I Garanti territoriali chiedono che il carcere sia l’extrema ratio di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 ottobre 2019 All’assemblea che si è svolta a Milano è intervenuto anche il Capo del Dap Basentini. La realtà del mondo penitenziario è molto più difficile di quello che si riesce a immaginare, evocando anche gli ultimi comportamenti emersi di taluni agenti penitenziari, sottolineando che i comportamenti dei singoli non devono però macchiare l’intera categoria. Lo ha detto il Capo del Dap Francesco Basentini, all’assemblea dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, riunita a Milano il 4 e il 5 ottobre scorso. L’assemblea è stata coordinata dal difensore civico Carlo Lio della regione Lombardia. Presente Pietro Buffa, il provveditore dell’amministrazione penitenziario della regione Lombardia, che ha spiegato l’importanza delle figure di garanzia come possono essere i direttori dei penitenziari, notando negli ultimi periodi una difficoltà all’interno delle carceri. “Di fronte a certi episodi di violenza - ha spiegato Buffa - c’è una tendenza a negare o a delegare la gestione ad altre persone”. Perché accade questo? “Non per sadismo - ha spiegato nel corso del convegno Buffa - ma evidentemente per timore di ostracismo, di rimanere soli o giudicati”. La questione della violenza, secondo Buffa, è una cornice di tutte le problematiche che affliggono il sistema penitenziario. È stata la volta di Stefano Anastasìa, portavoce della conferenza nazionale dei garanti territoriali. Ha toccato diverse problematicità, ma ha innanzitutto registrato le grandi difficoltà che nell’ultimo anno si sono acutizzate. “Come sappiamo tutti - ha sottolineato Anastasìa - la popolazione detenuta è aumentata di millecento unità, ciò significa che abbiamo un tasso annuo di sovraffollamento del 120 percento, con il dato statistico che ogni sei detenuti, c’è né uno di troppo”. In termini di risorse umane significa un sovraccarico per le diverse figure penitenziarie che già scarseggiano. Ma Anastasìa, a nome di tutti i garanti, chiede al nuovo governo un cambio di rotta, che riporti il carcere all’extrema ratio, superando quindi l’equazione tra pena e carcere. “Questa è la grande sfida culturale - ha esortato Anastasìa - che noi tutti dobbiamo affrontare”. Inoltre ha evidenziato che le misure alternative, contemplate nell’attuale e seppur perfettibile (come avrebbe voluto la riforma originale) ordinamento penitenziario, sono un modo diverso di scontare la pena e che dovrebbero essere favorite anche per coloro che non hanno gli strumenti necessari per accedervi. Il portavoce dei garanti territoriali ha anche fatto da eco a ciò che ha detto precedentemente il provveditore Buffa, sottolineando che il clima di tensione “serpeggia nelle nostre carceri” e che andrebbe combattuto eliminando la visione manichea che porta a suddividere tutta la comunità penitenziaria in nemici e amici. “Smontare questa tensione - ha spiegato ancora Anastasìa - vuol dire anche valorizzare la professionalità degli operatori nella gestione dei detenuti, perfino di quelli più problematici, evitando così quel fenomeno che porta ai continui trasferimenti da un carcere all’altro”. Particolarmente grave - ha osservato sempre il portavoce dei garanti - “quando ad essere trasferiti in continuazione per motivi disciplinari, sono i detenuti con problemi mentali, esacerbando ancora di più le loro patologie”. È intervenuto anche il garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma, il quale ci ha tenuto a spiegare che il ruolo dei garanti non si limita solamente alla questione delle carceri, ma che si estende anche in altre situazioni della privazione delle libertà. “Pensiamo - ha osservato Palma - alla detenzione amministrativa dei migranti considerati non regolari, parliamo dei centri di permanenza e rimpatrio che a differenza delle carceri non vengono presidiati dalla magistratura di sorveglianza”. Mauro Palma ha quindi invitato i garanti territoriali ad estendere le loro competenze anche verso quest’altri istituti dove, di fatto, le persone sono private della libertà e paradossalmente con meno garanzie rispetto alla detenzione ordinaria. Così come, ha proseguito il Garante nazionale, “ci sono altri luoghi come ad esempio il servizio di diagnosi e cura dove avvengono i trattamenti sanitari obbligatori e metodi di contenzione”. Mauro Palma è partito da questo, per spiegare che ci sono diverse estensioni della privazione e soprattutto restrizioni della libertà. Il garante nazionale ha anche tirato una stoccata alla magistratura di sorveglianza. “Mi duole dirlo - ha osservato Palma - ma i magistrati esercitano poco la vigilanza negli istituti, facendo pochi colloqui con i detenuti all’interno delle carceri”. Ergastolo ostativo. Ora tocca alla Corte costituzionale di Valter Vecellio lindro.it, 17 ottobre 2019 Il suo destino è quello di diventare un numero, il nome scritto frettolosamente in un registro, per essere presto dimenticato. Se c’è una moglie, una compagna, dei figli, loro piangeranno (oppure no? Chissà); e presto il corpo verrà tumulato, una cerimonia frettolosa, in “solitaria”. Finisce cosi, la presenza in terra di Roberto L., detenuto italiano, anni 52 anni. È evaso definitivamente l’altro giorno: ha preso una corda, ne ha fatto una specie di cintura, mentre gli altri compagni di cella dormivano, si è ritirato nel locale utilizzato come bagno, e lì si è impiccato. Nessuno si è accorto di nulla. Solo all’alba, quando non c’era più nulla che si potesse fare, qualcuno ha dato l’allarme. “Quella notte a vigilare su un centinaio di detenuti c’era un unico agente della Penitenziaria”, spiega Daniele Nicastrini, segretario generale Uspp, uno dei sindacati della polizia penitenziaria. “Pur salvandone a decine da tentativi di suicidio, diventa difficile intervenire in tutti i casi che di solito avvengono nelle ore notturne, quando il numero per la vigilanza diminuisce per le note carenze e dove anche i compagni di detenzione stanno dormendo. Chiudersi nel bagno della cella agganciare una striscia qualsiasi simile ad una corda e lasciarsi andare diventa un rumore sordo avvolte totalmente non percepibile in sezioni detentive con corridoi lunghi anche 100 metri e altrettante celle e mura”. Dal 2000 ad oggi sono oltre mille i suicidi nelle carceri italiane (35 nel 2019). Numeri a cui si aggiungono i suicidi e gli omicidi degli stessi poliziotti. Nel 2017 sono state 1.380 le persone decedute durante la loro detenzione in carcere. Di queste, ben un terzo sono morte suicide. Il tasso di suicidi in detenzione per 10.000 detenuti (su dati 2017) è di 6,32, mentre in libertà il tasso è di 1,41. In carcere ci si uccide quattro volte di più che all’esterno. I maggiori tassi di suicidi in carcere sono quelli di Francia (12,6%), Austria (12,3%), Germania (11,8%), Portogallo (11,2%), Danimarca (10,9%). Il 5,9% dei suicidi sono commessi da donne. Ci siamo, è questione di ore. Il prossimo 22 ottobre la Corte Costituzionale decide sulla legittimità dell’ergastolo ostativo. Lo scorso 7 ottobre dalla Grande Camera della Corte europea ha respinto il ricorso del governo italiano contro la decisione del 13 giugno. Quel giorno la CEDU aveva accertato che l’ergastolo ostativo viola la dignità umana: “Limita eccessivamente la prospettiva di rilascio dell’interessato e la possibilità di riesame della pena. Pertanto, questa pena perpetua non può essere qualificata come comprimibile ai sensi dell’articolo 3 della Convenzione”. Ora tocca alla Corte Costituzionale. Nel nostro ordinamento l’ergastolo è sanzione detentiva perpetua, anche se non mancano disposizioni premiali che consentono al condannato meritevole di usufruire di benefici: dopo dieci anni si può essere ammessi ai permessi premio; dopo venti alla semilibertà; dopo ventisei alla libertà condizionale. Termini che possono essere diminuiti di 45 giorni ogni semestre se il detenuto partecipa positivamente al trattamento penitenziario. In questo modo i ventisei anni per la libertà condizionale possono ridursi a ventuno. La ragion d’essere di questi benefici sta nel fatto che l’articolo 27 della Costituzione sancisce che tutte le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato”. Quando però la condanna all’ergastolo riguarda reati di criminalità organizzata o terrorismo, i benefici non si applicano più, a meno che il condannato collabori con la giustizia, oppure dimostri di non poterlo fare, perché impossibilitato a farlo. Di questa problematica non si è occupata solo la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Ci sono gia’ state parecchie pronunce della Corte Costituzionale. Per esempio, si è stabilito che la limitazione ai benefici è legittima solo in presenza di una collaborazione possibile, che viene liberamente rifiutata. Non può quindi essere escluso chi fornirebbe una collaborazione inutile, impossibile e irrilevante. Il prossimo 22 ottobre la Corte Costituzionale deciderà di nuovo sulla legittimità dell’istituto. In sostanza dovrà giudicare se la scelta del legislatore di perseguire con tale istituto un interesse di indubbio rilievo costituzionale quale la lotta al crimine associativo, sia compatibile con i principi di individualizzazione e di progressività del trattamento (articolo 27 della Costituzione). La più generale situazione delle carceri italiane: con 60mila detenuti per 47mila posti disponibili, l’Italia non trova una risposta credibile alla questione. La conferma viene dal 15esimo rapporto di Antigone (“Il carcere secondo la Costituzione”). Il numero dei detenuti negli ultimi due anni ha ricominciato a crescere: un tasso di sovraffollamento del 120 per cento. L’Italia non è riuscita dal 2013 - quando la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha emesso una condanna per trattamento inumano e degradante al pagamento di migliaia di euro di risarcimento per danni morali nei confronti di alcuni detenuti - a intervenire in modo incisivo su un problema che secondo il comitato dei ministri del Consiglio europeo, è strutturale. Tra i 60mila detenuti più di un terzo sono stranieri, uno su tre è affetto da disturbi psichiatrici, due su tre è tossicodipendente o alcoldipendente. Le celle disponibili, secondo il ministero di Giustizia, sono circa 50mila; cifre che non tengono conto delle numerose sezioni chiuse: Alba, Nuoro, Camerino (vuota dal terremoto che ha colpito l’Umbria nel 2016), Como, Brescia, Taranto, per dirne di alcune: per un totale di almeno 3mila posti non agibili. In alcuni istituti penitenziari, denuncia Antigone, ci sono situazioni limite, con celle che non rispettano il parametro minimo dei tre metri quadrati di spazio per detenuto. Situazioni che lasciano margini per la Corte di Strasburgo per nuove condanne. Ergastolo ostativo. Lo sconto di pena significa chiedere una fetta di vita di Nunzio Smacchia Gazzetta del Mezzogiorno, 17 ottobre 2019 La Corte europea dei diritti dell’uomo ha definitivamente bocciato l’ergastolo ostativo, perché è in contrasto con l’art. 3 della convenzione sui diritti umani che vieta trattamenti disumani e degradanti. La sentenza critica quella parte in cui il detenuto condannato per reati di mafia non possa accedere ai benefici di legge come tutti gli altri ergastolani, perché ha deciso di non collaborare con la giustizia, non si pente e non rinnega la sua appartenenza al credo mafioso. La statuizione di Strasburgo sottolinea che il “mancato pentimento” non significhi che il condannato sia ancora legato alle organizzazioni criminali e che costituisca una minaccia per la società, in quanto questa volontà di non dissociarsi può dipendere da tanti fattori, non ultimo quello di preservare l’incolumità dei parenti. Da questa decisione europea si è riacceso il dibattito sulla costituzionalità dell’ergastolo, sulla necessità di inserirne l’abolizione in un complessivo progetto di ricalibratura di tutte le pene all’interno del sistema penale. Si sostiene che il recluso vive un tempo totale che diviene inesistente e che l’esperienza carceraria è profondamente disocializzante, perché il periodo che trascorre all’interno dell’istituzione carceraria porta all’autoannullamento, a una implosione autodistruttiva degli spazi di autonomia, che si traducono in estraniazione e allontanamento dai margini della socializzazione. In realtà, l’ergastolo, è una pena di morte rinviata sine die e affidata alla sua esecuzione, anziché alla mannaia di un boia, alla natura umana; da qui la sua intrinseca incostituzionalità. Solo con un forte e deciso sviluppo della cultura giuridica e democratica è possibile, da un lato, un’interpretazione più autentica e più rispettosa del dettato costituzionale, dall’altro, è auspicabile una revisione della Carta costituzionale, per dare una risposta alla crescente richiesta di sicurezza e all’inflessibile difesa delle garanzie. E questo processo di riesame, o di riscrittura, deve attuarsi tenendo ben presente che nessun individuo può essere sottoposto a punizioni crudeli, inumane o degradanti, che ripugnano alla coscienza civile e al senso di umanità di ogni persona e che, addirittura, possono non costituire un efficace deterrente al crimine ed essere scambiate, al contrario, per una manifestazione di brutalità dello Stato. L’ergastolo è un’idea di pena del tutto dissonante rispetto ai principi della legalità costituzionale. Certo, è un tema non facile quello del consenso sociale nei confronti dell’ergastolo; difficile come ogni riflessione che cerchi di coniugare un sentire comune, sociale, e un garantismo giuridico. Con la pena perpetua si tocca l’aspetto della vita e della speranza, senza le quali si muore anzitempo in una fissità che non concede prospettive, che cala sui destini, esclude ogni possibilità di recupero e rende immobile la vita, sottraendola a ogni opportunità di cambiamento; l’ergastolo è peggiore della morte, perché più molesto, più duro e più lungo da scontare, e la pena viene rateizzata nel tempo: è lo spettacolo dell’agonia della persona. La pena ultima deve essere ripensata da un punto di vista antropologico, oltreché giuridico in senso stretto. Nella discussione su questo tipo di pena bisogna considerare, preliminarmente, che è una punizione che elimina una persona dal consorzio umano, la cancella definitivamente; in sostanza, lo Stato non può sopprimere la libertà di un uomo: può limitarla, ma non abolirla. Sotto il profilo costituzionale ed etico-politico quattro sono i profili che contrastano con il paradigma dello Stato democratico. 