Ergastolo, la speranza nasce da una cella di Andrea Pugiotto Il Manifesto, 16 ottobre 2019 La sentenza della Corte europea dei diritti nasce dal ricorso di Marcello Viola, ergastolano ostativo ristretto a Sulmona. È grazie a lui che i giudici a Strasburgo, per la prima volta, si sono pronunciati sull’italico “fine pena mai”, condannandolo perché pena perpetua de facto non riducibile. Pena fino alla morte, l’ergastolo ostativo è salito alla ribalta nei giorni scorsi in ragione di due decisioni. La prima, ora definitiva, è la sua condanna a Strasburgo perché nega dell’ergastolano la dignità umana, che non si acquista per meriti né si perde per demeriti. La seconda è l’attesa sentenza della Consulta, chiamata a misurarne la conformità alla Costituzione secondo cui tutte le pene devono sempre tendere alla rieducazione e non possono mai essere inumane o degradanti. Ho riletto la (spesso sguaiatamente urlata) rassegna stampa di questi giorni, rilevandone il silenzio su un aspetto decisivo. Provo a colmare la lacuna. La sentenza della Corte europea dei diritti nasce dal ricorso di Marcello Viola, ergastolano ostativo ristretto a Sulmona. Chiede due volte il beneficio del permesso premio, senza esito. Domanda la liberazione condizionale, senza esito. Ogni volta prospetta al suo giudice l’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo, sempre senza esito. Ci sarà pure un giudice, si chiede testardamente, e lo trova: non a Berlino, ma a Strasburgo. È grazie a lui che la Corte europea, per la prima volta, si è pronunciata su questo italico “fine pena mai”, condannandolo perché pena perpetua de facto non riducibile. E se il legislatore non ne modificherà tempestivamente la disciplina, la natura strutturale del problema provocherà una slavina di ricorsi da parte degli attuali 1.255 ergastolani ostativi (il 70,1% dei 1.790 condannati a vita). Oggi, per gli ergastolani senza scampo, viola è il colore della speranza. Anche Sebastiano Cannizzaro è un ergastolano ostativo, ristretto a L’Aquila, in galera da ventiquattro anni. Gli è negata l’ammissione al permesso premio, prima dal magistrato e poi dal tribunale di sorveglianza. Gli stessi respingono anche l’ipotesi di un’impugnazione costituzionale della legge che vieta ogni beneficio penitenziario a chi non collabora con la giustizia. Ricorre allora in Cassazione che, finalmente, solleva la quaestio. Si deve alla sua cocciutaggine se, il 22 ottobre prossimo, la Consulta sarà chiamata a misurare la conformità dell’ergastolo ostativo alla Costituzione. Tutto ciò ci racconta del protagonismo di Caino nel rimettere sui binari di una ritrovata legalità non solo sé stesso, ma l’intero ordinamento. La cella di un condannato, addirittura a vita, è l’ultimo posto dove si poteva immaginare di avviare una simile rivoluzione copernicana. Invece, è proprio da lì che tutto nasce, grazie all’uso del diritto (lex) in funzione dei diritti (jura), adoperato da chi pure il diritto e i diritti ha calpestato in passato. Non sono casi così a testimoniare la metanoia del reo? Le molteplici definizioni che la Corte costituzionale ha dato della finalità rieducativa della pena convergono, tutte, nella necessità di favorire il recupero del reo ad una vita nella società, rispettosa dell’ordinamento democratico configurato in Costituzione. Di ciò, quale segnale è più tangibile che quello di Caino che sostituisce alla violenza l’arma nonviolenta del diritto? Si badi. La Corte europea non ha riconosciuto a Viola alcuna somma a titolo di indennizzo. E se la Consulta gli darà ragione, Cannizzaro non tornerà libero: potrà solo domandare al suo giudice se la sua condotta carceraria e l’assenza di pericolosità sociale giustificano la concessione di un permesso di qualche ora, dopo un quarto di secolo di galera. Entrambi, dunque, hanno agito non tanto per interesse individuale, ma nell’interesse generale o, perlomeno, di tutti quelli che ancora pensano che l’unica pena giusta sia quella conforme a Costituzione. Spes contra spem, Caino che si fa speranza contro ogni speranza: questo è accaduto. È una buona notizia: a impedire la recidiva e a proteggere la società, infatti, è più utile la risocializzazione che le manette. Le Olimpiadi del rancore. Ergastolo ostativo: la pena infinita di Erri De Luca Il Manifesto, 16 ottobre 2019 Calcolo le lunghe pene detentive in Olimpiadi, invece che in anni. 26 annate, 104 stagioni, sono una cifra astratta, smisurata all’interno, scarsa di peso fuori. Chi esce da così lunga assenza trova intatto il pubblico rancore legato al suo nome e alla sua colpa. Perciò conto la durata della clausura in Olimpiadi, sei e mezzo, salvo tempi supplementari. Chi esce: finora quasi mille non hanno alcun percorso di uscita. Buttata la chiave, si dice, ma è più preciso dire che la chiave è ben conservata, invece è la vita a essere buttata. La nostra Costituzione non lo consente. Qualunque pena, anche la più grave, serve al tentativo di riabilitare alla vita associata il condannato. Per la nostra Costituzione nessuna persona può essere dichiarata relitto civile permanente. Allora per mitigare l’ergastolo a oltranza, si introdusse la condizione secondo la quale il colpevole doveva denunciare altri associati per accedere a un percorso di uscita. Il prossimo 22 ottobre la Corte Costituzionale si dovrà pronunciare sulla materia. È evidente che la denuncia di altri complici non basta a valutare la riabilitazione di un condannato all’ergastolo. Potrebbe farlo per vendetta privata o per ottenere il beneficio di legge, senza che sia avvenuto alcun ravvedimento. Al contrario, pur se radicalmente cambiato, potrebbe non denunciare per timore di rappresaglie sui propri familiari. La sola via maestra per valutare i mutamenti maturati durante le Olimpiadi penali resta quella che già esiste: la lunga analisi dei suoi comportamenti verificata da psicologi, assistenti sociali, volontari. Le loro considerazioni caso per caso concorrono al giudizio del magistrato di sorveglianza, incaricato della decisione circa i benefici. In mancanza di unanimità di pareri non se ne fa nulla. La decisione eventuale di abolire l’ergastolo ostativo da parte della Corte Costituzionale non metterebbe in libertà nessuno dei quasi mille interessati al provvedimento. Li metterebbe solo in condizione di avviare la lunga trafila di analisi dei loro mutamenti. Uscire dall’ergastolo resta e resterà per il condannato un labirinto in cui aggirarsi a lungo, senza alcuna certezza di buon esito. Propagandisti di paure infondate strillano sballate conclusioni su criminali rimessi di colpo in circolazione. Spacciano informazioni false, ma ormai ci siamo abituati all’irrazionale, all’allarmismo fasullo che intossica la nostra atmosfera. Esiste e va bonificato con l’aiuto dei dati di fatto. A chi non guarda bene in faccia alla realtà, succede che sia la realtà a guardare il suo lato posteriore in fuga. Da membro anziano di questa società ho fiducia nel lavoro del tempo che rinnova più volte, insieme all’intero corredo di cellule del nostro corpo, pensieri e sentimenti di ogni essere umano. Chi ha scontato sei Olimpiadi e mezzo è un’altra persona, potenzialmente utile alla comunità che lo riaccoglie e la sua pena non è andata sprecata. Uomini ombra in attesa della Consulta di Susanna Marietti Il Manifesto, 16 ottobre 2019 Dopo la sentenza della Corte europea dei diritti umani, il 22 ottobre prossimo sull’ergastolo ostativo si pronuncerà la Corte Costituzionale. Il prossimo 22 novembre la Corte Costituzionale dovrà pronunciarsi sul tema dell’ergastolo ostativo, ovvero quella pena che si trova a scontare un condannato all’ergastolo cui allo stesso tempo venga applicato l’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario. Quest’ultimo venne introdotto nel maggio 1991 nel contesto della lotta alla criminalità organizzata ed è stato da allora varie volte modificato anche ad opera di precedenti sentenze costituzionali. Vi si prevede che chi è condannato per una serie di delitti elencati - legati a mafia e terrorismo ma non solo - non possa accedere a molti benefici penitenziari se non nel caso in cui si offra di collaborare con la giustizia. È questo il solo comportamento previsto dal legislatore attraverso il quale la persona può dimostrare di non sentirsi più legato al proprio trascorso criminale. Il pronunciamento della Consulta seguirà di pochi giorni un altro importante parere sul tema, quello della Grande Camera della Corte Europea dei Diritti Umani, che lo scorso 8 ottobre ha respinto il ricorso del governo italiano nel caso Viola rendendo così definitiva la sentenza emessa a giugno dai giudici di Strasburgo. Qui si decretava la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea, ovvero del divieto di pene e trattamenti inumani o degradanti, per una pena perpetua che sia soggetta a preclusioni automatiche ed obbligate nella possibilità di revisione. Marcello Viola ha sempre rifiutato di collaborare con la giustizia, adducendo quale motivazione il timore di ritorsione contro i propri cari e sostenendo di essersi nondimeno affrancato dal crimine. Si trova in carcere ininterrottamente dal 1991, senza aver mai avuto un provvedimento disciplinare. La Corte Europea si è limitata ad affermare che l’Italia non dovrebbe considerare la collaborazione quale parametro unico e automatico di ravvedimento (se collaboro sono automaticamente rieducato e posso tornare in società, se non collaboro sono automaticamente delinquente e devo restare in carcere), bensì dovrebbe valutare le singole situazioni nella loro individualità e complessità. Come accade per l’espiazione delle altre pene, anche nel caso dell’ergastolo ostativo deve essere lasciato al giudice il potere di valutare l’adesione o meno del condannato al percorso rieducativo. A seguito di tale valutazione, il giudice potrà sempre decidere di lasciare un condannato per tutta la vita in cella, ma ciò non dovrà più accadere in base a un automatismo. Si va così a erodere un tassello rilevante di mera afflittività nel concetto di pena dell’ordinamento italiano. Un altro tassello potrebbe venire abbattuto nei prossimi giorni dalla Corte Costituzionale, cui la Cassazione ha trasmesso gli atti del caso Cannizzaro nel novembre 2018, avendo ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis nella parte in cui esclude dal godimento di permessi premio quei condannati all’ergastolo per reati legati all’associazione di tipo mafioso che non abbiano collaborato con la giustizia. La Cassazione, che si riferisce a precedenti pronunciamenti della Consulta, nota come la concessione dei permessi premio per un ergastolano semplice sia subordinata