A chi fa bene il carcere? di Stefania Tortù accademiaprimolevi.it, 18 ottobre 2019 Nelle carceri italiane i detenuti si tolgono la vita. Nelle carceri italiane i poliziotti si tolgono la vita. L’area penale interna e esterna conta ben 172.388 persone ad oggi. L’organico della polizia penitenziaria è inferiore di ben 5.771 unità rispetto al previsto. Nel 2018 gli eventi critici tra le sbarre si dividono in 10.423 atti di autolesionismo, 1.198 tentati suicidi, 7.784 colluttazioni, 1.159 ferimenti e 5 tentati omicidi. Dati tutti in aumento rispetto al 2017 secondo il n. 270 della rivista Polizia Penitenziaria - società giustizia e sicurezza - pubblicata a marzo 2019. Il tasso di suicidi della popolazione carceraria è 18 volte più elevato rispetto a quello nazionale. Secondo la rivista Ristretti Orizzonti, nel 2018 sono stati 67 i suicidi in carcere, il sintomo più grave di un malessere penitenziario. Le relazioni del Garante dei detenuti riporta che il numero dei suicidi di maggiore rilevanza si ha entro i due anni dal fine pena. Allarmanti sono anche i dati che riguardano gli agenti di polizia penitenziaria, che detengono purtroppo il primato del più alto tasso di suicidi tra tutte le forze dell’ordine, tra il 2007 e il 2019 sono stati 70 i suicidi tra gli agenti. Secondo il XIV rapporto sulle condizioni di detenzione di Antigone, associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale, drammatica è la condizione dei detenuti disabili, psichiatrici o semplicemente malati. Pochissime sono le carceri dotate di un servizio di cartella clinica informatizzata: su 86 carceri visitate dai Antigone, 59 non la possiedono. Quasi del tutto assente la continuità assistenziale. All’ingresso nell’istituto di pena il detenuto arriva privo di una storia clinica. Storia clinica che lo accompagnerà solo in un eventuale trasferimento in altri istituti. I dati sanitari sono prevalentemente scritti a mano nei penitenziari e, in caso di dimissione, la cartella clinica non viene mai rilasciata al detenuto costringendolo a iniziare da zero un nuovo percorso sanitario. Ancora più complessa la situazione dei detenuti psichiatrici o presunti tali. Si tenga presente che la media nazionale delle ore di presenza in carcere di uno psichiatra è di 8,6 ore a settimana per 100 detenuti e di 11,3 ore settimana dello psicologo per 100 detenuti ma sono totalmente assenti i tecnici della riabilitazione psichiatrica e gli infermieri specializzati. Tutto a discapito del detenuto in prima battuta e degli agenti di polizia penitenziaria costretti, loro malgrado, a sopperire e arginare le conseguenze di tali carenze. Basti pensare che 1198 tentati suicidi nei penitenziari italiani sono stati sventati grazie all’immediatezza dell’intervento della polizia penitenziaria. Questo il rovescio della medaglia di un’area trattamentale assolutamente carente e iniqua. Costretta ad arginare materialmente e con scarsissimi strumenti emotivi personali il disagio dei detenuti, la polizia penitenziaria è vittima più di altre forze dell’ordine del fenomeno del burnout. Fenomeno quest’ultimo che trova il suo culmine nel suicidio. E allora a chi fa bene il carcere in Italia? Il detenuto afflitto dall’assenza di prospettiva di riottenere la rispettabilità persa e dalla consapevolezza di trascorrere la detenzione inutilmente dal punto di vista della rieducazione e del reinserimento perde ogni speranza. Sovraffollamento, carenza di risorse e personale sia dell’area trattamentale che di custodia limitano o addirittura escludono la possibilità di comunicazione, rieducazione e crescita. Ed ecco che il corpo diventa l’unico mezzo per parlare, quale veicolo tangibile per comunicare un disagio reale e drammatico. Il corpo quale unica cosa di cui disporre senza limiti a differenza del tempo e dello spazio. Il corpo quale unico mezzo per ottenere lo sguardo dell’altro su di se. E allora se non si può parlare con un educatore perché non c’è, se non si incontra uno psicologo prima di dieci giorni, se non si hanno parenti che vengono ai colloqui, se non si è guardati si usa il corpo anche barbaramente costringendo chi c’è a prendere atto della propria esistenza. Ed ecco che il carcere ci si svela, nonostante lo sforzo di chi ci lavora, nonostante il supporto delle associazioni di volontariato, come un luogo dello Stato che non fa bene. Più che il luogo della rieducazione, spesso è costretto ad essere il luogo in cui scontare una pena. Pena che, come direbbe l’antropologo Didier Fassin, non segue alcuna logica di equità ma varia a seconda del reo mitigandosi quando coinvolge strati sociali elevati e accanendosi su chi è già escluso. E allora siamo molto lontani dagli articoli 2, 3 e 27 della Costituzione. Come direbbe Calamandrei la Costituzione è ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno di lavoro da compiere. E osservando le carceri italiane è un lavoro da compiere alla svelta. Il carcere è il luogo in cui più di altri luoghi, l’indifferentismo politico mette a repentaglio la dignità dell’uomo e la mette a repentaglio in un luogo dello Stato. Penitenziari: è emergenza dentro e fuori dalle sbarre di Marco Tarquinio Avvenire, 18 ottobre 2019 Da una parte personale scarso e poco considerato, dall’altra un disagio che si “sfoga” in violenze o suicidi. Il malessere crescente nelle celle italiane preoccupa autorità e sindacati. Qualcosa non va, al di qua e al di là delle sbarre. Se dall’inizio dell’anno si sono uccisi 10 agenti di Polizia penitenziaria e 36 detenuti; se alla festa della stessa Polizia tutti gli encomi rilasciati sono per aver salvato persone che avevano tentato il suicidio; se ieri a Torino si è proceduto all’arresto per tortura di 6 guardie del locale penitenziario: allora vuol dire che il male c’è ed è trasversale, di chi sta dentro come pure di chi è fuori. “Dall’amministrazione penitenziaria arrivi un segnale forte - invoca anzitutto Antigone, associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale, dopo i fatti di ieri. Avevamo più volte segnalato negli scorsi mesi come il clima all’interno delle carceri andasse peggiorando e come cattivi maestri al potere stessero esacerbando il linguaggio, rendendo comprensivo se non addirittura benevolo l’uso e abuso di una violenza illegale, con il rischio che questa possa venire percepita come parte della pena stessa”. Ed è successo, in effetti. Ma non è l’unica lettura dei fatti, i sindacati per esempio presentano anche un altro lato del disagio carcerario, cioè lo “lo stato di abbandono e le continue frustrazioni, offese e aggressioni subite ogni giorno dalle donne e dagli uomini della Polizia penitenziaria in servizio nelle carceri italiane”. Lo dice il segretario generale del sindacato autonomo della polizia penitenziaria Osapp, Leo Beneduci, chiedendo che “il ministro della Giustizia assuma in prima persona l’onere di una riorganizzazione integrale del sistema penitenziario”. “Quello dei suicidi è un tema trasversale che tocca i poliziotti penitenziari e i detenuti, realtà polarizzate che però si guardano e condividono la vita in carcere - osserva realisticamente Nicola D’Amore, delegato dell’altro sindacato Sinappe. Il nostro è un lavoro che incide sulla psiche, tossico. Se non si capisce che è il momento di andare dallo psicologo, si può arrivare a gesti estremi. Anche parlarne con i superiori è difficile; sembra che la cultura dominante sia quella che ci vuole a soffrire in silenzio”. Per di più ci sono le carenze di organico: gli agenti sono circa 31mila, mentre ne servirebbero 37mila, per una popolazione detenuta di 60mila persone. Un terzo sindacato, il Sappe, per bocca del segretario generale Donato Capece ricorda che “la Polizia penitenziaria, a Torino e negli oltre 200 penitenziari italiani per adulti e minori è formata da persone che hanno valori radicati, un forte senso d’identità e d’orgoglio, e che ogni giorno in carcere fanno tutto quanto è nelle loro umane possibilità per gestire gli eventi critici che si verificano quotidianamente, soprattutto sventando centinaia e centinaia suicidi di detenuti. Per questo sul caso torinese non si traggano giudizi affrettati senza aver atteso prima i doverosi accertamenti giudiziari”. “Nella sola Sicilia e nei primi 6 mesi del 2019 - rincara Gioacchino Veneziano, segretario regionale Uilpa - la Polizia penitenziaria ha gestito oltre 2.100 eventi critici (uno ogni 4 dei circa 6.500 reclusi nell’isola) tra cui atti di autolesionismo, manifestazioni di protesta, colluttazioni, tentati suicidi, tentativi di evasioni, ferimenti e altro. Ma non si sta facendo nulla per evitare il peggio. Per esempio negli ultimi anni si è registrato un sensibile incremento di detenuti affetti da malattie mentali e psicofisiche, che aumentano i rischi per l’incolumità degli agenti”. Anche la Fp Cgil interviene: “I fatti di Torino sono gravissimi e, se confermati, da condannare senza alcun tentennamento. Allo stesso tempo però non possono inficiare un corpo che tra mille difficoltà, dalla carenza di organico alle difficili condizioni di lavoro, rimane un presidio di legalità. Nelle carceri si vive una vera e propria emergenza. C’è bisogno di portare al centro dell’agenda politica del Paese lo stato in cui versano gli istituti penitenziari e, con loro, le lavoratrici e i lavoratori che ogni giorno svolgono un’attività difficile e complicata. Persone che avrebbero bisogno di maggiori tutele e attenzioni, a partire da un sostegno psicologico”. Tortura, le carceri dimostrano più trasparenza di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 18 ottobre 2019 Perché prevenire è importante quanto reprimere. Le accuse di tortura da parte dei giudici per quanto accaduto nel carcere di Torino seguono di pochi giorni quelle riguardanti le violenze consumate nella prigione di San Gimignano. Non molto prima Antigone aveva presentato un esposto per violenze avvenute nell’istituto penitenziario di Monza. In tutti e tre i casi compare la parola “tortura”, che finalmente si può nominare esplicitamente nelle Corti italiane da quando, nel luglio del 2017, il Parlamento tra mille dubbi previde un nuovo delitto da inserire all’interno del codice penale, così come richiesto dal diritto internazionale. Non sappiamo come e quando finiranno questi processi. Sappiamo però che fornire un aprioristico e indiscriminato sostegno agli accusati è un modo per non aiutare le forze dell’ordine, composte per la gran parte da bravissime persone che avrebbero ogni vantaggio dall’identificare con chiarezza i pochi che non si comportano secondo etica e legge. Inoltre, sappiamo che prevenire la tortura è importante quanto reprimerla. Per prevenirla è necessario muoversi su molteplici piani, molti dei quali realizzabili a livello amministrativo, ossia senza che ci sia bisogno di modificare la legislazione. In primo luogo bisogna prevedere percorsi formativi multidisciplinari per chi lavora in contesti penitenziari. Non è sufficiente insegnare sul piano solo teorico la legislazione sui diritti umani. È necessario formare sul campo gli operatori, spiegando come affrontare in modo corretto le situazioni complesse. In secondo luogo è necessario costruire percorsi di carriera dove siano privilegiati quei funzionari che non si limitano ad assicurare il quieto vivere penitenziario, ma che danno vita a progetti articolati di reintegrazione sociale, nonché a modelli di vita interna tesi al benessere psicofisico di detenuti e personale. In terzo luogo bisogna aiutare i medici nelle loro funzioni di garanti della salute delle persone e ricordare loro tutti gli obblighi di certificazione di eventuali segni di violenza. In quarto luogo è necessario gratificare economicamente lo staff penitenziario in modo da renderlo più sereno. In quinto luogo bisogna favorire l’identificazione del personale di custodia e incrementare l’uso di videocamere nei luoghi più oscuri del carcere. Oggi aspettiamo che le indagini facciano il loro corso. Lo straordinario lavoro di monitoraggio, indagine, denuncia che sta svolgendo l’ufficio del Garante nazionale delle persone private della libertà è uno dei motivi per i quali oggi molto di più si sa intorno a quel che accade nelle carceri. L’amministrazione penitenziaria sta inoltre dimostrando trasparenza e volontà di combattere gli abusi. Infine, il processo Cucchi sta smontando una tradizionale impunità delle forze dell’ordine. Tutto va nella direzione per sperare in un carcere diverso, dove la legge sia sempre a tutela delle persone e mai nessuno si senta sopra di essa. *Coordinatrice associazione Antigone Il garantismo salviniano e l’apologia di reato di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 18 ottobre 2019 Chi ha a cuore lo Stato di diritto non può che essere un garantista. Il garantismo è una forma di protezione dei cittadini dagli abusi di potere delle istituzioni, ivi comprese quelle giudiziarie. Dunque essere garantisti significa credere nella presunzione di innocenza. Significa credere nella terzietà del giudice e nell’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Gli anni berlusconiani sono stati contrassegnati da una distorta nozione di garantismo. La legge Cirielli fu un manifesto del garantismo ai tempi di Berlusconi: prescrizione breve e previsione di garanzie processuali per alcuni (i colletti bianchi), prescrizione lunga e perdita di garanzie per tutti gli altri (tossicodipendenti, autori di piccoli reati di strada, immigrati, ossia i cosiddetti recidivi). Salvini ha da qualche tempo inaugurato un nuovo doppio binario penale: da un lato massima benevolenza per i presunti torturatori, dall’altro estrema durezza, ben oltre i limiti dell’architettura costituzionale, per tutti gli altri. Tutti coloro che non indossano una divisa, imputati o condannati, sono destinati a “marcire in galera”, chi è un esponente delle forze di Polizia avrà da lui indulgenza, vicinanza, pacche sulle spalle. Di fronte alle accuse di tortura da parte dei giudici di Torino nei confronti di alcuni agenti di Polizia penitenziaria, l’ex ministro dichiara che: “Uno Stato civile punisce gli errori ma che la parola di un detenuto valga gli arresti di un poliziotto mi fa girare le palle terribilmente. Quindi la mia massima solidarietà a quei sei padri di famiglia”. Pochi giorni prima, a seguito delle accuse di tortura nei confronti di alcuni agenti del carcere di San Gimignano, aveva affermato che lui sta sempre e comunque con le forze dell’ordine in quanto queste rischiano la vita ogni giorno per il nostro bene e la nostra sicurezza. A ciò seguì foto insieme a un gruppo di poliziotti penitenziari all’uscita del carcere postata su tutti i social. È dunque questa la nuova frontiera garantista dei potenti: vicinanza, protezione, impunità per chi è accusato di tortura; inclemenza e rigore per tutti gli altri. Alcune brevi osservazioni conclusive: corruzione e tortura fanno parte di uno stesso campo semantico e giuridico essendo entrambi crimini commessi da persone che svolgono funzioni in nome e per conto dello Stato, così non sorprende il continuismo tra il garantismo berlusconiano e quello salviniano; la vicinanza di Salvini agli indagati, imputati e arrestati per tortura, lo pone in conflitto esplicito con la magistratura e con la nostra Costituzione; la gran massa dei poliziotti penitenziari non ha bisogno delle parole e dell’abbraccio strumentale di Salvini in quanto non usa nel proprio lavoro la violenza; essere padri di famiglia non è una causa di giustificazione penalmente rilevante, né per chi è accusato di tortura né per chi commette femminicidio; la tortura finalmente in Italia è un delitto ed è inaccettabile che qualcuno ne evochi l’abrogazione, come se il problema fosse l’esistenza del delitto e non chi lo ha forse commesso. Uso il forse perché resto garantista, nei confronti di tutti. Nuova galera Salvini di Maurizio Crippa Il Foglio Quotidiano, 18 ottobre 2019 Non so più bene come lo definiamo adesso, che è diventato un europeista convinto, che si è messo la cravatta e forse persino a dieta, leader quasi credibile di un centrodestra non truce. Matteo Salvini. Poi però a cuor non si comanda, la galera è la galera e chi ci sta dentro ci deve stare, non c’è nulla di più bello che fargliela pagare e buttar via la chiave. Sarà l’astinenza da mojito. Ieri sei agenti di polizia penitenziaria in servizio nel carcere Lorusso e Cutugno di Torino sono finiti agli arresti domiciliari, un’inchiesta che va avanti da un po’, con un’accusa pesante: “Plurimi e gravi episodi di violenza”. Articolo 613 bis del Codice penale, tradotto sono accusati di tortura - che parola pazzesca in uno stato di diritto - nei confronti di alcuni detenuti. Noi, che a differenza di Salvini all’innocenza crediamo fino a prova contraria, speriamo che siano innocenti, come vorremmo esserlo tutti, innocenti, delle parole che diciamo e delle azioni che compiamo. Ma per essere un leader e non un capopopolo urlante ci vuole un po’ di prudenza, di attesa, di riconoscimento del diritto di tutti. Persino il diritto che più gli piace, quello di denuncia. Invece Salvini è saltato sui social come ai vecchi tempi, come su uno scooter d’acqua, e ha sbracato, perché al cuor non si comanda. “Non c’è un referto medico o una denuncia, ma la parola di qualche ex detenuto contro quella di sei poliziotti”, ha detto. “Uno stato civile punisce gli errori, ma che la parola di un detenuto valga gli arresti di un poliziotto mi fa girare