1) La violazione dell’art. 27 della Costituzione, laddove viola il principio della “dignità” del cittadino sancito dall’art. 3 della stessa Costituzione. 2) Il contrasto sempre con l’articolo 27, terzo comma della Costituzione, secondo cui le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato”; si negherebbe il recupero sociale nel processo d’interazione e di autodeterminazione nella vita sociale. 3) L’inosservanza del principio di uguaglianza; avverrebbe una pesante discriminazione tra ergastolani, nel senso che alcuni sono ammessi e altri no al beneficio della liberazione condizionale e agli altri vantaggi previsti dalla legge Gozzini. 4) La contraddizione con il principio della giurisdizionalità delle pene, il quale esclude pene fisse, non graduabili sulla base della valutazione del caso concreto. In aggiunta a queste osservazioni di natura esclusivamente giuridica, ci sono anche quelle di tipo umano, che fanno della detenzione perpetua una pena da ristudiare, perché ammazza, lasciando vivere, spegne la luce non solo dello spirito, ma anche della libertà; è essenzialmente una condanna di morte dissimulata, affidata non più alla mano di un giustiziere, ma al decorso del tempo; è un castigo disumano che fa morire la persona lasciandola in vita, togliendole le aspettative e i sogni. È un retaggio ancora di una mentalità forcaiola e somiglia molto all’isolamento, alla segregazione e ai lavori forzati, o ad altre forme di tortura tuttora esistenti in alcune società avanzate. Alla morte si guarda con la dolcezza di una vita “migliore”, all’ergastolo ci si lega per tutta l’esistenza. Chiedere uno sconto di pena è come pretendere una fetta di vita: ci si allontana dai sentimenti e dalla realtà e si muore lentamente, pur vivendo. È la condanna a un destino, non a una pena o a una colpa. È la rappresentazione dell’immutabilità, del rifiuto di un dialogo, dello spezzarsi di quel sottile filo che lo lega alla società e di ogni illusione che si perde nel mare della persuasione che viene negata. È la consapevolezza terribile di non poter più avere un’esistenza, l’esclusione da un progetto d’integrazione solidaristico e non violento. Se il trasgressore vuole dimenticare e redimersi, con l’ergastolo non lo potrà più fare. *Criminologo Giustizia. C’è l’accordo Pd-M5S, tregua sulle intercettazioni di Francesco Grignetti La Stampa, 17 ottobre 2019 Sì al blocco della prescrizione. Sulle telefonate passa l’impostazione dem. In gran silenzio, la maggioranza giallo-rossa ha trovato l’accordo sulla giustizia. Anche gli scogli più ardui sembrano alle spalle: sulle intercettazioni, sul sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura (accantonata ogni ipotesi di sorteggio), sul blocco della prescrizione, sulla riforma del processo penale e civile, la sintesi politica c’è. “Il confronto politico con le forze che compongono la maggioranza di governo - afferma il ministro Alfonso Bonafede - sta dando i suo i frutti”. I partiti hanno rinviato molti aspetti tecnici che causeranno scintille. E c’è in agguato uno scontro molto forte sulla separazione delle carriere dove i grillini faranno muro, ma non gli altri. Anche il Pd sembra possibilista per una rivoluzione copernicana che scuoterebbe alle fondamenta il sistema. Unico punto fermo, da Pd a Forza Italia, al M5 S, sarà l’obbligatorietà dell’azione penale. La navigazione del governo, però, è avviata. L’ultima novità riguarda le intercettazioni. C’era una legge di Andrea Orlando in sospeso. Ebbene, la maggioranza ripartirà da qui. Sono annunciati solo pochi accorgimenti per tenere conto delle osservazioni critiche dell’avvocatura e della magistratura (erano troppo compressi i tempi e i modi per gli avvocati di verificare la grande mole delle intercettazioni effettuate). La rete di sale-ascolto all’interno degli uffici giudiziari e la tracciabilità di ogni passaggio, vanno bene ai M5S come alle sinistre. E se fino a due anni fa i grillini avevano detto peste e corna di questa legge, gridando al “bavaglio”, ora i toni sono ben diversi. “Sarà necessario - dichiara Bonafede - garantire la piena funzionalità di uno strumento investigativo di primaria importanza evitando, al contempo, che i dati sensibili acquisiti divengano oggetto di diffusione impropria e incontrollata”. Che le cose siano in movimento, lo conferma anche Michele Bordo, vicecapogruppo Pd alla Camera: “La riforma non ostacolava le indagini, né metteva il bavaglio all’informazione. Questa fu la lettura data da alcuni solo per ragioni politiche, ma per niente suffragata dai fatti. E tuttavia, noi non siamo legati alle nostre proposte come se fossero delle bandierine da piantare”. Le posizioni, ma anche le parole, si sono visibilmente ravvicinate. Merito di un compromesso di fondo: al M5S è stato garantito che il 1 gennaio 2020 scatterà il blocco della prescrizione (una legge identitaria per Bonafede e il suo movimento), il Pd e gli altri ottengono un’attenzione nuova per la privacy e per gli effetti indesiderati dalla divulgazione delle intercettazioni. Così come per la velocizzazione dei processi. Con grande scandalo di Forza Italia e dei penalisti, una riforma non è più subordinata all’altra. Ma è intenzione comune di trovare una soluzione ai tempi lunghi. Sempre Bordo: “Abbiamo fiducia che la riforma complessiva proposta dal ministro produca i suoi effetti positivi sulla durata dei processi. Ma non possiamo non interrogarci sulle conseguenze che ci sarebbero se ciò non accadesse, fosse anche per un solo processo”. Nel compromesso generale, le pene peri grandi evasori passano da 6 a 8 anni. È nel decreto fiscale approvato dal Consiglio dei ministri “salvo intese”. E il ministro annuncia: “In caso di mancata introduzione di queste norme, il governo sta valutando un decreto”. Bonafede: “Pene più severe per gli evasori e processi rapidi” di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 17 ottobre 2019 Nel perseguimento della legalità è “assolutamente necessario proseguire nella lotta alle organizzazioni mafiose e potenziare le misure di contrasto all’evasione fiscale, anche prevedendo l’inasprimento delle pene per gli evasori e rendendo più trasparenti le transazioni commerciali”. Lo ha detto il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, illustrando le linee programmatiche del suo dicastero davanti alla Commissione Giustizia della Camera. Tempi del processo - Restano “tra i più elevati della Ue” i tempi necessari “per definire le cause civili, nonostante lo straordinario impegno e la straordinaria produttività dimostrata dalla magistratura italiana, in cima alle classifiche europee per rendimento”, ha poi evidenziato il ministro. Anche per quanto riguarda la durata dei processi penali c’è una “marcata distanza dell’Italia dagli altri Paesi europei”. Il dato positivo è invece che calano i procedimenti pendenti. In particolare per quanto riguarda i processi civili “anche nel 2019” è proseguito il calo delle pendenze. Al termine del primo trimestre i fascicoli pendenti complessivamente intesi (civili, esecuzioni e fallimenti) erano 3.408.529 milioni, l’1% in meno rispetto alla fine del 2018, il 5% rispetto a un anno prima. “Se si escludono le procedure concorsuali e le esecuzioni, e quindi con riguardo alle sole cause civili in senso proprio - ha specificato Bonafede - alla stessa data le pendenze risultavano pari a 2.896.67, in ulteriore diminuzione rispetto alla fine del 2018, che già aveva fatto registrare, per la prima volta dal 2003, un valore inferiore ai 3 milioni (risultati in parte spiegabili anche con il calo delle iscrizioni civili, sintomo di un abbassamento di fiducia nei confronti del sistema giustizia)”. Obiettivo della riforma che si sta scrivendo è una “ maggiore semplicità del procedimento” e misure per accelerare i tempi. Si interverrà anche sulla mediazione obbligatoria e sulla negoziazione assistita: verrà meno l’obbligo di ricorrervi in via preventiva per le controversie in materia bancaria, assicurativa e di responsabilità sanitaria. Per quanto riguarda i processi penali pendenti “per la prima volta dal 2010”, al termine del primo trimestre del 2019 “sono scesi al di sotto di 1,5 milioni, attestandosi sul valore di 1.497.072”, ha detto Bonafede, spiegando che la riforma in fase di definizione politica prevede “lo snellimento dei riti e l’adozione di misure che consentano, eliminando i tempi morti, di semplificare e velocizzare il procedimento penale nonché di ridurre le pendenze”. Riforma Giustizia - Sulla riforma della giustizia “il confronto politico con le forze che compongono la maggioranza di governo sta dando i suoi frutti”. Lo “dimostra già il recepimento, da parte degli uffici competenti, dei primi contributi raccolti nel corso delle interlocuzioni avvenute nelle ultime settimane”. Bonafede ha anche detto di confidare nel sostegno del Parlamento “per portare avanti quella che io ho già definito come una vera e propria rivoluzione per la giustizia italiana, destinata al perseguimento dell’ambizioso e ormai non più rimandabile obiettivo di restituire fiducia a tutti i cittadini-utenti nel sistema giudiziario”, attraverso la “drastica riduzione” dei tempi dei processi. Sovraffollamento carceri al 128% - Si attesta al 128% il sovraffollamento nelle carceri italiane. Bonafede ha voluto sottolineare “l’attenzione” posta al fenomeno carcerario, “nella prospettiva del maggior benessere dei detenuti e degli agenti della Polizia penitenziaria”. Obiettivo da perseguire “anche attraverso l’implementazione di imponenti interventi di edilizia penitenziaria nonché per mezzo di una rafforzata politica di espulsioni dei detenuti extracomunitari a favore dei loro Paesi di provenienza”. Intercettazioni e privacy - “Coniugare le esigenze di giustizia, il diritto di difesa, la privacy e il diritto degli organi di stampa ad informare e quello dei cittadini ad essere informati”. È questo per il ministro della l’obiettivo della revisione della disciplina delle intercettazioni. “In altri termini - ha detto - sarà necessario garantire la piena funzionalità di uno strumento investigativo di primaria importanza evitando, al contempo, che i dati sensibili acquisiti divengano oggetto di diffusione impropria e incontrollata”. Su ergastolo ostativo valuterà Parlamento - Dopo la recente sentenza della Cedu che ha chiesto allo Stato Italiano di intervenire in materia di ergastolo ostativo, “la posizione dell’Italia è chiarissima ed è stata esposta nelle sedi opportune”, ha commentato il ministro. “A questo punto, il Parlamento, nella sua piena sovranità, farà le sue valutazioni”. “Gli avvocati non votino sul lavoro di noi magistrati”. Lo strano allarme dell’Anm di Errico Novi Il Dubbio, 17 ottobre 2019 Non si può escludere che la riforma penale e del Csm contenga l’ipotesi di “verifiche sull’equilibrio” dei magistrati. Non è affatto tramontata la previsione di sanzioni disciplinari per i giudici “tardivi” nel depositare le sentenze. Eppure con sorprendente coralità tre storici gruppi dell’associazionismo giudiziario, ossia Unicost, Area e Magistratura indipendente, pronunciano la loro “ferma contrarietà” a un’altra possibile novità in arrivo con il ddl del ministro Bonafede: il riconoscimento agli avvocati del diritto a votare nei Consigli giudiziari anche sulle valutazioni di professionalità delle toghe. In realtà un testo ufficiale della riforma Bonafede non è ancora disponibile. Certo da parte del guardasigilli, del Pd e di Italia viva c’è l’intenzione di rivedere anche il funzionamento dei Consigli giudiziari, gli organismi istituiti in ogni distretto che cooperano con il Csm nell’autogoverno della magistratura. Alcuni esponenti della maggioranza si sono sbilanciati a favore della partecipazione a pieno titolo di avvocati e professori universitari anche quando si decide sulla professionalità di pm e giudici. Ma soprattutto lo ha fatto, a titolo personale, il vicepresidente del Csm David Ermini, che in un’intervista al Dubbio ha definito “molto importante” la “valutazione dell’avvocatura sulla professionalità dei magistrati”. Di fonte a una situazione comunque ancora fluida, correnti moderate e progressiste si trovano