Il problema della “ostatività” che racchiude in sé impossibilità, sfiducia e automatismo di Mauro Palma* Il Sole 24 Ore, 20 ottobre 2019 Il concetto di ostatività impedisce qualsiasi altra valutazione e lascia tutto all’applicazione della preclusione normativa. A far riflettere dovrebbe essere proprio il concetto che si racchiude nella parola “ostatività”. Prima ancora di vederne la sua applicazione come connotante la più grave delle sanzioni che il nostro codice prevede - l’ergastolo - così come avvenuto nel complesso e un po’ confuso dibattito seguito al non rinvio alla Grande Camera della Corte europea per i diritti umani della sentenza Viola c. Italia. Il termine “ostatività” racchiude in sé impossibilità, sfiducia e automatismo perché impedisce qualsiasi altra valutazione e lascia il tutto all’applicazione, automatica appunto, della preclusione normativa. L’impossibilità è quella della valutazione di un qualche processo di modificazione: nessuna ipotesi di riferirsi a un insieme di indicatori e parametri, nessuna considerazione del percorso che una persona possa aver compiuto negli anni della esecuzione della pena inflitta, perché tutto è sussunto da quell’unico parametro che la norma ostativa pone. La sfiducia è implicita nel privare il magistrato della possibilità di accertare, considerare e decidere, quasi a voler evitare il rischio di un’impostazione troppo concessiva o a voler tutelarlo da possibili pressioni o intimidazioni, in ciò dichiarandone una debolezza nell’esercizio della propria funzione. L’automatismo è nell’ipotesi che il reato commesso o il non adeguarsi all’unica ipotesi che la norma prevede per rimuovere l’ostatività, siano il parametro unico e decisivo per stabilire la pericolosità presunta della persona qualora benefici di un qualche istituto previsto dall’ordinamento in funzione del reinserimento sociale. Questa impostazione, ancor prima di proiettarsi sulla possibile detenzione a vita, senza alcuna revisione anche dopo molti anni, si riflette anche e fortemente sulle detenzioni ostative temporanee: una persona può così essere reintrodotta nella società al termine della sua esecuzione penale senza che si sia sperimentato un suo graduale percorso di ritorno, utile non solo alla prevenzione della recidiva, ma anche alla sicurezza esterna. Il ritorno al contesto sociale è certamente più sicuro per la collettività, infatti, se si è avuto modo di prepararlo con gradualità e con misure proporzionalmente e progressivamente adottate. Cosa che l’ostatività non consente. Quando poi l’ostatività si applica all’ergastolo il rischio di quella sentenza a vita “senza speranza” che la Corte di Strasburgo considera in violazione dell’articolo 3 della Convenzione - un articolo inderogabile, vale la pena ricordarlo, che vieta, oltre la tortura, le pene o i trattamenti inumani o degradanti - diviene evidente. La Corte ha da tempo tenuto questa posizione nella sua giurisprudenza: ciò che negli anni è variata è la valutazione degli elementi che ciascuno Stato prevede come attenuante di tale irreversibile automatismo. Se a metà dello scorso decennio, nel caso Kafkaris c. Cipro, la Corte aveva considerato la previsione della grazia presidenziale come elemento di “speranza”, successivamente ha sempre più richiesto un elemento normativo effettivo e non uno centrato sulla discrezionalità politica. Così, quanto discusso nel caso Viola c. Italia, che ha riaperto il dibattito, è se la previsione unica della collaborazione, che il nostro ordinamento stabilisce per un insieme multiforme di reati, tutti gravissimi, ma non tutti riferibili all’appartenenza a organizzazioni criminali, per far venir meno l’ineluttabilità della ostatività sia in grado di evitare di fatto un automatismo che priva il giudice di qualsiasi valutazione e la persona di qualsiasi speranza. La Corte ha ritenuto che tale fattore, considerato svincolato da qualsiasi altro elemento valutativo, configuri in sé una presunzione assoluta di pericolosità della persona anche dopo molti anni e inoltre induca una sorta di cortocircuito tra collaborazione e unica via di accesso a un’ipotesi di libertà futura che lede sia la genuinità delle collaborazioni, sia la possibilità di impegnarsi in un percorso personale di revisione effettiva di quanto commesso. Tanto più che la preclusione senza “aiut[are] concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti o per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati” non incide soltanto sulle misure cosiddette “premiali”, ma anche sulla liberazione condizionale, che non appartiene alla legge penitenziaria, ma al codice penale, che fu introdotta già nel codice Zanardelli, fu mantenuta, seppure collegata alla buona condotta, dal ministro Rocco nel codice del 1930 e che è strumento volto proprio a non far coincidere la persona nel suo evolversi al reato commesso molti anni prima. Sfugge ai critici che si stracciano le vesti per questa sentenza che riaffidare al giudice ogni valutazione è segno di forza e non di debolezza e che la magistratura ha competenza e saggezza per esercitare tale funzione. *Presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute Fiato alla speranza: l’ergastolo ostativo e la Costituzione di Marcello Bortolato* questionegiustizia.it, 20 ottobre 2019 (Testo dell’intervento al Convegno “Eppur si muove. Carcere, costituzione, speranza”, Reggio Calabria - 4 ottobre 2019). Nell’opinione pubblica, anche qualificata, continua a essere diffusa l’idea che l’ergastolo sia una pena riducibile e che il “fine pena mai” non esista. È vero il contrario. Mentre è in calo il numero dei reati, le condanne ergastolo aumentano e, tra esse, quelle all’ergastolo effettivamente senza right to hope, senza via di uscita. Ostativo, viene comunemente definito. Un magistrato di sorveglianza ci spiega bene cosa è e perché non dovrebbe avere cittadinanza nel nostro ordinamento, tanto più dopo la sentenza della Corte di Strasburgo Viola c. Italia. Lo pubblichiamo per sfatare luoghi comuni e false giustificazioni, in attesa che il 22 ottobre si pronunci la Corte costituzionale. 1. L’ergastolo ieri e oggi - La prima volta in cui mi imbattei nell’ergastolo fu quando venni chiamato, allora diciottenne, alle urne per il referendum abrogativo del 1981: non ebbi alcun dubbio, fui tra quei 7.114.719 favorevoli alla sua abolizione (cioè il 22,6% dei votanti), contro quei 24.330.954 (il 77,4%), che si erano espressi in senso contrario all’abolizione. La proposta venne bocciata, eppure nei contestuali referendum sull’abolizione delle norme sulla concessione del porto d’armi e sull’interruzione volontaria della gravidanza la risposta negativa, cioè il no all’abolizione, aveva raggiunto percentuali ben maggiori, che si attestavano tra l’85 e l’89%: ciò significa che circa il 10% di quelle stesse persone che si erano espresse in senso contrario all’abrogazione della legge Cossiga, concepita per affrontare l’emergenza terrorismo in Italia degli anni 70, si era espresso nello stesso giorno in senso favorevole all’abolizione dell’ergastolo. La seconda volta fu quando - molto più tardi - assunsi le funzioni di magistrato di sorveglianza: a quel punto il problema non fu più l’ergastolo ma il suo ulteriore aggravamento, quella sofferenza aggiuntiva, quell’inasprimento sanzionatorio - perché di questo si tratta - che va sotto il nome di “ergastolo ostativo”: la pena senza speranza, un passato che schiaccia il presente e toglie ogni speranza al futuro. L’ergastolano “ostativo” ha la quotidiana sensazione di avere ben poche speranze di accorciare quel fine pena, la sensazione di morire giorno per giorno tanto da voler a volte desiderare che la condanna sia tramutata in pena di morte. Il primo argomento da sfatare è che l’ergastolo sia una condanna simbolica che, si dice, di fatto non sconta più nessuno. Alcuni dati: 1700 circa oggi gli ergastolani di cui oltre 1200 “ostativi”: dal 2004 al 2014 vi è stato un incremento degli ergastoli del 38%, eppure da un anno all’altro diminuiscono gli omicidi (dal 2017 al 2018 il 16,3% in meno e quelli di criminalità organizzata da 48 a 30 dal 2016 al 2017; gli omicidi volontari in Italia nel 2018 sono stati 319 dei quali 134 in ambito familiare/affettivo e dunque al di fuori di un contesto di criminalità organizzata). L’incidenza percentuale degli ergastolani sul totale dei condannati definitivi tra il 1998 e il 2008 è passata dal 2,5% al 5,29%: una pena dunque tutt’altro che desueta. 2. Ergastolo e compatibilità con la Costituzione repubblicana - Il più grave problema che si pone per l’ergastolo è quello della sua compatibilità con il principio della finalizzazione rieducativa della pena scolpito nell’art. 27 Cost.: se infatti per rieducazione non si può non intendere che reintegrazione, seppur tendenziale, dell’individuo nel contesto sociale, una misura come l’ergastolo, destinata ad escluderlo definitivamente, non può che risultare incompatibile con tale principio. La Corte costituzionale, riaffermando invece la costituzionalità di tale sanzione, ha dovuto fare riferimento al fatto che l’ergastolo non è effettivamente tale - e cioè una pena perpetua - in quanto ammette il rientro nella società attraverso la liberazione condizionale (beneficio previsto non dall’ordinamento penitenziario ma dal codice penale all’art. 176 cp), incorrendo così in un evidente paradosso: quello di riaffermare la costituzionalità di un istituto in quanto lo stesso non sia effettivamente tale, quando avrebbe invece dovuto pronunciarsi sulla fondatezza e compatibilità dei principi, non sulla loro occasionale (e del tutto aleatoria) disapplicazione. Del resto si consideri che in termini percentuali gli accoglimenti dell’istanza di liberazione condizionale (per tutte le pene, anche temporanee) si aggirano intorno al 3% circa delle istanze, spiegabile proprio perché la liberazione condizionale è un beneficio che dal 1992 è soggetto alle stesse condizioni di ammissibilità dettate nell’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario per le misure alternative, prima fra tutte il requisito della “collaborazione” la cui mancanza di fatto rende ostativa la pena perpetua. Con la sentenza n. 264 del 22 novembre 1974 l’ergastolo viene dichiarato conforme alla Costituzione con il rilievo che la funzione rieducativa non è l’unica funzione cui la pena deve assolvere, affiancandosi a tale funzione anche quella dissuasiva, preventiva e di difesa sociale (è la teoria “polifunzionale” della pena). Si è così arrivati in Italia all’ergastolo moderno, pena mantenuta nella sua perpetuità ma temperata dalla concessione di molti benefici penitenziari [1]. Si è assistito ad un’opera di progressiva spoliazione dell’istituto che non si è voluto fin qui eliminare nel tentativo di renderlo compatibile con la finalità rieducativa della pena: ma il limite dell’ergastolo ostativo (che costituisce la stragrande maggioranza degli ergastoli) nondimeno - da 27 anni - è ancora lì. Oggi la questione, dopo la condanna in sede europea (CEDU: sentenza Viola c. Italia del 13 giugno 2019), è tornata nuovamente all’esame della Corte costituzionale (sulle due questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis sollevate dalla prima Sezione della Corte di cassazione e dal Tribunale di sorveglianza di Perugia nei casi, rispettivamente, Cannizzaro e Pavone, la discussione è fissata il prossimo 22 ottobre) proprio perché il requisito della collaborazione rende di fatto inapplicabili tutti i benefici penitenziari. Non si è mai dunque spenta in Italia l’inquietudine, nonostante le passate stagioni terroristiche, la ferocia della criminalità organizzata e l’efferatezza di alcuni delitti, circa la compatibilità dell’ergastolo con le acquisizioni di civiltà maturate e, in particolare, sul nesso problematico che intercorre fra pena perpetua e diritti fondamentali, la prima irrimediabilmente intrecciata ad un retaggio millenario di vendetta sociale, del cui classico emblema (la pena di morte) essa ha preso ambiguamente il posto nei nostri tempi, i secondi proiettati invece verso il futuro e di fronte al quale l’alternativa ormai è tra la coscienza lacerata (i casi italiano e tedesco in cui l’istituto è mantenuto ma progressivamente sgretolato) [2] ovvero l’abolizione, secondo la strada imboccata da Spagna e Portogallo che, usciti da sanguinose dittature, hanno radicalmente rinnovato i propri ordinamenti cancellando nel sistema delle pene ogni residuo dei lasciti ancestrali. Il caso italiano, in particolare, tradisce ancora una volta il disagio a contemperare la pena massima con l’impianto della Carta: l’ergastolo si giustifica tanto quanto risulti abolito nei fatti, circostanza quest’ultima che, almeno per i 1255 ergastolani “ostativi”, non si verifica. Questa situazione non può durare a lungo risolvendosi in un’ipocrisia prolungata e per di più annidata in un istituto fortemente simbolico: non dimentichiamo che l’ergastolo infatti nasce (da Beccaria) come alternativa alla pena capitale, confermata dal fatto che esso è tuttora sconosciuto negli Stati in cui per i delitti più gravi è ancora in vigore la pena di morte. 3. L’ergastolo “ostativo” - L’ergastolo ostativo, l’ergastolo degli “uomini ombra”, dei “senza speranza”, crea disagio, prima di tutto nel magistrato di sorveglianza. Perché? Perché di fronte all’ostatività (che discende dalla mancata collaborazione) appare del tutto irrilevante il percorso rieducativo del condannato: il giudice è impotente, nonostante l’approccio delle teorie della cd “nuova prevenzione” tenda a riproporre ampio spazio al riconoscimento della concretezza e della specificità delle situazioni in cui un reato avviene, delle caratteristiche e delle motivazioni dell’autore, della sua evoluzione personale; è sempre necessario avere il coraggio di guardare a fondo nella realtà dei fatti e delle persone coinvolte anche nei crimini più efferati e devastanti, evitando di rimuovere l’orrore con la durezza della sanzione che allontana e definitivamente seppellisce. Il giudice difronte all’ergastolo ostativo è espropriato del potere di decidere se accordare un qualche riconoscimento ai progressi del reo, progressi che possono non avere nulla a che vedere con la sua volontà di collaborare con la giustizia. Vanno ricordate poi le enormi difficoltà dell’accertamento della collaborazione cd “impossibile” o “inesigibile” (alternativa alla collaborazione effettiva, essa consiste nell’impossibilità, riconosciuta dalla legge, di offrire una reale collaborazione poiché su quella vicenda penale ormai è stata fatta piena luce): si tratta di un accertamento rimesso a fattori esterni su cui il condannato non ha alcun dominio e che dipende perlopiù dai pareri delle Procure che hanno svolto le indagini. Il magistrato di sorveglianza difronte all’ergastolo ostativo è inoltre consapevole dell’’anima nera’ della preclusione dell’art. 4-bis: quel surplus di pena, quell’inasprimento sanzionatorio che rende la pena perpetua una pena senza speranza ed ha le mani legate perché non può nemmeno valutare le ragioni del silenzio di chi non vuole collaborare con la giustizia. Sia chiaro, la collaborazione è strumento strategico della lotta alla criminalità organizzata, insostituibile mezzo di repressione e prevenzione dei reati, e dove è “effettiva” consente ai condannati l’accesso anticipato alle misure alternative (a differenza di quella cd “impossibile”) ma le ragioni di una mancata collaborazione possono essere anche nobili o comunque comprensibili (la scelta morale di non voler barattare la propria libertà con quella degli altri, la paura di esporre i propri familiari a ritorsioni e vendette) eppure non sono valutabili dalla magistratura di sorveglianza che deve limitarsi a prenderne atto anche difronte alla dimostrazione, del tutto disgiunta dall’assenza di collaborazione, di una cessata pericolosità, magari dopo moltissimi anni dal reato. Il problema è allora anche quello della libertà di autodeterminazione, che ha a che fare con la “dignità”, divenuto parametro costituzionale tout court: la preclusione derivante dalla mancata collaborazione non è solo irrazionale, è “violenta” perché coarta la libertà morale e rende l’uomo da fine a mezzo, il che significa usare gli strumenti della rieducazione per scopi che sono altri (assicurare alla giustizia ulteriori colpevoli) cioè negare in radice la funzione del magistrato di sorveglianza. Dobbiamo inoltre chiederci se la mancata collaborazione sia effettivamente sempre e comunque sintomo di dissociazione dalle organizzazioni criminali di appartenenza. Non sono sconosciute da un lato collaborazioni del tutto strumentali ed anche “false” e, dall’altro, l’esistenza di più sicuri indici di rescissione dei legami. Si pensi che il “ravvedimento” (pieno riconoscimento della propria responsabilità ed assunzione di impegni riparatori, traduzione laica del concetto di “emenda”) è sufficiente per ottenere la liberazione condizionale (l’unico beneficio che può cancellare l’ergastolo) ma non basta per poter accedere ai benefici anche minori a chi non abbia collaborato pur ammettendo le proprie responsabilità. Con il ravvedimento il reo dimostra di aver raggiunto un grado di rieducazione tale da meritare il massimo beneficio ma se non fa i nomi dei correi non può accedervi: c’è qualcosa di fortemente irrazionale prima che ingiusto in questo meccanismo. 