Nessuno tocchi le carceri, tanto hanno pochi follower di Stefano Massini La Repubblica, 1 ottobre 2019 Scriveva Voltaire che il grado di civiltà di una nazione non si misura dai suoi palazzi, ma dalle carceri. Quanto è più vero oggi, ai tempi della politica online, disposta a tutto pur di conteggiare un’impennata di like: ci sono temi che attraggono l’opinione pubblica (ma dovrei dire la pubblica pancia) come il miele, ed è su quelli che insiste l’uomo politico del Terzo Millennio, quello che al comizio ha sostituito l’one man show. Ben vengano allora le scuole, i giardini pubblici, le infrastrutture dei trasporti: chi non incassa like tagliando il nastro di una palestra per i nostri figli o una linea su rotaia che ci fa risparmiare traffico? Il carcere, viceversa, è un tabù. Non rende niente, in termini di consenso. Per definizione è un luogo chiuso, separato dal mondo da fili spinati e recinzioni, per cui - ahimè - non ci si possono organizzare picnic domenicali dove ministri e sindaci si scattino i selfie. E allora? Perché usare i soldi pubblici per un ripostiglio che gli elettori (= i followers) non vedranno mai? Senza considerare che c’è una nutrita fetta di platea forcaiola pronta perfino a urlare “fateli stare nelle fogne, devono pagare”, o simili perle da repertorio social. Nasce anche così, il degrado. Prende forma nella zona d’ombra mediatica, quella del “sarebbe giusto occuparsene, ma fa perdere voti”. E sia. Teniamoci allora Favignana con le celle marcite sotto il livello del mare, teniamoci Regina Coeli e San Vittore con i detenuti stipati sulle brande, teniamoci i bagni alla turca, i topi, le caldaie rotte. E adesso pure San Gimignano, con le torture e i pestaggi. Voltaire avrebbe detto: “che paese di merda”. Dagli torto. Carceri, diritti e nuovo governo. Quei bambini da liberare di Luigi Manconi La Repubblica, 1 ottobre 2019 Proprio in questo momento, mentre leggete Repubblica e i vostri figli sono di là, o all’asilo, o al parco, un certo numero di loro coetanei si trova detenuto all’interno delle carceri italiane. Sì, detenuto. Al 31 agosto del 2019, infatti, nel sistema penitenziario sono reclusi 52 minori tra gli zero e i sei anni (talvolta fino ai 10), unitamente alle loro 48 madri. Di quei bambini, 32 sono ospitati negli Istituti a custodia attenuata (Icam), dove la condizione carceraria, con tutto ciò che di patologico comporta, risulta meno opprimente e afflittiva. Gli altri vivono nelle comuni celle delle comuni prigioni. Tutto ciò, nonostante che la “Legge Finocchiaro” del 2001 prevedesse la detenzione domiciliare per le detenute madri. Resistenze culturali e lentezze amministrative, impacci burocratici e ostilità politiche hanno fatto sì che nel corso di vent’anni, quella popolazione infantile, costituita da “innocenti assoluti”, sia rimasta pressoché stabile, raggiungendo il picco attuale. E basterebbe una cifra economicamente modesta per far sì che, come prevede una legge del 2011 rimasta inapplicata, tutti quei minori venissero ospitati in adeguate case famiglia, senza alcun rischio per la sicurezza collettiva. Ma quello dei detenuti bambini è solo il più scandaloso dei punti di crisi del nostro sistema penitenziario. Oggi, nelle carceri italiane si sta verificando un drammatico cortocircuito. La popolazione detenuta, alla fine dello scorso mese assommava a 60mila 741 unità rispetto a una capienza ufficiale di 50mila 469 posti letto (inclusi quelli temporaneamente non utilizzabili). In tale contesto, nei primi nove mesi dell’anno in corso, si sono tolti la vita 35 reclusi, all’interno di una dinamica scandita da questa tragica sequenza: 43 suicidi nel 2015, 45 nel 2016, 52 nel 2017, 67 nel 2018. Un altro dato inquietante, e sempre e da tutti taciuto, riguarda i suicidi tra i poliziotti penitenziari. Negli ultimi dieci anni sono stati 79 gli agenti che si sono tolti la vita: ed è difficile pensare che tale scelta sia dovuta esclusivamente a motivazioni personali, che nulla avrebbero a che vedere con le condizioni di lavoro e in particolare con l’ambiente (sovraffollato e sottilmente violento) dove esso si svolge. È l’insieme di questi fattori che determina il cortocircuito di cui si è detto, che viene alla luce quando quel clima di tensione che domina la vita quotidiana del carcere esplode attraverso il manifestarsi di episodi di brutalità. È di poche settimane fa la vicenda giudiziaria, che vede indagati 15 poliziotti penitenziari del carcere di Ranza (San Gimignano) per i reati di concorso in tortura aggravata e lesioni personali aggravate e, alcuni di essi, per minaccia aggravata e falso ideologico aggravato. Meno di due mesi fa, secondo l’associazione Antigone, considerata affidabile dal ministero della Giustizia e dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), al punto da consentirle periodiche visite di monitoraggio nelle carceri, un detenuto di Monza sarebbe stato colpito al volto con calci e pugni da alcuni agenti. A conferma ci sarebbero gli occhi lividi, il volto tumefatto e i forti dolori lamentati dall’uomo: il che, negato dal medico del carcere di Monza, è stato riscontrato, a distanza di giorni, da quello dell’istituto di Modena, dove il detenuto in questione era stato trasferito nel frattempo. Ancora. Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, Mauro Palma, a proposito di episodi che sarebbero avvenuti nelle carceri di Tolmezzo e di Poggioreale, ha presentato due esposti presso le rispettive Procure. Si è parlato finora di denunce e non ancora di sentenze, tantomeno definitive (e il mio garantismo, lo giuro, non teme niente e nessuno). Ma le segnalazioni sono troppe e concomitanti per non destare preoccupazione. Damiano Aliprandi, sul quotidiano Il Dubbio, pubblica costantemente informazioni raramente smentite; e la rubrica bisettimanale Radio Carcere, curata da Riccardo Arena per Radio Radicale da due decenni, offre un osservatorio di ineguagliabile forza, anche letteraria (grazie a racconti, lettere, messaggi) della vita prigioniera. Stupisce, di conseguenza, il flemmatico silenzio del Dap di fronte a tante circostanziate segnalazioni. Non un comunicato, non un’efficace indagine interna, non un provvedimento disciplinare (se non dopo richiesta del magistrato). Nessuna replica nemmeno quando, nel dicembre dello scorso anno, il Corriere della Sera sollevò il caso del carcere di Viterbo che sembra vivere da tempo in uno stato di extra-legalità, nonostante le dettagliate denunce del Garante regionale dei detenuti, Stefano Anastasia. C’è solo da augurarsi che il nuovo governo, che dichiara di volersi impegnare sul piano dei diritti, abbia la forza di muoversi con efficacia, sollecitando un’operazione di verità e politiche di trasparenza. Non è in discussione in alcun modo la correttezza della stragrande maggioranza dei poliziotti penitenziari: a infangare, come usa dire, il loro onore e la loro divisa, sono quei pochi che commettono violenze e abusi e quelli, più numerosi, che voltano il capo dall’altra parte. Ha ragione, la Garante dei detenuti del carcere di San Gimignano, Sofia Ciuffoletti, quando dice: “Se il carcere viene sottratto allo sguardo pubblico della cittadinanza e della politica diventa fatalmente sede di illegalità. Solo se lo rendiamo finalmente visibile, potremo contribuire a migliorare la vita dei custodi e dei custoditi”. Bambini in carcere: in 52 crescono dietro le sbarre come se fosse un asilo affaritaliani.it, 1 ottobre 2019 Gli avvocati romani alzano il velo sulla detenzione dei bambini nelle carceri italiane divenute per loro casa e asilo. In Italia sono 52 i bambini che crescono nelle carceri come se fosse una scuola e ben 100 mila che invece per vedere mamma e papà sono costretti ad entrare e uscire dalla galera. Il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma alza il velo sulla detenzione dei bambini con il convegno “il cuore oltre le sbarre”: 48 madri detenute nelle carceri italiane con 52 figli al seguito, prigionieri anche loro senza colpe, quasi per una sorta di responsabilità oggettiva derivante dal solo fatto d’esser nati in determinati contesti. Per contro, figli, specialmente quelli piccolissimi, che sarebbe ingiusto separare dalle madri. E centomila bambini figli di detenuti costretti a relazionarsi con il carcere. Un tema delicato, difficilissimo. È ancora fresca nella memoria l’atroce vicenda di Alice Sebesta, la detenuta tedesca che il 18 settembre dello scorso anno uccise i due figli nel reparto nido del carcere romano di Rebibbia a Roma. Nei giorni scorsi è stato il pm Eleonora Fini a chiedere l’assoluzione della donna, per vizio totale di mente. La sentenza del Gup è attesa per dicembre, subordinata alla valutazione da parte dello psichiatra Fabrizio Iecher che incontrerà la Sebesta nel Rems di Castiglione delle Stiviere. Gli ultimi dati sono aggiornati al 31 agosto 2019 e come detto vedono in carcere la presenza di 48 donne con 52 figli al seguito. L’istituto Le Vallette di Torino, con 10 recluse e 13 bambini, peraltro istituto di custodia attenuata (Icam), guida la classifica del maggior numero di presenze, seguito da Rebibbia Femminile (11 donne e 11 bimbi), dall’Icam San Vittore di Milano (9 donne e 9 bambini) e dall’Icam di Lauro in Campania (8 madri e 8 figli). “Troppo spesso il carcere viene inteso come un tappeto sotto il quale nascondere la polvere della società civile - il commento del Presidente del Coa Roma, Antonino Galletti - mentre è bene, anche attraverso questi eventi e queste giornate di studio, accendere un riflettore su realtà dure come la genitorialità nelle carceri, proprio per evitare che tragedie come quella di Rebibbia possano ripetersi. Qualcosa allora non ha funzionato nel sistema, il nostro obiettivo è far si che l’argomento diventi d’attualità”. Quei papà che per non dire ai figli di essere in carcere li fanno annegare in un mare di bugie di Gigi Riva L’Espresso, 1 ottobre 2019 C’è chi sceglie di non dire ai bambini la verità. Ma pure per gli altri avere un rapporto è molto difficile. Anche per le leggi che restano inapplicate. Marco si ricorderà per tutta la vita il giorno che con il padre simulò una partita di basket. Palleggi, passaggi e tiri in un canestro immaginario. Se lo ricorderà perché aveva dieci anni e da sei non vedeva il genitore. Il finto campo del suo sport preferito era il cortile della massima sicurezza del carcere di San Gimignano. Raoul, questo il nome dell’uomo, è originario dei Caraibi. La madre di Marco lo aveva conosciuto in vacanza e lui, avvocato nel suo Paese, l’aveva seguita. La sua laurea in giurisprudenza non era stata riconosciuta in Italia e allora si era arrangiato con i mestieri più umili, spazzino, cameriere, operaio. I soldi non bastavano mai e scelse la via più semplice per arricchirsi: droga. Lo presero subito. D’accordo con la moglie decise di non svelare al figlio di essere in prigione. Durante le telefonate che gli erano concesse gli raccontava che faceva il pescatore laggiù nei mari dei Tropici e gli descriveva tramonti infuocati, pesci meravigliosi. Non poteva venire a trovarlo, quello no, perché costava troppo. Marco accumulava nel salvadanaio, moneta dopo moneta, il necessario per raggiungerlo. Ma il volo aereo, a detta della madre, costava molto più di quanti potessero i suoi sforzi. Raoul spiegava alla psicologa del carcere che si sacrificava perché aveva sbagliato ma soffriva per quella scelta di costruirsi un mondo fantastico e tenere al riparo il piccolo. Alla fine si decise al passo della verità e in un 19 marzo luminoso e assolato, festa del papà, finalmente si ritrovarono e giocarono quell’improbabile partita di basket. Era ripartito un rapporto. Per coprire la vergogna, un altro detenuto ha raccontato al figlio di 8 anni che fa un mestiere con orari così stravaganti da non poter mai essere in casa quando c’è lui. La moglie asseconda facendo trovare sul tavolo tazze di colazione consumata, nella lavatrice vestiti da lavare, nel letto un pigiama maschile. Papà ha sempre molto da fare. Occultare può sembrare una buona soluzione nell’immediato. È pessima nel tempo lungo perché il non detto obbliga a una vita scissa, con troppi punti di domanda senza una risposta. Talvolta non va meglio quando avviene l’opposto. Daniela aveva 5 anni la notte in cui entrarono i carabinieri in casa e si portarono via il genitore. Quando le fu permessa una visita si scagliò contro la polizia penitenziaria che le aveva “rubato” il padre. Né andò meglio le volte successive, crisi di panico, svenimenti alla vista delle sbarre. E l’insorgere di una preoccupante anoressia per la quale si rifiutava di curarsi. Fu il carcerato, durante i colloqui telefonici, a convincerla a rivolgersi a un neuropsichiatra. Ma la svolta che la fece guarire arrivò quando il padre accettò di non presentarsi più come vittima della giustizia e di ammettere le sue colpe. La ragazza ora sta molto meglio. Tiziana ha invece 4 anni, dolce, affezionata, presente ogni settimana al penitenziario, apparentemente