per una volta allineate: no al voto degli avvocati. Al momento non si registra una nota ufficiale di Autonomia e Indipendenza: ma non ci sono dubbi su un’avversione al giudizio della classe forense che, nel caso del gruppo fondato da Davigo, è notoriamente persino più radicale rispetto agli altri. Unicost paventa il rischio di “effetti distorsivi” sulle dinamiche processuali e ricorda come la riforma del 2006 già consenta agli Ordini forensi la segnalazione di “ogni fatto rilevante” per la valutazione dei giudici: segnalazioni che però vengono fornite appunto in forma “cartolare”. Magistratura indipendente arriva addirittura ad alludere agli avvocati quali “soggetti estranei alla giurisdizione”, in contrasto con riflessioni ormai diffusissime nell’ordine giudiziario, nel quale si radica sempre più l’idea di una indispensabile alleanza tra avvocatura e magistratura. Secondo Area, poi, “proposte” come quelle relative ai Consigli giudiziari finirebbero per “radicare nell’opinione pubblica l’idea che la magistratura abbia necessità di controlli esterni essendo inadeguati quelli, rigorosi, cui i magistrati italiani sono sottoposti”. La stessa corrente progressista ricorda, in modo anche più preciso delle altre, che “il “cosiddetto diritto di tribuna della classe forense è stato già esteso in modo consistente”. Dato indiscutibile: basti citare il caso recentissimo del Consiglio giudiziario di Bari, in cui la partecipazione (seppur senza voto) degli avvocati alle valutazioni di professionalità è stata appena introdotta. C’è dunque uno scarto evidente tra l’allarme delle correnti e la pratica quotidiana della giurisdizione. Soprattutto, i timori di veder pregiudicata “l’indipendenza e la serenità” delle toghe sono in contraddizione con quanto dichiarato più volte da magistrati della levatura di Giovanni Canzio. Proprio il presidente emerito della Cassazione, da componente di diritto del Csm, ha sostenuto con forza l’opportunità che in ogni Consiglio giudiziario, almeno il presidente dell’Ordine capoluogo partecipi ai lavori “con pieni poteri deliberativi”. Anche considerata quella che Canzio, in un’intervista a questo giornale, ha definito come una “distonia rispetto al Csm, nel quale la presenza attiva dei membri eletti dal Parlamento - avvocati e professori universitari - è assolutamente garantita pleno iure. Non si comprende”, secondo il presidente emerito della Suprema corte, “perché la ratio dell’articolo 104 della Costituzione - evitare cioè il rischio di un governo autoreferenziale e corporativo dello statuto professionale dei magistrati - non debba permeare anche le regole dei Consigli giudiziari, che pure sono organi distrettuali ausiliari dell’autogoverno della magistratura e titolari di poteri prevalentemente consultivi in tutte le materie riservate al Csm”. In quell’intervista rilasciata lo scorso aprile al Dubbio, Canzio ha evocato “l’indipendenza di giudizio, la correttezza dei comportamenti e la serietà dei contributi offerti dagli avvocati e dai professori nelle valutazioni dei magistrati”. Un atteggiamento impeccabile che lui stesso spiega di aver “potuto constatare” da presidente dei Consigli giudiziari di Milano e L’Aquila e presso la stessa Cassazione, nel cui Consiglio direttivo siede a pieno titolo il rappresentante dell’avvocatura - in quel caso è il presidente del Cnf. Soprattutto, Canzio ha intravisto nella “avversione di talune componenti della magistratura associata” una certa fatica a “considerare quali siano i valori in gioco”. Riferimento alla “autonomia della giurisdizione” che può essere difesa solo con l’impegno condiviso di magistrati e avvocati. Certo sarà più arduo difenderla con un arroccamento sindacalista quale quello che sembra leggersi dietro il no delle correnti alle ipotesi di riforma. Un muro spiegabile forse con la campagna elettorale in corso per le suppletive ma sganciato da una visione più ampia sul futuro della giustizia. Andrea Calabria: “41bis, la mancata proroga non fu una trattativa” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 ottobre 2019 La deposizione a Palermo dell’ex direttore dell’Ufficio detenuti del Dap. il dirigente ha ricordato gli interventi dei tribunali di sorveglianza, e la successiva sentenza della consulta che indicava di valutare caso per caso i rinnovi. L’unica prova, senza deduzioni logico fattuali, sulla presunta trattativa è il mancato rinnovo del 41bis a oltre 300 soggetti da parte dell’ex ministro della giustizia Giovanni Conso. Ma nel corso dell’udienza del processo d’appello sulla trattativa Stato-mafia di lunedì scorso, sono emersi chiarimenti da parte del teste Andrea Calabria (ex direttore dell’ufficio detenuti del Dap) che rischiano di indebolire ulteriormente la prova. Partiamo però dalla tesi della condanna di primo grado. Secondo l’accusa, la sostituzione dell’allora direttore del Dap Nicolò Amato con Adalberto Capriotti costituì il tentativo di mettere alla guida del Dipartimento un uomo che avrebbe garantito il suo sostegno al dialogo sul carcere duro ai boss avviato da parte dello Stato con la mafia. Per evitare nuove stragi e omicidi eccellenti, sempre secondo i pm, pezzi delle istituzioni avrebbero trattato con Cosa nostra concedendo un alleggerimento dei 41bis realizzato, nel novembre del 1993, con la mancata proroga di oltre 300 provvedimenti di carcere duro. Il presidente della Corte Angelo Pellino ha approfondito il tema, ponendo specifiche domande a Calabria, relative a vari documenti anche da lui sottoscritti, divergenze all’interno del dipartimento, prassi che seguivano l’iter della concessione della proroga o meno ai detenuti al 41bis ed eventuali pressioni ricevuti in merito ai decreti relativi alla proroga. L’ex direttore dell’ufficio del Dap ha innanzitutto chiarito la situazione della gestione dei detenuti al 41bis. Parliamo del periodo nel quale, la misura, era ancora di carattere emergenziale e la procedura per rinnovare o meno il 41bis non era ancora ben definita. E, di fatto, come ha spiegato Calabria, in quel periodo ci furono numerosi interventi da parte dei tribunali di sorveglianza, tanto da poi scaturire la famosa - ma poco citata - sentenza della Corte costituzionale la quale aveva espressamente indicato di valutare caso per caso i soggetti prossimi alla data del rinnovo del 41bis. Lo stesso ministro Conso si attenne alle indicazioni. Calabria ha spiegato che con il suo ex capo del Dap Francesco Di Maggio non scorreva buon sangue. Lo ha descritto come un accentratore, poco incline alla collegialità e non amante della burocrazia. Un comportamento che creava tensione. Ma non sul 41bis, dove - ha dichiarato - non ha ricevuto alcuna pressione. Il ruolo di Calabria era di tipo tecnico giuridico. Lui stesso, di concerto con gli altri esponenti del Dap, ha emanato note relative alla detenzione del 41bis. Così come, man mano che i decreti arrivavano a scadenza, era costretto - visto che ancora la norma non era chiara- a chiedere informazioni sui singoli detenuti alla Dia, all’allora Sco, tribunali e distretti antimafia. In una nota del 29 giugno del 1993 - che durante il processo di primo grado aveva sollevato inquietanti quesiti -, lo stesso Calabria, in merito all’eventuale mancate proroghe, scrisse che sarebbe servito come “atto di distensione”. Ma l’ex direttore dell’ufficio detenuti ha chiarito bene a cosa si riferiva tale espressione. All’epoca erano tantissimi i detenuti al 41bis, tanto da provocare all’interno delle carceri che ospitavano le sezioni, un grave sovraffollamento visto che occupavano celle che prima servivano per i detenuti comuni. Ciò creava problemi di gestione. Quindi per “distensione”, si intendeva una questione interna. Nulla a che vedere con dei segnali di distensione nei confronti della mafia. Come detto, l’ex ministro Conso, in linea con il dettato della Consulta, non ha prorogato il 41bis a 334 detenuti, i quali non erano mafiosi di grosso calibro. Calabria ha anche voluto sottolineare che rimanevano comunque in una sezione di alta sicurezza, per poi rimandarli al 41bis se sorgevano altri elementi che ne accertassero l’esigenza. Caso Cucchi, gli agenti penitenziari scagionati ora chiedono un milione di risarcimento Corriere della Sera, 17 ottobre 2019 I legali: “Va resa giustizia a Stefano, ma anche a chi è stato accusato ingiustamente. Ai nostri assistiti è stata strappata la vita dalle mani”. Una vicenda giudiziaria che ha “devastato la loro vita”. E ora “va resa giustizia a Stefano, ma anche a chi è stato accusato ingiustamente”. I tre agenti della polizia penitenziaria, assolti in maniera definitiva nel primo processo sulla morte di Stefano Cucchi, attraverso i propri legali chiedono ora giustizia, nelle battute finali del procedimento contro cinque carabinieri. La sentenza è prevista a novembre. “Riacquisire la dignità calpestata” - Le parti civili chiedono anche un risarcimento di un milione di euro per ognuno dei tre agenti della penitenziaria. Per il legale Diego Perugini, parte civile per uno degli agenti imputati nel primo processo, la vita del suo assistito “è stata distrutta da una cronaca giudiziaria che l’ha descritto come l’omicida di Stefano Cucchi. Gli hanno strappato la vita dalle mani. La sua vita è stata devastata. Un danno fatto anche alla giustizia”. Per l’avvocato Massimo Mauro, dev’essere “resa giustizia a Stefano Cucchi e giustizia a tre appartenenti della polizia penitenziaria che devono riacquisire quella dignità che è stata loro calpestata”. I tre carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale - Sulla stessa linea la parte civile che rappresenta Rita Calore, madre di Stefano, e l’associazione Cittadinanzattiva Onlus: “Il processo Cucchi diventerà un simbolo di come il sistema giudiziario possa rimediare ai propri errori - ha spiegato l’avvocato Stefano Maccioni -. Esattamente oggi, dieci anni fa, in queste ore - ha ricordato il penalista - Stefano veniva portato in tribunale per l’udienza di convalida del suo arresto”. In aula è intervenuto anche il legale di Vincenzo Nicolardi, uno dei carabinieri imputati per calunnia. L’avvocato Alessandro Poli ha spiegato le ragioni del suo assistito: “In merito alle annotazioni di servizio dei carabinieri dopo la morte di Cucchi, prese in esame in aula, Nicolardi ha riconosciuto solo quella del 27 ottobre 2009, perché quella redatta il 16 ottobre non era stata scritta e firmata né mai vista da lui. Nella relazione del 27 ottobre, Nicolardi aveva specificato: fin quando è stato con noi non aveva lamentato nessun dolore. Quelle annotazioni erano state redatte dopo la morte di Stefano per fare chiarezza sulla vicenda, su richiesta dei vertici dell’Arma”. Poli ha poi segnalato “le incongruenze” all’interno delle dichiarazioni dell’imputato-testimone, il carabiniere Francesco Tedesco, il quale ha denunciato di aver assistito al pestaggio di Cucchi da parte - secondo la sua testimonianza - dei colleghi Di Bernardo e D’Alessandro nella stazione Appia. I tre carabinieri sono accusati di omicidio preterintenzionale. Le false accuse - Tedesco - così come Vincenzo Nicolardi e come l’allora comandante della stazione Appia, Roberto Mandolini - deve rispondere anche dell’accusa di falso e calunnia, per l’omissione nel verbale d’arresto dei nomi di Di Bernardo e D’Alessandro, e per aver testimoniato il falso al processo di primo grado, con dichiarazioni che portarono all’accusa di tre agenti della polizia penitenziaria per i reati di lesioni personali e abuso di autorità. Lottizzazione abusiva, la prescrizione non preclude la confisca se vi è prova del reato di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 17 ottobre 2019 Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 15 ottobre 2019 n. 42513. A fronte di una declaratoria immediata di non punibilità, per maturata prescrizione del reato di lottizzazione abusiva, è possibile che scatti comunque la misura reale della confisca obbligatoria. Però solo quando sia stata accertata, con adeguata motivazione in contraddittorio tra le parti, la sussistenza degli elementi oggettivo e soggettivo del reato. Ma - come chiarisce la Cassazione con la sentenza n. 42513depositata ieri - la colpevolezza per il reato prescritto non può essere desunta dagli atti irripetibili, contenuti nel fascicolo del dibattimento, se il contraddittorio non è stato instaurato tra le parti, in applicazione dell’articolo 129 del Codice di procedura penale (obbligo dell’immediata declaratoria della causa di non punibilità). In tale caso, manca quella valenza probatoria che giustifica l’adozione dello strumento ablativo della confisca, prevista come obbligatoria dalla legge (articolo 44, comma 2, del testo unico dell’edilizia). In aderenza anche alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, la Corte di cassazione ha ritenuto inammissibile il ricorso del Procuratore della Repubblica proprio per la mancanza di un avvenuto accertamento della responsabilità penale di chi era imputato del reato edilizio. Il rimedio amministrativo - Resta quindi ferma la restituzione disposta dal giudice di merito dei beni che erano stati sottoposti a sequestro preventivo e a cui si opponeva il ricorso in Cassazione. Il rimedio però in una siffatta situazione esiste ed è la Cassazione a prospettarlo. Cioé, che ha seguito della trasmissione degli atti disposta dalla sentenza impugnata