di “ritenute dovute o certificate”. In realtà, già questa appare una contraddizione rispetto alla volontà di colpire i “grandi evasori”. L’abbassamento delle soglie e il contemporaneo innalzamento delle pene, sarebbero una inversione di tendenza rispetto alla riforma del 2015, quando fu deciso di alzare i limiti oltre i quali scattano i procedimenti penali per evitare che gli imprenditori in difficoltà economica, oltre a dover fronteggiare il Fisco, dovessero poi finire davanti a un tribunale. Come nel caso degli omessi versamenti di imposte dichiarate. Una delle ragioni della riforma firmata dal governo Renzi, era quella di colpire, per esempio, chi dichiarava correttamente le tasse, ma poi non aveva i soldi per versarle effettivamente, magari anche perché vantava ingenti crediti nei confronti della Pubblica amministrazione che venivano saldati con fortissimi ritardi. Qualcuno, come l’esponente di Leu ed ex vice ministro all’Economia, Stefano Fassina, definì questi casi “evasione da sopravvivenza”. E diverse furono le sentenze dalle quali gli imprenditori, di fronte alla scelta se pagare i dipendenti o il Fisco, uscirono assolti. Adesso, almeno da quanto trapela, l’intenzione sarebbe di tornare indietro. Per quanto riguarda il reato di “dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”, attualmente gli anni di reclusione previsti sono un minimo di uno anno e 6 mesi, come pena minima, e 6 anni come pena massima. Secondo la nuova proposta potrebbero diventare 4 anni - pena minima - e 8 anni - pena massima -. La pena detentiva sarebbe però mitigata - cioè non muterebbe rispetto alla legge attuale - in caso di uso elementi passivi fittizi di ammontare inferiore ai 150 mila euro. In caso di utilizzo di documenti falsi o operazioni simulate per impedire i controlli la pena verrebbe aumentata. Si alzerebbe in modo consistente anche la soglia di punibilità per il reato di dichiarazione infedele, che si consuma quando l’evasore sottrae elementi attivi, oppure aggiunge elementi passivi fittizi. In questo caso la soglia di punibilità era stata triplicata dal governo Renzi - passando da 50 mila a 150 mila euro - e ora dovrebbe scendere a 100 mila. Secondo le intenzioni del governo, dovrebbe anche scendere a 2 milioni di euro - attualmente sono 3 milioni - l’ammontare delle attività sottratte o passività imputate necessario per finire in carcere. Ci sarà anche un inasprimento di pena: se attualmente si rischiano da 1 a 3 anni di reclusione, ne potrebbero rischiare da 2 a 5. Condanne più severe verranno previste anche per chi occulti o distrugga documenti contabili, per intralciare eventuali accertamenti. Per combattere l’evasione fiscale servono più controllori che secondini Carlo Nordio Il Messaggero, 21 ottobre 2019 Nell’estate del 1982 il governo annunciò, con un fervore entusiastico, di avere dichiarato guerra implacabile e risolutiva agli evasori fiscali. La trionfalistica notizia fu divulgata con la stessa edittazione solenne di questi giorni, e con lo stessa minaccia, tanto rude quanto scontata, delle manette. Superfluo ricordare la fioritura di considerazioni etiche, economiche, sociologiche e persino religiose che accompagnarono favorevolmente questa benemerita intenzione, perché nulla è più pernicioso, in uno Stato civile, dell’impunità di chi non paga le tasse. Se lo Stato siamo noi, e quindi siamo noi a doverlo mantenere, sottrarsi a questo dovere è anche peggio che un crimine: è uno stupido errore. Gli unici a dubitare dell’efficacia di questa ennesima grida manzoniana furono proprio gli addetti ai lavori, cioè i magistrati (tra i quali chi scrive) che conoscendo la sgangheratezza del nostro sistema penale intravidero subito le insormontabili difficoltà di una reale applicazione della sanzione detentiva ai contribuenti infedeli. Perché il reato fiscale è di valutazione dannatamente difficile: basti dire che molti accertamenti delle Agenzie delle entrate e della stessa Guardia di Finanzia vengono ridotti o annullati dalle Commissioni tributarie. quindi il giudice penale - se non vuole attendere l’esito del contenzioso amministrativo - rischia di decidere in modo difforme dall’organismo deputato alla verifica finale. In conclusione, dopo quasi quarant’anni dalla legge 516/82,1e manette sono scattate, e solo per breve tempo, pochissime volte. Insoddisfatti di questi magri risultati, i governi successivi hanno aumentato i reati e inasprito le pene. Niente da fare. Di evasori in galera non se ne sono mai visti. Ora il governo ci riprova. Come i Borboni della Restaurazione, non ha imparato niente e non ha dimenticato niente. Non ha dimenticato il velleitario giustizialismo dei suoi predecessori, e non ha imparato la lezione, estremamente deludente, dell’effimera minaccia dell’arma penale. Non ha imparato, cioè, che minacciare una sanzione che non riuscirai mai ad applicare è peggio che non minacciarla del tutto, perché all’inesistenza del castigo si associa il discredito di chi lo ha minacciato invano. Non solo. Abbassando la soglia di punibilità (pare siano centomila euro) il governo smentisce sé stesso, perché la somma evasa, per quanto consistente, è del tutto sproporzionata all’entità delle pene previste, e produrrà, come conseguenza naturale, una cautela dei giudici che sconfinerà nell’indulgenza. Chi ha esperienza di processi sa bene che tanto più le pene comminate sono irragionevolmente alte tanto più quelle concretamente irrogate sono tendenzialmente basse. Senza contare che se ad ogni accertamento provvisorio di evasione oltre i centomila euro dovesse conseguire una denuncia penale, le procure e i tribunali si intaserebbero, e i processi, compresi quelli per i grandi evasori, non si farebbero più. E non è nemmeno finita. Se la prescrizione - come pare - resterà sospesa dopo la sentenza di primo grado, le cause si allungheranno all’infinito, e quindi non solo l’evasore non finirà in galera ma lo Stato non potrà nemmeno confiscargli i beni dissimulati. Questo è il risultato dell’ennesimo approccio dilettantesco ed emotivo a questo eterno problema, che si continua a combattere (si fa per dire) facendo la faccia feroce per mascherare un braccio debole e impotente. Mentre l’esperienza dovrebbe insegnare che l’evasione tributaria si affronta non aumentando i secondini delle galere ma il numero e la professionalità degli addetti agli accertamenti, e soprattutto semplificando e razionalizzando una normativa a dir poco demenziale. Queste ridicole leggi, integrate da prolisse circolari e appannate da incerte interpretazioni, non consentono a nessun contribuente, neanche al più onesto, di dormire sonni tranquilli, perché sono così contraddittorie da impedire di rispettarne una senza violarne un’altra. Fornendo così il pretesto ai veri grandi evasori di ignorarle tutte, continuando a gestire capitali in paradisi fiscali europei, protetti da una altrettanto demenziale e disomogenea disciplina che nessuno si sogna di cambiare. Le due diverse fattispecie che costituiscono il reato di usura di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 21 ottobre 2019 Cassazione - Sezione II penale - Sentenza 18 settembre 2019 n. 38551. Il reato di usura si configura come un reato a schema duplice, potendo essere integrato da due distinte fattispecie tipiche, aventi in comune la pattuizione di interessi o altri vantaggi usurari in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra cosa mobile. Per la Cassazione (sentenza 38551/2019) le due fattispecie si distinguono perché: l’una è caratterizzata dal conseguimento del profitto illecito: in questo caso, il verificarsi dell’evento lesivo del patrimonio altrui si atteggia non già a effetto del reato, più o meno esteso nel tempo in relazione all’eventuale rateizzazione del debito, bensì a elemento costitutivo dell’illecito il quale, nel caso di integrale adempimento dell’obbligazione usuraria, si consuma con il pagamento del debito usuraio; l’altra è caratterizzata dalla mera accettazione del sinallagma a esso preordinato: in questo caso, che ricorre quando la promessa del corrispettivo usurario, in tutto o in parte, non venga mantenuta, il reato si perfeziona con la sola accettazione dell’obbligazione rimasta inadempiuta. Naturalmente, nel caso in cui la pattuizione usuraria sia adempiuta, la prima fattispecie assorbe l’altra. In termini, si segnala sezione feriale, 19 agosto 2010, Scuto e altri: il reato di usura si configura come un reato a schema duplice, costituito da due fattispecie - destinate strutturalmente l’una ad assorbire l’altra con l’esecuzione della pattuizione usuraria - aventi in comune l’induzione del soggetto passivo alla pattuizione di interessi o altri vantaggi usurari in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra cosa mobile, delle quali l’una è caratterizzata dal conseguimento del profitto illecito e l’altra dalla sola accettazione del sinallagma a esso preordinato. Nella prima fattispecie, il verificarsi dell’evento lesivo del patrimonio altrui si atteggia non già a effetto del reato, più o meno esteso nel tempo in relazione all’eventuale rateizzazione del debito, bensì ad elemento costitutivo dell’illecito il quale, nel caso di integrale adempimento dell’obbligazione usuraria, si consuma con il pagamento del debito. Nella seconda fattispecie, invece, che si verifica quando la promessa del corrispettivo, in tutto o in parte, non viene mantenuta, il reato si perfeziona con la sola accettazione dell’obbligazione rimasta inadempiuta. Tale peculiare modalità di consumazione ha effetti anche ai fini della prescrizione: qualora alla promessa segua - mediante la rateizzazione degli interessi convenuti - la dazione effettiva di essi, questa non costituisce un post factum non punibile, ma fa parte a pieno titolo del fatto lesivo penalmente rilevante e segna, mediante la concreta e reiterata esecuzione dell’originaria pattuizione usuraria, il momento consumativo “sostanziale” del reato, con effetti anche ai fini della prescrizione, essendosi in presenza di un reato a consumazione prolungata o a condotta frazionata; ciò che, del resto, è confermato dalla speciale regola proprio in tema di decorrenza della prescrizione dettata dall’articolo 644-ter del Cp, il quale stabilisce che “la prescrizione del reato di usura decorre dal giorno dell’ultima riscossione sia degli interessi che del capitale” (sezione II, 18 maggio 2010, Muollo e altri). Casa di cura senza adeguata organizzazione, risponde il direttore sanitario di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 21 ottobre 2019 Cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 22 luglio 2019 n. 32477. Al direttore sanitario di una casa di cura privata spettano poteri di gestione della struttura e doveri di vigilanza e organizzazione tecnico-sanitaria, compresi quelli di predisposizione di precisi protocolli inerenti al ricovero dei pazienti, all’accettazione dei medesimi, all’informativa interna di tutte le situazioni di rischio, alla gestione delle emergenze, alle modalità di contatto di altre strutture ospedaliere cui avviare i degenti in caso di necessità e all’adozione di scorte di sangue e/o di medicine in caso di necessità. Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza n. 32477 del 2019. Il conferimento di tali poteri comporta, quindi, l’attribuzione al direttore sanitario di una “posizione di garanzia” giuridicamente rilevante, tale da consentire di configurare una responsabilità colposa per fatto omissivo per mancata e inadeguata organizzazione della casa di cura privata, qualora il reato non sia ascrivibile esclusivamente al medico e/o ad altri operatori della struttura (fattispecie in materia di omicidio colposo per la morte di una paziente a seguito di parto avvenuta in un casa di cura, per la quale, in sede di merito, erano stati condannati non solo il medico e l’anestesista, ma anche il direttore sanitario della clinica privata; la Corte, pur annullando il reato per prescrizione, ha ritenuto che ai fini civili correttamente era stata ravvisata la colpa anche del direttore sanitario, per la sua accertata responsabilità per le carenze strutturali della casa di cura, in particolare in conseguenza dell’omessa predisposizione di un adeguato meccanismo interno alla struttura di verifica delle condizioni dei pazienti all’ingresso e dell’omessa predisposizione di un protocollo per le situazioni di emergenza). In termini, sia pure in tema di responsabilità di direttore sanitario di una struttura pubblica, sezione IV, 8 novembre 2013, Stuppia e altri, dove si è affermato che al direttore sanitario della Asl, quale ausiliario del direttore generale, spettano poteri e doveri di vigilanza e organizzazione tecnico-sanitaria, ivi compresi quelli relativi alla tutela dei lavoratori che svolgono la propria prestazione nei luoghi della struttura aziendale, potendosi escludere la sua responsabilità solo nel caso in cui il direttore generale eserciti direttamente compiti di gestione, adottando i relativi atti amministrativi, così da ingerirsi nell’attività propria del direttore sanitario (nella fattispecie è stata esclusa la responsabilità del direttore sanitario per la ristrutturazione di una sala operatoria avvenuta senza il rispetto della normativa di settore - così contribuendo a determinare il decesso di un paziente - in ragione della diretta gestione dell’adeguamento della suddetta struttura sanitaria da parte del direttore generale). Ancora più pertinentemente, cfr. sezione III, 3 febbraio 2015, Minniti e altri, dove si è precisato che, in tema di responsabilità per la morte di una paziente ricoverata in una struttura sanitaria, correttamente l’addebito viene ascritto, oltre che al medico che abbia prestato le cure alla paziente in modo imperito, anche all’amministratore e al direttore sanitario della casa di cura, allorquando risulti, da parte di questi, la mancata predisposizione di un adeguato servizio di pronto soccorso per il trasferimento dei malati verso strutture ospedaliere maggiormente attrezzate e venga dimostrato che tale carenza organizzativa abbia concorso alla verificazione della morte della paziente. Proprio in ragione del rilievo eziologico rispetto all’evento lesivo per il paziente della colpa per organizzazione e delle carenze strutturali, sezione IV, 7 ottobre 2014, parte civile Biondi in proc. Paganelli e altro, ha ritenuto correttamente motivata l’assoluzione nei confronti del sanitario che, chiamato a prestare le proprie cure nei confronti di un paziente, dia immediatamente luogo agli interventi occorrenti, i quali risultino non tempestivamente attuati per carenze organizzative della struttura sanitaria, al medico non imputabili, tali da avere determinato ritardi nell’effettuazione dei disposti riscontri diagnostici e dei conseguenti interventi terapeutici (nella specie, l’imputato, quale medico di turno di un pronto soccorso ortopedico, dopo avere correttamente curato il paziente per le lesioni di sua competenza, non disponendo di elementi certi per formulare la diagnosi in ordine a un trauma addominale, secondo i protocolli interni aveva subito avviato il paziente al pronto soccorso generale, ove dovevano essere eseguiti gli esami diagnostici: non gli potevano essere addebitati i successivi ritardi e disguidi, ricondotti alle carenze organizzative del nosocomio, a cominciare dal ritardo del trasferimento dovuto all’indisponibilità dell’autolettiga). Determinazione del trattamento sanzionatorio del reato continuato Il Sole 24 Ore, 21 ottobre 2019 Pena - Reato continuato - Determinazione della pena - Reato più grave - Pena detentiva - Reato satellite - Pena pecuniaria - Aumento della pena detentiva - Ragguaglio ex art. 135 cod. pen. In tema di reato continuato, se il reato più grave è punito con la pena detentiva e il reato satellite soltanto con pena pecuniaria, l’aumento di pena per quest’ultimo, da effettuarsi sulla pena detentiva, va ragguagliato a pena pecuniaria in applicazione dell’art. 135 cod. pen. Vi è un doppio limite all’aumento della pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave previsto nell’art. 81 cod. pen.: il limite interno prevede il rispetto del triplo della pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave; il limite esterno è quello di cui al terzo comma, per il quale la pena non può essere superiore a quella che sarebbe applicabile a norma degli articoli precedenti, e cioè al cumulo materiale. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 1° ottobre 2019 n. 40068. Reato - Reato continuato - Pena - Criteri di determinazione - Aumento della pena prevista per la violazione più grave - Pene eterogenee previste per i reati “satellite” - Criteri di determinazione. In tema di concorso di reati puniti con sanzioni eterogenee sia nel genere che nella specie per i quali sia riconosciuto il vincolo della continuazione, l’aumento di pena per il reato “satellite” va effettuato secondo il criterio della pena unica progressiva per “moltiplicazione”, rispettando tuttavia, per il principio di legalità della pena e del favor rei, il genere della pena prevista per il reato “satellite”, nel senso che l’aumento della pena detentiva del reato più grave dovrà essere ragguagliato a pena pecuniaria ai sensi dell’art. 135 cod. pen. • Corte di cassazione, sezione Unite, sentenza 24 settembre 2018 n. 40983. Determinazione della pena - Reato continuato per unicità del disegno criminoso - Configurabilità della continuazione in presenza di reati appartenenti a categorie diverse e puniti con pene eterogenee - Criterio della pena unitaria progressiva per moltiplicazione - Principio di legalità della pena e favor rei - Ragguaglio a pena pecuniaria ex art. 135 c.p. L’applicazione della continuazione ai sensi dell’art. 81, comma 2, c.p., in base al quale colui che commette anche in tempi diversi più violazioni della stessa o di diverse disposizioni di legge in esecuzione di un medesimo disegno criminoso è punito con la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave aumentata sino al triplo, non è impedita dal fatto che i reati commessi appartengano a categorie diverse e siano puniti con pene eterogenee. In tale ultimo caso, ovvero qualora il trattamento sanzionatorio originariamente previsto per il reato principale e per i reati satelliti sia disomogeneo comprendendo sia pene detentive che pecuniarie, l’aumento sino al triplo della sanzione prevista per la violazione più grave deve essere effettuato seguendo il criterio della pena unitaria progressiva per moltiplicazione. Tuttavia, dovendosi rispettare il principio di legalità della pena e quello del “favor rei”, l’aumento della pena detentiva prevista per il reato più grave deve poi essere ragguagliato a pena pecuniaria ex art. 135 c.p. In tal modo si evita di commutare il genere della pena prevista per i reati satelliti, cosa che contrasterebbe con la “ratio” dell’art. 81, comma 2, consistente nella volontà di riservare un più favorevole trattamento sanzionatorio in presenza di un unico disegno criminoso - evento ritenuto dal legislatore di minore pericolosità - rispetto al caso di plurime progettazioni. • Corte di cassazione, sezione Unite, sentenza 24 settembre 2018 n. 40983. Reato - Reato continuato - Pena - Determinazione - Reati punti con pene di genere e specie diversi - Criteri - Indicazione - Fattispecie - Reato satellite di competenza del giudice di pace. Ai fini del trattamento sanzionatorio del reato continuato occorre applicare una sola pena, dello stesso genere e della stessa specie di quella del reato più grave, anche quando l’aumento apportato ai sensi dell’art. 81, comma secondo, cod. pen. abbia ad oggetto reati satellite appartenenti a diverse categorie e puniti con pene eterogenee o di specie diversa. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto legittimo l’aumento a titolo di continuazione con la pena della reclusione per un reato satellite di competenza del giudice di pace). • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 26 maggio 2017 n. 26450. Esecuzione - Giudice dell’esecuzione - Concorso formale e reato continuato - Determinazione della pena - Possibilità di rettificare in aumento le pene inflitte dal giudice della cognizione per i reati satelliti già giudicati - Esclusione. Il giudice dell’esecuzione, nel procedere alla rideterminazione del trattamento sanzionatorio per effetto dell’applicazione della disciplina del reato continuato, non può quantificare gli aumenti di pena per i reati-satellite in misura superiore a quelli fissati dal giudice della cognizione con la sentenza irrevocabile di condanna. • Corte di cassazione, sezione Unite, sentenza 10 febbraio 2017 n. 6296. Viterbo. “Che succede nel carcere di Mammagialla?” di Stefania Moretti tusciaweb.eu, 21 ottobre 2019 Alessandro Capriccioli, consigliere regionale, poteva usare mille modi per parlare del carcere di Viterbo. Lo ha fatto con un podcast: un file audio a puntate sulle sue quattro visite a Mammagialla. “Un racconto a voce per chi non ha voce”, dichiara con la convinzione di chi ha nel cuore i diritti anche di chi sta scontando una pena. Dna radicale: nel 2018 è stato eletto alla Pisana nella lista di +Europa. Per ora due contributi sulla piattaforma Spreaker dal titolo “Che succede nel carcere di Viterbo?”. Ma saranno di più: Capriccioli vuole pubblicare una puntata a settimana, ogni martedì. “Viterbo è un inizio - spiega. Non escludo di potermi concentrare anche su altri penitenziari. Tra i compiti del mio mandato di consigliere rientrano le visite periodiche nelle carceri del Lazio. La legge mi consente di entrare in questi luoghi per vederli e anche raccontarli: la gente non sa cosa succede qui dentro. E su certi episodi avvenuti a Mammagialla si deve accendere un faro”. Capriccioli è partito dai casi di Andrea Di Nino e Hassan Sharaf, 36 e 21 anni. Entrambi detenuti a Mammagialla. Entrambi morti per impiccagione l’anno scorso, a due mesi di distanza l’uno dall’altro: Di Nino a maggio, Sharaf a luglio. A livello nazionale è un’ecatombe: “67 suicidi nelle carceri italiane nel 2018 - riepiloga il consigliere nel podcast. 52 nel 2017. 45 nel 2016 e via a ritroso”. Una cinquantina ogni dodici mesi, 1.053 dal 2000 a oggi. “Numeri spaventosi se si aggiungono le morti per altre cause, come l’overdose o i decessi per motivi non chiari - continua la prima puntata del podcast. Si arriva a 2.884 morti negli ultimi 19 anni, 152 l’anno. Rispetto alle persone libere la frequenza dei suicidi di detenuti è 19 volte superiore. In genere si verificano nelle strutture dalle condizioni di vita peggiori”. A Mammagialla Capriccioli entra da consigliere regionale per la prima volta il 18 ottobre 2018. “Impressione complessivamente negativa - dice. I disagi sono tanti, anche a livello strutturale. Ho visto sale hobby dove c’erano solo sedie. Almeno un paio di detenuti che dovevano stare nella Sezione Nuovi Giunti erano in isolamento perché il loro reparto ospitava persone con problemi psichiatrici”. La seconda puntata racconta il colloquio con il direttore Pierpaolo D’Andria. “A Viterbo si svolge come al solito - spiega nel podcast - con la differenza che è più lungo della norma e viene sollevata una questione particolare. “Mammagialla è considerato un carcere punitivo”, il direttore lo dice lamentandosene, per questo affluiscono a Viterbo detenuti problematici, che arrivano con i cosiddetti “trasferimenti per ordine e sicurezza”. Perché? La domanda rimane appesa ma a me resta in testa”. È di pochi giorni fa l’aggressione denunciata da un’infermiera e raccontata da Tusciaweb: un detenuto l’avrebbe sbattuta a terra e ferita, dopo essere uscito chissà come dalla cella in piena notte. “Io ho percepito un’atmosfera di tensione - afferma Capriccioli. Molti detenuti mi hanno detto di avere paura. Mi hanno parlato di percosse e metodi non ortodossi della polizia penitenziaria: “qua menano ed è meglio non ribellarsi”, dicono. Parlano di gente presa da parte, portata in posti dove non ci sono telecamere e picchiata. In questa legislatura non mi è mai successo di raccogliere testimonianze di questo tipo in altre carceri del Lazio. Non dico che siano vere: la presunzione di innocenza esiste per tutti. Dico che bisogna approfondire”. Il clima a Mammagialla, sottolinea Capriccioli, è pesante anche per chi ci lavora. “La nomea di ‘carcere punitivo’ si ripercuote inevitabilmente anche sul personale, che ha ovvie difficoltà a gestire detenuti problematici, specie quando sono tanti. Sono due narrazioni compatibili e in linea con il clima di tensione di cui sopra. Ovviamente io raccolgo i racconti di una parte e dell’altra. Poi vanno verificati e per questo c’è la procura. Penso però che si debbano ascoltare sempre tutti. Detenuti compresi. Tenendo conto che hanno una particolarità - conclude: le loro voci sono rinchiuse in un carcere. E fanno più fatica a uscire”. Bari. Detenuti migliori con il miracolo della scrittura di Annadelia Turi Gazzetta del Mezzogiorno, 21 ottobre 2019 Tra il 2015 e il 2016 nel carcere di Bari si è registrata un’incidenza di disturbi mentali pari ad un quanto della popolazione: su 400 detenuti 100 erano seguiti dal Servizio di Salute Mentale. Un numero elevato che riguardava generalmente soggetti affetti da disturbi della personalità. Ad esaminare il dato è stata l’università di Bari che ha deciso di dare il via ad un progetto sperimentale in carcere che ha interessato tre istituti di pena. “Mens Sana” è il nome dell’iniziativa, acronimo di Metodo narrativo sperimentale di scrittura autobiografica, nosologia e analisi. Obiettivi, basata sul paradigma del professor J.W. Pennebaker: utilizzare il metodo della scrittura espressiva dei detenuti per promuovere la resilienza, testare il grado di disagio, ridurre il rischio di suicidi e migliorare la sicurezza sociale. Il progetto è partito dal carcere minorile “Fornelli” di Bari e successivamente ha coinvolto alcuni istituti penitenziari per adulti maschili e femminili della regione. A raccontare l’esperienza vissuta con i detenuti nel ruolo di ricercatrice, Lidia De Leonardis, dirigente penitenziario del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, già direttore del carcere di Bari che ha collaborato con la professoressa Antonella Curcio, professore di psicologia dell’Università. “Nel corso del lavoro svolto in carcere sono arrivata alla conclusione che dovremmo cambiare alcune modalità di trattamento, soprattutto di tipo tradizionale e trovare soluzione che siano molto più specialistiche - spiega l’esperta - questo sia per gli aspetti riabilitativi, per chi ha problemi fisici, sia per chi presenta deficit di tipo psichiatrico e psicologico. Altri obiettivi riguardano in prospettiva i trattamenti di sostegno psicologico che possono essere realizzati in carcere, utili anche per un monitoraggio più attento ai rischi suicidari e degli atti etero-aggressivi”. Il campione pugliese preso in esame ha riguardato 104 detenuti di alta sicurezza, sex offender, giovani adulti, uomini e donne che sono stati condannati per reati diversi anche particolarmente gravi quali omicidio, violenza sessuale e reati di stampo mafioso. “Il sovraffollamento delle carceri - spiega la psicologa - la privazione della famiglia e il clima emotivo spesso caratterizzato da paura e sfiducia reciproca sono tra i fattori che possono aggravare il disagio durante la reclusione. Nell’ambito di questo progetto - prosegue - i detenuti sono stati lasciati liberi di raccontare qualsiasi esperienza di vita, non necessariamente traumatica, al fine di accertare gli effetti benefici di scrittura in un contesto in cui le relazioni sociali sono ovviamente ridotte e problematiche. I risultati hanno dimostrato che la narrazione - conclude la professoressa - ha avuto un effetto consistente sugli indici di benessere dei detenuti indipendentemente dalla valenza emotiva delle esperienze riportate. In altre parole è la scrittura di per sé che ha portato ad un significativo miglioramento nei livelli di salute mentale, ansia, depressione e affettività negativa. Gli effetti sulle misure di benessere sono risultati indipendenti dal tipo di reato commesso e dal circuito penitenziario”. Enna. Si conclude il progetto “Educazione alla legalità e benessere psicofisico” ennalive.it, 21 ottobre 2019 Si terrà il prossimo 24 Ottobre presso la Casa Circondariale di Enna Luigi Bodenza l’evento finale del progetto “Educazione alla Legalità e Benessere Psicofisico”, promosso dall’associazione regionale di Volontariato Ong Luciano Lama presieduta dal siracusano Mimmo Bellinvia come capofila, in partenariato con l’Associazione Culturale Innova Civitas, il Movimento Difesa del Cittadino, l’Avis Comunale di Enna e sostenuto finanziariamente con i fondi dell’8×1000 della Chiesa Valdese. Tutte le attività sono state svolte all’interno della casa circondariale di Enna, coinvolgendo 20 detenuti in 4 laboratori (erbe aromatiche e dell’orto, benessere psicofisico, artigianato e pittura, lettura guidata). Le attività svolte con i laboratori hanno avuto come obiettivo quello di interessare i diversi ambiti della vita dell’uomo coinvolgendo, nelle diverse iniziative, i detenuti. Il Dott. Agronomo Fausto Russo, per l’OnG Luciano Lama, ha curato il “Laboratorio Profumi Delle Erbe Aromatiche e dell’Orto”. Il