La storia del riscatto di un ergastolano al 4bis arriva alla Consulta di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 ottobre 2019 Dopo la condanna della Cedu l’ergastolo ostativo torna all’esame della Consulta, il prossimo 22 ottobre su due questioni di legittimità dell’art. 4bis sollevate dalla prima Sezione della Cassazione e dal Tribunale di sorveglianza di Perugia. All’udienza parteciperanno anche i cosiddetti amicus curiae, una di questi è Marcello Dell’Anna, un ergastolano ostativo che, grazie al suo ravvedimento, è il simbolo di chi ha tutte le carte regola per uscire dal carcere. Dopo la condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo, ovvero la sentenza Viola contro l’Italia del 13 giugno scorso, l’ergastolo ostativo torna nuovamente all’esame della Corte costituzionale sulle due questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4bis sollevate dalla prima Sezione della Cassazione e dal Tribunale di sorveglianza di Perugia nei casi, rispettivamente, Cannizzaro e Pavone. Se nel caso Viola si discuteva dell’impossibilità di richiedere la liberazione condizionale per mancata collaborazione con la giustizia, la discussione del prossimo 22 ottobre si concentra proprio perché il requisito della collaborazione rende di fatto inapplicabile la richiesta del permesso premio. Secondo il giudice della Cassazione che ha sollevato l’illegittimità costituzionale relativo al caso Cannizzaro, l’esclusione dell’applicazione del beneficio penitenziario in mancanza della scelta collaborativa, senza consentire al giudice una valutazione in concreto della situazione del detenuto, sarebbe “in contrasto con la finalità rieducativa della pena, non tenendo conto della diversità strutturale, rispetto alle misure alternative, del permesso premio che è volto ad agevolare il reinserimento sociale del condannato attraverso contatti episodici con l’ambiente esterno”. Il Tribunale di sorveglianza di Perugia a firma del magistrato Fabio Gianfilippi solleva l’analoga questione di legittimità costituzionale nei confronti dell’ergastolano Pavone. Il 22 ottobre saranno quindi presenti i rispettivi avvocati dei due ergastolani. L’avvocato Vianello Accorretti per il caso Cannizzaro e gli avvocati Michele Passione e Mirna Raschi per il caso Pavone. La parte però più interessante è che all’udienza parteciperanno anche i cosiddetti amicus curiae, ovvero le parti terze che, nonostante non siano parte in causa, offrono un aiuto alla Consulta per decidere. Per il caso Pavone si affiancherà l’avvocata Emilia Rossi, per l’autorità del Garante nazionale delle persone private della libertà, e l’avvocato Vittorio Manes per l’Unione Camere penali italiane. Per quanto riguarda il caso Cannizzaro si affiancherà l’avvocato Andrea Saccucci per Nessuno Tocchi Caino e l’avvocato Ladisalao Massari per Marcello Dell’Anna. Ma chi è quest’ultimo? Si tratta di un ergastolano ostativo ed è la prima volta nella storia che un detenuto, per di più ergastolano, interverrà in un giudizio incidentale di legittimità costituzionale. Un amicus curiae che, grazie al suo ravvedimento, è il simbolo di chi - pur non collaborando per svariate ragioni - ha tutte le carte regola per uscire dal carcere visto l’evidente riabilitazione, ma ne rimane imprigionato per la mancata collaborazione con la giustizia. D’Anna ha varcato le soglie del carcere quando aveva poco più di 20 anni. Apparteneva alla Sacra corona unita e ha commesso un duplice omicidio in un contesto mafioso. Ora ha 52 anni e dopo 27 anni di detenzione è ancora dentro nel carcere di Nuoro e rischierà di non uscirne più. Nel corso della sua detenzione ha elaborato una visione critica del passato, ha ripudiato la violenza e ha scelto “l’arma” del Diritto. Infatti si è laureato in giurisprudenza con lode all’Università di Pisa, discutendo la tesi sui diritti fondamentali dei detenuti e sul regime del 41bis. Ma non solo. Nel 2014, la Scuola forense di Nuoro ha deciso di dargli una mano nel percorso di riscatto e gli ha affidato il ruolo di coordinatore interno e di relatore principe nel corso di formazione giuridica per avvocati. La sua famiglia però vive in Puglia. Il mare complica la possibilità di incontrarla. C’è anche una bella storia d’amore. Lasciò sua moglie quando aveva 21 anni. Ma nel 2016 si sono riabbracciati e si sono risposati proprio il giorno di Natale. Marcello Dell’Anna è un ergastolano ostativo, un sepolto vivo. Ha finito di scontare la pena per il 416bis, ma gli rimane l’aggravante mafiosa per l’omicidio. Ed è lì che continua ad esserci il 4bis, quella parte in cui gli vieta le misure alternative non avendo scelto di collaborare. La questione l’ha sollevata anche lui ricorrendo alla Cassazione. Quest’ultima l’ha accolta, ma attenderà di decidere dopo la sentenza della Consulta del 22 ottobre. Sì, perché i casi Cannizzaro e Pavone sono sovrapponibile al suo. Ma in realtà è sovrapponibile a tutti quei “sepolti vivi” che, nonostante il ravvedimento e la mancanza di pericolosità sociale, sono costretti a rimanere il resto dei loro giorni dentro quelle quattro mura. Forse il 22 ottobre, la Corte costituzionale potrebbe decidere di ridare il potere ai magistrati di sorveglianza di poter valutare se concedere o meno quei benefici negati a prescindere. Forse sarà decisivo anche l’aiuto dell’ergastolano Marcello D’Anna. La collaborazione con la giustizia all’esame della Corte: le difficoltà della decisione di Francesca Biondi* Il Sole 24 Ore, 19 ottobre 2019 La Corte è chiamata a valutare se la mancata collaborazione con la giustizia sia una preclusione all’accesso ai benefici penitenziari fondata sulla constatazione per cui gli appartenenti al sodalizio mafioso si distaccano dalla realtà criminale solo rinnegandola o se essa comprima il ruolo del giudice nel favorire il percorso rieducativo. Dopo anni di silenzio l’istituto della collaborazione con la giustizia è al centro del dibattito pubblico, sia per effetto della condanna inflittaci dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza Viola, sia per l’attesa della decisione della Corte costituzionale che, il prossimo 22 ottobre, è chiamata a pronunciarsi su una questione “affine”. “Affine”, e non identica, perché la Corte europea si è occupata del c.d. “ergastolo ostativo”, ossia dell’impossibilità per gli ergastolani che non collaborano di accedere alla liberazione condizionale rendendo così la loro pena perpetua non solo de iure, ma anche de facto, mentre la Corte italiana dovrà valutare se contrasta con gli artt. 3 e 27 della Costituzione la norma che impedisce ai condannati per gravi reati non collaboranti di ottenere un permesso premio. Non è una decisione facile quella che attende la Corte costituzionale. Da un lato, certamente pesano gli argomenti spesi dalla Corte Cedu, per la quale la collaborazione non può essere condizione preclusiva alla liberazione condizionale, ossia all’unico istituto che rende l’ergastolo pena conforme al principio rieducativo. Secondo la Corte europea non si può subordinare alla collaborazione l’aspirazione dell’ergastolano ad uscire dal carcere: poiché la mancata collaborazione può essere dettata da varie ragioni (ad esempio, per non mettere a repentaglio la vita i propri cari), la valutazione sulla pericolosità sociale del detenuto dovrebbe essere sempre solo rimessa al giudice caso per caso. Dall’altro, però, la Corte costituzionale è giudice “italiano” e bene conosce le ragioni che, dopo la strage di Capaci, indussero il Governo a presentare il decreto legge n. 306 del 1992 con cui fu appunto introdotto, solo per alcuni specifici reati (associazione mafiosa, traffico di stupefacenti e sequestro a scopo di estorsione), l’obbligo di collaborare con la giustizia quale condizione per l’accesso ai benefici penitenziari. Significative le parole dell’allora Ministro della Giustizia Claudio Martelli, che, durante i lavori parlamentari, vide nella collaborazione l’arma più efficace per contrastare la criminalità organizzata, visto che “praticamente tutti i processi che hanno ottenuto qualche risultato (..) sono stati fondati sulla collaborazione di ex appartenenti alle associazioni di stampo mafioso”. Volendo sintetizzare le questioni che dovrà sciogliere, si può dire che la Corte è oggi chiamata a valutare se la mancata collaborazione con la giustizia sia una preclusione all’accesso ai benefici penitenziari ragionevolmente fondata sulla constatazione per cui gli appartenenti al sodalizio mafioso si distaccano dalla realtà criminale in cui sono nati e vissuti solo rinnegandola (come in questi giorni affermato da molti magistrati impegnati nella lotta alle mafie) ovvero se essa, impedendo una valutazione complessiva del detenuto, comprima il ruolo del giudice nel favorire il percorso rieducativo (come invece perlopiù sostenuto dalla dottrina e dalla magistratura di sorveglianza). La Corte costituzionale potrebbe però anche considerare che lo Stato, imponendo la collaborazione, non ha inteso solo assicurarsi che il condannato si sia distaccato dal contesto criminale di provenienza, ma ha voluto anche ottenere informazioni utili per ragioni di politica criminale. Il ragionamento sarebbe diverso: vero che, come chiedeva Kant, non si dovrebbe “strumentalizzare” una persona per fini non suoi, ma sarebbe in gioco la sicurezza pubblica … In questa prospettiva, la Corte sarebbe allora chiamata a svolgere un giudizio di proporzionalità tra mezzo utilizzato (obbligo di collaborare al fine di acquisire informazioni necessarie a combattere la criminalità) ed entità del sacrificio dei principi costituzionali (rieducazione e libertà morale), a valutare se questa strategia sia ancora “attuale”, se, nel corso del tempo, abbia prodotto, o meno, dei risultati. In definitiva, vista la complessità dei temi sul tappeto, è difficile prevedere l’esito della decisione della Corte. Quale che sia, dobbiamo però confidare che le riflessioni suscitate da queste vicende sulle “ragioni” della collaborazione con la giustizia con riferimento ai condannati per reati “di mafia” abbiano eco anche in Parlamento, dove nel corso degli anni si è invece persa memoria dell’origine dell’art. 4bis dell’ordinamento penitenziario e tale disposizione è stata irragionevolmente riempita di reati che nulla hanno a che vedere con la lotta alle mafie. Inoltre - ma su questo la Corte ha per fortuna già avuto occasione incidere - spesso i condannati per tutti reati oggi elencati nell’art. 4bis, collaboranti o no, sono stati automaticamente esclusi, ex lege, dall’accesso da benefici penitenziari, con scelte, queste sì, facilmente ascrivibili al populismo giudiziario. *Professoressa ordinaria di Diritto costituzionale, Università degli Studi di Milano L’ergastolo ostativo, un istituto destinato (forse) a sgretolarsi di Emilio Dolcini* Il Sole 24 Ore, 19 ottobre 2019 L’ergastolo ostativo muove da un presupposto empiricamente infondato: mancata collaborazione uguale (sempre) a persistente pericolosità sociale. Anche l’ergastolo, come in passato la pena di morte, è destinato - un giorno - ad uscire di scena. Per ora, tuttavia, in Italia, questo processo è solo avviato, nella forma di una graduale modificazione dei caratteri attribuiti all’ergastolo dal legislatore del 1930. Originariamente concepito come segregazione perpetua e definitiva dalla società esterna, l’ergastolo ha progressivamente ha perduto tale connotato: la perpetuità della pena è diventata solo eventuale, offrendosi al condannato la possibilità di accedere (dopo almeno 26 anni) alla liberazione condizionale, al culmine di un percorso di progressiva preparazione