le palle terribilmente”. Terribilmente. Le palle. Male annodate come la sua nuova cravatta. Fine pena mai. La drammatica condizione delle carceri italiane di Antonio Morelli noidicalabria.it, 18 ottobre 2019 Intervista con Gianpaolo Catanzariti, Responsabile Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere Penali Italiane. In questi giorni si fa un gran parlare di ergastolo ostativo, cioè quel tipo di ergastolo che non consente al detenuto l’accesso alle premialità e agli sconti di pena che invece spettano a tutto il resto della popolazione detenuta. Al 30 settembre del 2019 in Italia a fronte di 50.472 posti disponibili negli istituti di pena, la popolazione carceraria è di 60.881, oltre 10 mila persone in più. Di questi 2.652 sono donne e gli stranieri detenuti in Italia sono 20.225. Una situazione critica che abbiamo provato ad affrontare insieme a Gianpaolo Catanzariti, Responsabile Nazionale Osservatorio Carcere presso Unione delle Camere Penali Italiane. “Lo stato dell’arte delle carceri italiane lo dipingono i dati che mensilmente il ministero comunica che danno un dato oggettivo e in un certo senso superficiale. Un trend di crescita in aumento progressivo già da un paio di anni dalla sentenza Torreggiani, grazie anche alla sentenza che ha dichiarato incostituzionale le modifiche introdotte dal decreto legge Fini-Giovanardi che aveva aumentato i limiti di pena per le droghe cosi dette leggere equiparandole alle pesanti. Grazie a questi due eventi la situazione nei nostri istituti stava rientrando. Poi si è avuta una inversione di tendenza. Ed il dato oggettivo che rileva dalle statistiche è una crescita continua della popolazione detenuta e quindi un aumento del tasso di sovraffollamento. Questo è un dato che già immediatamente rende il quadro negativo delle nostre carceri”. Una situazione non semplice che comporta anche un grave problema riguardo la salute mentale e la sicurezza all’interno degli istituti di pena... “Purtroppo le notizie che giungono quasi quotidianamente ci segnalano l’aumento di suicidi sia tra la popolazione carceraria che tra il personale di polizia penitenziaria, oltre l’aumento di patologie di tipo psichiatrico. E le morti in carcere per cosiddetta mala sanità sono indice di una condizione carceraria che certo non possiamo definire tranquilla o da Stato civile, per non parlare delle rivolte violente che periodicamente si verificano nelle carceri italiane e che non si vedevano da anni. In buona sostanza, lo stato delle carceri italiane è sicuramente malato”. Troppo spesso si è parlato di condizioni gravi all’interno delle carceri, e ancora oggi si fa un gran parlare della finalità rieducativa della pena costituzionalmente riconosciuta ma che in pratica viene costantemente disattesa... “Il carcere da noi è un luogo criminogeno. Chi entra per un errore commesso, per una circostanza particolare della vita, chi entra da giovane in un carcere italiano ne esce con un titolo professionale di delinquenza. Perché il carcere dovrebbe essere improntato ad un sistema rieducativo, almeno cosi dice l’articolo 27 della Costituzione, che comunque parla di pene e non di pena, segno che l’unica pena non può essere il carcere, possono esserci misure alternative in risposta alla sanzione penale. Ma la finalità rieducativa della pena in realtà è un tragico gioco. Aumentando le ipotesi di reato nel catalogo previsto dall’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario che comporta una serie di preclusioni automatiche alla valutazione del trattamento che il condannato dovrebbe avere all’interno delle strutture, abbiamo prodotto un comodo alibi per il sistema che non è neppure impegnato nell’individuare un percorso rieducativo specifico. Guardiamo anche al numero del personale. Quanti educatori, quanti assistenti sociali? Quel po’ di attività che si fa la si riesce a fare grazie ai volontari. La maggior parte dei detenuti trascorrono buona parte delle loro giornate all’interno delle carceri senza far nulla. Perché mancano le risorse, mancano soggetti preposti a fornire questo tipo di assistenza e quindi è un lento scorrere del tempo con un danno non solo per l’individuo che si trova in detenzione, ma è un danno anche per la società che dovrebbe avere interesse ad avere un soggetto, che ha commesso l’errore e che sta pagando le sue colpe, pronto a tornare nella società esterna e rispettare così le regole della società stessa”. Di questi giorni è anche la polemica circa il permesso premio concesso all’assassino della giovane Fabiana Luzzi... “La politica sta offrendo questo teatrino indecoroso e questo la dice lunga sulle condizioni e sullo stato di salute della nostra politica oltre che sul livello qualitativo. Io comprendo perfettamente la rabbia di un padre anche se, osservando a distanza le diverse reazioni dei parenti delle vittime, ci rendiamo conto come una pena che diventa vendetta non rende soddisfazione nemmeno a coloro che soffrono per il male subito. Leggiamo interviste di parenti delle vittime che si dicono insoddisfatti e non appagati nonostante condanne al massimo della pena o all’ergastolo... “Dicevo, comprendo il padre della vittima, resto perplesso dinanzi alle strombazzanti dichiarazioni o interrogazioni parlamentari sulla concessione dei permessi premio ad un ragazzo che, da minorenne, ha commesso un efferato delitto. O addirittura leggere che il Ministro ha disposto un’ispezione per capire cosa sia successo. E ciò senza tenere conto di una serie di circostanze, dimenticando che di recente, finalmente, si è introdotto un sistema penitenziario differenziato per i minori. Dimenticando che il diritto penale minorile ha una sua peculiarità ulteriore rispetto a quello per i maggiorenni perché la finalità del recupero che secondo l’articolo 27 della costituzione vale per tutti i tipi di detenuti nel caso del minore è ancora più marcata come impronta di un sistema che, come dice la Corte Costituzionale, rispetti “l’esigenza di specifica individualizzazione e flessibilità del trattamento che l’evolutività della personalità del minore e la preminente funzione educativa richiedono”. Un sistema, in buona sostanza, sbilanciato verso il recupero del minore. Dimenticano che la Corte Costituzionale nel 1994 è intervenuta con una decisione molto forte cancellando l’ergastolo per i minorenni proprio perché incompatibile con il sistema che mira al recupero del minore. Forse quei parlamentari devono dare un senso alla loro funzione anche rispetto al nostro territorio purtroppo abbandonato e lo fanno cavalcando e fomentando gli istinti bestiali di una società. Addirittura il Consiglio Regionale della Calabria ritrova la voce dell’indignazione approvando un ordine del giorno all’unanimità ed ignorando che il permesso concesso non è una misura alternativa per un ragazzo che sta comunque scontando e continuerà a scontare una pena detentiva. O il garante dei minori che, appunto, dovrebbe essere per tutti i minori senza distinzione e quindi anche garante dei diritti del ragazzo condannato per un reato commesso da minore. Ma chi è minore condannato forse non merita di essere garantito. Una parzialità insomma dichiarata non per affrontare una seria riflessione sul sistema penitenziario, ma solo perché occorre uscire sulla stampa e cavalcare l’onda populista e demagogica del marcire in galera, dura purtroppo a morire”. Il caso Viola, detenuto da più di 26 anni che ha prodotto ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’uomo e che si è visto riconoscere la possibilità di rivalutazione della pena... “L’antimafia parolaia si delegittima da sola e non certo con la sentenza della Cedu sul caso Viola. Si delegittima da sola dimostrando l’incapacità di affrontare in maniera seria un fenomeno che non è solo criminale, immaginando che con lo slogan di inasprimento di pene o di carceri speciali e creando sistemi repressivi fini a sé stessi si possa un giorno battere la mafia. La Cedu che ha messo in croce lo Stato italiano rispetto al tema dell’ergastolo ostativo, il fine pena mai, il fine pena al 31.12.9999, non ha certo detto che Viola e chi come lui all’ergastolo ostativo, siano essi mafiosi o terroristi, debbano essere automaticamente scarcerati. Ha ribadito, come peraltro contenuto nella nostra Costituzione, che l’Italia deve rivedere il sistema che prevede le cosiddette preclusioni automatiche. Noi oggi abbiamo un sistema che impedisce, in ragione di alcune tipologie di reato commesso, la possibilità che un magistrato possa valutare un uomo che ha trascorso un lungo periodo di detenzione e capire se sia cambiato o meno, se abbia reciso i legami con il crimine, se il carcere sia davvero servito a qualcosa. La Cedu, attenzione, non parla mai di rieducazione, ma parla di funzione risocializzante perché considera non solo il diritto del cittadino detenuto ad essere, un giorno, reinserito nella società, ma anche l’interesse della società a procedere ad una risocializzazione graduale del reo che abbatte anche il tasso di recidiva. Questo ha detto la Corte Europea. Per quanto possa avere commesso un reato gravissimo o per quanto possa essere considerato pericoloso al momento della condanna, a nessuno, a prescindere dal reato commesso, può essere tolta la dignità umana che nessuna ragione di Stato può calpestare. Dovremmo ricordare che dentro le carceri non chiudiamo un reato per sempre, ma una persona. Il reato commesso è stato già sanzionato nel momento in cui si è emessa una sentenza. In carcere c’è un uomo che ha il diritto alla conservazione e al rispetto della sua dignità, ha diritto alla sua rieducazione secondo quanto stabilito dalla Costituzione e che la società ha l’interesse a che quel soggetto una volta reintrodotto nella vita sociale non torni a delinquere”. Ergastolo ostativo, è il momento di chiarire il concetto di rieducazione di Giovanni Fiandaca* Il Sole 24 Ore, 18 ottobre 2019 L’attesa pronuncia della Corte costituzionale potrebbe essere l’occasione per precisare ulteriormente cosa debba intendersi per rieducazione. La sentenza della Corte di Strasburgo, che ha ravvisato un contrasto tra l’ergastolo ostativo e l’art. 3 della Cedu (divieto di trattamenti inumani e degradanti), ha suscitato reazioni di segno opposto. Gli studiosi di diritto penale e costituzionale la hanno salutata con prevalente favore, mentre dal fronte dei magistrati antimafia si è levato un allarmato coro di critiche e preoccupazioni: come se la bocciatura di questa forma di ergastolo equivalga, addirittura, a un cedimento dello Stato alle mafie. Pur senza contestare l’esigenza prioritaria di contrastare il fenomeno mafioso, ho l’impressione che la magistratura antimafia assolutizzi la dimensione dell’efficacia degli strumenti di lotta, finendo col perdere di vista un punto sul quale anch’essa dovrebbe in teoria concordare: la politica criminale non può non soggiacere, anche nel settore della criminalità organizzata, ai limiti e ai vincoli che il costituzionalismo nazionale ed europeo oppone a garanzia dei fondamentali diritti individuali degli stessi delinquenti. Se quello della massima efficacia fosse l’unico parametro di valutazione, perché allora non ricorrere alla tortura per fare pentire i mafiosi o non impiegare mezzi bellici per scardinare le organizzazioni criminali? Preoccupata soprattutto del rischio di indebolimento dell’azione di contrasto, l’antimafia giudiziaria ha dunque mostrato minore sensibilità per le ragioni di principio e valoriali poste alla base della sentenza europea. Eppure, si tratta di ragioni che affondano le radici in un retroterra di principi di fondo largamente consonanti con quelli che la Costituzione italiana stabilisce in materia di delitti e pene, e che la nostra Corte costituzionale va progressivamente affinando di sua iniziativa o - come da qualche tempo accade - in dialogo con le Corti europee. A cominciare dal principio di rieducazione e da quello di umanità delle pene, che appresentano sempre più due principi-cardine anche per l’odierna giurisprudenza di Strasburgo. Appunto partendo da tali principi, i giudici europei hanno in sintesi ragionato così: richiedere la collaborazione giudiziaria - come fa l’ordinamento italiano, eccetto che nei casi di collaborazione impossibile o irrilevante - quale condizione necessaria per concedere agli ergastolani mafiosi (o terroristi) la liberazione condizionale o i cosiddetti benefici penitenziari, equivale a trascurare che i progressi sulla via della rieducazione sono possibili e accertabili anche in mancanza di collaborazione giudiziaria, per cui il disconoscerlo finisce col rinnegare il diritto alla speranza e col ledere la dignità umana dell’ergastolano non collaborante. Rimane, tuttavia, ancora incerto il modo di intendere la rieducazione specie quando il condannato sia un boss mafioso autore di una pluralità di gravi delitti. Che non tutto sia chiaro emerge, ad esempio, dai provvedimenti giudiziari relativi al recente diniego della detenzione domiciliare al boss pluriomicida “pentito” Giovanni Brusca (condannato non all’ergastolo, ma a una lunga pena detentiva grazie agli effetti della collaborazione) e dai commenti anche in forma di interviste apparsi sulla stampa. Mentre nell’ottica in particolare dei magistrati d’accusa l’avere fornito una collaborazione giudiziaria duratura ed efficace costituisce un affidabile criterio diagnostico di ravvedimento, nella diversa prospettiva di almeno una parte dei giudici di sorveglianza (e delle vittime di mafia) la rieducazione di un efferato mafioso implicherebbe qualcosa di più: cioè un mutamento profondo e sensibile della personalità, una sorta di ‘pentimento civilè inclusivo di momenti di riconciliazione-riparazione anche simboliche nei confronti dei discendenti delle vittime. Ma un concetto così impegnativo di rieducazione, denso di implicazioni eticheggianti ed emozionali, va ben al di là della nozione più laica finora adottata dalla Consulta: la quale identifica il ravvedimento con l’acquisita capacità, da parte del condannato che interrompe lo stato detentivo, di rispettare le regole della convivenza sociale. È auspicabile che la Corte costituzionale, in occasione della prossima pronuncia sul caso dell’ergastolano mafioso non collaborante Sebastiano Cannizzaro, precisi ulteriormente cosa debba intendersi per rieducazione, e non si limiti a prendere in esame il nodo dei rapporti tra rieducazione e collaborazione. *Professore ordinario di diritto penale dell’Università di Palermo Ancora e sempre contro l’ergastolo ostativo di Sergio Moccia Il Manifesto, 18 ottobre 2019 La Grand Chambre della Corte europea per i diritti dell’uomo ha deciso di invitare l’Italia a modificare la legge che dispone l’ergastolo ostativo, quello, cioè, effettivamente senza fine, a meno che il recluso non decida di collaborare. In realtà la Grand Chambre ha ribadito quanto la Corte aveva già stabilito in una decisione del giugno scorso, contro cui il Governo italiano aveva presentato ricorso evidenziando, tra l’altro, la conformità della sanzione alla Costituzione italiana, stabilita nel 2003 da una decisione “tartufesca” della Corte costituzionale, che grida vendetta per la sua inconsistenza argomentativa. In poche parole, secondo la Corte l’ammissione al beneficio è l’esito di una “libera scelta del condannato” di collaborare e quindi non viene in discussione l’art.27 c. 3 Cost.; ma la Corte non tiene conto che questa libera scelta può essere condizionata dai possibili riflessi sui familiari e del fatto che chi sia innocente, eppur condannato, non abbia alcun modo di “collaborare”, a meno di inventarsi qualcosa. Tre, invece, gli argomenti - di ben altra consistenza, civile e giuridica - alla base della decisione della Corte europea dei Diritti umani (Cedu): in primo luogo, il contrasto con il principio di difesa della dignità umana di una norma che non consente a chi sia privato della libertà di poterla, a determinate condizioni, riacquistare; quindi, l’inconsistenza della presunzione di pericolosità a fronte della mancata collaborazione, senza considerare i progressi del singolo sulla via della legalità; ed infine il dubbio forte sulla libertà della scelta, tenuto conto delle possibili gravi conseguenze nei confronti di terzi. Originariamente, a norma dell’art. 4-bis ord. penit., non è consentita l’applicazione dei benefici penitenziari, tra cui la liberazione anticipata, per gli “irriducibili” di mafia e terrorismo, per il solo fatto della mancata “collaborazione”. Inoltre, l’art.41-bis ord. penit., per “gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica”, dà la facoltà di sospendere il trattamento rieducativo, ben oltre quanto richiesto da legittime esigenze di isolamento dall’esterno: il che altro non significa che l’adozione del carcere duro. Le due norme tracciano orientamenti rigoristico-deterrenti che poco hanno a che vedere con le disposizioni costituzionali in materia. In generale, la via per ottenere i benefici per gli ergastolani è prevista valutando il percorso rieducativo e di reinserimento (formazione professionale, attività lavorativa e così via) a cui il recluso partecipa durante la permanenza in carcere. A questo punto non ha alcun fondamento razionale la presunzione assoluta secondo cui la mancata “collaborazione” sia in ogni caso ascrivibile all’assenza di progressi nella direzione della rieducazione. D’altro canto, come fa notare la Cedu, punire la mancata “collaborazione” non