Tutor Massimiliano Palillo, per Avis comunale di Enna, ha curato il “Laboratorio di Benessere Psicofisico” per promuovere salute e benessere grazie ai benefici dell’attività fisica. Il “Laboratorio di Lettura Guidata” seguito dalla Dott.ssa Valentina Gargano e dalla Dott.ssa Filippa Tirrito, per il Movimento Difesa del Cittadino, ha voluto offrire una via per evadere la quotidianità. Il “Laboratorio di Artigianato Pittura e Creatività” tenuto dalla Dott.ssa Patrizia Adamo e dalla Dott.ssa Valeria Fazzi, per l’Associazione Culturale Innova Civitas, è stato rinominato “Arteriando”. L’Ong Luciano Lama, ente capofila del progetto, ringrazia pubblicamente tutti i partner che hanno collaborato al progetto e la Casa Circondariale per aver permesso la realizzazione delle attività. Castellammare di Stabia (Na). Presentato il libro “Visitammo i carcerati” di Giovanni Mura vivicentro.it, 21 ottobre 2019 Grande interesse dei tanti cittadini intervenuti alla presentazione del libro scritto a due mani dalla sociologa Ansalone e dalla psicologa Varrella. Numerosi i cittadini che sono intervenuti alla presentazione del libro scritto da due professioniste e volontarie, l’assistente sociale Anna Ansalone e la psicologa Rosaria Varella, dal titolo “Visitammo i carcerati” (Neomediaitalia Edizioni). Un sottotitolo all’interno del quale è contenuto parte del filo conduttore del lavoro di Ansalone e Varrella: “Come cambia la vita di chi svolge volontariato in carcere. Le esperienze sociali e psicologiche”. A moderare i lavori, la presidente dell’Associazione Achille Basile Carmen Matarazzo che introducendo l’argomento ha evidenziato come sono state trattate con delicatezza le pesanti problematiche legate alle case circondariali e ai problemi dei e delle detenute. Ben rese comprensibili anche una serie d’informazioni non note ai più, ha ancora detto la Matarazzo, le nuove procedure e i diritti degli stessi detenuti, oltre che l’importanza del ruolo del sociologo e dello psicologo all’interno di dette strutture. A sottolineare l’importante del volontariato negli istituti penitenziari anche Concetta Felaco direttrice dell’Icatt (Istituto Custodia Attenuata Tossicodipendenti) di Eboli, che nel suo intervento ha da subito sottolineato l’importanza del volontariato che si svolge negli istituti penitenziari. “Strutture precarie con tante problematiche, con disagi e difficoltà che attestano come il carcere nei fatti è la proiezione di quella che è la società”. Soggetti che provengono prevalentemente, ha ancora affermato, da ambienti degradati, da determinate aree sociali e dunque il loro percorso di recupero e reintroduzione nella società implica necessariamente il coinvolgimento della società esterna. Efficace e importante, in queste strutture complesse, l’azione del volontariato per offrire a questi soggetti strumenti per provare a ricostruire il loro percorso di vita, con la consapevolezza, ha ancora aggiunto la direttrice Felaco, che “esso svolge anche un ruolo di facilitatore rispetto alla burocrazia esistente”. La direttrice ha concluso il suo articolato e complesso intervento sostenendo alcuni concetti non proprio comuni, che il carcere deve intervenire solo quando non c’è nessun’altra forma di pena e che la stessa deve essere eseguita con modalità diverse. Non una pena in termini rigidi ma all’interno di un percorso di responsabilizzazione e rieducazione. “Oggi è il battesimo di questa pubblicazione - ha esordito intervenendo l’editore Francesco de Rosa - un libro che può e deve essere portato in giro e promosso in tutta Italia, che racconta il vero. Ho creduto nel lavoro che le due autrici mi hanno proposto, due persone che credono in quello che fanno”. L’editore è poi entrato nel merito del libro, che ha comunque il pregio di evidenziare le competenze, mettendo in risalto alcuni dei temi in esso trattati, l’importanza del volontariato finalizzato anche al recupero delle persone “perché in carcere possono crearsi situazioni ancora più gravi”. Per dar forze a questo concetto ha proposto alcune righe di un concetto riportato nel libro “La resilienza (la capacità di far fronte in maniera positiva agli eventi traumatici), proprio come una sorte di protezione, aiuta ad affrontare le difficoltà nel corso della vita del detenuto, lo aiuta a riparare gli schiaffi inferti dalla sorte, anche quelli più bassi e infidi”. È toccato poi alle due autrici che inizialmente hanno ringraziato l’editore, gli ospiti e i tanti cittadini intervenuti che con dimostrata attenzione e interesse hanno ascoltato quanto sino a quel momento detto di un argomento non sempre ben conosciuto, difficile nelle sue dinamiche e nei suoi aspetti e il lavoro di volontariato che è svolto in strutture difficili e particolari come gli istituti penitenziari. L’assistente sociale Anna Ansalone ha parlato del problema del superaffollamento e le condizioni difficili degli interventi del volontariato per far emergere in questi soggetti l’umanità soprattutto nella bella esperienza del lavoro di gruppo che si fa. “La mia professione - ha anche affermato la Ansalone - è di aiuto, è di un vero e proprio segretariato sociale all’interno del carcere”. Affermare i diritti dei ristretti, ha aggiunto, e tra questi quello dell’affettività e “mi piacerebbe che si lavorasse più sulla persona senza mettere in discussione il controllo”. “L’argomento che affronta il libro - ha affermato la psicologa Rosaria Varrella - non è molto accettato dalla società, anche se tanta gente vuole conoscere quanto accade nei carceri”. La Varrella ha evidenziato il concetto delle emozioni dei detenuti, e non solo, la loro gestione e la necessità di entrare in contatto con loro possibile solo se si considerano persone e basta, senza analizzare il loro passato e le motivazioni che l’hanno portati alla limitazione della loro libertà. “Indispensabile è intervenire subito sui detenuti per recuperare il loro percorso. Lasciarli soli vuol dire rafforzare il negativo concetto di vita che hanno”. Il libro, ha concluso la Varrella, si pone anche l’obiettivo di stimolare il concetto per far qualcosa per gli altri, all’interno del lavoro di rete per cambiare i detenuti e le detenute. La serata è terminata con attestazioni di complimenti per il lavoro svolto e la richiesta, alle due autrici, di dedica e firma sui libri. “Le scarpe dei matti”, di Antonio Esposito. Alla Lega di Salvini piace il manicomio recensione di Daniele Sanzone Il Fatto Quotidiano, 21 ottobre 2019 Ci sono immagini talmente potenti che ti entrano dentro per non uscirne più, come il cumulo di scarpe abbandonate, spaiate, senza lacci, rosicate dai topi, che hanno indossato le donne, gli uomini e i bambini che sono stati rinchiusi nel “Santa Maria Maddalena”, il primo e più grande manicomio del Sud. Un’immagine che ha spinto il ricercatore, Antonio Esposito, a scrivere “Le scarpe dei matti” (Ad est dell’equatore), interessante e corposo libro che ripercorre la storia della psichiatria e della follia in Italia, ovvero le “Pratiche discorsive, normative e dispositivi psichiatrici in Italia (1904-2019)” come precisa il sottotitolo del libro. Un lavoro che nasce dalla ricerca, promossa dall’Istituto di Studi Politici “S. Pio V”, sui 40 anni della legge Basaglia. Un libro che coinvolge con la forza della narrativa senza rinunciare al rigore scientifico. Si parte dalle previsioni di internamento dei “pericolosi e di pubblico scandalo” contenute nella legge del 1904 al superamento dei manicomi determinato dalla 180 del 1978, passando attraverso le esperienze di psichiatria critica e l’utopia della realtà basagliana, fino all’attuale organizzazione dei servizi psichiatrici territoriali. Esposito approfondisce la spinosa questione del Tso (Trattamento Sanitario Obbligatorio) e pone domande sulla persistenza di pratiche come l’elettroshock e la contenzione; o sul superamento degli Opg (Ospedali Psichiatrici Giudiziari) e le Rems (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza). Per l’autore, lo smantellamento progressivo del welfare ripropone, anche nel discorso pubblico, il fascino del manicomio. “Basti pensare - spiega l’autore - che la senatrice leghista Raffaella Marin ha presentato un disegno legge che punta a creare nuove strutture con più di 30 posti letto per Tso protratti. In pratica nuovi manicomi”. Per Salvini, del resto, è in atto una “esplosione di aggressioni” da parte di “pazienti psichiatrici”. Durissima la reazione su Facebook della Società italiana di psichiatria: “Una notizia senza fondamento, il 95% dei reati violenti commessi nel nostro Paese è attribuibile a persone cosiddette `normali’. E più probabile che una persona che soffre un disturbo mentale sia vittima, non carnefice”. L’autore mette in guardia sui rischi del taglio dei servizi, del personale, dei luoghi pubblici di cura. Il risultato è il silenziamento farmacologico dei sintomi, un’assistenza quotidiana a carico solo dei familiari. Se è importante denunciare la scarsità di fondi per la salute mentale, soprattutto al Sud, per Esposito è necessario indagare anche come si utilizzano le risorse. “Bisogna ritornare - conclude l’autore - alla dimensione pienamente politica della salute mentale. La chiusura dei manicomi è stata una vera e propria rivoluzione, una delle più importanti riforme operate in questo Paese. Ma è ancora lungo il cammino che le scarpe dei matti devono fare per realizzare il pieno riconoscimento dei diritti di cura e cittadinanza del sofferente psichico”. Giudici che decidono sul fine vita di Alessandro Barbano e Vittorio Manes Il Foglio, 21 ottobre 2019 La legge e quello “spazio libero da diritto”. L’autodeterminazione del malato, l’accanimento terapeutico, la dignità di morire. Un dialogo dopo la sentenza della Corte