a favore dell’autorità amministrativa, scatti l’eventuale successivo esercizio del potere-dovere di procedere all’acquisizione delle aree lottizzate al patrimonio comunale. E in caso l’amministrazione non agisca è comunque possibile il contrasto di tale inerzia da parte della giustizia amministrativa. Compreso il caso del mancato esercizio dei poteri sostitutivi da parte della Regione. Valutazione giurisdizionale che può arrivare fino in sede penale in caso di inerzia “patologica”. Toscana. “Troppi detenuti psichiatrici, strutture carenti. Regione in ritardo” gonews.it, 17 ottobre 2019 In Commissione regionale Sanità e politiche sociali, l’audizione specifica su San Gimignano. “Mancano le strutture per i detenuti con disturbi mentali”. “La Regione Toscana non è in ritardo con i lavori di ristrutturazione solo sull’ex carcere del Pozzale, come ho denunciato la scorsa settimana, ma anche nelle altre strutture detentive. E il problema - dice il consigliere regionale della Lega, Jacopo Alberti - all’interno delle comunità carcerarie, come emerso in commissione, è proprio l’alto numero di detenuti con disturbi mentali che dovrebbe stare in un altro posto, seguire un altro percorso. Oggi dovevamo parlare di San Gimignano, alla luce dell’inchiesta che è stata avviata, ma abbiamo avuto una panoramica su tutte le strutture, che ha evidenziato una grave carenza da parte della Regione. Non possiamo abbandonare né i detenuti, né i pazienti, né tutto il personale che lavora in queste strutture, e che ogni giorno affronta situazioni precarie al limite del pericoloso”. “Dalla Regione ci dicono che la Rems del Pozzale di Empoli non aprirà fino a febbraio 2020, cioè a 3 anni quasi esatti dalla chiusura dell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino: da tre anni la Regione non riesce a riaprire una struttura che sarebbe fondamentale per la cura e la gestione di detenuti particolarmente complessi. Non sappiamo a che punto siano i lavori di ristrutturazione, sappiamo solo che la struttura doveva essere pronta prima della chiusura dell’Opg, infatti è chiusa del 2016. C’era un piano da 800.000 euro, ma la Regione ha avuto dalla Stato 11,5 milioni per provvedere alla chiusura dell’Opg. Nei prossimi giorni chiederò spiegazioni dettagliate su quei fondi, voglio sapere come sono stati utilizzati”. “Dalla rilevazione dell’Ars risulta che su 3100 detenuti, 912 hanno presentato almeno un disturbo psichiatrico. Le diagnosi prevalenti sono disturbi da dipendenza di sostanze (14%), il 5,4% presenta disturbi nevrotici e di adattamento, disturbi di personalità e comportamento (4%), il 3,5% sono alcol-correlati, il 2,9% è affetto da disturbi affettivi psicotici e l’1,5% depressivi non psicotici, oltre a un 3,5% di detenuti che presentano sintomi e sindromi non classificate. Ma le strutture, sia carcerarie che Rems - conclude l’esponente della Lega - dovrebbero aiutare detenuti e pazienti a rientrare nella comunità, a guarire: in questa situazione, nessuno migliora, e il personale è continuamente sotto stress. Ho letto delle proteste di Corleone: evidentemente non siamo gli unici ad esserci accorti che in Toscana ci sono gravi carenze da gestire e ritardi inaccettabili”. Roma. Allo Spallanzani un “ambulatorio di continuità” per chi esce dal carcere romasette.it, 17 ottobre 2019 Ad accesso diretto, senza prenotazione, è rivolto alle persone che hanno bisogno di proseguire il percorso terapeutico intrapreso negli istituti di pena. Un “ambulatorio di continuità” destinato all’assistenza dei pazienti ex detenuti è stato attivato dall’Istituto Spallanzani ed è il primo della regione Lazio. Le cure sono rivolte alle persone che escono dal carcere e hanno bisogno di proseguire il percorso terapeutico intrapreso all’interno degli istituti di pena e mirano anche a non compromettere i risultati di controllo delle malattie infettive raggiunti grazie all’assistenza infettivologica organizzata nei penitenziari durante il periodo di detenzione. “Questa iniziativa - spiega il Garante dei detenuti di Lazio e Umbria Stefano Anastasìa - si propone di evitare che le persone in terapia per infezione da Hiv, Hbv, Hcv e tubercolosi all’uscita dal carcere si trovino senza alcun riferimento e, nell’attesa di appuntamenti presso ambulatori dedicati, possano restare senza terapia e interrompere un percorso clinico e terapeutico che garantisca la salvaguardia del loro stato di salute che si è tentato di costruire durante il periodo detentivo, anche alla luce del percorso riabilitativo”. L’interruzione del percorso clinico terapeutico infatti crea un danno alla persona malata e potrebbe creare un problema di salute pubblica perché, non completando i cicli di cura, i pazienti possono costituire una fonte di trasmissione di malattie infettive. L’ambulatorio è gestito dagli specialisti infettivologi dello Spallanzani ed è attivo come sportello ad accesso diretto, senza prenotazione dal lunedì al sabato dalle 8.30 alle 13, in via Portuense 292 (informazioni allo 06-55170239/267). “Si tratta di un servizio e di una sperimentazione molto importanti - commenta Anastasìa. Sappiamo che il carcere costituisce spesso il primo accesso ai servizi sanitari per patologie pregresse e non diagnosticate. È importante che quel contatto, quella presa in carico, quella relazione fiduciaria che si è stabilita in carcere tra sanitari e paziente abbia una continuità anche fuori dalle mura. Per questo sono grato alla direzione dello Spallanzani per questa iniziativa che spero possa diffondersi anche in altri contesti del territorio regionale”. L’Istituto Spallanzani è vicino ai bisogni della popolazione carceraria da molti anni con un servizio di assistenza ai detenuti che prevede l’erogazione di assistenza sanitaria alle persone affette da patologie infettive e ristrette nelle carceri romane. Il servizio è regolato dalle convenzioni stipulate con le Aziende sanitarie locali competenti per territorio. “Attivo già dal 2000 - spiega una nota dell’Istituto -, il servizio svolge attività di consulenza infettivologica presso l’area penitenziaria di Rebibbia e la Casa circondariale Regina Coeli, con accessi tri-settimanali. La popolazione carceraria di questi istituti rappresenta gran parte della popolazione carceraria della regione Lazio. Il modello assistenziale adottato garantisce una reale parità di trattamento tra individui detenuti, anche grazie a specifici percorsi diagnostico-terapeutici e l’appropriatezza delle prestazioni, secondo criteri e protocolli validati dalla comunità scientifica”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Condotta idrica per il carcere: la gara d’appalto di Antonio Tagliacozzi edizionecaserta.com, 17 ottobre 2019 Scadranno il 20 novembre prossimo i termini per la presentazione delle offerte per la partecipazione alla gara di appalto per la realizzazione di un condotta idrica al servizio della casa circondariale e delle due aule bunker di santa Maria. L’importo a base d’asta è stato fissato in un milione e 400 mila euro e l’appalto sarà aggiudicato con il criterio dell’importo più conveniente. Quindi, dopo oltre dieci anni di promesse e ritardi, qualcosa inizia a muoversi per la eliminazione della carenza idrica al carcere di massima sicurezza “Generale Uccella” che ospita 940 detenuti su una capienza massima di 833, 478 agenti di polizia penitenziaria e circa altre cento figure professionali. Il carcere non è senza acqua, ma non è attaccato alla rete idrica cittadina e questa “mancanza” crea qualche problema di approvvigionamento che risale alla sua costruzione e da allora si è andati avanti con pozzi artesiani, autobotti e… bottiglie di acqua minerale. Gli uffici comunali competenti, infatti, hanno in precedenza liquidato oltre 52 mila euro ai tecnici che hanno approntato e consegnato gli atti per l’inizio dei lavori quali progettazione, relazioni geologiche, sondaggi ed altro. La gara per l’affidamento del servizio di progettazione e di tutte le indagini connesse è stata aggiudicata al Rtp (Raggruppamento temporaneo di persone) studio tecnico Colosimo ed altri che ha offerto un ribasso, sull’importo fissato in complessivi 96 mila euro e 600, del 39,25 per cento determinando l’importo netto di aggiudicazione in 58 mila 684 e 50 oltre Iva e cassa Previdenza per complessivi 15 mila 774,00 euro. È stato il primo atto concreto, questo, per la soluzione del problema che negli ultimi anni è stato più volte denunciato e al centro di vibrate proteste da parte dei detenuti e dei difensori dei loro diritti che hanno posto in essere una serie di iniziative che sono valse a smuovere la burocrazia e concretizzare tutte quelle iniziative necessarie per risolvere la questione. Il finanziamento dei lavori per l’allacciamento alla rete idrica comunale della casa di massima sicurezza e le due aule bunker è a carico della Regione che ha già stanziato i soldi con una deliberazione dell’aprile del 2016 (un milione e mezzo di euro) ed ora quanto prima si dovrà passare alla fase operativa per la eliminazione del problema. Certo, ancora molto vi è da fare, siamo solo in una fase preliminare, ma le intenzioni ci sono e basta velocizzare solo le procedure per allacciare finalmente la casa circondariale ed il suo complesso alla rete idrica comunale. Massa Marittima (Gr). In carcere si impara l’arte dell’apicultura Il Tirreno, 17 ottobre 2019 Nel carcere di Massa Marittima i detenuti stanno imparando l’arte dell’apicultura grazie ai corsi organizzati dalla cooperativa “Together Let’s Help the Community!”. Si tratta di un progetto che vuole accompagnare i reclusi in un reinserimento graduale nel mondo del lavoro e in società. In particolare, la cooperativa produce un miele millefiori di alta qualità tramite la collaborazione con i detenuti della casa circondariale di Massa Marittima. Due detenuti in particolare si stanno formando da maggio scorso grazie a un percorso della durata di un anno e che terminerà nel maggio 2020. L’obiettivo, nel tempo, è l’assunzione aumentando le attività produttive. Le api ligustiche, allevate nelle 22 arnie di cui dispone l’associazione mutualistica, vivono in un contesto tranquillo, lontano dal traffico e dallo smog, immerse nel verde delle Colline Metallifere. “Senza aggiunta di antibiotici o uso di prodotti chimici, unitamente all’ambiente tranquillo - dice l’associazione - l’obiettivo è creare un prodotto salubre e genuino, rispettando i limiti imposti da legge. Si unisce, dunque, la qualità insieme a un atto di bene significante per la comunità. Perché è importante credere nelle seconde possibilità”. Per ulteriori informazioni, è possibile contattare la cooperativa all’email info@coopthc.org, visitare il sito internet coopthc.org o cercare il prodotto, tra tanti altri di eguale valore sociale, sul sito del ministero della Giustizia nella sezione “Vetrina dei prodotti dal carcere” dove si può conoscere nel dettaglio anche il miele massetano. Bologna. Dibattito sulla giustizia riparativa con Garanti e magistrati di Cristian Casali cronacabianca.eu, 17 ottobre 2019 La giustizia riparativa (restorative justice), con un focus sulla situazione e sulle prospettive in Emilia-Romagna, è il tema che verrà approfondito nell’incontro programmato per il prossimo venerdì, 18 ottobre, a Bologna, nella sala 20 maggio 2012 di viale della Fiera 8, dalle 9 alle 18. Allo stesso tavolo i massimi esperti nazionali e internazionali della materia, tra i quali Adolfo Ceretti dell’Università di Milano-Bicocca, il fondatore dell’associazione Sulle Regole Gherardo Colombo, Rossella Selmini dell’Università di Bologna e Michael Tonry dell’Università del Minnesota. La giustizia riparativa è una pratica innovativa che mette al centro i danni provocati alla vittima, conseguenti al reato, e ha come obiettivo l’eliminazione di queste conseguenze attraverso l’attività riparatrice intrapresa dallo stesso autore del reato. Nel pomeriggio relazioneranno sul tema giurisdizione e innovazione i magistrati Francesco Maria Caruso, Giuseppe Spadaro, Silvia Marzocchi e Antonietta Fiorillo, oltre a Maria Pia Giuffrida dell’associazione Spondè, Maria Rosa Mondini del Centro italiano mediazione e formazione alla mediazione (Cimfm) e i Garanti regionali dei detenuti e dell’infanzia, Marcello Marighelli e Clede Maria Garavini. L’evento è infatti stato organizzato dagli uffici dei due Garanti regionali e dal centro per la giustizia minorile e ufficio interdistrettuale di esecuzione penale esterna per l’Emilia-Romagna e le Marche (ministero della Giustizia), in collaborazione con il dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università di Bologna e l’Associazione italiana dei magistrati per i minorenni e per la famiglia. Considerato il grande interesse suscitato dal tema e le enormi potenzialità di intervento, con questo incontro si vuole appunto dare impulso a pratiche innovative in ambito penale, rivolte sia a persone minorenni sia adulte, per favorire il confronto tra i diversi attori in campo. Trento. Torna “Fa’ la cosa giusta”: dal muro parlante all’economia carceraria ildolomiti.it, 17 ottobre 2019 Nei padiglioni di via Briamasco la Fiera aprirà i battenti venerdì 18 dalle ore 14.30 alle ore 18.30, sabato 19 e domenica 20 ottobre dalle ore 9 alle 19. Un’occasione per conoscere tantissime esperienze e partecipare a laboratori. Dall’agricoltura