all’aver già scontato almeno dieci anni di carcere, alla buona condotta tenuta e all’assenza di pericolosità sociale. La preclusione assoluta del permesso premio per l’ergastolano ostativo equivale a presumere irrazionalmente che il detenuto sia sempre e comunque pericoloso, senza alcuna concreta valutazione del caso. Inoltre, i giudici di legittimità sottolineano l’eterogeneità del permesso premio rispetto alle misure alternative alla detenzione, essendo il primo estremamente momentaneo e volto alla immediata soddisfazione di esigenze affettive o di altro tipo. La concessione di un permesso tanto limitato nel tempo non può dipendere da valutazioni analoghe a quelle legate a misure più strutturali. Se è vero che la sentenza del 22 ottobre riguarderà il tema specifico del permesso premio, ci si aspetta che la sua portata potrà essere più ampia, andando a costituire un altro pronunciamento contrario a preclusioni basate su automatismi nella valutazione della pericolosità. Già tra il 2010 e il 2015 la Consulta si è più volte pronunciata con nettezza contro ogni presunzione di pericolosità assoluta nel disporre la custodia cautelare. Nella sentenza 149 del 2018 la Corte è tornata sul medesimo concetto, questa volta però in relazione all’ergastolo, affermando che tutte le presunzioni assolute di pericolosità che precludono l’accesso a benefici penitenziari per un arco di tempo esteso vadano considerate incompatibili con l’imperativo costituzionale della funzione rieducativa della pena. La prossima decisione dei giudici costituzionali e quella recentissima della Corte di Strasburgo interessano gli oltre 1.250 ergastolani ostativi nelle carceri italiane. A metà del 2019 era pari a 1.776 il numero totale delle persone condannate all’ergastolo. Erano inferiori alle 1.000 unità all’inizio della nostra storia repubblicana nel 1946 e di poco superiori alle 500 quando nel 1975 è entrato in vigore l’ordinamento penitenziario. Il 1994 ha visto la Corte Costituzionale decretare l’illegittimità della pena perpetua quando applicata a un minorenne. In questi giorni si stanno scrivendo nuove pagine di storia giuridica sul tema. Congelare l’identità del condannato: il diritto all’esistenza negato di Stefano Anastasia Il Manifesto, 16 ottobre 2019 Filosofi e pensatori a confronto con la “tortura” della morte civile, l’ergastolo ostativo. Sullo sfondo della decisione europea di restituire al giudice la responsabilità di una scelta sulla possibilità di reinserire progressivamente nella società persone che abbiano compiuti gravi reati, c’è la domanda radicale se sia legittimo tenere in carcere fino alla morte una persona. Parliamo, dunque, dell’ergastolo in sé, della pena fino alla morte o della pena di morte viva. Già in questi giochi di parole, che dobbiamo a testimoni della sua realtà, come Nicola Valentino, Carmelo Musumeci ed Elton Kalica, il tema dell’ergastolo si associa a quello della pena di morte, essendone - sin da Beccaria - un sostituto simbolico e funzionale: la morte civile in luogo della morte fisica. Non a caso Valentino le ricomprende sotto l’antica, comune nozione di “pene capitali”. È accettabile la pena capitale nel nostro ordinamento e nella nostra società? Contro qualsiasi opinione diffusa, noi diciamo che la pena di morte non è mai legittima. Per il timore di un errore giudiziario, cosa che ci salverebbe l’anima di fronte all’ergastolo? No, non solo. Diciamo di no perché non accettiamo di metterci sullo stesso piano di chi commette violenza, la più efferata di tutti, per di più con la protervia di chi sa di farla franca. “Noi non siamo come loro”: questo è il primo argomento che impedisce a molti ordinamenti democratici di comminare la pena capitale. “Noi non siamo come loro” equivale a dire che, al contrario di chi commetta i reati più gravi, noi riconosciamo un’umanità intangibile in ciascuna persona. È questa quella rivoluzione della dignità di cui scriveva Stefano Rodotà. “L’uomo, e ogni essere razionale in genere, esiste come scopo in se stesso, e non solo come mezzo perché sia usato da questa o quella volontà”, scriveva Kant. “In tutte le sue azioni, dirette sia verso se stesso sia verso altri esseri razionali, esso dev’essere sempre considerato, al tempo stesso, anche come un fine”. Un essere umano non può essere considerato esclusivamente un mezzo per fini altrui senza decadere a cosa, quand’anche quei fini fossero della maggioranza dei consociati, per esempio nel contrasto alla devianza criminale. Il principio di dignità umana implica che un essere umano (anche l’autore del più efferato reato, anche nella contingenza più grave) non possa essere messo a morte così come non possa scontare effettivamente l’ergastolo: la loro esecuzione infatti, della pena di morte come dell’ergastolo, perseguirebbe esclusivamente fini a lui estranei, quali possono essere quelli della sicurezza della comunità che si avrebbe attraverso la sua morte fisica o civile o attraverso l’esempio che essa darebbe nei confronti del prossimo. Intervenendo in Senato, in occasione dell’ultima discussione di un disegno di legge per la sua abolizione, Aldo Masullo ci esortava a cambiare il tenore della domanda sulla accettabilità etica dell’ergastolo: “La domanda che ci dobbiamo porre non è se esso violi o non violi il sacrosanto diritto alla vita, ma se violi il diritto all’esistenza. L’esistenza designa la condizione, che noi sperimentiamo momento per momento, dell’incessante perdere parte di noi stessi e essere sbalzati verso un’altra identità, fuor della quale presto saremo ancora sbalzati”. Nella pena il condannato è identificato con il suo passato, anzi: con un fatto, un episodio del suo passato. Questo congelamento dell’identità, nel condannato a pena temporanea vive della consapevolezza di una vita ulteriore oltre di essa, e dunque del tentativo di prepararvisi, mantenendo legami affettivi e familiari, attrezzandosi ad affrontare le sfide che ne verranno. Per il condannato alla pena dell’ergastolo, viceversa, il tempo si ferma: non c’è un dopo a dare senso al presente. “L’ergastolano - diceva ancora Masullo - nella sua condizione, di momento in momento, di ora in ora, vede morire parte di se stesso senza che nasca alcuna possibilità nuova”. Allo scandalo della morte come pena denunciato da Beccaria, si aggiunge quindi lo scandalo della vita come pena, della identificazione tra pena e vita. Se con la morte la vita cessa di esistere, nella identificazione tra pena e vita, la vita umana è ridotta a mera riproduzione delle sue componenti biologiche. Siamo disposti ad accettare una simile involuzione antropologica? Ergastolo ostativo, i principi inderogabili che orientano Strasburgo di Mauro Palma Il Manifesto, 16 ottobre 2019 La sentenza della Corte europea dei diritti umani è stata commentata da troppe discettazioni disinvolte e disinformate. Disinvolti e disinformati, alcuni commentatori continuano a discettare su nefaste conseguenze della sentenza della Corte di Strasburgo relativa all’ergastolo ostativo e sul mancato rinvio alla Grande Camera. Valutando tutto ciò come, nell’ordine: incomprensione europea delle peculiarità della criminalità organizzata in Italia, grave allentamento nella lotta per contrastarla, benefici assicurati alle organizzazioni criminali e, infine, tradimento di quanto i magistrati che hanno dato la vita per tale lotta hanno affermato con il loro sacrificio, da parte di chi obietta qualcosa o sostiene che la sentenza è in linea con il nostro testo costituzionale. Già: il testo costituzionale è invece assente nelle considerazioni di molti, troppi. La sua sintesi, per quanto riguarda le pene, sta nella loro finalità tendenziale, cioè la rieducazione. Questa, come la Corte costituzionale ha chiarito in più sentenze, ma in particolare in una famosa del 1990, non è una sorta di aggiunta inessenziale, ma un principio di orientamento delle pene stesse perché “se la finalizzazione venisse orientata verso diversi caratteri (affilittività, retributività), anziché al principio rieducativo, si correrebbe il rischio di strumentalizzare l’individuo per fini generali di politica criminale (prevenzione generale) o di privilegiare la soddisfazione di bisogni collettivi di stabilità e sicurezza (difesa sociale), sacrificando il singolo attraverso l’esemplarità della sanzione. È per questo - aggiunge la Corte - che, in uno Stato evoluto, la finalità rieducativa non può essere ritenuta estranea alla legittimazione e alla funzione stesse della pena”. Un principio, questo, che, come tutta la Costituzione, vale erga omnes, senza distinzione di singoli o di gravità del reato commesso. Sul versante della Corte europea di Strasburgo - che nulla c’entra con i commenti di taluni che inseriscono il loro disappunto per la sentenza nello scarso feeling con l’Unione europea - compito centrale è stabilire se uno Stato rispetti o meno l’obbligo inderogabile a non sottoporre alcuna persona a trattamenti o pene inumani o degradanti (oltre che a tortura), così come affermato dall’art. 3 della Convenzione europea per i diritti umani. La Corte non decide sulle conseguenze per i singoli ricorrenti, né ha il potere di modificare le leggi di uno Stato. Ma ha il dovere di stabilire se la situazione in esame rappresenta una violazione appunto di tale obbligo che non accetta eccezioni. Spetterà poi al singolo Stato ragionare e decidere come intervenire: tanto più quando una sentenza, come quella recente nel caso Viola contro Italia, individua una carenza di tipo strutturale e non soltanto una specifica e contingente lesione di un diritto. Ora, da tempo la Corte, nell’evoluzione della sua giurisprudenza, ha stabilito il principio che un ergastolo che non preveda una possibilità di revisione dopo un alto numero di anni - in linea indicativa almeno venticinque - per valutare il percorso compiuto dalla persona, la sua eventuale revisione di quanto commesso e la possibilità di un suo reinserimento nel contesto sociale, costituisce una trattamento in violazione proprio di quell’art. 3. Questo principio è affermato per tutti gli Stati e i relativi ordinamenti, perché vuole evitare una preclusione assoluta a un’ipotesi di ritorno alla vita esterna. Il problema era stabilire se nel caso italiano e relativamente al cosiddetto ergastolo ‘ostativo’, che riguarda quasi il 70% degli ergastolani, la previsione di poter accedere a tale riconsiderazione solo nel caso che la persona, oltre ad aver aiutato a evitare ulteriori conseguenze all’attività criminosa “aiuti concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti o per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati”, non finisse col