4. La quaestio di costituzionalità - Ci sono degli evidenti limiti nel petitum delle due questioni di costituzionalità sollevate e che verranno discusse il prossimo 22 ottobre: esse colpiscono infatti l’ostatività del solo permesso-premio, il primo beneficio che l’ergastolano può ottenere. Se esso costituisce lo “snodo” cruciale del trattamento, tuttavia la progressione trattamentale è l’”in sé” della rieducazione. Tutti i benefici - nell’ottica della preclusione - sono uguali, non si possono distinguere: se cadrà la preclusione tutti i benefici e le misure alternative saranno, senza distinzioni, ammissibili. È dunque necessario colpire la preclusione in sé, la sua irrazionalità intrinseca. Spesso facendo il giudice mi chiedo: ma cattivi si diventa? anch’io ne sarei capace? Vi sono studi criminologici che hanno passato in rassegna il genocidio in Ruanda, i suicidi e gli assassini di massa dei membri di diverse sette religiose, gli orrori dei campi di concentramento nazisti, la tortura praticata dalla polizia militare e civile e la violenza sessuale perpetrata su parrocchiani da sacerdoti cattolici. Si ricorda spesso il cd. “esperimento carcerario di Stanford”: nel 1971 sono stati reclutati con un annuncio su un giornale alcuni studenti “sani, intelligenti, di classe media, psicologicamente normali e senza alcun precedente violento”. L’esperimento doveva durare due settimane e coinvolgere i soggetti, suddivisi casualmente tra un gruppo di guardie ed uno di detenuti, in una simulazione di vita carceraria, allo scopo di mettere a fuoco le reazioni dei detenuti. Dopo soli cinque giorni, i lavori furono però interrotti: gli studenti che rivestivano il ruolo delle guardie si erano inaspettatamente trasformati in spietati aguzzini. È l’”effetto Lucifero”: la possibilità, cioè, che alcune particolari situazioni siano in grado di indurre persone ordinarie a compiere i peggiori crimini. Il ricordo di quell’esperimento deve farci riflettere che certamente emergono situazioni difficili e per molti aspetti inquietanti, che esistono delitti assai efferati rispetto ai quali non sembra esservi alcuna pena idonea a compensare il male che hanno provocato, ma che, nel contempo, ogni situazione va sempre restituita alla sua complessità, alle sue caratteristiche reali e, soprattutto, alla sua effettiva possibilità di evoluzione. Ogni uomo va trattato come uomo: si tratta di una strada difficile, da praticare e svelare di caso in caso anche se questo è meno appagante della punizione esemplare. *Presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze ----------------------------------------------------- [1] La legge Gozzini del 1986 ha abbassato il tetto di ammissione alla liberazione condizionale da 28 a 26 anni: dopo cinque anni di libertà vigilata, la pena si estingue e l’ergastolano diviene persona del tutto libera; la stessa legge stabilisce che la pena dell’ergastolo debba essere espiata negli stessi istituti in cui si espiano le pene detentive a tempo e prevede la possibilità per l’ergastolano di essere ammesso all’esperienza dei permessi-premio e al lavoro all’esterno dopo 10 anni; prevede la concedibilità della misura alternativa della semilibertà dopo l’espiazione di almeno vent’anni di pena ed infine la concedibilità della liberazione anticipata, intesa come sconto di pena di giorni 45 per ogni semestre, anche all’ergastolano, stabilendo che detto beneficio sia computabile nella misura della pena che occorre avere espiato perché questi sia ammesso ai benefici dei permessi-premio, della semilibertà e della liberazione condizionale. [2] Nel caso italiano, nell’ipotesi di integrale concessione della riduzione di pena per liberazione anticipata, l’ergastolano (purché non ostativo) può aspirare alla concessione del suo primo permesso-premio dopo 8 anni di pena, della semilibertà dopo 16 anni di pena e della liberazione condizionale dopo 21 anni di pena. Carcere e sanità, tra criticità e buone prassi di Samuele Ciambriello linkabile.it, 20 ottobre 2019 Non si può morire di carcere e in carcere. Cicatrici detentive. La prima è il ricordo a distanza di un anno della morte di Ciro Rigotti, il detenuto terminale. Aveva chiesto di morire a casa sua, tra l’affetto dei suoi cari. Nell’ultimo suo appello, nelle mie denunce pubbliche come Garante, nella solidarietà di tanti eravamo stati tutti interdetti da una giustizia reale, disgregativa e disumana. Un giorno prima della morte l’ultima segnalazione sanitaria e la scelta del giudice di mandarlo dall’ospedale a casa. Vivo un religioso dolore pensando ai saliscendi della vita. La seconda cicatrice è la visita che ho effettuato nel carcere di Benevento e i colloqui con alcuni detenuti che aspettano da sei mesi o da un anno una visita specialistica, un ricovero, una operazione. Nel caso di due di loro, andati a visita specialistiche, hanno effettuato tali visite diverse dalle loro patologie! E mi chiedo perché l’ospedale Rummo di Benevento è l’unico che non ha ancora un reparto detentivo per le persone ristrette? Sono stato un grande sostenitore nel 2008 della riforma della sanità penitenziaria che ha riportato il tema della salute nelle competenze delle sole Aziende sanitarie locali affermando così un principio fondamentale: il diritto alla cura e alla salute è unico per la persona libera come per la persona priva di libertà. Come “Garante campano delle persone private della libertà personale” sono consapevole che il tema della sanità in carcere presenta notevoli difficoltà operative, gestionali e richiede una più ampia cooperazione istituzionale tra ASL e Amministrazione penitenziaria. Ho incontrato in questi giorni i responsabili della sanità penitenziaria sia a livello locale che provinciale. Colloquio proficuo e costruttivo In alcuni casi ho assistito ad un rimpallarsi di responsabilità che offende le istituzioni e chi le rappresenta. Certo la sanità campana sulle carceri ha posto molto criticità ma anche una buona prassi ed esperienze significative. Solo a Poggioreale e Secondigliano vi è la presenza di centri clinici, oggi chiamati Sai (padiglione o reparto dove vi è un’intensità di cura maggiore), ma non è un vero reparto ospedaliero. A Poggioreale vi è un ottimo impianto di Radiologia, di recente acquisto, utilizzabile anche dai detenuti delle carceri limitrofi, ma non vi sono dei macchinari utili e necessari per effettuare in sede una Tac o una risonanza magnetica. Una possibile soluzione che rappresenterebbe un altro buon esempio di buone prassi in sanità penitenziaria, sarebbe l’acquisto di una “tac mobile” che possa essere trasportata nei diversi istituti. I posti letto negli ospedali da destinare alla popolazione ristretta devono aumentare, in Campania ce ne sono solo 36 per una popolazione di 7.400 detenuti. Non si ricoverano in altri ospedali perché non ritenuti idonei alla sicurezza. Un’altra osservazione riguarda i turn-over nei centri clinici. Sono lenti perché i detenuti che sono lì presenti restano il più a lungo possibile. Non parliamo del tema dei farmaci o della loro mancanza. L’assistenza dietetica risulta abbastanza approssimativa. Un’altra criticità riguarda il trasferimento dalla carceri per visite specialistiche, lente nei tempi sia per le lunghe attese ospedaliere che per la carenza di personale adibito a poter controllare il detenuto durante la visita. La stessa non stabilizzazione degli operatori penitenziari dell’ambito sanitario impedisce di intervenire bene e con continuità, vale per medici, infermieri ed altre figure sanitarie. La cartella sanitaria informatica, la telemedicina devono entrare con forza nei piani regionali di settore. Un’altra criticità che si individua a livello regionale è strettamente collegata alla precedente e concerne la mancanza di una sistematica attività di monitoraggio epidemiologico volta a definire in termini di evidenza scientifica l’entità, la natura e le tendenze evolutive della domanda di salute espressa dalla popolazione dei detenuti. Il personale sanitario (medici, psicologi, infermieri, ecc.) opera da anni nel carcere con rarissime e sporadiche attività di aggiornamento o di valutazione del lavoro svolto. È pertanto naturale che vengano segnalati frequentemente episodi di cattive pratiche dipendenti probabilmente dal burn-out, fenomeno che notoriamente riguarda il personale di assistenza alla persona operante in condizioni particolarmente critiche (reparti di rianimazione, centri clinici, tossicodipendenti, reparti psichiatrici, ecc.). Capitolo immigrati. I mediatori culturali e gli interpreti non esistono nelle carceri e gli stranieri affrontano spesso i consigli disciplinari in caso di infrazione non capendo neanche una parola, non riescono a dialogare con i medici, anche quando sono ricoverati o vanno a visite specialistiche. E poi il capitolo della salute mentale, della mancanza di psicologi e psichiatri nelle carceri, dei luoghi alternativi al carcere per queste persone diversamente libere. Ed infine le problematiche derivanti dalla presenza in carcere di soggetti autori di reato nell’area delle tossicodipendenze - a loro volta spesso portatori di disturbi mentali gravi e “cronicizzati” per lunghi periodi di abuso/dipendenza. Iniziativa della Cgil. Focus Group-Workshop sullo “stress di contesto” nelle carceri Ristretti Orizzonti, 20 ottobre 2019 Con l’attiva collaborazione del Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per il Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige, anche a seguito di recenti gravissimi fatti di cronaca, si sono tenute tre giornate di lavoro (16, 17, 18 ottobre u.s.), presso i penitenziari di Trento, Rovigo ed Udine. L’iniziativa, partita dalla Cgil provinciale, volta a conoscere le cause dei diversi fattori che possono compromettere il benessere e l’integrità di coloro che lavorano negli istituti carcerari, è stata resa possibile grazie alla partecipazione di operatori della Polizia penitenziaria, funzionari giuridico-pedagogici e assistenti sociali che hanno attivamente partecipato ai focus group. Il sindacato, per approfondire le cause dei molti fattori esogeni stressanti e potenzialmente dannosi per il benessere del personale di Polizia, attraverso indagini caratterizzate da specifiche metodologie di rilevamento, ha richiesto la collaborazione di un qualificatissimo gruppo di studiosi di Roma che da anni, si occupano del contesto penitenziario e delle sue diverse problematiche, in Italia e all’estero. Lo psichiatra Pier Luigi Marconi, il dottor Sandro Libianchi specialista in medicina interna e responsabile medico nel carcere di Rebibbia di Roma, il prof. Domenico Alessandro De Rossi esperto di architettura penitenziaria, tutti facenti parte di un qualificatissimo Centro Studi della capitale, hanno messo a disposizione la loro professionalità e garantito il supporto scientifico. I professionisti, oltre ad essere i fondatori del Centro Studi Penitenziari, sono altresì membri di organizzazioni di alto valore scientifico ed umanitario. Il prof. De Rossi ed il dr. Marconi sono membri della Fidu (Federazione Italiana Diritti Umani), mentre il dr. Libianchi è presidente p.t. del Co.N.O.S.C.I. (Coordinamento Nazionale Operatori per la Salute nelle Carceri Italiane). È stato così avviato un primo livello di indagine circa il complesso argomento dello stress di contesto negli ambienti destinati alla detenzione. Nelle giornate di lavoro che hanno visto un’interessata ed attiva partecipazione del personale impegnato presso i penitenziari delle provincie coinvolte, sono state sviluppate tematiche destinate alla esplorazione del delicato rapporto malessere/benessere relazionale, ma anche ambientale ed architettonico, per la prevenzione dell’eventuale danno lavorativo e della valutazione diretta dello stress di contesto. Il Provveditorato del Triveneto unitamente ai corpi intermedi sindacali hanno saputo dimostrare in questa occasione grande sensibilità e lungimiranza in merito alla gestione delle delicate questioni delle problematiche di coloro che operano in alcuni particolari settori, quali quelli della complessa realtà penitenziaria. Il progetto, dopo questa prima fase sperimentale, sarà esportato in altre regioni italiane, anche al fine di avere una visione più di dettaglio nella variegata realtà nazionale. Giustizia, allarme populismo di Guglielmo Starace* Gazzetta del Mezzogiorno, 20 ottobre 2019 Se non interviene una generale presa di coscienza della gravità della situazione, dal primo gennaio 2020 entrerà in vigore una norma secondo cui dopo l’impugnazione di una sentenza di primo grado, anche di assoluzione, la durata del processo non avrà più alcun limite perché il tempo necessario alla prescrizione del reato sarà fermato. Questa disposizione, contro la quale si è già schierata l’intera avvocatura, l’accademia dei giuristi e gran parte della magistratura, pare in forte contrasto con la norma costituzionale che individua anche nella ragionevole durata del processo un irrinunciabile principio di civiltà giuridica. E infatti incivile consentire che un imputato rimanga eternamente sospeso nelle maglie di un processo che, essendo senza fine, rappresenta comunque una condanna. Allo stesso modo è incivile che la persona offesa rischi di rimanere per sempre in attesa di una pronuncia definitiva sui suoi diritti. Il principio che deriverebbe dalla nuova disciplina è quello secondo cui ogni cittadino può restare in balia della giustizia penale dopo la sentenza di primo grado fino a quando lo Stato non riterrà di concludere il processo. Il motivo di questa scelta risiede nella convinzione che in Italia si prescrivono troppi reati, e “i colpevoli la fanno franca”. La decisione assunta, però, oltre a comportare delle assurde ingiustizie per imputati e persone offese, non costituisce rimedio per ridurre il numero delle prescrizioni perché circa il 70% delle prescrizioni maturano (dati ufficiali del Ministero di Giustizia) prima della sentenza di primo grado e perché la riforma Orlando, entrata in vigore appena due anni fa, ha ulteriormente allungato di complessivi tre anni dopo la sentenza di primo grado e fino