serena. Solo apparentemente. D’improvviso ha preso a piangere e a non volerlo salutare al momento del distacco. Lo abbraccia al collo e comincia a piangere finché la devono congedare con la forza. Scena piuttosto diffusa. E straziante. Al netto di errori giudiziari, chi sta dentro ha commesso reati. Nel nostro percorso di civiltà si è fortunatamente arrivati a considerare il carcere come un luogo di recupero e non di punizione. Al populismo montante che rinnega questa filosofia al grido di “in galera in galera”, “buttiamo via le chiavi”, “di cosa si lamentano? Mangiano e dormono a spese nostre”, si può opporre che esistono delle leggi, troppo spesso disattese, per favorire l’affettività. Si invocano problemi strutturali, necessità di tutela della sicurezza. O semplicemente ci si rifiuta di applicare convenzioni pomposamente ratificate per indolenza, incuria, quando non per il solito alibi per cui esistono ben altre emergenze e priorità. E si finisce così per creare una categoria di vittime collaterali, i figli di chi è stato condannato. In spregio alle convenzioni sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. In Europa sono 2,1 milioni i minorenni ad avere un genitore in carcere. Centomila in Italia dove la popolazione dei penitenziari è al 95 per cento maschile. Centomila costretti a vivere pressoché in solitudine la loro condizione infelice. Guardati con sospetto nel mondo al di qua delle mura perché “figli di” e spesso ostacolati dalle pastoie burocratiche nel loro legittimo diritto a mantenere un rapporto con una delle persone che hanno per più cara, qualunque delitto abbia commesso. Come una bambina di sei anni che nella sala colloqui di una casa circondariale ha disegnato su un foglio molti uccelli per sbarrarne poi una parte con delle croci. E alla domanda su cosa significasse ha risposto: “Sono i maschi e sono tutti morti perché tutti i maschi sono scemi o inutili. I papà non ci sono mai”. Non ci sono mai. E sono difficili da raggiungere perché nelle carceri italiane nel binomio sicurezza/affettività si privilegia sempre la prima. Ci sono carcerati arrivati in Italia dopo aver scontato periodi in cattività in Germania o in qualche Paese del Nord Europa che si augurerebbero il biglietto di ritorno, nonostante la distanza dalle famiglie, per la diversa qualità dei pochi incontri. Stanze colorate piene di giochi, addirittura passeggiate nei parchi dei penitenziari. Cose che da noi avvengono solo in istituti modello e all’avanguardia. Nelle stragrande maggioranza, una seggiola, un vetro divisorio. Il niet alle concessioni più elementari. Un detenuto: “Il compimento del decimo anno di mio figlio è stato vissuto come momento di gioia ma anche con il timore che mi venissero tolte le telefonate aggiuntive. Questo è avvenuto perché è cambiato il direttore che voleva motivi precisi per la mia richiesta. Il fatto che sono un padre non è stato giudicato sufficiente”. Finché il figlio ha meno di dieci anni si può usufruire di sei telefonate al mese della durata di dieci minuti, poi scendono a quattro, salvo concessioni. Dai 40 ai 60 minuti il tempo totale in un mese. Molto meno di quello speso per guardare un film in tv o giocare una partita di calcio dentro le mura. Aiuterebbe ad avere una relazione, se non normale meno complicata, la sensibilità del variegato panorama istituzionale che ruota attorno alle galere. La figlia di un uomo in permesso premio si è talmente affezionata ai carabinieri della caserma dove si deve presentare per obbligo di firma da volerlo sempre accompagnare. Un’altra scambia tutti gli agenti della polizia penitenziaria per il proprio papà grazie alla loro affabilità. La mamma le ha spiegato che si va in carcere “a trovare papà” dunque tutte quelle persone gentili sono papà. Al contrario naturalmente non aiutano le piccole vessazioni a cui si è vincolati da un “regolamento” che non opera alcuna distinzione da caso a caso. Perquisizioni umilianti, pesanti cancelli, il rumore delle chiavi che si chiudono alle spalle, la stanza spoglia e disadorna dove incontrarsi. Invece di creare un ambiente giocoso e gioioso. Ci vorrebbe poco. Per i giustizialisti a tutti i costi probabilmente sarebbe un privilegio inaccettabile. Si può diventare pregiudicati, non si finisce di essere genitori. Gli psicologi e gli operatori del carcere osservano una costante, qualunque sia il grado di pericolosità del soggetto. Photoshop aiuta a fingere una realtà da cui si è naturalmente esclusi. E così il detenuto appare nelle immagini delle ricorrenze importanti, la torta di compleanno, il Natale, la Pasqua. La costruzione dell’idea di una normalità. Anche quando la normalità non tornerà mai più. Un uomo che ha strangolato la moglie davanti alle sue bambine di 5 e 8 anni esasperato, dice, dai di lei continui insulti, dal carcere scrive lettere piene d’amore per le figlie e si arrabbia per l’immancabile mancata risposta. Un mafioso pluriergastolano di pochissime parole cominciò ad aprirsi con la sua psicologa confidandole che aveva un figlio ma che era morto. In quali circostanze? Dopo un lungo silenzio spiegò che era molto affezionato a quel ragazzo ma per lui era come morto perché si vestiva da donna. Dunque rifiutava di accettare la sua richiesta di colloquio. Non lo voleva più vedere. Solo dopo un lungo percorso accettò l’idea che agendo così era come se lo uccidesse lui stesso. Hanno ripreso alfine a frequentarsi. Proprio nel periodo dell’arresto, un calabrese ha perso l’unico figlio. Ha voluto però dare alla moglie la possibilità di essere madre attraverso la fecondazione artificiale, una scelta ormai sempre più frequente data l’impossibilità di avere rapporti come avviene in nazioni più evolute. E già sembra di sentire l’eco di un’obiezione: ma come, vogliono persino fare sesso? Comunque il bambino che è nato ora ha tre anni. Il padre lo ha sempre visto solo dietro le sbarre. In generale i detenuti tendono a separare nettamente la loro famiglia criminale dalla loro famiglia affettiva. In molti si vantano di “non litigare mai con i figli quando vengono al colloquio”. Esasperando, a detta degli esperti, la percezione di eccezionalità di quella situazione. Quando sarebbe invece più corretto che il rapporto fosse basato il più possibile sulla verità per conservare il proprio ruolo genitoriale. Non è facile, ma quando succede si possono leggere lettere come quella scritta da Giacomo a suo padre con cui, nonostante le mura della prigione, è riuscito ad avere una relazione matura: “Ho fatto due conti con la calcolatrice della Benedetta e ho scoperto che uscirai il giorno prima che io compia 18 anni. Quel giorno saranno 13 anni che sei sparito da casa, ma almeno diventerò grande - come dicono i miei amici - sentendo la tua voce che mi dirà “buon compleanno Giacomo”. Me lo dirai guardandomi negli occhi e non per telefono come in questi ultimi anni. La mia vita sarà segnata per sempre dalla tua storia. Quando diventerò grande potrò dire di avere imparato presto che le bugie hanno le gambe corte e che è meglio essere poveri ma dormire piuttosto che viaggiare su una barca e provare paura quando suona il campanello all’alba. Io e Benedetta siamo ancora qui che ti aspettiamo perché la mamma ci ha sempre detto: “papà un giorno avrà bisogno di voi”. E quando tu avrai bisogno, papà, sappi che noi ci saremo sempre”. L’Italia scopre il reato di tortura. Nonostante i negazionismi di Lorenzo Guadagnucci perunaltracitta.org, 1 ottobre 2019 Succede a San Gimignano che quindici agenti di Polizia penitenziaria siano indagati per una serie di presunti abusi sui detenuti: oltre che di minacce, lesioni aggravate e falso ideologico, sono accusati anche di tortura, in base alla legge approvata nel 2017. E succede a Monza che il Dap - il Dipartimento di amministrazione penitenziaria - allontani dal servizio a contatto coi carcerati quattro agenti dopo la denuncia di un detenuto che sostiene di essere stato preso a calci e pugni, in attesa che la magistratura decida se e come intervenire (anche qui si potrebbe ipotizzare il reato di tortura). Sono fatti di cronaca ancora da accertare ma che ci rammentano una verità spesso rimossa: l’attualità della questione-tortura, erroneamente reputata dai più una vicenda del passato, consegnata ai meandri più oscuri della storia. L’abuso sui detenuti, sui fermati, su persone prese in consegna è un pericolo incombente su ogni forza di polizia - anche nei regimi democratici. C’è una storia della “tortura democratica” poco scritta e ancor meno conosciuta che dovremmo invece avere ben presente, perché lo snodo diritti della persona/condotta delle forze di sicurezza è un aspetto decisivo per la qualità di una democrazia. Nel nostro paese si parla malvolentieri di questo argomento. È diffusa addirittura una postura negazionista, come ben sa chi abbia seguito il tortuoso e a tratti allarmante iter della legge approvata malvolentieri nel 2017 sull’onda dello scandalo suscitato dalle condanne subite dall’Italia davanti alla Corte europea per i diritti umani, chiamata a giudicare i casi Diaz e Bolzaneto, ossia le clamorose torture praticate durante il G8 di Genova del 2001. La legge sulla tortura, nonostante tutto, è stata fortemente contrastata dai vertici delle forze dell’ordine e alla fine approvata (con trent’anni di ritardo rispetto agli impegni presi dall’Italia in sede Onu) solo al termine di un’accurata operazione di svuotamento dall’interno del suo contenuto. La legge è stata scritta in modo così contorto e così malizioso da risultare pressoché inapplicabile a tutti i casi più delicati e probabilmente più frequenti. Basti dire che alla vigilia del voto finale, undici pm e giudici genovesi, tutti impegnati a vario titolo nei processi scaturiti dal G8, hanno messo in guardia i parlamentari con una lettera formale inviata a deputati e senatori: attenti, hanno scritto, la legge che state approvando è così poco chiara e confusa, che se fosse esistita prima del 2001 probabilmente non sarebbe stata applicabile ai casi Diaz e Bolzaneto. I magistrati segnalavano dunque un paradosso - una legge discussa sull’onda di casi eclatanti, ma scritta in modo da escluderne l’applicazione in casi analoghi - ma il loro messaggio è stato ignorato dal parlamento. E possiamo aggiungere che a fine 2017, cioè pochi mesi dopo il varo della legge, il Comitato dell’Onu di prevenzione della tortura l’ha bocciata e ha invitato il parlamento italiano a cambiarla, quindi prima ancora che un giudice pensasse di poterla applicare a un caso concreto. La legge del 2017 differisce in modo sostanziale dal modello sottoscritto da decine di paesi (Italia inclusa) in sede di Nazioni Unite per più aspetti, a partire dal suo impianto: il parlamento italiano ha scelto di qualificare il crimine di tortura come un reato comune anziché come un reato specifico del pubblico ufficiale. Una concessione alla postura negazionista diffusa nei corpi di polizia, quasi offesi che si pensi necessaria una legge in materia. E poi differisce quando usa il plurale anziché il singolare, escludendo di fatto la tortura eseguita con atto singolo; e ancora - aspetto gravissimo - quando per la tortura psicologica, la più diffusa e anche la più difficile da accertare poiché non lascia segni sui corpi, pretende non solo che siano accertati i fatti ma anche che vi sia, caso per caso, un “verificabile trauma psichico”, concetto sempre incerto in materia psichiatrica e assurdo in sede penale: basti pensare che a parità di maltrattamento subito, l’eventuale diversa reazione psicologica della vittima (o la difformità di giudizio dei periti) potrebbe portare a conclusioni opposte: c’è tortura in un caso, non c’è tortura in un caso identico. La legge del 2017, per come è stata scritta e anche per come se ne è discusso (o meglio: per come non se ne è discusso), ha mancato soprattutto l’obiettivo che dovrebbe essere primario: esercitare un’opera di persuasione e prevenzione all’interno delle forze dell’ordine diffondendo princìpi cardinali come l’obbligo di trasparenza, la responsabilità di fronte ai cittadini, l’obbligo di collaborare con la magistratura nell’accertamento dei fatti, la sacralità del corpo del detenuto. La tortura è fra noi e non siamo finora riusciti a contrastarla in modo adeguato sul piano politico e culturale. Le notizie di cronaca di questi giorni ce lo ricordano. I magistrati dovranno accertare i fatti e valutare la possibilità di applicare la deficitaria legge del 2017, ma qualsiasi cosa accada in tribunale, ben poco cambierà se non riusciremo ad aprire un percorso serio di riforma delle nostre forze dell’ordine, tuttora chiuse al dialogo con il resto della società, ferme al vetusto e pericoloso modello autoreferenziale permesso da decenni di ignavia e complicità di governi e parlamenti. Il rebus Giustizia e le riforme destinate a fallire di Massimo Krogh Il Mattino, 1 ottobre 2019 Tra le riforme senza successo, quelle sulla giustizia hanno sicuramente il primato. Ora ne avanza un’altra, quella