rendere impossibile considerare altri fattori, che pur potrebbero caratterizzare il cambiamento della persona. Così configurando l’assenza di collaborazione come un’assoluta presunzione della sua pericolosità. La Corte ha ritenuto che tale impossibilità di considerare un qualsiasi fattore diverso da quello unico e decisivo della collaborazione, di fatto, finisce col determinare un ergastolo “senza speranza”, come tale in violazione dell’obbligo inderogabile stabilito in quell’articolo. Spetta a ogni Stato stabilire le ‘formè secondo cui questa possibile riconsiderazione dopo i molti anni di esecuzione penale si realizzi: essenziale è che esso non sia un automatico criterio che finisce per non considerare il percorso compiuto dalla persona. Quindi, l’oggetto dell’analisi era strettamente limitato alla specifica legislazione dello specifico Stato, già esaminato dalla sezione della Corte. Da qui, il non rinvio che tanto ha suscitato agitati commenti. Certamente la criminalità organizzata ha una sua specificità; certamente è difficile il venir meno di appartenenze che affondano le proprie radici in legami e culture ben profonde di adesione criminale. Ma altrettanto certamente l’impossibilità non può appartenere a una visione del diritto penale che, nel regolare conflitti e nel sanzionare chi aggredisce persone e contesti sociali, non può irrimediabilmente inchiodare la persona e il suo possibile mutamento al reato commesso, spesso molti decenni prima. Del resto, ci sarà sempre un giudice a dover valutare vari elementi e tra questi anche la volontà collaborativa, per capire se e quanto quella tendenziale finalità rieducativa che la Costituzione assegna alla pena si sia realizzata. Tutto ciò non aggredisce la generosità e il valore di chi per tale lotta ha dato la vita. Al contrario, proprio da essi trova la capacità di affermare principi inderogabili. La doppia anima dell’ergastolo ostativo di Francesco Palazzo* Il Sole 24 Ore, 16 ottobre 2019 Ancor prima di quella collegata alla rieducazione vi è più prosaicamente l’anima utilitaristica di spingere il condannato a rendere più agevole e penetrante il compito investigativo delle autorità. L’ergastolo ostativo, originariamente previsto per alcuni reati associativi molto gravi, è stato esteso successivamente, mediante una serie di aggiunzioni, a reati che possono non avere niente a che fare con le organizzazioni criminali. Il punto centrale della sua disciplina (che gli è valsa la qualificazione di “ostativo”) è noto: salve le ipotesi di collaborazione impossibile (perché il condannato niente sa) o irrilevante (perché l’autorità già sa tutto), l’accesso agli istituti di progressiva risocializzazione presuppone che il condannato “collabori” - magari a distanza di anni dal fatto - con l’autorità rivelando ciò che sa, segnatamente in ordine alla partecipazione di eventuali correi. Solitamente si pensa che il requisito della collaborazione sia giustificato in ragione del fatto che senza di essa sarebbe impensabile la dissociazione del reo dall’originario ambiente criminoso e dunque impossibile un giudizio diagnostico/prognostico di cessata pericolosità. In sostanza, si collega funzionalmente la collaborazione a quella finalità rieducativa che non mancherebbe neppure nell’ergastolo in quanto, appunto, suscettibile di aperture progressive alla libertà. A ben vedere le cose, però, il fondamento giustificativo della collaborazione come chiave di accesso ai “benefici” ha una doppia anima. Forse ancor prima di quella collegata alla rieducazione vi è più prosaicamente l’anima utilitaristica di spingere così il condannato - specie se intraneo ad organizzazioni criminose - a rendere più agevole e penetrante il compito investigativo delle autorità. Se si assume chiara consapevolezza di questa doppia anima dell’ostatività, ne discendono rilevanti conseguenze in punto di costituzionalità della preclusione. Fino a che quelle due anime vanno d’accordo, nel senso che la mancata collaborazione esprime nel caso concreto la persistenza della pericolosità ostacolando nello stesso tempo l’esauriente accertamento processuale, nulla quaestio (legitimitatis), essendo giustificata la perpetuità della pena sulla base dell’ormai consolidata giurisprudenza costituzionale e Cedu in materia di ergastolo. Ma quando le due anime si dividono perché la mancata collaborazione non esprime la persistenza della pericolosità, essendo ad esempio motivata dalla volontà di non esporre sé o i propri congiunti a vendette o ritorsioni o essendo ispirata a ragioni morali di non nuocere ad altri, avendo però il condannato percorso positivamente il suo itinerario rieducativo, allora le cose cambiano radicalmente. È chiaro, infatti, che in tali ipotesi l’ostatività non può che fondarsi sull’esclusiva anima dell’agevolazione dell’accertamento processuale. È come dire: tu puoi collaborare ma non lo fai, e allora non m’interessa se hai già raggiunto il risultato risocializzativo che sarebbe sufficiente ad uscire dal carcere e a rompere la perpetuità della pena. Ciò significa, in breve, che l’anima “processuale” dell’ostatività prevale su quella “rieducativa”. Ma questo bilanciamento è palesemente contrario alla Costituzione: mentre, infatti, la rieducazione è un valore espresso in Costituzione e dalla Corte costituzionale affermato in termini sempre più perentori e ricollegato dalla Corte di Strasburgo addirittura alla stessa dignità umana, l’agevolazione processuale coatta non solo non trova riconoscimento in Costituzione ma un suo sistematico uso quale strumento ormai pressoché ordinario per l’accertamento dei reati dovrebbe suscitare serissime perplessità. In fondo, si profilerebbe la trasformazione dello Stato di diritto in uno Stato di polizia, quasi esonerando l’autorità dal suo compito d’accertamento per trasferirlo coattivamente sui cittadini. Questo è lo sfondo inquietante su cui si pone la quaestio legitimitatis dell’ergastolo ostativo. Ma non c’è nemmeno bisogno che la Corte costituzionale s’impegni expressis verbis su tale piano. Infatti, anche accreditando l’ostatività di un’anima (nobile) in funzione esclusivamente rieducativa, la preclusione si rivela chiaramente affetta da un’intrinseca irrazionalità. Che senso ha precludere i benefici a chi rifiuta di collaborare per ragioni che non solo non siano incompatibili con la cessazione della pericolosità, ma che - tutto al contrario - possono addirittura essere espressione e conferma dell’avvenuto processo di risocializzazione? Sembra poi addirittura superfluo precisare che l’abolizione della presunzione assoluta non significherebbe rimettere tout court in libertà schiere di pericolosi mafiosi o incalliti delinquenti: è chiaro che l’ammissione ai benefici presuppone pur sempre un accertamento in concreto da parte del giudice di sorveglianza dell’assenza di pericolosità, costituendo indubbiamente la mancata collaborazione un importante indicatore negativo, ma niente di più e niente di meno di un indicatore. Se poi non ci si fidasse dei giudici, allora sarebbe un altro discorso: alla fine del quale, però, si staglierebbe nuovamente l’ombra dello Stato di polizia. *Professore emerito di diritto penale, Università di Firenze Ergastolo ostativo. Il 22 ottobre udienza davanti alla Corte Costituzionale giurisprudenzapenale.com, 16 ottobre 2019 Riguarderà il tema della preclusione all’accesso di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia. Si terrà il 22 ottobre 2019 (relatore il Giudice costituzionale Nicolò Zanon) l’udienza davanti alla Corte Costituzionale per la discussione delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte di Cassazione (con ordinanza del 20 dicembre 2018) e dal Tribunale di Sorveglianza di Perugia (con ordinanza del 28 maggio 2019) in tema di accesso al beneficio penitenziario del permesso premio per il condannato all’ergastolo che non abbia collaborato con la giustizia. Come si legge sull’agenda dei lavori pubblicata dalla Corte Costituzionale, “la Corte di cassazione (R.O. 59/2019) solleva, in riferimento agli articoli 3 e 27 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) nella parte in cui esclude che il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’articolo 416-bis del codice penale, ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia nei termini di cui all’articolo 58-ter della legge n. 354 del 1975, possa essere ammesso alla fruizione di un permesso premio previsto dall’articolo 30-ter della medesima legge. Il giudice rimettente, in primo luogo, denuncia la disciplina censurata per irragionevolezza perché assimilerebbe condotte delittuose diverse tra loro, equiparando gli affiliati all’associazione mafiosa agli estranei responsabili soltanto di delitti comuni, aggravati dal metodo mafioso o dall’agevolazione mafiosa. Secondo la tesi del rimettente, poi, l’esclusione dell’applicazione del beneficio penitenziario in mancanza della scelta collaborativa, senza consentire al giudice una valutazione in concreto della situazione del detenuto, sarebbe in contrasto con la finalità rieducativa della pena, non tenendo conto della diversità strutturale, rispetto alle misure alternative, del permesso premio che è volto ad agevolare il reinserimento sociale del condannato attraverso contatti episodici con l’ambiente esterno. Il Tribunale di sorveglianza di Perugia (R.O. 135/2019) solleva analoga questione di legittimità costituzionale. L’articolo 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975 è censurato nella parte in cui esclude che il condannato all’ergastolo, per delitti commessi al fine di agevolare l’attività dell’associazione a delinquere ex articolo 416-bis del codice penale della quale sia stato partecipe, possa essere ammesso alla fruizione di un permesso premio previsto dall’articolo 30-ter della legge n. 354 del 1975. La norma censurata contrasterebbe con gli articoli 3 e 27 della Costituzione in quanto, sostiene il rimettente, l’elevazione della collaborazione con la giustizia a prova legale del venir meno della pericolosità sociale del condannato impedirebbe alla magistratura di sorveglianza di valutare in concreto l’evoluzione personale del condannato, così vanificando la finalità rieducativa della pena”. La disposizione censurata è, dunque, l’art. 4-bis O.P. (divieto di concessione dei benefici e accertamento della pericolosità sociale dei condannati per taluni delitti) ai sensi del quale “l’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione previste dal capo VI, esclusa la liberazione anticipata, possono essere concessi ai detenuti e internati per i seguenti delitti solo nei casi in cui tali detenuti e internati collaborino