al giudizio di Cassazione i termini di prescrizione dei reati, già di per sé molto alti soprattutto con riguardo a quelli cosiddetti di maggiore allarme sociale. Ma quali saranno le conseguenze del “processo penale infinito”? La persona sottoposta al processo, oltre all’angoscia di essere sempre “imputata”, avrà comunque difficoltà a fare progetti per la sua vita (ad esempio, rischia di non poter partecipare ad un concorso pubblico) sapendo di essere sottoposta ad un procedimento del quale non può sapere la data di chiusura. Costituisce fatto notorio che i processi per reati che si prescrivono in tempi più dilatati (che arrivano anche a venti anni per le ipotesi più gravi) vengono celebrati molto lentamente perché è fisiologico che - a fronte di un carico di lavoro elevato rispetto a strutture carenti e personale insufficiente - si prediliga la trattazione dei processi con prescrizione vicina, inevitabilmente mettendo in secondo piano quelli con prescrizione lontana. Si tenga bene a mente che la prescrizione non è uno strumento a disposizione dei difensori sia perché matura nella maggior parte dei casi nella fase delle indagini preliminari, nel corso delle quali il difensore non può fare nulla, sia perché ad ogni richiesta di rinvio del processo da parte del difensore corrisponde una sospensione del decorso della prescrizione. La prospettata riforma è la più grande espressione del populismo giudiziario perché rende comunque ingiusto il processo giusto, spostando il momento terminale del processo a distanza di tanti anni dai fatti. E a distanza di tanti anni appare ingiusta una condanna, un’assoluzione, un’esecuzione della pena: appare ingiusta ogni conclusione. Si presenta come una riforma civile perché gioca sulla comune indignazione rispetto ad un reato prescritto, ma è in realtà incivile perché allunga a dismisura i tempi tra fatto e pronuncia giurisdizionale. Come sarebbe incivile una sentenza di assoluzione dopo anni di gogna mediatica ovvero una sentenza di condanna di una persona che può essere ormai diversa da quella che ha commesso il reato. Si rischia di perseguire un peccato di gioventù commesso da una persona ormai socialmente realizzata ed integrata, e quindi provocare un danno per la persona e per la società tutta. Senza prescrizione non c’è più la speranza, ma non la speranza di raggiungere la causa estintiva del reato, bensì la speranza di avere giustizia in tempi ragionevoli. E l’essere umano senza speranza è il più pericoloso. L’essenza del populismo giudiziario è proprio questa: dire che si è fatto qualcosa, mentre in realtà nel migliore dei casi non si è fatto niente, ma nel peggiore si è fatto il contrario. Assistiamo quotidianamente a processi dalla durata insopportabile, strutture che cadono a pezzi, penuria di personale, senso diffuso di ingiustizia, che certe volte non si consuma grazie all’impegno vero di donne e uomini che si rimboccano le maniche e si impegnano gettando il cuore oltre l’ostacolo per dare giustizia ai cittadini. Insomma, la parte migliore del Paese fa di necessità virtù e porta avanti la baracca. Il processo senza prescrizione è un viaggio verso l’ignoto, è una partenza senza arrivo, è come prendere un treno senza conoscere l’orario previsto per l’arrivo, è mancanza di lealtà dello Stato verso il cittadino sospeso. La sospensione sine die della prescrizione equivale alla sospensione sine die delle garanzie del cittadino. Gli avvocati e devono intervenire quando i principi costituzionali sono a rischio e, quindi, quando i cittadini sono in pericolo. Per questo ci asterremo dalle udienze per tutta la prossima settimana e invitiamo tutti i cittadini alla nostra manifestazione che si terrà giovedì 24 ottobre 2019 alle ore 9,30 presso l’Hotel Palace di Bari proprio per affrontare il problema con professori universitari, magistrati, politici e giornalisti. *Presidente della Camera penale di Bari Ardita: “L’antimafia di facciata? Depistaggio sul concorso esterno” di Laura Distefano livesicilia.it, 20 ottobre 2019 Il consigliere del Csm Sebastiano Ardita analizza gli effetti della sentenza Cedu. Poi una riflessione sul sistema di “pupi e pupari” evocato nel processo Montante. Catania è una città grigia. In questo cono d’ombra trova spazio la mano della mafia che si infiltra grazie a complicità, compiacenze e collusioni. E in questo melmoso mondo si annidano i geni di Cosa nostra catanese, capace - storicamente - di far operare insieme imprenditori, mafiosi e politici. Sebastiano Ardita nel suo libro “Catania bene” ha analizzato, grazie alla sua profonda esperienza di pm della procura etnea, il modo di agire della mafia catanese. Un tipo di criminalità che secondo il magistrato catanese, oggi consigliere del Csm, dovrebbe” farci comprendere la difficoltà di contrastare questo fenomeno rinunciando a strumenti penetranti”. Intanto il sistema giustizia (e il sistema sano dell’antimafia) sta metabolizzando la bacchettata ricevuta dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Ardita analizza gli effetti della sentenza della Cedu. Ma anche le motivazioni della sentenza di condanna dell’ex presidente di Confindustria Sicilia, Antonello Montante, non possono essere messe in un cassetto senza le dovute riflessioni. E la risposta del consigliere del Csm innesta nuovi, e purtroppo inquietanti, punti di osservazione. Dottor Ardita, intanto chiariamo cosa ha sancito la sentenza Cedu. Perché purtroppo c’è molta disinformazione... La Cedu, su ricorso di un detenuto italiano, ha ritenuto che - ai fini della concessione dei benefici penitenziari - sia “inumano” non poter tenere conto dei cambiamenti di personalità dei detenuti e dell’eventuale percorso di risocializzazione. La decisione riguarda dunque direttamente i detenuti di mafia (e da qualche mese anche quelli di corruzione) per i quali nel nostro ordinamento l’unica possibilità di concessione dei benefici è legata alla collaborazione con la giustizia. Secondo lei abbiamo fatto un passo indietro rispetto ai tre decenni di lotte e vittorie dello Stato seguendo le tracce (e il sacrificio) del giudice Falcone? Non abbiamo fatto alcun passo, perché la Corte europea decide sulla base di principi teorici e generali, l’unico nostro problema è che non siamo stati mai in grado di spiegare all’Europa la specificità della prevenzione antimafia e quale siano il senso e le possibilità applicative di tali norme. Se poi chi approva le leggi combina pasticci tutto precipita. Spesso anche il legislatore rigoroso finisce per confondere la dimensione punitiva con quella di prevenzione. Ad esempio l’art. 4bis dell’ordinamento penitenziario che poteva essere la norma di prevenzione per eccellenza se riservata alla criminalità organizzata ha finito per ospitare una quantità di ipotesi di reato, per alcune delle quali lo scopo della preclusione dei benefici è esclusivamente quello di penalizzare gli autori di alcuni reati e non quello di disarticolare le organizzazioni. In un sistema in cui le norme di prevenzione risultano inquinate da finalità punitive è più difficile difenderne la funzione. Lei ha lavorato per molti anni al Dap. L’Italia ha davvero un sistema penitenziario che non è riuscito a mettere la rieducazione al centro della detenzione carceraria? Quali sono i passi da fare? Quando dirigevo l’ufficio detenuti del Dap abbiamo scritto ed emanato le circolari per organizzare e pianificare le attività rieducative. Credo che gli operatori penitenziari puntino a garantire che nelle carceri ci siano sicurezza e trattamento, ma non possiamo lasciarli soli. Il regime del 41bis è davvero a rischio? Ciò che è a rischio è la tenuta dell’idea - di cui sono convinto - che i fenomeni criminali organizzati siano fenomeni endemici e non occasionali. Tutto il resto, e cioè il mantenimento di strumenti adatti a contrastarli, è solo la conseguenza di questa impostazione. Molte inchieste, anche recenti, dimostrano come il carcere non riesca molte volte a fermare i contatti tra i capimafia e l’esterno... Occorre tenere presente che qualunque sistema penitenziario in una democrazia non potrà mai consistere in una segregazione assoluta dei ristretti. Dunque occorre considerare allarmanti solo quei contatti nei quali sia stato eluso il regime speciale del 41bis o si sia comunque consentito di stimolare o dirigere dal carcere attività criminose. Ci dobbiamo aspettare molte scarcerazioni? Sinceramente a breve non credo proprio, però potrebbe aprirsi un varco importante ove si sottovalutasse la caratura di personaggi di grande spessore per il solo fatto che abbiano mantenuto una buona condotta penitenziaria. Le vittime di mafia si stanno ribellando. Hanno ragione? Le vittime vanno sempre ascoltate, ma qui più che la rabbia per una scarcerazione, conta la sottovalutazione della dimensione organizzativa stabile delle attività criminose. Se cosa nostra venisse veramente sconfitta, tutto sarebbe più semplice. Non credo che un giurista possa essere lieto di una detenzione che dura irreversibilmente per tutta una vita. Da attento osservatore, secondo lei come si sta evolvendo la criminalità catanese? La mafia militare è duramente colpita da retate e processi, ma c’è quella zona grigia che pare non morire mai. È proprio la criminalità mafiosa catanese a farci comprendere la difficoltà di contrastare questo fenomeno rinunciando a strumenti penetranti. Però qui si innesta una questione importante. Il contrasto esclusivamente militare porta con se il rischio che la lotta antimafia si trasformi in una giustizia di ceto. Occorre contrastare quei fenomeni di corruzione e collusione che creano disagio sociale e generano le vocazioni al delitto. Antimafia di facciata. Pupi e pupari. Le parole usate dal gip nella sentenza Montante sono durissime. Lei si è fatto un’idea precisa di questo fenomeno chiamato Antimafia? Mi sto convincendo che l’antimafia di facciata - tenendo insieme uomini delle istituzioni e personaggi grigi - sia servita proprio a concentrare il contrasto sui fenomeni militari ed a tenere bassa l’attenzione sul concorso esterno. Se così fosse tutto sarebbe molto più inquietante e complicato. Insomma roba per menti raffinatissime. La stanza del figlio di Carlo Bonini La Repubblica, 20 ottobre 2019 La mamma di Cucchi: “Ogni giorno da dieci anni entro e parlo con Stefano. Finché avremo giustizia”. Ottobre 2009, il 31enne muore in ospedale dopo il pestaggio. Ottobre 2019: la madre Rita siede nella camera dove lo ha visto vivo per l’ultima volta e aspetta la sentenza della Corte d’assise per i carabinieri accusati dell’omicidio. “Solo poi potrò davvero elaborare il lutto”. In piedi nella stanza del figlio, Rita sfiora, accarezzandola con il dorso della mano, l’immagine di Stefano sulla credenza. Muove un passo oltre la vetrinetta con il vecchio stereo Hitachi e la mensola dei libri: I fiori del male di Baudelaire, le Poesie di Verlaine, Romeo e Giulietta di Shakespeare. Si avvicina al divano in trapunta su cui, in buon ordine, sono i peluche della sua adolescenza. Un orsacchiotto, un cuscino e un bruco biancoazzurro “Lazio ti amo”, in ricordo di una conversione calcistica in memoria e onore del nonno, che non poteva proprio immaginarlo giallorosso. Indica una sacca da palestra in un angolo in terra. “Questo è il borsone di Stefano. Quella sera l’ha lasciato qui e qui è rimasto. Io lo tiro su, pulisco, e lo rimetto dove l’ha lasciato lui”. Appesi al chiodo, per sempre, i suoi guantoni bianchi da boxe. E quelli rossi del suo amico Emanuele Della Rosa, campione dei superwelter. Il tempo, nella stanza del figlio, al sesto piano di via Ciro da Urbino 55, borgata di Tor Pignattara, si è fermato. E, martedì 22, saranno dieci anni: ottobre 2009, ottobre 2019. Rita dice che è stato ed è. “Sapere che questa è sempre la sua camera. Che posso venire qui a parlargli, cosa che faccio spesso. Che dunque non è successo davvero. Il tempo per elaborare il lutto, per dire definitivamente a me stessa che Stefano non c’è più arriverà. Ma solo quando avrà avuto giustizia. Non prima”. Sette mesi fa, a 70 anni, Rita ha scoperto di essersi ammalata. Dolori lancinanti alla schiena. “Pensavo fosse la sciatica che mi porto dietro da anni. E infatti continuavo a incollarmi il carrello e le buste della spesa. Figurarsi, ho fatto per quarant’anni la maestra all’asilo, ho cresciuto due figli. Poi Ilaria ha detto: “Mamma, ora ti controlli”. E insomma, altro che sciatica. Vabbè”. Vabbè. “Sì. Quando perdi un figlio, muori con lui. E quindi, ecco perché dico “vabbè”. Perché ogni mattina che mi sveglio ringrazio il Padre eterno che mi ha dato un altro giorno. E soprattutto penso che quello che è successo a me non è nulla rispetto a quello che hanno fatto a Stefano. Che sarà mai portare il busto, fare la chemio, i raggi? Mi hanno detto che mi opereranno tra un po’ per rimuovere la massa del tumore originario e che le metastasi sembra si siano fermate. Speriamo bene. E comunque, se anche dovesse arrivare quel giorno, so che andrò da Stefano e ci rivedremo”. Rita porta la malattia con un foulard di seta turchese che le avvolge il capo e un trucco che le illumina il volto. “Dei capelli sai che me ne importa. All’età mia, poi”, dice con un sorriso indicando il marito Giovanni che è tornato dalla farmacia. “Pensa, lui invece ha smesso di vederci da un occhio. Un’emorragia che ha danneggiato la retina. Ci siamo scelti proprio bene. Lo zoppo che aiuta lo sciancato”. I medici hanno detto a Rita che il male le covava dentro “da almeno dieci anni”. Ed è difficile non pensare a una coincidenza. “Ma no. Non lo voglio pensare. Diciamo che non lo voglio sapere”. “Nonnaaa… Nonnaaa…”. Dal tinello di casa arriva la voce di Giulia, la secondogenita di Ilaria. Anche la mattina del 22 ottobre 2009 era in casa con lei, quando un carabiniere bussò alla porta chiedendole di mettere quella bimba di un anno nel box e sedersi in cucina perché doveva consegnarle il foglio che le annunciava la morte di Stefano. Ora Giulia ha undici anni. “Nonna, ho quasi finito i compiti di grammatica”. “Lei non lo ricorda Stefano. Non può ricordarlo. Ma sa tutto. E chiede sempre. Quando vede sua madre Ilaria in tv la chiama “mamma Cucchi”. È ancora piccola, ma ha il carattere di Stefano. Sorride sempre, è allegra, generosa, educata. Chi invece parla poco è il fratello, Valerio, che adesso ha quasi 18 anni. È un modo per difendersi. E lo capisco. Erano legatissimi lui e lo zio. Stefano lo andava spesso a prendere a scuola, ci giocava. Giulia mi dice spesso se può stare nella stanza di zio Stefano. Ogni volta che li guardo, penso che Stefano sia dentro di loro”. Dice Rita che non ha nulla da rimproverarsi. Né per il dopo - “Rifarei esattamente la stessa battaglia che ho fatto in questi dieci anni” - né per il prima. “Ho sentito tante volte dire che la colpa era nostra se Stefano era morto. Perché un tossico che fine deve fare, no? Ma abbiamo fatto tutto quello che potevamo. Stefano è stato quattro anni in comunità. E io e suo padre Giovanni con lui. Perché in quei quattro anni abbiamo fatto terapia di gruppo e individuale con psicologi, assistenti sociali. Abbiamo fatto tutto, tutto. E Stefano ne era uscito. Aveva ricominciato a lavorare, aveva una casa, si era fatto i biglietti da visita. Aveva ricominciato a vivere…”. La voce di Rita si spezza. Lo sguardo si allaga di lacrime. “In verità, una cosa me la rimprovero. Quella sera che i carabinieri arrivarono qui con lui per la perquisizione dopo averlo arrestato, non dovevo farlo portare via. Non dovevo. È morto per venti grammi di hashish”. È l’ultima immagine che ha di Stefano. Quella che continua a perseguitarla. Persino più di quella dello scempio del corpo in obitorio. “Ricordo che, dopo la perquisizione, accostarono la porta di questa stanza e io, qui dal corridoio, guardando oltre lo stipite, vidi che gli giravano le braccia dietro la schiena. Mentre lo portavano via mi disse: “Stai tranquilla, ma’. È tutto a posto. Non succederà niente”“. Dal giorno in cui, in udienza al processo, il carabiniere Francesco Tedesco ha raccontato la violenza del pestaggio sul corpo di Stefano, quell’immagine si accompagna a una sensazione. “Solo una madre può provare nel proprio corpo il dolore inflitto a un figlio. E quando parlo di dolore, parlo di dolore fisico. Ascoltando Tedesco ho sentito la mia nuca battere sul pavimento. La mia faccia esplodere colpita dai calci. La mia schiena spezzarsi. Il suo stesso dolore. Che è poi il motivo per cui, quando tutto cominciò, non volevo in nessun modo che fossero mostrate le foto di Stefano all’obitorio. Allora pensavo che fosse un ultimo inutile oltraggio mostrare il mio Stefano come mai lui avrebbe voluto. Lui che si cambiava tre volte al giorno. Che si faceva la doccia mattina e sera. Avevo torto. Quelle foto hanno cambiato il corso degli eventi. Ma, appunto, era ed è una questione di dolore. È una madre e il corpo di suo figlio. Quello che ha portato in grembo. Non credo si possa spiegare solo con le parole”. È vero, forse non si può spiegare. Anche perché, se c’è una condanna peggiore di sopravvivere a un figlio, è quella di ascoltare in quali tormenti e in quale abisso di umiliazione lo si è perso. “Mi ha aiutato la fede in Dio. Mi ha aiutato la comunità di Santa Giulia, la nostra parrocchia. Mi hanno aiutato le migliaia di italiani che non hanno smesso di scriverci, di non farci sentire mai soli. Anche per questo la battaglia di verità e giustizia per Stefano è anche e soprattutto per loro. Perché non debba accadere ancora. A qualcun altro. Solo così la morte di Stefano avrà un senso. Se un senso può avere il morire ragazzi”. Dice ora Rita che non ha mai perso la fiducia nello Stato. Anche quando la montagna da scalare le è apparsa insormontabile. “Dopo il verdetto di assoluzione in primo grado, Ilaria mi prese da una parte e mi disse: “Mamma, abbiamo vinto”. Non capivo. “Come abbiamo vinto? Ma se non ci sono responsabili?”