alla libertà segnato da alcuni “benefici” penitenziari. Rimane però una pena ineluttabilmente perpetua: l’ergastolo ostativo, che si applica a chi, condannato per reati gravissimi, per lo più reati di mafia o di terrorismo, non collabori con la giustizia (in particolare, ai fini dell’accertamento dei fatti e dell’individuazione dei responsabili). Al centro dell’odierno dibattito sull’ergastolo ostativo, si colloca una sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Viola c. Italia, pronunciata il 13 giugno 2019, ora definitiva, dopo il rigetto della domanda di rinvio alla Grande Chambre) che ha condannato l’Italia per violazione di divieto di trattamenti inumani (art. 3 Cedu): per la Corte di Strasburgo una pena perpetua è compatibile con il principio di umanità della pena solo se ‘riducibilè, a condizione cioè che lasci al condannato una “possibilità concreta e realistica” di ritrovare un giorno la libertà. Detto diversamente, per la Corte ad ogni condannato, anche all’autore dei reati più gravi, deve essere riconosciuto un ‘diritto alla speranza’: una condizione che non si realizza per il condannato all’ergastolo ostativo. Il prossimo 22 ottobre sull’ergastolo ostativo dovrà pronunciarsi - in relazione alla finalità rieducativa della pena (art. 27 co. 3 Cost.) - la Corte costituzionale, in una decisione non formalmente vincolata a quanto stabilito dalla Corte Edu, ma che non potrà non tener conto di quella decisione: il dialogo tra le Corti non può interrompersi. Nel 2003 la Corte costituzionale aveva “salvato” l’ergastolo ostativo sull’assunto che la mancata collaborazione debba sempre ascriversi ad una libera scelta del condannato: secondo la Corte, è il condannato che, non collaborando, sceglie di precludersi ogni percorso di reinserimento sociale. Nessun contrasto, in definitiva, per la Corte, con il principio enunciato dall’art. 27 co. 3 Cost. In quella decisione rimaneva implicito, peraltro, un ulteriore presupposto: l’idea che la scelta di non collaborare esprima sempre e comunque il persistere della pericolosità sociale del condannato. Ma la ragionevolezza di tale presunzione, da sempre contestata dalla dottrina, è puntualmente smentita dalla Corte Edu nella sentenza Viola, allorché rileva che la mancanza di collaborazione “non sempre è conseguenza di una scelta libera e volontaria, né è giustificata unicamente dalla persistenza dell’adesione ai “valori criminali” e dal mantenimento di legami con il gruppo di appartenenza”: un rilievo che riproduce, nella sostanza, un’affermazione della stessa Corte costituzionale contenuta in una sentenza del 1993, ma ‘dimenticata’ nella sentenza del 2003. L’ergastolo ostativo muove in definitiva da un assunto empiricamente infondato: questo, a mio avviso, il cuore della questione di legittimità costituzionale. È possibile che il condannato non collaborante - tale, ad esempio, per timore di ritorsioni sui famigliari - prenda le distanze dal suo passato criminale e intraprenda, in carcere, un percorso verso la legalità: la Costituzione gli riconosce il diritto alla verifica di tale percorso da parte di un giudice, nonché, qualora la verifica abbia esito positivo, il diritto a fare un graduale ritorno alla società libera, attraverso le misure previste dall’ordinamento a favore (anche) dei condannati all’ergastolo. Auspico dunque che dalla Corte costituzionale venga una pronuncia di accoglimento, sulla cui portata è difficile, peraltro, fare previsioni (la questione è stata sollevata con riferimento ad uno specifico ‘beneficio penitenziario’: i permessi-premio): in ogni caso, la sentenza potrebbe segnare un primo passo verso un progressivo sgretolamento di un istituto del quale larghi settori della dottrina, penalistica e costituzionalistica, auspicano la cancellazione dall’ordinamento. La pronuncia della Corte costituzionale potrebbe quanto meno rimettere in moto una riforma legislativa dell’art. 4bis ord. penit. che trasformi la presunzione sottostante alla disciplina dell’ergastolo ostativo da assoluta a relativa. Si tratterebbe di proseguire, anche a questo proposito, sulla linea indicata dalla sentenza Viola, nella quale si legge che “non è escluso che la “dissociazione” con l’ambiente mafioso possa esprimersi in modo diverso dalla collaborazione con la giustizia”. Se ciò dovesse realizzarsi, non vedremmo comunque le nostre città percorse da stuoli di boss mafiosi, come pure qualcuno - esponenti della politica, ma anche della magistratura - ha paventato. L’accesso ai benefici, oggi totalmente precluso, non diverrebbe comunque automatico. Sarebbe subordinato ad un duplice accertamento da parte del giudice, relativo l’uno all’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata, l’altro alla sussistenza dei presupposti previsti dalla legge in relazione a ciascun beneficio. La mancata collaborazione è un indizio, tutt’altro che debole, del perdurare di scelte di vita criminali: se questo, in concreto, fosse l’esito della valutazione del giudice, le porte del carcere rimarrebbero chiuse. Senza alcuno sfregio ai principi costituzionali, baluardo di civiltà in ogni temperie politica. *Professore emerito di diritto penale, Università di Milano - Statale Travisamenti e realtà sull’ergastolo ostativo di Domenico Pulitanò* Il Sole 24 Ore, 19 ottobre 2019 Preoccupazioni ragionevoli e vistosi travisamenti segnano le reazioni alla decisione della Corte Strasburgo sull’art. 4bis comma 1 dell’ordinamento penitenziario, e l’attesa del giudizio della Corte costituzionale. Preoccupazioni ragionevoli e vistosi travisamenti segnano le reazioni alla decisione della Corte Strasburgo sull’art. 4bis comma 1 dell’ordinamento penitenziario, e l’attesa del giudizio della Corte costituzionale. Attenti a togliere l’ergastolo ai boss, intitola un settimanale il 6 ottobre 2019. La questione specifica del c.d. ergastolo ostativo non tocca la previsione dell’ergastolo per gli omicidi di mafia, né la legittimità e opportunità di mantenere l’ergastolo come pena edittale per i massimi crimini. I giudici di Strasburgo “non capiscono che un capomafia resta tale per tutta la vita”, abbiamo letto in un’intervista di un noto magistrato antimafia. Questa opinione, ripetuta da tanti, è una generalizzazione che presenta come verità incontrovertibile un assunto che può essere smentito in casi concreti. “I giudici di Strasburgo intimano all’Italia di dare permessi e benefici agli ergastolani”, intitola un quotidiano il 9 ottobre. Non hanno intimato nulla, hanno semplicemente aperto la possibilità di permessi e benefici, per condannati per i quali siano stati acquisiti, come richiede il comma 1-bis dell’art. 4bis, elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata. L’art. 4bis dell’ordinamento penitenziario è stato introdotto in un periodo drammatico di delitti di mafia (primi anni ‘90) nel quadro di una legislazione speciale che intendeva sollecitare collaborazioni utili al contrasto alla mafia. Negli anni 80 del XX secolo un contributo importantissimo alla dissoluzione delle bande armate era venuto dalla collaborazione di ‘pentiti’, incentivata da una normativa premiale molto spinta (forti diminuzioni di pena). La preclusione che è oggetto del giudizio della Corte costituzionale è inserita in un sistema che dà rilievo ostativo al mantenimento di rapporti con la criminalità organizzata; cade in concreto sul dissociato non collaborante. È una linea di severità sostanzialmente sanzionatoria, diametralmente opposta alla linea di favore introdotta negli anni 80, a battaglia vinta, anche per i dissociati dal terrorismo non collaboranti (legge 18 febbraio 1987, n. 34). L’accertamento sui presupposti dei benefici o misure alternative, innanzi tutto sull’effettività della dissociazione, compete all’autorità giudiziaria. È la logica usuale dello tato di diritto. La giurisprudenza costituzionale recente ha affermato principi che aprono la strada all’accoglimento della questione sollevata sull’art. 4, comma 1. Leggiamo nella sentenza n. 149/2018: “La personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, fosse anche il più orribile, ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento. Una volta che il condannato all’ergastolo abbia raggiunto, nell’espiazione della propria pena, soglie temporali ragionevolmente fissate dal legislatore e abbia dato prova di positiva partecipazione al percorso rieducativo, eventuali preclusioni all’accesso a benefici penitenziari possono legittimarsi sul piano costituzionale soltanto laddove presuppongano valutazioni individuali da parte dei competenti organi giurisdizionali, relative alla sussistenza di ragioni ostative di carattere special-preventivo, sub specie di perdurante pericolosità sociale del condannato”. Lo scorrere del tempo viene in rilievo per un giudizio sulla personalità non bloccato al momento della sentenza di condanna, e finalizzato alla funzione rieducativa di cui all’art. 27 Cost., al “principio della non sacrificabilità della funzione rieducativa sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena”. Nel corso del tempo si affievoliscono gli interessi cui la collaborazione con la giustizia può servire. Quanto più cresce la distanza temporale dai delitti per i quali v’è stata condanna, tanto meno la collaborazione possibile mantiene interesse per esigenze attuali di contrasto alla criminalità. Nei casi in cui sono state sollevate le questioni di legittimità costituzionale, le condanne riguardano delitti degli anni 80 e 90. Nella disciplina generale dell’ergastolo, il fattore tempo è preso nella dovuta considerazione. L’accesso al lavoro all’esterno e a permessi premio è consentito dopo 10 anni; per le misure alternative (diverse dalla liberazione anticipata, non toccata nel sistema 4bis) i tempi sono assai più lunghi. 10 anni è un tempo ragionevolmente sufficiente sia per rivedere il giudizio sulla personalità del condannato alla luce del percorso penitenziario, sia per il giudizio su possibilità ed esigenze attuali di una ipoteca collaborazione attuale con la giustizia, da parte di un condannato che non abbia mantenuto legami con il mondo della criminalità organizzata. Con riguardo a fatti (anche delitti gravissimi) di un lontano passato, il condannato mantiene i diritti di parola - e di silenzio - che vanno riconosciuti a chiunque. Non è questione di diritto di difesa, ma di diritto della persona. Il problema di legittimità costituzionale dell’art. 4bis comma 1 non si identifica con il problema dell’ergastolo ostativo. Si pone anche per i condannati a pene detentive temporanee, come problema di ingiustificata preclusione dei normali percorsi penitenziari. La recente inserzione di delitti contro la Pubblica amministrazione (Legge c.d. Spazza-corrotti del gennaio 2019) nel sistema delle preclusioni di cui all’art. 4bis presenta profili di irragionevolezza intrinseca su cui è atteso il giudizio della Corte costituzionale. *Professore emerito di diritto penale, Università di Milano-Bicocca La “messa a regime” costituzionale dell’ergastolo di Fabio Fiorentin* Il Sole 24 Ore, 19 ottobre 2019 Un passo di civiltà giuridica che non equivale a liberare i mafiosi. La dottrina si è schierata in favore della messa a regime costituzionale della pena perpetua ostativa, mentre voci di dissenso si sono levate dalla magistratura inquirente. La decisione che Corte costituzionale assumerà all’udienza del 22 ottobre potrebbe segnare - anche sul versante del diritto interno - il fine corsa dell’ergastolo ostativo, già dichiarato “fuori legge” sul piano internazionale dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo con la sentenza del 13 giugno, Viola c. Italia, per il suo contrasto con l’esigenza del rispetto della dignità umana. Con voce unanime, la dottrina si è apertamente schierata in favore della “messa a regime costituzionale” della pena perpetua ostativa, mentre voci di dissenso si sono levate dalla magistratura inquirente, per il timore che un indebolimento o - peggio - una sterilizzazione della pena massima possa infliggere un colpo mortale alla lotta contro quello che la stessa Corte di Strasburgo ha definito il “flagello” mafioso. Benché non possa sottovalutarsi il carattere anche fortemente simbolico del “fine pena mai”, alcune considerazioni dovrebbero allontanare timori del genere sollevato dagli inquirenti. Anzitutto, occorre chiarire che la Consulta non è affatto chiamata a dire la parola fine alla pena dell’ergastolo “costituzionalizzato” (compatibile cioè, con i princìpi della Costituzione che vogliono tutte le pene conformi al senso di umanità e rivolte al recupero sociale del condannato). Anche nel caso la Corte costituzionale si pronunciasse in termini conformi alla recente sentenza europea, infatti, non si avrebbe alcun automatico accesso degli ergastolani “ex-ostativi” ai benefici penitenziari né alcuna rimessione in libertà di pericolosi boss mafiosi. Si tratta di una considerazione che potrebbe risultare perfino banale, ma tale evidentemente non è, se anche i giudici alsaziani hanno sentito il bisogno di precisarlo in un passaggio della sentenza Viola. L’ergastolo, si ribadisce quindi, rimane tale. L’elemento di novità - se Roma parlasse il medesimo linguaggio di Strasburgo - sarebbe, infatti, rappresentato dalla restituzione alla magistratura di sorveglianza del vaglio sulla meritevolezza dei condannati all’ergastolo in rapporto ai singoli benefici penitenziari di volta in volta richiesti, con l’osservanza - a tutela delle esigenze di difesa sociale - di due fondamentali condizioni, già patrimonio del diritto vivente e dunque non in discussione: la progressione trattamentale che vuole, al concretizzarsi dei presupposti previsti dalla legge, l’accesso dei detenuti a forme iniziali di contatto con l’esterno, quali i permessi o le licenze, per arrivare quindi alla semilibertà e, solo al termine del percorso esecutivo, alla liberazione condizionale (criterio che sarà tanto più rigido quanto più rilevante sia il quadro criminologico del condannato); e l’accertamento dell’assenza di attuali collegamenti del soggetto con il sodalizio mafioso di appartenenza. Il punto di equilibrio tra le esigenze rieducative connesse ai princìpi costituzionali e quelle di contrasto alla criminalità organizzata di matrice mafiosa, assicurato, nei termini sopra delineati, da una “costituzionalizzazione” dell’ergastolo ostativo costituirebbe inoltre, paradossalmente, la miglior garanzia della sopravvivenza della pena perpetua nel nostro sistema penale, dal momento che ben difficilmente si potrebbero trovare nella giurisprudenza convenzionale e in quella costituzionale anche solo un accenno di contrarietà alle pene di lunga durata e finanche all’ergastolo. Ciò che conta, per le Corti di garanzia, è che l’ordinamento assicuri, anche al condannato per il più efferato dei delitti, dunque anche all’ergastolano, quel “diritto alla speranza” a che, al verificarsi dei presupposti stabiliti dalla legge e qualora non vi siano ragioni connesse al rischio di recidiva e la persona che si sia dimostrata meritevole di essere reinserita nella società libera, si schiuda per costui una concreta prospettiva di rilascio in seguito ad un riesame da parte dell’autorità giudiziaria. Nessun “liberi tutti”, dunque, ma più semplicemente la restituzione alla magistratura di sorveglianza di quel vaglio sulla persona fondato su dati giudiziari, sulle informazioni e i pareri espressi dai vertici investigativi (Dna e Dda), sugli elementi desunti dall’osservazione sulla personalità del condannato attraverso un periodo di tempo anche protratto, in esito al quale può (ma non necessariamente deve) avviarsi un graduale percorso ai benefici penitenziari, attraverso un percorso graduale e costantemente sottoposto al controllo del giudice, dei servizi sociali e delle forze dell’ordine tale che, in caso di comportamenti del soggetto non conformi alla legge o alle prescrizioni imposte, può ricondurre il condannato all’espiazione della pena nel contesto detentivo. Un sistema così strutturato dovrebbe sopire i timori di coloro che oggi paventano rischi per la tutela delle esigenze di difesa sociale, anche perché si tratta di un sistema che ha dato prova di funzionare da efficace presidio al rischio di recidiva. Tre dati parlano da sé: la quota nient’affatto “allarmante” di condannati ammessi a misure esterne al carcere (inferiore al 50% dei ristretti); l’ancor più ridotto numero di detenuti che, ammessi alle misure extra-murarie, commettono nuovi delitti o, evadendo, si sottraggono all’esecuzione (qui si parla addirittura di percentuali prossime allo “0 virgola”); per contro, l’altissima percentuale di persone che, ammesse ad un percorso di reinserimento sociale nel corso della detenzione, non incorrono successivamente in fenomeni di recidiva nel reato (percentuale che, come è noto, sostanzialmente si azzera in presenza di un’attività di lavoro stabile e conservata anche dopo il “fine pena”). Il requiem per l’ergastolo ostativo segnerebbe anche il destino di importanti strumenti di lotta alla criminalità organizzata? Anche in questo caso, la risposta è: nient’affatto. Nessun impatto, infatti, si può prospettare sulla disciplina del regime detentivo speciale di cui all’ art. 41bis dell’ordinamento penitenziario, la cui strutturazione non verrebbe scalfita dall’eventuale tramonto dell’ergastolo ostativo. Non sarebbe neppure messa in discussione, nella sua valenza premiale, l’istituto della collaborazione con la giustizia (art. 58ter ord. penit.). Resterebbe, infatti, vigente l’art. 16-nonies del d.l. 8/1991 che incentiva la collaborazione con la giustizia e l’abbattimento dei limiti di pena per l’accesso ai benefici previsto per chi collabora attivamente con la giustizia dall’art. 58ter ord. penit., lasciando, quindi, intatta la “corsia preferenziale” per i condannati collaboratori di giustizia nell’applicazione di taluni importanti benefici premiali. Verrebbe meno, invece, la preclusione assoluta alla concessione dei benefici in assenza di una collaborazione effettiva. L’attuale sistema, tuttavia, già possiede sperimentati strumenti per “assorbire” gli effetti della fine dell’ostatività assoluta della pena perpetua, che sarà sostituita dall’esame (ri)affidato alla competenza tecnica e alla responsabilità della magistratura di sorveglianza, posto che quest’ultima sarà comunque tenuta a una rigorosa disamina anche dei profili di pericolosità sociale del condannato sulla cui base articolare un eventuale e graduale accesso a benefici esterni al carcere. *Magistrato presso il tribunale di sorveglianza di Venezia Il carcere a vita riemerge nella sua variante più crudele: l’ergastolo ostativo di Simone Lonati* Il Sole 24 Ore, 19 ottobre 2019 L’auspicio è che la Corte costituzionale torni ad affermare l’unico criterio costituzionalmente vincolante soprattutto in materia penitenziaria: l’esclusione di rigidi automatismi normativi. Scadenza pena definitiva: 31.12.9999. Così è indicata la parola “mai” nella casella del fine pena dei condannati all’ergastolo. Eppure quella data che sta a indicare una pena destinata a coincidere, nella sua durata, con l’intera vita del condannato, può assumere un significato ancora più crudele: senza speranza. Vi sono, infatti, nel nostro ordinamento due tipologie di ergastolo e altrettante di ergastolani: i comuni e, accanto ad essi, i peggiori tra i peggiori, gli ostativi. I primi sono condannati a scontare una pena perpetua: costoro, tuttavia, conservano il diritto a che il protrarsi della pretesa punitiva dello Stato sia periodicamente riesaminata e, qualora abbiano dato prova di partecipare efficacemente al programma rieducativo, possono progressivamente accedere a quegli istituti trattamentali per un graduale reinserimento nel mondo libero. Gli altri, i cosiddetti uomini ombra, sono invece destinati a scontare un ergastolo che preclude qualsiasi possibilità di ritorno alla società: una pena perpetua, immutabile e sempre uguale a se stessa, da cui è possibile sottrarsi solo collaborando utilmente con la giustizia. Per costoro, in forza di una presunzione legale di persistente pericolosità sociale derivante esclusivamente dall’omessa collaborazione, la possibilità di fruire dei benefici penitenziari non si collega all’effettiva partecipazione al trattamento rieducativo ed ai progressi compiuti in vista del reinserimento sociale, ma unicamente alla disponibilità ad un atteggiamento processuale (in concreto: la denuncia di altri) che, con il parametro costituzionale della rieducazione, ha davvero poco a che spartire. Per costoro, e solo per costoro, ogni giorno trascorso è un giorno in più (e non in meno) di detenzione. Senza speranza, appunto. Eppure, qualcosa si muove. Lo scorso 7 ottobre, la Grande Chambre della Corte europea dei diritti dell’uomo ha respinto il ricorso avanzato dal Governo italiano contro la sentenza Viola c. Italia n. 2, che è divenuta così definitiva. Secondo la Corte di Strasburgo, quindi, l’ergastolo ostativo previsto dal nostro ordinamento penitenziario è contrario al principio della dignità umana e, conseguentemente viola l’art. 3 della Cedu perché in forza di una presunzione assoluta di perdurante pericolosità sociale - rigidamente ancorata al “tipo di reato” commesso ed alla assenza di una fattiva collaborazione con l’Autorità Giudiziaria - priva il condannato del diritto alla speranza, ossia, della possibilità di riguadagnare, un giorno, la propria libertà. Sia chiaro: ciò che hanno censurato i giudici europei non è la scelta di considerare la collaborazione con la giustizia come una condizione per l’accesso ai benefici penitenziari ma di considerarla come l’unica alternativa capace di escludere tutte le altre. Le censure della Corte si sono infatti concentrate sulla eccessiva rigidità dell’equazione normativa “collaborazione con la giustizia: ravvedimento del condannato” alla base del congegno ostativo e rivelatasi fallace in entrambe le direzioni di osservazione. Perché la collaborazione è una scelta processuale, mentre il ravvedimento è uno stato interiore. Perché collaborare con la giustizia non è sempre sicuro indice di ravvedimento, potendo tale scelta anche dipendere da valutazioni utilitaristiche. Perché, in definitiva, esiste silenzio e silenzio e, quindi, non si può ritenere che la scelta di non collaborare con la giustizia sia sempre indice di mancato ravvedimento del reo, ben potendo dipendere da fattori personali per niente affatto sindacabili ma, all’opposto, sintomatici di un’effettiva resipiscenza del condannato (il rischio per la propria incolumità e per quella dei propri congiunti, il rifiuto morale di rendere dichiarazioni accusatorie nei confronti di persone a lui legate da vincoli affettivi o amicali, o il ripudio di una collaborazione che rischi di apparire strumentale alla concessione di un beneficio). Breve: è la scelta di fare della collaborazione con la giustizia la condicio sine qua non per l’accesso alle misure premiali ciò che non ha convinto i Giudici europei i quali non ci chiedono di superare il regime ostativo, ma di trasformare da assoluta in relativa la presunzione legale di pericolosità sociale derivante dalla scelta di non collaborare. “Le