costituzionale che ha aperto al suicidio assistito. Caro Vittorio, commentando la sentenza della Consulta sul fine vita hai detto che “non sancisce il diritto di morire, né una indiscriminata libertà al suicidio. Ma piuttosto la libertà, da parte di malati con caratteristiche specifiche, di farsi assistere per congedarsi di mano propria”. Non dubito che sia così. La Corte non cancella la fattispecie dell’aiuto al suicidio, prevista dall’articolo 580 del codice penale, ma individua un’area di non punibilità circoscrivendola con quattro condizioni specifiche: che ci sia un malato affetto da una patologia irreversibile; che sopporti sofferenze fisiche o psichiche da lui ritenute intollerabili; che sia pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli; e da ultimo che la sua vita dipenda da trattamenti di sostegno vitale. Di più, la scriminante è subordinata dai giudici costituzionali al rispetto della normativa sul consenso informato, sulle cure palliative e sulla sedazione profonda, e alla verifica sia delle condizioni richieste che delle modalità di esecuzione da parte di una struttura pubblica del Sistema sanitario nazionale, sentito il parere del comitato etico territorialmente competente. Tutte queste circostanze, che la Corte pone come i presupposti e i confini di un’auspicata iniziativa legislativa del Parlamento, mi paiono più che sufficienti per configurare l’aiuto al suicidio come l’esercizio delegato non di un diritto ma piuttosto di un rimedio. E tuttavia, con riferimento al rimedio, mi chiedo e ti chiedo se le norme esistenti non siano già sufficienti a garantirlo. Grazie alla legge sul consenso informato e sulle disposizioni anticipate di trattamento, chiunque oggi può rinunciare alle terapie vitali, tra le quali sono espressamente incluse anche l’alimentazione e l’idratazione artificiali e, in presenza di una prognosi infausta a breve termine e di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari, può richiedere la sedazione profonda continuata, uno stato simile all’anestesia o al coma farmacologico, che lo accompagni alla morte senza dolore e senza coscienza. Una nuova normativa, che si ispirasse ai criteri enunciati dalla Consulta, non potrebbe che circoscrivere la libertà di cura entro limiti non dissimili da quelli rispettati nella precedente disciplina. Con riferimento alla gravità delle condizioni di salute, il requisito della “prognosi infausta a breve termine”, prescritto dalla norma che regola la sedazione profonda, è nozione più ristretta rispetto a quello della “malattia irreversibile”, indicato dalla Consulta come necessario per giustificare l’aiuto al suicidio. In un caso e nell’altro deve intendersi una patologia che non ammette il ritorno a stadi precedenti e che ha varcato una soglia, da verificare caso per caso, oltre la quale le cure si rivelino inutili quando non potenzialmente dannose. Tuttavia, la “prognosi infausta a breve termine” implica una progressione, propria di molte malattie neoplastiche e degenerative, che non si riscontra necessariamente nel concetto di “irreversibilità”, capace di ricomprendere anche stati traumatici gravissimi e non reversibili, ma stabili. Ma a restringere l’autodeterminazione del malato nel richiedere assistenza al suicidio è il diverso modo con cui i cosiddetti “trattamenti di sostegno vitale” sono intesi dalla legge sul consenso informato e dalla sentenza della Consulta. Nel primo caso rappresentano una prestazione medica che il paziente ha il diritto di rifiutare, nel secondo un presupposto per giustificare la scriminante penale. Nel suo comunicato la Corte dice espressamente che, affinché l’aiuto al suicidio non sia punibile, occorre che il paziente sia tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale. Ma se basta interrompere questi trattamenti per provocare la morte, che bisogno c’è di produrla in maniera attiva? La cessazione del sostegno vitale coincide con una rinuncia all’accanimento terapeutico che, prima ancora che a un vincolo legale, risponde a un principio di rispetto per la dignità della vita. La maggior parte dei malati in stadio irreversibile oggi sono accompagnati alla morte dalla sedazione profonda, in accordo compassionevole con i medici chi li hanno in cura, in un tempo che non supera le 48/72 ore dalla somministrazione dei farmaci sedativi. Non è questa prassi, forgiata dall’evoluzione della scienza medica e farmacologica e dall’esperienza del dolore, la via più umana e più ragionevole al tragico mistero del fine vita? Caro Alessandro, condivido, anzitutto, la premessa da cui muovi, che è bene ribadire con forza anche perché le “questioni ad altissima sensibilità etico-sociale” - come le definisce la Corte - sono spesso preda di letture semplificanti, e non di rado banalizzate a colpi di slogan: la Corte non ha riconosciuto alcuna indiscriminata libertà di suicidio, né alcun lugubre diritto - illimitato e arbitrario - di morire. Ha affrontato, piuttosto, il tema - distinto e distante - della possibilità da parte del malato di chiedere un “aiuto nel morire di mano propria”, in situazioni del tutto peculiari di malattia irreversibile accompagnata da gravi sofferenze, dove l’esistenza è protratta grazie a sostegni vitali, contrassegnate - e, direi, “inchiodate” - agli ulteriori contrassegni di specificità espressamente indicati nel “comunicato”, che peraltro solo le motivazioni della pronuncia potranno ulteriormente chiarire. Peraltro, la questione di costituzionalità che è stata prospettata riguardava un aspetto ancora diverso e più circoscritto, che in parte è rimasto sullo sfondo, ma che in realtà è il vero punctum crucis, specie nella prospettiva cara a chi ha a cuore un modello di diritto penale liberale: se sia legittimo sottoporre a pena il comportamento di chi accoglie questa richiesta di aiuto, per passione civile o per compassione umana, e se sia legittimo sottoporre tale condotta ad una pena draconiana - la reclusione da cinque a dodici anni, ossia la stessa pena prevista per chi istiga altri al suicidio - nel quadro di una incriminazione, l’art. 580 c.p., che peraltro la stessa Corte ha pienamente confermato nella sua legittimità per tutti i casi “ordinari” e diversi dalle peculiari ipotesi simili a quella di Fabiano Antoniani, ritenendolo in generale - e nei casi ordinari, appunto - un importante presidio a tutela dei soggetti deboli e/o vulnerabili. Ciò premesso, e venendo alla tua domanda, ad essa rispondo con altri interrogativi che muovono dalla tua stessa constatazione: se è vero che l’ordinamento giuridico consente già - nelle ipotesi contrassegnate dalla “tetralogia” di criteri indicati dalla Corte - di rinunciare alle terapie di sostegno vitale, nelle quali vanno ricomprese anche - per espressa previsione già della l. n. 219 del 2017 - idratazione e alimentazione artificiale, consentendo altresì di aderire a un protocollo di sedazione palliativa profonda, perché costringere un individuo a morire secondo un certo iter, obbligato e imposto dalla legge come unica strada per congedarsi da una vita che non ritiene più compatibile con il proprio concetto di dignità? Perché imporre a chi vive il dramma di una malattia e di una sofferenza dolorosissima un itinerario di morte coatto, con un ricatto che mette a repentaglio l’habeas corpus e l’intangibilità della propria sfera fisica, costringendolo ad accettare una modalità di congedo dalla vita che spesso il malato rifiuta radicalmente? In molti casi il malato terminale considera l’agonia della morte per interruzione dei sostegni vitali e l’eclissi di coscienza della sedazione palliativa profonda incompatibili con il proprio concetto di dignità. E soprattutto rifiuta l’idea di sottoporre i propri cari allo spettacolo straziante di questa agonia: visto che - come insegnano i filosofi - “si vive con gli altri ma si muore agli altri”, è giusto privare il malato di questa ultima, drammatica scelta, in un momento in cui resta davvero poco da scegliere, e negargli anche questo estremo, intimo frammento di libertà? Di fronte a questi interrogativi la Corte, già nell’ordinanza dello scorso anno (n. 207 del 2018) aveva dato alcune risposte, ribadite nella recente decisione: bisogna riconoscere al malato la libertà di poter scegliere una “alternativa reputata maggiormente dignitosa”, perché in questi casi la sua aspirazione a congedarsi dalla vita non ha nulla a che vedere con una folle pulsione di morte, né con un assurda volontà di autoannientamento, ma è semplice pretesa di rispetto della dignità del morire, che non è meno importante della dignità di vivere. In queste situazioni, dunque, l’ordinamento giuridico deve fare un passo indietro, e riconoscere uno “spazio libero da diritto”; e anche il diritto penale deve rinunciare a minacciare una sanzione che rischierebbe solo di isolare il dramma individuale nella prigionia di una ulteriore, assurda solitudine sociale. Questa ritrazione dell’intervento punitivo risponde - del resto - al ruolo che dovrebbe avere un diritto penale laico e secolarizzato, che appunto - in linea con la lezione di Beccaria e dell’illuminismo giuridico - non vuole farsi “braccio secolare” di un determinato convincimento etico o religioso, e rifugge forme di paternalismo esasperato, pur senza dover abbracciare modelli di smodato liberalismo giuridico. Caro Vittorio, viviamo tempi in cui la giustizia assume una postura che tu stesso hai definito “no limits”, e che neanche il giustizialismo basta a spiegare. Il suo debordare in ogni spazio del vivere civile non risponde più a un disegno ideologico di bonifica sociale, né a un conflitto istituzionale giustificabile con le ragioni di una supplenza del giudiziario sul politico. Ma è piuttosto espressione di un potere fuori controllo, che