biologica ai prodotti ecocompatibili per la casa e la persona, dal risparmio energetico al turismo dolce, dalle energie alternative alla mobilità sostenibile. Torna anche quest’anno nei padiglioni di Trento Expo una delle fiere più attese in Trentino e non solo. Stiamo parlando di “Fa’ la Cosa Giusta! Trento” arrivata alla quindicesima edizione. Un’occasione importante per conoscere, informarsi e per scoprire le migliaia di proposte per abbassare il nostro impatto ambientale. I visitatori, dal 18 al 20 di ottobre, potranno trovare tutto quello che serve nella vita di tutti i giorni, con il solito contorno di laboratori, ristorazione bio, e attività per i bambini. Tantissime le iniziative all’interno di questa fiera a partire dall’Economia carceraria. Per tutta la durata dell’evento vi sarà una sezione dedicata alle cooperative che producono in carcere o impiegano persone ex detenute e l’allestimento della “cella in piazza” dell’associazione La Fraternità di Verona. Venerdì 18 dalle 17 alle 18:30 avrà luogo la tavola rotonda dal titolo “Fare impresa in carcere. Il lavoro dei detenuti conviene a tutti. Esperienze, riflessioni ed opportunità”, un’opportunità di incontro tra l’imprenditoria trentina e le realtà che quotidianamente fanno impresa in carcere. Sabato 19 ottobre dalle 15.30 alle 18.30, sempre all’interno della fiera, sarà inoltre realizzata una nuova edizione dell’evento Biblioteca Vivente “Narrazioni oltre le mura del carcere”. I visitatori potranno “prendere in prestito” un “libro umano”, conversando a tu per tu in maniera informale con persone che nella quotidianità non avrebbero occasione di incontrare. I libri umani saranno principalmente detenuti o ex detenuti, ma anche familiari e operatori del carcere. A non mancare quest’anno saranno anche le scuole. Insegnanti, studenti, classi, associazioni legate ai temi della sostenibilità ambientale. I lavori in tema di sostenibilità realizzati nel corso dell’anno scolastico 2018-2019 verranno proposti in mostra ai visitatori della Fiera. Saranno collocati nello spazio scuole, al piano seminterrato. Ci sarà poi, tra le tante esperienze, anche “Nei piedi dell’Altro”. Si tratta di un muro “parlante” sui cambiamenti climatici e le migrazioni umane creato da un gruppo di circa 20 giovani trentini in collaborazione con varie realtà del territorio. Realizzato con scatole da scarpe e scatoloni, l’installazione artistica si inserisce nell’ambito del progetto “Giovani: nuovi narratori e attori della cooperazione allo sviluppo”, un’iniziativa nazionale di Educazione alla Cittadinanza Globale finanziata dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione e lo Sviluppo e coordinata, in Trentino, dal Centro per la Cooperazione Internazionale e l’Associazione Viraçao & Jangada. L’inaugurazione di questa iniziativa avverrà il venerdì ore 17.30 con la performance teatrale di un gruppo di 10 studenti delle scuole superiori trentine che partecipano al progetto “Visto Climatico”. Ci sarà poi “Kids Go Green - scopriamo il mondo a piccoli passi” un viaggio collettivo e sostenibile di circa 9 mila chilometri alla scoperta delle città europee che hanno scommesso sulla mobilità sostenibile. L’esperienza di Kids Go Green, gioco didattico all’insegna della mobilità sostenibile, già attivo in numerose scuole del Trentino e dell’Emilia Romagna, viene portata in fiera. Kids Go Green (kidsgogreen.eu) è uno strumento ludico-didattico innovativo, sviluppato da Fondazione Bruno Kessler in collaborazione con Kaleidoscopio e il Comune di Trento, che coinvolge l’intera comunità scolastica (bambini, insegnanti e famiglie) in un percorso ludico-didattico alla scoperta del mondo e all’insegna di una mobilità casa-scuola più sostenibile. La sfida per i visitatori della fiera Fa’ La Cosa Giusta di Trento è riuscire a percorrere un viaggio virtuale in Europa alla scoperta di 10 città che hanno puntato su soluzioni innovative di mobilità sostenibile. Tutti i visitatori che raggiungeranno la fiera utilizzando mezzi sostenibili (a piedi, in bici o con i mezzi pubblici) contribuiranno con i loro kilometri ad avanzare nel percorso virtuale Kids Go Green. I visitatori, per partecipare al viaggio collettivo, possono recarsi allo stand Kids Go Green e dichiarare il modo sostenibile con cui hanno raggiunto l’evento. In occasione della “Fiera Fa’ la cosa giusta! Trento” è stato esteso a educatori e formatori, insegnanti e docenti, l’invito ad un primo incontro per provare a costituire il gruppo dei “Teachers for future trentino” che avrà lo scopo di affiancare gli studenti dei “Fridays for future” in particolare per quanto riguarda uno dei punti del loro programma di azione per contrastare il cambiamento climatico che è quello sulla Formazione e coordinamento tra scuole ed enti formativi ai vari livelli. L’appuntamento è per sabato 19 ottobre dalle 15.00 alle 17.30 al piano interrato. Pisa. Si alza il sipario sulla “Scuola di Teatro Don Bosco” per detenuti pisatoday.it, 17 ottobre 2019 L’appuntamento è per venerdì 18 ottobre presso il Mercure Tirrenia Green Park di Calambrone. Gli allievi e le allieve detenuti presso la Casa circondariale Don Bosco, il 18 ottobre, a partire dalle 13, presso il Mercure Tirrenia Green Park di Calambrone, presenteranno pubblicamente, in forma di recital, una selezione di poesie di Alda Merini. L’occasione per lo spettacolo curato dalla compagnia “I sacchi di sabbia”, è data dal meeting “Ti insegnerò a volare”, organizzato dalla Fondazione Casa Cardinale Maffi onlus con il patrocinio di Regione Toscana, Università di Pisa e Azienda Usl Toscana Nord ovest. Lo spettacolo avrà nel parterre, ospiti di eccezione e partecipanti al meeting come il rettore Paolo Mancarella, l’arcivescovo Giovanni Paolo Benotto, il vice presidente della Regione Toscana con delega al welfare Stefania Saccardi. Dalla compagnia teatrale “I sacchi di sabbia” commentano: “È questa una importante occasione di visibilità per i ragazzi, impegnati da qualche anno in un intenso corso di preparazione teatrale, ed è una meritata gratificazione per quest’esperienza che sta diventando punto di riferimento stabile nelle attività della Casa Circondariale Don Bosco, rivelandosi uno strumento che può realmente contribuire al recupero psicosociale, emotivo, culturale del soggetto detenuto e partecipare, così, alla funzione riabilitativa e rieducativa della detenzione”. Il recital segna il continuum del progetto della Scuola di teatro Don Bosco, presentato dall’Associazione Culturale e Compagnia Teatrale pisana I Sacchi di Sabbia, grazie al contributo della Regione Toscana e della Fondazione Pisa, attraverso il bando pubblico dedicato al sostegno delle attività culturali, sociali e di volontariato. Le lezioni appena ripartite, grazie all’impegno e professionalità di Francesca Censi (coordinatrice dei corsi), Gabriele Carli, Carla Buscemi e la nuova entrata, Letizia Giuliani, ruoteranno in questa prima fase dell’anno accademico, intorno alla parola poetica; attraverso le poesie di Alda Merini gli allievi detenuti lavoreranno sul tema dell’ascolto e della sensibilizzazione all’immagine poetica. Il lavoro della Scuola approderà poi, nella seconda parte dell’anno, nell’allestimento dello spettacolo “In Alto mare” di Mrozek, il cui debutto in forma di studio è previsto durante la giornata nazionale del teatro in carcere prevista per la fine di marzo. Como. I classici della musica dentro e fuori il Bassone quicomo.it, 17 ottobre 2019 Il 21 ottobre aperitivo a Como con la vita di Johnny Cash Eventi a Como. Il carcere chiude le sue porte e difficilmente permette la comunicazione tra dentro e fuori creando in questo modo una sorta di “isola” separata dalla società civile a qualche chilometro dalla città di Como. Da quasi due anni, l’associazione culturale Bottega Volante apre metaforicamente queste porte per far uscire i commenti scritti di un gruppo di detenuti che hanno letto alcuni romanzi classici e non. Il progetto si chiama I Classici dentro e fuori il Bassone e, libro dopo libro, ha dimostrato una valenza notevole sia per i detenuti, che scoprono o ri-scoprono il piacere della lettura, il dibattito costruttivo e l’incontro con persone esterne, sia per i lettori liberi, che perdono alcuni preconcetti e pregiudizi legati al mondo della detenzione e leggono punti di vista diversi su celebri romanzi. Nell’estate 2018 la Bottega Volante ha aiutato l’amministrazione penitenziaria nell’organizzazione della Giornata nazionale della musica nelle carceri. La musica è entrata tra le sbarre per creare un momento di convivialità tra i detenuti, diventando quindi notevole strumento di socializzazione in un contesto drammatico come la prigione. Alcuni musicisti si sono prestati gratuitamente per questa giornata e ora, all’Officina della Musica di Como, aiutano ancora una volta l’associazione a portare avanti il progetto sui Classici. Per l’edizione 2019 Bottega Volante ha ricevuto un contributo dalla Fondazione Cariplo. Ma come tutti i finanziamenti da bando, una quota deve essere co-finanziata. Grazie alla donazione di alcuni imprenditori del territorio tre quarti di questa cifra è stata raccolta ma ora c’è bisogno dell’aiuto di tutti. Per questo motivo Bottega Volante ha organizzato un aperitivo solidale, un fund-raising dedicato ai libri e alla musica. L’appuntamento è atteso lunedì 21 ottobre alla Officina della Musica di Como. La gastronomia per l’aperitivo sarà curata da Max Pini de “Il cibo raccontato”. Suoneranno per il progetto la Mosquitos Band e Cristiano Paspo Stella. Maurizio Pratelli ci guiderà invece in un affascinante percorso dentro la vita, tanto geniale quanto tormentata, di un grande della musica, Johnny Cash, intitolato “Man in Black, Wine in Red”. “Questo grande uomo in nero - racconta Pratelli - non ci ha lasciato solo grandi canzoni fino all’ultimo giorno - riascoltatelo cantare Ain’t No Grave con la voce consumata dal tempo eppure ancora così vera da renderla immortale - ma tutta una vita su cui riflettere. Una vita vissuta con due porte sempre aperte: quella di una prigione e quella di una chiesa. Ogni volta che le ha varcate, Cash lo ha fatto da “onesto fuorilegge”. Soprattutto quando ha voluto, a dispetto della sua casa discografica, suonare alla prigione di Folsom. Proprio lì, Johnny Cash registrerà uno dei suoi album di maggior successo: At Folsom Prisom dove canterà anche Greystone Chapel, una canzone scritta da un detenuto. Se Johnny Cash fosse stato un vignaiolo, probabilmente avrebbe fatto Barbera nel cuore del Monferrato. E certamente sarebbe stato un magnifico produttore fuorilegge del Piemonte, se è vero, come cantava Bob Dylan in Absolutely Sweet Marie, che per vivere fuori dalla legge devi essere onesto”. Torino. L’ovale delle libertà, nel carcere delle Vallette cresce La Drola Rugby di Timothy Ormezzano Corriere di Torino, 17 ottobre 2019 Sono 30 i detenuti ora seguiti dai tecnici del VII Torino. E c’è chi andrà in permesso ad allenarsi e lavorare. Pasquale ha trascorso gli ultimi sei dei suoi trentacinque anni dietro alle sbarre per una rapina. Ha ancora quattro anni abbondanti da scontare. Anzi, quattro campionati. Perché le parole sono importanti, a volte fanno la differenza. Pasquale è il capitano de La Drola, la prima squadra di rugby composta da trenta detenuti - ex ladri o spacciatori - che dal 2011 è iscritta al campionato regionale di Serie C2. È uno degli appena due italiani nello spogliatoio multietnico, formato da giocatori di sette nazionalità e di quattro culti religiosi. Giocano sempre in casa (circondariale), tra le mura più o meno amiche del carcere Lorusso e Cutugno. E dopo la partita si concedono un terzo tempo a base di bibite analcoliche. No, niente birra. Pasquale, originario di Matera, è arrivato a Torino quattro anni fa grazie a un bando nazionale di reclutamento per integrare la squadra. “È un grande trascinatore”, dicono di lui, che ha fatto suo quel concetto di sostegno al centro del rugby. Il suo unico rimpianto è non aver cominciato prima: “Pasquale mi ha detto che se avesse giocato a rugby da bambino non sarebbe mai finito in galera. Lo sport aiuta a riacquisire le regole perse durante l’adolescenza. Gli è anche venuta voglia di studiare, si è appena iscritto a Scienze Politiche”, spiega Walter Rista, presidente di “Ovale tra le sbarre” nonché ex gloria dell’Ambrosetti Torino Rugby e ultimo torinese a vestire la maglia della Nazionale, tra il 1968 e il 1970. A proposito, Pasquale da quest’anno indosserà una casacca interamente nera, come quella mitica degli All Blacks. Sulla manica avrà il logo del VII Rugby Torino, società di Settimo molto impegnata nel sociale che ieri ha firmato un protocollo di intesa con il carcere Lorusso e Cutugno per mettere a disposizione la sua competenza tecnica. La Drola continuerà ad allenarsi tre volte alla settimana sul campo, più due sedute in palestra. Ma potrà contare sulla guida di due giocatori del VII con il patentino da allenatore, il trequarti Andrew Robb Fraser e il terza linea Sebastiano Lo Greco, con la supervisione del coach Troy Nathan e del direttore tecnico Chris De Mejer. E visto che da cosa nasce cosa, si lavora affinché qualche detenuto possa andare nel quartier generale del VII per allenarsi o per collaborare nella manutenzione di campi e impianto. L’affiancamento, cominciato ad agosto, ha già