di portare la durata complessiva del processo ad un massimo di quattro anni. Ci vuol poco a prevedere un altro insuccesso; per parlare di penale, come in altre occasioni ho già detto, la responsabilità non può risalire ai magistrati, che lavorano con impegno e passione, ma al numero enorme di processi, spesso inutili, che il nostro sistema giudiziario produce con l’obbligatorietà dell’azione penale. La quale interviene come supplenza alla inefficienza della pubblica amministrazione, una supplenza, peraltro, divenuta impropriamente stabile. Vi è poi da dire, fra le stranezze del nostro processo, che i molti reclami previsti dal legislatore come una garanzia, si trasformano in danno, poiché nella gestione concreta rendono il nostro processo una “lumaca” dannosa per tutti. Altra stranezza: vige il principio del libero convincimento del giudice, nato con la Rivoluzione Francese e da noi ereditato con il codice napoleonico. Dovrebbe essere una garanzia, ma il risultato è che, con l’uso personale che ogni giudice può fare del proprio convincimento, lo stesso fatto può essere considerato per un giudice un reato e per un altro giudice un fatto penalmente irrilevante. In altre parole, il nostro servizio giudiziario privilegia la verità materiale, cioè quella reale, piuttosto che quella emergente dalle carte processuali. Tutto ciò produce un panorama molto variabile. In questo contesto burocratico sommerso da incertezze, la Cassazione ha una funzione nomofilattica, cioè quella di assicurare la certezza del diritto attraverso l’uniformità della interpretazione normativa; ma è ovvio che i contrasti vi sono e viziano la funzione nomofilattica della Cassazione. Per evitare un ingresso nel merito, da parte della Corte di legittimità, nel 1988 si introdusse il criterio per cui il vizio di motivazione da introdursi nel ricorso per cassazione dovesse risultare dal testo stesso della sentenza impugnata. Su questi temi si aprì un dibattito durato anni e alla fine, nel 2006, intervenne la modifica perla quale il vizio di motivazione potesse essere dedotto anche per incompatibilità della sentenza gravata con atti del processo (riforma Pecorella). Penso di non sbagliare affermando che nel nostro Paese il “male assoluto” sia la burocrazia, entrata insidiosamente anche nei codici e quindi nei processi; potrei citare molti articoli dei codici che si perdono in richiami di altri articoli in un circuito senza fine che rende possibile ogni giudizio diverso da un altro e che produce una confusione insostenibile. Provate a leggere l’articolo 163 del codice penale, un labirinto sul come si può entrare o uscire dal carcere. Ancora, il ricorso per cassazione può farsi per “manifesta” illogicità. Perché manifesta, esiste forse la illogicità “occulta”? Ciò solo per segnalare la sovrabbondanza burocratica di cose inutili che rendono il servizio giudiziario una sorta di rebus bisognoso di continui chiarimenti e dunque di continue riforme, destinate all’insuccesso. Di qui la necessità di sempre nuove riforme, di qui il fallimento di ogni riforma e la proposizione di un’altra. Non credo sia sbagliato affermare che il problema nasce e sopravvive per un difetto di cultura divenuto generazionale. La cultura non si promuove con le riforme. Naturalmente, il ricambio culturale necessita di tempi molto lunghi. È vero, ma questi tempi non possono abolirsi con riforme inutili, che invece li allungano. Nell’attesa e nella speranza di un ricambio culturale, oggi occorrerebbe forse più astinenza degli avvocati e delle parti nella produzione civilistica e più prudenza peri pubblici ministeri nelle iscrizioni nel registro delle notizie di reato. Prescrizione, il piano di Renzi: va ripristinata per chi viene assolto di Errico Novi Il Dubbio, 1 ottobre 2019 Italia Viva pronta a chiedere di rivedere la norma. Di tutto. Parla di tutto Renzi. Nella sua intervista di ieri al Foglio c’è un manifesto politico. Con brevi, brevissimi accenni alla giustizia. Solo elogiativi nei confronti di Bonafede, che incrocia nella corsia del sorpasso sul Pd. “Io ci sto”, dice a proposito del sorteggio per l’elezione dei togati al Csm, ipotizzato dal guardasigilli ma sgradito ai dem. Dice anche che il ministro della Giustizia ha “obiettivi interessanti” riguardo alla riduzione dei tempi nel processo penale. Ma non si lascia sfuggire mezza parola sul tema vero: la prescrizione. Ed è chiaro il motivo. È chiaro nella dichiarazione di venerdì sera, rilasciata alcune ore dopo il vertice a Palazzo Chigi fra il premier Conte, il guardasigilli Bonafede, il vicesegretario Pd Orlando e il sottosegretario Giorgis: “Vi aspettiamo in aula per offrire i nostri suggerimenti”. Una vuota, seppur minacciosa allusione? Non proprio. Perché il piano di Matteo già è disegnato, spiega dietro richiesta di anonimato una fonte di Palazzo Madama assai vicina a Renzi. “Se n’è parlato nei giorni scorsi all’interno del Italia viva”, dice. Maria Elena Boschi, intervistata sabato da Sky, vi ha fatto implicito riferimento, quando ha detto che sullo stop alla decorrenza dei termini processuali “cercheremo di trovare una soluzione”. Quale? Semplice. “Italia viva, in Parlamento, e non nei vertici preliminari, chiederà che la norma sulla prescrizione venga modificata nel senso di ripristinare l’istituto per gli imputati assolti in primo grado”, spiega la fonte renziana. Ecco la “soluzione condivisa” evocata da Boschi. C’è un problema. Bonafede e il Movimento 5 Stelle non intendono tornare indietro sull’abolizione dell’istituto, approvata a fine 2018 con la “spazza corrotti”. “Entrerà in vigore il 1° gennaio”, ha detto Bonafede, a proposito di quella norma, nella sua intervista di domenica scorsa al Fatto quotidiano. Laconico. Non c’è altro da aggiungere, dal suo punto di vista. Ma adesso arriva Renzi. In apparenza frustrato per l’esclusione dal vertice di venerdì. In realtà contentissimo. Ha un motivo in più per dire la sua senza mediazioni. E lo farà. Con conseguenze imprevedibili. Perché per ora i parlamentari di Italia viva non fanno filtrare molto altro. Si sa appunto che sulla prescrizione considerano accettabile l’ipotesi del passo indietro parziale, relativo alle assoluzioni. Il punto è se il rigetto, quasi certo, dell’ipotesi li indurrà a far venir meno i loro voti sulla riforma del processo. Non è escluso. Ma la fonte renziana non si sbilancia. Si limita a un’interessante analisi: “Se davvero entrasse in vigore uno stop totale alla prescrizione, nei prossimi anni si assisterebbe a un ingorgo pazzesco, a un grave rallentamento dei processi: verrebbe meno il solo elemento che oggi induce la magistratura inquirente a operare una pur impropria selezione tra i fascicoli”, è il ragionamento. “Quelli che hanno qualche chances di arrivare a sentenza definitiva vanno avanti, gli altri no. Con lo stop alla prescrizione tale filtro scompare. E la quantità di procedimenti che si scaricherebbe sulle Corti d’appello sarebbe insostenibile. A quel punto, naufragherebbe qualsiasi intervento mirato a ridurre i tempi della giustizia penale”. I renziani rifaranno il ragionamento anche durante l’esame della riforma: questo sembra invece certo. La loro riflessione coincide in parte con l’analisi dell’Unione camere penali che ieri, contro la prescrizione, ha deliberato un’intera settimana di astensione dalle udienze, dal 21 al 25 ottobre. Non si può dire che Renzi abbia già deciso di bloccare la riforma penale qualora la sua ipotesi venga rigettata. Ma certo, se decidesse di farlo, metterebbe in serissima difficoltà il Pd. Fin dall’intervista di un mese fa alla Stampa, Orlando ha sempre detto che lo stop alla prescrizione sarebbe anche un accidenti tollerabile, se però si introducessero altre garanzie processuali. Ma se invece Renzi bloccasse del tutto il ddl penale, il Pd di troverebbe costretto a chiedere di far slittare l’entrata in vigore della nuova prescrizione, come prefigurato nelle note diffuse dal Nazareno nello scorso fine settimana. Solo un via libera alla mezza correzione ipotizzata da Italia viva sbloccherebbe la partita. Via libera assolutamente improbabile. Certo, se arrivasse, Renzi certificherebbe la propria golden share nei confronti del Pd, nonostante le pattuglie parlamentari formalmente ridotte. Franco Vazio, renziano di lungo corso ma rimasto nelle file del Pd, vicepresidente della commissione Giustizia di Montecitorio, da una parte minimizza il problema prescrizione (“è solo una bandiera”), ma dall’altra suggerisce un’analisi quasi sovrapponibile a quella di Italia viva: “Se ne analizzassimo gli effetti scopriremmo che, paradossalmente, allungherebbe i processi”. Dal fronte Nazareno si scorge la chiara volontà di non far precipitare gli eventi. Andrea Orlando, anzi, incontrerà di nuovo Bonafede nelle prossime ore. Si deciderà sullo spacchettamento del ddl delega, che sarà in parte riscritto, in modo da collocare su un binario più leggero la parte relativa al civile e far correre invece sulla linea ad alta velocità il ddl relativo al penale e al Csm. Si comincerà a stilare la road map per ridiscutere il decreto intercettazioni. Ma nel frattempo si dovrà fare i conti con il terzo incomodo, cioè Matteo Renzi. Come forse era chiaro fin dal mese di agosto. Il giusto sciopero sulla prescrizione. Penalisti contro la riforma Bonafede di Claudio Cerasa Il Foglio, 1 ottobre 2019 L’Unione delle camere penali italiane (Ucpi) ha proclamato cinque giorni di sciopero, dal 21 al 25 ottobre, per protestare contro l’imminente entrata in vigore (prevista il 1 gennaio 2020) della riforma che di fatto abroga la prescrizione dopo una sentenza di primo grado. Una riforma, affermano gli avvocati penalisti, che rappresenta “una delle pagine più sciagurate della deriva populista e giustizialista del nostro paese, giacché afferma il principio, manifestamente incostituzionale, secondo il quale il cittadino, sia esso imputato che parte offesa del reato, possa e debba restare in balla della giustizia penale per un tempo indefinito, cioè fino a quando lo stato non sarà in grado di celebrare definitivamente il processo che lo riguarda”. La decisione della giunta Ucpi, presieduta da Gian Domenico Caiazza, di deliberare l’astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria per cinque giorni fa seguito al vertice sulla giustizia tenuto la scorsa settimana dalla nuova maggioranza M5S-Pd, dal quale è emersa un’intesa per riformare il processo penale entro la fine dell’anno, ma anche un no del Guardasigilli Alfonso Bonafede a modificare la riforma della prescrizione. “Il ministro della Giustizia - sottolineano i penalisti - ha pubblicamente dichiarato che nessun intervento è previsto su quella norma, mentre il Pd ha formulato, sul punto, riserve assai blande, indeterminate nei contenuti e non di rado contraddittorie”. Dall’altro lato, “è manifestamente inverosimile il proposito, pure sorprendentemente avanzato dal ministro, di un intervento di riforma dei tempi del processo penale prima della entrata in vigore della riforma della prescrizione”. “È chiaro a tutti gli addetti ai lavori, anche alla magistratura-concludono i penalisti - che l’entrata a regime di un simile, aberrante principio determinerebbe un disastroso allungamento dei tempi dei processi, giacché verrebbe a mancare la sola ragione che oggi ne sollecita la celebrazione”. Da qui la decisione di scioperare contro la “bomba atomica” sul processo penale, così come la definì l’allora ministro Giulia Bongiorno, pur votando la riforma insieme a tutta la Lega. Olga D’Antona: “Il reddito all’ex Br? Non ne ha bisogno lo lasci ai veri poveri” di Claudia Voltattorni Corriere della Sera, 1 ottobre 2019 Il caso Saraceni, la Br condannata per il delitto del giuslavorista che riceve il reddito di cittadinanza. L’amarezza della moglie: “Pieni diritti a chi sconta la pena, lei è ai domiciliari”. “Non sempre ciò che è legale è anche giusto”. E in questo caso, “è evidente che c’è una falla nella legge che andrebbe sanata, il Parlamento ha il dovere di farlo”. Perché il reddito di cittadinanza concesso all’ex brigatista Federica Saraceni, condannata a 21 anni e sei mesi per l’omicidio di Massimo D’Antona e ora agli arresti domiciliari nella sua abitazione, è una notizia che alla vedova del giuslavorista ucciso a Roma il 20 maggio 1999 Olga non ha fatto certo piacere. “Ho provato un grande senso di ingiustizia”, dice al Corriere. Dallo scorso agosto, la Saraceni, madre di due bambini, riceve 623 euro al mese grazie al sussidio ideato dal Movimento Cinque Stelle per chi si trova al di sotto della soglia di povertà. La misura serve per aiutare chi non ha un’occupazione a reinserirsi nel mondo del lavoro. Perciò se l’ex brigatista dovesse essere chiamata dai navigator per un colloquio e poi ottenere un lavoro, potrebbe ottenere il via libera dal Tribunale di sorveglianza. La signora Saraceni sta scontando la sua condanna, non crede abbia diritto ad una seconda possibilità? “Avrebbe senso se avesse finito di pagare il suo debito con