con la giustizia a norma dell’articolo 58-ter della presente legge […]”. Segnaliamo ai lettori che sul sito di Amicus Curiae - nella sezione “documenti” in basso a destra - sono disponibili alcuni atti di intervento nel giudizio davanti alla Corte Costituzionale, tra i quali quelli di alcune parti private, dell’associazione Nessuno Tocchi Caino, del Garante Nazionale dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale e dell’Unione delle Camere Penali Italiane (U.C.P.I.). Sempre in tema di ergastolo ostativo, ricordiamo, come è ormai noto, che a seguito della decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di rigettare la richiesta del Governo italiano di rinvio alla Grande Camera, è diventata definitiva la sentenza pronunciata nel caso Viola c. Italia, con la quale i giudici di Strasburgo avevano negato la compatibilità del cd. ergastolo ostativo con l’art. 3 della Convenzione. Carcere e suicidi, un agente: “Lavoro tossico, che incide sulla psiche” di Laura Pasotti Redattore Sociale, 16 ottobre 2019 Da inizio anno si sono uccisi 10 poliziotti penitenziari e 36 detenuti. Gli ultimi episodi a Piacenza, Foggia e nel carcere di Regina Coeli tra l’11 e il 14 ottobre. “Noi agenti impreparati. Serve lavoro in sinergia con altre figure professionali. E aprire punti di ascolto psicologico esterni”. Sono 10 i poliziotti penitenziari che si sono uccisi dall’inizio del 2019 (fonte Osservatorio suicidi in divisa). Gli ultimi due casi si sono verificati a Piacenza, dove l’11 ottobre un agente di 53 anni originario della Calabria e da anni in servizio al carcere delle Novate si è ucciso, e nel foggiano, dove il giorno successivo un agente della stessa età in servizio nel carcere di Foggia ha ucciso la moglie e le due figlie e poi si è suicidato con la pistola d’ordinanza. In oltre vent’anni, tra il 1997 e il 2019, si arrivano a contare 153 agenti che si sono tolti la vita (fonte Ristretti orizzonti). Sono 36 i suicidi tra i detenuti registrati nel 2019: lo dice il dossier Morire di carcere di Ristretti Orizzonti, aggiornato al 14 ottobre, giorno in cui nel carcere di Regina Coeli a Roma un uomo di 52 anni si è impiccato nella sua cella. Più di mille, sempre secondo Ristretti Orizzonti, i detenuti che si sono suicidati tra il 2000 e il 2019. “Quello dei suicidi è un tema trasversale che tocca i poliziotti penitenziari e i detenuti, realtà polarizzate che però si guardano e condividono la vita in carcere - dice Nicola D’Amore, agente in servizio nel carcere di Bologna e delegato del Sinappe, il Sindacato nazionale autonomo della Polizia penitenziaria - Il nostro è un lavoro che incide sulla psiche, tossico. E quella tossicità finisci per portartela a casa, si accumula, e se non c’è un familiare che sa ascoltare, o se non si capisce che è il momento di andare dallo psicologo, si può arrivare a gesti estremi. Dall’altra parte, i detenuti spesso hanno come unica via per farsi sentire quella di farsi male, di ricorrere a gesti di autolesionismo o al suicidio. E noi siamo impreparati ad affrontare questa realtà”. Un’esperienza in carcere di quasi 25 anni, iniziata “per non sprecare un anno di vita a imparare a fare la guerra con il militare” e diventata poi una scelta a lungo termine, D’Amore sottolinea che “oggi il carcere è più un contenitore di marginalità sociale che un luogo di rieducazione. Le possibilità per i detenuti sono poche, la detenzione dinamica voluta dopo la sentenza Torreggiani (nel 2013 la Corte europea di Strasburgo ha condannato l’Italia per violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo sui trattamenti inumani e degradanti, ndr) è ancora lontana dall’essere realizzata: i detenuti vengono aperti al mattino, possono andare all’aria in determinati orari ma per il resto stanno in sezione, abbandonati all’ozio”. Anche il lavoro è solo per pochi fortunati, anche se esistono esperienze positive. “In alcune carceri del Nord Italia ci sono imprese che hanno scelto di investire e hanno realizzato progetti in applicazione del comma terzo dell’articolo 27 della Costituzione (“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, ndr) - afferma D’Amore - ma per tutti gli altri il carcere è trascorrere il tempo, un tempo non valorizzato in cui finiscono per confrontarsi con le esperienze che li hanno portati dentro e a volte escono più delinquenti di quando sono entrati”. In carcere spesso si ripropongono le stesse dinamiche che si vivono all’esterno, “ma se si investiga solo in caso di eventi critici, il carcere finisce per diventare la scuola del crimine”. Dinamiche da cui non sono immuni nemmeno gli agenti, basta pensare ad esempio al coinvolgimento di alcuni poliziotti penitenziari in un filone del processo Aemilia, in corso e per il quale si aspetta l’ultimo grado di giudizio. Da tempo, i sindacati della Polizia penitenziaria chiedono l’attivazione di punti di ascolto psicologico per gli agenti, ma finora sono poche le realtà che li hanno realizzati. “Abbiamo sempre chiesto punti di ascolto esterni - continua D’Amore - perché rivolgersi allo psicologo interno al carcere porterebbe a stigmatizzare il collega, ad attaccargli addosso un’etichetta. Anche parlarne con i superiori è difficile. Sembra che la cultura dominante sia quella che ci vuole uomini, a soffrire in silenzio”. Non dimentichiamo che, fino a qualche anno fa, il poliziotto penitenziario proveniva esclusivamente dalle forze armate, dall’esercito. Mentre oggi qualcosa sta cambiando. “Ci sono agenti provenienti dalla vita civile, laureati in sociologia o scienze della formazione - dice D’Amore - perché in carcere non si viene a fare la guerra, l’importante è parlare, sapersi mettere nei panni dell’altro, risolvere i problemi in modo diverso e non con la forza fisica che pure la legge ci consente di usare”. Spesso, però, gli agenti sono impreparati, non formati per affrontare il disagio o per relazionarsi con detenuti con patologie psichiatriche. Fondamentale quindi è lavorare in sinergia con le altre figure professionali presenti in carcere come i funzionari giuridico pedagogici, ovvero gli educatori, “il cui ruolo è importantissimo per il percorso rieducativo ma che sono costantemente sotto organico e, in alcuni istituti, finiscono per vedere i detenuti una volta all’anno se non di meno”. Secondo gli ultimi dati del Rapporto di Antigone c’è carenza sia di agenti che di educatori: i primi sono circa 31 mila contro una previsione in organico di 37 mila, i secondi 925 contro una pianta organica di 999, per una popolazione detenuta di circa 60 mila persone. Gli agenti però rappresentano comunque oltre l’80% dei dipendenti dell’amministrazione penitenziaria. “E il primo Governo Conte ha dato molto spazio agli arruolamenti, senza considerare però gli educatori”. Il cambiamento? “Non potrà che avvenire con una nuova riforma penitenziaria, anche se, a tutt’oggi, sembra che il dibattito sul carcere sia assente. Si fanno proclami quando si verificano eventi critici, ma non si analizzano i fatti e il giorno dopo già non se ne parla più”, dice D’Amore. E allora che fare? “Bisognerebbe fare scelte diverse, come smilitarizzare la Polizia penitenziaria, un corpo troppo strutturato, costoso, che non fa bene alla società - conclude - perché la sicurezza si raggiunge con il sapere, non con l’attività repressiva. E un’iniezione di sapere non può che far bene al carcere”. E cita le parole di Gesualdo Bufalino, “la mafia sarà vinta da un esercito di maestri elementari”. Codice Vassalli, 30 anni dopo per troppi è ancora “nuovo” di Alessandro Bertoli Avvenire, 16 ottobre 2019 Il 24 ottobre ricorrerà il trentesimo compleanno del Codice di procedura penale: pur sfogliandolo quotidianamente da undici anni, resta per me territorio ancora ampiamente inesplorato, non di rado capace di riservare sorprese nascoste nei suoi commi - originari o aggiunti dal legislatore nel tempo - o nelle interpretazioni che degli stessi la giurisprudenza della suprema Corte non si stanca mai di offrire. Trent’anni sono sufficienti per fare un bilancio. Numerosi addetti ai lavori che, a differenza mia, hanno avuto modo di vedere i mutamenti dell’ordinamento sin dagli esordi del Codice stanno offrendo le loro valutazioni, chi positive, chi meno. Tra questi ultimi il dottor Paolo Borgna, magistrato di grande esperienza, di cui ho letto con interesse l’articolo apparso su Avvenire lo scorso 3 settembre (si può leggere a questo link: tinyurl.com/y3owu2km ). Partendo da un dato d’esperienza incontestabile, ossia la lunghezza (o meglio lungaggine) dei procedimenti, egli ritiene fallimentare l’esperienza del vigente Codice di rito. È vero, numerosi processi sono troppo lunghi, benché, in concreto, non direi frequenti quelli ultradecennali. Sto parlando dei processi penali ma forse anche questi, come quelli civili, saranno destinati a sprofondare in tempi biblici, a causa della sciagurata scelta di abolire la prescrizione: un “rattoppo” al codice penale - non a quello di procedura - che si riverbererà inevitabilmente sulla lunghezza del processo. La diagnosi della patologia identificata da Borgna è dunque corretta e meritevole il prima possibile di una cura, ma non penso che il “Codice Vassalli” sia l’origine di tutti i mali. Sono convinto che le piccole riforme siano un rischio, ma mi permetto di annotare che i “mini-interventi” più recenti, in ambito procedurale, si stanno rivelando positivi: dalla sospensione dei processi a carico delle persone irreperibili alla sospensione di quelli per reati meno gravi finalizzata a sottoporre l’accusato a una prova in favore della collettività; dalla possibilità di dichiarare l’estinzione dei reati di particolare tenuità alla chiusura dei processi tramite condotte riparatorie giudicate idonee anche laddove la persona offesa - per partito preso - non voglia rimettere la querela. Non è possibile, a mio avviso, ipotizzare N in questo frangente storico e politico una riforma radicale del Codice di procedura sia perché mancano in Parlamento giuristi all’altezza di un tale ambizioso progetto, sia perché -in ogni caso - il pensiero politico è talmente segmentato e arroccato su posizioni antitetiche, che non vi sarebbe la serenità per approvare meccanismi procedurali più snelli, coerenti e aderenti allo schema costituzionale del “giusto processo” di quello ad oggi in vigore. Vi è, infine, una terza ragione che mi pare militare in direzione opposta alla tensione totalmente riformatrice del Codice di rito: la metabolizzazione delle regole del gioco da parte degli operatori (avvocati, giudici, cancellieri, polizia giudiziaria, ausiliari e consulenti di vario tipo) e la loro esatta interpretazione