ha altro significato che effettuare violenza alla libertà morale del recluso, in palese violazione dell’art. 3 Cedu, che vincola anche l’Italia: norma posta a presidio della dignità umana, di cui è componente essenziale la libertà morale. A ciò si aggiunga che l’art. 27 c. 3, oltre al basilare principio di rieducazione, nella prima parte sancisce solennemente il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità. Si replica diffusamente, anche da parte di chi dovrebbe avere contezza di Costituzione e Convenzioni, che il superamento della micidiale combinazione normativa, che dà vita all’ergastolo “ostativo duro”, sarebbe visto come un segnale di debolezza e pregiudicherebbe la lotta alle mafie, laddove la coazione a collaborare - in spregio alla normativa costituzionale e convenzionale vigente - rappresenterebbe uno strumento vincente. Ma, a questo punto, visto che per esigenze di sicurezza o di ordine si possono impunemente violare norme fondamentali, viene da chiedersi perché non utilizzare mezzi più efficaci, più sbrigativi al fine di “ottimizzare” le “collaborazioni”. Chi stabilisce qual è il limite della violazione della dignità umana? La verità è che lo stato di diritto non conosce eccezione alle regole che pone, pena la sua stessa credibilità. Insomma, si abbia il coraggio di abrogare l’art.27 c. 3 e si rinunci alla Cedu, se si vogliono perseguire in materia penale prospettive diverse dallo stato di diritto. Il sistema penale a fondamento costituzionale ha la finalità di assicurare il singolo e la pacifica coesistenza fra i consociati, ma non di adottare qualsiasi mezzo ritenuto idoneo al suo perseguimento, altrimenti verrebbe in discussione uno dei due compiti fondamentali: la tutela del singolo. In altri termini è consentito l’intervento penale, ma sempre nel rispetto assoluto di predeterminate garanzie, dettate dalla Costituzione e dalle Convenzioni. Ciò di cui si discute non è la convenienza dello scopo, ma la conformità dei mezzi adoperati rispetto all’assetto fondamentale dell’ordinamento giuridico. In questa prospettiva l’intervento penale si giustifica se riesce ad armonizzare la sua necessità per il bene della società con il diritto, anch’esso da garantire, del soggetto al rispetto dell’autonomia, dunque della libertà e della dignità della sua persona. Ergastolo ostativo e preclusione ai permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia diritto.it, 18 ottobre 2019 La Corte Costituzionale sarà chiamata a decidere sulle questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte di Cassazione e dal Tribunale di Sorveglianza di Perugia in tema di accesso al beneficio penitenziario del permesso premio per il condannato all’ergastolo che non abbia collaborato con la giustizia. Come viene riportato dall’agenda dei lavori della Corte Costituzionale, “la Corte di cassazione (R.O. 59/2019) solleva, in riferimento agli articoli 3 e 27 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) nella parte in cui esclude che il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’articolo 416-bis del codice penale, ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia nei termini di cui all’articolo 58-ter della legge n. 354 del 1975, possa essere ammesso alla fruizione di un permesso premio previsto dall’articolo 30-ter della medesima legge. Il giudice rimettente, in primo luogo, denuncia la disciplina censurata per irragionevolezza perché assimilerebbe condotte delittuose diverse tra loro, equiparando gli affiliati all’associazione mafiosa agli estranei responsabili soltanto di delitti comuni, aggravati dal metodo mafioso o dall’agevolazione mafiosa. Secondo la tesi del rimettente, poi, l’esclusione dell’applicazione del beneficio penitenziario in mancanza della scelta collaborativa, senza consentire al giudice una valutazione in concreto della situazione del detenuto, sarebbe in contrasto con la finalità rieducativa della pena, non tenendo conto della diversità strutturale, rispetto alle misure alternative, del permesso premio che è volto ad agevolare il reinserimento sociale del condannato attraverso contatti episodici con l’ambiente esterno. Il Tribunale di sorveglianza di Perugia (R.O. 135/2019) solleva analoga questione di legittimità costituzionale. L’articolo 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975 è censurato nella parte in cui esclude che il condannato all’ergastolo, per delitti commessi al fine di agevolare l’attività dell’associazione a delinquere ex articolo 416-bis del codice penale della quale sia stato partecipe, possa essere ammesso alla fruizione di un permesso premio previsto dall’articolo 30-ter della legge n. 354 del 1975. La norma censurata contrasterebbe con gli articoli 3 e 27 della Costituzione in quanto, sostiene il rimettente, l’elevazione della collaborazione con la giustizia a prova legale del venir meno della pericolosità sociale del condannato impedirebbe alla magistratura di sorveglianza di valutare in concreto l’evoluzione personale del condannato, così vanificando la finalità rieducativa della pena”. Il divieto di concessione di benefici ai condannati per alcuni delitti. La disposizione censurata è, dunque, l’art. 4-bis O.P. (divieto di concessione dei benefici e accertamento della pericolosità sociale dei condannati per taluni delitti) ai sensi del quale “l’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione previste dal capo VI, esclusa la liberazione anticipata, possono essere concessi ai detenuti e internati per i seguenti delitti solo nei casi in cui tali detenuti e internati collaborino con la giustizia a norma dell’articolo 58-ter della presente legge”. Prescrizione a effetto ridotto una volta aperto il dibattimento di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 18 ottobre 2019 Prova a rimettere sulle gambe di un minimo di solidità numerica una discussione troppo spesso inquinata da approcci ideologici o solo dimostrativi la ricerca Camere penali Eurispes sul processo penale (sarà presentata oggi al Congresso dei penalisti di Taormina). E lo fa con una certa quota di demistificazione rispetto (almeno) a due luoghi comuni. Quello che individua nella prescrizione uno dei grandi mali della giustizia penale e quello che identifica negli avvocati i responsabili principali della durata troppo spesso eccessiva dei nostri procedimenti penali. Indagine che naturalmente non cade nel vuoto pneumatico del dibattito pubblico, anzi. A breve in Consiglio dei ministri approderanno le misure cui il ministero della Giustizia intende affidare l’accelerazione dei giudizi, sia civili sia penali. Largamente note dopo un primo passaggio a fine luglio ad alta tensione tra Lega e Movimento 5 Stelle, le disposizioni sono oggetto di revisione da parte della nuova maggioranza. Sullo sfondo, ma neppure troppo, il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado a partire dal prossimo anno. Sul piano metodologico, i dati raccolti riguardano oltre 13.000 processi in 32 Tribunali. La ricerca, in continuità con un’altra analoga del 2008, si è concentrata sui giudizi di primo grado, con esclusione sia delle udienze preliminari sia dei procedimenti camerali in genere, come quelli sulle misure cautelari e di prevenzione. Dei processi presi in considerazione solo il 20% è andato a sentenza (2.807 le sentenze totali), mentre in tutti gli altri casi il processo è stato oggetto di rinvio. Circa un quarto dei verdetti è stato poi di assoluzione, quota che raggiunge il 30% tenendo conto dell’incidenza della nuova causa di non punibilità per tenuità del fatto. Il che conduce alla sottolineatura per cui in un buon numero di casi lo stesso processo potrebbe essere evitato. Quanto alla prescrizione poi, dall’indagine emerge come del 26% circa di processi andati a sentenza conclusi con dichiarazione di estinzione del reato, il 42% (in diminuzione rispetto al 45,5% del 2008) si conclude per prescrizione. In sostanza, sui processi andati in decisione l’incidenza della prescrizione è del 10%, mentre sul totale di quelli monitorati si ferma al 2 per cento. Insomma, di 100 processi approdati al dibattimento, circa 20 vanno in decisione, 5 di questi si concludono con l’estinzione del reato e 2 di questi ultimi con dichiarazione di prescrizione. Ha gioco facile allora Giuseppe Belcastro, responsabile dell’Osservatorio sui dati giudiziari delle Camere penali nel mettere in evidenza come il fenomeno prescrizione, dopo l’esercizio dell’azione penale, ha un peso reale assolutamente inferiore a quello assunto tra le forze politiche e, di riflesso, anche nell’opinione pubblica. Meglio sarebbe allora concentrarsi solo sulla fase delle indagini preliminari dove matura il 70% della prescrizione, “evidentemente per cause che con la difesa nulla hanno ma che vedere” e mettere in discussione, provoca Belcastro, una principio come l’obbligatorietà dell’azione penale. Tanto più che dall’indagine emerge come poi gli uffici giudiziari in alcuni casi “fanno da soli” e si procede a rinvio “per imminente maturazione della prescrizione”. Ma dalla ricerca emerge anche un dato a suo modo scomodo e cioè che la stragrande maggioranza dei rinvii ad altra udienza, evidente ragione della notevole durata del procedimento, è da imputare, più che a sofisticate tattiche difensive indirizzate a lucrare sull’effetto tempo, a motivi fisiologici al processo stesso. Tra le cause più frequenti spicca per esempio la necessità di prosecuzione dell’istruttoria oppure l’omessa citazione o assenza dei testimoni del Pm. Aspetto che chiama in causa direttamente il modello processuale scelto, tanto più in tensione quando se ne riscontra l’estrema, e storica, difficoltà a fare attecchire i tiri alternativi. Testimoni assenti e notifiche errate: ecco che cosa rallenta i processi di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 18 ottobre 2019 Studio penalisti-Eurispes: un rinvio su quattro legato a disfunzioni. Analizzati 13.600 casi. Una sentenza su dieci viene prescritta e più del 25 per cento è un’assoluzione. Quasi 1 udienza su 4 in Tribunale viene rinviata (peraltro in media a 5 mesi di distanza) per assenza dei testi citati, errori nella loro convocazione, notifiche omesse o sbagliate a imputati e difensori, e carenze logistiche della macchina giudiziaria. E quando arrivano le sentenze di primo grado, le prescrizioni ne falciano 1 su 10, ma le assoluzioni nel merito arrivano già in oltre 1 caso su 4 (1 su 3 nei reati monocratici come truffe e furti). Sono alcune delle dinamiche - spesso contro-intuitive rispetto a credenze comuni - fotografate dalla ricerca che gli avvocati dell’Unione Camere Penali Italiane (meglio che nell’esperimento del 2008) hanno svolto con l’Eurispes tra maggio e settembre su una udienza di 13.600 processi campionati dall’istituto statistico in 32 sedi di Tribunale, e che oggi presenteranno al congresso straordinario di Taormina. Il campione di 13.600 processi (su 1 milione e 182.000 pendenti nei tribunali) ne ha visti rinviare 10.828, nella maggioranza dei casi (63,9%) come normale conseguenza di istruttorie non concluse. Tuttavia un dato scorporato segnala carenza di senso civico nei cittadini e inconsapevolezza dell’importanza della veste di testimone: ben l’8,3% di udienze è infatti rinviato per assenza dei testi correttamente citati dal pm e un altro 1,5% per assenza di quelli della difesa. Rinvii ai quali sommare quelli per errori del pm (1,7%) o dei difensori (0,3%) nel convocare i propri testi. Proprio questo 0,3% è una delle cause di rinvio addebitabili agli avvocati, come i legittimi impedimenti (comunque a prescrizione fermata) dell’imputato (1,5%) e del legale (2,1%): in tutto, il 3,9%. Comprensibile, quindi, che Ucpi valorizzi che una quota ben più alta di rinvii di udienze (il 15,7%) vada invece sul conto o dei magistrati o comunque dell’apparato giudiziario. Se per il 3,3% è assente il giudice, se per lo 0,3% è mutato il collegio (con lettura degli atti assecondata dalle difese nel 59,6% dei casi), se per lo 0,2% non si presenta il pm, il grosso delle udienze salta infatti sempre a causa delle notifiche omesse o fatte in maniera irregolare dagli uffici giudiziari all’imputato, al difensore o alle persone offese: una voce - ulteriore rispetto all’1,7% di errate citazioni di testi del pm - che pesa per l’8,1% (con l’unica consolazione di essere meno dell’11,6% del 2008). E poi c’è un altro 2,4% di rinvii dovuti a problemi di logistica come il mancato trasporto dal carcere del detenuto, l’assenza di trascrittori, le carenze di aule, l’eccessivo carico del ruolo. Sui 13.600 processi monitorati, 2.807 sono andati a sentenza con il 43,7% di condanne, il 26,5% di estinzioni del reato, il 25,8% di assoluzioni nel merito (che salgono al 28,9% nei reati monocratici), alle quali sommare un ulteriore 4% di “non punibilità per particolare tenuità del fatto”: dato elevato, questo delle assoluzioni, giacché si registra già in primo grado dopo in teoria il doppio filtro operato dai pm con l’archiviazione in indagine o dai gup nei reati a udienza preliminare. E la prescrizione? Se era già noto dai dati ministeriali che il 70% matura prima del processo, ora la rilevazione Ucpi-Eurispes - al netto di altre cause di estinzione del reato come rimessioni di querela, esito della messa alla prova, oblazioni, morte dell’imputato - mostra che la prescrizione falcia il 10% delle sentenze di primo grado: cioè di prima del momento dopo il quale la legge grillo-leghista (contro la quale gli avvocati scioperano dal 21 al 25 ottobre) inizierà a bloccarla dall’1 gennaio 2020 senza alcun contrappeso. Di certo nei tribunali si lavora, ma come in catena di montaggio: l’udienza dura in media quasi 8 ore, ma i processi sono così tanti che la durata media è 14 minuti nei monocratici e 40 nei collegiali. Sul carcere ai grandi evasori altolà di Italia Viva: l’intesa non c’è di Emilia Patta Il Sole 24 Ore, 18 ottobre 2019 “I grandi evasori vanno già in carcere per le leggi che ci sono. Giusta la battaglia contro gli evasori fiscali, mano alla caccia alle streghe”. Di prima mattina è il coordinatore di Italia Viva Ettore Rosato ad aprire il nuovo fronte dei renziani dopo la soglia sull’uso del contante e Quota 100. Il carcere agli evasori proprio non va giù all’ex premier Matteo Renzi. In questo confortato dalla presa di posizione del presidente uscente dell’Anac Raffaele Cantone, che ieri ha fatto un amaro bilancio del suo mandato presentando il Rapporto sulla corruzione in Italia nel triennio 2016-19 (“il tema della corruzione è scomparso dai riflettori”): “È giusto dare un segnale contro l’evasione, che è strettamente legata alla corruzione e che è un danno a tutti. Va bene inasprire le pene ma non è con le manette che si vince l’evasione”. Ecco, la posizione di Cantone è in linea con quella riportata dai rappresentanti di Italia viva (il capogruppo in Senato Davide Faraone e il senatore Giuseppe Cucca) al vertice convocato in mattinata dal premier Giuseppe Conte sui reati fiscali con il Guardasigilli Alfonso Bonafede. Una riunione per la verità descritta come tranquilla da tutti i partecipanti e in cui ci si è trovati d’accordo sull’impianto generale riservandosi di definire meglio il merito e soprattutto lo strumento. Intervenire con un emendamento al decreto fiscale come vorrebbe il M5S (nella bozza già c’è l’innalzamento delle pene a 8 anni) non convince non solo Italia viva, ma neanche Pd e Leu: meglio un Ddl ad hoc. La piccola bomba esplode tuttavia in serata, quando fonti del governo davano per fatto l’“accordo su carcere per i grandi evasori, confisca per sproporzione e inasprimento delle pene”. Immediata la precisazione di Italia viva: “Non c’è nessuna intesa. Il carcere già esiste e comunque non si può intervenire in materia penale con decreto. Il Cdm discuta di una legge ad hoc”. Insomma, alla vigilia della Leopolda Renzi non è intenzionato a fare sconti: ieri è stato aperto anche il fronte contro la sugar tax e - in parte - contro la plastic tax. Il bersaglio vero è sempre il premier: “Conte non può ergersi a paladino della legalità visto che nello scorso governo Palazzo Chigi ha avallato sia il condono fiscale che quello edilizio riguardante Ischia”, è la linea dettata mercoledì sera da Renzi ai suoi parlamentari. “La corruzione c’è. Ma Tangentopoli è un ricordo lontano” di Simona Musco Il Dubbio, 18 ottobre 2019 L’addio di Cantone all’Anac. La corruzione in Italia c’è ed è pericolosa, ma nulla di neanche lontanamente paragonabile a Tangentopoli, quando rappresentava “uno stabile meccanismo di regolazione della vita pubblica”. Tanto che pensare alle manette e alla sola repressione come antidoto, così come per l’evasione fiscale, è sciocco. Il saluto di Raffaele Cantone all’Anac avviene con una relazione quasi sovversiva, se si pensa alla narrazione quotidiana che si fa del livello di malcostume del Paese. E per quanto non si possa abbassare la guardia di fronte ad un episodio corruttivo ogni dieci giorni, nei cinque anni di attività dell’Autorità anticorruzione ciò che è emerso è un livello bagatellare, con contropartite fatte soprattutto di posti di lavoro, favori e a volte anche pochi spicci. Insomma, un livello aggredibile, secondo Cantone, che punta soprattutto sulla prevenzione. La conferenza stampa di presentazione del rapporto “La corruzione in Italia” si è aperta con una velata critica al sistema politico, che più volte Cantone ha tirato in ballo. E la prima