. Aveva ragione. Avevamo vinto perché la giustizia doveva ancora trovarli. E lo ha fatto. Grazie a quel santo del procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. E a quel pm, Giovanni Musarò, santo come lui. Si, non esagero. Santi. Come devo chiamarli?”. Neanche nei confronti dell’Arma riesce a provare risentimento. Neanche di fronte allo spettacolo di ufficiali, generali di brigata e di corpo d’armata visti sfilare muti o farfuglianti in aula per giustificare un depistaggio della verità durato anche questo dieci anni. “Dico anche a loro quello che ho detto dall’inizio. Chi sa parli. Perché non è giusto che pochi debbano infangare il lavoro e il sacrificio di migliaia di uomini in divisa”. È sera. Bussano alla porta. Ilaria è tornata a prendere Giulia. Rita la bacia e la guarda come fosse ancora una ragazzina. “Vuoi qualcosa per cena da portarvi a casa? Guarda che ho fatto il sugo che piace a tutte e due”. Poi, rientra nella stanza del figlio per sistemare il cestino di fiori di plastica che fa da centrino sul tavolo. Accosta la porta del bagno. Con la mano sulla maniglia, chiede come andrà a finire il 14 novembre, quando la Corte di assise, di fronte alla quale sono imputati di omicidio i carabinieri che le hanno portato via Stefano, pronuncerà la sua sentenza. Sulla porta del bagno è un ritaglio ingiallito di un giornale americano che Stefano aveva attaccato come una reliquia. L’annuncio dell’incontro tra Mike Tyson e Trevor Berbick che, il 22 novembre 1986, avrebbe incoronato il primo, a soli 20 anni, campione del mondo dei pesi massimi. The judgment day, il Giorno del giudizio, strilla il titolo. Rita lo chiede ancora una volta: “Dai, dimmelo sinceramente: come andrà a finire secondo te il giudizio?”. E sorride. Toscana. Corleone: “Sui problemi delle carceri primi riscontri positivi grazie al digiuno” gonews.it, 20 ottobre 2019 “Dopo tre giorni di digiuno che, com’è stato per quello a cui mi sono sottoposto nel luglio scorso, ha il senso di richiamare l’attenzione di tutti sulla assoluta mancanza di prospettiva sui molti problemi irrisolti nelle carceri toscane, posso dire che l’obiettivo è in dirittura d’arrivo”. Lo dichiara il Garante dei detenuti della Toscana, Franco Corleone, che motiva la sua “previsione ottimistica” sulla base dei riscontri positivi ottenuti nel corso dell’audizione svolta dalla commissione regionale Sanità sulla vicenda del carcere di San Gimignano e sulla base dei contatti informali con il Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria, Antonio Fullone, “che, pregandomi di sospendere lo sciopero della fame, mi ha preannunciato risposte definitive sui problemi aperti per martedì prossimo, in occasione dell’appuntamento pubblico in cui presenterò il bilancio di fine mandato”. Corleone, il cui mandato iniziato nel 2013 scadrà il 26 ottobre prossimo, presenterà il resoconto dell’attività martedì 22 ottobre alle 9,30 nella sala Gonfalone del palazzo del Pegaso. I saluti iniziali saranno portati dal Difensore civico della Toscana, Sandro Vannini, e dalla Garante per l’infanzia e l’adolescenza, Camilla Bianchi. Nella stessa mattinata sarà presentata anche una ricerca, curata dalla Fondazione Michelucci, dal titolo “Impatto della legge sulle droghe nelle carceri toscane”. A introdurre questa parte dei lavori sarà il presidente del Consiglio regionale, Eugenio Giani. “Quello di martedì - spiega Corleone - sarà un appuntamento a cui prenderanno parte anche il Provveditore regionale, gli operatori del sistema carcerario e le associazioni. In considerazione della situazione del mondo del carcere, della quale non può farsi carico solo la mia persona o chi prenderà il mio posto, chiederò a tutti questi attori un impegno straordinario per portare a soluzione i problemi aperti”. Nello specifico, i temi aperti sono i seguenti: i lavori non ancora conclusi per la sezione femminile di Pisa; la seconda cucina per la sezione penale del carcere di Sollicciano; i lavori propedeutici per il Teatro del carcere di Volterra; altri interventi vari nel penitenziario di Volterra; la cucina per la sezione di Alta sicurezza del carcere di Livorno; la definizione del ruolo del direttore a San Gimignano; le infiltrazioni di acqua nel carcere di Massa; l’approvazione di cambio di destinazione del Gozzini, che potrebbe in futuro ospitare la sezione femminile di Firenze; la sezione trattamentale a Lucca; la chiusura ancora da definire del carcere di Grosseto; l’apertura della sede per la semilibertà a Pistoia; la Casa della semilibertà a Firenze e il progetto Icam per le detenute con figli. Rispetto alla soluzione di questi punti il Garante dei detenuti della Toscana prevede “ancora tre mesi di lavoro intenso”, mentre nel giro di poche settimane dovrebbe essere nominato il nuovo Provveditore regionale, chiudendo così l’incerta fase di proroga dell’attuale Provveditore. “Ciò che sta succedendo nelle carceri è vicino al punto di non sostenibilità - afferma Corleone - e per far sì che tutti, detenuti e operatori, vivano meglio è necessario riaffermare l’esperienza dei valori costituzionali e dei diritti e della dignità umana. Il mio digiuno, che valuterò se interrompere dopo la giornata di martedì prossimo, muove proprio da queste necessità e mi fa piacere aver ricevuto solidarietà e apprezzamento dal segretario di un importante sindacato degli operatori penitenziari. Non serve la demagogia. Del resto, nel vangelo si legge ‘visitate i carcerati’ e io mi attengo a questo dettato”. Empoli (Fi). A primavera apre la Rems per pazienti psichiatrici di Luca Serranò La Repubblica, 20 ottobre 2019 Arriveranno in primavera i primi nove pazienti della Rems (residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza) di Pozzale, a Empoli. L’annuncio arriva dall’Asl Toscana Centro. L’apertura, viene spiegato, era prevista per il dicembre prossimo ma “è slittata per motivi indipendenti dalla volontà aziendale”. I tempi per la prima fase dei lavori di trasformazione dell’ex carcere femminile in struttura che accolga pazienti psichiatrici che hanno commesso reati, fanno sapere ancora dall’azienda sanitaria, sono stati comunque rispettati. “La seconda fase sarà avviata a struttura funzionante e riguarderà due aree abitative poste al piano terra, destinate a ospitare tre donne e otto uomini per portare la struttura alla sua massima capienza di 20 posti”. Agrigento. Il pm Patronaggio indaga sulle condizioni di vita nel carcere di Petrusa Il Fatto Quotidiano, 20 ottobre 2019 La Procura di Agrigento accende i riflettori sul carcere “Petrusa” di piazza Di Lorenzo. Dopo l’ispezione dello scorso agosto nella casa circondariale di una delegazione del Partito radicale guidata da Rita Bernardini il procuratore Luigi Patronaggio ha aperto un fascicolo, al momento a carico di ignoti, sulle condizioni di vita all’interno della struttura. I Radicali, infatti, hanno presentato un dossier al Dap e al garante denunciando violenze ai danni dei detenuti, in particolare all’interno del reparto di isolamento. Martedì scorso lo stesso procuratore Patronaggio, insieme ai carabinieri, ha effettuato un’ispezione in carcere eseguendo riprese video e fotografiche. Il materiale raccolto verrà esaminato per l’ulteriore sviluppo delle indagini. Nello stesso carcere gli agenti di Polizia penitenziaria denunciano “il persistente stato di criticità organizzativa, soprattutto legato all’esiguo numero di poliziotti in servizio”. La provocazione - Sono state le oltre cento richieste di trasferimento in poche settimane avanzate dagli uomini della penitenziaria in servizio al carcere “Petrusa”. Ivrea. Ispezione del Garante regionale dei detenuti nel carcere eporediese quotidianocanavese.it, 20 ottobre 2019 Il garante dei detenuti della Regione Piemonte, onorevole Bruno Mellano, e la garante comunale Paola Perinetto, martedì in comune Ivrea hanno incontrato l’amministrazione eporediese rappresentata dal sindaco Stefano Sertoli e dall’assessore alle politiche sociali Giorgia Povolo. Mellano ha sottolineato l’importanza del garante comunale nell’ottica del Coordinamento regionale che sovraintende. Il Piemonte è infatti l’unica regione d’Italia in cui ogni Comune sede di carcere è dotato di un garante comunale. In particolare il colloquio è stato incentrato sulle prossime attività previste dal progetto sui cantieri di lavoro dei detenuti che vede coinvolti, oltre che i garanti e gli uffici regionali, anche le amministrazioni locali interessate a dare opportunità di lavoro e inserimento ai detenuti giunti alla fine della loro pena. Le attività dei cantieri di lavoro possono riguardare numerosi ambiti, da rimboschimento e sistemazione montana, alla costruzione di opere di pubblica utilità, piccola manutenzione del patrimonio pubblico agli interventi nel campo dell’ambiente, dei beni culturali, del turismo e di altri servizi pubblici. I progetti possono essere integrati con percorsi di formazione. Le risorse regionali stanziate ammontano a 456mila euro che saranno corrisposti direttamente ai Comuni che attiveranno progetti sul proprio territorio. Il garante regionale e il garante comunale, in mattinata e nel primo pomeriggio, avevano effettuato una visita ispettiva alla casa circondariale di Ivrea e realizzato alcuni colloqui individuali con i reclusi. Modena. Il lavoro dell’associazione Porta Aperta: “così diamo speranza ai detenuti” di Valentina Reggiani Il Resto del Carlino, 20 ottobre 2019 Superare lo status di carcerato e rifarsi una vita. L’associazione Porta Aperta cerca di dare una speranza. “La nostra associazione - spiega il presidente Luca Barbari - si occupa di rispondere ai bisogni primari delle persone in condizione di povertà e disagio sociale, condizione che si ritrova nella maggior parte dei detenuti o internati. Ciò che offriamo loro è la possibilità di inserirsi all’interno delle tante attività di volontariato presenti nei servizi erogati da Porta Aperta e cogliere questa opportunità per riattivarsi sia fisicamente che psicologicamente alla vita di comunità. È importante continuare ad accogliere e offrire opportunità di reinserimento sociale a chi vive ai margini, come appunto i detenuti, gli internati e chi ha finito di scontare un pena e si ritrova senza punti di riferimento nella società e in condizioni di indigenza. Riteniamo infatti che la pena debba tendere alla rieducazione del condannato, come prevede la Costituzione, e che il volontariato possa giocare un ruolo fondamentale nel creare seconde occasioni e opportunità per ricominciare una vita nella comunità”. Le attività di volontariato che vengono proposte spaziano dalla preparazione pasti per gli utenti della nostra mensa alle piccole attività manuali presso le strutture associative. Nel corso degli anni, in media dalla Casa Circondariale di S. Anna accogliamo 45 persone all’anno per lunghi periodi, almeno 69 mesi, e dalla Casa di Reclusione di Castelfranco circa 10 internati all’anno presenti all’interno della nostra organizzazione con periodo di presenza variabili. Da gennaio 2019 ad oggi, Porta Aperta ospita o ha ospitato all’interno delle proprie attività 7 persone che hanno svolto attività di volontariato nelle varie attività dell’associazione. Bari. Una “Mens Sana” per chi è in cella, così la scrittura sta recuperando 104 detenuti di Angela Balenzano Corriere del Mezzogiorno, 20 ottobre 2019 Il successo terapeutico del progetto dell’Università di Bari. A fine corso carcerati meno depressi e aggressivi. Valutare il grado di disagio, l’ansia, la depressione e diminuire il rischio di suicidi. E restituire alla società una persona veramente cambiata. In grado di misurarsi più serenamente con il mondo esterno e con la capacità di lasciarsi alle spalle i traumi passati e soprattutto la tentazione di tornare a delinquere. È ambizioso il progetto di scrittura espressiva “Mens Sana” (acronimo di Metodo narrativo sperimentatale di Scrittura autobiografica, Nosologia e Analisi) che parte dall’Università di Bari (gemellato con la New York University) che testa le condizioni psicofisiche dei detenuti. Partendo dalla premessa che tra di loro si registrano anche casi di persone con problemi mentali e che i traumi, in particolare, amplificano il rischio della recidiva. A coloro che hanno partecipato (104 in tutto) in maniera volontaria, è stato chiesto di mettere nero su bianco le loro emozioni, i ricordi del passato, i traumi, o, molto più semplicemente, i momenti quotidiani vissuti in carcere. Lo hanno fatto per 4 o 5 giorni scrivendo al massimo per venti minuti. L’invito è stato quello di scrivere in privato nella loro cella. Prima di intraprendere questo percorso sono stati misurati i loro livelli di ansia, depressione e aggressività e i risultati finali sono stati sorprendenti. Alla fine del percorso di scrittura espressiva le loro condizioni psicofisiche erano nettamente migliorate. A conferma di questo i test e le valutazioni fatte da un team di esperti. Il progetto è in sostanza un nuovo manuale di trattamento che è partito dal carcere minorile di Bari e poi è approdato negli altri istituti di pena pugliesi. L’idea è nata da una sperimentazione del sociologo texano James Pennebaker che risale a una trentina di anni fa, ma che ha confermato l’efficacia del modello terapeutico a basso costo e ad alta incisività. Nel ruolo di ricercatrice Lidia de Leonardis, dirigente penitenziario del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), in passato alla direzione del carcere di Bari, che ha sviluppato il progetto. “Durante il lavoro svolto in carcere sono arrivata alla convinzione che