si riproduce per autopoiesi in forme sempre più indifferenziate, cedendo alla tentazione di diventare il vero decisivo creatore di diritto in democrazia. Per tutte queste ragioni non posso che rallegrarmi se un volta tanto il penale arretra, in nome di un ritrovato liberalismo civile. E tuttavia mi chiedo che cosa sia da intendersi per “spazio libero da diritto”, da te e anche da me auspicato, e che valore assuma in questo spazio la protezione della vita. A me pare che se il primo è il porto franco di una democrazia neutrale, la seconda è esposta agli incerti delle maggioranze di turno. Converrai invece che la laicità ha alcune coordinate etiche che sono venute definendosi nella storia degli Stati liberali in relazione, talvolta consonante talaltra contrappositiva, con i fondamenti religiosi. Tali coordinate, come la difesa della vita e della dignità della persona, il rispetto della libertà individuale, lo spirito di solidarietà sociale, sono definibili come “relativi-assoluti”, cioè principi di evidenza laica, sottoponibili a una costante manutenzione, ma tuttavia dotati di una sostanza rigida forgiata dalla storia dell’umanità. Questi ultimi sono immuni all’avvicendarsi delle maggioranze, poiché la loro essenza non è meramente politica, ma culturale e antropologica. Diritto all’oblio online: lo spezzatino di storia è servito di Guido Scorza L’Espresso, 21 ottobre 2019 Lo scorso 24 settembre la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha stabilito che il diritto dell’Unione non prevede che quando Google disindicizza un contenuto in ragione del diritto all’oblio la disindicizzazione debba produrre effetti anche al di fuori dell’Unione ma ha lasciato intendere, con formula per la verità ambigua, che, il diritto dell’Unione non vieta neppure un simile scenario e che, pertanto, nei singoli Paesi membri, Giudici e Autorità, avrebbero potuto giungere a conclusioni diverse in applicazione delle proprie regole nazionali e di eventuali accordi internazionali. Lo scorso dieci ottobre è arrivata la prima risposta italiana ai Giudici di Lussemburgo. All’origine della vicenda la domanda di un cittadino italiano che ottenuta da Google, a seguito di un ordine dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali, la disindicizzazione di taluni contenuti limitatamente al territorio europeo ha, tra l’altro, chiesto al Giudice di ordinare a Google di procedere al c.d. global removal, la deindicizzazione globale, l’unica forma di disindicizzazione di un contenuto capace di garantire che un contenuto venga per davvero inghiottito nel buco nero dell’oblio e che il relativo link non venga restituito tra i risultati della ricerca neppure a chi si collega da un Paese extra europeo. Il Tribunale di Treviso, tuttavia, ha accolto le eccezioni sollevate da Google LLC e Google Italy rappresentate dagli avvocati Marco Berliri e Massimiliano Masnada e rigettato la richiesta dell’attore mettendo nero su bianco, per la prima volta in Italia, che considerata la conclusione cui è appena arrivata la Corte di Giustizia dell’Unione europea e in assenza di qualsiasi diversa disciplina nazionale o sovranazionale in materia, non vi sono presupposti per esigere da Google che la disindicizzazione cui esso è tenuto in base alla vigente disciplina in materia di privacy, sia globale. La strada, quindi, sembra segnata. Ai tempi di Internet e della società globalizzata, mentre siamo tutti sempre di più cittadini del mondo, la cronaca del passato prossimo, la storia moderna e contemporanea, sono condannate a un sempiterno spezzatino, con sapori e profumi diversi a seconda del luogo dal quale ci si collega al web. E il paradosso è che per accedere alla vera storia italiana senza elisioni, cancellazioni, omissioni e “censure”, domani, sarà necessario sconfinare in Svizzera o comunque spingersi appena al di là dei confini dell’Unione europea. Da li, come per incantesimo, la storia del nostro Paese tornerà a poter essere sfogliata come ci sarebbe apparsa anche navigando nel web italiano se i suoi protagonisti negativi non avessero chiesto e ottenuto di nasconderla sotto un tappetto digitale che, tuttavia, oggi si rivela troppo corto e incapace di avvolgere il mondo intero. Accade sempre così, quando si imbocca la strada sbagliata, quando si prova a piegare le tecnologie alle nostre abitudini, alla nostra cultura, al nostro modo di vivere e alla nostra incapacità di accettare la realtà risultato della trasformazione antropologica che stiamo vivendo, le tecnologie ci si ribellano e ci sbattono prepotentemente in faccia i risultati kafkiani che le nostre debolezze di uomini hanno prodotto. Il diritto all’oblio nella sua accezione moderna è uno di questi casi. Abbiamo provato a ordinare a Internet di dimenticare, abbiamo preteso di poter ordinare processi di amnesia tecnologica collettiva e lo abbiamo fatto perché abbiamo ritenuto che fosse il modo migliore per garantire a ciascuno di noi il diritto di voltare pagina e di vivere, agli occhi del mondo, una seconda vita, come se il suo passato non fosse mai esistito. Lo abbiamo fatto perché non abbiamo accettato l’idea - benché, specie in Italia Giudici e Autorità questa strada diversa l’avessero indicata - che il nostro diritto all’identità personale potesse più efficacemente essere garantito facendo in modo che Internet raccontasse tutto di noi, in maniera puntuale, esaustiva e aggiornata. Abbiamo scelto una scorciatoia, abbiamo scelto di provare a manipolare la storia, abbiamo imboccato la strada sbagliata. Ed ecco il risultato: chiunque provi a manipolare la storia della sua vita è destinato a vederla moltiplicare, da una parte quella che amerebbe fosse l’unica conosciuta dal mondo intero, dall’altra quella che ha provato a nascondere. Entrambe li, a portata di click, pronte a riaffiorare al momento giusto. Cambiamo rotta, facciamolo in fretta, perché nella società dell’informazione, le asimmetrie informative son più pericolose di qualche episodio del passato che rischi di far pensare a qualcuno che siamo stati una persona diversa da quella che oggi appariamo. Migranti. Alou e l’impresa di aprire un conto: “Impossibile con il decreto Salvini” di Federica Cravero La Repubblica, 21 ottobre 2019 L’epopea a Torino di un richiedente asilo: respinto da quattro filiali di banca. Voleva solo aprire un conto corrente Alou Bakayoko. Le banche, in teoria, dovrebbero essere solo contente di avere un nuovo cliente, ma non è così se allo sportello si presenta un giovane nato in Mali 27 anni fa, arrivato nel 2014 in Italia con un disperato viaggio attraverso il Mediterraneo, che ha un permesso di soggiorno come richiedente asilo. Quattro filiali lo hanno respinto e solo ieri, dopo settimane di peripezie, Alou è riuscito a ottenere finalmente un conto corrente e una carta di credito. Un traguardo raggiunto solo perché nel suo girovagare è riuscito a ritrovare la bancaria che cinque anni fa si era occupata della sua pratica quando Alou riceveva il pocket money dell’accoglienza: lei si è ricordata di lui, si è fatta in quattro e ha superato gli ostacoli della burocrazia. Ma per tanti altri un conto resta un miraggio. Non è sempre stato così complicato in realtà per un migrante mettere del denaro in banca e avere un bancomat o una carta di credito. Le cose si sono fatte difficili quando è stato emanato il decreto sicurezza, che impedisce ai richiedenti asilo di essere iscritti alle anagrafi e avere una carta d’identità, salvo sporadici Comuni dissidenti. In ogni caso - aveva promesso l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini - i migranti potranno sottoscrivere contratti di qualunque tipo presentando solo il permesso di soggiorno. Ma il caso di Alou dimostra che la realtà è molto diversa. Già mesi fa l’Asgi, l’associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, aveva evidenziato il problema all’Abi, l’associazione bancaria italiana. Quest’ultima aveva emanato una circolare per chiarire a tutti gli istituti di credito che il solo permesso di soggiorno e addirittura solo la ricevuta di presentazione della pratica, erano sufficienti per aprire un nuovo conto. “Ma io sono andato in quattro banche diverse e me l’hanno negato, in modi più o meno educati. Un impiegato mi ha chiesto non solo la carta d’identità ma anche tre buste paga. Un altro si è scusato e mi ha detto che avrebbe voluto aiutarmi ma il sistema informatico non è in grado di inserire il permesso di soggiorno tra i dati personali”, racconta il giovane, che sul conto vorrebbe accreditare lo stipendio del tirocinio che è riuscito a ottenere attraverso l’associazione Eco dalle città, dove è entrato nel gruppo degli Ecomori e si occupa della raccolta differenziata e del recupero di frutta e verdura invenduti a Porta Palazzo. “La cosa assurda è che io una volta avevo la carta di identità perché la legge era diversa. Avevo anche il conto in banca dove ricevevo i soldi dell’accoglienza - racconta il migrante - Poi però ho perso il portafoglio con tutti i documenti”. E proprio in quel frangente la legge è cambiata ed è arrivato il decreto sicurezza. “Non mi hanno più rifatto la carta d’identità e non sono più riuscito a riattivare il conto corrente”, spiega. Solo ieri è riuscito a ritrovare l’impiegata che lo seguiva allo sportello anni fa e che si era trasferita all’Intesa Sanpaolo di piazza Rebaudengo: si è presa a cuore la pratica ed è riuscita nell’impresa. “Segno che è possibile fare le cose, ma manca la volontà”, denuncia Paolo Hutter, fondatore degli Ecomori. Migranti. Scaini di Msf: “Curo i bimbi tra le bombe ma non sono un supereroe” di Riccardo Bruno Corriere della Sera, 21 ottobre 2019 Medico di base a Misano e impegnato con Medici senza Frontiere: “Tutti i pazienti hanno la stessa dignità”. “In