la giustizia. Io sono favorevole a concedere i pieni diritti a chi ha scontato la propria condanna e soprattutto dopo un percorso di ravvedimento. Invece la Saraceni è a casa sua, agli arresti domiciliari, e ancora non ha concluso il suo percorso”. Il ministero del Lavoro e l’Inps che concede il sussidio stanno effettuando tutti i controlli per verificare se Federica Saraceni ha effettivamente diritto al reddito di cittadinanza. Ma legalmente al momento la sua richiesta sembra ineccepibile. Per il presidente dell’Inps Vincenzo Tridico “i requisiti reddituali, patrimoniali e occupazionali che competono all’Inps ci sono”. E sottolinea che “basta leggere la legge: la norma prevede che se una persona ha avuto una condanna nei 10 anni precedenti c’è il blocco, ma Federica Saraceni l’ha avuta 12 anni fa”. È sbagliata la legge? “C’è differenza tra legale e giusto. E visto come stanno le cose, considerato che la Saraceni non è l’unica a trovarsi in queste condizioni, perché altri ex terroristi hanno ottenuto il reddito, allora la legge è fatta male e va corretta. Mi auguro che il Parlamento se ne occupi in tempi brevi: è un dovere dei parlamentari intervenire”. Suo marito Massimo D’Antona avrebbe ideato una legge come questa? “Non rispondo a questo genere di domande. Nessuno può sostituirsi al suo pensiero”. Il leader della Lega Matteo Salvini minaccia di bloccare il Parlamento se non verrà ritirato il reddito alla Saraceni, è d’accordo? Lui era al governo e con il suo partito ha votato e approvato la legge sul reddito di cittadinanza. “Tutti possono sbagliare, Salvini ha la possibilità di riparare ai suoi errori e anziché fare sciopero e minacciare di bloccare il Parlamento, vada a lavorare e proponga un ordine del giorno per correggere l’errore fatto, lui può farlo”. Federica Saraceni non doveva chiedere il reddito di cittadinanza? “Io credo che lei non ne avesse davvero bisogno. Ha una famiglia alle spalle che da sempre si occupa di lei e dei suoi figli, che l’ha sempre sostenuta e e le è sempre stata vicino. Rinunci al reddito e lo lasci a chi ne ha davvero bisogno”. Vi siete mai incontrate? Le ha mai scritto, magari per chiederle scusa? “No, non sono mai stata contattata da questa persona, da altri sì, ma da lei no. Così come non ho mai percepito un suo ravvedimento”. Vorrebbe incontrarla? “No, lei e la sua famiglia non sono persone che vorrei incontrare”“. Oristano. “Vi scrivo dal carcere di Massama, dove viviamo in condizioni pessime” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 ottobre 2019 Molte carceri sono illegali, nel senso che non rispettano la cosiddetta legalità costituzionale. Questo perché, il più delle volte, violano l’articolo 32 della Costituzione che tutela la salute come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività, e l’articolo 27 per il quale in nessun caso la legge può determinare come pene “trattamenti contrari al senso di umanità”. Lo scopriamo attraverso i puntuali rapporti redatti dall’autorità del Garante nazionale delle persone private della libertà, dalle denunce da parte delle associazioni come Antigone e Yairaiha Onlus, oppure dalle visite nelle carceri effettuate dal Partito Radicale. Ma lo veniamo a sapere anche da chi sconta direttamente la pena in quei luoghi. Il Dubbio, ad esempio, ha ricevuto la lettera di un detenuto nella sezione di alta sicurezza del carcere sardo di Massama, ad Oristano. Scrive per conto di tutti gli altri detenuti, per “dare voce a chi non ce l’ha”. Scrive che, loro non fumatori, sono “chiusi 20 ore al giorno, chi fuma può usufruire di due ore di saletta pomeridiana, unica saletta in sezione”, e aggiunge che “non esiste vigilanza dinamica, video-skype, che per noi che siamo “deportati” sull’isola diventa vitale fare la videoconferenza con i familiari, considerate le spese eccessive che le famiglie si devono sobbarcare per fare i colloqui visivi ogni mese. Facendoci mancare il supporto familiare ci dobbiamo accontentare di telefonate ordinarie più due straordinarie se ti comporti bene”. Il detenuto aggiunge altri particolari, come il discorso del sovraffollamento. “Le celle detentive sono dimensionate per due persone - scrive nella lettera - oggi risultano occupate tutte da tre persone, alla faccia della sentenza pilota Torreggiani. Il sovraffollamento non ci viene riconosciuto con la scusa che i letti non sono saldati alle pareti e sono provvisori. In istituto ci sono tantissimi ergastolani con problemi di salute, e che dovrebbero stare in celle singole”. Ma c’è anche il discorso del lavoro, del tutto inesistente. “L’unico lavoro che ci è consentito - denuncia sempre il detenuto recluso nel carcere sardo di Massama - è di due mesi all’anno se si è fortunati. Lo spesino, il porta-vitto, lo scopino, lavoro che si svolge in sezione di una ora al giorno, con una mercede di 40-50 euro mensili, per noi definitivi”. Non manca di denunciare la criticità idrica, con conseguenze da terzo mondo. “La sera verso le 22.15 ci viene chiusa l’acqua fino al mattino e viene aperta elle 6.30 violando le più elementari leggi sanitarie, ci organizziamo la sera riempiendo secchi e bottiglie”, scrive sempre il detenuto. Poi affronta il discorso trattamentale, che secondo il recluso è del tutto carente. “Organico incompleto di educatrici, psicologi, assistenti sociali, non esistono volontari. Siamo costretti a fare decine di domandine per avere udienza con il direttore, comandante, magistrato. Ma rimangono lettere morte”, si legge nella lettera. Poi aggiunge altro, che ovviamente è tutto da verificare. Sottolinea un atteggiamento, a detta sua, vendicativo da parte dell’amministrazione penitenziaria del carcere di Oristano. “Ci hanno sequestrato computer, macchinette, taglia capelli, pennarelli, pastelli, evidenziatori, materiale che utilizziamo per la scuola e la pulizia personale togliendoci il piacere di fare qualche disegno per i nostri figli”, denuncia il recluso, aggiungendo che “è tutto materiale comprato regolarmente e a caro prezzo presso l’istituto, con l’aggravante della ulteriore spesa per il computer di 150 euro per renderlo “consentito”“. Infine conclude, con una speranza: “Le nostre dimostranze non sono richieste di non pagare il nostro debito con lo Stato, ma sono volte a migliorare la nostra detenzione e renderla più umana. Poiché abbiamo ancora voglia di imparare, che non ci è mai passata”. Aversa (Ce). Nessuno paga per la morte di Seiano, ucciso il giorno in cui riuscì a esprimersi di Adolfo Ferraro* Il Dubbio, 1 ottobre 2019 Era nell’Opg di Aversa, gli imputati ritenuti incapaci di intendere e volere. Le storie dei sofferenti psichiatrici tendono a essere dimenticate, anche perché spesso sono tristi e disperate, e proprio per questo vengono facilmente rimosse. Mentre invece dovrebbero indurre a riflettere e confrontarsi, a volte anche con sé stessi. È terminato pochi giorni fa presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere un processo per omicidio volontario avvenuto nel 2010 nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Aversa, dove erano imputati quattro detenuti/ internati responsabili di avere massacrato di botte fino ad ucciderlo un altro internato rinchiuso nella stessa cella dei suoi assassini. La vittima si chiamava Seiano Cibati. Seiano Cibati era un omino quarantenne invecchiato in fretta, clinicamente definito “oligofrenico e mutacico” nel senso che partecipava poco a quello che gli succedeva intorno, e soprattutto non parlava. Non perché non avesse la voce, ma la usava poco, e in genere quando doveva timidamente incazzarsi ad ogni proroga della sua permanenza in Ospedale Psichiatrico Giudiziario: sarebbe dovuto rimanere lì perché responsabile di un reato di poco conto e per una antica schizofrenia autistica, ma le continue proroghe dei due anni a cui era stato inizialmente condannato si protraevano da quasi un decennio a causa di impossibilità di accoglienza esterna. A quell’epoca funzionava così, e l’ingiustizia a cui Seiano doveva sottostare amplificava una forma di ritiro da cui era difficile tirarlo fuori. Poi riuscì a partecipare a un laboratorio teatrale nell’istituto aversano tenuto da due straordinari operatori/teatranti, Trono e Gesualdi di Teatringestazione, interpretando un ruolo in una rivisitazione del Caino di Byron dove doveva muoversi poco e parlare mai. Quando rappresentarono in pubblico lo spettacolo al Teatro Mercadante di Napoli - era appunto il 2010 - egli fu attento e presente nella rappresentazione dove la sua partecipazione era fondamentale, nonostante le limitazioni del suo stato. E alla fine dello spettacolo, sugli applausi di un pubblico entusiasta e commosso, si staccò dal gruppo degli altri internati/ attori e, sul proscenio, urlò a gran voce il suo nome. Cibati Seiano. C’era anche lui. Era il 26 settembre 2010. Quella stessa sera, rientrando nell’istituto e nella sua cella Seiano probabilmente era contento: la gratificazione della rappresentazione, gli applausi e i sorrisi, erano diventati il riconoscimento del suo esserci e l’inizio di una diversa considerazione di sé. Nella cella erano in sette e quattro di loro, più delinquenti che malati di mente, avevano però deciso di dargli una lezione perché, non si sa come, si era sparsa la voce (falsa) che Seiano fosse un pedofilo. E, secondo la regola del carcere come all’epoca quel luogo era diventato, lo massacrarono di botte, fino a mandarlo in coma. Resistette qualche giorno in sala di rianimazione e poi morì, scomparendo così come era venuto. Il processo ai quattro aggressori, si diceva, è terminato pochissimi giorni fa, e ha riconosciuto i due detenuti imputati (gli altri due nel frattempo erano deceduti) assolti dai fatti contestati perché gli unici due testimoni del pestaggio, gli altri occupanti della stanza, sono stati ritenuti incapaci di intendere e volere e quindi non credibili a rendere testimonianza. Straordinariamente dal processo erano scomparsi come imputati quelli che istituzionalmente avrebbero dovuto vigilare sulla sua integrità e che, con la loro assenza, avevano reso possibile l’omicidio. Seiano Cibati se ne è andato così, con la stessa placida incazzatura con cui aveva affrontato la vita, da matto, ucciso da altri matti, non tutelato per l’assenza delle istituzioni e privato della giustizia a causa della non credibilità di altri matti ancora. La giustizia è eguale per tutti, si dice. Per Seiano Cibati lo è stata un po’ meno. *Psichiatra Roma. Rems piene, detenuto con problemi psichiatrici resta in carcere di Antonella Napoli articolo21.org, 1 ottobre 2019 Giacomo Seydou Sy è in carcere da quattro mesi ma dovrebbe essere in una Residenza per l’esecuzione della pena per curarsi. Giacomo ha poco più di 25 anni ed è affetto da bipolarismo motivo per il quale, secondo la relazione psichiatrica, è “inadatto al regime carcerario”. Il suo caso, nonostante sia di dominio pubblico e sia stato preso in carico dal Garante dei detenuti del Comune di Roma, Gabriella Stramaccioni, sembra destinato a non trovare una soluzione. “Articolo 21 - ha esordito la portavoce Elisa Marincola, aprendo la conferenza stampa che si è svolta in Federazione nazionale della stampa - ha deciso di affiancare la mamma del giovane, Loretta Rossi Stuart, in questa battaglia di giustizia e diritti, raccogliendo il suo appello ad aiutarla a salvare suo figlio. Bisogna fare presto, da una settimana Giacomo è in isolamento a Rebibbia e questo può aggravare le sue condizioni. Ci affianchiamo alla rete di associazioni e alle istituzioni, dal Garante nazionale per le persone private delle libertà, che stanno cercando una soluzione al caso”. Il problema è rappresentato dalla mancanza di posti nelle Rems, le strutture che hanno sostituito gli ospedali psichiatrici giudiziari chiusi per legge. Attualmente nel Lazio sono in 43 ad attendere il ricovero, 200 in tutta Italia. Nell’attesa che se ne liberi uno chi è stato incarcerato con patologia che richiedono assistenza specializzata deve restare dietro le sbarre. “Mio figlio è bipolare, non dovrebbe stare in carcere, lo dice la legge, ma nelle strutture psichiatriche previste per lui. È esasperato dalla situazione. Continua a resistere ma è assolutamente consapevole che lui non dovrebbe essere in cella. La mia battaglia è per lui e per gli altri che aspettano chiusi in carcere quando dovrebbero essere curati altrove. Spero che la mia battaglia serva almeno a questo: a dare voce a chi non ce l’ha” aggiunge questa madre coraggio che in questi mesi non ha smesso un solo istante di combattere per i diritti di suo figlio. E gli esperti, le autorità in materia le danno ragione. Come la Garante dei detenuti per il Comune di Roma Gabriella Stramaccioni che ha evidenziato sulla necessità di aumentare i centri Rems spesso “sovraffollati perché le strutture vengono concesse a chi ha misure provvisorie e non a chi ha misure definitive”. Alba (Cn). Il Garante dei detenuti: “in carcere mancano gli operatori” di Marcello Pasquero gazzettadalba.it, 1 ottobre 