sole cose che siano sicure, in questo mondo, sono le coincidenze”, amava ripetere Leonardo Sciascia. Coincidenza o meno, rimane il fatto che, a pochi giorni dalla decisione europea, anche la nostra Corte costituzionale, il prossimo 22 ottobre, è chiamata a misurarsi con la legittimità del c.d. ergastolo ostativo. L’occasione è di quelle destinate a segnare una tappa importante nell’evoluzione dei diritti dell’uomo: si tratta di verificare, una volta per tutte, la compatibilità con la nostra Costituzione di una pena che i giudici europei ritengono, per come è oggi disciplinata, contraria al senso di umanità. Oggetto di discussione è la legittimità, rispetto agli artt. 3 e 27 Cost, della presunzione legale assoluta in forza della quale una limitata categoria di ergastolani sono esclusi dall’accesso ai permessi premio se, pur potendolo, non collaborano con la giustizia. L’auspicio è che la Corte costituzionale torni ad affermare l’unico criterio costituzionalmente vincolante soprattutto in materia penitenziaria: l’esclusione di rigidi automatismi normativi. Ciò non solo in adesione alla prospettiva della finalità rieducativa della pena e del principio di responsabilità penale personale, che rifiuta presunzioni assolute di pericolosità tipiche di un diritto penale per tipi di autore. Ad essere in gioco è la stessa dignità del detenuto, qui declinata nella necessità di considerare il caso nelle sue peculiarità: perché se è vero che “il carcere è pena per castigare certi gesti che non andavano compiuti, è altrettanto vero che la persona non è mai tutta in un gesto che compie, buono o cattivo che sia”. Questo significa che la persona, nella sua irripetibile identità, deve essere trattata per quello che è realmente e per i fatti realmente commessi, nella sua contestualità storica e sociale. In tal modo, la regola resterebbe quella dell’esclusione dal beneficio penitenziario in assenza di collaborazione ma, se non altro, tale esclusione non sarebbe più incontrovertibile e automatica, potendo essere superata qualora il magistrato di sorveglianza, in base a una valutazione individualizzata, ritenga di poter escludere la pericolosità sociale del detenuto in assenza di collaborazione. Questo approccio appare l’unico compatibile con la considerazione che la personalità del condannato non resta segnata dal reato commesso in passato, fosse anche il più orribile, ma rimane aperta alla prospettiva di un cambiamento. Prospettiva, quest’ultima, che se da un lato coinvolge la responsabilità individuale del condannato - tenuto ad intraprendere un cammino di revisione critica del proprio passato e di ricostruzione della propria personalità - dall’altro riguarda la responsabilità dello Stato chiamato a stimolare il condannato nell’intraprendere tale cammino. Così come del legislatore e dei giudici, tenuti alla astratta previsione e alla concreta concessione di quei benefici che, gradualmente e prudentemente, in risposta al percorso di cambiamento già avviato, attenuino il rigore della sanzione per il reato commesso, favorendo il progressivo rinserimento del condannato nella società. Il diritto alla speranza, appunto. *Assistant professor di procedura penale presso l’Università Bocconi di Milano Penalisti, alta tensione sulla riforma della giustizia di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 19 ottobre 2019 Da lunedì i difensori si astengono dalle udienze per una settimana. Rilanciare i contenuti del tavolo tra avvocati e magistrati. Con il ministero della Giustizia tutt’altro che terzo incomodo. Dal congresso delle Camere penali che si è aperto ieri a Taormina arriva un segnale chiaro: la riforma del processo penale così come sinora abbozzata non va. E questo anche oltre il tema caldissimo della prescrizione cui, per certi aspetti, il congresso è dedicato. Di certo questo autunno più che la stagione dello scontento è per l’avvocatura penale il momento della mobilitazione. Da lunedì parte una settimana di astensione dalle udienze che ha come bersaglio certo la prossima entrata in vigore della nuova disciplina della prescrizione, ma un po’ tutta la recente politica della giustizia penale. Il presidente delle Camere penali, Gian Domenico Caiazza, chiede di unire alla protesta, legittima, anche una sorta di opera pedagogica, che parta dalla realtà del processo penale. In questa prospettiva la ricerca penalisti-Eurispes è un passaggio chiave anche in funzione demistificatoria. Basti ricordare, attacca Caiazza, un tema spesso agitato per contestare l’irragionevole durata del processo penale, che chiama in causa direttamente i difensori: la ripetizione dell’istruttoria dibattimentale in caso di cambiamento del giudice. I dati attestano che riguarda l’1% dei 13mila processi di primo grado monitorati e nel 60% dei casi di quell’1% gli avvocati evitano di chiedere la ripetizione e si “accontentano” della lettura degli atti. Caiazza, che non ha nascosto il timore per una saldatura nel segno del giustizialismo tra Movimento 5 Stelle e sinistra post comunista, ha rilanciato i contenuti del tavolo di confronto con Anm, cristallizzato in un verbale che ne metteva a terra punti come il potenziamento dei riti alternativi, una oculata depenalizzazione, il recupero della funzione di filtro dell’udienza preliminare. Tutti poi ampiamente elusi dal ddl che la vecchia maggioranza giallo-verde approvò “salvo intese” a fine luglio. Ma che devono rappresentare snodo ineludibile della riscrittura del testo in vista del ritorno in consiglio dei ministri. Per David Ermini, vicepresidente del Csm, il rischio di andare verso un processo a durata indefinita è assai concreto se non si calibreranno con estrema attenzione le conseguenze dell’intervento sulla prescrizione. Il Csm lo ha detto da subito, ricorda Ermini, tanto più che non è toccata la fase delle indagini preliminari, dove si concentrala maggior parte delle prescrizioni. La necessità di velocizzare il processo non può andare a detrimento delle garanzie. Per Ermini il taglio della durata dei giudizi penali non è valore in sé, se a venire compromesso è il diritto di difesa. Serve invece dotare di maggiori risorse gli uffici giudiziari. E il vicepresidente del Csm ha avuto parole di apprezzamento per le amministrazioni Orlando e Bonafede per l’attenzione a questo profilo. Ermini spezza poi una lancia a favore di un maggiore riconoscimento, anche a livello costituzionale, dell’avvocatura, soprattutto in una stagione nella quale la formazione del diritto vivente è sempre più affidata alla giurisprudenza. Per Luca Poniz, presidente dell’Anm, sul processo penale serve un intervento complessivo senza logiche punitive per la magistratura, che pure ha le sue responsabilità. E la riforma della prescrizione, avverte Poniz, none convincente nel metodo e, per certi versi, neppure nei contenuti: è stata inserita in una legge con altro oggetto e si arresta non solo davanti alla sentenza di condanna, come Anm avrebbe preferito, ma alla pronuncia di primo grado. E tuttavia Poniz non liscia il pelo dell’avvocatura perché, sottolinea, la prescrizione può essere utilizzata in maniera impropria come obiettivo di una strategia difensiva che se legittima non è meno discutibile. Per il presidente dell’Anm serve una stagione di riforme complessive e nei confronti del legislatore bisogna essere esigenti chiamandolo a un minimo di visione del processo penale, la prescrizione può esserne solo un aspetto sia pure importante. Poniz non elude alla fine le ripercussioni dello scandalo nomine che ha investito lo stesso Csm e tutta la magistratura sottolineando, tra gli applausi, di aspirare a una magistratura meno innamorata del potere e più della legge e del diritto. Io, togato Csm, dico che per distinguere pm e giudici non va sconvolta la Carta di Giuseppe Cascini* Il Dubbio, 19 ottobre 2019 Nel ddl che separa le carriere ci sono misure pericolose per l’autonomia di noi magistrati, che invece dovrebbe stare a cuore agli avvocati quale precondizione per la tutela di diritti e garanzie. In questi giorni il Parlamento discute del disegno di legge promosso dalla Ucpi, sulla “separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e requirenti”. Su questo tema ci siano due piani di discussione che, a mio avviso, vanno tenuti separati. Il primo è quello del dibattito, teorico e politico, sulla unità/separazione delle carriere dei magistrati giudicanti e requirenti, tema sul quale da tempo magistrati e avvocati hanno posizioni diverse. L’altro piano di discussione è, invece, quello della proposta di riforma costituzionale in discussione alla Camera, che contiene una serie di interventi che poco o nulla hanno a che fare con il tema della separazione delle carriere e che riguardano invece direttamente il tema della autonomia e della indipendenza della magistratura. Provo ad indicare per punti gli interventi di cui parlo e a spiegare perché il prodotto offerto al Parlamento è cosa del tutto diversa da quella “separazione delle carriere” che è indicata nell’etichetta. Con l’art. 4 si prevede che le competenze del Consiglio Superiore della Magistratura sono solo quelle espressamente attribuite dalla Costituzione o da leggi costituzionali. Dunque, tante delle iniziative assunte dal CSM sui temi della giustizia, e che hanno spesso trovato il consenso degli avvocati, non sarebbero più possibili. Penso, per richiamare solo gli interventi degli ultimi mesi, ai pareri resi dal Csm sul decreto-sicurezza, sulla riforma della prescrizione, sul divieto di abbreviato per i delitti puniti con l’ergastolo. L’articolo 8 della proposta prevede l’abrogazione del terzo comma dell’articolo 107 della Costituzione, cioè di quella norma in base alla quale i magistrati si distinguono solo per funzioni, cioè sono tutti eguali, dal Primo Presidente della Cassazione al M.O.T. appena nominato. Abolire questa previsione significa ripristinare il principio gerarchico all’interno dell’ordinamento giudiziario. E credo vada detto con chiarezza che la imparzialità e la terzietà dei giudici italiani, visto che questo è l’obiettivo dichiarato della riforma, non si rafforza certo mettendogli un capo sulla testa. L’articolo 7 sostituisce il terzo comma dell’art. 106 della Cost. prevedendo che la legge può prevedere la nomina di avvocati e professori ordinari universitari di materie giuridiche a tutti i livelli della magistratura giudicante. In buona sostanza si elimina l’obbligo di concorso per l’accesso in magistratura, attribuendo alla legge la possibilità di prevedere forme di reclutamento alternative, senza alcuna limitazione nè di numero né di criteri. Noi abbiamo già oggi un esempio di giurisdizione che riceve una “provvista” di nomina governativa e non mi sembra che abbia dato frutti tali da consigliare di estendere l’esperienza. Infine, gli artt. 3 e 5 della proposta, nel ridisegnare gli assetti dei due Consigli superiori, quello dei giudicanti e quello dei requirenti, fissano la composizione dei due organi per metà di componenti eletti dai magistrati e per metà nominati dal Parlamento in seduta comune. Questa previsione modifica radicalmente la natura del Consiglio Superiore, privandolo di fatto della sua funzione di governo autonomo. La componente laica, infatti, non avrebbe più la funzione di portare all’interno di una istituzione di governo autonomo il punto di vista esterno dell’accademia e delle professioni, mediato dalla investitura parlamentare, ma parteciperebbe in posizione paritaria al governo (non più autonomo) della magistratura. Una scelta particolarmente miope, perché uno dei rischi più seri della separazione delle