Africa ho uno stetoscopio rosso, se lo afferrano so che sono guariti”. In ambulatorio non c’è. È uscito per fare una visita urgente a un’anziana malata di Alzheimer. Arriva dopo dieci minuti, con la classica borsa in pelle da medico condotto. “Me l’ha regalata mio padre dopo la laurea, 21 anni fa. Ci tengo molto, perché è lo strumento che ti permette di andare dalla gente”. Roberto Scaini è uno di quei dottori che ama muoversi. Sia quando è a Misano, medico di base a due passi dal lungomare, sia quando parte per Medici senza Frontiere. Ha iniziato nel 2011, ha già all’attivo 17 missioni. Dall’ultima, nello Yemen, è tornato a maggio. Era la quinta volta che ci andava, un veterano. “Era già un Paese poverissimo, dopo la guerra la situazione è precipitata. Curiamo feriti da arma da fuoco, ma anche bambini malnutriti, anziani, donne che rischiano la vita solo per partorire”. Lavoro e famiglia - Scaini ha fatto medicina perché sognava di andare in Africa. “Come molti miei colleghi, anche se poi spesso diventa difficile conciliare con lavoro e famiglia, devi stare fuori per periodi più o meno lunghi”. Otto anni fa si è presentata l’occasione, c’era bisogno in Etiopia, e lui non se l’è lasciata scappare. “Una volta che sei lì scatta qualcosa, io lo chiamo il punto di non ritorno. Ti rendi conto che puoi essere davvero utile. Quando una mamma piange, implora di salvargli l’ultimo figlio che le è rimasto, e tu puoi restituirglielo guarito, ecco, tutto questo ti ripaga di ogni sacrificio”. Le missioni di Scaini durano in genere non più di tre mesi. Per scelta personale (“Ho una figlia di 15 anni, credo che abbia il diritto di crescere con il padre vicino”), e di lavoro, per non abbandonare troppo il suo ambulatorio. “Anche se c’è sempre qualcuno che si lamenta, che dice che non ci sono mai, per me tutti i pazienti hanno la stessa dignità. Curare una polmonite in Congo o il colesterolo alto qui in Italia è lo stesso. Non mi sento un supereroe, ma semplicemente un medico. Quando mi chiedono perché lo fai? Io rispondo : e perché non lo dovrei fare?”. L’intervento nello Yemen - Un po’ di coraggio sicuramente ci vuole. Lo Yemen, per esempio, è diventato un posto complicato, le fazioni in lotta mutano continuamente, neppure gli ospedali vengono risparmiati dai bombardamenti. “Quando senti il rumore di un aereo corri subito a nasconderti”. Nel Paese più povero del Medio Oriente, Medici senza frontiere è presente con l’intervento più importante in una zona di conflitto: ci sono équipe in 12 ospedali e 11 governatorati, da marzo 2015 a dicembre 2018 hanno eseguito 81.102 interventi chirurgici, curato quasi 120 mila feriti, fatto nascere 68.702 bambini, affrontato 116.687 casi di colera. Scaini è stato il coordinatore medico, aprendo anche nuove strutture. Ha lavorato anche in Siria, Etiopia, Iraq, Sud Sudan, e in Liberia e Sierra Leone nel 2014 quando scoppiò l’emergenza Ebola. “Noi di Msf eravamo già lì a chiedere l’intervento degli organismi internazionali. Era davvero una scena apocalittica, i primi giorni ci siamo limitati a spostare i cadaveri. Adesso se c’è un nuovo allarme, ma per fortuna anche molta più consapevolezza e attenzione”. Le storie - Avrebbe mille storie da raccontare. “Come il ragazzino che mi raccontò che durante il viaggio nel deserto fuggendo dal Sud Sudan i suoi compagni che morivano venivano buttati uno alla volta giù dal camion. Una storia terribile ma quello che più colpì ero come lo diceva, come se fosse normale”. Ci sono momenti in cui puoi essere preso dallo sconforto, pensare di non fare abbastanza. “Una volta la mia responsabile nello Yemen mi disse: non pensare a chi non ce la fa, ma a tutti quelli che riusciamo a salvare. Finché puoi dare il tuo contributo, allora vuol dire che ne è valsa la pena”. Italia e Africa - Quando torna in Italia, con la stessa energia si dedica ai suoi pazienti della mutua. “È vero, sono due mondi agli antipodi, ma rappresentano due facce della stessa medaglia. In fondo sia qui che lì mi occupo di malnutrizione: in Africa il problema è la carenza di cibo, qui l’eccesso, mi tocca curare le patologie del benessere”. Anche gli strumenti sono gli stessi. Dello stetoscopio per esempio cambia solo il colore. “A Misano è nero, in Africa ne ho uno rosso. Perché attrae i bambini, se lo afferrano hanno voglia di giocare, e vuol dire che sono guariti”. Migranti. Come spingere la Libia a chiudere i centri di detenzione di Nino Sergi* Vita, 21 ottobre 2019 La Farnesina ospiterà il 21 e 22 ottobre una conferenza sui diritti umani e l’aiuto umanitario in Libia. Secondo quanto appreso da Agenzia Nova, i lavori “al livello di alti funzionari” saranno aperti dalla viceministra degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale, Emanuela Del Re, e verteranno in particolare sul coordinamento degli aiuti umanitari e sul rispetto del diritto umanitario internazionale e dei diritti umani. L’incontro di natura “tecnica” è co-organizzato dalla Farnesina e dalla Direzione generale per la protezione civile e le operazioni di aiuto umanitario della Commissione europea (Echo). “La Libia non ha ratificato la convenzione di Ginevra sui rifugiati e richiedenti asilo: non può quindi essere obbligata a prendersene cura. In Libia i richiedenti protezione e asilo sono degli illegali e in quanto tali sono internati nelle carceri e nei centri di detenzione secondo le leggi di questo stato sovrano”. Tante volte abbiamo letto o sentito queste o simili affermazioni. Sono parole che sono state assimilate perfino dalla cosiddetta comunità internazionale, cioè noi, l’Italia, l’Europa, i Paesi democratici, rimasti quindi impotenti e immobili. Gli Stati si sono limitati a guardare, talvolta a denunciare, nascondendo la propria inadeguatezza e pusillanimità dietro a questa ipocrita giustificazione. È vero, la Libia non ha mai preso in considerazione la convenzione di Ginevra sui rifugiati con gli obblighi derivanti dal riconoscimento del loro status. Ha firmato invece una convenzione regionale africana sullo status di rifugiato e, per il momento, considera come aventi diritto solo quelli di sette nazionalità: siriani, iracheni, palestinesi, somali, eritrei, etiopi Oromo e sudanesi del Darfur, alcune delle quali sono state e sono presenti nei centri di detenzione. La Libia ha però aderito a vari altri trattati e convenzioni, con pari valore umano ed etico e con obblighi altrettanto vincolanti. Indubbiamente, lo stato di conflitto permanente, di instabilità e di caos politico che l’insensato intervento militare internazionale del 2011 ha provocato in Libia, indebolisce l’effettiva attuazione di tali obbligazioni; ma almeno non ci si nasconda dietro il rigetto libico della convenzione di Ginevra per giustificare l’inazione a cui abbiamo assistito negli anni e a cui continuiamo ad assistere. I centri di detenzione in Libia devono essere chiusi. Le condizioni dei rifugiati e migranti ivi detenuti sono infatti una vergogna per tutta l’umanità che assiste paralizzata alle torture ed alle altre crudeli, disumani, degradanti pene che colpiscono ripetutamente uomini, donne, bambini. È la credibilità della “comunità” internazionale che è ormai messa in gioco. È stata ammessa l’apertura di una !struttura di transito e partenza” gestita dall’Unhcr a Tripoli per chi ha bisogno di protezione internazionale, ma l’agibilità nei centri di detenzione rimane molto limitata, così come nei punti di sbarco dove vengono riportate le persone intercettare in mare alle quali l’Unhcr offre assistenza medica, registrando chi è idoneo al riconoscimento dello status di rifugiato. Chi non lo è invece seguito dall’Oim che, sempre con molte limitazioni e difficoltà, provvede al trasferimento volontario e assistito in altri paesi. Un maggiore interesse e impegno dei governi che possono avere peso sulla Libia potrebbe ottenere molto di più e la Commissione africana dell’UA sui diritti dell’uomo e dei popoli potrebbe svolgere una seria indagine sulle gravi violazioni dei diritti umani nei centri di detenzione libici. Sulla base della Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, ratificata da tutti gli Stati africani ad eccezione del Marocco, alla Commissione sono infatti attribuite le funzioni di promuovere e proteggere i diritti umani e dei popoli. È sorprendente l’elenco delle ratifiche e adesioni della Libia a convenzioni e trattati internazionali tuttora validi e impegnativi. Se con la ratifica la Libia è legalmente vincolata a un trattato, con l’adesione accetta di diventare parte di un trattato e l’effetto giuridico che ne deriva è pari a quello della ratifica (Alto Commissariato per i diritti umani, Ohchr). C’è quindi molta materia per potere agire sulla Liba al fine della chiusura dei centri di detenzione inumani e disumani. Si tratta di impegni internazionali che sono stati quasi dimenticati sia dai libici che dalla comunità internazionale. È bene ricordarli. La Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, ratificata dalla Libia il 19 luglio 1986, sancisce che “Ogni persona ha diritto al godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti e garantiti nella presente Carta senza alcuna distinzione, in particolare senza distinzione di razza, sesso, etnia, colore, lingua, religione, opinione politica o qualsiasi altra opinione, di origine nazionale o sociale, di fortuna, di nascita o di qualsiasi altra situazione” (art. 2). “La persona umana è inviolabile. Ogni essere umano ha diritto al rispetto della sua vita e all’integrità fisica e morale della sua persona. Nessuno può essere arbitrariamente privato di questo diritto” (art. 4). “Qualsiasi forma di sfruttamento e di svilimento dell’uomo, specialmente la schiavitù, la tratta delle persone, la tortura fisica o morale, e