2019 La situazione del carcere Montalto è stata al centro della relazione presentata dal Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, l’onorevole Bruno Mellano, martedì 10 settembre al Consiglio regionale. Seduta caratterizzata dalle polemiche veementi della minoranza per l’assenza in aula della Giunta e in modo particolare dell’assessore competente. Mellano ha snocciolato i numeri relativi alle 13 carceri piemontesi, dove sono rinchiusi 4.700 detenuti, 600 in più della capacità massima che avrebbero le 13 strutture. Sovraffollamento che ha spinto i giudici a optare, spesso, per altre misure restrittive della libertà personale, monitorate dall’Ufficio esecuzione penale esterna con percorsi individuali di recupero e reinserimento. Le persone con ordinanze restrittive sono 8.850. Un sovraffollamento che si riscontra anche a livello nazionale con 60.800 detenuti in 139 carceri che dovrebbero ospitarne non più di 51 mila. Il garante piemontese dei detenuti si è poi focalizzato sul carcere Montalto di Alba, sottolineando come questo sia chiuso ormai da tre anni nel corpo principale: “Emblematico il caso del carcere di Alba: una delle ultime strutture costruite in Piemonte, che è andata incontro a un intervento di chiusura necessario per un’epidemia di legionellosi. Nel Montalto riscontriamo problematiche come la carenza di personale specializzato e di spazi per i collaboratori di giustizia. Non dimentichiamo l’articolo 27 della Costituzione, che sottolinea come le pene non possano consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e debbano tendere alla rieducazione del condannato”. Mellano ha rivolto parole lusinghiere all’ex sindaco, ora consigliere regionale, Maurizio Marello per l’impegno nel cercare di riaprire il carcere e di far fronte alle ristrettezze economiche dello stesso. Marello ha risposto: “La pena deve essere effettiva e giusta; e una pena è giusta quando le sue modalità di espiazione sono corrette. L’aspetto rieducativo a cui deve essere orientato il carcere riguarda le pene scontate all’interno e all’esterno dell’istituto ed è legato a possibilità di studiare e lavorare all’interno delle carceri, alla presenza del volontariato tra le celle. Il primo obiettivo per un Paese che vuole essere veramente sicuro è curare il regime carcerario e l’Ufficio del garante è un tassello importante in questo senso. Le criticità messe in luce nella relazione hanno riguardato la manutenzione delle carceri, ricordando a titolo di esempio Alba. L’onorevole Mellano ha posto inoltre grande rilievo sul fatto che i detenuti possano essere impegnati in attività, produrre vino e altro e vendere i loro prodotti, come avviene ad esempio nel carcere di Alba: questa opportunità collega la comunità carceraria a quella esterna ed è molto importante proseguire lungo questa strada”. Marello ha concluso ricordando il numero di suicidi in carcere in Italia: 64 nel 2018 con 1.297 tentati suicidi: “Il suicidio è la causa di quasi la metà delle morti in carcere (il 45 per cento di esse). Un sistema che funziona deve avere riscontri positivi: con questi dati significa che dobbiamo interrogarci profondamente su di esso”. Forlì. Accordo tra Comune e carcere: i detenuti svolgeranno lavori socialmente utili forlitoday.it, 1 ottobre 2019 Tra gli ambiti in cui i detenuti potranno impegnare il loro lavoro si evidenziano servizi di tutela e cura del patrimonio culturale. Per la prima volta sul territorio forlivese, è stato sottoscritto sabato, in occasione del 202esimo anniversario della Fondazione del Corpo di Polizia Penitenziaria, il Protocollo d’intesa tra la Casa circondariale di Forlì, il Comune di Forlì e l’ente di formazione Techne, per la realizzazione di un progetto di “lavori di pubblica utilità’” rivolto alle persone detenute nella Casa Circondariale di Forlì. Il Protocollo prevede che persone detenute nel carcere di Forlì, ammesse al lavoro all’esterno (ai sensi dell’articolo 21, comma 4 ter, della Legge 354/75), prestino un’attività non retribuita per conto del Comune di Forlì, a favore della collettività. Tra gli ambiti in cui i detenuti potranno impegnare il loro lavoro si evidenziano servizi di tutela e cura del patrimonio culturale, con particolare riferimento ai musei e alle biblioteche, cura e manutenzione del verde pubblico o azioni di tutela del patrimonio ambientale, attività di manutenzione e di cura del decoro di beni del patrimonio pubblico comunale (esempio giardini, ville e parchi) e tanto altro ritenuto dal Comune di Forlì funzionale al miglioramento della qualità della vita, alla protezione dei diritti della persona e alla tutela/valorizzazione dell’ambiente. L’ente di formazione Techne, di proprietà del Comune di Forlì (attraverso Livia Tellus Romagna Holding Spa) e del Comune di Cesena, firmataria del protocollo, mette a disposizione gratuitamente un proprio tutor specializzato per monitorare il percorso del detenuto e affrontare eventuali criticità che possano insorgere. L’agenzia formativa mette inoltre a disposizione i corsi di formazione obbligatori per la sicurezza su lavoro dei detenuti e provvede a garantire l’adeguata copertura assicurativa per gli infortuni. Hanno sottoscritto il Protocollo per il Comune di Forlì, il sindaco Gian Luca Zattini, per la Casa Circondariale di Forlì, la direttrice Palma Mercurio e per l’agenzia formativa Techne, il presidente Sergio Lorenzi. “Un progetto innovativo per il nostro territorio - sottolinea Palma Mercurio, Direttrice della Casa Circondariale di Forlì - che permette di offrire ai detenuti un’opportunità di recupero sociale, nell’ottica di una giustizia riparativa, che si mette al servizio della cittadinanza”. Per la Anna Maria Bernini, presidente dei senatori di Forza Italia, con l’accordo “si apre un’esperienza di sana e lungimirante amministrazione, un esempio per tutte le città che ospitano sul proprio territorio un istituto penitenziario. L’amministrazione forlivese di centrodestra, con azioni concrete ma per nulla scontate, aderisce in pieno ai principi costituzionali per i quali il carcere deve essere, anche e soprattutto, strumento di rieducazione. È su queste buone pratiche che si misurano le capacità dell’amministrazione del fare. Auspico che dal livello governativo si metta mano in tempi rapidi a una riforma complessiva che consenta ai primi cittadini di poter attuare tali politiche con facilità sempre crescente, ma anche provvedimenti che mettano i nostri agenti di Polizia penitenziaria nelle condizioni di lavorare al meglio con organici adeguati. Non ultimo, occorre prevedere quelle indispensabili forme di semplificazione per il trasferimento dei condannati stranieri nel loro Paese di origine, possibilità prevista dalla convenzione di Strasburgo proprio nell’ottica del reinserimento sociale del detenuto”. Roma. Cpr di Ponte Galeria, seconda rivolta in pochi giorni di Giansandro Merli Il Manifesto, 1 ottobre 2019 Sezione maschile quasi completamente inagibile. Il Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia: “È il risultato paradossale ma prevedibile dell’irrigidimento delle condizioni di detenzione”. La campagna LasciateCIEntrare: “Chiudere subito il Cpr”. Un altro pezzo del Centro di permanenza e rimpatrio (Cpr) di Ponte Galeria, alle porte di Roma, è stato reso inagibile da una rivolta dei reclusi nella sezione maschile. Domenica sera intorno alle 23.30 sono stati incendiati materassi e coperte nelle aree 3 e 4. Si tratta del secondo episodio in pochi giorni. Venerdì 20 un gruppo di migranti destinati al rimpatrio aveva bruciato i letti in un’altra area della stessa sezione. Risultato: stanze inutilizzabili, persone costrette a dormire all’aperto e 28 rilasci (mercoledì 25) per alleggerire la tensione all’interno della struttura. In quel momento gli altri sei Cpr operativi sul territorio nazionale erano pieni. Per questo non sono stati possibili trasferimenti. Stavolta, invece, in dieci sono finiti nelle analoghe strutture di Bari e Palazzo San Gervasio (Potenza). Lo riferisce il Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia. Ieri i suoi collaboratori hanno provato a effettuare una visita ispettiva all’interno del Cpr, ma hanno potuto soltanto parlare con i responsabili. Dalle informazioni raccolte, rimarrebbero agibili un settore da 24 posti, un altro da otto e una stanza con otto letti in un’area completamente danneggiata. Giovedì scorso un sopralluogo della Asl ha dato indicazioni per un progressivo svuotamento delle parti interessate dalle proteste. Il giorno successivo l’Agenzia regionale per la protezione ambientale (Arpa) ha posizionato dei rilevatori per esaminare la qualità dell’aria anche nelle unità danneggiate in modo solo parziale. Sono stati recuperati ieri e si attendono i risultati. “La situazione è anche l’effetto di un duro regime di detenzione che si è voluto dare alla sezione maschile dopo la riapertura - afferma Anastasia - Il divieto di muoversi tra le singole unità e quello di utilizzo dei cellulari hanno creato un clima difficile”. La sezione maschile è tornata in funzione a luglio scorso. Era stata completamente distrutta da una rivolta scoppiata nel dicembre 2015. Dopo soli due mesi è quasi completamente fuori uso. “Chiediamo l’immediata chiusura del Cpr”, dichiara la campagna LasciateCIEntrare. Trento. Aziz e quella forza di ricominciare, convegno multidisciplinare a novembre di Raul Leoni gnewsonline.it, 1 ottobre 2019 Si chiama Aziz, quarantenne marocchino, il detenuto simbolo di “Mai Più Qui. La Forza di Ricominciare”: la sua storia personale sarà al centro del Convegno Multidisciplinare che si terrà il prossimo 11 novembre dalle ore 9.00 nel Teatro San Marco di Trento. Il convegno, promosso dall’associazione di volontariato “Pesce di Pace” in collaborazione con l’Ordine dei Giornalisti del Trentino Alto Adige e l’Ordine degli Avvocati di Trento, è il terminale del progetto internazionale “Disegni a più mani”, che ha coinvolto negli ultimi anni, a distanza e in tempi successivi, migliaia di bambini in Paesi di differenti culture e religioni. Ai loro disegni erano associati messaggi di fraternità in varie lingue: da qui la necessità di tradurre i pensieri dei giovani autori con la collaborazione dei detenuti. Aziz, ristretto prima a Venezia e successivamente a Trento, era un detenuto analfabeta e non parlava italiano: ma ha subito preso a cuore questa iniziativa educativa e formativa e si è messo alla prova studiando la lingua italiana fino a conseguire in carcere il diploma di terza media. Dai lavori dei bambini è derivata la sua forza per cambiare un percorso di vita che dall’emarginazione l’ha condotto sulla via dell’integrazione. La vicenda di Aziz è diventata emblematica e a lui è stato proposto di descriverla in 25 brevi racconti poi illustrati in opere artistiche dagli accademici di Belle Arti di Venezia e di Tunisi. Il volume, stampato in mille copie che il detenuto ha pagato con i risparmi del suo lavoro in carcere, è stato presentato all’Accademia di Belle Arti di Venezia. All’evento dell’11 novembre - presenti giornalisti, avvocati e studenti liceali - Aziz sarà accompagnato da Anna Rita Nuzzaci, direttore dell’istituto “Spini di Gardolo” di Trento, e da Amina Selmane, console del Marocco. Tra i relatori Lauro Tisi, arcivescovo di Trento, Abdallah Mikail Mocci, imam della comunità islamica, e Yosef Labi, rabbino capo della comunità ebraica di Verona e Vicenza. Roma. La scuola in carcere per una nuova carta d’identità di Patrizia Corasaniti* epale.ec.europa.eu, 1 ottobre 2019 Il 9 ottobre, presso il bookshop del Palazzo delle Esposizioni di Roma, si terrà la presentazione del volume di poesie “Notti d’Alba” di Giampiero Cassarà, edito da Manfredi Edizioni per la collana Fuoricentro. Che cosa ha di speciale questo evento? Prima cosa l’autore: Giampiero Cassarà è una ex persona ristretta, sino a pochi mesi fa detenuto presso la Casa Circondariale di Regina Coeli. Seconda cosa, Giampiero è un mio ex studente. Uno studente che ho avuto in classe per ben due anni consecutivi. No, non era ripetente: il primo anno ha partecipato alle lezioni di scuola secondaria di I, il secondo anno, invece, ha preso parte a un laboratorio di scrittura creativa da me condotto presso la biblioteca di Regina Coeli. Quando ho conosciuto Giampiero, 5 anni fa, era stato trasferito da poco nella sezione in cui insegnavo inglese, dopo un lungo periodo trascorso in isolamento. Grazie all’incoraggiamento e alle insistenze di un suo compagno di stanza, si era fatto convincere a iscriversi a scuola. Ricordo bene i primi tempi: ricordo le sue difficoltà di concentrazione, ricordo la scarsa memoria, ricordo i problemi di attenzione causati dal prolungato regime di isolamento al quale era stato sottoposto. Partecipare alle lezioni, sforzarsi di entrare in relazione con i docenti, interagire con i compagni, essere “costretto” e esercitare la memoria, il ragionamento, a partecipare alle discussioni di classe, sentirsi di appartenere a un gruppo interamente