contestazione è quella relativa all’agenda istituzionale, dalla quale il tema “per certi versa sembra un po’ scomparso”. Un rimprovero che fa il paio con la preoccupazione per le norme che hanno semplificato la burocrazia dei piccoli appalti, i più soggetti ad episodi corruttivi. La geografia del fenomeno è chiara: a oggi, sono 41 gli appalti per i quali l’Anac ha chiesto e ottenuto il commissariamento, la maggior parte dei quali nel Meridione. E i soggetti istituzionali più permeabili sono i Comuni. Ma la corruzione, ha sottolineato Cantone, è cambiata, spostandosi dalla politica verso la burocrazia. “Negli ultime tre anni sono stati arrestati venti sindaci, alcuni assessori e consiglieri comunali - ha sottolineato - ma la maggioranza dei soggetti attinti da misure cautelari o che sono stati oggetto di indagini per fatti corruttivi sono soprattutto membri della burocrazia, funzionari e dirigenti”. Una corruzione “pulviscolare” che vede il funzionario accontentarsi anche di una pulizia del giardino o qualsiasi piccola utilità. Dunque diffusa, “ma diversa anni luce rispetto a quella di Tangentopoli”, ha spiegato il magistrato. La maggior parte degli episodi sono infatti “di piccolo calibro” e dimostrano che la corruzione, in parte, “può essere aggredita”, con misure repressive, ma soprattutto preventive. Ma non solo: dal rapporto emerge anche la consapevolezza di una reazione da parte del Paese, che ha guadagnato 16 posizioni in cinque anni nella classifica di Transparency International. Il quadro è preoccupante, dunque, ma “non devastante”, tanto da poter essere “assolutamente ridimensionato e riportato entro i binari fisiologici di ogni democrazia”. E l’evasione fiscale, allo stesso modo, “non si vince affatto con le manette”, ha sottolineato Dal punto di vista numerico, il rapporto piazza al primo posto per episodi corruttivi la Sicilia, dove nel triennio sono stati registrati 28 episodi di corruzione, quasi quanti se ne sono verificati in tutte le regioni del nord (29 nel loro insieme). A seguire, il Lazio (con 22 casi), la Campania (20), la Puglia (16) e la Calabria (14). Il 74% delle vicende (113 casi) ha riguardato l’assegnazione di appalti pubblici. Ma la nuova forma di tangente è il posto di lavoro: dalla relazione emerge, infatti, la “smaterializzazione” della mazzetta, con una sempre minor ricorrenza della contropartita economica. E anche se il compenso economico riguarda il 48% delle vicende esaminate, spesso si tratta di cifre esigue, a volte anche 50 euro appena. Ma c’è anche l’assegnazione di prestazioni professionali, specialmente sotto forma di consulenze, e regalie, ma anche ristrutturazioni edilizie, riparazioni, servizi di pulizia e talvolta prestazioni sessuali. “Tutte contropartite di modesto controvalore - si legge nella relazione - indicative della facilità con cui viene talora svenduta la funzione pubblica ricoperta”. Ma il cambiamento è “in atto” ed è anche “di tipo culturale”. Basti pensare alle segnalazioni di illeciti sul luogo di lavoro (whistleblowing), con oltre 700 denunce nei primi nove mesi, a riprova “della crescente propensione a denunciare reati e irregolarità”. Ma anche se tutto ciò è pericoloso, perché “spesso la funzione è svenduta per poche centinaia di euro”, è innegabile che la corruzione, per molti versi, sia “più agevole da aggredire rispetto ai primi anni novanta, non regolando più la vita pubblica ma essendo espressione di singoli gruppi di potere o di realtà economiche alternative e talvolta - conclude il rapporto - persino antagoniste alla vita delle istituzioni”. Favori in cambio di un lavoro: così cambia il sistema corruzione di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 18 ottobre 2019 L’ultimo atto di Raffaele Cantone alla guida dell’Authority : da Nord a Sud, 117 arresti in tre anni. A Monza i rivenditori di protesi pagavano i medici di base che reclutavano pazienti e chirurghi che installavano i loro prodotti, mentre visite e prescrizioni dell’ortopedico venivano retribuite “in nero”; a Trecastagni, in provincia di Catania, un funzionario comunale ha disegnato il bando per raccogliere e smaltire rifiuti “su misura” della ditta che ha vinto l’appalto, in cambio dell’assunzione del figlio e altre due persone, più 3.000 euro ogni volta che i pagamenti alla ditta superavano i 40.000. A Trento alcuni dipendenti della Asl “soffiavano” i requisiti stabiliti dalla gara per far vincere l’impresa amica, in cambio di mazzette da 5.000 e 20.000 euro, mentre a Benevento il dirigente comunale leggeva le offerte contenute nelle buste chiuse con una microtelecamera, per poi spifferarle alle aziende amiche che così presentavano proposte più vantaggiose, e con questo giochino guadagnava dal 5 al 7 per cento su ogni lavoro assegnato. Un dirigente Anas di Roma s’è fatto promettere e consegnare da un imprenditore almeno 450.000 euro mascherati da pagamenti per consulenze private; invece un funzionario del Comune di Monteparano, in provincia di Trapani, ha dato il via libera alla costruzione abusiva di un centro per anziani in cambio dell’assunzione della moglie in quell’attività. A Bolzano il direttore dell’ufficio edilizia dell’ospedale frazionava gli appalti per favorire alcune aziende, in cambio di denaro ma anche lavori di ristrutturazione, tinteggiatura, falegnameria, traslochi e altri favori. A volte dietro la corruzione si nascondono piccole miserie, che svelano un Paese impoverito al punto che il prezzo per vendere le proprie funzioni si riduce a pochi soldi o qualche posto di lavoro per familiari o amici. È ciò che raccontano i casi raccolti nel rapporto dell’Autorità anticorruzione che Raffaele Cantone ha confezionato come ultimo atto prima del rientro in magistratura: i 117 arresti (si tratta dunque di accuse, prima delle verifiche nei processi) eseguiti tra il 2016 e il 2019 significano all’incirca uno ogni 10 giorni, e Cantone denuncia che nonostante questa media “la corruzione sembra sparita dall’agenda politica, è scomparsa dai riflettori, non se ne parla quasi più”. Forse è uno dei motivi per cui ha deciso di lasciare, durante il governo Lega-5 Stelle, prima della scadenza naturale del mandato. Sebbene più della metà degli episodi contestati dalla magistratura siano concentrati nelle quattro regioni meridionali a più alta concentrazione criminale, la corruzione resta un’emergenza nazionale che attraversa la penisola da nord a sud, con il Lazio al secondo posto e la Lombardia al sesto. “Al sud c’è una corruzione più pulviscolare, al nord è di maggiore qualità e quantità”, spiega Cantone. E le nuove caratteristiche sociologiche del fenomeno, le forme mutate di remunerazione delle attività illecite, spiegano l’evoluzione del Paese anche sotto questo profilo. Rispetto al passato e alla Tangentopoli scoperta negli anni Novanta (“realtà imparagonabile, la situazione è certamente migliorata, il quadro di oggi resta preoccupante ma non devastante come allora”, dice l’ormai ex presidente dell’Anac) la burocrazia dei dirigenti e funzionari, dei dipendenti e commissari, ha superato la classe politica; sebbene sindaci, vicensindaci, assessori e consiglieri comunali siano quasi un quarto degli arrestati. Che a volte creano un vero e proprio sistema. Come in Veneto, dove la richiesta di tangenti tra il 10 al 20 per cento su ogni pagamento per la manutenzione del verde pubblico sperimentata a Montegrotto Terme è stata “esportata” ad Abano Terme, e ripristinata a Montegrotto dove - secondo le accuse - per gli importi più ingenti, dai contanti si era passati a fatture per una società gestita dall’ex sindaco. Legittimo licenziare il bancario che viola le leggi antiriciclaggio di Eleonora Alampi e Valerio Vallefuoco Il Sole 24 Ore, 18 ottobre 2019 Corte di cassazione - Sentenza 26454/2019. Legittimo il licenziamento del dipendente della banca che viola la normativa antiriciclaggio. Con la sentenza 26454/19, depositata ieri, la Corte di cassazione ha così confermato la decisione del giudice di secondo grado innanzi al quale il dipendente di una banca aveva impugnato il licenziamento che gli era stato intimato per avere omesso di segnalare operazioni sospette; per non aver inibito la movimentazione di un deposito di risparmio intestato a una società con autorizzazioni a bonifici esteri; per avere, in violazione sempre della normativa antiriciclaggio, consentito la movimentazione del conto corrente intestato a soggetto sottoposto a indagine penale per frode fiscale e riciclaggio nonché per avere in violazione di specifiche prassi aziendali predisposto l’istruttoria di un finanziamento in favore del genitore e deliberato un ulteriore affidamento di credito, senza la copertura di idonee garanzie. La Corte di appello, confermando la bontà della decisione del giudice della fase sommaria e di quello dell’opposizione che a sua volta aveva avallato l’ordinanza resa all’esito della fase sommaria, aveva evidenziato che gli inadempimenti riscontrati erano stati tali da comportare “una grave negazione dell’elemento fiduciario” che è alla base del rapporto di lavoro tenuto conto della qualità di direttore di filiale, rivestita dal dipendente licenziato. Va sottolineato che gli inadempimenti che nel caso di specie sono costati il licenziamento al lavoratore sono per lo più riconducibili alla violazione della normativa antiriciclaggio: si badi, non solo quella dettata dalla fonte primaria (Dlgs 231/2007), ma anche quella posta dalle direttive provenienti da Banca d’Italia e dalla prassi aziendale con specifico riferimento all’obbligo di garantire adeguatamente la concessione di finanziamenti ai clienti. In altri termini, il direttore non avrebbe correttamente adempiuto agli obblighi di adeguata verifica della clientela così come posti la legge antiriciclaggio e specificati dai regolamenti interni dell’istituto bancario. Sul punto è interessante osservare che i giudici che non hanno ritenuto di condividere la tesi difensiva del ricorrente, il quale aveva insistito nell’affermare che si era trattato di un finanziamento regolare in quanto non solo gestito tramite sistema informatico, ma anche deliberato dai credit analist competenti. Tuttavia, ciò non è bastato a convincere i giudici a revocare il licenziamento, in quanto il ruolo rivestito dal ricorrente avrebbe richiesto un livello di vigilanza di ben altra portata. La sentenza, dunque, apre le porte a un orientamento incline a guardare alla violazione degli obblighi antiriciclaggio e del modello della collaborazione attiva anche come elemento idoneo a fondare un licenziamento per giusta causa tanto più che alcuni dei doveri connessi al rispetto delle norme volte a prevenire il rischio di riciclaggio sono specificatamente previsti anche dalla contrattazione collettiva. Inquinamento mafioso: come individuare partecipazione, appartenenza, concorso esterno di Pietro Alessio Palumbo Il Sole 24 Ore, 18 ottobre 2019 Corte di Cassazione - Sezione VI - Sentenza 10 settembre 2019 n. 37520. In tema di associazione di tipo mafioso, il concetto di partecipazione è riferibile a colui che si trovi in rapporto di stabile e organica fusione con il tessuto organizzativo del consorzio criminale, tale da implicare, più che una condizione di appartenenza, un ruolo dinamico e funzionale, in esercizio del quale l’interessato prende parte al fenomeno associativo, rimanendo a disposizione dell’ente per il perseguimento dei comuni fini criminosi. Si qualifica come appartenenza ad associazione mafiosa la condotta che si concretizza in un’azione, anche isolata, in funzione degli scopi associativi, con svincolo delle situazioni di mera contiguità ovvero di vicinanza al gruppo criminale. Con la sentenza n°37520 depositata il 10 settembre 2019, la Corte di Cassazione detta le coordinate per l’applicazione del corretto modello normativo di comparazione, alla stregua del quale deve essere valutata una ipotizzata condotta punibile come reato di associazione di tipo mafioso. La vicenda - Un imputato ricorreva per Cassazione contro l’ordinanza del giudice del riesame che aveva confermato l’ordinanza del giudice per le indagini preliminari con cui gli veniva applicata la custodia cautelare in carcere riferita a delitti di associazione mafiosa. A propria difesa il ricorrente deduceva violazione di legge, inosservanza di norme processuali e vizi di motivazione, contestando su tutto la gravità indiziaria delle risultanze istruttorie utilizzate e valorizzate dall’ordinanza impugnata con particolare riguardo alla ritenuta sussistenza di presupposti ed esigenze per la custodia cautelare in carcere. La bussola della Cassazione - Investita della questione la Corte di Cassazione chiarisce innanzitutto che la condotta partecipativa può essere desunta da indicatori quali la rituale affiliazione, la commissione di delitti-scopo e qualsiasi altro comportamento concludente idoneo ad offrire la dimostrazione della costante permanenza del vincolo con riferimento al preciso periodo temporale considerato dall’imputazione. A ben vedere non rilevano le situazioni di mera contiguità o di vicinanza al gruppo criminale, le quali anzi non sono sufficienti nemmeno ad integrare la diversa condizione di appartenenza ad un’associazione mafiosa, rilevante ai fini dell’applicazione delle misure di prevenzione e che sebbene isolata postula comunque una condotta funzionale agli scopi associativi. Parallela a quella del partecipe è la figura del concorrente esterno o eventuale al sodalizio mafioso. Può essere considerato tale il soggetto che, sebbene privo del vincolo alla comunione di scopo e non inserito nella struttura organizzativa del sodalizio criminale, fornisca tuttavia un contributo concreto, specifico, consapevole e volontario, a carattere occasionale ovvero continuativo allo scopo criminale. Partecipazione e concorso esterno costituiscono fenomeni alternativi fra loro, in quanto la condotta associativa implica la conclusione di un patto criminale fra il singolo e l’organizzazione criminale, in virtù del quale il primo, con la volontà di appartenere al gruppo, rimane stabilmente a disposizione della seconda per il perseguimento dello scopo. L’organizzazione lo riconosce ed include nella struttura, senza necessità di manifestazioni formali o rituali. Il concorrente esterno invece rimane estraneo al vincolo associativo, pur fornendo un contributo alla conservazione o al rafforzamento delle capacità operative dell’associazione, nonché diretto alla realizzazione del programma criminoso. Da ciò consegue che, con particolare riguardo alla sede cautelare, il percorso motivazionale non può essere riferito indistintamente all’una o all’altra delle due fattispecie alternative. In applicazione di tali principi si può dunque affermare che l’impresa è mafiosa quando vi sia totale sovrapposizione tra essa e l’associazione criminale, della quale condivide progetti e dinamiche operative, divenendone per ciò stesso strumento per la realizzazione del programma criminoso, con una conseguente mescolanza oggettiva delle rispettive attività. Parimenti è mafiosa l’impresa la cui intera attività sia inquinata dall’ingresso nelle proprie casse di risorse economiche provento di delitto, in maniera tale che risulti praticamente impossibile distinguere tra capitali illeciti e capitali leciti. In presenza di tali presupposti pertanto, è fuor di dubbio che l’imprenditore, anche se non formalmente fidelizzato al sodalizio, prende parte allo stesso ed alla sua attività illecita. Integra invece concorso esterno in associazione di tipo mafioso, la condotta dell’imprenditore colluso, tale essendo colui che, pur senza essere inserito nella struttura organizzativa del gruppo criminale e privo del vincolo di comunione di scopo, instauri con la cosca, su un piano di sostanziale parità e per propria libera scelta, un rapporto volto a conseguire reciproci vantaggi. Sequestro d’azienda, il coadiutore lo paga chi lo ha arruolato di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 18 ottobre 2019 Corte di cassazione - Sentenza 42718/2019. Il giudice non può addossare alla società dissequestrata le spese sostenute per il coadiutore dell’amministratore giudiziario, sulla base di un’assunzione dell’”ausiliario” senza verificare tempi e modalità del contratto. La Cassazione (sentenza 42718) analizza le norme in tema di aziende sequestrate, con le novità introdotte dalla legge 161 del 2017, che ha riformato il Codice antimafia (Dlgs 159/2011). L’occasione arriva dal ricorso di una cooperativa contro la decisione del giudice dell’esecuzione di respingere la richiesta del legale rappresentante di addebitare allo Stato i 33 mila euro spesi per il coadiutore. Un no giustificato dal fatto che il coadiutore era stato assunto con un contratto di collaborazione coordinata e continuativa. Le spese per i suoi onorari dovevano dunque essere considerate necessarie o utili per la conservazione del bene. La Cassazione accoglie il ricorso della società e rinvia al Gip per un nuovo giudizio. La Suprema corte ricorda che lo spossessamento del bene messo in atto con la gestione giudiziaria, non si può tradurre in un peso sul diritto di proprietà che non sia giustificato dall’andamento di gestione. Il criterio da seguire è lo stesso dettato per la soccombenza. In caso di restituzione i costi sostenuti per compensare l’amministratore e i suoi coadiutori vanno scorporati e, dopo l’approvazione del rendiconto di gestione, vanno imputati allo Stato. Nel