carriere è quello dello scivolamento del Pubblico Ministero nell’orbita del potere politico, e dunque un intervento sulla separazione delle carriere dovrebbe essere accompagnato da misure che tendono a rafforzare l’indipendenza e l’autonomia della magistratura, non certo ad indebolirla. Insomma, ciò che vorrei proporre è di continuare il confronto sul tema della collocazione ordinamentale del Pubblico Ministero, ma sgombrando il campo da proposte che con quel tema non hanno nulla a che fare e che invece toccano direttamente lo statuto di autonomia e indipendenza della magistratura sancito dalla Costituzione. La separazione delle carriere si può fare con legge ordinaria: si entra per concorso, poi si fa una scelta irreversibile per l’una o per l’altra funzione. Senza bisogno di toccare la Costituzione. Con questo non voglio certo negare i gravi difetti del sistema di governo autonomo della magistratura, e che emergono con tutta evidenza dalla lettura degli atti di inchiesta pubblicati nei mesi scorsi dai giornali. Ed è chiaro che questi comportamenti dei magistrati agevolano e favoriscono i progetti di riduzione della autonomia della magistratura. Personalmente sono convinto, e lo dico pubblicamente da anni, che la magistratura ha il dovere di operare un cambiamento radicale nella gestione del potere interno al sistema di governo autonomo, abbandonando definitivamente metodi e prassi, che hanno favorito i comportamenti deviati a cui abbiamo assistito. Ma allo stesso tempo penso che gli avvocati dovrebbero essere al fianco dei magistrati nella difesa della loro autonomia e indipendenza, perché esse sono la precondizione per la tutela dei diritti e delle garanzie delle persone, a cui presidio è posta la funzione del difensore. *Magistrato, consigliere del Csm Giusto prevedere l’estinzione del reato o del processo se la durata è irragionevole di Vincenzo Comi* e Antonio Mazzone** Il Dubbio, 19 ottobre 2019 È auspicabile che l’elaborazione di una disciplina equilibrata per decorso dei termini previsti avvenga in sede parlamentare, nel confronto di tutte le parti politiche. Un punto deve essere chiaro, per un consapevole approccio sia politico e sia giuridico, al tema della durata dei processi. L’alternativa non è tra “blocco del decorso della prescrizione dopo la sentenza di primo grado/ processo infinito” ed “estinzione del reato o del processo per decorso dei termini previsti senza che sia stata emessa una sentenza definitiva”. L’alternativa è tra intervento in sede legislativa per delineare un sistema che comporti l’estinzione del reato o del processo a causa del decorso dei tempi previsti dalla normativa in materia e intervento della Corte Costituzionale o della Corte Edu per dichiarare l’illegittimità costituzionale e convenzionale europea di un sistema penale e processuale penale che non preveda l’estinzione del reato o del processo (o di tutti e due) nell’ipotesi in cui non sia stata emessa in un tempo ragionevole una sentenza definitiva. Ciò risponde ad una esigenza costituzionale e convenzionale europea, stanti le disposizioni del 2° co. dell’art. 111 Cost. e del 1° co. dell’art. 6 Cedu, che prevedono che la legge assicuri la ragionevole durata del processo e la sua trattazione in un termine ragionevole. È auspicabile che l’elaborazione di una disciplina equilibrata in materia di estinzione del reato e di estinzione del processo penale per decorso dei termini previsti avvenga in sede parlamentare, nel confronto di tutte le parti politiche. La soluzione migliore sarebbe, forse, distinguere tra termini di prescrizione del reato, cui collegare la sua estinzione, e termini di fase per la definizione dei vari gradi di un processo, cui connettere un effetto estintivo dello stesso nel caso di loro superamento. Ma qualunque sia la soluzione da ritenersi migliore, ciò che è certo è che se deve essere assicurata, per esigenze costituzionali e convenzionali europee, la ragionevole durata del processo, l’unica sanzione adeguata ad impedire le conseguenze derivanti ad una persona dalla sua pendenza “infinita” è quella che preveda la sua estinzione nell’ipotesi di irragionevole durata. La conclusione si pone in termini di necessità giuridica. Stante il disposto degli artt. 111, 2° co., Cost. e 6, 1° co., Cedu, la mancanza di una norma che preveda un termine massimo di durata del processo penale integra un’ipotesi di illegittimità costituzionale e convenzionale del sistema processuale penale italiano. È come se mancasse una norma che preveda il termine massimo di durata della custodia cautelare. Né appare necessario attendere, per sollevare la questione di legittimità costituzionale, che, in ipotesi, entri in vigore il blocco del decorso della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, perché già manca nel sistema processuale penale una norma che sanzioni mediante la previsione dell’estinzione del processo la sua irragionevole durata. Concetto di irragionevole durata che può già concretamente definirsi in base alla giurisprudenza italiana ed europea in materia di equa riparazione. *Vicepresidente della Camera Penale di Roma **Avvocato Carcere per gli evasori: una legge c’è già, ma non si applica di Barbara Massaro Panorama, 19 ottobre 2019 L’attuale ordinamento prevede già il carcere per i grandi evasori, peccato che i fascicoli restino in tribunale troppo a lungo. La legge c’è, ma non si applica. Le seppur “lodevoli” intenzioni dell’esecutivo giallo-rosso di condurre una lotta senza quartiere all’evasione fiscale in Italia rischiano di finire in un nulla di fatto se a modificarsi non sono i tempi della giustizia. Risulta inutile, infatti, abbassare la soglia di punibilità penale per chi evade il Fisco facendo tremare la gambe a piccoli commercianti, autonomi e ditte a gestione famigliare se prima non mi applica una legge che c’è già e che promette di mandare in prigione i grandi evasori, il vero male di cui il nostro Paese soffre. Cosa dice la legge - La norma è la D.lgs. 74 del 2000, modificata dal D.l. 138 del 2011 e ulteriormente ritoccata dal D.lgs. n. 158/2015 atta a reprimere i reati tributari. Il sistema vigente prevede la reclusione fino a sei anni con confisca di beni pagati con denaro la cui provenienza non è nota e provabile. Il tetto per passare da reato amministrativo a penale dipende dall’entità dell’evasione e viene valutata caso per caso in relazione al danno causato all’erario. Uno dei casi tipo chefa giurisprudenza è quello dichiarazione infedele (non fraudolenta, ma con dolo). Se l’imposta evasa supera i 150.000 euro e se i redditi non dichiarati superano il 10% del totale o in ogni caso la soglia dei 3 milioni di euro scatta il carcere da uno a tre anni. Previsto il carcere anche per omessa dichiarazione, omesso versamento Iva, emissione di fatture false, distruzione di documenti fiscali con pene che vanno dai 18 mesi ai sei anni. Si va nel penale. quindi, per le omissioni di pagamento o le violazioni relative alle imposte sui redditi (Irpef, Ires) e Iva. Dove s’inceppa il sistema - Il sistema, però, s’inceppa perché per arrivare alla sentenza tributaria definitiva ci vogliono circa 4 anni, un tempo sufficiente per far sì che la stragrande maggioranza dei reati di questo tipo cada in prescrizione. Dati alla mano Istat ha reso noto che ogni anno più o meno 3.000 italiani ricevono condanne penali per reati fiscali, ma solo pochissimi finiscono in carcere. Al momento nelle nostre prigioni sono detenute circa 70.000 persone delle quali solo 200 condannate a causa dei guai col Fisco. Eppure, riporta Istat, solo nel 2017 su 207.000 casi passati a sentenza definitiva 3.222 riguardavano reati tributati. Ma se in prigione ci sono solo 200 persone, gli altri dove sono? Liberi. Perché la stragrande maggioranza degli evasori era stata condannata a periodi detentivi che oscillavano tra i 4 e i 6 mesi di reclusione e quindi ora che la sentenza è arrivata il periodo è già stato assolto. Nel 2014 quasi 15mila casi di evasione fiscale sono stati archiviati e nello stesso anno ne sono stati aperti quasi 23mila mentre a sentenza definitiva sono arrivati solo 3.000 casi. Di Maio: “No alla guerra tra poveri” - E sta tutto lì il gap da risolvere per poter iniziare a condurre una lotta logica contro l’evasione fiscale. La mancata applicazione della legge, infatti, non fa che favorire i furbetti consapevoli di poter evitare le meritate pene confidando nella lentezza della legge. Il proclama social del Ministro Luigi Di Maio che ha detto: “Una cosa non posso accettare: che lo Stato faccia il debole con i forti e il forte con i deboli” è sacrosanto, ma il Governo invece che aumentare le pene (fino a 8 anni di carcere) e abbassare il tetto sopra il quale si entra nel penale penalizzando i piccoli contribuenti che fanno carte false per sopravvivere dovrebbe verificare che la legge che già esiste venga applicata in tempi rapidi e in maniera efficace. Sempre il leader pentastellato ha aggiunto: “Non possiamo pensare che il simbolo dell’evasione sia, come si sta dicendo in questi giorni da alcuni media, l’elettricista, l’idraulico o il tassista. Io non ci sto a scatenare la guerra tra poveri. L’Italia ha decine di miliardi di euro di evasione perché ci sono stati soggetti che hanno portato anche milioni di euro fuori dai nostri confini e li hanno fatti rientrare con scudi fiscali al 5%. Dobbiamo introdurre strumenti che blocchino la grande evasione”. Cosa succede nel mondo - Negli Stati Uniti, per esempio, esistono carceri riservate a chi evade in fisco e ogni anno circa 3.000 persone finiscono in penitenziario dopo un processo che al massimo dura 12 mesi. La condanna varia tra i 2 e i 3 anni, ma viene eseguita all’istante. In Spagna, al contrario, non è previsto il carcere per chi non paga le tasse se ha la fedina penale pulita ed è la prima volta che viene pizzicato, ma il contribuente beccato a frodare l’agenzia tributaria dovrà pagare ammende molto pesanti fino all’ultimo centesimo. In Germania, all’estremo opposto, l’evasione fiscale è considerato un reato penale anche se si sottrae un solo euro al fisco. L’ordinamento teutonico prevede sanzioni pecuniarie per gli evasori e il carcere da 1 a 5 anni, che può arrivare ai 10 anni nei casi più gravi. Infine in Francia l’erario non può perseguire un contribuente se il maggiore reddito accertato non eccede il 10% del reddito tassabile dichiarato o una somma minima di 153 euro. L’ordinamento transalpino prevede poi fino a 5 anni di carcere per i reati più gravi e multe fino a 500 mila euro. Movimento “No Prison”: Livio Ferrari eletto portavoce www.noprison.eu, 19 ottobre 2019 Venerdì 11 ottobre è stato costituito ufficialmente il Movimento “No Prison” per l’abolizione dell’attuale sistema carcerario, che nasce dal manifesto omonimo scritto nel 2012 da Livio Ferrari e Massimo Pavarini. A conclusione del seminario internazionale tenutosi a Roma presso la Fondazione Basso il giorno precedente, che ha visto una larga partecipazione da tutta Italia ed un dibattito significativo con le relazioni, tra l’altro, di Gherardo Colombo, Luigi Ferrajoli, Giuseppe Mosconi, Elisabetta Zamparutti e Mauro Palma, coordinati dal direttore di Avvenire Marco Tarquinio, è stato nominato il Consiglio del neonato movimento ed eletto il suo Portavoce nella figura di Livio Ferrari, giornalista, scrittore e cantautore, fondatore e presidente del Centro Francescano di Ascolto di Rovigo. “Oggi inizia un percorso che dovrà portare dall’utopia alla realtà - ha affermato Livio Ferrari - per eliminare l’ultimo avamposto manicomiale del nostro Paese, ridurre odio e vendetta che