dedicato al raggiungimento di un obiettivo congiunto - l’esame di terza media - a lui che - fuori dal carcere - aveva avuto prevalentemente solo relazioni di tipo “deviante”, il riuscire ad argomentare il proprio pensiero e le proprie opinioni, riuscire ad ascoltare gli altri in maniera attiva, aprirsi al confronto con compagni (tutti ristretti) provenienti da parti diverse del pianeta, riesce a smuovere qualcosa dentro di lui. Pian piano cominciamo a vedere i primi risultati, lentamente Giampiero esce dal suo guscio e, riacquistando un po’ di stima in se stesso, chiede di poter partecipare ad altre attività culturali proposte dalla Direzione. È proprio “dentro” che inizia a cimentarsi con il teatro, con la musica, la scrittura, le gare di retorica. Più va avanti più si scopre “affamato” di stimoli, di opportunità culturali, educative, creative che, al contrario, da giovane - spirito ribelle - aveva rifiutato. Grazie a queste attività, comincia ad acquisire quella sicurezza che gli permette di guadare al proprio passato e ai propri errori da altri punti di vista, apprendendo da essi e riuscendo in tal modo a ripensar-SI. Comincia a sentire che un cambiamento di rotta è possibile, che, anche da “dentro” si può guardare a se stessi come persone e non come mostri, che cambiare, seppure privati della libertà, è possibile. Comincia a scrivere i primi racconti, prendendo parte a un corso di scrittura creativa tenuto dalla sottoscritta. Ma è frequentando il corso di “scrittura trasduzionale”, condotto dalla bravissima Laura Grasso che affina le sue capacità e comincia a “liberarsi”. Io: “Giampiero, quando e come hai iniziato a scrivere?” Giampiero: “Ho iniziato senza sapere perché scrivevo. Era solo un “disturbo” che sentivo di avere come reazione alla realtà della galera., era un modo per dare libero sfogo alla mia rabbia e ad altri sentimenti che provavo “dentro”. Non partecipavo molto al jet set del crimine, cosa che la gran parte dei detenuti adora fare. Sembra strano, ma la poesia, come altre attività, non viene considerata un’attività “maschile” perché mostrarsi “criminale” in carcere fa molto più uomo che parlare di poesia. Ho iniziato a scrivere per cercare di dare una voce al mio dolore. Per ricordarmi come dentro di me ci fossero tante cose belle che non volevo mi venissero rubate per sempre. Ma, da bravo scrivano - un lavoro che in carcere ho svolto per lungo tempo - ho scritto anche poesie e lettere per guadagnarmi un po’ di tabacco. Ho scritto anche perché riuscivo a leggere il volto di ogni detenuto, ho scritto e scrivo perché l’empatia non ha maschere. Io: “Cosa ha rappresentato per te dedicarti alla scrittura?” Giampiero: “La scrittura, e la poesia in particolare, hanno rappresentato la mia nuova carta di identità, molto in contrasto con l’immagine che da anni mi era stata cucita addosso”. Io: “Cosa hai pensato quando ti è stato proposto di pubblicare una raccolta delle tue poesie?” Giampiero: “All’inizio ho pensato persino che mi fosse stato proposto per pietà. Infatti, sino ad allora, quando qualcuno si emozionava leggendo una mia poesia, e mi chiedeva se fossi stato io a scriverla, pensavo lo dicesse perché sentiva compassione per me. Ma io non volevo la pietà di nessuno ed è il motivo per cui non ho mai parlato di carcere nelle mie poesie. Semmai, ho trattato di come la poesia possa trasformare il carcere persino in qualcosa di bello. Sapere oggi che il 9 ottobre il mio volume sarà presentato al Palazzo delle Esposizioni, oltre a rendermi molto orgoglioso, mi fa sentire un grande senso di responsabilità verso quello che scrivo. C’è molto antagonismo, mi rendo conto, ma siamo tutti convinti di essere artisti? La vera poesia non cerca né premi né vincitori, ma solo persone che sappiano amare l’arte. Io: “Quale messaggio vorresti lanciare con la tua storia e la tua poesia?” Giampiero: “Non bisogna arrendersi mai. Non bisogna inseguire categorie o modelli negativi. Dobbiamo essere veri con noi e con gli altri. Sul carcere sussistono molti pregiudizi, in tanti pensano che i detenuti continuino a commettere reati anche quando mangiano o dormono. La poesia è l’arte di immaginare una vita semplice alla ricerca dell’amore. A chi sta dentro e a chi sta fuori vorrei dire di non sottovalutare mai la propria creatività. Nel mio caso mi ha aiutato molto quando sono uscito dal carcere, sia per il lavoro, sia permettendomi di conoscere persone fantastiche che mi stanno aiutando molto”. Io: “A quale poesia della tua raccolta “Notti d’Alba” ti senti più legato e perché?” Giampiero: “La festa della primavera”. “Perché dentro ci sono tutte le persone che più amo: mia figlia, mia madre, le mie amicizie. E poi perché è un vero e proprio inno alla donna”. Io: “Per concludere?” Giampiero: “Promuovere la creatività in carcere non è mai tempo perso, anzi! Sono tante le difficoltà organizzative, le norme, le restrizioni che vincolano l’organizzazione di corsi e iniziative ma, nonostante le difficoltà, le attività realizzate “dentro” dovrebbero moltiplicarsi ed essere aperte a tutti, proprio per i motivi che spiegavo prima. Alcuni affermano che ci siano cose più importanti, ma la cultura e la scuola sono le uniche armi che ci rendono in grado di contrastare la follia del carcere. Io l’ho fatto e ora raccolgo i frutti”. Come ci spiegava Giampiero, grazie alla scuola e alle attività culturali da lui frequentate “dentro”, è riuscito a ri-pensare se stesso come altro dall’immagine che di sé aveva da decenni o che gli era stata cucita addosso da altri. La scuola può restituire - come ci dice Giampiero - una “nuova carta d’identità”. Nulla di tutto ciò sarebbe possibile, però, senza l’ottimismo pedagogico che pervade il docente di scuola carceraria, il docente “dentro”, il quale, citando Danilo Dolci, “sogna gli altri come ora non sono”, riesce a vedere la persona, e non il suo errore, riesce a intravederne il potenziale, le possibilità di riscatto, di cambiamento, di guarigione. In bocca al lupo, caro Giampiero, dalla tua professoressa che è tanto orgogliosa di te. *Ambasciatrice Epale Foligno (Pg). Mostra-convegno sul volontariato in carcere umbriacronaca.it, 1 ottobre 2019 Presso la sala Piermarini in corso Cavour, con il patrocinio del Comune di Foligno e della Fondazione Carifol. L’associazione opera, con numerosi volontari, da tre anni nella casa di reclusione di Spoleto con il progetto “Lib(e)ri dentro”, e nell’ultimo anno anche nel carcere di Capanne. L’evento vuole mettere in relazione i cittadini di Foligno con una realtà, quella carceraria, sulla quale si riversano tanti pregiudizi, e che può invece riservare sorprese ove si ponga mente al cammino di riconciliazione che tanti detenuti compiono. Questo cammino molto spesso passa dagli studi scolastici, dall’arte, dalla cultura in generale, dalla musica e dal teatro, con il contributo, a volte determinante, dei volontari. In questo contesto nascono opere artistiche di rilevante valore, itinerari scolastici che si concludono con la laurea, oppure interpretazioni teatrali di successo. A questo proposito la compagnia SIneNOmine, diretta dal prof. Giorgio Flamini, che presenterà a Foligno due spettacoli, costituisce una ibridazione tra il dentro ed il fuori, poiché annovera tra le sue fila attori detenuti e attori professionisti. Il momento del confronto sarà rappresentato dalla tavola rotonda di domenica 6 ottobre alle 10, nella quale i volontari parleranno della loro esperienza e dove interverranno anche detenuti ed ex detenuti. Il programma in particolare prevede: venerdì 4 ottobre alle 17, alla sala Piermarini in corso Cavour, inaugurazione della mostra; alle 17.30 la prof.ssa Daniela Masciotti, il dott. Giovanni Spada e il sig. Ye Jiandong illustreranno il progetto sul lager di Bolzano, da loro curato sotto la direzione della prof. Olga Lucchi, di cui sarà ricordata l’appassionata attività in carcere. Si concluderà alle 19 con un aperitivo. Il sabato mattina, 5 ottobre, sono previste visite guidate delle scuole superiori di Foligno con letture di scritti di detenuti. Il pomeriggio del sabato sarà dedicato alla presentazione di due tesi di laurea. La prima “Il cibo in carcere”, alle 16, vedrà protagonista il dott. Tommaso Amato, laureato in scienza delle comunicazioni nel 2017. La tesi sarà illustrata dal prof. Giovanni Pizza, docente dell’Università di Perugia. La seconda “Lettere dal carcere di Antonio Gramsci”, alle 18, verrà presentata dal prof. Fausto Gentili e dal dott. Luigi Della Volpe, che con questo lavoro ha conseguito la laurea nel 2017. Il mattino di domenica 6, a partire dalle 10, ci sarà la già menzionata tavola rotonda sul volontariato in carcere. Il pomeriggio, per la felicità di adulti e bambini, la compagnia SIneNOmine proporrà alle 16, presso la sala Piermarini, lo spettacolo “Pinocchio scomposto”, realizzato nell’ambito del festival di Spoleto di questo anno, e che ha avuto ampi consensi di pubblico e critica. Alle 17.30 si proseguirà con la presentazione della terza tesi a cura della prof.ssa Francesca Gianformaggio, che insieme al dott. Patrizio Trovato parlerà de “I paesaggi di Giuseppe Verga”. Gli incontri del pomeriggio si concluderanno, alle 18.30 con un libro: “Il risolutore”, scritto dal detenuto Giambattista Scarfone, pubblicato da Morlacchi; ne parleranno il cugino dell’autore, dott. Antonio Scarfone e le volontarie Alessandra Squarta e Luciana Speroni. L’iniziativa si concluderà allo Zut, alle ore 20.30, con lo spettacolo teatrale “Monologhi” interpretato dagli attori della compagnia SIneNOmine, per il quale è necessaria la prenotazione al numero 3472939271. Responsabili e curatrici del progetto sono Rita Cerioni e Lucia Vezzoni, volontarie nella casa di reclusione di Spoleto. Ravenna. Il teatro entra in carcere: una rivista raccoglie le esperienze dei detenuti ravennatoday.it, 1 ottobre 2019 Si tratta della pubblicazione annuale del Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna, che a partire da quest’anno sarà possibile trovare al bookshop del Teatro Rasi. Martedì 1 ottobre, al Teatro Rasi di Ravenna, al termine dello spettacolo “Pane e petrolio” verrà presentata la rivista ‘Quaderni di teatro carcerè. Si tratta della pubblicazione annuale del Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna, che a partire da quest’anno sarà possibile trovare al bookshop del Teatro Rasi. La rivista raccoglie annualmente oltre alle esperienze di teatro in carcere che vengono realizzate nella nostra regione, anche esperienze internazionali. Intervengono, oltre a registi e attori, studiosi e docenti universitari. Saranno presenti: Cristina Valenti, docente Università di Bologna, responsabile scientifico Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna e Sabina Spazzoli, regista e Presidente del Coordinamento Teatro-Carcere Emilia Romagna. Verrà presentato inoltre il laboratorio teatrale “Sezione aurea”, fondato e diretto dal 2016 dal regista e drammaturgo Eugenio Sideri, che dal 2017 è entrato a far parte del Coordinamento Teatro Carcere Emilia-Romagna. Ferrara. Il festival di “Internazionale” incontra il carcere di Balamòs Teatro ferraraitalia.it, 1 ottobre 2019 Da qualche anno la casa circondariale Costantino Satta di Ferrara apre le porte al pubblico del festival di Internazionale. Il primo appuntamento di quest’anno sarà venerdì 4 ottobre con lo spettacolo Album di famiglia, nato da un laboratorio teatrale in carcere ancora in corso. Lo spettacolo di Horaçio Czertok e Marco Luciano di Teatro Nucleo, nato nell’ambito del progetto Padri e figli del Coordinamento teatro carcere Emilia Romagna, approfondisce i temi della colpa, del lutto, dell’eredità e del conflitto generazionale attraverso la figura di Amleto nelle varie riscritture del novecento, rielaborate dai detenuti in scritture biografiche. Dalla mattina di sabato 5 ottobre sarà possibile visitare una mostra di dipinti realizzati dai detenuti e partecipare a un incontro con la redazione di Astrolabio, il giornale della Casa circondariale, sul tema della comunicazione da e sul carcere. Anche per il prossimo festival Internazionale - che si svolgerà a Ferrara il 4, 5, 6 Ottobre 2019, Balamòs Teatro in collaborazione con il Centro Teatro Universitario di Ferrara (Ctu), il Coordinamento Nazionale di Teatro in Carcere, l’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro e la rivista “Teatri delle diversità”, propone una iniziativa dal titolo “Teatro in carcere: testimonianze dirette#2. Da Palermo a Pistoia, dall’ Indonesia e dall’Albania a Saluzzo, da Napoli a Parma, dalla Romania e dal Marocco a Venezia”. Attori detenuti ed ex detenuti raccontano la loro esperienza di teatro in carcere affiancati dai loro registi: Gianfranco Pedullà dal carcere di Pistoia con l’ex detenuto Vincenzo Infantino, Grazia Isoardi dal carcere di Saluzzo con i detenuti Anam Hoirul ed Erion Hoxhaj, Carlo Ferrari dal carcere di Parma con il detenuto Antonio Frasca, e Michalis Traitsis con l’ex detenuta Luminiza Gheorghisor e la