dovremmo cambiare alcune modalità di trattamento e trovare soluzioni che siano molto più specialistiche per restituire alla società persone migliori. Un trattamento efficace deve partire da un miglioramento delle condizioni psicofisiche. I sentimenti di ansia, depressione, aggressività che sono appartenuti ad un passato criminale spesso di amplificano durante la carcerazione - spiega la ricercatrice - e per valutare la validità di questo progetto siamo partiti proprio dalla misurazione di questi sentimenti prima e dopo le giornate di scrittura e devo dire che i risultati sono stati interessanti. È stata accertata una riduzione di quei sentimenti negativi e, grazie alle informazioni ottenute, abbiamo avuto la possibilità di intervenire e creare un percorso anche di tipo riabilitativo. D’altra parte bisogna ragionare in termini di sicurezza pubblica - spiega ancora de Leonardis - la persona che ha scontato la sua pena deve rientrare nella società ma non prima di essere “trattato”, altrimenti è socialmente pericoloso. Non possiamo fare sicurezza se non badiamo ad un reinserimento serio. La persona alla quale non abbiamo dato strumenti né di tipo personale né di tipo sociale al 90 per cento tornerà a delinquere. E questo progetto di scrittura espressiva, peraltro a basso costo, può funzionare. L’idea - conclude - è quello di estenderlo a tutti gli altri istituti di pena e, con un minimo di formazione agli operatori, può funzionare. L’equipe del professor Pennebaker che nel 1998 condusse la ricerca su un gruppo di detenuti di un istituto di massima sicurezza, ottenne risultati eccezionali. Soprattutto con i sex offender”. A supervisionare il progetto e ad analizzare i risultati finali è stata Antonietta Curci, professore ordinario di Psicologia generale e Metodologia della ricerca psicologica dell’Università di Bari. “La prima cosa che abbiamo fatto è stata quella di prendere in considerazione la personalità dei soggetti che vivono peggio il contesto carcerario - ha spiegato la docente - e dopo le misure di ingresso abbiamo fatto loro raccontare per quattro giorni di seguito le esperienze traumatiche. Li abbiamo lasciati completamente soli e liberi di scrivere. In effetti c’è stato un miglioramento e per noi è stato un risultato molto importante. Ci ha fatto capire che per queste persone non c’è una vera presa in carico, da un punto di vista psicologico sono abbandonate - aggiunge la docente -e invece hanno bisogno di parlare, di essere ascoltate. Altrimenti le restituiamo alla società così come sono entrate. O anche peggio. Il nostro è un progetto di reinserimento del detenuto nella società e ci auguriamo che i risultati siano un punto di partenza anche a livello di politica penitenziaria” conclude la professoressa Curci. Sassari. I pensieri dei detenuti liberi dalle sbarre attraverso il teatro La Nuova Sardegna, 20 ottobre 2019 La prima impressione è stata di stupore: “No, non credevo proprio che sarei riuscito a conversare con ragazzi così giovani. Sono un’altra cosa rispetto ai giovani che conservavo nella memoria”. Mario (nome di comodo) ha passato gran parte della sua vita in carcere. Ne dovrà passare ancora una parte: “L’ultima dice lui, per poi riprendermi la mia vita in mano”. Mario è uno degli autori del libro “La luna del pomeriggio”, frutto della partecipazione al gruppo di scrittura creativa, organizzato da Giovanni Gelsomino, che da cinque anni si tiene nella Casa di Reclusione Pittalis, il carcere di alta sicurezza di Nuchis. È uno dei 150 reclusi che arrivano dal meridione: Sicilia, Calabria, Puglia e Campania. Il libro sarà messo in scena il 23 e 24 ottobre al Teatro Verdi di Sassari (la prevendita dei biglietti è già cominciata). La regia è opera dell’esordiente Simone Gelsomino, laureando in scenografia all’Accademia delle Belle Arti di Urbino. Suo anche, col contributo di Luisanna Cuccuru, l’adattamento dei testi. Mario, grazie a un permesso del magistrato, ha potuto incontrare gli attori e quanti con la loro disinteressata collaborazione rendono possibile lo spettacolo (nella foto l’incontro tra autore e attori). “Non pensavo - dice ancora Mario - che le nostre riflessioni avrebbero suscitato tanto interesse. Ovviamente questo fa piacere a me e a quanti in un anno e mezzo di lavoro hanno contribuito alla realizzazione del libro. Un libro che consiglio ai giovani di leggere, nelle pagine c’è molto dolore perché abbiamo chiara la consapevolezza di ciò che abbiamo fatto e quello che abbiamo perduto, io sono in carcere da quando avevo 28 anni, ma sono tantissimi quelli che ci arrivano a venti e poco più. C’è nelle pagine del libro il dolore per quello che abbiamo dovuto lasciare, abbiamo chiara la consapevolezza che per molti, molti anni abbiamo smesso di vivere. C’è gente nel nostro carcere che non esce da 35 anni. E ce ne sono molti, troppi, che usciranno nel 9999, vale a dire mai. Io pago per quello che ho fatto ed è giusto così”. “Il progetto - spiega Simone Gelsomino - nasce per lo più dall’esigenza di raccontare una realtà solo apparentemente lontana, un luogo sospeso nel tempo, congelato, separato da noi (le nuove carceri compresa quella di Nuchis sono costruite in aperta campagna) e di cui si vuole conoscere il meno possibile. Nel 1983, in Palomar, Italo Calvino scriveva: “La luna del pomeriggio nessuno la guarda, ed è quello il momento in cui avrebbe più bisogno del nostro interessamento, dato che la sua esistenza è ancora in forse”. Questa frase, nella sua potenza, dà il senso, oltre che il nome, al lavoro che si sta svolgendo fuori e dentro il carcere. I temi sono tanti noi li vogliamo rappresentare con l’ambivalenza e la complessità che li caratterizzano. Non è casuale che le scene si svolgano in luoghi indistinti, in sogni e ricordi sbiaditi, come contesti surreali nei quali si possono trovare anche i più spontanei gesti del quotidiano”. Per i 18 attori (età compresa tra gli 11 e gli 82 anni) e per i più stretti collaboratori è stato un incontro-lezione che ha consentito a più di uno di ripensare in modo diverso qualche luogo comune di troppo sul carcere in Italia. Bologna. Mauro Bergamasco e il rugby dietro le sbarre Corriere di Bologna, 20 ottobre 2019 Partita speciale della squadra della Dozza con l’azzurro: contro i cinghiali del Setta. I “Gialli” del carcere della Dozza parteciperanno al campionato ufficiale federale di rugby. “La palla ovale rimbalza in modo strano. Quando succede si deve correre per recuperare”, è il messaggio di Bergamasco, ex capitano dell’Italrugby, recapitato ieri di persona ai detenuti dell’istituto bolognese. Nel rugby si vince solo avanzando tutti insieme. Alle spalle tutta la squadra e davanti la meta. “Ma la palla ovale rimbalza in modo strano. Ci sono rimbalzi falsi nel rugby come nella vita e quando succede devi correre per recuperare”. A dirlo è Mauro Bergamasco, allenatore d’eccezione dei Giallo Dozza, la squadra dei detenuti del carcere iscritta al campionato ufficiale della Federazione Italiana di rugby, in C2. Ieri doveva giocarsi la prima di campionato ma complice il ritiro della squadra ospite, alla Dozza, l’ex capitano della Nazionale, ha guidato i Giallo per la partita amichevole contro i Cinghiali della Setta, dominati 28 a 5. L’avventura rugbistica della Dozza inizia nel 2014, quando Francesco Paolini, presidente del Bologna rugby, propone di creare una costola della società bolognese all’interno del carcere. L’ispirazione arriva da Pietro Buffa, a quel tempo direttore del carcere di Torino, dove aveva visto la luce la squadra La Drola, nel 2011. I Giallo stanno per iniziare il loro sesto campionato, hanno disputato 83 incontri riuscendo a raggiungere il terzo posto lo scorso anno. “Loro sono avvantaggiati, giocano sempre in casa”, scherza Matteo Carassiti, socio di Illumia, sponsor della squadra. Ma i risultati più importanti arrivano grazie al valore delle relazioni umane: il tasso di recidiva dei 200 detenuti coinvolti nel progetto dal 2013, con pene dai 4 anni all’ergastolo, è pari allo 0,5%. Ogni anno la squadra cambia. Arrivano sempre volti nuovi: moldavi, romeni e soprattutto albanesi. Ma ci sono anche i veterani. “È un cartellino giallo che ci ha portato qui ma vogliamo scontare questa ammonizione e tornare in campo”. Fabrizio è il mediano di mischia dei “gialli”, il ruolo più importante perché crea il gioco, il collegamento verso la meta. “Questo è il mio ultimo anno, ho 42 anni il limite d’età per la federazione. Chiederò di continuare come allenatore o vice. Voglio proseguire per i ragazzi più giovani, mi piace spronarli a dare il meglio”. Fabrizio resterà alla Dozza ancora per un po’, ha già trascorso dieci anni dietro le sbarre ma ha un ergastolo da scontare. “Non posso più tornare indietro, ho sbagliato. Ma guardo al futuro, quando esco di qui voglio una famiglia”. Giocando in squadra ha imparato a conoscere i suoi compagni: “Il ricordo più bello? All’inizio non ci conoscevamo, le nazionalità erano diverse e tante. Pensare di fare un ruck (ndr mischia a 15) tutti insieme mi sembrava impossibile. E invece è successo. Se si può fare nel rugby si può fare anche fuori”. Per il capitano della squadra, Andy “crescere insieme in un gruppo è la cosa più importante in carcere perché ci si sente molto soli”. Come il resto della squadra, Andy, 32enne albanese, non aveva mai giocato a rugby: “Mi piace tutto di questo sport: il sostegno, l’aiuto del prossimo. Dare la mano all’avversario a fine partita è la cosa più bella. Non vale il muro contro muro, si fa pace e basta”. Stefano Cavallini, il presidente, osserva i ragazzi a bordo campo: “Li ho visti cambiare tanto all’inizio erano uno contro tutti, adesso sono una squadra”. Alla Dozza, il carcere non è solo sorveglianza e punizione. Fine vita. I medici: non daremo mai la morte La Repubblica, 20 ottobre 2019 Posizione ufficiale della Consulta della Fnomceo (Federazione nazionale degli ordini dei medici). “Non si abbandona il paziente”. “Il medico non abbandonerà mai a se stesso il paziente, assicurerà sempre le cure si palliative per contenere il dolore sino alla sedazione profonda e sarà presente fin dopo il decesso, che certificherà, ma non compirà l’atto fisico di somministrare la morte”. Così, il presidente della Fnomceo (Federazione nazionale degli ordini dei medici), Filippo Anelli, riassume la linea emersa a Parma all’interno della Consulta di Bioetica della Federazione dopo la recentissima sentenza della Corte Costituzionale che si è pronunciata sulla non punibilità dell’aiuto all’interruzione della vita in situazione di grave sofferenza personale, fisica da malattia ad esito infausto, riguardo al caso Cappato Dj Fabo. La posizione verrà portata all’attenzione del Consiglio nazionale dei 106 presidente degli ordini locali prevista a novembre. “Il medico ha per missione quella di combattere le malattie, tutelare la vita e alleviare le sofferenze. Quello del suicidio assistito è quindi un processo estraneo a questo impegno. Un compito ricco di un’esperienza millenaria ma anche moderna poiché incarna nell’agire professionale i principi della Costituzione (Art. 32 in primis). Siamo in una società pluralista e la nostra posizione è quella di curare tutti senza discriminazione alcuna secondo scienza e coscienza, a prescindere da credi religiosi, filosofici, culturali, rispettando il diritto del cittadino all’autodeterminazione anche nei casi di suicidio, così come previsto dalla Corte Costituzionale. Ma se è un alto diritto la possibilità di scegliere autonomamente e liberamente sulla propria salute, assicurata dall’obiezione di coscienza, lo stesso principio deve poter valere anche per il medico che si considera fermo sostenitore della tutela della vita”, sostiene Filippo Anelli. “Quindi si vuole certamente rispettare la volontà di chi decide di porre fine alla propria esistenza ritenuta troppo penosa e non più degna di essere prolungata, nei limiti previsti dalla Corte Costituzionale, ma si chiede anche di lasciare la nostra categoria estranea a questo atto suicidario. Il medico non abbandonerà mai a se stesso il paziente, assicurerà sempre le cure si palliative per contenere il dolore sino alla sedazione profonda e sarà presente fin dopo il decesso, che certificherà, ma non compirà l’atto fisico di somministrare la morte”, continua Anelli. E chi lo aiuterà a morire? “Una legge dello Stato dovrà trovare una terza persona (come ad esempio un pubblico ufficiale) per raccogliere la volontà suicidaria, e quanto a chi fisicamente aiuterà il malato a morire, forse è ragionevole supporre che debba essere il paziente stesso a poterlo decidere, a scegliere ad esempio un fratello, il coniuge, un genitore, ma non il medico, a meno che non lo faccia nella posizione di amico o parente del richiedente, non certo nel ruolo di professionista della salute”, conclude Anelli. Caporalato al Nord, cambia il padrone ma gli schiavi sono sempre gli stessi di Lorem Ipsum* Corriere della Sera, 20 ottobre 2019 Sfruttamento, condizioni da miseria, ricatti; dove i braccianti sopravvivono a stipendi da fame stipati come bestie da soma in una ex caserma del Comune. Viaggio tra i migranti di Saluzzo. Il peccato originale è una mela. Rotolata fin qui dall’Australia, o forse lasciata scivolare da un dio dispettoso per ingarbugliare le stagioni. È ancora estate, nonostante il mese, i colori delle foglie gialle e arancioni, nonostante il vento tagliente, la pioggia, il ghiaccio, la neve. È ancora estate: è tempo di raccolta. Un eterno agosto che aggiunge un’altra tappa a questo Giro d’Italia, e nuove maglie, gialle e arancioni: sono il nuovo rosa. Saluzzo, provincia di Cuneo, anno 2019, stagione chissà. Se la mela che vi guarda dalla tavola è di origine italiana, potrebbe venire da qui. Siamo in Piemonte, uno dei più grandi punti di raccolta di frutta dell’intero Paese: 12mila ettari coltivati, oltre 4500 aziende attive. Qui tutti sanno come si coglie una mela, sempre con il medesimo gesto, quello della lampadina, che nel linguaggio italiano dei gesti significa pazzia, oppure furto, o anche solitudine, se lo fai stringendo le dita. Sì, chi qui lo ripete, dall’alba al tramonto, rischia di impazzire, derubato di ogni dignità, lasciato solo, in una battaglia persa. “Partiamo tutti i giorni all’alba in bicicletta, facciamo molti chilometri prima di arrivare al nostro campo, poi stiamo lì a raccogliere fino a sera, e ritorniamo a Guantánamo”, così hanno ribattezzato il centro in cui stanno stipati a centinaia. Mamadou in effetti è tutto arancione, anche i pantaloni, è fluorescente dalla testa ai piedi e qualcuno scherzando lo chiama il Pompiere. Ma per queste dritte strade che tagliano le coltivazioni sconfinate, è meglio stare attenti e rendersi il più possibile evidenti. Anche se per quanto sfrecci con la fretta del Nord, è difficile non vedere queste colonne umane di ciclisti che ogni mattina ricominciano la gara, senza vincitori. Non immigrati, ma migranti. Perché da quando sono arrivati non hanno mai smesso di pedalare, da Rosarno a Saluzzo, inseguiti da un clima bastardo. È l’esercito dei cosiddetti “braccianti”, ma muovono un sacco anche le gambe. Arrivano qui d’estate per coltivare pesche, mele, kiwi e, da qualche tempo, piccoli frutti, prevalentemente mirtilli. E ogni volta che qualcuno si inventa una nuova varietà più resistente, la stagione si allunga. Così oggi si raccoglie anche fino a novembre, quando a queste latitudini nevica. Per Coldiretti “i raccoglitori di frutta in Provincia di Cuneo sono poco meno di 10.000, tra italiani e stranieri, di cui 4.000 di origine africana”. E poi aggiunge: “Il loro lavoro, di tipo stagionale, è indispensabile per il Made in Cuneo della frutta che, senza il contributo di migliaia di lavoratori stranieri, sarebbe