questi luoghi scatenano, usare il tempo della condanna nella responsabilità di quanto commesso con azioni che restituiscano alle vittime dei reati, alimentare perciò percorsi di pace sociale”. Assegnato il Premio Stefano Cucchi 2019 orticaweb.it, 19 ottobre 2019 La Onlus “Diritti umani Stefano Cucchi” ha premiato Pietro Ioia, Giuseppe Gullotta e Gurmukh Singh. Il 12 ottobre si è svolta a Roma la V edizione del premio “Diritti umani Stefano Cucchi” Onlus 2019. Il premio è andato a Pietro Ioia, Giuseppe Gullotta e Gurmukh Singh, presidente della Comunità indiana del Lazio che ha denunciato le condizioni di sfruttamento nell’Agro Pontino. La presidentessa dell’associazione Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, ha affermato: “Sono storie di giustizia negata. Hanno fatto sentire la loro voce e vogliamo contribuire alle battaglie che portano coraggiosamente avanti”. Infatti, sia Gullotta che Ioia hanno passato 22 anni della loro vita in carcere. Il primo da innocente, l’altro da colpevole: Giuseppe a 18 anni fu costretto a confessare, a forza di botte, l’omicidio di due carabinieri. Pietro, narcotrafficante della Napoli centrale, finì per ben due volte nella cella zero. Anni fa, proprio sul nostro settimanale, avevamo intervistato Ioia sia per l’uscita del suo libro “La cella zero” che per la sua storia, raccontata in uno spettacolo teatrale dove Pietro recita la parte del proprio carnefice. Vi ricordiamo che la famigerata cella era una stanza dove i detenuti venivano portati di notte per essere picchiati da 4/5 guardie carcerarie. Bastava risultare antipatico a una di loro per finirci. Grazie a Pietro e alle sue lotte quella cella ora non esiste più, e nonostante un processo ancora in corso lui non si è fermato e ha fondato l’associazione “Ex 16 detenuti di Poggioreale”, di cui è presidente. Lotta ogni giorno per i diritti dei detenuti e delle loro famiglie. Il grande riscatto di un uomo che ha cambiato il corso della propria storia, diventando difensore dello stato di diritto dei carcerati e quindi degli ultimi. Abbiamo intervistato e chiesto a Pietro come ha accolto questa premiazione, se sapeva del premio, cosa ha provato e a chi l’ha dedicata. “Onestamente non credevo che sarei mai stato premiato dall’associazione Cucchi: è stata una gran sorpresa. Perché non interessa a molti la lotta di civiltà di un ex detenuto come me e perché molta gente non ci crede, ma recuperare un detenuto è come creare un mondo più pulito. A chi mi giudica rispondo che la maggior parte delle persone non conosce l’articolo 27 della Costituzione, che non afferma solo “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. Vi si legge anche “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. “Tutte le notti cerco di cancellare il mio passato, ma non riesco a dimenticare: tanti carcerati mi raccontano le loro storie e invocano il mio sostegno. Ho pagato il mio prezzo e anch’io ho subito violenza, e ogni volta che un detenuto la subisce è come se la stessi vivendo e subendo in prima persona. Io non riesco a aiutare tutti come vorrei. Ho visitato molte prigioni e so cos’è l’isolamento: conosco moltissimi detenuti abbandonati, per non parlare di quelli malati di mente che avrebbero bisogno di tutt’altro luogo per essere recuperati ma che in realtà vengono visti solo quando vengono chiamati per l’appello. Praticamente sono solo numeri. Mezza Campania si rivolge a me con la speranza che io possa dare una mano. Mi piacerebbe, ma non è così. Il premio Stefano Cucchi che ho ricevuto dalla sorella Ilaria mi ha regalato la consapevolezza che devo continuare a battermi per la dignità dei detenuti, perché la privazione della libertà è una punizione più grande di qualsiasi altra”. Pietro ha dedicato il suo premio a tutti i detenuti d’Italia e del mondo perché, a loro, nessuno dedica mai niente. Chiudiamo questa intervista con una domanda: Non sarebbe davvero un mondo migliore se le carceri fossero luoghi di recupero e d’inserimento nella società civile come dichiara Pietro Ioia? Trento. Carcere, il lavoro sterilizza le recidive. Abder e Geraldo: “Così siamo rinati” di Donatello Baldo Corriere del Trentino, 19 ottobre 2019 Con il lavoro, dentro e fuori dal carcere, la recidiva diminuisce. “Drasticamente”, sottolinea la Garante dei detenuti Antonia Menghini, tra gli ospiti ieri dell’incontro “Fare impresa in carcere” che si è svolto all’interno degli spazi di Fa’ la cosa giusta, organizzato da “Liberi da Dentro”, la rete che riunisce associazioni e realtà istituzionali. “Una diminuzione drastica, dove ogni punto percentuale in meno di persone che tornano a delinquere vale milioni di euro”, in sicurezza, in servizi sociali, in spese carcerarie e di giustizia. All’incontro di ieri anche Abder, marocchino. “Fino a 13 anni ero nel mio Paese, andavo a scuola tutti i giorni e tutti i giorni mi facevo 16 chilometri in bici. Ma eravamo poveri e volevo venire in Europa. Ho chiesto ai miei di raccogliere i soldi per il viaggio, tra gli amici, tra i parenti”. Immaginava di trovare lavoro, fortuna: “Ma lavoro non ce n’era e così sono finito in strada. Poi lo spaccio per vivere e il conseguente arresto, ancora minorenne”. Poi la liberazione, di nuovo senza casa e senza una protezione sociale per il reinserimento: “Un altro arresto, ma questa volta non avevo fatto nulla. Nove anni, poi patteggiati a quattro”. Di nuovo libero, un’altra recidiva: “Avevo trovato un lavoro, ma mi era scaduto il permesso di soggiorno e non potevo essere assunto. E allora di nuovo in strada, e un nuovo arresto. A Trento”. E a Trento Abder ha trovato un lavoro all’interno del carcere, ha frequentato da detenuto le scuole serali: “Ora sono uscito e lavoro in una cooperativa sociale. Non sono stato lasciato solo e sono così riuscito a ricostruirmi un vita e una famiglia”. Una storia a lieto fine che statisticamente rappresenta però un’eccezione: “Nella Casa circondariale di Spini risultano assunti 22 detenuti con la cooperativa Venature - spiega la garante - più 40 persone in formazione con Kaleidoscopio per turni di due mesi. Altre cooperative hanno abbandonato i progetti per mancanza di commesse o per altri problemi. Altri detenuti svolgono lavori per il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, come cuoco o addetto alla manutenzione, oppure come scopino, spesino e altri impieghi minori”. Numeri irrisori se si considera la totalità dei 330 detenuti presenti. Tra chi ce l’ha fatta, anche grazie alla disponibilità di un’imprenditrice che ha vinto il suo iniziale scetticismo - “Non do lavoro a un ex detenuto” - c’è Geraldo. È albanese e aveva raggiunto l’Italia per ricongiungersi con le sorelle: “Qui ho scoperto che potevo fare soldi facili, in modo veloce e con poca fatica”, con un metodo che però l’ha portato in carcere: “Mi hanno dato 5 anni di reclusione”. In carcere però inizia a studiare: “Ho ripetuto le medie per prendere la licenza e poi ho frequentato con successo i primi due anni del liceo Rosmini. E mentre studiavo in carcere ho trovato anche un lavoro di digitalizzazione dati”. Una formazione che gli è stata utile anche dopo: “Sono uscito come misura alternativa alla carcerazione, ora sono in regime di obbligo di firma, ma lavoro a Vicenza, ospitato da un centro di accoglienza della Caritas e alle dipendenze di una ditta che si occupa proprio di digitalizzazione”. “Per poter uscire dal carcere senza più tornarci - spiegano i promotori della rete Liberi da Dentro - è necessario il lavoro. Sia all’interno delle strutture che al di fuori. Per questo ci rivolgiamo agli imprenditori del territorio affinché diano la loro disponibilità. Ridurre la recidiva significa aumentare la sicurezza e l’inclusione sociale”. Bologna. Carcere e psichiatria, al femminile manca il tecnico per la riabilitazione di Ambra Notari superabile.it, 19 ottobre 2019 La denuncia arriva dal Sinappe, il sindacato autonomo di Polizia penitenziaria. La Marca: “Da quando la sezione ne è sprovvista, il personale femminile ha riferito grosse difficoltà di gestione, con pesanti ricadute sul loro carico di lavoro”. È Anna La Marca, vice segretario regionale del Sinappe, il sindacato autonomo di Polizia penitenziaria, a farsi carico della denuncia: nella casa circondariale di Bologna manca la figura sanitaria per la riabilitazione psichiatrica (il TeRP, acronimo per tecnico della riabilitazione psichiatrica), disposta presso la sezione detentiva del femminile, comunemente indicata come Girasole. “Da quando la sezione ne è sprovvista, il personale femminile della Polizia penitenziaria ci ha riferito che sono aumentate le difficoltà di gestione, con pesanti ricadute sul loro carico di lavoro”, spiega La Marca. Il tecnico della riabilitazione psichiatrica è un professionista sanitario presente nelle strutture riabilitative. La sua figura è stata istituita nel 2001 con il decreto ministeriale 29. Deve essere in possesso del diploma universitario abilitante e, nell’ambito di un progetto terapeutico elaborato da un’equipe multidisciplinare, svolge interventi riabilitativi ed educativi sui soggetti con una disabilità psichica. “Il diritto alla salute è un concetto che esprime la garanzia di pluralità di situazioni soggettive differenziate, come ha stabilito la Corte Costituzionale - scrive La Marca in una lettera indirizzata a Claudia Clementi, direttore della casa circondariale Rocco D’Amato. Non solo: la tutela della salute della persona reclusa assume, inoltre, una valenza positiva in relazione all’art.27 della Costituzione. Questo articolo, infatti, secondo il principio dell’umanizzazione e della funzione rieducativa della sanzione penale, impone una concezione della pena non meramente retributiva e preventiva, ma attenta ai bisogni umani della persona detenuta in vista del suo possibile reinserimento sociale”. L’invito del Sinappe è chiaro: si provveda, con la massima sollecitudine, al ripristino del servizio svolto “da questa imprescindibile figura professionale”. Firenze. A giudizio tre agenti, secondo l’accusa picchiarono chi denunciava gli abusi di Luca Serranò La Repubblica, 19 ottobre 2019 Lesioni aggravate e abuso di autorità contro arrestati e detenuti. Per questi reati sono finiti a processo tre agenti di Polizia penitenziaria all’epoca dei fatti (nel 2014) in servizio al carcere di Sollicciano, accusati di aver picchiato un detenuto senza apparente motivo. Vittima delle (presunte) violenze Rashid Assarag, il cittadino marocchino che durante il periodo di detenzione - fu condannato a 9 anni e 4 mesi per violenza sessuale - in diverse carceri italiane ha documentato con un registratore abusi e maltrattamenti, e inanellato al tempo stesso una serie di denunce per resistenza. Nei giorni scorsi era attesa proprio la sua testimonianza, ma per un errore di notifica è risultato irreperibile (in realtà vive in Marocco dopo essere stato espulso dall’Italia): spazio così al racconto della moglie Emanuela, cui il pm Vito Bertoni ha chiesto di ripercorrere dall’inizio l’esperienza del marito nelle carceri italiane. Violenze, umiliazioni, in particolare dopo le prime pubblicazioni del materiale audio, ma anche manifestazioni di solidarietà. “Molti si sono comportati con umanità - ha detto - non è mai stata una battaglia contro il corpo di polizia penitenziaria ma contro chi, con i suoi comportamenti, non ha avuto rispetto per quella divisa”. Secondo la ricostruzione, il 29 dicembre del 2014 Assarag - assistito dagli avvocati Fabio Anselmo (lo stesso che ha seguito tra gli altri il caso Cucchi) e Bernardo Gentile, fu trasferito in isolamento dopo una colluttazione con