caso esaminato si tratta di capire - spiegano i giudici - da chi era stato retribuito il coadiutore la cui posizione non è in linea con la giurisprudenza né con le previsioni di legge. La Corte ricorda che il coadiutore può essere “arruolato”, in caso di gestioni complesse, dall’amministratore giudiziario, se dotato di particolari competenze tecniche. La normativa vigente, modificata dalla legge 161/2017 prevede che la scelta venga comunicata, per il via libera, al giudice che procede. Passaggi all’insegna della trasparenza e a prova di incompatibilità. Requisito che vale anche per i coadiutori, che agiscono, d’intesa con l’amministratore giudiziario, per scopi legati ad un pubblico ufficio. È chiaro che con l’assunzione da parte della società sequestrata il coadiutore perde la sua qualifica “non essendo prevista dalla legge una simile modalità operativa”. Non è superfluo in questo contesto fare una verifica che il giudice dell’esecuzione non ha fatto: capire quando il coadiutore è stato contrattualizzato dalla società e se l’assunzione sia avvenuta con il via libera dell’autorità procedente. Oggetto di indagine deve essere anche il tipo di attività svolta dal “tecnico” dopo la firma del contratto. Un esame del rapporto e delle sue modalità che serve anche ad escludere che il contratto abbia avuto una natura simulatoria. Nel caso in cui, infatti, la condizione sia rimasta di fatto quella di “ausiliario” dell’amministratore giudiziario, non si potranno addossare ad una società, rientrata in bonis, gli oneri derivanti da una illegale forma di contrattualizzazione del coadiutore. Sicilia. La crisi delle carceri isolane, in 6 mesi duemila “eventi critici” Giornale di Sicilia, 18 ottobre 2019 “Quando abbiamo scritto provocatoriamente che le carceri siciliane erano una discarica sociale, non sbagliavamo, infatti i dati che abbiamo raccolto confermano che nessun parametro dell’articolo 27 della costituzione in questo momento viene rispettato e solo al grande sacrificio della Polizia penitenziaria evita che il sistema crolli ovunque”. Lo dice il segretario generale della Uilpa Polizia penitenziaria Sicilia, Gioacchino Veneziano, consegnando un dossier riguardante le attuali condizioni delle carceri siciliane. La Polizia penitenziaria, spiega, in questi sei mesi dell’anno, ha gestito oltre 2.100 eventi critici tra cui atti di autolesionismo, manifestazioni di protesta collettive e singole, colluttazioni, tentati suicidi, tentativi di evasioni, ferimenti ed altro. “Ma a oggi - accusa il sindacalista - al netto della parole, il ministro Bonafede e il capo del Dipartimento e tutti gli organismi nazionale e regionali non stanno facendo nulla per evitare il peggio”. Tra le proposte quella di accelerare un piano di assunzioni di personale straordinario, “perché quello sbandierato contiene solo i numeri per il turn-over, quindi oggi in Sicilia operano sulla carta 3700 poliziotti che con ovvia sottrazione di quello impiegato in compiti sussidiari alla sicurezza, a quelli per le traduzioni e per le scorte, e quelli assenti per la fruizione dei diritti, rimangono al netto appena che 1200 poliziotti penitenziari che nell’arco delle 24 ore si occupano di vigilare sugli oltre 6500 detenuti rinchiusi nelle 23 carceri siciliane... in pratica 460 unità per singolo turno”. Infine, la classifica degli eventi critici conferma che in certe strutture penitenziarie vi è necessità di interventi massicci, tra cui Barcellona Pozzo di Gotto, seguita da Palermo Pagliarelli, Trapani, Siracusa e Agrigento: “È davvero obbligatorio - conclude Veneziano - accendere i riflettori verso la sanità all’interno delle carceri in quanto negli ultimi anni si è registrato un sensibile incremento di detenuti affetti da malattie mentali e psicofisiche che rendono difficoltosa per non dire impossibile la loro permanenza in strutture carcerarie, aumentando i rischi di incolumità ai quali i poliziotti sono sottoposti e obbligati ad operare, per non parlare”. Tra le proposte quella di accelerare un piano di assunzioni di personale straordinario, “perché quello sbandierato contiene solo i numeri per il turn-over, quindi oggi in Sicilia operano sulla carta 3700 poliziotti che con ovvia sottrazione di quello impiegato in compiti sussidiari alla sicurezza, a quelli per le traduzioni e per le scorte, e quelli assenti per la fruizione dei diritti, rimangono al netto appena che 1200 poliziotti penitenziari che nell’arco delle 24 ore si occupano di vigilare sugli oltre 6500 detenuti rinchiusi nelle 23 carceri siciliane... in pratica 460 unità per singolo turno”. Infine, la classifica degli eventi critici conferma che in certe strutture penitenziarie vi è necessità di interventi massicci, tra cui Barcellona Pozzo di Gotto, seguita da Palermo Pagliarelli, Trapani, Siracusa e Agrigento: “È davvero obbligatorio - conclude Veneziano - accendere i riflettori verso la sanità all’interno delle carceri in quanto negli ultimi anni si è registrato un sensibile incremento di detenuti affetti da malattie mentali e psicofisiche che rendono difficoltosa per non dire impossibile la loro permanenza in strutture carcerarie, aumentando i rischi di incolumità ai quali i poliziotti sono sottoposti e obbligati ad operare, per non parlare”. Torino. Sevizie agli stupratori in carcere, gli agenti che si credevano giustizieri di Federica Cravero La Repubblica, 18 ottobre 2019 Arrestati sei dipendenti delle Vallette di Torino. L’accusa è “torture di Stato”. Salvini li difende. Se la prendevano con pedofili e stupratori, con lo spirito di “giustizieri morali” e la forza di squadrette di picchiatori. “Ti ammazzerei invece ti devo pure tutelare”, diceva a un uomo in cella per aver violentato la figlia uno dei sei agenti della polizia penitenziaria arrestati a Torino. Altri undici sono indagati a piede libero. Su di loro pende la grave accusa di “tortura di Stato”, commessa da un pubblico ufficiale. Si tratta di uno dei primi casi in cui è stato contestato questo reato, introdotto due anni fa dopo il rimprovero all’Italia della corte europea dei diritti umani. “Per quello che hai fatto, tu qui ci devi morire”, era una delle frasi che venivano pronunciate alle vittime recluse nel braccio C del carcere Lorusso e Cutugno, quello riservato ai sex offender. Un padiglione creato per isolare i detenuti che per la legge del carcere rischiano ritorsioni da parte di altri reclusi e che invece a Torino sono diventati vittime di chi avrebbe dovuto non solo proteggerli, ma addirittura rieducarli. Agenti che si sono comportati con “spudorato menefreghismo e senso di superiorità verso le regole del loro pubblico ufficio”, dimostrando di “non credere nell’istituzione di cui fanno parte”, scrive il gip Sara Perlo. Dalla ricostruzione dei magistrati gli agenti finiti sotto accusa rendevano la vita impossibile con percosse e umiliazioni continue. Come quando dopo le dieci di sera entravano nelle celle e prelevavano a turno un detenuto per portarlo nella stanza dei pestaggi. O come quando pretendevano che uno ripetesse “Sono un pezzo di merda” se voleva ricevere la posta dei familiari. O quando leggevano a voce alta i passaggi più imbarazzanti degli atti giudiziari che riguardavano i detenuti. Su alcuni la “squadretta” si accaniva di più, ma non c’era detenuto a cui non sia capitato, nel giorno di ingresso in carcere, di essere accolto da calci nel sedere, sputi e schiaffi mentre saliva le scale o passava nel corridoio per raggiungere la cella. Fino a che un detenuto non ha rivelato ogni cosa a Monica Gallo, garante dei detenuti della Città di Torino, che a sua volta ha presentato un esposto in procura. Da qui è partita l’inchiesta dei pm Enrica Gabetta e Francesco Saverio Pelosi che hanno ricostruito con fatica numerosi episodi che si sono ripetuti tra l’aprile del 2017 e il novembre 2018, dei quali sono stati accusati 17 agenti della polizia penitenziaria, molti giovanissimi, tra i 26 e i 46 anni. A raccogliere le prove contro di loro i colleghi del Nucleo investigativo centrale della penitenziaria. “Nei mesi scorsi - sottolinea Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone - avevamo più volte segnalato come il clima nelle carceri stesse peggiorando e come cattivi maestri al potere stessero esacerbando il linguaggio, rendendo comprensivo, se non addirittura benevolo, l’uso di una violenza illegale e arbitraria”. Contro il lavoro della procura di Torino si è scagliato Matteo Salvini: “Se uno sbaglia in divisa sbaglia come tutti gli altri. Però che la parola di un detenuto valga gli arresti di un poliziotto a me fa girare terribilmente le palle. Solidarietà ai sei padri di famiglia”. E poco importa se solo un paio di loro siano genitori. Anche i sindacati provano a spostare il bersaglio: se il Sappe invita a “non trarre affrettate conclusioni ricordato i detenuti condannati per calunnia per le false accuse di pestaggi”, l’Osapp avverte il rischio di “un effetto a catena” che racchiuda sotto la voce “tortura” “ogni criticità esistente nelle carceri” e soprattutto polemizza perché “non vengono trattati con la stessa attenzione i procedimenti disciplinari per le aggressioni degli agenti da parte dei detenuti”. Torino. “Impiccati, devi morire qui dietro le sbarre” di Claudio Laugeri La Stampa, 18 ottobre 2019 Insulti e botte ai detenuti, sei agenti arrestati. Scandalo nel carcere “Lorusso e Cutugno” di Torino, l’ipotesi di reato è tortura. Gli inquirenti: fenomeno esteso. “Per quello che hai fatto, devi morire qui”. L’umiliazione, gli insulti e le minacce. Dopo le botte. Era il trattamento riservato a una mezza dozzina di detenuti delle quattro “sezioni incolumi”, nel padiglione C del carcere “Lorusso e Cutugno” di Torino. Da ieri mattina, sei agenti di polizia penitenziaria sono agli arresti domiciliai per tortura, reato introdotto due anni fa nel codice penale. La pena è dai cinque ai dodici anni di carcere. A indagare sugli agenti sono stati i colleghi del Nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria. Gli episodi sono avvenuti tra aprile 2017 e novembre 2018. Riguardano una mezza dozzina di detenuti, ma il sospetto degli inquirenti è che il fenomeno fosse più esteso. L’indagine è scaturita dalla segnalazione della Garante comunale peri diritti dei detenuti, Monica Cristina Gallo. È stata lei a raccogliere le confidenze di alcuni carcerati, tutti sotto i 40 anni e arrestati per reati sessuali. Pedofili e stupratori, la categoria più odiata in carcere. E sovente, anche fuori. Per questo, gli agenti avevano deciso di farei “vigilantes”, i “giustizieri” che applicavano pene anche prima della sentenza. Sapevano che quei personaggi non sono amati. Ma soprattutto, immaginavano che per loro sarebbe stato difficile trovare sostegno, dentro e fuori dal carcere. L’umiliazione era continua. A uno avrebbero spruzzato detersivo per i piatti sul materasso e strappato le mensole dal muro, un altro sarebbe stato costretto a dormire sull’asse di metallo del letto, senza il materasso, un altro ancora ignorato quando ha chiesto una visita medica. Poi insulti e minacce. Tutto reso ancora più cupo dai toni, dalla veemenza. Violenza verbale. “Figlio di puttana, ti devi impiccare”, dicevano a uno. Per un altro, il trattamento era costringerlo a ripetere “sono un pezzo di merda”. Un altro ancora veniva preso a calci nel sedere mentre scendeva le scale, con la litania di sottofondo: “Ti ammazzerei e invece devo tutelarti”. C’è questo e altro nella quarantina di pagine dell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal giudice per le indagini preliminari Sara Perlo, che ha esaminato il materiale raccolto dal Nucleo investigativo della polizia penitenziaria, coordinato dal procuratore aggiunto Enrica Gabetta e dal pm Francesco Pelosi. Un’indagine senza intercettazioni, senza “pentiti”. Gli inquirenti hanno raccolto testimonianze. Qualche compagno di cella dei detenuti picchiati. E poi, le parole di quelli che hanno preso le botte. Hanno raccontato le modalità di quei pestaggi. Gli agenti infilavano i guanti, per lasciare meno segni. Ma anche per intimidire. Sferravano pugni nello stomaco, sempre per non lasciare segni. Qualche volta, però, si lasciavano andare: un detenuto ha preso un pugno in faccia e gli è caduto un dente, un altro ha zoppicato tre mesi per un calcio su una gamba tesa. Poi, ci sarebbero sputi, schiaffi, calci nel sedere e nei testicoli, pestoni sui talloni. Dolore fisico e psicologico. Alimentato da frasi del tipo: “Per quello che hai fatto, devi morire qui”. “E prematuro entrare nel merito, ma posso dire che va inquadrata in un problema più ampio”, sostiene l’avvocato Antonio Genovese, difensore di un agente arrestato. E spiega: “La situazione diventa esplosiva quando in un carcere come quello di Torino ci sono mille e 523 detenuti anziché mille e 61. Bisogna risolvere questi problemi, per rendere più umana la vita in carcere. Per i detenuti, ma anche per chi lavora in quelle strutture”. La vicenda ha scatenato anche la reazione di Matteo Salvini: “Uno Stato civile punisce gli errori, se uno sbaglia in divisa sbaglia come tutti gli altri. Però che la parola di un detenuto valga gli arresti di un poliziotto a me fa girare le palle terribilmente”. Torino. La Garante dei detenuti: il sovraffollamento ha reso il carcere una polveriera di Lidia Catalano e Andrea Rossi La Stampa, 18 ottobre 2019 Ci sono indagini in corso, al momento preferisco non commentare. Lo farò quando sarà possibile”. Monica Cristina Gallo, la Garante dei detenuti nominata nel 2015 dal Comune di Torino, logicamente si tiene a debita distanza dalla denuncia con cui ha dato il via all’indagine che scuote il carcere Lorusso e Cutugno: sei agenti di polizia penitenziaria arrestati e un quadro preoccupante di violenze fisiche e psicologiche a danno dei detenuti. Eppure, il quadro che emerge dietro l’inchiesta della procura è in larga parte racchiuso nelle relazioni che ogni anno la garante firma con il suo staff. Quei documenti sono, di fatto, la premessa dei fatti oggi emersi. E il carcere delle Vallette una sorta di polveriera in cui è sempre più difficile mantenere l’ordine e assicurare la dignità. La struttura ha una “capienza regolamentare” di 1.062 posti “ma è ormai prassi - si legge nell’ultima relazione, riferita all’attività del 2018 - che le persone in eccedenza si aggirino a 1.390 arrivando a un tasso di sovraffollamento pari al 130%”. Alla fine del 2018 i detenuti erano 1.416, in costante ascesa da anni: 1.371 a fine 2017, 1.321 nel 2016, 1.162 nel 2015. Una fotografia che rispecchia la situazione regionale, con una popolazione carceraria complessiva che si attesta oggi a 4686 persone, a fronte di una capienza “ufficiale” di 3976 posti. Ma il quadro reale, secondo l’ultima relazione del garante regionale dei detenuti Bruno Mellano, è ancora più allarmante. Perché evidenzia una notevole discrepanza tra il numero di posti disponibili “sulla carta” e quelli effettivamente accessibili, a causa della chiusura temporanea di alcune sezioni per problemi strutturali, sanitari o per la semplice necessità di manutenzione straordinaria. Con il risultato che a oggi la capienza effettiva è di appena 3700 posti: cioè circa mille in meno di quanti ne servirebbero. Le norme stabiliscono che ogni persona in carcere dovrebbe avere a disposizione uno spazio di 9 metri quadrati, che diventano 14 se condivide la cella con un’altra persona. Impossibile se alla fine dello scorso anno al Lorusso e Cotugno c’erano quasi 400 persone in più di quel che lo spazio consentirebbe. Il sovraffollamento, nodo comune a tutti gli istituti di pena italiani, produce un duplice effetto. Il primo riguarda lo stato di salute dei detenuti. Nel 2018 nel carcere torinese si sono verificati 93 casi di autolesionismo e 125 scioperi della fame o della sete. Un evidente segno dello stato di sofferenza che affligge molti detenuti. Il secondo effetto colpisce chi dovrebbe occuparsi dei detenuti e sorvegliarli. La pianta organica degli agenti penitenziari, fino al 2016, si fondava su un presupposto, malauguratamente soltanto teorico: un rapporto pressoché pari tra detenuti e guardie carcerarie. E dunque 1.080 agenti previsti per un carcere con una capienza di 1.062 persone. Ora, come già detto i carcerati, sempre nel 2016, erano 1.321, ma gli agenti assegnati alla struttura 909 e quelli effettivamente in servizio appena 754. La situazione, nei due anni successivi, è andata peggiorando: la forbice si è allargata, sempre più detenuti e sempre meno agenti. Oggi ce ne sono 735, eppure gli assegnati sono 811 e la pianta organica vorrebbe ce ne fossero 894. Invece le persone dietro le sbarre sono diventate oltre 1.400. Anziché un agente per carcerato la vera proporzione è di un addetto ogni due detenuti. Una differenza non da poco. Una pesante ipoteca sulla possibilità che il personale possa svolgere con serenità ed efficacia il proprio lavoro. E che dire degli altri addetti, come i funzionari che dovrebbero coordinare le attività lavorative, formative, scolastiche e culturali dell’istituto, e osservare la personalità dei detenuti? “Ciascuno segue in media circa 120 persone detenute”, annota la relazione della garante Gallo. E qualunque commento può dirsi superfluo. Torino. “Qui c’è sofferenza, un clima difficile. Ma si prova a smorzare le tensioni” di Fabrizio Assandri La Stampa, 18 ottobre 2019 Il cappellano Silvio Grosso: sarebbe sbagliato generalizzare. “Servirebbe una