a rischio”. “Il loro lavoro di tipo stagionale” è in realtà un tour che inizia d’inverno al Sud, la tappa di Rosarno è quella delle arance e dei mandarini, poi passa nel Cuneese, d’estate, per le pesche e le mele, ma la stagione si allunga. E per qualcuno nelle Langhe c’è la vendemmia per vini che verranno venduti fino a 50 euro a bottiglia, mentre il bracciante, quando gli va bene, ne prende meno di un decimo l’ora. E si ricomincia, senza mai finire. “Che ti devo dire? La vita non è facile, ma almeno qua non mi ammazzano”, ecco l’impeccabile sintesi di Max. Come il nome che si dà: se gli chiedi quello completo aspetta che sbarri gli occhi e poi ti ripete “Max”. Vent’anni, gambiano, cuffiette agli orecchi, al collo una medaglietta della sua Africa e il cappello rosso sempre in testa. Dice che non se lo toglie mai, neanche per dormire. Non se l’è tolto neanche la notte dei fuochi d’artificio per la festa patronale di San Chiaffredo, men che mai le cuffiette collegate al telefono teso a riprendere lo spettacolo pirotecnico. Come lui tutti, smartphone alla mano, sono collegati con le famiglie per mostrargli che belle feste si fanno in Italia. I saluzzesi in realtà si tengono a debita distanza da loro, ma che importa, un motivo per festeggiare lo trovano lo stesso. “Ciao Salvini!”, “Italia 1, Salvini 0”, e giù esplosioni di fuochi e risate. E immortalano quei disegni artificiali mentre con artificio nascondono quello che c’è alle spalle. Letteralmente. Si chiama Pas, ovvero Prima Accoglienza Stagionali, ovvero Guantánamo. Un campo recintato, con una caserma convertita in dormitorio per contenere l’ondata di stagionali. Ma trabocca, e appena fuori dal Pas c’è anche un campeggio di fortuna, le tende strette l’una all’altra: è il Foro Boario. “Sempre meglio qui che a Rosarno - dice Max - là per qualsiasi cosa devi chiedere il permesso alla criminalità”. Dentro però sono organizzati. Due grossi specchi sono l’arredamento senza stanza di due barbieri concorrenti: la sera c’è spesso fila e tante teste da sistemare. Poi c’è il sarto per rammendare i vestiti usurati dal lavoro, il bibitaio per chi vuole concedersi il lusso di una bevanda fresca, persino uno sciamano, per chi vuole controllare se il suo futuro sta migliorando. E poi c’è Sissoko, copricapo bianco e ossa troppo rotte per stare ancora sui campi: qualsiasi cosa puoi immaginare lui può vendertela, o almeno così dice, e offre addirittura uno strano intruglio per notti focose. Ma qui di donne non ce ne sono. “Quando rientrano la sera, tutti i negozi sono chiusi. Si sono organizzati così, con un grande spirito di comunità”, spiega Fabio Chiappello, educatore della cooperativa Armonia che ha in gestione la struttura. Loro sanno che le condizioni non sono adeguate, ma almeno è qualcosa. Nella caserma c’è spazio a malapena per camminare tra i 368 posti per dormire, letti a castello naturalmente. Nel piazzale c’è qualche container con dentro le docce e i bagni, pochissimi, spesso intasati, perché qui vengono per lavarsi e per i propri bisogni almeno altre 350 persone da fuori dal Pas. L’ex caserma è stata ristrutturata nel 2018 dal Comune di Saluzzo, con il contributo della Regione Piemonte. L’acqua, il gas e gli altri servizi vengono coperti dalle donazioni volontarie delle aziende e da una quota fissa, 20 euro al mese, versata da ogni migrante. Gli ospiti sono solo maschi, la maggior parte under 35 e originari dell’Africa subsahariana. Quasi tutti musulmani, si radunano nel piazzale del dormitorio, dove hanno allestito un’area per la preghiera con i tappeti rivolti alla Mecca, e ai cessi del Pas. Pregano tra i vestiti messi ad asciugare a terra, perché sui fili non c’è spazio per tutti. Eccole qua le ruote dell’economia agricola del Saluzzese, ma nessuno vuole concedergli in affitto la propria casa. E comunque, in molti non potrebbero permettersela. “Prima gli imprenditori erano obbligati per legge a trovare un tetto ai lavoratori stagionali - dice il sindaco di Saluzzo Mauro Calderoni - Ora che non è più così si è generato il caos: immaginate cosa significhi per una cittadina di 17mila abitanti l’arrivo di mille persone che non sanno dove andare a dormire la sera”. Un’impasse che negli anni ha spinto i braccianti a occupare strutture dismesse, poi smantellate. L’area del Foro Boario, fuori dal centro, era diventata l’unico rifugio possibile per centinaia di persone. Una baraccopoli di tendoni, teli di plastica e materiali di fortuna, sprovvista di acqua e ogni altro servizio. Così è nato il Pas, da un Tavolo di lavoro tra i rappresentanti di diverse istituzioni locali, sindacati e terzo settore. Ma non è sufficiente. E ancora oggi in molti si trovano a dormire fuori, lungo il vialone del Foro Boario, nelle tende fornite da Caritas, Cgil e Cisl. “Noi ce la mettiamo tutta ma da soli non ne usciamo vivi, non possiamo stare con l’ansia che appena piove per più di un giorno la situazione degeneri”, si sfoga il primo cittadino, evocando quanto successo lo scorso luglio, quando dopo due giorni di pioggia incessante, un corteo di migranti ha bloccato il traffico nelle strade del centro per rivendicare a gran voce il diritto a una sistemazione degna. C’è anche però chi preferisce dormire per strada piuttosto che in uno stanzone da condividere con altre centinaia di persone. Issa, lo chiamano Il Ciclista, ogni anno allestisce un’officina arrangiata davanti alla sua tenda: qui è il medico di un migliaio di biciclette, il mezzo fondamentale attorno a cui tutto gira, indispensabile per raggiungere i frutteti, e lui è capace di resuscitare ogni ferro vecchio. Ciascuna ruota gli ricorda la sua famiglia in Gambia, dove aveva un’officina insieme ai suoi fratelli. A Saluzzo adesso lavora nei campi il minimo per ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno. E proprio questo pezzo di carta è allo stesso tempo scopo e cappio al collo dei migranti: basta un giorno in meno e non hai più diritto di stare in Italia. E non contano quelli che hai effettivamente lavorato, ma solo quelli che figurano. “Magari lavori 26 giorni al mese, ma nella busta paga ne risultano 13, che fai? Ti ribelli e passi per il rompicoglioni di turno così poi nessuno ti prende più a lavorare?”, cosa rispondere al Ciclista? Issa è solo uno dei tanti a denunciare il sistema del lavoro “grigio” ormai consolidato in molte aziende del Saluzzese: finti contratti che sulla carta rispettano i parametri degli accordi sindacali locali, ma nella realtà mascherano orari di lavoro molto più lunghi per retribuzioni da fame. “Lo sfruttamento avviene quando il datore di lavoro deve dichiarare il numero di giornate di lavoro svolte dal bracciante: qui non abbiamo mai visto una busta paga in cui fossero segnate tutte”, racconta Virginia Sabbatini, operatrice legale del Progetto Presidio, avviato nel 2014 dalla Caritas di Saluzzo. “In media nei campi si lavora tra le nove e le dieci ore al giorno, contro un massimo di sei previsto dal contratto”. Ma da Coldiretti negano che esista uno sfruttamento diffuso della manodopera e puntano il dito contro i “comportamenti pesantemente sleali lungo la filiera frutticola”, che impongono ai produttori saluzzesi “tempi di pagamento lunghissimi e prezzi in caduta libera, insufficienti persino a coprire i costi di produzione”. Da qui, secondo la maggiore associazione di rappresentanza e assistenza dell’agricoltura italiana, il rischio che il comparto subisca “infiltrazioni da parte di soggetti che sfruttano la drammatica situazione”, con titolari di cooperative non ben identificate che si presentano nelle aziende frutticole offrendo manodopera a basso costo. Insomma il problema, per Coldiretti, viene dall’esterno, dai “caporali che rischiano di insinuarsi nel nostro territorio”, terra invece di “imprenditori onesti”. “Nel 2010 ho partecipato alla grande rivolta dei braccianti scoppiata a Rosarno, ma ho capito che è inutile - sostiene Issa - se ti ribelli al padrone puoi vincere una causa in tribunale, ma perdi per sempre il tuo lavoro”. E quando nel profondo Nord, come nel Cuneese, le prestazioni vengono regolate da un contratto, denunciare i “padroni” diventa ancora più difficile. Su tutto prevale la certezza che senza un lavoro verrebbe negata automaticamente la possibilità di soggiornare in Italia. Senza contare che il contratto lavorativo spesso non basta. Mamadou, il Pompiere, ha trent’anni e viene dal Mali, il suo piatto preferito è la pizza, Margherita. Mentre entra nella questura di Cuneo ha con sé una grande pila di fogli e un bel sorriso. Quando esce, dopo pochissimo, non parla. Seduto in auto, piega il capo in avanti e con i polpastrelli fa pressione sulla fronte. Gli occhi chiusi. Non parla. Lui non ha la forza neanche di dirlo: per la quinta volta gli è stato detto di tornare all’ambasciata del Mali a Roma per chiedere, sapendo che non l’avrà, una copia del suo passaporto. “Passaaapooortooo!”, gli ha urlato ripetutamente in faccia il funzionario di Cuneo. Come se fosse una sua dimenticanza. Niente passaporto, niente rinnovo. Non importa per quante ore al giorno ti spacchi la schiena a quattro euro l’ora. Ma nell’attesa si deve tornare a cercare di riposare per una nuova giornata di lavoro. Anche Mamadou è ospite del Pas: “Siamo in troppi lì dentro, non riusciamo a dormire”. A pochi chilometri dal dormitorio, c’è anche un’altra struttura, per i più fortunati. Una casa su due piani nei pressi del cimitero, lì sono “solo” in quaranta. A gestirla c’è sempre Fabio Chiappello: “Questa struttura è destinata a chi ha un contratto più a lunga scadenza - spiega - Ma non può bastare, ogni Comune dovrebbe averne una”. Eppure, solo altre tre cittadine oltre a Saluzzo hanno aderito al progetto “Accoglienza diffusa”, che prevede la messa a disposizione dei braccianti di strutture demaniali come questa. E l’emergenza abitativa è destinata a peggiorare. I lavoratori di origine africana aumentano di anno in anno: nel 2016 erano il 30% degli stagionali, l’anno successivo il 34, nel 2018 il 43. E intanto si allunga il periodo della raccolta con mele, una varietà australiana, che maturano anche fino a dicembre. “Più migranti e più a lungo, senza alcun aiuto dalle istituzioni: è la tempesta perfetta”, dice il Sindaco, parlando di una piaga che è anche la principale economia del territorio. Iniziano ad arrivare a Saluzzo da maggio e sul sellino vanno di azienda in azienda a chiedere di lavorare per la stagione. È una gara a chi arriva prima. “Il problema è che in questo territorio ci sono 7000 aziende e nessuno spirito di cooperazione: manca un sistema centrale di distribuzione della manodopera”, lamenta ancora Calderoni. Ma non ci sono solo lo sfruttamento e l’emergenza abitativa. Anche qui è arrivato il caporalato, seppure in una veste più ripulita: qui si tratta di erogatori di servizi, finanche sindacali. Come nel caso di Momo, un africano che, secondo la Procura di Cuneo, veniva pagato dai suoi connazionali per ottenere un posto in alcune aziende agricole. Ma anche dagli stessi imprenditori per un servizio di mediazione che facesse tenere la bocca chiusa ai braccianti sulle condizioni contrattuali. “Era un amico, poi è finito in questa brutta storia e si è fatto sei mesi di custodia cautelare in carcere. Penso abbia pagato anche per colpe non sue”, sostiene Lele Odiardo, da anni impegnato sul territorio con il Comitato Antirazzista di Saluzzo. Dieci anni fa, lui e la sua associazione erano stati i primi a rompere il silenzio sullo sfruttamento dei migranti, oggi sono ancora ritenuti troppo radicali dai più. Anche la Caritas è attiva da tempo per contrastare il fenomeno e dal 2016 ha avviato il progetto Saluzzo Migrante: uno sportello di ascolto, supporto e contrasto allo sfruttamento lavorativo. Due anni fa la sede è stata spostata nel centro di Saluzzo, nel tentativo di tenere viva l’attenzione dei cittadini sulle problematiche dei migranti. Qui, molti di loro arrivano la mattina e con una piccola cauzione prendono in prestito una bici, per poi restituirla la sera. Alessandro Armando, responsabile del progetto, lo definisce un antenato del “bike sharing”, visto che esiste ormai da dieci anni: “All’inizio non capivamo perché le prime richieste dei lavoratori fossero una coperta e una bici - racconta - Ora sappiamo che la bicicletta è lo strumento principale per fare le due azioni che motivano le persone a venire qui: la ricerca di un lavoro e lo svolgerlo nel momento in cui lo trovano”. Oltre al presidio fisso è a disposizione dei lavoratori un ambulatorio medico e un punto di assistenza legale, oltre che una doccia calda, per chi non avesse trovato posto altrove. Qui è un viavai di persone e di scarpe sporche di terra, che il mercoledì si mettono in fila per la “Boutique du Monde”, una stanza adibita a emporio che distribuisce abiti, scarpe e generi alimentari. Accanto c’è un’altra stanza, in cui è stata arrangiata una cappella interreligiosa. Ci sono i tappeti per pregare, c’è un’icona della Madonna e una del continente africano. C’è una croce con sopra scritto “misericordia” e qualcuno ci ha messo sopra una casacca arancione catarifrangente. È l’ultima e la prima tappa di questo eterno Giro d’Italia, una via Crucis da percorrere a pedalate, su e giù per lo Stivale. *Lorem Ipsum è un collettivo di giovani giornalisti Siria. Non dimentichiamo Hevrin Khalaf, simbolo del martirio dei curdi di Gigi Riva L’Espresso, 20 ottobre 2019 Femminista. Non violenta. attivista in prima linea per gli oppressi. Quindi intollerabile per il regime di Ankara e gli jihadisti. Che, insieme, ne hanno decretato la morte. Ventiquattrore prima di morire, e senza averne alcun presagio, Hevrin Khalaf ha lasciato sul suo profilo WhatsApp l’ultimo messaggio di forza e speranza nel domani. Ora si può leggere come testamento, come monito per chi vorrà raccoglierne l’eredità alla guida del movimento per la piena emancipazione delle donne, per il riscatto del suo popolo, il popolo curdo, per la democrazia, l’uguaglianza, i diritti. Ha scritto: “Un giorno, quando le cose andranno bene, ti guarderai indietro e ti sentirai orgoglioso di non esserti arreso”. Quando le cose andranno bene. Perché bene non andavano lì nel Rojava, venerdì 11 ottobre, mentre Hevrin digitava sullo smartphone l’incitamento a non mollare a beneficio della sua comunità di amici e compagni, anche di se stessa. Rojava, nella lingua curda, significa “Occidente” e l’Occidente inteso in senso largo, come area valoriale oltre che geografica, stava tramontando, oscurato dal proprio tradimento e dal realismo cinico di una politica che ha come stella polare l’egoismo. Donald Trump, il commander in chief della prima potenza mondiale, il magnate dai tweet sulfurei, la domenica precedente aveva belato al telefono con Recep Tayyip Erdogan e gli aveva garantito che avrebbe ritirato i soldati americani dal Nord della Siria. Di fatto, la luce verde per invadere il Rojava, e pazienza se i curdi erano stati l’esercito-taxi usato per sconfiggere lo Stato islamico del sedicente califfo Abu Bakr al-Baghdadi. Che cosa contano i pur valorosi e sempre negletti curdi davanti al sultano di Istanbul forte di un’armata di 300 mila uomini e padrone di uno Stato membro della Nato? Erdogan non aveva perso tempo e mercoledì 9 ottobre aveva ordinato ai suoi uomini di passare il confine, spalleggiati dalla soldataglia di arabi-siriani al soldo di Ankara, molti dei quali jihadisti e in passato appartenenti a formazioni distintesi per ferocia nel pantano siriano. Come Al Nusra, la filiazione locale di al Qaeda. Come lo stesso Isis. Per quella marmaglia di assassini fanatizzati, cresciuti nell’idea della sottomissione del genere femminile, Hevrin era il bersaglio perfetto. Femminista, attivista indefessa, in breve