una guardia, innescata dall’ennesima protesta per la fine di un altro detenuto che si era suicidato nell’istituto di pena. Durante il tragitto verso la cella fu preso a schiaffi e poi “a calci e pugni”, subendo “lesioni personali consistite in tumefazione dello zigomo destro, escoriazione a livello del braccio sinistro e contusioni multiple”. Sempre per presunti abusi contro Assarag è ancora in corso un altro procedimento presso la procura di Prato, contro 4 agenti accusati di falso ideologico, calunnia, lesioni e abuso in atti di ufficio. I fatti risalgono alla primavera del 2014. Il detenuto marocchino sarebbe stato pestato a sangue dopo la scoperta del registratore: nel verbale, però, le guardie spiegarono di essere state aggredite da Assarag dopo averlo sorpreso ad armeggiare con una forbicina, tanto da denunciarlo per resistenza. Sul caso la Procura guidata da Giuseppe Nicolosi ha chiesto il rinvio a giudizio: l’udienza preliminare è fissata per il 15 gennaio. Ieri, intanto, un altro episodio è tornato ad accendere i riflettori sul carcere di Sollicciano. Un italiano di 28 anni, secondo quanto riferisce il sindacato Osapp, ha appiccato fiamme a un materasso, venendo poi salvato da due agenti (poi finiti in ospedale per accertamenti). Anche il ministro della giustizia Alfonso Bonafede ieri è intervenuto sulle polemiche legate al carcere fiorentino, con parole dure: “Ha problemi strutturali enormi - ha detto. Noi abbiamo carceri che cadono a pezzi, Sollicciano è uno di questi. Abbiamo nello scorso anno già stabilito per legge che ci fosse una deroga alle procedure normali per garantire all’amministrazione penitenziaria di fare interventi con un tempo più celere, con maggiore urgenza. Interventi strutturali su strutture fatiscenti richiedono comunque procedure sia di progettazione sia di intervento fisico che hanno dei tempi, ce la stiamo mettendo tutta”. Milano. Ragazzi malati e detenuti, fratelli per un giorno di Fabrizio Ravelli La Repubblica, 19 ottobre 2019 Che sia il diavolo oppure il buon dio a nascondersi nei dettagli è questione controversa. Ma è certo, invece, che spesso la bellezza abita ai margini, nei territori poco esplorati dalla nostra normale attenzione. L’altro giorno a San Vittore c’è stato un incontro di questo genere periferico e marginale: da una parte i ragazzi di B.Livers e dall’altra i detenuti del reparto La Nave, quello di chi è segnato dalle dipendenze. I B.Livers sono ragazzi con gravi patologie croniche, che hanno un sacco di iniziative notevoli e fra queste il giornale Il Bullone. Cos’hanno da dirsi ragazzi malati gravi, o ex-malati, e detenuti che scontano una pena provando a uscire dai vincoli delle sostanze? Un sacco di cose, e molto profonde. S’era già fatto un incontro così qualche mese fa, altri ci saranno, perché s’è visto che ne vien fuori una comunicazione vivace e sorprendente. L’altro giorno, assolutamente alla pari e con la medesima coraggiosa sincerità, hanno discusso di che cosa sia la bellezza, del dolore, della solitudine, della malattia, dell’amore, della colpa, della privazione. La marginalità, l’essere un po’ dimenticati o quanto meno poco conosciuti, aiuta a trovare il coraggio di raccontare fatti e sensazioni privatissimi, e di essere dolorosamente sinceri. Così, fra molte lacrime e molte risate, c’è chi ha raccontato come il dolore sia un pessimo consigliere quando produce solo isolamento e rabbia, ma possa insegnare a chiedere aiuto. Vale per i ragazzi malati così come per i carcerati, s’è visto. C’è chi ha raccontato di come abbia pensato di togliersi la vita, e magari ci abbia provato. Chi ha spiegato come una tv accesa alle proprie spalle, senza audio, possa aiutare ad arrivare in fondo a notti pesanti. Un incontro pesante? Non direi, visti i sorrisi e gli abbracci alla fine. Altamura (Ba). Il riscatto: dal carcere ai campi di Onofrio Bruno Gazzetta del Mezzogiorno, 19 ottobre 2019 La nuova vita per i detenuti comincia con i lavori di innesto e potatura alberi. Concluso il progetto di inclusione sociale nell’istituto di pena cittadino. Corso durato un anno. I risultati saranno resi noti nei prossimi giorni. Rigenerazione di se stessi per l’inclusione sociale. Attraverso i “buoni frutti”. Significati simbolici e aspetti molto concreti per un corso di operatore in attività di innesto e potatura che si è tenuto presso l’Istituto di pena di Altamura in via dell’Uva spina (sezione di Casa di Reclusione a custodia attenuata della Casa Circondariale di Matera). Il 30 ottobre, alle 10, verranno presentati gli esiti del percorso formativo tenuto dai detenuti. Il progetto denominato “Ri-generazione con i buoni frutti”, nell’ambito di un avviso regionale di iniziativa sperimentale di inclusione sociale per persone in esecuzione penale, è stato tenuto dalla “D. Anthea Onlus” in collaborazione con la cooperativa “Said”. Il risultato finale è la creazione di un’area a verde e di un orto botanico, nel perimetro interno dell’istituto di pena. Il corso è durato circa un anno, da ottobre dell’anno scorso, ed ha coinvolto dieci detenuti in 300 ore di formazione teorica in aula, compreso il modulo sulla sicurezza sui luoghi di lavoro, e 600 di attività tecnico-pratiche e di simulazione lavorativa. Al termine viene rilasciato un attestato di qualifica valido su tutto il territorio nazionale ed europeo, spendibile nel mercato del lavoro. “È stato un percorso di formazione ma soprattutto un percorso ricco di emozioni”, sottolineano i coordinatori ed organizzatori. I partecipanti hanno acquisito nozioni fondamentali di botanica, fisiologia e fitopatologia vegetale, produzione e coltivazione agricola, sicurezza sui luoghi di lavoro. Hanno applicato conoscenze e competenze nelle principali tecniche agricole, nell’innesto, nella potatura. Fino a progettare e realizzare, in una porzione di terreno nella Casa circondariale, uno spazio agricolo dedicato a diverse colture arboree ed un orto biologico. Hanno, poi, voluto delimitare il tutto, con la costruzione di un lungo muretto a secco, di staccionate e cancelletti con materiale legnoso da riciclo, con vasi, panchine, sedie, divanetti, tavolini dipinti ed un grande e resistente gazebo in legno con tettoia (il tutto creato con materiali di scarto agricolo) per dare maggiore valore aggiunto al loro spazio agricolo, al loro giardino, alla loro area verde. E proprio questa porzione di spazio all’aria aperta è diventata la loro “finestra” per il rientro nella società, con la speranza di trovare un lavoro. Al convegno conclusivo è prevista la partecipazione sia dei rappresentanti delle istituzioni che dell’amministrazione penitenziaria. Da tempo la sezione “a custodia attenuata” di Altamura è al centro di iniziative formative, tutte tese al reinserimento dei detenuti quando sarà espiata la pena che li ha portati alla reclusione. Per citarne altri, i corsi di panificatore, di orto-floro-vivaista (con realizzazione di un giardino), di lavorazione di prodotti in feltro da lana di ovini pugliesi. Firenze. All’Università una riflessione sulla questione carceraria met.cittametropolitana.fi.it, 19 ottobre 2019 Martedì 22 ottobre proiezione del film documentario “Viaggio in Italia: la Corte costituzionale nelle carceri” con l’intervento di Luigi Dei e Paolo Grossi. La spersonalizzazione e l’alienazione nella condizione detentiva, la rieducazione del condannato, il reinserimento nella società una volta che è stata scontata la pena. Una riflessione sulla questione carceraria è al centro di un’iniziativa dell’Ateneo fiorentino dal titolo “Bisogna aver visto” declinata in due appuntamenti. Si comincia martedì 22 ottobre, presso il Cinema La Compagnia (Via Cavour, 50/R a Firenze - ore 21), con la proiezione del film documentario “Viaggio in Italia: la Corte costituzionale nelle carceri”, diretto da Fabio Cavalli, che vuole essere una testimonianza di un incontro tra sette giudici della Consulta e i detenuti di altrettanti istituti penitenziari (Via Cavour, 50/R a Firenze - ore 21). Introdurranno l’evento il direttore del Cinema La Compagnia, il rettore Luigi Dei e il presidente emerito della Corte Costituzionale Paolo Grossi (foto in allegato). L’ingresso è libero. Lunedì 11 novembre, presso il Campus delle Scienze sociali, è in programma, invece, una tavola rotonda dal titolo “Meriti e limiti della pena carceraria” (Edificio D6, Aula 018 - Via delle Pandette, 9 - ore 10.30). Dopo il saluto del rettore Luigi Dei, terranno una relazione Emilio Dolcini, professore emerito di Diritto penale dell’Università di Milano, Mauro Palma, garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Francesco Palazzo, professore emerito di Diritto penale dell’Università di Firenze. A seguire interverranno il presidente della Camera penale di Firenze Luca Bisori e il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze Marcello Bortolato. I lavori saranno presieduti dal presidente della Corte costituzionale Giorgio Lattanzi a cui sono affidate anche le conclusioni. “Bisogna aver visto” è la citazione del titolo di un articolo di Pietro Calamandrei che, nel 1948, sulla rivista Il Ponte denunciò con forza la condizione disumana delle carceri. In questo senso, i due appuntamenti fiorentini definiscono l’Università come luogo non solo della formazione e della ricerca, ma anche dell’impegno civile. Hanno dato il patrocinio all’iniziativa la Regione Toscana, il Comune di Firenze, la Corte d’Appello di Firenze, l’Ordine degli Avvocati di Firenze, la Scuola Superiore della Magistratura (struttura territoriale di Firenze). Hanno collaborato la Fondazione per la formazione forense dell’Ordine degli avvocati di Firenze - Scuola forense, la Camera penale di Firenze. Reggio Calabria. Visita del Cardinale Ernest Simoni nel Carcere di “S. Pietro” di Danilo Loria strettoweb.com, 19 ottobre 2019 “La Speranza entra in carcere. Ed ha un volto, uno sguardo, un sorriso, le mani ed il corpo esile ma temprato dalla testimonianza semplice, umile, eppure disarmante, del Cardinale Ernest Simoni Troshani. Prigioniero per quasi trent’anni nella Polonia comunista, Don Simoni, è un martire vivente, l’unico sacerdote sopravvissuto, dopo 27 anni di lavori forzati, alla persecuzione del regime di Enver Hoxha, che aveva proclamato l’Albania il “primo Stato ateo al mondo”, perseguitando cristiani, cattolici e musulmani”, è quanto afferma l’Avv. Agostino Siviglia, Garante Regionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. “La sua testimonianza credibile, ancor prima delle sue parole semplici, ha toccato il cuore delle detenute e dei detenuti del carcere di “S. Pietro” di Reggio Calabria, che hanno accolto commossi il Cardinale Simoni, festeggiando con lui il suo novantunesimo compleanno. Una scelta, quella di festeggiare il proprio compleanno in carcere, ex prigioniero fra i prigionieri di oggi, che testimonia la forza autentica della Speranza contro ogni speranza, che Don Simoni incarna, quasi a ribadire con la sua storia, con la sua stessa vita, che nessuna sofferenza patita può sopire il “diritto alla speranza”. E dal buio più profondo della notte della carcerazione e del martirio per l’ingiustizia subita da innocente, sgorga la luce della restituzione che la vita stessa ha riservato a questo straordinario testimone di fede, che Papa Francesco ha voluto creare Cardinale. Don Simoni, del resto, non si è risparmiato durante l’incontro con le detenute e i detenuti, con il direttore del carcere, gli agenti di polizia penitenziaria, gli educatori, i medici, le suore, il sacerdote ed i volontari che prestano servizio presso l’istituto penitenziario reggino, stringendo