le pene o i trattamenti crudeli, inumani o degradanti sono interdetti” (art. 5). La Convenzione UA regolante gli aspetti specifici dei problemi dei rifugiati in Africa, ratificata il 25 aprile 1981, stabilisce che “La concessione dell’asilo ai rifugiati è un atto pacifico e umanitario e non deve essere considerata un atto ostile da nessuno Stato membro” (art. 2). Gli Stati membri collaboreranno con l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Questa Convenzione sarà l’efficace complemento regionale alla Convenzione delle Nazioni Unite sullo status dei rifugiati per l’Africa del 1951 (art. 7, c. 1 e 2). Invocare la non ratifica della Convenzione di Ginevra sui rifugiati non esonera la Libia dal rispetto dei diritti umani, fino alla definitiva chiusura di tali centri criminali, e non esonera la comunità internazionale dall’esigerne la chiusura, nel rispetto di tali diritti, prevedendo strutture alternative gestite dalle organizzazioni internazionali umanitarie e stabilendo accordi compensativi. È giunto il momento di agire. *Presidente emerito di Intersos e policy Advisor di Link 2007 Siria. La tregua regge. Curdi: “Completato ritiro da Ras al-Ain” La Repubblica, 21 ottobre 2019 I combattenti curdi hanno lasciato la città siriana assediata dalle forze turche, ritiro che dovrebbe accelerare la loro partenza da un’area di 32 chilometri di distanza dal confine con la Turchia, che era la principale condizione della tregua negoziata da Washington. “Come parte dell’accordo per sospendere le operazioni militari con la Turchia con la mediazione americana, oggi abbiamo evacuato dalla città di Ras al-Ain tutti i combattenti delle Forze democratiche siriane (Sdf). Non abbiamo più combattenti in città”. Lo ha riferito il comandante curdo Kino Gabriel, secondo quanto riferito dal portavoce delle Sdf, Mustafa Bali. Oggi, un convoglio che trasportava feriti, resti e combattenti delle forze siro-democratiche siriane (Fds) dominate dallo Ypg ha lasciato Ras al-Ain. L’Fds e la Turchia hanno confermato il ritiro totale dei combattenti curdi dalla città. Più di 50 veicoli, comprese le ambulanze, hanno lasciato la città che fungeva da linea di demarcazione. Il ritiro dovrebbe accelerare la loro partenza da un’area di 32 chilometri di distanza dal confine con la Turchia, che era la principale condizione della tregua negoziata da Washington. Siria, la tregua regge. Curdi: “Completato ritiro da Ras al-Ain” Annunciato giovedì, l’accordo prevede la sospensione per 120 ore dell’offensiva lanciata il 9 ottobre dalla Turchia per consentire il ritiro dei combattenti curdi dalle zone di confine nel nord della Siria. Oltre a questo ritiro, l’accordo prevede la creazione di una “zona di sicurezza” profonda 32 chilometri per separare la Turchia dai territori detenuti dalla milizia curda delle Unità di protezione del popolo (Ypg). La lunghezza di questa striscia, che il Presidente turco Recep Tayyip Erdogan vuole che sia di circa 450 chilometri, resta da definire. L’Osservatorio siriano per i diritti umani aveva precedentemente riferito che i resti di 28 combattenti Fds e 13 civili si trovavano in ospedale o in cimiteri temporanei. “Un convoglio di circa 55 veicoli è entrato in Ras al-Ain e un convoglio di 86 veicoli è partito per Tal Tamr”, ha detto il ministero della Difesa turco. Il convoglio è arrivato a Tal Tamr, più a sud, dove i residenti li hanno accolti con slogan a sostegno dell’Fds. Erdogan ha ribadito che l’offensiva riprenderà se le forze curde non si ritireranno completamente dalle zone di confine e ha dichiarato che la Turchia “garantirà la protezione della zona di sicurezza” che egli intende istituire per oltre 444 chilometri. Ha anche esortato gli Stati Uniti a “mantenere le sue promesse”. Il presidente americano Donald Trump ha detto che “il cessate il fuoco sta reggendo molto bene” in un tweet che cita il suo ministro della Difesa, Mark Esper. “Ci sono stati piccoli scontri rapidamente conclusi. I curdi si stanno trasferendo in nuove aree”, ha detto Esper. Nella zona di Tal Abyad, a ovest, secondo il ministero della difesa turco, un soldato turco è stato ucciso e un altro ferito. L’offensiva turca è stata lanciata dopo il ritiro dei soldati americani dalle zone di confine il 7 ottobre. E il 13 ottobre, gli Stati Uniti hanno annunciato il ritiro di circa militari i americani dispiegati nel nord e nell’est della Siria. Siria, la tregua regge. Curdi: “Completato ritiro da Ras al-Ain” Oggi, più di 70 veicoli corazzati con bandiera americana e attrezzature militari hanno attraversato Tal Tamr, scortati da elicotteri. Secondo l’Osservatorio, il convoglio si è ritirato dalla base vicino alla città di Kobane e si è diretto verso la provincia di Hassakè più a est. “Questa è la più grande base militare americana nel nord e la quarta partenza delle forze americane da una base in Siria”, ha detto il direttore dell’Osdh Rami Abdel Rahmane. D’ora in poi, tutte le basi Usa nelle province di Raqa e Aleppo “sono vuote di qualsiasi presenza militare americana”, ha detto Abdel Rahmane. Gli Stati Uniti occupano ancora posizioni nelle province di Deir Ezzor e Hassakè. Cile. Dieci morti dall’inizio delle proteste. Il presidente: “Siamo in guerra” di Eugenio Occorsio La Repubblica, 21 ottobre 2019 Cinque persone uccise nell’incendio di una fabbrica saccheggiata, altre due nell’incendio di un magazzino, due in quello di un supermercato ed una persona e morta a Santiago. Lo stato di emergenza esteso ad altre città oltre alla capitale. Cinque persone sono morte nell’incendio di una fabbrica di vestiti saccheggiata dai manifestanti a nord di Santiago. Sono quindi dieci i morti dall’inizio degli scontri di piazza che stanno scuotendo il Cile. “Cinque corpi sono stati trovati all’interno della fabbrica, la morte è dovuta all’incendio”, ha detto ai media locali il comandante dei pompieri di Santiago Diego Velasquez. Altri due corpi erano stati ritrovati in un supermercato nel comune di San Bernardo anch’esso saccheggiato e dato alle fiamme ed altri due, invece, secondo il giornale Bio Bio, in un grande magazzino di materiali per l’edilizia e il bricolage a La Pintana andato a fuoco durante il saccheggio. Una persona invece sarebbe stata uccisa dalla polizia a Santiago. “Siamo in guerra contro un nemico potente”, ha detto il presidente Sebastian Sebastian Piñera.”un nemico implacabile - ha aggiunto - che non rispetta niente e nessuno e che è pronto a fare uso della violenza e della delinquenza senza alcun limite”. Il ministro dell’Interno cileno Andrés Chadwick, da parte sua, ha parlato di un bilancio di sette morti nelle proteste di piazza contro l’aumento delle tariffe, annunciando di avere esteso lo stato di emergenza, in atto da due giorni nella capitale, ad altre città del Paese. E mentre Santiago si appresta a vivere la sua seconda notte di coprifuoco, il governo fa sapere che finora sono state arrestate 152 persone per violenze, 40 per saccheggi e 70 per gravi aggressioni. Chadwick ha parlato alla Moneda, e non ha lasciato spazio alle domande dei giornalisti. Il ministro non ha fatto menzione, invece di un cittadino ecuadoriano morto durante alcuni incidenti fuori da un centro commerciale vicino a Santiago, colpito al torace, probabilmente da un agente. Proseguono intanto gli scontri e i saccheggi in tutto il Paese: “Siamo di fronte a una vera escalation che è indubbiamente organizzata per causare gravi danni al nostro Paese e alla vita dei cittadini”, ha detto Chadwick, aggiungendo: “Noi che oggi in Cile siamo contro la violenza, dobbiamo agire insieme ed esigere che coloro che purtroppo non la condannano o la avallano o sono deboli per affrontarla si facciano sentire”. Le proteste erano iniziate a causa di una aumento del costo dei biglietti dei trasporti pubblici ma, nonostante il ritiro del provvedimento da parte del governo di Sebastián Piñera, la protesta non si è fermata ed anzi si è allargata nonostante il coprifuoco decretato nel fine settimana. La gente è obbligata a restare in casa e non potrà uscire dalle 9 di sera alle 7 del mattino. Chi sarà costretto a farlo dovrà avere una autorizzazione speciale. Le strade e le piazze della capitale sono già presidiate dai carri armati e dai blindati dei militari che controllano il rispetto della misura. Si tratta di un provvedimento eccezionale, tipico dei paesi dell’America Latina. Sierra Leone. Niente scuola per le minorenni incinte di Riccardo Noury Corriere della Sera, 21 ottobre 2019 Le ragazze incinte possono sì fare gli esami ma devono “stare alla larga dalla scuola perché non sono in grado di imparare” e “possono influenzare negativamente le compagne di classe a svolgere attività sessuali e a rimanere a loro volta incinte”. Sono le parole del ministro dell’Istruzione della Sierra Leone, contenute in una circolare diramata il 15 ottobre per chiarire, una volta per tutte, la questione della frequenza scolastica delle minorenni incinte: in sintesi, prima partoriscano, poi torneranno a scuola. Naturalmente, il ministro non ha saputo fornire alcuna prova a sostegno del cattivo esempio che le ragazze incinte costituirebbero nei confronti delle compagne di classe. La Sierra Leone ha tassi molto elevati di gravidanze precoci. Ma invece di impartire lezioni di educazione sessuale nelle scuole e sradicare la violenza contro le donne e le ragazze, le autorità del paese africano preferiscono la stigmatizzazione popolare e la sanzione esemplare: niente istruzione. A giugno, Equality Now, Wawes e Amnesty International hanno presentato un ricorso alla Corte di giustizia della Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale, chiedendole di pronunciarsi contro un divieto del tutto ingiustificato e discriminatorio. La Corte deve ancora pronunciarsi.