dato i primi frutti: La Drola ha pareggiato un’amichevole contro San Mauro, squadra di Serie C1. Dopo il quinto posto ottenuto l’anno scorso, domenica comincerà il nuovo campionato contro Volvera. Pasquale e compagni intanto contano i giorni che li separano dal 28 novembre, quando andranno a giocare una sfida speciale in trasferta, in casa del Giallo Dozza, la squadra del carcere di Bologna che nel primo match di due anni fa superò (1814) la Drola. “Questa partita richiede uno sforzo organizzativo notevole, visto che si sposteranno trenta detenuti tutti molto ben messi fisicamente”, sottolinea Domenico Minervini, direttore della casa circondariale Lorusso e Cutugno. Banale ma inevitabile: quando lo sport è evasione. Si insegue una palla ovale per non pensare più di tanto a quello che è stato. Si lotta per andare in meta, ma dentro di sé ognuno ne ha una più grande: saper cogliere al meglio la seconda occasione, riuscire a cambiare il proprio destino. Il progetto La Drola ha diminuito le recidive tra gli ex detenuti-rugbisti dal canonico 65% a meno del 20%. Agrigento. I pizzaioli agrigentini solidali con i detenuti del “Petrusa” di Gaetano Ravanà La Sicilia, 17 ottobre 2019 L’iniziativa della Cifa. “Pizziata in compagnia”, ha riscosso un grande successo. Si conclude oggi nel carcere agrigentino di contrada Petrusa l’evento “Pizziata in compagnia”, due giorni solidali in favore dei detenuti tra degustazione della “Pizza di Qualità Siciliana” e spettacoli dei pizzaioli acrobatici. L’iniziativa è stata promossa dalla Cifa Unione Pizzaioli Italiani in collaborazione con Eap-Fedarcom e la casa circondariale “Pasquale Di Lorenzo” di Agrigento nell’ambito del progetto “Aquilone” finalizzato all’inclusione e all’inserimento socio-lavorativo delle persone in esecuzione penale. “Iniziative come questa sono importanti - ha detto il direttore della casa circondariale Valerio Pappalardo - per non perdere la speranza e per poter avere momenti di collegamento con la società esterna. Occorre assolutamente scommettere sulla possibilità di un recupero. In tal senso, momenti di contatto con la comunità in cui una persona tornerà a vivere dopo aver scontato il suo debito con la giustizia, a mio modesto avviso, appaiono del tutto fondamentali”. A preparare ieri e oggi più di cinquecento pizze per i detenuti e per il personale della struttura penitenziaria i pizzaioli Giuseppe Agozzino, Paolino Bucca, Francesco Bumbello, Pietro Caruana, Dario Catalano, Giuseppe Cuffaro, Andrea Giannone, Gianluca Graci, Emanuele Gueli, Claudio Leocata, Antonio Lupo, Michele Lupo, Antonino Plano, Gaetano Sferlazza; unica donna davanti al forno Simona Lauri, maestro e formatore di arte bianca di fama nazionale già autrice di quattro libri. La Cifa Unione Pizzaioli Italiani, tramite il presidente Stefano Catalano che ha coordinato l’iniziativa, “ringrazia per la preziosa collaborazione il direttore della casa circondariale Valerio Pappalardo, il capo area educativa Maria Clotilde Faro, il sostituto capo area educativa Giuseppe Di Miceli e il comandante di reparto Giuseppe Lo Faro. Questa iniziativa fa parte di un più grande progetto di formazione finalizzato al reinserimento sociale e lavorativo. Realizzeremo un laboratorio di pizzeria all’interno della struttura penitenziaria e alcune delle persone che parteciperanno al corso di formazione per pizzaioli avranno poi la possibilità di essere assunte da una cooperativa sociale”. Il seme dell’odio germoglia nelle chat neonaziste di Sofia Ventura La Stampa, 17 ottobre 2019 Proprio il 16 ottobre esce sul sito della Stampa di Torino una notizia sconvolgente. “Proprio il 16 ottobre” perché, anche se spesso dimenticata, quella è la data del rastrellamento degli ebrei del ghetto di Roma, avvenuta nel 1943. 1024 persone, tra donne, bambini, uomini, strappate alle loro vite, condotte ad Auschwitz attraverso un viaggio terribile e lì per la maggior parte subito inviate alla morte. Solo 16 tornarono. Un evento della nostra storia che dovrebbe puntellare con forza la nostra memoria, ma troppo spesso ci accorgiamo che quella memoria, e soprattutto la consapevolezza di quel passato, sembrano perdersi in un tempo presente dove ogni follia trova spazio. Anche tra i giovani. Tra quei ragazzi - questo è il fatto al quale facevamo cenno nelle prime righe -, ad esempio, che da una chat raccapricciante, gestita da due quindicenni di Rivoli, presso Torino, intitolata “The Shoah Party” (sic!), diffondevano foto di estrema violenza e brutalità, si scambiavano video hot e frasi inneggianti all’Isis, a Hitler e Mussolini e commenti violenti contro ebrei e migranti. Una marmellata malefica, che ci dice degli abissi che può aprire l’ignoranza e la fragilità degli adolescenti e degli spazi che le nuove tecnologie possono offrire a tutto questo. A questo proposito non si tratta di demonizzare la tecnologia e le possibilità che essa offre. Ma è un fatto che la facilità di raccogliere qualunque materiale sul web e di scambiarselo, di costruirsi reti virtuali (spesso bolle virtuali), di attingere alle fonti più radicali ed estremiste è un fenomeno ben noto non solo agli studiosi, ma anche a chi lavora per prevenire atti violenti e terroristici, radicalizzazioni. Razzismo, antisemitismo di estrema destra, antisemitismo islamista, propaganda neonazista e propaganda a favore del terrorismo islamico, propaganda populista, spesso si incontrano in quelle bolle. Interagiscono perché il loro discorso si fonda su meccanismi retorici simili: le élite nemiche, il “diverso” nemico, gli stereotipi dell’immigrato e dell’ebreo come strumenti di diffusione dell’odio sempre efficaci, Israele come l’incarnazione del male, il complottismo, spesso tanto più creduto quanto più incredibile. Anche una distorta concezione dell’idea dell’eroismo, dove si perde completamente la capacità di distinguere il bene dal male. Psicologi e sociologi ci potrebbero spiegare come sia possibile che quei ragazzi, probabilmente ragazzi “normali”, ora indagati in una inchiesta che sta coinvolgendo diverse regioni, abbiano potuto creare o lasciarsi coinvolgere in una situazione di così grave degenerazione. Tuttavia, dovremmo anche interrogarci su quanto la nostra società sia in grado di creare anticorpi per fenomeni del genere. Quanto vi sia sempre e prontamente una reazione ad espressioni pubbliche di stigmatizzazione del diverso, di razzismo e di antisemitismo. Da qualunque parte provengano, comunque siano espresse o “mascherate”. Ma anche quanto come società, attraverso la scuola, le famiglie, i media, sappiamo insegnare la distinzione tra il bene e il male, la storia e il suo significato, la cronaca e il suo significato, perché anche la cronaca ci restituisce di continuo troppi orrori. Forse quei ragazzi hanno appreso della Shoah attraverso un videogioco. Nessuno gli ha mai regalato un libro di Primo Levi o di Elie Wiesel. O gli ha consigliato anche un banale Shindler’s List da guardarsi nel suo pc. Quella terribile chat forse dice molto non solo di un mondo di adolescenti che sfugge agli adulti, ma anche di una società che non sa più raccontare e riconoscere il male. Export di armi, dove e perché violiamo le leggi italiane e dell’Onu di Domenico Affinito Corriere della Sera, 17 ottobre 2019 È noto: una parte delle bombe piovute in testa ai curdi siriani sono made in Italy. Negli ultimi quattro anni le forniture di armi ad Ankara sono state un crescendo: 128,8 milioni nel 2015; 133,4 nel 2016; 266,1 nel 2017 e 362,3 nel 2018. Elicotteri da guerra, sistemi di precisione, bombe, razzi, missili e armi da fuoco per un totale di 890,6 milioni. La Turchia è nella Nato, è un forte partner commerciale e politico dell’Europa, non è sottoposta ad alcun embargo e compra i nostri armamenti, tutto legale quindi? Export armi: i vincoli di legge - Non proprio. La legge 185 del 9 luglio 1990 vieta l’esportazione e il transito di materiali di armamento verso Paesi in conflitto, a meno che non siano stati aggrediti da altri Paesi (come stabilisce l’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite), verso Paesi la cui politica contrasti con i principi dell’articolo 11 della Costituzione e verso Paesi i cui governi siano responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, accertate Onu, Ue o Consiglio d’Europa. Che Ankara violi sistematicamente i diritti umani è un fatto, come lo è l’eterno conflitto con il popolo curdo al confine sud della Turchia. Insomma, non dovremmo vendergli armi da guerra, eppure lo facciamo. Lo fa la Germania, la Francia, l’Olanda. Ora che l’indignazione è esplosa stanno tutti preparando il decreto di sospensione. Un decreto di facciata poiché riguarda le forniture future, mentre i contratti in corso saranno rispettati. Vuol dire che continueremo a vendere almeno per tutto il 2020. Ma quello della Turchia è un caso isolato? Difficile dirlo, perché il mercato delle armi, come quello del petrolio non è per nulla trasparente. Le opacità dell’Italia - L’Italia rispetta alcune disposizioni internazionali, non produciamo e stocchiamo armi biologiche, chimiche, nucleari o mine antiuomo, ma è molto opaca rispetto ad altre normative. Il nostro Paese, ad esempio, viola il Trattato Onu sul commercio delle armi. L’articolo 13, infatti, prevede che ciascun Stato presenti annualmente un rapporto sulle autorizzazioni o effettive esportazioni e importazioni. Bene, l’Italia ha presentato i propri dati all’agenzia dell’Onu Unroca fino al 2009. Da allora risultano solo i report 2013 e 2014. Siamo, insieme al Lussemburgo il paese europeo più inadempiente. A livello globale siamo in ottima compagnia, visto che nel 2018 solo 31 Stati hanno inviato il loro rapporto. Nel 2006 lo presentarono in 113. Questo dimostra che i trattati si firmano, e poi non si rispettano. Del resto non risultano applicate sanzioni. Un trend in crescita - L’unica documentazione che il Governo italiano presenta pubblicamente ogni anno, obbligatoria per legge, è la “Relazione sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento” e l’ultima è quella relativa all’anno 2018 (volume I, volume II). Cosa dice questa relazione? A chi vendiamo e quanto, ma non “cosa” vendiamo. Negli ultimi quattro anni (2015-2018) sono stati autorizzati trasferimenti di armi per 36,81 miliardi, cioè oltre 2 volte e mezzo in più rispetto ai 14,23 miliardi autorizzati nei quattro anni precedenti (2011-2014). L’anno scorso abbiamo venduto armamenti ad 80 Paesi. Nella classifica per importi troviamo il Qatar (1,92 miliardi), Pakistan (682 milioni), Turchia (362 milioni) ed Emirati Arabi uniti (220 milioni), poi c’è l’Egitto, l’Afghanistan, l’Iraq, il Marocco, la Nigeria. Il 72% di autorizzazioni è rivolto a Paesi non appartenenti alla Ue o alla Nato, contro il 57,5% del 2017, e oltre la metà nelle zone calde dell’Africa e del Medio Oriente. Ma, soprattutto, tra i principali destinatari figurano nazioni belligeranti, monarchie assolute, regimi che non rispettano i diritti umani, governi fortemente repressivi. Il problema delle triangolazioni - Tutte le autorizzazioni che passano dall’Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento presso il ministero degli Esteri (Uama), sono in teoria tracciate. La legge prevede che il destinatario finale non possa rivedere ad altri le armi se non espressamente autorizzato dalla Uama. La garanzia della correttezza del comportamento, però, in un foglio di carta che il cliente finale deve firmare e inviare al ministero degli Esteri entro sei mesi dalla consegna del materiale. Rivendere un elicottero o una corvetta è sicuramente complicato, altra cosa se si parla di partite di mitragliatrici, fucili d’assalto, pistole, munizioni. Chi garantisce che le armi inviate in Nigeria non finiscano anche nelle mani del gruppo terroristico Boko Haram? La nostra industria di armamenti da lavoro, incluso l’indotto, a circa 150.000 persone. Produciamo per il nostro esercito e le forze di polizia. Forniamo le pistole alla polizia statunitense, vendiamo armi e tecnologia alla Germania e alla Francia. Insomma è un’industria florida. La più importante è Leonardo, (con oltre 3,2 miliardi autorizzati), una società ad alto valore aggiunto, di media e alta tecnologia che agevola le relazioni internazionali, si ramifica in tanti altri settori come i sistemi spaziali e satellitari, quello navali e terrestri e nelle telecomunicazioni. Ma, soprattutto, garantisce all’Italia visibilità e presenza internazionale: nel 2018 le nostre forze armate hanno partecipato a 36 operazioni in 23 Stati di tre continenti, con un impiego medio di 6400 soldati. Segue Rwm Italia (quasi 294 milioni), Mbda Italia (234 milioni), Iveco Defence (quasi 200 milioni), Rheinmetall Italia (188 milioni), Beretta (76 milioni) e Piaggio Aero (58 milioni). Nel 2018 quasi il 70% del nostro mercato l’ha coperto Leonardo, che è controllata al 30% dallo Stato. In sostanza chi deve controllare è anche il controllato, ed è facile chiudere un occhio quando in ballo ci sono tanti soldi. Il caso Arabia Saudita - Quel che sta succedendo in Turchia ha avuto un precedente con l’Arabia Saudita. Il Paese degli emiri comprava dalla Rwm Italia con sede a Domusnovas, Sardegna, le bombe aeree Mk che le forze saudite hanno usato nella guerra in Yemen. I bombardamenti aerei hanno fatto 30.000 vittime civili secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani. Sono state sganciate bombe che formano crateri di circa 15 metri di diametro ed 11 di profondità, penetrano corazze di metallo di 28 cm o colate di cemento di oltre 3 metri di spessore, e spargono schegge di metallo nel raggio di 360 metri. Si tratta di forniture che il Parlamento europeo aveva chiesto di interrompere già nel febbraio 2016 a tutti gli stati membri, ponendo un embargo sugli armamenti destinati all’Arabia Saudita. L’Italia ha interrotto le forniture il 31 luglio scorso. Siamo il nono produttore mondiale - Secondo la classifica dello Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), l’Italia tra il 2014 e il 2018 è stato il nono Paese al mondo per export di armi, dietro a Israele, Spagna, Regno Unito, Cina, Germania, Francia, Russia e Stati Uniti, che sono i più grandi esportatori di armamenti di ogni tipo e coprono il 36% del mercato globale. Washington nel 2018 ha esportato per 10,5 miliardi di dollari e chiuso contratti per altri 55,6 miliardi: dal Sudamerica al Brasile al Medio Oriente, e di nuovo Pakistan, Afghanistan, Iraq, Arabia Saudita. Anche gli Usa hanno firmato il trattato Onu, e hanno molto a cuore la difesa dei diritti umani. Alla fine il giro si chiude: le armi prodotte dai Paesi Occidentali finiscono ad armare milizie e gruppi terroristici. Interi popoli ridotti alla fame o in fuga, e ogni Paese che con una mano ha contribuito alla distruzione, con l’altra dà il suo contributo agli aiuti umanitari. L’inferno degli avvocati detenuti in Turchia di Roberto Giovene Di Girasole Il Dubbio, 17 ottobre 2019 Il racconto della delegazione di legali italiani. Ho partecipato, su delega del C. N. F, insieme ad un gruppo composto da altri 14 avvocati provenienti da 7 Paesi europei, ad una missione conoscitiva (Fact-Finding Mission) che si è svolta ad Istanbul dal 13 al 15 Ottobre 2019 per chiarire le circostanze che hanno portato alle pesanti condanne, il 20 marzo 2019, di 18 avvocati turchi appartenenti all’associazione ÇHD, Çagdas Hukukçular Dernegi (Progressive Lawyers Association) attualmente detenuti, accertare le loro condizioni detentive all’interno del famigerato carcere di Sliviri (località a circa 70 KM dal centro di Istanbul) e verificare le gravi violazioni dei principi della parità tra accusa e difesa e del giusto processo sanciti dalle convenzioni internazionali. Il presidente dell’Associazione CHD Selçuk Kozagacli è stato condannato a 11 anni e 3 mesi di reclusione. La sentenza è stata emessa al termine di una udienza nel corso della quale non è stato consentito ai difensori di tenere le arringhe finali. Gli avvocati sono stati condannati per attività connesse alle loro funzioni di difensori e perché sono stati assimilati ai loro clienti e ad i reati di cui questi ultimi erano accusati. La Corte regionale di Istanbul ha rigettato l’appello, confermando tutte le condanne, senza un dibattimento pubblico. Tutti gli imputati hanno dichiarato che faranno ricorso alla Corte Suprema. Ci siamo ritrovati in piazza Taksim ad Istanbul alle ore 7,30 del mattino per recarci presso la prigione di Silivri, per avere il previsto colloquio con 4 dei 18 condannati: oltre al presidente dell’Associazione Selçuk Kozagacli, Behic Asci, Barkin Timtik, Ebru Timtik, (le ultime due avvocate sono anche sorelle). Nei giorni immediatamente precedenti avevamo fornito i nostri dati anagrafici ed il numero della tessera di avvocato ai colleghi di Istanbul che hanno organizzato la missione, al fine di raccogliere le nomine dei detenuti per intraprendere eventuali azioni innanzi alle giurisdizioni internazionali. Il carcere di Silivri è un sito molto grande che si compone di diverse aree e strutture all’interno delle quali vive una popolazione complessiva, ci dicono, di circa 23 mila detenuti, tra i quali alcuni rappresentanti di Al Queda. Si trova in un’area scarsamente abitata e gli edifici penitenziari sono per lo più bassi e tutto l’enorme complesso è, ovviamente, cinto da mura. Il contrasto tra il cielo azzurro intenso tipico del mese di ottobre che ha fatto da cornice alla nostra trasferta, la bellezza della natura circostante, per quanto aspra e priva di vegetazione significativa, e la severità della prigione e l’enormità del sopruso è stato subito evidente. Con il determinante aiuto delle colleghe e dei colleghi di Istanbul che ci accompagnavano abbiamo dovuto superare quattro successivi controlli, di cui uno anche con il sistema di riconoscimento elettronico visivo. Suddivisi in gruppi composti da due membri della delegazione e da un collega turco che fungeva da interprete, abbiamo avuto accesso alle sale colloqui, ed incontrare in successione i 4 detenuti, muniti solo di notes e penna. I detenuti accedono direttamente dall’interno e dietro la porta interna di ciascuna stanza colloqui resta una guardia penitenziaria che non perde d’occhio mai ciò che accade all’interno. I componenti della delegazione hanno avuto accesso dalla parte opposta. Selçuk Kozagacli è detenuto in isolamento dal novembre 2017. Le sue ripetute richieste di contatti occasionali con altri prigionieri sono state respinte. L’accusa ha fatto ricorso a numerosi testimoni segreti, dei quali non si conosce la vera identità e ad un testimone “aperto”, una sorta di pentito, la cui pena è stata ridotta in virtù delle sue dichiarazioni accusatorie nei confronti degli imputati. Nel mese di settembre 2018 gli imputati sono stati scarcerati ma, inopinatamente, il giorno successivo nuovamente arrestati, su richiesta del pm, su mandato della stessa Corte che li aveva rimessi in libertà, senza che venissero addotte nuove accuse. Nel cuore e nella mente restano le immagini e le parole di queste donne e questi uomini che con grande coraggio e dignità affrontano delle pesantissime quanto ingiuste pene detentive e la loro dura condizione di isolamento assoluto nella quale vivono, colpevoli solo di avere fatto fino in fondo il loro dovere di difensori. Restano i loro sguardi che chiedono di non dimenticarli e di non lasciarli soli. E noi non lo faremo. Siria. Così la battaglia sui detenuti jihadisti rischia di far rinascere il Daesh di Camille Eid Avvenire, 17 ottobre 2019 Lo scontro sta coinvolgendo le aree dove sono detenuti centinaia di miliziani del Daesh che sono riusciti a fuggire o potrebbero farlo, anche con l’aiuto di altri terroristi. Durante tutta la fase preparatoria della sua offensiva, Ankara ha cercato di rassicurare gli occidentali sulla sua intenzione di prendere in carico tutti i prigionieri del Daesh (o Isis) detenuti nelle carceri curde. Invece, sono molti gli elementi che inducono a ritenere che uno dei rischi maggiori dell’operazione turca contro i curdi è quello di resuscitare il Daesh, o perlomeno creare le condizioni per una riorganizzazione. Anzitutto, lo spostamento di molti miliziani curdi da sud verso il confine nord ha sguarnito tutta la fascia che va da Deir ez-Zor ad al-Bukamal in cui è più alta la minaccia del Daesh dove, a pochi chilometri oltre l’Eufrate, persistono ancora alcune sacche dei jihadisti. In secondo luogo, per una questione di ordinaria amministrazione. Finora, i 16 centri di detenzione del Daesh sono stati gestiti da due “autorità”: la Federazione curda del nord della Siria (6 centri) e il governo di Baghdad (9 centri), senza parlare dei numerosi campi civili in cui sono stati raccolti i familiari dei jihadisti. Solo un centro, invece, si trova nella città di al-Bab, nel territorio entrato sotto controllo dei ribelli cooptati da Ankara dopo l’operazione Scudo dell’Eufrate del febbraio 2017. Guarda caso, quello in cui si è verificata, nel settembre 2018, la fuga di alcuni detenuti, spariti poi nel nulla. Ora, dei sei centri che si trovano nella zona curda, solo tre si trovano dentro il raggio d’azione dichiarato (30-35 chilometri dal confine) dell’esercito turco. Si tratta dei centri di al-Malikiyah, nella punta orientale della Siria in cui sono detenuti 400 terroristi, di Qamishli e di Kobane, mentre rimarrebbero sotto gestione curda i centri di Ain Issa, Hassaké e Dashisha. Non solo sarebbe illusorio aspettarsi un passaggio delle consegne pacifico tra due forze che si stanno facendo la guerra, ma l’entrata in scena di un terzo “gestore” rischia di confondere le carte. Secondo una ricerca condotta negli anni scorsi, la Turchia è stata il punto di passaggio del 93% degli aspiranti jihadisti affluiti da mezzo mondo verso la Siria. Con o senza la complicità della polizia turca, molti hanno raggiunto il Califfato attraverso Gaziantep, Kilis e altri valichi di frontiera. Secondo il capo di stato maggiore americano, ancora nell’ottobre 2018, quando il territorio del Daesh era ormai ridottissimo, un centinaio di jihadisti attraversava ogni mese questo confine. Nessuna meraviglia se un analista del Center for Global Policy affermava pochi giorni fa che “il Daesh non avrà problemi a comprarsi la lealtà di queste forze, pagando tangenti per poter scappare”. E anche qui il gioco dei numeri impera: Erdogan dice al “Wall Street Journal” che “nessun detenuto lascerà la regione”, fonti del Cremlino parlano invece di “12mila prigionieri fuggiti dalle carceri del Nord”. Rimane comunque la minaccia diretta. Nel suo ultimo audio del 16 settembre, Abu Bakr al-Baghdadi ha esortato i suoi a raddoppiare gli sforzi per liberare i detenuti “dai campi della diaspora e le carceri dell’umiliazione”. Da alcuni mesi, i servizi notano un potenziamento della rete di supporto terroristica nella provincia di Hassaké, e mettono in guardia circa la possibilità di usare queste retrovie in assalti alle carceri nel nord della Siria. Lezione siriana, la brutalità degli stati centrali e la dinamite secessionista di Guido Rampoldi Il Manifesto, 17 ottobre 2019 Nessuno può condannare una minoranza oppressa se con l’indipendenza vuol sottrarsi agli artigli della tirannide. Ma contro le modifiche dei confini vanno incalzati i regimi. La diplomazia ventriloqua che circonda premurosamente Di Maio gli aveva fatto dire una cosa sensata, perfino intellegibile: l’Europa affronti Erdogan con una voce sola. Ma il passaggio successivo - cosa dire con una voce sola - si è rivelato un obiettivo troppo ambizioso per quell’Europa irrisolta, casuale come la vogliono i governi sovranisti dell’Unione. Quel che è peggio anche il nucleo storico della Ue pare incapace di produrre una proposta, un concetto strategico, una visione d’insieme con la quale affrontare non solo la guerra del Rojava ma più in generale i grandiosi sommovimenti che stanno terremotando il mondo ex ottomano. Dal Maghreb al Golfo tramonta il vecchio ordine e non si intravede il nuovo, se somiglierà all’Isis o piuttosto a quanto di meglio mostrarono le primavere arabe, se accoglierà l’opposizione nei parlamenti oppure nelle mai dismesse camere di tortura. Ma due cose sin d’ora sono perfettamente chiare. La prima: stanno tornando in discussioni molti confini. Si discute sottovoce se tripartire la Libia, lo Yemen è una poltiglia di territori, Il Sudan è stato spaccato, la destra israeliana vuole prendersi gran parte della West Bank, i tuareg ambiscono ad uno stato, la nuova frontiera tra Siria e Turchia sarà la linea del fronte: e siamo solo all’inizio di un’onda lunga che pare arrivata perfino nei Balcani, dove Croazia e Serbia già tramano per squartare definitivamente la Bosnia nel santo nome dell’autodeterminazione dei popoli. Qui sarà il caso di ricordare le parole con le quali il Segretario di Stato Robert Lansing tentò di distogliere il presidente Wilson dall’insano proposito di applicare intensivamente l’autodeterminazione dei popoli nei negoziati di pace del 1919-1920: quel principio, avvertì Lansing, “è caricato con la dinamite”. Lo è tuttora. Tra le varie colpe degli occidentali una tra le più gravi è l’aver continuato a giocherellare col vecchio progetto lanciato un secolo fa dal trattato di Sevres: una patria per i curdi. Per costruirla occorrerebbe smontare quattro stati (Siria, Turchia, Iraq, Iran) e ove mai riuscisse a nascere, quel Kurdistan rischierebbe la fine del Sud Sudan, l’ultima autodeterminazione dei popoli che appassionò le opinioni pubbliche occidentali. Pareva che laggiù l’esercito dell’islamica Khartoum macellasse la popolazione cristiana, ma al solito le cose erano più complicate, come dimostrò il seguito: dall’anno dell’indipendenza (2011) il Sud Sudan è devastato dalla guerra civile tra due grandi milizie ‘cristianè che si contendono i giacimenti petroliferi con una ferocia senza pari. Questo ed altri disastri hanno da tempo suggerito alla diplomazia europea di ripiegare sull’idea di ‘autodeterminazione interna’, cioè una larga autonomia che non metta in discussione i confini nazionali. Ma dove l’entità autonoma si attribuisce prerogative statuali, i risultati non sono molto migliori. Due anni fa la regione autonoma del Kurdistan iracheno pensò di annettersi mediante referendum la provincia petrolifera di Kirkuk, turcomanna in epoca ottomana, poi mista, quindi arabizzata da Saddam mediante ingegneria demografica, infine curda o curdizzata dopo l’invasione americana. Di conseguenza Baghdad mandò l’esercito a ricondurre, sparando, Kirkuk sotto la sovranità irachena. Una milizia curda si oppose a quel corpo di spedizione e un altro lo spalleggiò, mentre gruppi di turcomanni e arabi invadevano abitati curdi per riprendersi