le mani di tutti, uno ad uno. Il personale dell’istituto penitenziario, dal canto suo, ha donato al Cardinale Simoni una effige della Madonna della Consolazione di Reggio Calabria, mentre i detenuti hanno consegnato una torta da loro preparata, in occasione del compleanno del presule albanese. Il Cardinale Simoni, invece, ha fatto distribuire ai detenuti il suo stemma cardinalizio che effigia, evocativamente, una croce che spezza le catene. Uno scambio di doni, dunque, che ha vivificato una presenza in carcere, quella del Cardinale Simoni, che resterà impressa nella memoria di quanti hanno partecipato all’incontro, restituendo la Speranza certa che “solo l’amore crea”, anche quando tutto appare distrutto. Spero davvero che le detenute ed i detenuti facciano tesoro del dono ricevuto e di cui essi stessi sono stati testimoni”, conclude. Siria. I curdi e la lezione di Sabra e Chatila di Gianluca Di Feo La Repubblica, 19 ottobre 2019 Nel 1982 l’esercito israeliano irrompe in Libano per creare una fascia di sicurezza sul confine ed impedire gli attacchi terroristici: una situazione molto simile a quella che si sta verificando oggi in Siria. Finì con il massacro di migliaia di civili: allora erano palestinesi, ora rischiano di essere curdi. La storia si ripete quando ne ignoriamo la lezione: chiudiamo gli occhi sul passato per voltare le spalle al futuro. Se non lo facessimo, ci renderemmo conto che quello che sta accadendo nei territori curdi della Siria somiglia troppo a qualcosa che non andrebbe dimenticato. Mai. Il copione è identico, in maniera agghiacciante. Una nazione potente che invade all’improvviso un altro Paese piegato dalla guerra civile, ma solo per colpire una comunità precisa. Aerei che bombardano le città e carri armati che avanzano inarrestabili. Poi la tregua. I combattenti sconfitti consegnano le armi pesanti e vanno via. Con la garanzia americana che la popolazione sarà protetta. È quello che prevede l’accordo raggiunto tra Trump ed Erdogan per affidare ai turchi la zona sul confine siriano e far ritirare i miliziani curdi dello Ypg. Ed è quello che prevedeva l’intesa siglata tra Usa e Israele a Beirut nel settembre 1982. Forse adesso cominciate a ricordare. Forse adesso sentirete un brivido. Perché la similitudine è paurosa, coincide persino nei dettagli e trasmette il senso di una discesa verso il baratro. A cui la comunità internazionale assiste senza muovere un dito. L’avevano chiamata operazione “Pace in Galilea”, così come quella di oggi è stata battezzata “Fonte di pace”. Il 6 giugno 1982, mentre si giocavano i Mondiali di Spagna, l’esercito israeliano irrompe in Libano. Obiettivo dichiarato: creare una fascia di sicurezza sul confine, per impedire gli attacchi terroristici. Lo stesso che oggi viene ripetuto da Ankara: “Cacciare i terroristi lontano dalla frontiera”. Allora erano palestinesi, ora curdi. Nel 1982 ottocento tank israeliani, protetti dal fuoco di aerei, elicotteri e navi arrivano in otto giorni a circondare Beirut. L’assedio dura due mesi. Poi l’accordo. I guerriglieri dell’Olp lasceranno il Libano, sotto la protezione di una forza internazionale a guida americana. Partono in più di 14 mila. I filmati ingialliti mostrano Yasser Arafat che si imbarca, alzando un ramoscello di ulivo come fosse un segno di vittoria. L’inviato della Casa Bianca promette che i civili palestinesi non verranno toccati. Lo ha fatto anche ieri; garantendo che dopo la ritirata dei combattenti curdi quelle sul confine siriano saranno “zone sicure” sotto “temporaneo” controllo turco; assicurando che non ci sarà la pulizia etnica. Nel 1982 a Beirut dopo l’addio dell’ultimo guerrigliero palestinese si scatena il caos. Le brigate internazionali che dovevano vigilare sulla tregua, italiani compresi, abbandonano il Libano in anticipo. Contrariamente ai patti, gli israeliani penetrano in città e circondano i campi profughi libanesi. Come oggi in Siria, non c’è solo l’esercito occupante con la sua organizzazione gerarchica. Assieme ci sono i miliziani, assetati di vendetta. Le cronache di questi giorni attribuiscono gli episodi più crudeli non alle truppe di Erdogan ma alle bande dei loro fiancheggiatori siriani. Che dietro lo scudo dei carri armati turchi mettono a segno i loro sanguinosi regolamenti di conti, uccidendo donne e bambini. Quello che è già accaduto. Nella sera del 16 settembre 1982 i falangisti libanesi entrano nei campi palestinesi di Sabra e Chatila. All’esterno ci sono i soldati israeliani, loro alleati. Dentro l’inferno. Per quasi due giorni massacrano donne, vecchi e bambini: gli uomini sono andati via con Arafat. Due giorni di stupri, omicidi, spari, torture, urla, esplosioni. L’esercito occupante chiude gli occhi davanti alla carneficina. Una strage così feroce e selvaggia che non si conosce neppure il numero dei morti: tra i 700 e i 3.500. Non c’erano osservatori internazionali, non c’era nemmeno il tempo per i funerali o per ricostruire le identità: sono stati gettati in fosse comuni. Si possono dimenticare le foto di quei cumuli di cadaveri accatastati ovunque tra le baracche dei rifugiati? Delle file di bimbi allineati che paiono dormire, ma hanno il corpo crivellato di proiettili? Di quell’abisso di violenza che resta un oltraggio a ogni idea di umanità? In Siria domani potrebbe succedere la stessa cosa. Erdogan ha già dato prova di non temere le proteste del resto del mondo. Gli Stati Uniti e l’Occidente hanno dimostrato di non volere correre il minimo rischio per aiutare i curdi. E neppure al regime siriano interessa la sorte di quella comunità, che lo ha sempre avversato. Se i combattenti dello Ypg lasceranno le città, la popolazione resterà in balia dei miliziani. E noi? Stiamo ignorando quello che la Storia ci ha insegnato. Quello che forse nel 1982 non poteva essere previsto ma che ora appare chiarissimo. Donald Trump sicuramente non sa cosa siano state Sabra e Chatila. Ma noi lo sappiamo. Siria. Erdogan: i profughi nelle mie zone di sicurezza di giordano stabile La Stampa, 19 ottobre 2019 I caccia turchi violano il primo giorno di tregua. I combattimenti sono continuati nel primo giorno di tregua nel Nord-Est della Siria, con cinque civili morti in un raid dell’aviazione turca, un elicottero turco abbattuto, mentre Recep Tayyip Erdogan ha ribadito che l’offensiva riprenderà, martedì prossimo, se non avrà ottenuto la sua “zona di sicurezza” larga 440 chilometri e profonda 32. Il leader turco ha detto che le notizie di violazione della tregua sono “disinformazione” ma ha anche smentito la promessa di ritiro delle truppe di Ankara, una volta ottenuto il disarmo dei guerriglieri curdi: manterrà nella regione “12 posti di osservazione”, cioè basi dell’esercito turco come quelle già presenti nella provincia di Idlib. Una presenza che non potrà essere contestata neppure dal governo di Damasco, in quanto in caso di attacchi ai suoi soldati, la risposta sarebbe “immediata”. L’ultimatum - Il cessate-il-fuoco è quindi soltanto una “pausa” nelle operazioni. “Se gli Stati Uniti non rispetteranno le promesse, alla fine del periodo di 120 ore, martedì notte - ha minacciato Erdogan, la Turchia proseguirà con determinazione l’operazione”. Più che un accordo, sembra un ultimatum. Il leader turco è però consapevole che ritiro e disarmo delle Ypg non possono essere garantite dalle forze statunitensi. I militari di Washington hanno abbandonato quasi tutte le basi, una dozzina, che avevano nel Rojava. La più importante, vicino al cementificio Laforge, dove c’era anche il quartier generale anti-Isis, è stata distrutta con un raid degli F-15. Le forze residue sono state radunate nell’aeroporto alla periferia di Kobane, da dove vengono evacuate con aerei C-130. Quindi Erdogan ha detto di non avere “problemi” se del ritiro dei curdi si occuperanno la polizia militare russa e l’esercito siriano: “Se disarmano i terroristi per me va bene, sono affari loro”. E in questo senso l’incontro con Putin previsto martedì a Sochi, proprio nel giorno di scadenza della tregua, sarà “un’altra tappa” del processo “per la creazione della fascia di sicurezza”. Il leader turco vuole però che insegne delle Ypg e guerriglieri armati “scompaiano” dalla frontiera. E questo potrebbe creare tensioni fra le Ypg e l’esercito siriano. I curdi non vogliono rimanere disarmati e alla mercé del regime. Finora il passaggio di consegne è stato fatto in armonia, con la creazione di pattuglie miste, senza che i guerriglieri fossero costretti a consegnare le armi. Anche perché la leadership curda e Assad hanno in questo momento un’urgenza in comune. Impedire che turchi e milizie arabo-sunnite dilaghino. Nella notte fra giovedì e venerdì le Forze democratiche siriane hanno accettato la tregua e invitato la Turchia a rispettare il cessate-il-fuoco a “Tall Abyad e Rass al-Ayn”, le due città più coinvolte negli scontri. Senza fare però riferimento ad altre zone del fronte e soprattutto alla richiesta turca di ritirarsi. Ieri però i combattimenti sono continuati a Ras al-Ayn, la città che da 9 giorni resiste all’assalto dell’esercito turco. I guerriglieri curdi della Ypg tengono ancora il centro ma la città è rimasta per ore sotto il fuoco dell’artiglieria turca, curdi e miliziani si scambiavano tiri di mitragliatrici, mentre in serata un elicottero turco sarebbe stato abbattuto. Più a Est, nella zona di Bab al-Kheir, cinque persone sono morte in un raid turco, come ha confermato l’Osservatorio siriano per i diritti umani. Gli attivisti curdi sono tornati a denunciare l’uso di “armi proibite”, in particolare “fosforo bianco”, vietato dalle convenzioni internazionali. L’Onu ha aperto un indagine. Amnesty International ha detto di avere “prove schiaccianti” su “crimini di guerra” commessi da forze turche e dai miliziani. Nicaragua. Un anno e mezzo di crisi dei diritti umani di Riccardo Noury Corriere della Sera, 19 ottobre 2019 A un anno e mezzo dall’inizio della repressione delle proteste in Nicaragua, Amnesty International ha lanciato una campagna intitolata “Cosa ci siamo lasciati alle spalle: in fuga dalla repressione”. La crisi dei diritti umani iniziata il 18 aprile 2018, e della quale il governo di Daniel Ortega è responsabile, ha causato oltre 300 morti e 2.000 feriti. E non è affatto finita e le autorità non mostrano alcuna intenzione di garantire alla popolazione l’esercizio dei suoi diritti. Secondo le organizzazioni internazionali per i diritti umani, la crisi ha costretto oltre 80.000 persone a lasciare il Nicaragua, tra cui più di 100 giornalisti. Oltre 68.000 nicaraguensi hanno chiesto protezione a Costa Rica. Questo paese è tra quelli che, nel 2018, hanno ricevuto il più alto numero di richieste d’asilo, insieme a Panama, Usa, Spagna e Messico. Per mettere in risalto le violazioni dei diritti umani che ancora hanno luogo in Nicaragua, la campagna di Amnesty International prevederà petizioni, eventi, materiali audiovisivi e testimonianze di persone costrette a lasciare il paese. Saranno svolte azioni specifiche in favore di giornaliste e attiviste per i diritti umani quali Francisca Ramírez, Lucía Pineda Ubau e Vilma Nuñez. Francisca Ramírez, attivista per i diritti umani e leader contadina, è fuggita in Costa Rica oltre un anno fa dopo aver ricevuto gravi minacce; Lucía Pineda Ubau, giornalista di “100% Noticias”, ha lasciato il paese nel giugno di quest’anno, dopo aver trascorso quasi sei mesi in detenzione arbitraria; lo stesso ha fatto Vilma Nuñez, coordinatrice del Centro nicaraguense per i diritti umani, organizzazione non governativa cui sono stati confiscati beni e sospese le attività.