detenuta Nawal Boulahnane. L’incontro sarà moderato da Valeria Ottolenghi (Associazione Nazionale dei Critici di Teatro). L’iniziativa è promossa dal Coordinamento Nazionale di Teatro in Carcere, la rivista Teatri delle Diversità, l’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro, il Centro Teatro Universitario di Ferrara, e sostenuta dal Mibac e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. In sala sarà allestita una mostra fotografica di Andrea Casari, dal progetto “Passi Sospesi” di Balamòs Teatro negli Istituti Penitenziari di Venezia. A organizzarla sarà Balamòs Teatro, che ha organizzato anche le iniziative su teatro in carcere nelle edizioni 2012 (Teatro in Carcere oggi in Italia: esperienze, metodologie, riflessioni), 2013 (La cultura ci rende migliori? Dialogo sul teatro in carcere), 2014 (Etica ed estetica del teatro in carcere), 2015 (Teatro in Carcere: dentro e oltre i confini), 2016 (Lo sguardo del cinema sul carcere), 2017 (Teatro in carcere: testimonianze dirette#1, Salvatore Sasà Striano), 2018 (Il teatro delle differenze - teatro nelle scuole, teatro in carcere, teatro e disagio). Info: 328 8120452, info@balamosteatro.org. Ambiente. Il fenomeno Greta? Una vittoria dell’Onu e di Antonio Guterres di Ugo Intini Il Dubbio, 1 ottobre 2019 La campagna per il clima sta diventando globale grazie al coraggio della “vecchia politica”. Il tema del clima si è imposto con uno straordinario salto di qualità di fronte all’opinione pubblica di tutto il mondo. L’elemento scatenante è stato il fenomeno mediatico “Greta”. Ma c’è un aspetto essenziale ancora non sottolineato. Quel risultato non ci sarebbe stato senza l’intervento decisivo di quella che in Italia si chiamerebbe la “vecchia politica”. Non è un’affermazione paradossale. È stata l’aula delle Nazioni Unite il moltiplicatore e la cassa di risonanza globale per il fenomeno Greta. E quest’aula è stata messa disposizione, con un preciso calcolo sulle prevedibili conseguenze, dal segretario generale Antonio Guterres. Il quale è esattamente un politico di professione: il più tradizionale che si possa immaginare. Militante delle organizzazioni universitarie cattoliche, giovane funzionario del partito socialista a Lisbona all’indomani della liberazione dal Salazarismo, è diventato responsabile dell’organizzazione, poi deputato (dal 1976) e braccio destro di Soares (padre storico dei socialisti portoghesi), poi segretario del partito e capo del governo per sette anni (sino al 2002). È stato quindi a lungo presidente dell’Internazionale Socialista e infine direttore del Unhcr (l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati con sede a Ginevra). Un vecchio professionista della politica non per questo deve essere considerato banale o avido di potere. L’ho frequentato per decenni e ho appena scritto un libro su di lui: Antonio Guterres: l’anti Trump. Un socialista all’Onu. È un fisico e scienziato di formazione, diventato economista da autodidatta. All’Internazionale, chiamava i suoi interlocutori “compagni” in cinque lingue, perché parla perfettamente portoghese, spagnolo, francese, inglese e anche un po’ italiano. Ha rinunciato al posto di presidente della Commissione Europea (andato poi a Prodi) per assistere la moglie molto malata (che infatti è morta). Lasciata la carica di Primo Ministro portoghese, faceva (assolutamente di nascosto) volontariato a modo suo: dando lezioni di matematica agli studenti poveri nella periferia di Lisbona. È cattolico e tollerante. Quando in Portogallo si è posto il problema del matrimonio gay, ha detto ai suoi: “Io sono contrario e voto no, ma è un problema di coscienza, non di partito. Ciascuno fa come crede”. I socialisti votarono a favore e la legge passò. Se si leggono i suoi discorsi, si capisce bene perché ha puntato sul fenomeno Greta. Infatti ha sempre considerato il clima e l’immigrazione di massa come i grandi problemi del nostro tempo: profondamente interconnessi, perché spesso sono i mutamenti climatici a far emigrare milioni di persone. Guterres è convinto che gli Stati nazionali siano ormai anacronistici (altro che sovranismo!). È pertanto un appassionato europeista e di più: un multilateralista che vede nelle Nazioni Unite l’embrione per un futuro governo del mondo. Per questo può essere definito “l’anti Trump”. I socialisti portoghesi si sono formati in Italia durante la dittatura di Salazar. Il futuro presidente della Repubblica Soares ha lavorato a Roma nella sede del Psi in via del Corso. Tito de Moraes faceva nella tipografia dell’Avanti! in via della Guardiola il mensile clandestino O Portugal socialista, che ricostruì dall’esilio il partito. Guterres viene da questa storia. L’ho sentito commemorare a Roma (in italiano) Pietro Nenni ricordando che era il continuatore di Filippo Turati. Il quale un secolo fa predicava non soltanto gli Stati Uniti d’Europa, ma gli Stati Uniti del mondo (verso i quali l’unità politica europea doveva costituire un primo passo). Quest’ultimo tema (gli Stati Uniti del mondo) diventa di straordinaria attualità proprio per il clima. Perché l’inquinamento si combatte solo con decisioni prese e rigorosamente attuate contestualmente in tutto il mondo. Serve a poco ridurre le emissioni nocive in Germania o Italia se poi in Africa, Asia o Brasile si continua a inquinare come prima. Soprattutto, i Paesi emergenti resistono alle restrizioni sulle emissioni nocive e per convincerli occorrono incentivi economici straordinari. Ciò che si può fare soltanto con un piano costruito da un’autorità politica sovra nazionale. Non è vero che, nei Paesi emergenti, a rifiutare le misure ecologiche sono soltanto i politici di estrema destra, come il presidente brasiliano Bolsonaro (ammirato da Salvini e a sua volta ammiratore di Trump). Molti anni fa, ho incontrato a San Paolo il sindaco Juanio Quadros, ex presidente brasiliano, uomo di sinistra e assolutamente democratico, simbolo della lotta contro la dittatura dei generali oggi rimpianta da Bolsonaro. Alt, ci disse quando gli si parlò dell’Amazzonia: “Se continuate, mi alzo e me ne vado. L’Europa era una foresta. L’avete completamente distrutta per diventare ricchi. E adesso volete impedire a noi di sfruttare l’Amazzonia?”. Quadros veniva spesso a Milano per curare la moglie all’Istituto dei Tumori, conosceva qualche parola e le nostre espressioni. Perciò concluse: “Chi ha dato ha dato e chi ha avuto ha avuto? No. Così non va”. Sul clima, anche i bambini capiscono che l’atmosfera terrestre è una sola, da Sydney a New York, e che la sfida si vince o si perde tutti insieme. Ma il clima è la punta dell’iceberg. Aiuta a cogliere il problema di fondo, che Guterres conosce bene e che porta a valutazioni esattamente opposte a quelle dei sovranisti. Oggi tutto è globale: l’inquinamento (come si è visto), ma anche la finanza, la tecnologia, lo spettacolo, la moda (o meglio le mode), lo sport, persino il crimine. In un mondo inevitabilmente globalizzato, soltanto la politica è rimasta inchiodata nei confini nazionali. E pertanto non conta più nulla, si è resa ridicola e persino odiosa. Se tutto è globale, bisogna che anche la politica diventi globale. Ed ecco l’obiettivo degli Stati Uniti del mondo. Turati li sognava un secolo fa. Guterres li persegue oggi. For- se, i ragazzini scesi in piazza per Greta in tutti i Continenti (o i loro figli e nipoti) li vedranno. Certo, grazie alla mobilitazione sul clima, una nuova generazione ha cominciato a capire che i problemi del mondo (tutti i più importanti, non solo quello dell’inquinamento) sono globali. E richiedono risposte globali. Conoscendolo, giurerei che Guterres mal sopporta l’aggressività di Greta e dello staff che la guida. Pur essendo un ecologista della prima ora, non condivide un certo catastrofismo e fondamentalismo. I professionisti della politica appartenenti alla sua generazione hanno infatti sentito gli “anticapitalisti” del tempo spiegare dal 1973, dopo la crisi petrolifera, che bisognava andare a piedi perché certamente i pozzi si sarebbero presto esauriti. Hanno anche visto come le imprese private sappiano spesso trasformare le difficoltà e i nuovi bisogni in opportunità, specialmente se orientate da governi modernizzatori. E infatti l’economia “verde”, dalla produzione di energia rinnovabile alle auto elettriche, è diventata ormai una grande occasione di sviluppo. Guterres è un socialdemocratico e riformista. Come tale, punta ai passi graduali: il primo, per preservare l’ambiente, lo ha favorito proprio lui, guidando come presidente di turno dell’UE, nel 2000, la famosa conferenza europea di Lisbona, che ha fissato tra l’altro gli obbiettivi basilari, validi ancor oggi, per lo “sviluppo sostenibile”. Il segretario delle Nazioni Unite non ama le estremizzazioni: ha però compiuto un’operazione che con gli strumenti tradizionali non sarebbe riuscita. Se i Trump, i Bolsonaro e i Salvini hanno imposto l’agenda sovranista con armi “ non convenzionali”, i politici democratici “anti Trump” come lui hanno rivitalizzato l’agenda “internazionalista” e ecologista con altrettanta abilità. Migranti. Divisioni nella maggioranza, Ius culturae verso lo stop Il Messaggero, 1 ottobre 2019 “È una buona idea: sono convinto che bisogna essere intelligenti con l’inclusione e l’integrazione, è l’unico sistema che funziona. Mi sembra giusto darla a chi di fatto è italiano”. Così il ministro della Scuola, Lorenzo Fioramonti, contraddice il suo leader, Luigi Di Maio, che l’altro giorno era intervenuto a stoppare il dibattito sulla nuova legge per la cittadinanza ai figli degli immigrati. “Col governo giallo verde non credo fosse possibile ora se è una priorità o meno non sta a me deciderlo, ma è una questione importante ed è intelligente porla”, ha detto Fioram ento intervenendo a Un giorno da pecora. “Sono convinto che non debba essere questa la preoccupazione della politica”, ha aggiunto il ministro agli intervistatori che gli domandavano se lo Ius culturae possa essere un favore a Salvini. “Certo, abbiamo tante emergenze, potrebbe non essere la prima questione da affrontare ma che il dibattito cominci è importante. Decideranno tutte le forze di governo”. Nello stesso Pd però c’è chi non nasconde i propri dubbi. “Attirerò molte critiche” ma sono “convinta” di “interpretare il sentimento della maggioranza delle persone che guardano con simpatia al nostro governo”, nel dire che “riprendere ora il dibattito sull’approvazione” di una legge sullo Ius culturae “è un errore”, scrive su Facebook Alessia Morani, sottosegretario Pd allo Sviluppo. Roberto Saviano parla di “favore alla peggiore destra”. E Morani: “Io credo che la questione non riguardi il fare favori alle destre o alle sinistre, si tratta solo di fare le cose nei modi e nei tempi giusti”. Libia. Lo Stato Islamico tenta di rinascere a due passi dall’Italia di Gianluca Di Feo La Repubblica, 1 ottobre 2019 I droni americani hanno colpito una base dello Stato Islamico, che sfrutta la guerra civile per riorganizzarsi. In dodici giorni uccisi 43 terroristi. E la questione sarà al centro dei colloqui di Mike Pompeo a Palazzo Chigi. Lo Stato Islamico sta cercando di rinascere. E per risorgere dalla cenere delle sconfitte ha scelto il Paese dove ci sono le condizioni ideali: la Libia, devastata dalla guerra civile. Lì è facile radunare reclute ed armi, anche sofisticate. E le autorità ormai pensano solo al conflitto, senza nessun controllo del territorio. La pericolosità di questo focolaio jihadista è testimoniata dalla campagna aerea lanciata dal governo americano. Domenica scorsa infatti i droni statunitensi sono tornati all’attacco proprio in Libia: è la quarta volta in dodici giorni. L’obiettivo è sempre lo stesso: una formazione dell’Isis, nascosta nei territori desertici del Fezzan. Secondo il comunicato ufficiale, il raid di domenica ha ucciso sette persone. Più importanti le motivazioni dell’incursione: “Puntiamo a distruggere l’attività di pianificazione e addestramento dei terroristi”, ha dichiarato il generale William Gayler, direttore delle operazioni di Africom. Segno che quelle prese di mira in Libia non sono piccole cellule dello Stato Islamico ma un nucleo che sta cercando di riorganizzarsi in grande stile. La questione libica sarà uno dei punti chiave della visita romana di Mike Pompeo, segretario di Stato ed ex capo della Cia, ritenuto oggi l’uomo forte dell’amministrazione Trump. A Palazzo Chigi difficilmente Pompeo farà autocritica, ammettendo che il sostegno della Casa Bianca al generale Haftar abbia complicato la situazione nel Paese. L’offensiva contro Tripoli si è arenata subito, degenerando in un conflitto con la mobilitazione di milizie d’ogni genere e il pesante contributo di potenze musulmane, come Turchia, Egitto, Emirati e Qatar. Insomma, un grande caos dove prosperano le brigate estremiste. Pompeo però dovrebbe tributare un riconoscimento alla posizione dell’Italia, che sotto la supervisione del premier ha tenuto un canale aperto con tutti i contendenti: l’attività svolta dalla nostra intelligence ci pone ancora nelle condizioni ideali per tentare una mediazione. Che è diventata urgente, prima che la Tripolitania si trasformi in una nuova Siria. L’attivismo di formazioni ispirate ai valori di Al Qaeda è segnalato ovunque. A preoccupare di più però è lo Stato Islamico, che nel 2015 sembrava cancellato dalla Libia dopo la durissima battaglia di Sirte. Oggi invece i segnali di ricostituzione sono sempre più forti, con il sospetto che alcuni veterani sfuggiti dalle disfatte in Medio Oriente abbiano raggiunto il Maghreb. I raid condotti dai droni americani in dodici giorni hanno ucciso 43 presunti jihadisti: il segno di quanto sia forte la nuova colonia dell’Isis. Le incursioni sono state concentrate nell’area di Murzuq. Il cuore del Fezzan, la regione più meridionale, in un territorio desertico non lontano dal confine del Niger: il crocevia dei traffici dall’Africa Centrale e della rotta dei migranti diretti verso l’Europa. Lì dove la disperazione rende più facile il proselitismo. Marocco. “Colpevole di aborto”, un anno di carcere alla reporter Hajar Raissouni di Pietro del Re La Repubblica, 1 ottobre 2019 Dopo un processo costruito su accuse infondate, la giornalista marocchina Hajar Raissouni, 28 anni, è stata condannata dal tribunale di Rabat a un anno di prigione senza condizionale per “aborto clandestino” e “rapporti sessuali fuori dal matrimonio”. Diventata il simbolo della libertà di stampa e dei diritti civili, la giovane è in carcere dal 31 agosto insieme al compagno, al ginecologo e all’infermiere che l’hanno assistita. La sua relazione con Refaat Alamin, 40 anni, professore universitario sudanese, anche lui condannato a un anno, non è mai stata segreta. E nel corso delle prime udienze, i giudici la donna ha detto di averlo sposato, ma i documenti del matrimonio non sarebbero registrati in Marocco, perché l’ambasciata sudanese non avrebbe ancora formalizzato l’atto. Secondo Reporters sans frontières la donna “è stata vittima di un accanimento giudiziario perché è una giornalista”, mentre Amnesty International parla di “accuse interamente inventate” e Human Rights Watch di una “violazione flagrante del diritto alla vita privata e alla libertà”. Le autorità assicurano che l’arresto non ha nulla a che vedere con la sua professione mentre gli avvocati sono convinti del contrario, anche perché in Marocco gli arresti per i casi di aborto illegali riguardano soprattutto chi li pratica e raramente le pazienti. Sulla sua pagina Facebook, la giornalista pubblicava quotidianamente commenti in cui criticava l’ipocrisia di alcuni aspetti sociali della monarchia. Come se non bastasse, ha uno zio editorialista del quotidiano d’opposizione Akhbar Al-Yaoum, e un altro che è un ideologo islamista, feroce detrattore di re Mohammed VI. Suo cugino Youssef, infine, è presidente dell’Associazione marocchina dei diritti umani. L’arresto della giornalista ha riacceso il dibattito sulle libertà individuali in Marocco, e provocato un’ondata di sdegno anche all’estero. Pochi giorni fa su Le Monde trecento intellettuali hanno lanciato un appello per chiedere la sua scarcerazione e in un manifesto pubblicato da diverse testate marocchine centinaia di donne si sono dichiarate “fuori legge” confessando di aver violato l’”obsoleta” legge sull’aborto. Appena si è aperto il processo, una folla s’è recata davanti al tribunale per portare sostegno alla giornalista. La quale ha fatto sapere che farà appello. Cina. Niente visite dei familiari a chi sta in carcere per motivi religiosi di Li Benbo bitterwinter.org, 1 ottobre 2019 Secondo la Carta dei princìpi per la protezione delle persone in qualsiasi regime di detenzione o di carcerazione, adottato dalle Nazioni Unite il 9 dicembre 1988, “un individuo detenuto o incarcerato deve avere il diritto di essere visitato da e di corrispondere con, in particolare, i membri della propria famiglia e deve godere di adeguate opportunità di comunicazione con il mondo esterno, secondo criteri ragionevoli e in base alle restrizioni indicate dalla legge o dai regolamenti”. L’Articolo 48 della Legge carceraria della Repubblica Popolare Cinese stabilisce che “un prigioniero può, in accordo ai regolamenti relativi, incontrare i parenti e i propri tutori per la durata della pena cui è sottoposto”. Il regime cinese non ha però solo revocato questo diritto ai credenti “scomodi”, ma lo ha addirittura trasformato in un mezzo per costringerli ad ammettere di essere “colpevoli” e per rinunciare alla fede. I credenti come “criminali incalliti” - In gennaio Zhao Guoming ha finalmente ricevuto dalla prigione una notifica con il permesso di vedere il figlio, dietro le sbarre da un anno e mezzo poiché fedele della Chiesa di Dio Onnipotente (Cdo). “Ero felicissimo. Finalmente avrei potuto vedere il mio ragazzo”: così l’uomo ha ricordato la gioia provata quel giorno. Durante la carcerazione del figlio, la polizia e l’amministrazione penitenziaria avevano infatti negato ripetutamente a Zhao Guoming il diritto alle visite, cosa che gli aveva fatto temere che il ragazzo venisse torturato e abusato. Il desiderio di vederlo cresceva quindi ogni giorno di più. Il giorno convenuto per la visita Zhao Guoming era uno dei più di cento familiari di detenuti allineati davanti all’atrio della prigione in attesa di vedere i propri cari. Quando è giunto il suo turno, le guardie si sono rifiutate di lasciarlo entrare adducendo il pretesto che il modo di pensare del figlio “non era ancora stato riformato” e dicendo che avrebbe potuto vederlo solo dopo che l’obiettivo fosse stato raggiunto. “Hanno aggiunto che mio figlio crede in Dio Onnipotente e che è un “criminale incallito”, ha raccontato Zhao Guoming: “per questo non posso vederlo”. “Anche un’altra persona che aspettava in fila con me era venuta per incontrare il figlio. Quando ho chiesto quale crimine avesse commesso il figlio, ha risposto che si trattava di rapina”, ha continuato. “Non capisco. Perché i parenti di assassini, piromani e altre persone malvagie hanno il permesso di far visita ai propri cari, mentre io non posso vedere mio figlio, che non ha commesso alcun crimine e che è stato incarcerato solo a causa della fede che professa?”. Con il figlio di Zhao è stato arrestato anche un altro giovane credente della CDO. Anche i suoi parenti sono stati respinti più volte quando hanno tentato di fargli visita in carcere. La polizia ha detto loro che essere un fedele della CDO è peggio di qualsiasi altro crimine, cosa che fa di lui un prigioniero politico. Il PCC inserisce nell’elenco degli xie jiao e reprime duramente quei gruppi religiosi che non si sottomettono al controllo del governo o che sono considerati in crescita troppo rapida, tale da rappresentare una minaccia per il regime. Fra questi la CDO è il gruppo religioso cinese che, preso singolarmente, subisce la persecuzione maggiore: più di venti suoi fedeli sono infatti stati torturati a morte nel corso dell’anno passato. Sotto lo stretto controllo ideologico del Partito, dove le norme politiche del regime sono poste al di sopra di tutto, i fedeli dei gruppi vietati vengono trattati come i criminali più pericolosi, insieme ai dissidenti e ad altri prigionieri di coscienza, semplicemente perché il PCC non tollera i loro insegnamenti e il loro credo. Bitter Winter ha ricevuto un documento interno di una prigione che si trova nella provincia sudorientale del Fujian, dal titolo Avviso sull’ulteriore rafforzamento della gestione delle visite in carcere, che elenca chi pratica il Falun Gong e i fedeli della CDO insieme ai criminali che “mettono a rischio la sicurezza nazionale”. In linea di principio, per queste categorie di persone non sono ammesse richieste speciali per visite (per esempio per visite diverse da quelle normali stabilite dal carcere). Privare del diritto di visita i parenti dei prigionieri di coscienza è una tattica comune che il Partito utilizza per tormentare le persone. È accaduto nei casi dell’avvocato per i diritti umani Wang Quanzhang; dell’attivista Wu Gan, condannato a otto anni di galera per aver “sovvertito il potere dello Stato”; di Zhang Haitao, condannato a 19 anni per aver criticato il regime per il trattamento che riserva agli uiguri; oppure di Bian Xiaohui, la figlia di un praticante del Falun Gong, condannata a tre anni e mezzo di prigione per avere chiesto troppe volte di poter vedere suo padre in carcere. Durante la detenzione i fedeli della CDO sono costretti a sottoporsi alla “trasformazione attraverso l’educazione” fino a firmare una dichiarazione in cui promettono di abiurare. Bitter Winter ha acquisito un documento confidenziale, emesso in aprile dall’Ufficio generale della Commissione centrale del PCC e dall’Ufficio generale del Consiglio di Stato, che riguarda la riforma carceraria nel Paese. È intitolato Proposte per rafforzare e implementare l’operato delle carceri e stabilisce con chiarezza che le prigioni debbono “intensificare l’azione di “de-radicalizzazione”; occuparsi con severità, in base alla legge vigente, dei criminali che mettono a repentaglio la sicurezza nazionale, che appartengono a uno xie jiao, che sono implicati in bande criminali e malvagie, che hanno una influenza sociale particolare e che hanno delle restrizioni sulla commutazione di una condanna”. Di conseguenza le carceri debbono “mettere in evidenza l’istruzione ideologica; guidare i criminali nell’acquisire in modo corretto la visione del mondo, la prospettiva verso la vita e il sistema dei valori; incrementare la capacità di ammettere la propria colpa e mostrare pentimento; […]; implementare la correzione psicologica. […] e riplasmare i criminali fino ad acquisire un carattere sano”. Il documento, inoltre, invita a rieducare i detenuti rendendoli “cittadini che si identificano dal punto di vista ideologico ed emotivo con la leadership del Partito, si identificano con la loro grande madre, si identificano con la nazione cinese, con la cultura cinese, con la via del socialismo con caratteristiche cinesi”. È passato un anno e mezzo da quando la madre di Bai Ying è stata arrestata perché fedele della CDO. In marzo la donna ha ricevuto una notifica da parte della prigione, che la informava di un peggioramento della salute della mamma, dovuta a pressione sanguigna alta. Si è molto preoccupata, poiché le era stato impedito di vederla fin dal momento dell’arresto. “Mia madre ha sempre avuto la pressione bassa. Come ha fatto a diventare troppo alta?”. Bai Ying ha rabbrividito quando le è passato per la mente che sua madre fosse stata torturata. Nonostante molti tentativi è stata respinta dalle guardie. “Tua madre non ha ancora ammesso la sua colpa, quindi i familiari non possono farle visita”, le ha detto una di loro. “Però puoi comunicare con lei scrivendole. Scrivile una lettera e dille di ammettere in fretta di essere colpevole. Solo allora potrà vedervi”. Un mese più tardi è avvenuto un cambiamento drammatico. La prigione ha notificato a Bai Ying che avrebbe potuto incontrare la madre. Ma a un patto: avrebbe dovuto convincerla ad abiurare. Solo i familiari atei sono ammessi alle visite - I parenti di Zhao Mei, una fedele della CDO della provincia centrale dell’Hubei, sono distrutti. “Mia sorella è stata arrestata quasi due anni fa e non abbiamo mai potuto vederla. Non so neppure se sia viva o morta”, ha detto il fratello maggiore. “Le guardie ci hanno detto che non possiamo incontrarla finché non avrà ammesso la sua “colpa”. Mia sorella è decisa, non si sente colpevole di nulla e non vuole scrivere una “dichiarazione di garanzia” con la promessa di abbandonare la fede. Ci hanno anche detto che una volta scontata la pena dovrebbe sottoporsi ancora a “trasformazione” finché non ammetterà la sua “colpa”. Per ottenere il permesso di farle visita, i suoi familiari hanno anche dovuto fare domanda per un “certificato” che dimostrasse che nessuno di loro sia religioso, da richiedere alla polizia della località di residenza del nucleo familiare. Negli ultimi due anni, tali requisiti sono diventati sempre più diffusi in tutto il Paese. Una guardia carceraria ha confermato a Bitter Winter che si tratta di ordini da parte del governo centrale: se i parenti dei fedeli dalla CDO desiderano far visita ai propri cari in prigione, devono prima ottenere il certificato richiesto dalla polizia e solo allora possono far domanda all’amministrazione del carcere. Se la richiesta non è approvata, non possono vedere i propri cari. Le restrizioni imposte dallo Stato alle visite ai prigionieri di coscienza religiosi è particolarmente dura per gli anziani; a maggior ragione se essi stessi sono fedeli di gruppi vietati. Durante l’ultimo anno, una fedele della CDO proveniente dal sud del Paese ha combattuto per poter andare a far visita al figlio, anch’egli un fedele della Chiesa, condannato a sei anni di carcere per via della sua fede. “Voglio andare e fargli coraggio, ma ho paura”, ha detto l’anziana donna, con espressione ansiosa.