giurisprudenziale è di per sé un processo strutturalmente lento, che necessita di anni, se non di decenni. Il Codice in vigore - prossimo appunto al compimento del trentesimo anno di vita - è da moltissimi penalisti (formatisi all’epoca del Giudice Istruttore) definito ancora oggi il “Nuovo Codice”. In sintesi ritengo che il Codice di procedura penale, nel variegato orizzonte legislativo, resti un piccolo capolavoro che sebbene fatichi a reggere la massa travolgente dei procedimenti penali, ancora resiste e laddove non avvertito come un peso, ma applicato come garanzia di funzionamento di quella complessa macchina retrospettiva che è il processo penale, sa offrire dei risultati talora stupefacenti. Bene - si potrebbe dire ora - questo discorso può valere per pochi processi dove fare un dibattimento articolato è necessario ai fini della giustizia. Il problema è che il sistema è nel suo complesso ingolfato perché la maggior parte dei processi dovrebbe essere definita con i riti alternativi, cioè con quelle forme di procedimento più agili per i Tribunali e vantaggiose per i diretti interessati. Secondo Borgna sta proprio qui il fallimento: i colpevoli preferiscono puntare sulle lungaggini procedurali e scegliere la via del dibattimento e così facendo contribuiscono a incagliare ulteriormente la situazione. T-la avvocato, tuttavia, penso di poter dire che ben di rado si consiglia al proprio assistito di affrontare un dibattimento solo perché “allunga il brodo”. Capita eventualmente nei casi già di per sé patologici, ossia quelli in cui le indagini sono (formalmente) durate anni e l’azione penale è stata esercitata quasi a ridosso della prescrizione. Altrimenti il criterio del tempo raramente influenza le scelte difensive. Rispetto a certi reati (ad esempio quelli in materia di stupefacenti) o a certi contesti (quando si viene arrestati in flagrante e tratti per direttissima avanti a un Giudice l’indomani rispetto al fatto) si patteggia moltissimo. Si fanno accordi che in pochi minuti vengono raggiunti tra Pm e avvocato, sentenziati, motivati contestualmente (questo vuole la Cassazione) e che, di fatto sprovvisti di effettive impugnazioni, diventano irrevocabili nel volgere di due settimane o poco più. D robabilmente è vero - statistiche nazionali alla mano - che per l’abbreviato si opta ancora troppo poco. Con questo rito si accetta un giudizio sulle carte: quelle dell’indagine condotta dal Pm, ma volendo pure quelle relative alle investigazioni del difensore. In cambio della celerità, in caso di condanna, si ottiene lo sconto secco di un terzo della pena. Cosa frena la scelta? Non penso il desiderio del dibattimento (se si fa il processo “normale” l’avvocato costa di più e c’è il rischio che arrivi una condanna più gravosa), ma credo piuttosto il timore di una interpretazione restrittiva dell’abbreviato. Che si dovrebbe poter scegliere con una certa serenità (innocente o colpevole che sia l’imputato) quando si ritenesse probabile l’assoluzione per l’insufficienza delle prove raccolte. Sta qui un problema che a mio avviso non risiede nella carta, ma nella mente. È diffusa l’idea (purtroppo confessatami come propria anche da alcuni giudici) che si faccia l’abbreviato solo per avere lo sconto. Ma non è così: servirebbe un cambio di mentalità all’insegna del garantismo, ossia nel solco del Codice vigente. Sul fronte dell’avvocatura sarebbe opportuna una maggiore e più seria specializzazione, perché non sempre siamo all’altezza della nostra professione. In un contesto di più approfondita conoscenza non solo della lettera, ma dello spirito del Codice di procedura penale ritengo possibile quel dialogo tra magistrati e avvocati che Borgna auspica. Rispettarsi reciprocamente porta a parlarsi direttamente, senza una visione autoreferenziale e oracolistica del proprio ufficio. Non stiamo vivendo tempi bui per la giustizia penale. Molte nubi si possono dissipare senza cambiare le regole del gioco. E questo mi pare tanto più possibile in un tempo in cui la magistratura, proprio perché travolta da uno scandalo, sta positivamente dimostrando di non essere una casta e di controllare la correttezza dell’operato dei suoi vertici e anche l’avvocatura (lentamente, ma progressivamente) sta abdicando all’idea di appartenere ad un ceto, favorendo l’avvicendamento dei rappresentati nei propri consigli e offrendo, tramite un associazionismo vivace, un contributo disinteressato alla tutela dei diritti fondamentali di tutte le persone, indipendentemente dalle loro condizioni e provenienze. *Avvocato, Unione giuristi cattolici italiani Comunità preventiva se il minore della baby gang mette in pericolo la classe di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 16 ottobre 2019 Corte di cassazione - Sezione II - Sentenza 15 ottobre 2019 n. 42323. Il rischio corso dalla classe a causa della costituzione di una baby gang violenta, giustifica la misura cautelare del collocamento in comunità, per il minore che estorce denaro e oggetti ai compagni di scuola. La Corte di cassazione, con la sentenza 42323, conferma la scelta della comunità, in via cautelare, per un minore indagato per estorsione aggravata. I giudici hanno valorizzato le dichiarazioni di una professoressa che, su segnalazione di genitori e di alunni, aveva scoperto che il ragazzo portava in classe in coltello e si era riunito in una chat denominata “rlq17” con una trentina di ragazzi violenti. Scopo della gang era farsi consegnare, con la minaccia, denaro o altri oggetti dalle giovani vittime: nello specifico 250 euro e un paio di scarpe da ginnastica da un compagno di scuola dell’indagato. Inutile per la difesa negare l’esistenza di concreti pericoli di reiterazione e assicurare “la piena maturata e consapevole vigilanza posta in atto ad opera dei genitori”. Per il tribunale del riesame, come per la Cassazione pesano “la spavalda manifestazione di prepotenza” e le minacce gravi, reiterate anche per più giorni. La personalità del ragazzo - per il quale era pendente un altro procedimento penale per violenza privata - era stata delineata negativamente dalle insegnanti. Elementi che, per la Cassazione, dimostrano l’attualità del pericolo, anche in considerazione dei fatti commessi in tempi ravvicinati, e il grave rischio al quale era esposta la comunità scolastica. Per lui, malgrado la giovane età si aprono le porte della comunità come misura cautelare. Iva, è dichiarazione fraudolenta l’abuso del regime del margine di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 16 ottobre 2019 Corte di cassazione - Sentenza 42147/2019. L’utilizzo improprio del regime del margine può provocare la condanna a titolo di dichiarazione fraudolenta. Per la prima volta la Corte di cassazione, con la sentenza 42147 depositata ieri, ha affrontato in maniera non episodica il tema della qualificazione penale della condotta di chi, impropriamente, ha fatto ricorso al meccanismo che permette, a determinate condizioni, di ridurre la base imponibile circoscrivendola alla differenza tra il prezzoo di rivendita del bene e il valore di acquisto dello stesso. Confermato quindi il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti dell’amministratore di una serie di società che aveva concretizzato un sistema di evasione fondato sull’acquisto all’estero di automobili, esente da Iva, per poi vendere i veicoli in Italia, utilizzando il regime del margine, facendo figurare gli acquirenti finali come diretti acquirenti delle auto all’estero, sulla base di false dichiarazioni sostitutive di atto notorio. A venire contestata dalla difesa era la stessa possibilità di configurabilità del reato di dichiarazione fraudolenta attraverso “altri artifizi” nel caso di uso improprio del regime del margine. Per la Cassazione, tuttavia, va innanzitutto sottolineato che per il reato (articolo 3 del Dlgs 74/00) è necessaria l’esistenza di un elemento aggiuntivo rispetto alla falsa rappresentazione cristallizzata nelle scritture contabili obbligatorie. Serve, tanto più dopo la riforma del 2015, cioè una condotta caratterizzata da un’elevata capacità di mascheramento e ostacolo all’accertamento della falsità delle rappresentazioni contabili. E allora, l’annotazione nelle fatture della dizione “operazione in regime del margine ex Dl 41 del 1995”, ha sicuramente, nella lettura della Corte, una portata elevata di inganno, dal momento che si fanno credere esistenti presupposti in realtà assenti, spingendo così all’errore l’amministrazione finanziaria. Si tratta di “un artificioso apparato documentale”, che si distingue dalla omessa fatturazione o annotazione di elementi attivi nelle scritture contabili o dalla indicazione nelle fatture o nelle annotazioni di elementi attivi inferiori a quelli reali. In quest’ultimo caso, infatti, distingue la Cassazione, si configura in sostanza un’omessa dichiarazione. Nel caso della “truffa” sul regime del margine, invece, “sono realizzate apparenze documentali specificamente dirette a rappresentare, contrariamente al vero, l’esistenza delle condizioni fattuali e giuridiche legittimanti l’applicazione di una disciplina giuridica non utilizzabile”. La sentenza respinge poi anche la tesi difensiva che contestava l’impossibilità di applicazione dell’articolo 3 per l’inesistenza di un fenomeno di evasione dell’Iva visto che non si tratta di un’imposta riscossa e non versata come nelle frodi carosello, ma solo non applicata. Toscana. Corleone lascia: le carceri non migliorano, sarà il mio ultimo sciopero della fame di Riccardo Congiu Corriere Fiorentino, 16 ottobre 2019 A giugno scade l’incarico per Corleone. “Da Sollicciano a Volterra, quante promesse rinviate”. “Non so perché li chiamino scioperi della fame. Io mi astengo dal cibo, ma di fame ne ho parecchia”, dice scherzando Franco Corleone, che da oggi smetterà di mangiare. Di nuovo. Le ragioni sono più o meno le stesse dell’ultima volta, a luglio. E da ricercare ancora nella “situazione disperante” - come lui stesso la definisce - delle carceri toscane. “Il digiuno, meglio chiamarlo così, ti aiuta almeno a non perdere tempo a pranzo. E a concentrarti sul lavoro anche nell’orario dei pasti”. Settantatré anni il mese scorso, più di 40 passati a lottare soprattutto per i diritti dei detenuti (e non solo). Franco Corleone, una decina di scioperi della fame alle spalle, non abbandona il suo impegno. Nemmeno nella conferenza in cui dovrebbe tirare le somme alla fine del suo mandato come garante regionale dei detenuti, cominciato nel 2013 (e già dal 2003 garante per gli istituti di Firenze). L’appuntamento di ieri gli è servito più che altro per fissare l’agenda. “A luglio il