diventata simbolo anche delle donne arabe della regione. Insomma una pericolosa eversiva che diffonde idee di pace, convivenza tra le etnie, ai loro occhi un “cattivo esempio” da distruggere. E l’occasione è capitata molto prima di quanto sperassero. Sabato 12, quarto giorno di invasione, nonostante tuonasse il cannone e piovessero bombe dal cielo, le linee del fronte mutassero di continuo e le strade fossero infestate da manipoli di tagliagole, Hevrin di prima mattina aveva ordinato al suo autista di preparare il fuoristrada. Meta: la città di Derik, dove abita la madre e dove tornava ogni fine settimana. Origine del viaggio, Ain Issa, sede del quartier generale del Partito della Siria del Futuro di cui era co-segretaria fin dalla fondazione, il 27 marzo del 2018. Hevrin e l’autista avevano imboccato l’autostrada internazionale M4 senza sapere che un tratto era finito da poco sotto il controllo - stando ad alcune fonti - del gruppo jihadista Ahrar al-Sharqiya, alleato dei turchi. Sulle modalità della carneficina circolano diverse versioni, con dettagli contrastanti, tutti truci. Aiutano nella ricostruzione più probabile due video messi in rete dagli stessi killer, come fosse un trofeo di cui andare fieri. Il fuoristrada viene fermato, una massa di uomini vocianti e in divisa militare cachi lo circondano. Hevrin, vestita con pantaloni neri e una maglietta rossa, il suo colore preferito, viene immediatamente riconosciuta per le numerose apparizioni televisive. Forse viene violentata, sicuramente crivellata di colpi assieme all’uomo che è con lei e poi, per ulteriore oltraggio, lapidata. In un filmato si vede un miliziano che si avvicina al corpo impolverato, lo rimuove con un piede e commenta: “Questo è il cadavere dei maiali”. Il referto dell’anatomopatologo dottor Tayceer al-Makdesi (di cui taciamo per pietà i particolari più raccapriccianti) stilato all’ospedale internazionale di al-Malikiyah, nome siriano di Derik, arriva alla conclusione che la donna è stata colpita alla testa con un oggetto contundente, e non è difficile immaginare il calcio del fucile, il colpo fatale in faccia è stato sparato da una distanza compresa tra i 40 e i 75 centimetri, non c’è praticamente parte del corpo senza i segni di botte e fori di proiettile. Il corpo è stato trascinato per diversi metri con la presa sui capelli fino a scorticare completamente le gambe. Non c’era più pelle, sopra i muscoli: oltre all’esecuzione, il vilipendio. Era nata, Hevrin, 35 anni fa a Derik, venti chilometri di distanza dal fiume Tigri, una cittadina di 40 mila abitanti dove convivono curdi, assiri, arabi e armeni. Una vocazione multietnica e multireligiosa sfociata nell’accoglienza e nell’allestimento di campi profughi fin dall’origine del conflitto in Siria (15 marzo 2011) e nel ricovero dato agli ezidi contro i quali lo Stato islamico tentò il genocidio. L’humus delle origini sarà probabilmente determinante nell’orientare le scelte successive della ragazza e l’appartenenza al popolo curdo, dove esiste una sostanziale parità di genere tanto che ogni carica pubblica è sdoppiata in due tra un maschio e una femmina, la spingerà a un impegno assiduo per promuovere nella regione valori da altri non condivisi. Bella, occhi e capelli scuri, minuta (alta 1,68 per 55 chili), dopo le scuole superiori nel luogo natale, emigra ad Aleppo, il capoluogo patrimonio dell’Unesco, che diventerà città martire dello sventurato Paese. Lì Hevrin si iscrive all’università, ingegneria civile. A metà degli anni Dieci del nuovo millennio, fresca di laurea, trova lavoro in un dipartimento governativo. Parla fluentemente l’inglese, oltre all’arabo e al curdo. Ha passioni comuni alle sue coetanee. La lettura, anzitutto. I classici, ovviamente. Adora il cinema, attori preferiti due dissidenti e non per caso: Jay Abdo assai popolare a Damasco, ora esule negli Stati Uniti per fuggire la possibile repressione del regime dopo le critiche pubbliche a Bashar Assad; Fadwa Suleiman, originaria di Aleppo, alauita come il presidente siriano ma pure sua acerrima nemica, volto della rivolta, riparata col marito a Parigi dove è morta di tumore nel 2017 a soli 47 anni. Parigi è anche la meta preferita per le vacanze di Hevrin Khalaf. Sarebbe il mondo il suo orizzonte se la storia non le passasse sotto i piedi e la costringesse a fermarsi. La breve primavera siriana ben presto si tramuta nell’inverno del conflitto contemporaneo più longevo e cruento. Condivide gli obiettivi della rivoluzione, si unisce ai ribelli, lascia l’impegno al dipartimento e serve il movimento con l’unica arma che ha a disposizione: la cultura. Da volontaria impartisce lezioni gratis a gruppi di studenti di ogni età. Incoraggia le donne a unirsi al movimento e battersi per la libertà. La ricordano per un invito spesso reiterato: “Non sposatevi e non fate figli troppo presto, così potere dedicarvi alla nostra causa”. Lei stessa dà l’esempio, ha un fidanzato ma l’unione non è mai sfociata nel matrimonio, nemmeno nella convivenza. Preferisce rincasare ogni sera dalla mamma nonostante il suo ufficio sia a Qamishli, cento chilometri di distanza. Nel caos di uno Stato devastato dalla guerra, al Nord i curdi (nel Rojava appunto) riescono a ritagliarsi un’autonomia di fatto. Hevrin scala in fretta la gerarchia della nuova amministrazione. Co-presidente del dipartimento per l’Energia e poi di quello per l’Economia. Berivan Omar, ora vice co-presidente per le municipalità e l’ambiente della regione Jazeera, l’ha conosciuta quattro anni fa e così la descrive: “Esprimeva le sue opinioni con calma, ma anche con audacia e chiarezza. Grazie al suo carisma tranquillo ha attirato la mia attenzione da subito. Ho pensato dal primo momento che avrei voluto essere come lei, per esprimere allo stesso modo le mie opinioni con coraggio”. Proprio grazie alla sua forza serena Hevrin si guadagna un ruolo nella delegazione che negozia con gli americani, chiede garanzie sul futuro della regione. Una diplomatica senza quel titolo di studio ma con l’arte della mediazione imparata cammin facendo con l’attività di base. Dal sociale il suo impegno inclina sempre di più verso il politico. Non più solo il femminismo e i diritti, anche il destino dei curdi, la soluzione del problema atavico del popolo senza terra, oppresso e vessato da troppi satrapi nell’area più infiammata del mondo. È così che si fa promotrice in prima persona della nascita di un nuovo partito che ha nel nome la parola che più le sta a cuore: futuro. Partito della Siria del Futuro. Si trasferisce ad Ain Issa, dove c’è la sede centrale della nuova formazione. Ancora Berivan Omar: “Come al solito aveva intrapreso questa nuova avventura con passione e impegno totalizzanti. Lavorava dall’alba sino a notte. Prima di coricarsi si concedeva qualche pagina di un buon libro. Recentemente mi aveva confidato come le mancasse la sua città, i suoi amici perché ad Ain Aissa non c’era una vita sociale e culturale così interessante. Però si sacrificava per una ragione superiore. Lei era tra coloro che decidevano e dunque doveva costantemente essere presente”. Una pacifista, certo, ostinatamente convinta nella forza del dialogo. Però non a ogni costo. Noi diremmo piuttosto, una non violenta. Non si attacca, ma ci si deve difendere davanti a un’aggressione. Da mesi i venti annunciavano un possibile attacco turco e si era schierata perché si facesse ogni sforzo per contrastare l’eventuale occupazione, proteggere l’autonomia guadagnata con la rivoluzione e la popolazione civile. Il 5 ottobre aveva cercato di giocare d’anticipo. In una conferenza stampa davanti a telecamere e giornalisti organizzata dal suo partito era stata la sola a prendere la parola. Giacca bianca a righe, camicetta verde, i capelli raccolti con chignon alto, il solito tono pacato, aveva previsto e condannato a priori l’attacco turco: “Noi respingiamo le minacce turche, ostacolano i nostri sforzi per trovare una soluzione alla crisi siriana. Durante il periodo di dominio dell’Isis alle frontiere, la Turchia non ha visto questo come un pericolo per la sua gente. Ma ora che c’è un’istituzione democratica nel Nord-Est della Siria, loro ci minacciano con l’occupazione”. Una settimana dopo esatta sarebbe stata trucidata al margine di un’autostrada. Una settimana dopo non c’era più “futuro” per lei e probabilmente non ci sarà nemmeno per il Rojava (“l’Occidente”). Alcuni giornali turchi non si sono vergognati di gioire alla notizia della sua morte. Però un seme del suo insegnamento lavora nel profondo di quella terra e potrà produrre germogli in una postuma altra primavera: è stato a Raqqa, già capitale del sedicente califfato, abitata in maggioranza da arabi con cui cercava il dialogo, che si è svolta la più imponente manifestazione organizzata dalle donne che l’avevano conosciuta per commemorare Hevrin, la martire. Da lassù si sentirà “orgogliosa di non essersi mai arresa”. Siria. Secondo Amnesty International la Turchia ha commesso crimini di guerra di Gianni Sartori Ristretti Orizzonti, 20 ottobre 2019 La denuncia - 18 ottobre - proviene da Amnesty International. Nel suo rapporto A.I. accusa l’esercito turco e i suoi alleati (o meglio: i suoi “ascari”) di aver commesso molteplici crimini di guerra nel corso dell’offensiva in atto (una vera e propria invasione della Siria). In particolare, esecuzioni sommarie e attacchi indiscriminati contro i civili. A cui bisognerebbe aggiungere l’utilizzo di armi proibite dalla Convenzione di Ginevra. La Ong riporta le testimonianze di 17 persone (operatori sanitari, giornalisti, sfollati, esponenti di organizzazioni umanitarie...) che hanno appunto visto - e documentato - di persona quanto stava avvenendo. Un esponente della Croce Rossa curda racconta di aver recuperato i cadaveri lasciati sul terreno - in prossimità di una scuola - dall’attacco turco del 12 ottobre sulla cittadina di Salhyé. Qui avevano trovato rifugio alcuni sfollati. Spiega di “non poter nemmeno dire se i bambini uccisi erano maschi o femmine perché i loro corpi erano completamente anneriti, carbonizzati”. Emergono intanto altri particolari sulla sequenza di menzogne, una trappola vera e propria in cui i curdi si sono cacciati - forse ingenuamente - per essersi fidati di un “alleato” senza scrupoli, gli Stati Uniti. Innanzitutto gli USA avevano convinto le YPG (genericamente definite “curde”, in realtà una coalizione multietnica composta da combattenti di varie etnie e religioni presenti nei territori del nord-ovest siriano, oltre che dai volontari internazionalisti) a distruggere i tunnel difensivi alla frontiera con la Turchia. Garantendo che Washington avrebbe comunque impedito ad Ankara di invadere il Rojava. Nell’accordo, un ulteriore malcelato inganno: consentire a USA e Turchia di sorvolare l’area per controllare l’effettiva distruzione di tunnel e postazioni difensive. In realtà questo ha permesso ai turchi di conoscere in anticipo quali fossero i principali ostacoli e possibili punti di resistenza al momento dell’attacco. Con l’invasione del Rojava - mentre si percepiva quanto sarebbe stata brutale e indiscriminata - forse Trump ha temuto di rimetterci sul piano elettorale. Ha quindi inviato al suo omologo turco una risibile lettera in cui gli spiegava che comunque avrebbero dovuto trovare un accordo e soprattutto di “non fare l’idiota” (testuale). Concludendo che comunque si sarebbero risentiti. Ovviamente Erdogan non l’ha neanche presa in considerazione proseguendo imperterrito. Nel suo programma, una radicale pulizia etnica della “zona di sicurezza”, profonda 30 chilometri e sostanzialmente svuotata di ogni presenza curda. Da sostituire con 2-3 milioni di rifugiati siriani fedeli a Erdogan e al momento ospitati in Turchia. Già con i primi bombardamenti sulle città e sui villaggi curdi si creavano lunghe colonne di profughi (circa 300mila) in fuga. In avanscoperta, le milizie - sospettate di simpatie jihadiste - dell’Esercito nazionale siriano (in precedenza denominato Esercito siriano libero) che da subito cominciavano a saccheggiare e giustiziare indiscriminatamente. Suscita scalpore l’efferata uccisione il 12 ottobre di Hevrin Khalaf (35 anni, segretaria generale del Partito del futuro siriano), presumibilmente stuprata e lapidata. Tale assassinio di una nota pacifista viene festeggiato dai media turchi come una “vittoria contro il terrorismo”. Intanto la Turchia si preoccupava di rimettere in circolazione le milizie di Daesh (più affidabili del raffazzonato ENS) ancora detenute nelle prigioni controllate dai curdi (a volte semplici palestre, oltretutto controllate da civili). Cominciando quindi a bombardare i muri e i cancelli dei campi di detenzione per consentire la fuga di centinaia di miliziani e loro familiari (solo una parte dei circa 80mila catturati dalle YPG). Una parentesi. Esponenti della destra dichiarata, diversi rosso-bruni e qualche “antimperialista” di sinistra (in genere filo-Assad e filo iraniani) hanno accusato i curdi, oltre che di collaborazionismo con l’imperialismo statunitense, di aver praticato forme di “pulizia etnica” in Rojava. Demenziale. Anche trascurando i 40mila yazidi salvati dai combattenti curdi nel Sinjar (e i cristiani, anche un villaggio turcomanno...), basti pensare che nemmeno i peggiori miliziani islamisti (e tantomeno le loro famiglie) sono stati eliminati fisicamente dopo la cattura. Come invece, sotto-sotto, auspicavano Stati Uniti e paesi europei poco propensi a riprendersi i loro cittadini - i foreign figthters - divenuti miliziani dello Stato islamico. Col senno di poi (e pensando ai civili assassinati da questi tagliagole una volta tornati in libertà) verrebbe da pensare che ‘sti curdi sono stati fin troppo buoni. Già che c’era, forse ritenendo che gli statunitensi se la stavano prendendo troppo comoda nel ritirarsi da Kobane, l’esercito turco sparava anche su un avamposto a stelle e strisce. La cosa funziona e il giorno successivo Trump annuncia un ritiro completo e definitivo. Prima di andarsene gli statunitensi si auto-bombardano. Rendendo inagibili i loro avamposti e basi mentre quelli rimasti in piedi verranno occupati dalla Russia. L’impressione è comunque di un piano concordato (o sottinteso) tra Usa, Turchia, Russia (forse anche Teheran e Damasco) ai danni dei curdi. Sempre scomodi, se non superflui, ai piani strategici di stati e affini. Scontato il rifiuto - sia di Washington che di Mosca - della richiesta di “interdizione aerea” avanzata dai curdi. I quali, ovviamente, non dispongono di contraerea. Nonostante i tentativi statunitensi per impedirlo (temendo che con i siriani arrivino anche i detestati pasdaran iraniani o gli hezbollah libanesi: l’ossessione ricorrente del “ponte sciita”), le truppe di Assad entrano in Manbij. Tergiversando ed entrando in contraddizione con quanto finora dichiarato, gli Stati Uniti annunciano che in realtà potrebbero anche restare, almeno per proteggere Kobane (e soprattutto i campi petroliferi di Deir ez-Zor). Un bel casino! Mentre Trump comincia - o continua - letteralmente a delirare (vedi le affermazioni sui curdi che non avrebbero “aiutato gli stati Uniti al momento dello sbarco in Normandia”), il Congresso americano impone blande sanzioni alla Turchia per convincerla a sospendere l’invasione. I curdi comunque resistono e contrattaccano riconquistando, almeno provvisoriamente, la città di Sere Kaniye che era caduta nelle mani dell’Esercito nazionale siriano e dei turchi. La situazione è tale che a un certo punto Ankara si vede costretta a chiudere i varchi del muro di frontiera - ora alle sue spalle - per impedire ai miliziani jihadisti di fuggire in Turchia. Inoltre, temendo di venir respinto, l’esercito turco comincia a fare uso sui campi di