riforma della giustizia per migliorare la vita all’interno del carcere”. Quando noto qualche tensione, tra agenti e detenuti, faccio presente la cosa al capo della sezione, allo stesso agente se è il caso, e all’ispettore. Ma di episodi di violenza non ne ero al corrente”. Silvio Grosso fa parte della fraternità dei monaci apostolici diocesani a cui è affidata la cappellania del carcere. Di cosa parlano i detenuti nei colloqui con lei? “Mi raccontano la loro difficoltà e la fatica rispetto alla situazione che vivono che, anche se frutto di loro scelte, provoca grande sofferenza”. Le hanno mai segnalato episodi di violenza e torture? “No. Posso però dire che dalla mia esperienza, da parte delle figure apicali, man mano che si sale nella gerarchia della gestione del carcere, c’è e c’è sempre stato lo sforzo di mantenere un clima disteso all’interno dell’istituto penitenziario”. Vuole dire che il problema sta ai livelli più bassi? “Voglio solo dire che in una situazione di grande sovraffollamento come quella attuale, che non fa che peggiorare da mesi, con gli agenti costretti a turni molto pressanti, un clima di tensione possa esserci. Per quel che ho visto io, però, molti agenti sanno gestire i rapporti smorzando le frizioni della vita quotidiana dietro le sbarre. Parlo di cose banali e normali. Ma qui si parla di altro: violenze e torture, di questo non avevo assolutamente alcuna contezza. Sulla vicenda sta indagando la Procura e io non ho altro da aggiungere”. Qual è la sua reazione? “Avverto il rischio che questa faccenda, insieme ad altre che purtroppo si sono rivelate vere, spinga a fare di tutta l’erba un fascio, così come a volte accade quando i violenti sono i detenuti. Ma né da una parte né dall’altra bisogna generalizzare. Al di là di questo episodio, è giusto ribadire che le condizioni di vita del carcere sono estremamente difficili e faticose per tutti quelli che ci vivono e ci lavorano. Per questo bisognerebbe metter mano a una riforma della giustizia, per la quale il carcere non sia più così al centro rispetto ad altre modalità di esecuzione penale, sarebbe un modo per migliorare le condizioni di vita all’interno del carcere”. Agrigento. Le presunte violenze sui detenuti arrivano in Parlamento di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 ottobre 2019 Interrogazione di Roberto Giachetti, dopo l’articolo de “Il Dubbio”. Le presunte violenze e degrado del carcere di Agrigento “Petrusa” riportate da Il Dubbio, arrivano in Parlamento grazie al l’interrogazione a risposta scritta depositata mercoledì scorso dal deputato e membro di “Italia Viva” Roberto Giachetti. Su Il Dubbio abbiamo raccontato del la visita effettuata il 17 agosto scorso da una delegazione del Partito Radicale guidata da Rita Bernardini e dell’Osservatorio carceri delle Camere penali. In particolare si faceva riferimento alla situazione riscontrata nella sezione isolamento e puntualmente relazionata al Dap. Le maggiori criticità strutturali riscontate riguardano ad esempio le finestre di molte camere detentive, oltre alle sbarre, alle quali sono applicate reti a maglia stretta che limitano l’ingresso di aria e luce naturale. In molte celle, durante la visita, il blindo della porta è chiuso. I sei piccoli cortili passeggio di cui dispone il reparto sono spazi squallidi, con il wc alla turca, sprovvisti di panchine. Roberto Giachetti, nell’interrogazione, riporta anche i casi di presunta violenza da parte degli agenti penitenziari. In questa sezione, infatti, molti detenuti denunciano di aver visto, e in alcuni casi di avere subito, comportamenti violenti da parte degli agenti di polizia penitenziaria. “Gli agenti ti stuzzicano per farti sbagliare e poi ti alzano le mani, qui c’è la squadretta che alza le mani con i manganelli, qui ti lasciano notti e notti all’aria con le manette”, riferisce un detenuto. Un altro ancora riferisce la stessa identica situazione. Altri chiedono di andare via. “Quello che io ho visto qua non l’ho visto da nessuna parte, e ne ho girati istituti in tanti anni di carcere; ho visto detenuti ammanettati e strisciati per terra; io da qui voglio andare via”, riferisce un detenuto che avrebbe assistito a presunti atti di violenza da parte degli agenti di polizia penitenziaria. Un detenuto che indossa solo un paio di mutande di carta riferisce di essere stato vittima di violenze da parte della polizia penitenziaria. Lo avrebbero lasciato in cella liscia per 3 giorni, ha mangiato due viti, da 20 giorni le ha dentro nella pancia e ha provato anche ad impiccarsi. Un altro detenuto ancora riferisce che l’avrebbero lasciato, ammanettato, nel passeggio per una giornata e una nottata intera senza mangiare né bere e l’avrebbero preso a schiaffi e pedate. Altri ancora hanno riferito di essere stati testimoni di detenuti ammanettati e “strisciati” per terra. I racconti dei detenuti sono concordanti. Ci sono inoltre altre testimonianze legate all’utilizzo non propriamente ordinario dell’isolamento. Un detenuto riferisce alla delegazione: “Sono in isolamento da 7 mesi; mi trovo qui perché protesto, vorrei essere trasferito in un carcere della Puglia; qui il blindo della porta è stato chiuso per una settimana; io faccio solo un’ora e mezza d’aria perché nel passeggio non c’è il wc e se torno in cella per andare in bagno poi non mi fanno ritornare al passeggio”. Un altro recluso in evidente stato di agitazione, è ristretto in una cella “liscia”, dotata soltanto di un letto e di un lenzuolo: “Sono arrivato in questo carcere sabato 27 luglio, proveniente dal carcere di Messina; al mio arrivo ho dimenticato di prendere la fornitura, il giorno dopo l’ho fatto presente perché mi serviva la carta igienica, ma mi hanno lasciato senza carta igienica fino al venerdì successivo, e non mi hanno consentito nemmeno di comprarla; sono in cella liscia dal 3 agosto”. Il deputato Giachetti chiede se i ministri interrogati (della Giustizia e della Salute) siano stati informati di quanto esposto e quali provvedimenti intendano adottare per verificarne la fondatezza “anche con l’ausilio delle telecamere - si legge nell’interrogazione - che dovrebbero essere allestite nei reparti e, in particolare, in quelli di isolamento”. Sempre Giachetti chiede quali provvedimenti i ministri interrogati intendano adottare, negli ambiti di rispettiva competenza, nel caso in cui i fatti indicati in premessa dovessero rivelarsi fondati e, soprattutto, quali iniziative il ministro della Giustizia intenda intraprendere per evitare che maltrattamenti e violenze, umiliazioni e soprusi possano verificarsi nelle carceri italiane in generale. Pavia. Accordo per l’inserimento di ex detenuti: “Chi ha sbagliato doni il suo tempo” di Manuela Marziani Il Giorno, 18 ottobre 2019 Convenzione per lavori socialmente utili di soggetti sottoposti a misure alternative alla pena o ex detenuti. Un reato commesso e la pena da scontare diventa un’opportunità di crescita, fuori dal carcere, al servizio della comunità. A Milano il lavoro di pubblica utilità che consiste nella prestazione di un’attività non retribuita in diversi enti si è rivelato un’occasione per diverse persone e lo stesso potrebbe accadere a Pavia. È stata sottoscritta ieri mattina, infatti, una convenzione per l’inserimento in lavori di socialmente utili di soggetti sottoposti a misure alternative alla pena o ex detenuti: a firmarla sono stati oggi il Comune di Pavia, rappresentato dal sindaco Fabrizio Fracassi, e il tribunale di Pavia, con la presidente Annamaria Gatto. Sono 15 i posti a disposizione in diversi settori (verde, servizi sociali, cultura e sicurezza), per l’inserimento di persone sanzionate per fattispecie penali che contemplino la possibilità di estinguere le misure del carcere o delle sanzioni pecuniarie. “Chi ha sbagliato ha la possibilità di donare del tempo alla collettività - ha sottolineato la presidente del tribunale Annamaria Gatto. A Milano un regista che era stato condannato per guida in stato d’ebbrezza, ha realizzato dei filmati sui danni dell’alcol. Terminato il suo impegno, ha continuato a svolgere attività di volontariato. Un dirigente d’azienda laureato in ingegneria, invece, ha aiutato i ragazzi a colmare le loro lacune in matematica. Non sempre il carcere è la soluzione. I lavori di pubblica utilità sono un gesto di civiltà e aiutano il reinserimento”. La convenzione, che esisteva già in passato e aveva dato un’opportunità a due o tre persone, ora sarà estesa anche ai non residenti a Pavia. “L’accordo - ha detto il sindaco Fabrizio Fracassi - che non ha alcun costo per il Comune, se non la sottoscrizione di un’assicurazione, è già attiva e, avendo allargato le possibilità per coloro che ne possono beneficiare, siamo in grado di dare una possibilità a tante persone, dopo aver seguito un corso di formazione on line”. La convenzione garantisce un duplice risultato: per l’ente pubblico l’utilizzo di personale senza costi, per il Tribunale e per il soggetto interessato l’estinzione della pena in un contesto di pubblica utilità e recupero educativo. “I tossicodipendenti che commettono reati legati alla loro dipendenza - ha ricordato l’assessore ai servizi sociali Anna Zucconi - possono svolgere lavori all’interno delle comunità, mentre altre persone si possono dedicare ai disabili. Dal punto di vista emozionale questo può essere molto utile”. L’effettivo svolgimento dell’attività lavorativa a favore della collettività sarà verificato dall’Ufficio di esecuzione penale esterna. Il reato più frequente che potrà essere estinto attraverso i lavori socialmente utili è la guida in stato d’ebbrezza “nel quale possiamo incorrere tutti” ha ricordato l’assessore alla sicurezza Pietro Trivi. Recentemente la Polstrada di Pavia ha trovato 47 (37 uomini e 10 donne) autisti positivi all’etilometro e ne ha deferiti 45 all’autorità giudiziaria per il tasso alcolemico più elevato, che comporta la denuncia penale. Non è un reato, ma una violazione del Codice della strada, invece la guida con uso improprio del cellulare. Un fenomeno in continua ascesa con gravi conseguenze, visto che un’alta percentuale di incidenti si verifica proprio a causa dell’inevitabile distrazione dovuta all’uso improprio del telefono. Nell’ultima settimana le pattuglie della Polstrada dirette dal vice questore Luciana Giorgi, anche servendosi auto in borghese, ha contestato 66 violazioni. E nei prossimi giorni i controlli saranno incrementati affiancando l’attività di repressione su strada a una di prevenzione cercando di sensibilizzare i cittadini attraverso le attività di educazione stradale svolte nelle scuole. Cagliari. “Milioni di euro sottratti ai fondi per il carcere di Uta”: 12 indagati L’Unione Sarda, 18 ottobre 2019 Conclusa l’inchiesta su impresari, tecnici e dirigenti che si sono occupati dei lavori al penitenziario: rischiano il processo. Dodici persone rischiano il processo con l’accusa di peculato: si sarebbero appropriate di 20 milioni di euro destinati ai lavori di ristrutturazione del carcere di Uta. Si tratta di impresari, tecnici, collaudatori e dirigenti pubblici che negli anni si sono occupati delle opere di restyling e riqualificazione del penitenziario cagliaritano. L’inchiesta è partita dopo alcuni esposti arrivati in Procura nel 2014 e ora agli indagati è arrivato l’avviso di conclusione delle indagini. Secondo quanto ipotizzato dai pm, il sistema per dirottare i fondi era basato su lavori “mai eseguiti oppure pagati due volte”. Inoltre, i costi per i materiali sarebbero stati fatti lievitare attraverso “interventi fantasma”, costati alle casse dello Stato circa 80 milioni di euro, di cui “solo” 60 sarebbero stati effettivamente utilizzati per mandare avanti i cantieri. Dal canto proprio, gli avvocati delle persone coinvolte respingono al mittente tutte le accuse mosse dai magistrati. Milano. I ragazzi del Bullone, tra detenuti e Triennale di Fabrizio Ravelli La Repubblica, 18 ottobre 2019 Che sia il diavolo oppure il buon Dio a nascondersi nei dettagli è questione controversa. Ma è certo, invece, che spesso la bellezza abita ai margini, nei territori poco esplorati dalla nostra attenzione. A San Vittore c’è stato un incontro di questo genere: da una parte i ragazzi di B. Livers e dall’altra i detenuti del reparto La Nave, quello di chi è segnato dalle dipendenze. I B. Livers sono ragazzi con gravi patologie croniche, che hanno un sacco di iniziative notevoli e fra queste il mensile Il Bullone. Cos’hanno da dirsi ragazzi malati gravi, o ex-malati, e detenuti che provano a uscire dai vincoli delle sostanze? Un sacco di cose. S’era già fatto un incontro così qualche mese fa, altri ci saranno, perché s’è visto che ne vien fuori una comunicazione vivace e sorprendente. L’altro giorno, assolutamente alla pari e con la medesima coraggiosa sincerità, hanno discusso di che cosa sia la bellezza, del dolore, della solitudine, della malattia, dell’amore, della colpa, della privazione. La marginalità, l’essere un po’ dimenticati o quanto meno poco conosciuti, aiuta a trovare il coraggio di raccontare fatti e sensazioni privatissimi, e di essere dolorosamente sinceri. Così, fra molte lacrime e molte risate, c’è chi ha raccontato come il dolore sia un pessimo consigliere quando produce isolamento e rabbia, ma possa insegnare a chiedere aiuto. Vale per i ragazzi malati così come per i carcerati. C’è chi ha raccontato di come abbia pensato di togliersi la vita, e magari ci abbia provato. Chi ha spiegato come una tv accesa alle proprie spalle, senza audio, possa aiutare ad arrivare in fondo a notti pesanti. Un incontro pesante? Non direi, visti i sorrisi e gli abbracci alla fine. Milano. #GuerradiParole: studenti e detenuti si sfidano a suon di rap firstonline.info, 18 ottobre 2019 A Milano la IV edizione della gara di retorica e rap tra gli studenti dell’Università Statale e i detenuti di San Vittore: lezioni il 24 ottobre, 8, 13 e 21 novembre, finalissima il 23 novembre nel “ring” del carcere milanese. Si chiama “Guerra di Parole” ed è l’iniziativa, giunta alla IV edizione, nella quale studenti e detenuti si sfidano a colpi di dialettica, prima sostenendo una posizione, poi il suo contrario. Dopo Roma e Napoli, quest’anno la Guerra di parole arriva a Milano dove a scontrarsi sono gli allievi dell’Università Statale vs i detenuti del Carcere di San Vittore. Tema di questa edizione: “L’opinione pubblica è il sale della democrazia o il dominio del populismo?” Per prepararsi, i due gruppi partecipano separatamente a un corso di formazione per apprendere le tecniche della retorica, del teatro e del rap. Le lezioni sono fissate per il 24 ottobre, 8, 13 e 21 novembre e sono tenute da Flavia Trupia, presidente dell’Associazione PerLaRe (Per La Retorica), dall’attore e regista Enrico Roccaforte e dal rapper Amir Issaa. La sfida finale si tiene il 23 novembre 2019 su un “ring” d’eccezione, il carcere di San Vittore. Si svolge in due round di 15 minuti, aperti e chiusi da un appello di 1 minuto in versione rap in cui le due squadre devono prima difendere un’idea e poi il suo contrario. Allo scadere, una Giuria di sette componenti decreta la squadra vincitrice in base ad alcuni criteri: il rispetto delle regole, la forza delle argomentazioni e l’utilizzo del linguaggio del corpo. “Le prime tre edizioni della Guerra di Parole - ricorda Flavia Trupia, presidente dell’Associazione PerLaRe (Per la retorica) - sono state vinte dai detenuti, malgrado gli studenti abbiamo dimostrato di avere tecnica e determinazione. Nell’arte oratoria non conta solo la preparazione tradizionale, ma anche la capacità di gestire il corpo, di divertire e di comunicare con l’uditorio. Abilità che raramente vengono acquisite tra i banchi. Inoltre non è facile per gli studenti, a vent’anni, entrare in un carcere e sfidare degli adulti che si sono formati nell’università della vita. Ma quest’anno gli studenti potrebbero stupirci”. L’iniziativa è sostenuta da Toyota Motor Italia ed è organizzata da PerLaRe - Associazione Per La Retorica, Università degli Studi di Milano La Statale, Crui - Conferenza dei Rettori delle Università Italiane, Casa Circondariale di Milano San Vittore, insieme a Unione Camere Penali Italiane - Osservatorio Carcere Ucpi, Amici della Nave. Il progetto è supportato da Ferpi-Federazione Relazioni Pubbliche Italiana. Per iscriversi è necessario entro il 5 novembre inviare una mail a info@perlaretorica.it: alla “scazzottata” linguistica non sono ammessi non iscritti. “Un secolo e poco più”, di Luigi Saraceni. Cosa fare delle vite sbagliate di Gad Lerner Il Venerdì di Repubblica, 18 ottobre 2019 Ho atteso che si quietassero un poco le acque intorno al caso del reddito di cittadinanza (623 euro al mese) percepito da Federica Saraceni, detenuta agli arresti domiciliari per reati di terrorismo politico, fra cui il concorso nella preparazione di un agguato in cui vent’anni fa perse la vita il giuslavorista Massimo D’Antona. Ho atteso che i parlamentari della Lega sospendessero lo sciopero del voto proclamato contro una legge che loro stessi avevano votato (e poi rifiutato di modificare). Non è la loro disinvoltura a colpirmi. Non hanno forse di recente i leghisti festeggiato come una grande vittoria la chiusura del megacentro per migranti di Mineo creato dal ministro leghista Roberto Maroni? No, è il tumulto di umane lacerazioni e dì sentimenti condensati in quella tragedia italiana a rendere necessaria la pacatezza, nell’affrontarla. L’aggravante - se così si può dire - che ha fatto esplodere il caso, è l’appartenenza familiare di Federica Saraceni: figlia di Luigi, uno dei fondatori di Magistratura Democratica poi impegnato politicamente a sinistra; e nipote di Silvio, un avvocato calabrese antifascista a sua volta militante al fianco dei braccianti di Castrovillari. Borghesia progressista, insomma. Qual è la misteriosa ragione per cui da una simile storia familiare una figlia giunga a compiere la scelta brigatista, con la violenza criminale che le è propria? È il doloroso interrogativo che percorre il libro di Luigi Saraceni, “Un secolo e poco più”, che Sellerio ha pubblicato con prefazione di Giuliano Pisapia. Ma è anche l’interrogativo che dovettero porsi, ormai quasi mezzo secolo fa, tanti giovani militanti fra i quali c’ero anch’io, di fronte al passaggio alla lotta armata di nostri compagni di cui avevamo conosciuto la generosità e stentavamo a riconoscere il successivo fanatismo. Furono anni tormentosi in cui la nostra netta critica pubblica del terrorismo di sinistra s’intrecciava con una familiarità tale da renderla talora troppo cauta, talora addirittura pericolosa. Il rancore persistente intorno a vicende come quella di Federica Saraceni impedisce di accettare la dose inevitabile, irrimediabile di male che esse contengono. Cosa dovrebbe fare lo Stato a Federica Saraceni? Rimetterla in cella (ha due figli piccoli)? Imporle i lavori forzati gratuiti in carcere? Gettare via le chiavi, come si usa dire? Oppure, come chiede esasperato suo padre, per mantenersi lei dovrebbe andare a prostituirsi o a far rapine? Ci sono vite sbagliate, per tante ragioni diverse, talvolta odiose, che a un certo punto lo Stato, in un modo o nell’altro, deve accollarsi. A meno che quelle vite sbagliate si scelga di eliminarle, cioè si scelga la barbarie. “American Prison”, di Shane Bauer. L’orrore delle prigioni americane wired.it, 18 ottobre 2019 Il giornalista Shane Bauer ha passato quattro mesi come secondino in un carcere della Louisiana, per poi scrivere “American Prison”: un resoconto di violenza, mancanza di igiene, crolli psicologici e negazione di diritti. L’abbiamo intervistato. Che cosa succede realmente in un carcere? In che condizioni vivono i detenuti? Vengono garantiti i diritti costituzionali? “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte”, hanno scritto i padri costituenti all’articolo 27. In maniera analoga, anche l’VIII emendamento della costituzione americana prevede che “non devono essere richieste cauzioni o multe troppo elevate o inflitte punizioni eccessive e crudeli”. Nonostante entrambe le costituzioni si pongano nell’ottica di garantire la dignità dei detenuti, la messa in pratica è, sempre in entrambi i casi, molto lontana dal vedersi realizzata. In Italia, l’Associazione Antigone fa da osservatore della situazione carceraria; in America, secondo Shane Bauer, pluripremiato giornalista investigativo della testata indipendente Mother Jones, siamo di fronte alla maggiore emergenza sociale del paese. American Prison è il libro-inchiesta, non ancora tradotto in Italia, in cui Bauer racconta la sua esperienza di quattro mesi come secondino in un carcere della Louisiana gestito dalla Corrections Corporation of America (Ccca, ora Core Civic). Bauer è stato assunto con il suo vero nome - cercando su Google appare come giornalista investigativo - mostrando da subito le falle delle carceri private americane nella gestione della propria attività. Wired ha incontrato il reporter durante il Festival di Internazionale a Ferrara il 4-6 ottobre scorsi. Shane Bauer, perché questa spiccata sensibilità verso il tema delle carceri? “Ho passato due anni in carcere. Ero in Siria, da poco tempo avevo iniziato a fare il reporter dal Medioriente. Un giorno, assieme ad altri due amici, stavo facendo trekking sul confine tra Iran e Iraq quando fummo arrestati tutti e tre e portati in un carcere iracheno. Di questi due anni, quattro mesi li ho trascorsi in isolamento. Quando venni scarcerato e riuscii a tornare a casa assieme ai miei due amici, nelle carceri americane era in corso un enorme sciopero della fame. In California era molto forte la protesta dei prigionieri condannati all’isolamento, che ci possono rimanere anche per periodi lunghissimi, anche quarant’anni. Ho iniziato a scrivere di questa situazione e ad approfondirla sempre di più: in America c’è il più grande sistema carcerario del mondo - il 25% dei detenuti a livello mondiale è negli Stati Uniti - ed è un problema sociale enorme, il più grande di questo paese. L’aver vissuto personalmente il carcere, mi ha portato investigare sempre più a fondo questo argomento”. Shane Bauer Perché è arrivato a scrivere American Prison? “Dopo aver scritto sul tema delle carceri per alcuni anni, ho iniziato a capire che per un giornalista è estremamente difficile poter avere accesso a un carcere. Il sistema penitenziario cerca di fare in modo che i giornalisti stiano il più lontano possibile, e questo è molto evidente negli Stati Uniti nelle carceri gestite da società private a scopo di lucro. Si tratta di penitenziari che non hanno gli stessi requisiti delle carceri gestite dal sistema federale, che ammette invece un certo grado di accesso da parte del pubblico. Per capire meglio questa situazione, ho deciso di fare una domanda di lavoro. Con grande sorpresa da parte mia, sono stato assunto come guardia in poco tempo. Quando sono entrato nel carcere di Winnfield ho capito che lì c’era davvero una grande storia da raccontare, e questo mi ha portato a studiare la storia e il ruolo delle carceri americane fin dalle sue origini”. Quali sono stati i fatti che l’hanno maggiormente impressionata in questa esperienza? “Appare evidente che l’obiettivo delle compagnie che gestiscono le prigioni private americane sia abbattere i costi per fare più profitti. Gli stipendi dello staff sono molto bassi, circa 9 dollari all’ora, ovvero poco più di un cameriere di McDonald’s. Per questo motivo, per esempio, le guardie carcerarie vendono droga ai detenuti per guadagnare dei soldi in più. I prigionieri sono molto violenti, anche per la scarsa preparazione dello staff. La situazione sanitaria è un tema enorme per queste compagnie: se un carcerato sta molto male e la Cca manda il detenuto in ospedale, deve poi pagare le cure mediche: ma l’azienda non vuole farlo, ovviamente. Ho infatti incontrato detenuti che avevano perso le gambe a causa della degenerazione di un’infezione in cancrena, persone in gravi condizioni di salute e che avevano assolutamente bisogno di cure mediche, vedersi negare l’assistenza da parte dello stesso personale sanitario a cui erano state affidate. Le condizioni igienico-sanitarie sono davvero precarie, così come l’assistenza del personale. Inoltre, ci sono pochissimi programmi di riabilitazione dei detenuti e servizi di supporto per l’assistenza psichiatrica. Ho incontrato un uomo che si è suicidato per non essere riuscito ad ottenere il supporto a livello medico-psichiatrico che richiedeva da molto tempo e per il quale aveva intrapreso lo sciopero della fame. Ma questo servizio di cure psichiatriche non esiste nelle prigioni gestite dalla Cca. Quando è morto, pesava circa 32 chilogrammi: la direzione del carcere ha fatto di tutto per coprire il fatto, mettendo in atto molte azioni affinché la notizia non venisse diffusa al di fuori del penitenziario”. Quindi la Cca cerca di fare in modo che quanto avviene nelle sue prigioni non venga portato alla luce? “Certamente. Ad esempio, in carcere avvengono molti accoltellamenti - i detenuti spesso si costruiscono da soli i coltelli - e nei quattro mesi in cui ho lavorato in carcere ho tenuto il conto di questi episodi. Poiché la Cca è obbligata a redigere un report annuale da consegnare allo stato, ho richiesto al Federal Bureau of Prisons il report di quell’anno: la Cca aveva dichiarato un numero di accoltellamenti annuo che corrispondeva a meno di quello da me rilevato nel corso di soli quattro mesi. Siamo dunque di fronte a una chiara manipolazione dei dati. Le compagnie private non vogliono che lo stato venga a conoscenza di quanto succede davvero nelle loro prigioni”. Ritiene ci siano delle differenze tra quanto accade nelle prigioni gestite dalle compagnie private rispetto alla gestione delle carceri pubbliche? “Premesso che in America anche le carceri pubbliche sono in pessime condizioni, al pari di quelle private, e quindi non ha molto senso fare un paragone di questo tipo, ci sono delle peculiarità relative alle carceri private legate alla necessità di fare profitti. Per cui, nelle carceri pubbliche, il personale viene seguito sotto il profilo della formazione, viene retribuito meglio, si trovano servizi di cure psichiatriche, sia per i detenuti che per il personale interno, e molti più programmi di riabilitazione rivolti ai detenuti. Tutto ciò non esiste nelle carceri private e, infatti, i detenuti sono molto più violenti nelle carceri privati che in quelle pubbliche”. Sono previsti dei controlli periodici da parte dello Stato sull’operato delle compagnie private che gestiscono carceri? “Ci dovrebbe essere, ma per quello che ho visto, quando arrivano i controlli, i detenuti vengono messi in condizioni di maggiore stabilità psichica per l’intera durata della visita, ma poi tutto ritorna come prima. Sebbene anche lo stato sappia che le carceri private non sono gestite in maniera corretta, di fatto poi non interviene perché ha bisogno di contenere i costi legati alle detenzioni e le carceri private sono molto più economiche di quelle pubbliche”. Quali sono state le conseguenze sulle sue condizioni di salute dopo questa esperienza come guardia carceraria? “Durante i quattro mesi trascorsi in carcere, ho assistito a una trasformazione di me stesso sotto il profilo psicologico. È vero che ero arrivato lì per vedere che cosa accadeva realmente, ma ero a tutti gli effetti un secondino e, quindi, dovevo entrare completamente in questa dimensione. È stato molto difficile per me: sono diventato molto più autoritario, dovevo esercitare il mio potere sui carcerati, dovevo punirli anche fisicamente ed è stato estremamente complesso riuscire a controllare il mio equilibrio emotivo e psicologico in questa situazione. Questo è quello che, in assoluto, mi ha messo più alla prova e che mi ha segnato molto a livello personale. Una volta conclusa questa esperienza, e rientrato nel mio ambiente quotidiano, non è stato facile ritornare alla normalità: molte guardie carcerarie si suicidano, in percentuale molto più elevata dei soldati americani. Il carcere, quindi, è un ambiente distruttivo non solo per i detenuti ma anche per lo staff che ci lavora”. Che tipo di esperienza giornalistica è stata la sua? La suggerirebbe ad altri che vogliono produrre contenuti giornalistici di qualità? “Il giornalismo sotto copertura è, oggi, poco diffuso in America, lo è stato maggiormente in passato. Ora i giornalisti hanno paura a intraprendere questo tipo di indagini perché potrebbero essere perseguiti penalmente da parte delle aziende o delle istituzioni e dovrebbero assumersi la responsabilità di gestire delle informazioni estremamente delicate. Non posso permettermi di suggerire ad altri di intraprendere un’esperienza analoga alla mia, che richiede un coinvolgimento totale della propria vita. Un giornalista, prima di fare questa scelta, deve sentire il suo progetto come la missione della propria esistenza, con tutti i rischi connessi. Tuttavia, è fondamentale sottolineare come in America sia sempre più difficile accedere alle informazioni di istituzioni molto potenti ed è per questo che il metodo tradizionale di fare giornalismo non funziona: se non puoi avere accesso alle informazioni non puoi scrivere e documentare e credo che, in questi casi, altri metodi di fare giornalismo siano più appropriati. Nel mio caso, la scelta che ho fatto lo è stata”. Ci sono stati dei cambiamenti nel mondo carcerario dopo l’avvento dell’era Trump? “Complessivamente non è cambiato molto, ma alla fine della presidenza di Barack Obama, venne dichiarato che non ci sarebbero mai più state carceri private, ovvero che i contratti con le companies come la Cca non sarebbero stati rinnovati. Quando Obama dichiarò questo, le azioni delle due maggiori aziende che gestiscono carceri in America, quotate in borsa, sono cadute a picco, perdendo la metà del loro valore nell’arco di un giorno. Il giorno in cui Trump si insediò alla Casa Bianca, le azioni di queste due compagnie scalarono il mercato azionario, raggiungendo il valore in assoluto più alto di tutte le altre aziende quotate al Nyse Mkt. Gli investitori sapevano che Trump avrebbe adottato una linea molto dura nella gestione dell’immigrazione e le compagnie private gestiscono la maggior parte delle prigioni dove arrivano detenuti immigrati. Trump cancellò immediatamente le decisioni prese da Obama e ora queste aziende sono molto più forti e solide di quanto lo fossero in precedenza. Basti pensare che il Ceo dell’azienda per cui ho lavorato, Damon T. Hininger, ha dichiarato agli investitori che l’arrivo di Trump è stato per la Core Civic un fatto di assoluta positività”. Che cosa dovrebbe cambiare nella nostra società perché cambino anche le modalità con cui sono gestite le carceri? “Io sono convinto che le carceri private andrebbero abolite, ed è un’idea piuttosto condivisa. Il motivo della loro esistenza è il fatto che abbiamo moltissime persone in carcere: più di due milioni di persone negli Stati Uniti sono in carcere, quindi un costo molto elevato da sostenere per lo Stato. Per affrontare il problema alla radice, dovrebbero esserci molte meno persone che vengono condannate alla detenzione, ma questo aspetto ha molte sfaccettature che riguardano sia la durata della pena sia l’enorme potere che è nelle mani dei pubblici ministeri americani. L’accusa, in genere, vuole arrivare a un processo per intentare causa a chi viene ritenuto colpevole di un reato, anche attraverso il ricatto. Per esempio, all’accusato di un reato di furto viene prospettata una pena dimezzata nel caso accetti di sottoporsi a processo: quindici anni anziché trenta. Quindi, molte persone accettano di andare a processo, anche se si tratta, alla fine, di una prospettiva di sentenza ugualmente molto lunga. Per questo motivo sono convinto che il potere dei pubblici ministeri debba essere ridimensionato. In molti stati le pene per lo spaccio di droga prevedono sentenze minime di anni di detenzione molto elevate e questo andrebbe sicuramente rivisto. Il problema delle carceri affonda nelle tematiche più profonde della nostra società, in primis il razzismo e su come noi gestiamo il problema della criminalità. Una volta rivisti questi temi rispetto alla gestione attuale, automaticamente il numero delle persone incarcerate diminuirebbe”. Ci sono stati dei miglioramenti nella riabilitazione dei detenuti negli Stati Uniti negli ultimi anni? “Sì, possiamo dire che qualcosa sta cambiando, soprattutto per i reati legati allo spaccio di droga. I detenuti accusati di spaccio, che solitamente utilizzano queste sostanze, vengono assegnati a programmi di riabilitazione specifici con una minore permanenza in carcere. Questo sembra aver già dato degli effetti positivi. Inoltre, molti politici repubblicani sono a favore di questi programmi perché consentono di risparmiare denaro pubblico”. Dopo questa esperienza, che cosa si sentirebbe di dire a dei detenuti affinché riescano a cambiare il loro percorso di vita? “La maggior parte dei detenuti americani vengono rilasciati, ma il carcere non è un luogo dove una persona possa ricostruire sé stessa e la propria vita. I detenuti da me conosciuti che sono riusciti a cambiare vita hanno sempre ammesso che ce l’hanno fatta perché hanno deciso di prendere in mano la propria vita, impegnandosi con tutta la propria volontà a raggiungere un cambiamento. È una decisione profonda e personale, che riguarda unicamente l’individuo. Abbiamo esperienze in cui dei detenuti hanno preso delle iniziative per promuovere, per sé stessi ma anche per altri, un cambiamento radicale della propria vita. Questo significa che se i detenuti decidono di organizzarsi collettivamente, con degli obiettivi di “auto-rieducazione” i risultati possono essere sorprendenti. Ad esempio, per me è stato un onore poter partecipare durante il Festival di Internazionale a Ferrara a un incontro con Earlonne Woods e Nigel Poor, autori del podcast Ear Hustle. Earlonne è un ex detenuto di colore che, grazie all’aiuto dell’artista Nagel Poor, che da anni lavora con i detenuti a titolo volontario, ha scoperto nel mondo dei podcast la via per cambiare la sua vita. Le sue capacità gli hanno fatto vincere uno dei premi più importanti nel mondo dei podcast, con Ear Hustle appunto, valendogli una riduzione della pena. Quindi, la collaborazione e la solidarietà tra detenuti è importante, ed è una potenzialità che deve essere incoraggiata e gestita in modo intelligente”. Che cosa pensa della situazione carceraria italiana? “Ammetto che non conosco nel dettaglio quanto avvenga in Italia. So che ci sono circa 70mila detenuti e, facendo un raffronto con gli Stati Uniti, il numero dei detenuti nelle carceri americani è sette volte maggiore che in Italia rispetto alla popolazione dei due paesi. Con questo non voglio dire che la situazione delle carceri italiane sia migliore, ma è un raffronto che fa perlomeno