Provveditore mi aveva promesso per iscritto che diverse cose sarebbero state realizzate entro settembre-ottobre”, spiega Corleone. E fa riferimento al teatro da costruire nel carcere di Volterra, alla trasformazione dei bagni a vista nella sezione femminile del carcere di Pisa, al problema delle cucine a Livorno e a Sollicciano. Una “lentezza”, dice l’ex radicale, diffusa su nodi all’apparenza semplici, fermi per intoppi burocratici. “Ora mi dicono che le scadenze sono rimandate a fine anno. Ho la nausea di ripetere sempre le stesse cose. Quindi - insiste - per evitare reazioni scomposte è meglio che inizi un digiuno, che spero breve”. Il più lungo fu di 30 giorni, “molti anni fa, forse sull’informazione - ricorda Corleone. I chili persi sono stati tanti negli anni, ma posso assicurare che si riacquistano in fretta. Questi periodi scassano il metabolismo”. Il suo mandato cesserà il prossimo 26 giugno, mentre a breve cambierà anche il Provveditore dell’Amministrazione penitenziaria, la figura a cui sono state rivolte le richieste a luglio. “Sarà il dottor De Gesu, che conosco da decenni. Gli lascia il posto Antonio Fullone, io però intanto voglio consegnargli un cantiere aperto, sì, ma di prospettive”. Per il nuovo garante che sostituirà Corleone invece qualche nome è già stato fatto, dall’ex sindaco di Arezzo Giuseppe Fanfani a Francesco Ceraudo, per 37 anni responsabile del centro medico nel carcere di Pisa. “Adesso è difficile pensare a una figura all’altezza di Corleone”, commenta lo storico esponente radicale Massimo Lensi, “Franco ha portato la mentalità della giustizia rieducativa al posto di quella vendicativa. Il suo lavoro è stato ottimo nell’analisi delle piccole problematiche”. Quelle che talvolta sembrano più complesse dei grandi traguardi, racconta Corleone: “È stato più semplice vincere la battaglia sulla privacy dei detenuti con l’amministrazione penitenziaria. Oppure il passaggio dagli Opg ai Rems, una vera rivoluzione di cui si parla poco”. Il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), con il pericolo di un internamento senza fine, è stato affidato dal Consiglio dei Ministri nel 2016 proprio a Corleone come commissario unico. Nel 2017 la chiusura definitiva di quello a Montelupo Fiorentino. Intanto Corleone non si ferma. Al presidente del consiglio regionale Eugenio Giani ha consegnato un testo sul diritto all’affettività e alla sessualità nelle carceri: “È garantito dalla Costituzione, così come la possibilità per le regioni di fare proposte di legge. Mi auguro che la Toscana sia la prima a inviarla al parlamento”. Lazio. accordo Cantone (Prap) - Anastasia (Garante) per migliore qualità della vita in carcere di Antonella Barone gnewsonline.it, 16 ottobre 2019 Un protocollo d’intesa per realizzare interventi condivisi negli istituti penitenziari regionali è stato firmato ieri dal Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria per il Lazio, Abruzzo e Molise Carmelo Cantone e dal Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio Stefano Anastasia. “Una forte alleanza tra Provveditorato e Garante regionale - spiega Cantone - nel rispetto della specificità dei propri compiti istituzionali, è più che mai necessaria oggi per contribuire a migliorare la qualità della vita delle persone detenute ma anche la qualità della vita di tutti gli operatori che lavorano in carcere” Patti annuali tra le parti per il miglioramento delle condizioni di vita negli istituti e incontri periodici per la pianificazione congiunta di interventi sono tra i punti salienti dell’accordo. Nel quadro dei poteri e le facoltà riconosciute all’Autorità di garanzia dalla legislazione nazionali (visita degli istituti, colloqui con i detenuti e ricezione dei reclami), il protocollo prevede inoltre per il Garante l’impegno ad adottare prioritariamente la moral suasion nei confronti dei livelli dell’Amministrazione Penitenziaria, sia attraverso le segnalazioni, sia attraverso dei colloqui e incontri di verifica congiunta, evitando così, per quanto possibile, l’intervento delle altre Autorità competenti alla vigilanza o al ripristino della legalità. “All’indomani dell’ennesimo, tragico suicidio in un carcere della regione, a Regina Coeli - dichiara Anastasìa - torna la necessità di un impegno e di un sempre più stretto raccordo istituzionale per migliorare le condizioni di vita e di detenzione in carcere. Il Protocollo sottoscritto oggi recepisce prassi consolidate che sono tra le più avanzate d’Italia. Da più di quindici anni l’Ufficio del Garante delle persone private della libertà della Regione Lazio collabora con la massima libertà d’azione e con la massima disponibilità reciproca con l’Amministrazione penitenziaria. Questa disponibilità reciproca consente di valorizzare l’apporto che la Regione Lazio e gli enti locali possono dare alla privazione della libertà e a una esecuzione penale costituzionalmente orientata, a partire dai settori strategici dell’assistenza sanitaria e sociale, della formazione e dell’inserimento lavorativo”. Chieti. “Spes contra Spem-Liberi Dentro”, riflessione sull’ergastolo ostativo di Gigliola Edmondo rete8.it, 16 ottobre 2019 L’ergastolo ostativo è stato il tema al centro dell’incontro, ospitato a Chieti dal teatro Marrucino, preceduto dalla proiezione del docufilm “Spes contra Spem-Liberi Dentro”. L’associazione “Nessuno tocchi Caino” auspica una riforma che restituisca la speranza a tutti i detenuti. È un argomento che è tornato di grande attualità quello dell’ergastolo ostativo dopo la sentenza della Corte dei Diritti dell’uomo di Strasburgo che ha accolto le richieste del capo mafia Marcello Viola, il quale era già stato condannato in Italia a 4 ergastoli, ritenendo che la condanna al carcere “duro” o “ostativo”, cioè a vita e senza possibilità di beneficio, è disumana, perché toglie anche la speranza di uscire dal carcere. A Chieti ieri, 15 ottobre, al teatro Marrucino, si è svolto un dibattito nel corso del quale Elisa Zamparutti, tesoriera dell’Associazione ‘Nessuno tocchi Caino’, ha ribadito, alla presenza del cabarettista Germano D’Aurelio, in arte ‘Nduccio’, da sempre impegnato in campagne sociali, la “Necessità di una riforma, mentre si attende con fiducia la decisione della Corte Costituzionale che il prossimo 22 ottobre si esprimerà sulla legittimità del regime ostativo applicato all’ergastolo”. Il dibattito è stato preceduto dal docufilm di Ambrogio Crespi “Spes contra Spem-Liberi Dentro”, prodotto da Nessuno tocchi Caino e da Index Production e già presentato alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e alla Festa del Cinema di Roma. Il titolo è tratto dal motto contenuto nel passaggio della Lettera di San Paolo ai Romani sull’incrollabile fede di Abramo che “ebbe fede sperando contro ogni speranza”. Il docufilm è frutto del dialogo e della riflessione comune di detenuti condannati all’ergastolo e del direttore del carcere e degli agenti di polizia penitenziaria della Casa di Reclusione di Opera. Crespi ha detto “Abbiamo promosso una riflessione su mai contro qualcuno per stimolare il legislatore. Serve un impianto normativo che contempli il rispetto dei diritti umani. Nel rispetto della persona e dei lavori della magistratura. Nel docufilm emerge con chiarezza non solo un cambiamento interiore dei detenuti nel loro modo di pensare, di sentire e di agire ma anche la rottura esplicita con logiche e comportamenti del passato e una maggiore fiducia nelle istituzioni. Dalle testimonianze emerge anche che l’istituzione-carcere può rendere possibile il cambiamento e la ri-conversione di persone detenute in persone autenticamente libere”. Torino. Casa e ospitalità per i detenuti in permesso, riparte il futuro di Marina Lomunno Avvenire, 16 ottobre 2019 Un alloggio dall’Agenzia territoriale per i familiari di chi è in cella. L’arcivescovo: anche le parrocchie offrano i loro locali. Un alloggio di 30 metri quadri messo a disposizione dall’Atc di Torino, l’Agenzia territoriale per la Casa che gestisce l’assegnazione dell’edilizia popolare, è “la nuova tessera del puzzle” che la Caritas subalpina sta assemblando a favore del reinserimento dei detenuti. Il monolocale ospiterà i parenti che vengono a Torino a trovare i propri congiunti reclusi, ma non possono permettersi la permanenza in albergo, e anche i detenuti in permesso (da soli o con i famigliari) che non hanno altre disponibilità abitative in città. L’appartamento, adiacente al penitenziario cittadino in via delle Primule alle Vallette (il quartiere di edilizia popolare all’estrema periferia nord di Torino nato negli anni 60 per far fronte all’emigrazione dal Sud) è stato inaugurato giovedì 10 ottobre dall’arcivescovo Cesare Nosiglia alla presenza di Domenico Minervini, direttore della Casa circondariale “Lorusso e Cutugno”, del vicesindaco di Torino e assessore ai Servizi sociali Sonia Schellino, del presidente Atc Marcello Mazzù e dei volontari, una decina, che si occuperanno della gestione della casa. Tra questi, come ha spiegato il direttore della Caritas Pierluigi Dovis, “hanno dato la disponibilità ex detenuti che, scontata la loro pena e reinseriti nella società, hanno deciso di restituire in qualche modo il bene ricevuto. Alcuni di loro hanno usufruito dell’ospitalità dell’alloggio”. Sì, perché “La Casa di Silvana” - come è stata intitolato l’appartamento rinnovato di recente - è un progetto nato 20 anni fa su impulso della Caritas che ne affidò la gestione all’associazione “Oltre la Soglia”, la cui presidente Silvana Egitto è mancata ad agosto. “Nei circa vent’anni di attività - ha proseguito Dovis - in questa casa hanno trovato accoglienza ogni anno circa cento familiari o ristretti, per una permanenza media di quattro giorni. “Oltre la Soglia”, non potendo più accollarsi l’onere di gestione, ci ha chiesto di rilevare l’opera, unica in città e riattivando il servizio ci è parso bello intitolare la casa a Silvana Egitto, una donna che ha dedicato tutta la vita alle persone più fragili”. La Fondazione “Il Riparo Onlus” è la nuova intestataria del contratto di locazione, mentre Caritas coordinerà le attività: “È una scelta che abbiamo fatto dopo l’avvio nel febbraio scorso del servizio di ascolto interno al carcere e delle attività di inserimento nel mondo del volontariato e della formazione professionale dei detenuti”. Da parte sua il direttore Minervini, nel ringraziare la Caritas e l’arcivescovo per l’attenzione alle problematiche carcerarie, ha rilevato come “il volontariato sia indispensabile per fare in modo che le opportunità che offre l’ordinamento carcerario, come i permessi per buona condotta o la messa alla prova, possano realizzarsi: Casa Silvana è uno dei tanti esempi di come la società civile contribuisce al reinserimento dei detenuti nel tessuto sociale”. Monsignor Nosiglia, prima di benedire il monolocale ritinteggiato e rinnovato negli arredi, si è augurato che “Casa Silvana sia il primo di tanti alloggi destinati all’ospitalità delle famiglie dei detenuti: Torino, città dei santi sociali, può fare di più. Tanti appartamenti in città sono sfitti e possono accogliere chi è in difficoltà. Anche le parrocchie che hanno locali vuoti possono contribuire ad allargare la rete della solidarietà: ospitare un recluso in permesso con la propria famiglia è un gesto di speranza che contribuisce a ridare fiducia vuol ricominciare dopo aver pagato il proprio conto con la giustizia”. Venezia: caso Sissy Trovato Mazza, la Procura conferma la richiesta di archiviazione di Gianluca Amadori Il Gazzettino, 16 ottobre 2019 Non c’è alcun mistero sulla morte di Maria Teresa Trovato Mazza, Sissy, l’agente di polizia penitenziaria ventottenne, originaria di Taurianova, il cui corpo fu rinvenuto il 1 novembre del 2016, riverso al suolo, in un lago di sangue, in un ascensore dell’ospedale civile di Venezia (dove si era recata a fare visita ad una detenuta), con un proiettile che le aveva trapassato il cranio. La giovane si è spenta lo scorso 12 gennaio, dopo un calvario durato due anni. A conclusione delle indagini integrative disposte dal Gip, la Procura di Venezia ha confermato la richiesta di archiviazione del fascicolo, ritenendo assodato che si sia trattato di un suicidio, come ipotizzato fin dalla prima richiesta di archiviazione. Il legale che assiste la famiglia della vittima ha già annunciato che presenterà ancora opposizione, allegando nuovi elementi acquisiti grazie alla collaborazione di consulenti tecnici. È stato il procuratore Bruno Cherchi, ieri mattina ad illustrare i risultati delle indagini integrative, chieste dai familiari della vittima. Gli inquirenti hanno visionato nuovamente tutti i video delle telecamere dell’ospedale, dai quali non risulta alcuna persona sospetta sulle scale o nell’ascensore; nessuno in fuga, attorno a mezzogiorno. Fermo restando che avrebbe lasciato tracce di sangue. La Procura ha anche individuato la persona inquadrata da una telecamera mentre transitava in un corridoio e si era girato verso l’ascensore (non inquadrato da alcuna telecamera): ha riferito di non aver visto né sentito nulla.I consulenti del pm Elisabetta Spigarelli hanno quindi spiegato che può capitare che la pistola resti impugnata nella mano di chi si è autoinferto un colpo, senza cadere a terra. Anche la mancanza delle impronte di Sissy non è un mistero: quasi mai restano su quel tipo di pistola, a causa della zigrinatura dell’impugnatura e dei lubrificanti utilizzati per pulizia e manutenzione. Le analisi hanno confermato la presenza sulla pistola di materiale ematico della sola vittima. Mentre gli esperti sostengono che nel 25 per cento di casi simili, sul vivo di volata non restano tracce di sangue anche se la canna della pistola è stata appoggiata alla tempia della vittima. Dubbi fugati anche in relazione al cellulare di Sissy: la difesa ipotizzava che la giovane l’avesse portato con sè in ospedale e che qualcuno (l’assassino?) lo avesse poi spostato, riportandolo in carcere. Tesi che avrebbe circoscritto il perimetro dei possibili responsabili. Gli accertamenti sulla scheda sim hanno però appurato che quel telefonino è stato sempre nell’armadietto del carcere, dove è stato rinvenuto dopo che Sissy fu trovata moribonda: ha agganciato la cella della Giudecca due volte nel primo mattino del 1 novembre e poi alle 10.30: Sissy alle 11 era già all’ospedale (che dista circa 40 minuti di motoscafo dal carcere). Il secondo cellulare dell’agente non risulta aver mai generato traffico la mattina del 1 novembre. La Procura ha effettuato accertamenti anche sul cellulare della collega ed ex compagna di Sissy, che quella mattina ha agganciato la cella di via Torino a Mestre, dove la ragazza risiede, e stava riposando dopo aver effettuato un turno notturno. Per accreditare l’ipotesi di un suicidio, il pm cita infine le dichiarazioni della compagna di Sissy, secondo la quale la ventottenne stava passando un periodo di depressione. La richiesta di archiviazione dovrà essere ora presa in esame dal Gip. Alessandria. Carcere senza stress, la meditazione entra nelle carceri italiane politicamentecorretto.com, 16 ottobre 2019 Nella Casa di Reclusione San Michele, ad Alessandria, è stato presentato il progetto “Carcere senza stress”, che prevede l’utilizzo del programma di Meditazione Trascendentale per ridurre lo stress, promuovere il benessere psicofisico e una migliore qualità di vita per detenuti, agenti e operatori penitenziari. Il progetto, della durata di un anno, è iniziato a fine aprile 2019, coinvolge 15 detenuti e 16 tra agenti e operatori della Casa di Reclusione San Michele e della Casa Circondariale Alessandria Cantiello e Gaeta, che hanno imparato la tecnica di Meditazione Trascendentale nell’ambito di un progetto pilota finanziato dal Bando “Libero Relad 2018” della Compagnia di San Paolo. L’obiettivo è promuovere una concezione culturale e sociale della sistema penale che metta al centro l’individuo, nella titolarità dei suoi diritti e delle sue responsabilità, favorendo il miglioramento della qualità della vita e delle condizioni detentive. Il progetto “Carcere senza stress” è un ramo del progetto “Friends”, sostenuto dal programma Erasmus+ della Commissione Europea, nato per promuove l’inclusione sociale e l’educazione all’interculturalità in tutti i contesti di istruzione e formazione, attraverso l’implementazione della tecnica di Meditazione Trascendentale. Elena Lombardi Vallauri, direttore Istituti Penitenziari di Alessandria ha dato il benvenuto ai partecipanti. Roberto Baitelli della Fondazione Maharishi ha spiegato che lo stress oggi è un fenomeno di proporzioni epidemiche con gravi ripercussioni sociali e nelle carceri ha raggiunto un livello insostenibile che incide pesantemente sulla salute dei detenuti e del personale, conduce alla crescita delle infrazioni ai regolamenti e di altri comportamenti negativi. Oltre che ostacolare il processo di riabilitazione dei detenuti stessi. L’antidoto naturale allo stress è il riposo. La tecnica di Meditazione Trascendentale, i cui numerosi benefici sono documentati da 700 studi scientifici, procura un riposo così profondo da sciogliere lo stress già accumulato e aumentare la resistenza allo stress. Negli ultimi 50 anni la Meditazione Trascendentale è stata utilizzata con successo nelle carceri di molte nazioni. Negli Stati Uniti ad esempio è stato utilizzata nelle carceri di massima sicurezza, come San Quintino, Folsom e Walpole con ottimi risultati, che includono la riduzione di ansia, depressione, fatica e rabbia. E aiuta a combattere il modo di pensare criminale, lo stress psicologico, i sintomi traumatici, e porta ad una riduzione delle infrazioni alle regole carcerarie, una riduzione del 30% della recidività. Paolo Menoni, della Fondazione Maharishi, insegnante della tecnica di Meditazione Trascendentale nel progetto “Carcere senza stress”, ha descritto il progetto in corso negli istituti penitenziari di Alessandria e ha riportato le esperienze di alcuni detenuti. Sia per la condizione carceraria stessa che per il sovraffollamento la vita nel carcere è molto stressante, e se non è possibile modificare queste condizioni, quantomeno è possibile offrire ai detenuti e anche a tutti coloro che operano nel carcere uno strumento che li aiuti ad attingere alle proprie risorse interiori e aumenti il loro benessere psicofisico. Come hanno riportato alcuni partecipanti, “La meditazione mi ha aiutato a superare tante difficoltà: ora il mio pensiero è bello e positivo”. E poi ancora: “La meditazione mi sta facendo finalmente trovare quella pace interiore che ho cercato fin dalla nascita”. Successivamente Federico Traversa ha presentato il libro “Boom, Viaggio nella Meditazione Trascendentale”, (Chinaski Edizioni) che raccoglie numerose testimonianze su questo argomento da parte di insegnanti qualificati, praticanti della meditazione, medici, artisti e ricercatori. Firenze. L’imam e il “suo” Sollicciano nella tesi. “Quanti ragazzi trattati come scarti” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 16 ottobre 2019 Parlo e prego insieme ai detenuti. Sono pieni di rabbia, ma pregando con loro piano piano vedo un cambiamento. Ha iniziato la tesi esclamando “Salam Aleykum”. Poi, nel corso della discussione, ha citato Gesù e Maometto, si è commosso con le parole di Papa Francesco e con le riflessioni del grande imam Ahmad alTayyeb. Ha poi passato in rassegna il Corano e il Vangelo. Davanti a lui, in cattedra, i professori di teologia cristiana, molti dei quali sacerdoti. Dietro a lui, seduti in prima fila, gli imam da tutta Italia. Hamdan Al Zeqri, ministro di culto a Sollicciano, è uno dei primi musulmani a laurearsi in teologia cristiana. Quella di ieri mattina, alla facoltà teologica dell’Italia centrale di Piazza Tasso, è stata una laurea dalla portata storica (105 il voto finale). “Spero di essere un agente di pace” ha detto Hamdan. Tema centrale nella tesi di Hamdan, la sua esperienza come guida spirituale nel carcere fiorentino, dove sono tanti i reclusi musulmani. “Sono ragazzi pieni di rabbia - ha raccontato Hamdan - si sentono esclusi, sono trattati come scarti, il loro progetto migratorio è fallito. Il rischio è quello di vederli uscire peggio di come sono entrati”. Nella tesi di Hamdan ci sono anche le parole che Papa Francesco ha rivolto agli agenti penitenziari: “Non dimenticatevi del bene che potete fare ogni giorno. I vostri sguardi sono preziosi”. È quello che cerca di fare Hamdan, come raccontato nella tesi: “Parlo e prego insieme a loro, pian piano vedo un cambiamento, le persone passano dalla disperazione alla speranza, la rabbia si placa attraverso un percorso spirituale che è curativo”. La sua iscrizione alla facoltà teologica è stata fortemente voluta dalla comunità islamica nell’ottica del dialogo interreligioso. “Questo è un giorno importante perché segna un passo nel cammino del dialogo interreligioso”. Presente alla discussione anche il presidente delle Comunità islamiche italiane (Ucoii) Yassine Lafram: “Questa laurea è un segnale importante di autentico dialogo”. Catanzaro. Presentato il concorso “Pensieri sulla legalità” al carcere di Siano calabriapost.net, 16 ottobre 2019 Dalla collaborazione tra la Casa Circondariale di Catanzaro, diretta da Angela Paravati, e l’associazione Universo Minori, presieduta da