le case da cui a loro dire erano stati espulsi - insomma una bolgia tuttora irrisolta, non avendo la regione curda mollato la presa sul petrolio iracheno di Kirkuk, che vende in proprio alla Turchia. Se i secessionismi hanno una relazione forte con le risorse del territorio, ancor più li motiva la brutalità degli stati centrali. E questa è l’altra cosa definitivamente chiara nella grande crisi che indirizzerà la storia di questo secolo. Nessuno può condannare una minoranza oppressa se persegue l’indipendenza per sottrarsi agli artigli di una tirannide. Di conseguenza un’Europa che saggiamente rifiutasse come destabilizzanti le modifiche dei confini dovrebbe impegnarsi con altrettanta determinazione ad incalzare i regimi dispotici del Medio Oriente e del Nord Africa, in primis quelli che ci piace chiamare filo-occidentali malgrado siano i più grandi produttori di terrorismi e secessionismi. In sostanza si tratterebbe di riaffermare i due principi che fondarono gli accordi di Helsinki (1975) fino ai disastrosi riconoscimenti di Slovenia e Croazia (1991) - e allo stesso tempo offrire alle opposizioni democratiche quel che l’Europa ha stupidamente negato: protezione e strumenti. Se avessimo posto il giornalismo turco in esilio nella condizione di raggiungere la propria opinione pubblica con tv satellitari e quotidiani online, forse oggi Erdogan non sarebbe così spavaldo. Se avessimo sostenuto il Free syrian army con un quinto dei mezzi che i sauditi riversarono sui guerrieri salafiti, forse oggi l’alternativa ad Assad non sarebbero i guerrieri fondamentalisti. E se sperimentazioni laiche, incluso il Communitarism curdo-americano in gestazione nel Rojava, avessero trovato attenzione presso i governi europei, forse questi ultimi avrebbero avuto qualche possibilità di prevenire eventi che oggi sono costretti a rincorrere. Dunque vanno bene gli appelli, i cortei, la commozione, lo sdegno, le sanzioni o sanzioncine, ma rendiamoci conto che tutto questo serve a poco: è troppo tardi. Non è troppo tardi, invece, per dotarsi di una strumentazione politica, diplomatica e concettuale adeguata ad affrontare le crisi prossime. Ma occorrerebbe un’altra Unione europea, o almeno un suo nucleo centrale finalmente consapevole che affrontare questa grande crisi senza un’idea-guida, un concetto strategico, comporta rischi enormi. Non ultimo il pericolo di convincere le popolazioni mediorientali, e soprattutto quel 60% in età inferiore ai 25 anni, che l’Europa sia quel che appare: un vecchio piagnucoloso e rimbambito che ciabatta ai margini della Storia. Russia. Stretta contro le ong. A rischio la più importante del Paese di Yurii Colombo Il Manifesto, 17 ottobre 2019 Pugno duro contro l’opposizione. Il ministero della Giustizia intenta una causa per lo scioglimento di “Per i diritti umani”, colpita dalla “legge sulle agenzie straniere” voluta da Putin nel 2014 Il leader di “Per il diritto dell’uomo”, Lev Ponomarev, in piazza. Si stringe sempre di più il cappio del governo russo contro l’opposizione. Ieri con una decisione senza precedenti il ministero della Giustizia ha intentato una causa presso la Corte suprema per lo scioglimento del movimento “Per i diritti umani” di Lev Ponomarev, a causa di ripetute violazioni della legge del paese. La Corte suprema esaminerà il fascicolo il 14 novembre, ma la sorte della più importante organizzazione non governativa russa, sembra segnata. Ponomarev è una figura notissima in Russia. Fisico di fama e amico personale di Andrey Sacharov, fu nel 1988 tra fondatori della Fondazione Memorial che opera senza posa per far conoscere la tragedia della repressione politica in Urss. Più volte deputato, l’ex fisico di Tomsk ha fondato nel 1997 la ong “Per i diritti umani” che è divenuta ben presto l’associazione umanitaria più estesa geograficamente, con oltre una quarantina di sedi sparse un po’ dovunque. Il ministero afferma che “Per i diritti umani” non solo ha più volte violato la legge e inadempiuto al pagamento di numerose multe comminategli ma soprattutto accusa l’ong di essere un “agente straniero”, un’associazione cioè che riceve finanziamenti dall’estero e opera a vantaggio di altri governi. La “legge sulle agenzie straniere” fu fortemente voluta da Putin nel 2014 per mettere fuori gioco buona parte dei think-thank e associazioni considerate non allineate come la “Open society” di George Soros ma anche strutture apolitiche come “Giustizia Russa” che opera nel Caucaso per difendere principalmente i diritti degli individui Lgbtq e le donne, la quale si è vista in agosto confiscare gran parte dei propri documenti e del proprio materiale. Il movimento di Ponomarev ha subito annunciato che difenderà la sua posizione alla Corte suprema e, se necessario, si rivolgerà alla Corte europea dei diritti dell’uomo. “È indiscutibile che se anche perdiamo in tutti i tribunali e il movimento verrà sciolto, ci ricostituiremo in qualche altra forma. In quale forma ancora non lo so, è necessario osservare lo sviluppo degli eventi. Il movimento ha ventidue anni. Questo è uno dei più vecchi e celebri movimenti per i diritti umani nel paese: non scomparirà” ha dichiarato Ponomarev in un’intervista al moscovita Kommersant. Anche la presidente della Commissione europea Ursula Van der Leyen, una volta avuta la notizia dell’attacco alla libertà di associazione in corso, ha voluto informare il Cremlino della propria apprensione per quanto sta avvenendo. “Comprendo che un’ispezione condotta dal ministero della Giustizia nel gennaio 2019 ha rivelato alcune irregolarità nelle segnalazioni dell’organizzazione alle autorità”, ha dichiarato Van der Leyen per poi proseguire: “Tuttavia, le norme europee in materia di diritti umani specificano che lo scioglimento di una ong può essere utilizzato solo come ultima risorsa, limitato a circostanze eccezionali giustificate da una grave colpa. Le autorità russe hanno applicato la legge sugli agenti stranieri contro il movimento per i diritti umani in tutta la Russia e il suo leader Lev Ponomarev almeno sette volte dall’inizio di quest’anno, imponendo sanzioni che comportano un pesante onere finanziario per le legittime attività sui diritti umani. Ancora una volta, ciò dimostra che la legge sugli agenti stranieri e la sua applicazione rappresentano una grave ingerenza nei diritti della libertà di associazione della società civile e dei difensori dei diritti umani, e che spesso si traduce in molestie”. L’organizzazione di Ponomarev non è la sola ad essere posta sotto la lente d’ingrandimento degli organi di sicurezza. Lunedì la struttura dell’oppositore Alexey Navalny, “Fondazione anticorruzione”, è stata registrata anch’essa come “ente straniero” entrando nell’orbita di quelle realtà che rischiano di subire costanti richiami e multe, e financo, come stiamo vedendo, lo scioglimento d’imperio. Navalny, in un comunicato, ha negato di “aver ricevuto neppure un copeco” dall’estero e di essere pronto a sfidare il governo davanti a qualunque corte. Malgrado ciò il giorno successivo la polizia ha perquisito oltre trenta sedi della sua fondazione alla ricerca di prove che lo possano inchiodare. Stati Uniti. Oppioidi: accordo da 50 miliardi per chiudere le cause di Elena Dusi La Repubblica, 17 ottobre 2019 Un accordo da 50 miliardi di dollari (45 miliardi di euro circa) per chiudere migliaia di azioni legali prima che il processo contro i big dell’industria farmaceutica inizi, come previsto, lunedì prossimo. Secondo il New York Times, è l’intesa a cui stanno lavorando gli Stati e le città americane con i maggiori distributori e produttori di oppioidi. L’accordo libererebbe Amerisource Bergen, Cardinal Health e McKesson, ma anche Johnson & Johnson e Teva, da più di 2.300 azioni legali con cui sono accusate di essere responsabili della crisi degli oppioidi. Almeno 400.000 persone sono morte negli Stati Uniti per overdose di oppioidi legali e illegali dal 1999, secondo i dati federali. Nelle cause giudiziarie le parti lese stanno cercando di recuperare i costi sostenuti dalle comunità alle prese con una dipendenza diffusa, compresi gli oneri per i servizi di emergenza, le cure mediche e i servizi di affidamento per i bambini nati da genitori dipendenti. In risposta ai 115 morti al giorno per overdose negli Usa (2018) e del rischio pandemia anche in Europa (8.238 morti per overdose nel 2017 dati Emcdda), il prossimo venerdì a Roma si svolgerà l’evento internazionale “Rome Consensus 2.0”, dove esperti parleranno dei numeri della diffusione di oppiodi come il Fentanyl e del sorprendente cambio di strategia politica nell’America di Trump con la “pre-arrest deflection”. Nell’ultimo anno negli Usa sono morti per overdose circa 72.000 persone, che - paragonati ai 52.000 militari Usa morti in 10 anni nella guerra del Vietnam - spiegano la necessità del cambio di passo dell’amministrazione americana, che con successo sta contrastando la diffusione degli oppiacei sintetici come il Fentanyl, acquistabili in maniera legale attraverso prescrizione medica. La droga che uccide si vende anche in Italia” - Il Fentanyl - l’oppioide che ha dato il colpo di grazia allo chef Andrea Zamperoni - e le sostanze illegali simili sono fra 100 e 1000 volte più potenti dell’eroina” spiega Simona Pichini, prima ricercatrice all’Istituto Superiore di Sanità, esperta di nuove droghe. “La dose letale è di pochi microgrammi: un granello. Basta toccarlo o inalarlo per caso”. Tute ermetiche e maschere sono d’obbligo per chi effettua i sequestri. Del Fentanyl, però, nell’ultima relazione del Dipartimento antidroga italiano non c’è quasi traccia. I sequestri si contano sulle dita. Il problema da noi non esiste? “Non sappiamo. Identificare queste sostanze è complicato. Solo ora stiamo imparando” dice Pichini. In Italia tra 2016 e 2017 le morti per overdose sono salite del 9,7% dopo 15 anni di calo. “Non siamo sicuri che c’entri il Fentanyl. Servirebbero analisi tossicologiche costose, che solo pochi laboratori sanno fare. Difficile che siano disposte per un’overdose” spiega Pichini. “I derivati del Fentanyl sono ben più di 50. Come per il doping, ne arrivano sempre di nuovi. Per dare un nome a una sostanza abbiamo bisogno di un campione: “lo standard”. Ottenerlo richiede autorizzazioni a non finire e ditte specializzate che ce lo inviino dall’estero. Ci mettiamo un anno”. Marocco. Il re grazia la giornalista condannata per aver abortito di Katia Riccardi La Repubblica, 17 ottobre 2019 Il re del Marocco, Mohammed VI, ha graziato la giornalista Hajar Raissouni, 28 anni, condannata a un anno di carcere senza condizionale per aborto clandestino e sesso fuori dal matrimonio. Il 31 agosto scorso la reporter del quotidiano indipendente Akhbar al-Youm, era stata fermata all’uscita di uno studio medico della capitale Rabat insieme al compagno Rifaat al-Amin, al medico 68enne Mohammed Jamal Belkeziz, con i suoi due assistenti. L’articolo 490 del codice penale marocchino criminalizza le relazioni sessuali consensuali tra persone non sposate. L’interruzione di gravidanza è permessa solo se la vita della donna è in pericolo, in tutti gli altri casi l’aborto è punito con il carcere. Sono perseguiti penalmente anche l’adulterio e l’omosessualità. Il tribunale di Rabat aveva quindi condannato anche il compagno di Hajar Raissouni a un anno di carcere, il medico - due anni di prigione e due di interdizione dall’esercizio della professione - e i due assistenti, rispettivamente a un anno e a otto mesi. La relazione della giornalista con Rifaat al-Amin, 40 anni, professore universitario originario del Sudan, non era nascosta. Raissouni aveva provato a spiegare ai giudici di averlo sposato anche se i documenti del matrimonio non erano stati registrati in Marocco perché l’ambasciata sudanese non aveva formalizzato l’atto in tempo. Aveva anche detto di non aver abortito ma di essere stata ricoverata per un’emorragia interna. Piccoli particolari, perché la sua condanna sembrava nascondere soprattutto motivazioni politiche. Il 4 settembre Hajar Raissouni aveva scritto una lettera al suo quotidiano. Riferiva di essere stata interrogata per i propri articoli, spesso critici nei confronti delle autorità marocchine. Sosteneva di aver ricevuto domande su un collega e sui suoi familiari, tra i quali Ahmed Raissouni, noto teologo islamista ed ex presidente del Movimento per l’unicità e la riforma, uno dei più popolari movimenti religiosi del Marocco. La storia di Hajar Raissouni è stata raccontata dai giornali internazionali, ha mobilitato islamisti, associazioni per i diritti umani, movimenti femministi. L’Associazione marocchina per i diritti umani (Amdh), Amnesty International e Human Rights Watch hanno chiesto la sua liberazione per violazione delle libertà personali. All’avvio del processo, quasi 500 personalità marocchine tra cui la scrittrice Leila Slimani, vincitrice del premio francese Goncourt, hanno firmato un appello senza precedenti nel regno, una monarchia assoluta che si nasconde dietro un sottile velo di modernità e moderazione. In Marocco qualsiasi cambiamento deve provenire dal “makhzen”, il sistema del palazzo del re Mohammed VI che decide su tutto, dal risultato delle elezioni alle grazie. Come quella concessa ieri a Hajar Raissouni. Uno strappo nel velo che ha fatto entrare un po’ di aria e luce, senza ancora cambiare le cose.