capire quanto il sistema carcerario americano sia davvero molto lontano rispetto al vostro paese”. Migranti, tornare all’accoglienza di Luigi Manconi La Stampa, 18 ottobre 2019 A quanti arrivano in Italia e chiedono asilo lo Stato nei centri di accoglienza offre solo vitto e alloggio e nessuna possibilità di relazione positiva col territorio e con i suoi abitanti. Sono diminuiti gli sbarchi, si dice, ed è vero. Ed è altrettanto vero che, rispetto al minore numero di quanti arrivano sulle nostre coste, è cresciuta la percentuale dei morti. Ma dove e come collocare, all’interno di questa macabra contabilità, quelle donne rimaste imprigionate nel relitto ritrovato a 60 metri di profondità nel Mediterraneo, a sei miglia da Lampedusa? E come calcolare - sotto quale voce delle statistiche - il bambino che annega abbracciato alla madre? Se questi sono i sommersi, i salvati, coloro che giungono in Italia, non finiscono certo di penare. Il quadro politico italiano ed europeo rivela qualche esile segnale di novità. Il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese ha fatto sapere di voler “avviare un confronto con le Ong impegnate in operazioni di soccorso in mare”. Poche parole, pronunciate con sobrietà e quasi incidentalmente (si tratta pur sempre di un prefetto), all’interno di un’intervista rilasciata al Corriere della Sera qualche giorno fa. Ma se quell’intenzione avesse un seguito concreto, sarebbe qualcosa di simile a un capovolgimento, su un punto cruciale, della politica per l’immigrazione perseguita dal precedente capo del Viminale. Le Ong, definite “criminali” da Matteo Salvini e, non dimentichiamolo, “taxi del mare” da Di Maio, diventerebbero - come vogliono il buon senso e l’intelligenza politica - interlocutori delle nostre istituzioni, in un’impresa fondamentale quale è la salvezza di vite umane. Sarebbe un bene per tutti, per i naufraghi in primo luogo, ma anche per quelle stesse istituzioni. Ancor prima, c’è la possibilità di modificare significativamente e rapidamente la strategia del precedente governo che già si è rivelata, oltre che velleitaria e impotente (per quanto riguarda, in particolare, i rapporti con l’Ue), drammaticamente autolesionista. L’atto politico più pericoloso contro la sicurezza pubblica, tra i molti compiuti dall’ex ministro dell’Interno Salvini, è stato anche il più subdolo: ovvero il drastico ridimensionamento del sistema di accoglienza per i profughi, lo Sprar (Sistema per la protezione di richiedenti asilo e rifugiati), ora riservato ai soli rifugiati e ai minori, con l’esclusione dei richiedenti asilo, che costituivano la maggior parte delle persone in accoglienza. Lo Sprar ha rappresentato una strategia saggia e lungimirante, che ha sottratto i profughi ai grandi centri, desolati e alienanti, e li ha distribuiti in piccole aggregazioni, diffuse sull’intero territorio nazionale, in una percentuale rispetto al numero dei residenti che non suscitasse allarmi sociali e conflitti inter-etnici. Un modello di progressiva inclusione degli stranieri nel sistema della cittadinanza, al quale i decreti sicurezza voluti da Matteo Salvini hanno inferto un colpo micidiale. Ricordate la velenosa campagna sui “35 euro regalati agli immigrati”? E avete presente quale solco di rancore ha potuto scavare tra questi ultimi e gli strati più deboli della società italiana? Si trattava, va da sé, di una menzogna: dei 35 euro quotidiani a persona, allo straniero andavano 2,50 euro (spesso in generi, come sigarette e schede telefoniche). Il resto serviva a finanziare i servizi di accoglienza e di assistenza e a retribuire gli operatori (nella stragrande maggioranza italiani e spesso assai competenti). Un anno fa, una circolare del ministro dell’Interno ha riscritto completamente il capitolato delle gare d’appalto per la fornitura dei beni e servizi per i centri di accoglienza, rivedendo al ribasso gli stanziamenti, tagliando una serie di servizi ritenuti inutili e riducendo al minimo le figure professionali, e il numero degli operatori, dissipando così una risorsa preziosa per il gracile sistema di welfare del nostro Paese. A quanti arrivano in Italia e chiedono asilo, oggi lo Stato nei centri di accoglienza offre solo vitto e alloggio e nessuna possibilità di relazione positiva col territorio e con i suoi abitanti. Eppure, tutti, ma proprio tutti, coloro che si interessano di flussi migratori, compresi quanti lo fanno da posizioni di destra, sanno che l’apprendimento della lingua e di capacità professionali è lo strumento irrinunciabile al fine di garantire la convivenza pacifica tra residenti e stranieri. Col primo decreto sicurezza, questa opportunità viene semplicemente azzerata, con quali conseguenze per l’ordine pubblico è facile intuire, dal momento che quella misura finisce col consegnare alla marginalità molte migliaia di persone. Intanto quegli scandalosi 35 euro si sono ridotti nei nuovi bandi a cifre oscillanti tra i 19 e i 26 euro, e gli effetti sociali sono già sotto gli occhi di chi voglia vederli. È qui che può intervenire il ministro Lamorgese: con un decreto ministeriale potrebbe ripristinare, nello schema di capitolato, i servizi tagliati un anno fa. E magari rinforzarli proprio per quanto riguarda la formazione professionale e l’apprendimento della lingua e degli elementi essenziali della cultura, della storia e della legislazione del nostro Paese. Inoltre, il ministro potrebbe riprendere il Piano nazionale per l’integrazione che per legge andrebbe rivisto ogni due anni: un piano perfettamente in linea con quanto previsto dalle agende europee. Sono scelte che potrebbero essere fatte immediatamente e che non richiederebbero i tempi lunghi di una pur sacrosanta e indispensabile revisione delle normative sulla sicurezza. E, soprattutto, rappresenterebbero quel segnale di discontinuità che in tanti ancora attendono da questo governo. Stati Uniti. Lavori forzati per chi evade le multe, altrimenti si va dritti in prigione di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 18 ottobre 2019 Los Angeles: polemiche sulla schiavitù imposta ai morosi. Sono oltre 100mila le persone assegnate ai “Servizi per la comunità”, in gran parte neri e poveri. Il Guardian: “è puro schiavismo”. Otto milioni di ore di lavoro non retribuito in un anno, l’equivalente di 4.900 posti di lavoro salariato. Agenzie governative che possono contare su circa tre milioni di ore di servizi di vario genere gratuiti, sostituendo 1.800 posti di lavoro. Sono le cifre da capogiro che riguardano la municipalità di Los Angeles dove i tribunali, in maniera sempre più ampia, ricorrono al lavoro coatto al posto della carcerazione. L’università californiana Ucla ha pubblicato mercoledì scorso i risultati di un’indagine che ha messo in luce aspetti inquietanti. Attualmente sono almeno 100mila le persone condannate a svolgere i cosiddetti “servizi per la comunità”, a questo vero e proprio sistema sono interessati molti dipartimenti governativi e organizzazioni no profit. Lo studio, ripreso anche dal quotidiano britannico Guardian, parla espressamente di sfruttamento e “furto di salario” al quale sono sottoposti principalmente persone con problemi di debiti (multe automobilistiche, tasse e contenziosi economici con lo Stato, assegni di mantenimento non pagati) e in larga parte (89%) appartenenti alla comunità nera, tanto da far parlare di “profilazione razziale”. Succede poi che in molti non riescono a completare il lavoro entro le scadenze imposte dai tribunali e un condannato su cinque alla fine incorre nel reato di violazione della libertà vigilata finendo comunque in cella in una sorta di “doppia pena”. Quella che doveva essere un’alternativa alla prigione diventa praticamente una condanna a vita in cui il debito non si estingue mai. Inoltre, rileva la ricerca dell’Ucla, aumentano le diseguaglianze e si crea “una forza lavoro non regolamentata in cui i lavoratori sono vulnerabili agli abusi”. Per il professore di Diritto Noah Zatz che ha coordinato l’inchiesta: “Normalmente, è incostituzionale minacciare le persone con la prigione se non lavorano... Questo è un sistema di estrazione gestito dal governo che si rivolge a comunità di colore e comunità a basso reddito”. Così nonostante esista negli Stati Uniti una corposa statistica sui sistemi di punizione ingiusti, i “servizi alla comunità” non rientrano fra questi anche perché mancano controlli adeguati. I condannati a questo tipo di lavoro sono considerati infatti volontari ma spesso sono assegnati a posizioni accanto a lavoratori retribuiti, per lo più si tratta si tratta di occupazioni manuali come rimozione di graffiti, raccolta dei rifiuti e lavoro di pulizia in genere. Non è raro trovare queste persone in luoghi come Cal-Trans, l’agenzia di transito statale, i parchi di quartiere e i dipartimenti municipali oppure l’Esercito della Salvezza e i centri servizi della comunità locale. E talvolta, come nel caso della 24enne Silvia Lopez condannata per possesso di stupefacenti, capita anche di subire violenze mentre si stanno svolgendo i propri compiti senza nessuna forma di protezione giuridica. Secondo i dati raccolti dai ricercatori, di fronte a molestie o abusi sessuali e altre forme di maltrattamenti i lavoratori possono fare ben poco, l’alternativa tra andare in prigione o lavorare è talmente stringente da frenare le possibili denunce. Per la responsabile della ricerca legale e politica presso il Centro di lavoro Ucla, Tia Koonse, tutto ciò “ha un effetto agghiacciante se si vuol chiedere alloggio, chiedere un pasto o una pausa bagno, reclamare i propri diritti”. Per adesso i portavoce dei tribunali della contea di Los Angeles hanno rifiutato di commentare quello che sta succedendo. Libia. Chiusura del centro di detenzione di Misurata: condizioni sempre più disumane La Repubblica, 18 ottobre 2019 Il report di Medici Senza Frontiere. I profughi trasferiti nei due centri di Zliten e Souq Al Khamees. “Urgente creare rifugi per una protezione immediata ai migranti in Libia”. A seguito della chiusura, il 14 ottobre scorso, del centro di detenzione di Misurata, nella regione costiera centrale della Libia, più di un centinaio di rifugiati e migranti sono stati trasferiti nei due centri di detenzione di Zliten e Souq Al Khamees, nella stessa regione. Le condizioni di detenzione di questi due centri sono note alle autorità libiche e all’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) per essere estremamente difficili, come anche riportato dalle équipe di Medici Senza Frontiere (Msf) in diverse occasioni. Uomini, donne e bambini detenuti. Trattenuti arbitrariamente per mesi e in molti casi per anni, con poco accesso a cibo, acqua e accesso all’aria, saranno così esposti alle stesse condizioni disumane. Alcuni di loro sono state vittime di torture e traffico durante il loro soggiorno nel Paese. “Chiudere un centro di detenzione sarebbe un passo avanti positivo se rifugiati e migranti avessero la libertà di movimento, protezione e assistenza. Ma in questa situazione sono passati da una condizione di detenzione a un’altra, vedendo le loro condizioni peggiorare ulteriormente, rimanendo bloccati in un ciclo senza fine di disperazione e violenza. Come minimo, dovrebbero essere rilasciati e assistiti in un ambiente più sicuro” dichiara Sacha Petiot, capo missione di Msf in Libia. L’uccisione di 60 persone. Il conflitto armato iniziato ad aprile intorno a Tripoli ha reso la situazione più pericolosa per rifugiati e migranti detenuti nelle zone di guerra. In questo difficile contesto, la tragica morte di circa 60 persone, secondo le stime, durante l’attacco aereo del centro di detenzione di Tajoura, avvenuto nella notte del 2 luglio, aveva portato a un rinnovato appello per la chiusura dei centri di detenzione in Libia, anche da parte delle stesse autorità libiche. In Libia nessun luogo è sicuro. Attualmente non ci sono strutture sicure in Libia dove rifugiati e migranti possono trovare protezione e assistenza. L’unica struttura gestita da Unhcr, il Centro di Raccolta e Partenza a Tripoli, è ora satura e l’Unhcr ha affermato che non è più in grado di accogliere persone vulnerabili. “Abbiamo bisogno di un maggior numero di evacuazioni di persone fuori dalla Libia. Ed è urgente sviluppare un’alternativa alla detenzione come creare rifugi che diano una protezione immediata e temporanea in Libia. Altrimenti, i migranti e rifugiati più vulnerabili sono condannati a una condizione di detenzione senza fine ed esposti a maggiori rischi e sofferenze” sottolinea Petiot. L’appello di Medici Senza Frontiere. MSF rinnova il suo appello per il rilascio di queste persone, per l’aumento delle evacuazioni fuori dalla Libia e per porre fine alla politica europea di intercettazione e rientro forzato in Libia delle persone che tentano di fuggire via mare. Dal 2016 MSF lavora nei centri di detenzione libici dove fornisce assistenza medica di base e psicologica e garantisce il trasferimento dei casi urgenti negli ospedali. L’organizzazione lavora per alleviare le sofferenze di rifugiati, richiedenti asilo e migranti detenuti arbitrariamente e accendere i riflettori sulle condizioni disumane di detenzione. Msf opera anche nel Mediterraneo Centrale in partnership con Sos Mediterranee a bordo della nave di ricerca e soccorso Ocean Viking, fino a quando migranti e rifugiati continueranno a rischiare le loro vite per fuggire alle orribili condizioni subite in Libia e mancherà un sistema dedicato di ricerca e soccorso. Siria. Accordo Usa-Turchia per una tregua. Pence: “120 ore per il ritiro dei curdi” di Marco Galluzzo Corriere della Sera, 18 ottobre 2019 L’incontro ad Ankara tra il leader turco e il vice presidente americano è durato un’ora e quaranta minuti. Il ministro degli Esteri turco: “L’accordo costituisce una pausa delle operazioni militari. Il tweet di Trump: “Milioni di vite saranno salvate, grazie Erdogan”. Turchia e Stati Uniti hanno raggiunto un accordo per un cessate il fuoco in Siria di 120 ore in cui gli Usa favoriranno l’evacuazione dei combattenti curdi dalla zona di sicurezza concordata con Ankara. Lo ha detto il vicepresidente americano Mike Pence dopo l’incontro con Erdogan. Il presidente Usa Donald Trump, revocherà le sanzioni contro la Turchia dopo il cessate il fuoco. È il risultato di un colloquio che si è svolto ieri ad Ankara fra Erdogan e Mike Pence. Il faccia a faccia tra il leader turco e il vice presidente americano è andato avanti per un’ora e quaranta minuti, e a quanto pare ha prodotto dei risultati concreti. La Turchia sarebbe disponibile ad una tregua di 120 ore, un cessate il fuoco però condizionato. “Gli Stati Uniti lavoreranno al fianco della Turchia, e con le nazioni di tutto il mondo per garantire che la pace e la stabilità siano all’ordine del giorno in questa zona sicura al confine tra Siria e Turchia”, ha detto Pence. La conferenza stampa di Pence è stata preceduta da un tweet del presidente Donald Trump: “Grandi notizie dalla Turchia. Grazie Erdogan. Milioni di vite saranno risparmiate. Questo accordo non avrebbe mai potuto essere fatto tre giorni fa. È servito un po’ di amore “difficile” per ottenerlo. Una grande cosa per tutti. Sono fiero di tutti!”. Con la sua dichiarazione il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu ha aperto la strada a una possibile tregua mediata anche dai militari di Mosca. “La Russia trasmette i messaggi tra Damasco e Ankara. Se la Russia toglie gli elementi (curdi) dell’Ypg dalla regione insieme all’esercito siriano, non ci opporremo”. L’incontro è avvenuto con l’eco di accuse incrociate fra Turchia e Stati Uniti. Si è saputo che il presidente turco ha “buttato nel cestino” la lettera ricevuta il 9 ottobre dal Donald Trump. Nella lettera, Trump invitava Erdogan a “non fare lo spaccone” e a “non essere stupido” riguardo all’offensiva militare lanciata da Ankara in Siria. La storia ti giudicherà favorevolmente” se rinuncerai all’offensiva trovando un’intesa con i curdi, mentre ti considererà “per sempre come il diavolo se non accadranno cose buone. Non essere sciocco!”, concludeva Trump. E ancora: “Sii ragionevole, non essere troppo duro, non fare lo stupido o ti distruggo l’economia. Ti chiamo più tardi”. Ieri si è svolta anche una telefonata molto lunga fra il premier italiano Giuseppe Conte e il presidente Erdogan, prima del Consiglio europeo di Bruxelles. “Non sono mancati momenti di forte tensione a fronte del fermo e reiterato invito del presidente Conte ad interrompere questa iniziativa militare, che ha effetti negativi sulla popolazione civile”, rimarcano fonti dello staff di Palazzo Chigi. Si è trattato di un colloquio in certe fasi infuocato, in cui i due leader si sono anche scontrati. La telefonata fra Conte ed Erdogan è durata più di un’ora e in un comunicato di Palazzo Chigi si rimarca che il presidente del Consiglio “ha invitato con forza il leader turco ad interrompere l’incursione militare nel nord est della Siria e a ritirare immediatamente le truppe”. Nel colloquio telefonico con Erdogan, Conte ha rimarcato che “la protezione della popolazione civile e la risoluzione dei conflitti sono priorità irrinunciabili per l’Italia e per l’intera comunità internazionale, esortando il presidente Erdogan a svolgere con responsabilità il ruolo geopolitico e di alleato Nato che la Turchia strategicamente detiene”. Arrivato a Bruxelles, per lui come per gli altri leader, la buona notizia della tregua.