battaglia di sostanze chimiche proibite. Trump invia allora da Erdogan il vicepresidente Pence per concordare un generico “cessate-il-fuoco”. Ma senza concordarlo, almeno in un primo tempo, direttamente anche con i curdi, la Russia e Damasco. Di nuovo, un gran casino! Ai curdi viene “offerta” una via d’uscita: sostanzialmente battere in ritirata per una profondità di trenta chilometri dalla frontiera (la solita “zona di sicurezza”) nel giro di cinque giorni. In pratica, una “pulizia etnica” ottenuta dalla Turchia volontariamente e senza incontrare resistenza. Solo successivamente, toccherebbe alla Turchia di lasciare il suolo siriano, Afrin (nord-est della Siria, già invasa all’inizio del 2018) compresa. Per il giornalista Ferda Cetin, esperto di Medio Oriente, tale accordo Usa-Turchia non sarebbe altro che “una legalizzazione dell’occupazione del Rojava da parte dell’Isis e di Ankara”. Alquanto probabile, direi. Del resto già il 17 ottobre, alla faccia del cessate-il-fuoco, altre decine e decine di pullman carichi di miliziani dell’Esercito nazionale siriano partivano da Kilis in direzione di Gaziantep per dare ulteriore man forte alle truppe turche. Staremo a vedere. E i curdi? Per loro si profila un probabile destino di “profughi interni” in Siria. Così come per altri componenti della coalizione multietnica (arabi, circassi, assiri, armeni, siriaci...) che vivevano - e spesso combattevano - insieme ai curdi nel nord della Siria. E alquanto incerto appare il destino dei volontari internazionali (pensiamo in particolare ai comunisti turchi) che si erano integrati nella resistenza curda. Manca solo che Erdogan ne richieda l’estradizione! Marocco. Graziata dal re la giornalista condannata per aborto illegale, ma la lotta continua di Leonardo De Blasio Il Manifesto, 20 ottobre 2019 Scarcerata Hajar Raissouni: “La mia vicenda è politica”. Raccolta di firme per depenalizzare anche le relazioni sessuali al di fuori del matrimonio. Hajar Raissouni è libera. La giornalista marocchina era stata arrestata lo scorso 31 agosto e in seguito condannata a un anno di detenzione con l’accusa di aver avuto relazioni sessuali al di fuori del matrimonio e di aver abortito illegalmente. Con lei erano finiti in carcere il suo compagno, condannato anche lui alla stessa pena, e il ginecologo, condannato invece a due anni di prigione e successivi altri due di interdizione delle sue funzioni. Più leggere le pene per l’infermiere e la segretaria della clinica, condannati rispettivamente a un anno e otto mesi di pena sospesa. La scarcerazione è avvenuta per grazia reale mercoledì 16. La motivazione fornita dal re marocchino Mohammed VI sarebbe quella di “preservare l’avvenire dei due fidanzati che contano di fondare una famiglia conformemente ai precetti religiosi e alla legge, malgrado l’errore che hanno commesso e che ha portato a questi sviluppi giudiziari”. In un’intervista rilasciata il giorno successivo alla scarcerazione al quotidiano francese Libération, Raissouni, che durante i 47 giorni di detenzione ha perso 17kg, ha affermato di restare convinta che il suo arresto e la successiva condanna abbiano motivazioni politiche. “Ricordo che le prime domande che mi sono state poste dalle autorità marocchine concernevano i miei zii Souleymane Raissouni (militante e giornalista, ndr) e Ahmed Raissouni (fondatore del Mur - associazione considerata un tempo la fucina ideologia del Pjd, il partito della destra islamista oggi al governo - oggi auto esiliatosi in Arabia Saudita per divergenze con la famiglia reale, ndr) e su Taoufik Bouachrine, l’ex-proprietario del giornale Akhbar Al-Yaoum (su cui Hajar scrive con lo zio, ndr), condannato a 12 anni di prigione lo scorso anno con accuse di violenza sessuale che ha sempre respinto dichiarandosi anche lui vittima di un processo politico. Senza dimenticare - ha aggiunto la giornalista - quelle inerenti le mie attività nella regione del Rif, dove tra il 2016 e 2017 ho coperto mediaticamente le attività portate avanti dal movimento Hirak”. Nonostante la grazia ottenuta, Hajar ha ribadito la volontà di continuare a battersi affinché venga riconosciuta giuridicamente la sua innocenza rispetto al reato d’interruzione di gravidanza contestatole. Immediata è stata la smentita della procura di Rabat, che attribuisce l’arresto della giornalista a una indagine di più ampio respiro legata alle pratiche abortive illegali in atto nella clinica in questione. Quello che è certo è che - durante la detenzione di Raissouni - la società civile marocchina si è mobilitata per chiederne la liberazione a gran voce: attraverso i giornalisti nazionali e internazionali che hanno dato risalto al suo caso, ma anche attraverso la redazione del Manifesto firmato simbolicamente il 23 settembre da 490 donne per chiedere la depenalizzazione delle relazioni sessuali fuori dal matrimonio, per le quali l’articolo 490 del Codice penale prevede fino un anno di reclusione. Dopo tre settimane, sono già 10mila le firme raccolte. L’obiettivo è di arrivare a 25mila, per poter depositare in parlamento la petizione e provare ad abolire l’articolo 490. In parallelo, le principali ong marocchine che si occupano di diritti umani hanno chiesto al parlamento di riprendere in mano il progetto di legge - fermo dal 2016 - che prevedeva di estendere la possibilità di ricorrere all’aborto almeno in caso di violenza sessuale, incesto, disturbi mentali della donna incinta o malformazione fetale. A oggi, l’articolo 453 del Codice penale prevede fino a 2 anni di reclusione per la donna e 5 per il medico operante. Una vicenda, quella di Hajar Raissouni, che torna ancora una volta a mettere in risalto come in Marocco certi diritti umani siano ancora lontani dall’essere rispettati o più semplicemente percepiti come tali, che si parli di libertà di stampa o di libertà sessuale. Tailandia. 19enne italiano in carcere per furto: “in cella di 50 mq con altri 60 detenuti” il fatto quotidiano, 20 ottobre 2019 Si trova in un carcere di Bangkok, in una cella di circa 50 metri quadrati con altri 60 detenuti, in attesa di un intervento da parte delle istituzioni. È quello che sta accadendo a Gianluca Bilardelli, un 19enne piacentino che, atterrato all’aeroporto della capitale thailandese lo scorso 29 agosto, è stato arrestato dalle autorità locali con l’accusa di aver derubato la moglie di un generale della sua valigia, durante un precedente viaggio. “Chiedo perdono a tutti. Sono disperato, non ce la faccio più”. Sono le parole di Gianluca in una videochiamata che solo dopo diversi giorni gli hanno concesso di fare alla famiglia e nella quale descrive le sue condizioni. Sullo schermo filmato dal padre durante la telefonata, appare evidentemente dimagrito e sciupato, con i capelli rasati. Si scusa con il padre per quello che è successo e chiede notizie su quello che dice l’ambasciata, alla quale lui spiega di non poter scrivere, perché non ha modo di trovare l’indirizzo. Roberto Bernocchi, il legale a cui si è rivolto Giovanni Bilardelli, il padre del ragazzo, ha contattato il ministero degli Esteri, che lo ha rinviato all’ambasciata italiana in Tailandia. “Da loro ho ricevuto solo una mail nella quale mi dicono che per Gianluca l’unica accusa è di furto e che è stato per un giorno ricoverato in ospedale, dove i loro funzionari sono andati a controllare le sue condizioni di salute”, ha spiegato Bernocchi. “Mi hanno detto che devono essere inviati circa 2.600 euro per il risarcimento del danno e 1.500 euro per pagare l’avvocato assegnato al ragazzo di cui mi hanno dato un contatto”. L’assistente dell’avvocato thailandese però, nell’unica conversazione telefonica che il legale italiano è riuscito ad avere con lei, non ha parlato di strategie processuali. Non solo ha confermato che attende un pagamento, ma ha anche fatto sapere che si mobiliterà per la difesa solo a denaro ricevuto. “Io le carte non le ho neanche lette. Fino a che non mi arrivano dei soldi non apro nemmeno il fascicolo del processo”. La legislazione thailandese comunque prevede che il processo venga istituito entro 48 giorni dall’arresto, quindi il tempo per Gianluca stringe. La famiglia del 19enne, con gravi problemi economici, ha raccolto i sodi richiesti dall’ambasciata, grazie anche all’aiuto di un benefattore, Antonino Corti, residente ad Abu Dhabi ma originario del Piacentino, che ha letto l’appello del padre di Bilardelli su Liberta.it e tramite la redazione del giornale, che riporta la notizia, lo ha contattato per offrirgli il suo aiuto. Ma ora a chi deve essere inviata la somma? Con quali garanzie? “Nessuno di noi ha ricevuto indicazioni precise dalle istituzioni”, ha concluso Bernocchi che sta aspettando una risposta dall’ambasciata italiana su come procedere. Da parte sua la Farnesina ha rilasciato una dichiarazione nella quale assicura che “il caso è seguito con la massima attenzione dall’ambasciata d’Italia a Bangkok”, che si sta mantenendo “in stretto raccordo con la Farnesina e con le Autorità locali” e “in costante contatto con il connazionale e con i suoi familiari”. Secondo il ministero degli Esteri inoltre l’Ambasciata ha “sin dal primo momento ha facilitato l’individuazione di un rappresentante legale thailandese e continua a esperire ogni tentativo possibile per facilitare la comunicazione tra la famiglia e gli avvocati in loco”. Nonostante tutto però per i familiari continuano a esserci difficoltà e non si sentono rassicurati. Nel frattempo la vicenda del giovane piacentino è arrivata alla politica. Il deputato di Fratelli d’Italia Tommaso Foti ha presentato un’interrogazione parlamentare per sollecitare il ministero degli Esteri ad agire in merito al caso. Gran Bretagna. La musicista Wasfi Kani: “Così trasformo i carcerati in attori lirici” di Alain Elkann La Stampa, 20 ottobre 2019 Wasfi Kani, fondatrice e ceo di Pimlico Opera e Grange Park Opera, grazie alla musica migliora la vita dei prigionieri e dei bambini britannici delle scuole elementari. Pimlico Opera presenta coproduzioni con le carceri dal 1987 e vi ha portato oltre 60 mila spettatori. Ogni settimana, il suo progetto Primary Robins offre una lezione di canto a 2.000 allievi delle aree depresse. Fondata nel 1998, la Grange Park Opera è diventata uno dei maggiori festival dell’opera estiva in Europa. Nel 2017 è stata trasferita nel Surrey in un teatro dell’opera di cinque piani costruito sul modello della Scala di Milano. Come è nato il suo amore per la musica? “Quando avevo 16 anni adoravo suonare il violino e il piano. Sono entrata alla Royal Academy of Music ma mi dissero che lì la mia unica scelta sarebbe stata diventare una musicista mentre alla Oxford University avrei avuto molte più opzioni. Oxford ti cambia davvero la vita. All’improvviso vedi il mondo più grande”. Qual è il suo background familiare? “I miei genitori, rifugiati musulmani indiani, hanno perso tutto quando l’India è stata divisa ed è stato creato il Pakistan, così sono emigrati nel Regno Unito. Sono diventata cattolica quando ero a Oxford”. Cosa ha fatto dopo Oxford? “La mia famiglia non aveva soldi e sono diventata programmatrice di computer”. Come ha fatto a tornare alla musica? “A 30 anni ho iniziato a pensare che quando ne avrei avuti 80 mi sarei pentita di non aver fatto di più con la mia musica”. Che cosa ha fatto? “Ho preso lezioni di direzione d’orchestra e ho iniziato a dirigere. Condividevo la casa con persone molto gentili a Pimlico e nel 1987 ho creato questa piccola compagnia d’opera. Ho creato un’orchestra e messo su una produzione di Figaro nella chiesa di San Luca a Sydney Street”. E allora è diventata famosa? “Ho allestito opere per il National Trust in un giardino o in una tenda. Alla gente piaceva e ho pensato che anche ai detenuti potesse piacere l’opera”. Perché? “A Londra avevo fatto le elementari in una scuola dietro la prigione di Wormwood Scrubs. Ho scritto una lettera al direttore, dicendo che volevo allestire un’opera in prigione per i carcerati”. Cosa ha detto? “Sì. Nel 1990 ho fatto Figaro ed erano presenti tutti i carcerati. Molti non sanno nemmeno leggere, figuriamoci se capiscono l’italiano, ma si divertirono molto. Alla fine saltarono in piedi e siccome c’era appena stata una rivolta nella prigione di Manchester tutte le guardie pensarono che ci sarebbero stati guai. Ma i prigionieri tornarono a sedersi”. Il suo passo successivo? “Provare a mettere in scena una produzione coinvolgendo i prigionieri”. Con che tipo di prigionieri ha lavorato la prima volta? “Ergastolani”. Com’è lavorare con degli assassini? “Alla fine siamo tutti uguali. Se la mia vita fosse andata diversamente, probabilmente avrei potuto uccidere qualcuno. Ci sono 85 mila persone in carcere in Gran Bretagna e circa 5.500 di loro scontano una condanna a vita per omicidio ma ce ne sono appena una settantina che non usciranno mai dal carcere”. Come sceglie gli artisti? “Non facciamo audizioni, giriamo semplicemente per il carcere e diciamo che stiamo allestendo uno spettacolo teatrale dove si canta e chi vuole partecipare può segnalarlo”. Ci sono sia uomini che donne nelle sue produzioni? “Sì. Se sono in una prigione maschile le donne sono delle professioniste. Quando sono in una prigione femminile, come ora all’Hmp Bronzefield, impieghiamo professionisti”. Questi professionisti sono a proprio agio? “In Gran Bretagna la maggior parte degli ergastolani ha ucciso qualcuno che conosceva, non a caso. Generalmente poi, quando stai scontando una condanna all’ergastolo, raggiungi una fase in cui vieni rilasciato. Il punto è aver mostrato rimorso e aver capito”. Perché ci sono molti più uomini che donne in prigione? “La società non vuole mettere le donne in prigione perché i loro figli finiscono, senza alcuna colpa, privi di sostegno familiare. E ci sono più uomini assassini che donne”. Possono riabilitarsi? “Lo scopo della prigione è trasformare una persona in un utile membro della società. Perché ciò accada occorre darle un’istruzione. La metà della popolazione carceraria ha una capacità di intendere un testo scritto inferiore a quella di un bambino di 11 anni. C’è un enorme problema di alfabetizzazione. Quanti lavori puoi trovare se non sai leggere? Si fanno dei corsi. Ho conosciuto centinaia di carcerati e ogni volta imparo qualcosa. Ognuno di loro ha una storia tragica e diversa da raccontare”. C’è droga in carcere? “C’è molto spaccio ma non è tutta colpa dei carcerati. Molte droghe entrano in prigione attraverso il personale”. Quando escono di prigione, alcuni di loro diventano cantanti professionisti? “Un ragazzo che ha un talento eccezionale si è esibito in parecchi spettacoli del West End, ma lo scopo del mio progetto è espresso al meglio da messaggi come questo sms: “Solo per dire grazie. Sono fuori adesso. Ho partecipato a I miserabili come leader della rivoluzione da galeotto. Mi ha dato speranza e accettazione. Grazie”“. L’opera viene vista anche dal pubblico? “Prima ci esibiamo per i prigionieri e poi per il pubblico in generale. Non mescoliamo mai le due cose. Spesso ci sono 300 persone nell’auditorium e una manciata di loro sarà imparentata con qualcuno nello show. Per quanto riguarda la sicurezza, il momento più difficile è assicurarsi che nessun detenuto lasci la prigione con il pubblico al termine dello spettacolo”. Il personale carcerario è motivato? “Molti sì e credono di poter convincere i detenuti a cambiare vita. Sono molto premurosi e educati. Ho visto alcune persone straordinariamente brillanti lavorare nelle carceri”. Lavora anche con i bambini? “Lavoriamo molto nelle scuole primarie con bambini fino agli 11 anni. Molte scuole in Gran Bretagna non tengono lezioni di musica. Diamo loro un insegnante che fa una lezione di canto di mezz’ora ogni settimana dell’anno”.