Rita Tulelli, nasce l’idea di una competizione positiva - e altamente significativa- per un contesto chiamato carcere: il concorso “Pensieri sulla legalità”. I detenuti avranno tre mesi di tempo per elaborare riflessioni, scrivere lettere, commenti a notizie di stampa, produrre manufatti artistici o disegni che rappresentino una riflessione sulla legalità. I lavori saranno selezionati da una giuria ed il migliore sarà premiato. L’iniziativa rientra nel pluriennale percorso portato avanti dall’associazione Universo Minori, da sempre attenta a valorizzare tutto ciò che nel carcere è umanità, e a collaborare con la direzione dell’istituto nelle varie iniziative finalizzate a percorsi di rieducazione e reinserimento. Nel corso del tempo sono stati valorizzati i temi relativi alla famiglia, con particolare attenzione ai genitori detenuti e alle esigenze dei piccoli che vengono spesso a trovare i papà in carcere, anche attraverso la creazione di laboratori e stanze accoglienti dedicate proprio ai bambini. “La collaborazione con le realtà di volontariato è fondamentale per l’istituzione carcere” afferma la direttrice Angela Paravati “perché la detenzione non deve avere un significato solo afflittivo, ma deve tendere alla rieducazione del condannato e ad un ritorno nella società libera senza rischio di recidiva. Ciò è possibile solo grazie ad un’attenzione della società civile, ad un interesse verso chi per mesi o per anni ha “abitato” nella struttura di Siano”. Comprendere non vuol dire compatire: vuol dire ammettere che chi ha sbagliato e ha scontato il suo errore ha diritto ad una seconda possibilità, se accetta di rispettare le regole. E proprio sull’idea del rispetto delle regole si basa il concorso “Pensieri sulla legalità”, un vero e proprio esercizio del pensiero, un’esercitazione sulle alternative di vita, sulla capacità di discernimento, sulla possibilità di scegliere “la cosa giusta da fare”, anche alla luce degli errori commessi. Fotografia. Quello sguardo “murato”. La galera secondo Bispuri di Edoardo Albinati Avvenire, 16 ottobre 2019 Il fotografo romano ha percorso un viaggio inedito e crudo in dieci penitenziari italiani, costruendo un progetto di documentazione delle strutture e di chi le abita. Edoardo Albinati: “Si resta senza fiato di fronte a queste immagini. In prigioni così le persone marciscono”. Nelle fotografie diValerio Bispuri lo sguardo sulla galera diventa spesso lo sguardo della galera, assume cioè il modo di vedere le cose e le persone di chi tra quelle mura è recluso, oppure ci lavora come agente di custodia: distanze ridotte a forza, scorci violenti, gruppetti di persone e singoli volti o corpi improvvisamente ravvicinati, panorami che si interrompono contro una parete scrostata o una muraglia, il riquadro dello spioncino, il vetro del divisorio. Molte immagini infatti ci raggiungono riflesse da un vetro o attraverso di esso. Il vetro in carcere: elemento di unione per la sua trasparenza e al tempo stesso di separazione, ma soprattutto di duplicazione, per cui riusciamo a vedere non solo chi è guardato ma anche chi sta guardando, gli agenti preposti alla sorveglianza di detenuti e detenute. È un tema ricorrente, quasi ossessivo, in queste fotografie: la presenza del controllore e dei controllati nel medesimo quadro, realizzato con la virtuosistica tecnica dello split-screen o in modo più tradizionale, per esempio nella classica routine del “nuovo giunto”, appena tradotto in carcere, che viene accompagnato in matricola ancora con le manette ai polsi. Ma si tratta comunque di visioni parziali. Anche se nel progetto iniziale la galera doveva essere integralmente “visibile” da un occhio onnisciente capace di frugare e sorvegliare con un unico sguardo (il cosiddetto Panopticon, modello, ad esempio, del famoso ergastolo sull’isola di Santo Stefano), tutto in realtà vi è parziale, frammentato, oscurato, o sezionato in dettagli. Bispuri accentua il lato drammatico o talvolta anche comico di questa riduzione di un essere umano a una parte del suo corpo, le mani come tagliate via dal resto, le braccia protese, l’addome, la schiena o il petto coperti di scritte e simboli, la tranche di un viso femminile che uno specchietto murato riesce appena a inquadrare, o l’umoristico scambio tra realtà e finzione di quella pistola tatuata sulla pancia di uno che viene impugnata dalla mano di un altro, pronta a tirare il grilletto. A questi corpi che stanno scadendo nel degrado della detenzione, che sono sempre sul punto di lasciarsi andare (e alcuni lo hanno già fatto, e sono ormai allo sfascio...) viene riservata almeno un po’ di beffarda pietà, la minima manutenzione che si riserverebbe alla carrozzeria sgangherata di una vecchia automobile, sicché un istante prima di precipitare vengono riacciuffati da una cura di sé che fa tornare improvvisamente umani anche se, quella cura, come ad esempio truccarsi gli occhi o pettinarsi o irrobustire i muscoli sollevando manubri i cui pesi sono costituiti da maxiconfezioni di bottiglie, andrà sostanzialmente sprecata visto che di quell’aspetto non godrà in fondo nessuno, e la forma fisica fatta di muscoli o di rimmel potrà essere tutt’al più ammirata da qualche altro galeotto o da una guardia. Bispuri registra senza commenti le attività volte sostanzialmente alla conservazione del proprio profilo umano, includendovi anche il lavoro (raro) e la scuola (rara anche quella): si tratta di episodi sparsi nell’insieme della raccolta. Non si può infatti che restare senza fiato di fronte all’impressione più forte comunicata da queste fotografie: in galera (come del resto non sono in pochi dall’esterno ad augurarsi...) ci si marcisce dentro. Così come sono fatte queste prigioni, ci si marcisce e basta. Altro che! Le persone marciscono, i loro corpi si sfasciano, la loro mente pure, l’umanità non si riscatta o riabilita, semmai ulteriormente si degrada. Anche per questo e non solo per un fattore tecnico e ottico, molte delle immagini realizzate da Bispuri in interni sono così caliginose, maculate, striate, tenebrose. E spiega come molte di esse abbiano più o meno volutamente un tratto “manierista”, ricordino cioè pitture sacre a cavallo tra Cinque e Seicento, sia che compongano corpi nello spazio, sia che concentrino il fuoco su un singolo viso, come l’intenso ritratto di “santo criminale”, e più ancora nella blasfema “crocifissione” in copertina, punto d’incontro tra immagini disparate come Pontormo, il cinema di Pasolini, “Cinico tv” e il video dei Nirvana Heart-shaped Box. Se poi da tante visioni crudeli e ispirate e quasi fantastiche vogliamo tornare di corsa sulla terra, e sul serio sapere come e dove vivono i prigionieri, dove abitano (poiché anche una cella la si abita a tutti gli effetti e diventa la tua casa, nonché la tua residenza anagrafica), ebbene, ci basterà dare un’occhiata alle fotografie 2 e 49. Ecco, la vita dei prigionieri è questa. Corpi e funzioni corporali, mescolati e compressi in pochi metri quadri. Solo poche volte nella collezione di Bispuri lo sguardo si solleva e ci regala una visuale aerea, che nessuno oltre al fotografo in verità potrebbe cogliere, né detenuto né visitatore, e sono i bellissimi e spassionati “totali” dove l’edilizia carceraria espone la sua razionalità impeccabile fatta di blocchi e raggi, e si può finalmente osservare come questi complessi facciano parte di un tessuto urbano, siano incorporati nella città, siano, anzi, delle vere e proprie cittadelle murate all’interno di un’altra città, così come lo sono un cimitero, un tribunale o un grande ospedale urbano. Incorporate e allo stesso nascoste, segretate. Chi entra in carcere per rappresentarlo sta svolgendo una funzione innaturale e impropria quanto, forse, necessaria. Al termine di questa lunga carrellata di immagini spesso impressionanti, infatti, ne restano nella memoria due in apparenza minori, meno drammatiche, anzi per nulla, o forse sono drammatiche anch’esse proprio perché ogni dramma viene lasciato fuori dalla loro cornice. È implicito, incombe, ma non si vede. Nella prima, due guardie in una cella, di fronte alla coperta leopardata di una branda a castello: due ritratti virili, molto tipicamente italiani, due uomini al lavoro, che forse è consistito nel perquisire quella cella. Una procedura di routine, e loro paiono assorti, quasi attoniti, subito prima o subito dopo averla svolta. L’altra chiude non a caso il libro: un detenuto, massiccio e pelato, palleggia da solo nel cortile dell’ora d’aria, tutto concentrato sulla palla, come un ragazzino. Fotografia. Il racconto dei “Prigionieri”: degrado, sovraffollamento... e la rieducazione? Avvenire, 16 ottobre 2019 Si intitola “Prigionieri” (Contrasto, pagine 176, euro 39,00) il nuovo reportage di Valerio Bispuri, il primo fotografo ad aver ottenuto, da parte del dipartimento Amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, l’autorizzazione a visitare alcuni dei più importanti penitenziari italiani, costruendo un progetto di documentazione di queste strutture e di chi le abita: sovraffollamento, precarietà dei fabbricati, mancanza di personale, difficoltà a mettere in piedi programmi di rieducazione del detenuto. Il libro è accompagnato da un fascicolo con i testi di Edoardo, da oltre vent’anni insegnante nel penitenziario di Rebibbia, e del filosofo Stefano Anastasia, fondatore e presidente onorario dell’associazione Antigone e Garante delle persone private della libertà per le Regioni Lazio e Umbria. Prigionieri sarà presentato il 15 novembre alle 18,30 al Museo Maxxi di Roma. Il libro si apre con una frase di Virginia Woolf: “Ho pensato a quanto spiacevole sia essere chiusi fuori, e ho pensato a quanto sia peggio essere chiusi dentro”. Libri. Antifascisti e anarchici condannati all’eliminazione di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 16 ottobre 2019 L’ergastolo è una pena innaturale, che cambia la natura dei comportamenti. Da Gaetano Bresci a Rubin Carter, detto Hurricane e cantato da Bob Dylan: storie della pena capitale in vita contro cui si batterono Perucatti e Spinelli. Tratto da “Antigone. 25 anni di storia italiana visti da dietro le sbarre”, di Susanna Marietti e Valerio Chiola (Round Robin editrice). La storia è quella di Carmelo Musumeci, che ha raccontato con profondità e dolore cosa significhi essere nella condizione di ergastolano ostativo. “Gaetano Bresci fu Gaspero, condannato all’ergastolo per l’uccisione a Monza del re d’Italia”. Così il 22 maggio del 1901 fu archiviata, come se fosse suicidio, la morte dell’anarchico Gaetano Bresci nell’ergastolo-fortezza dell’isola di Santo Stefano a Ventotene. Pochi in realtà credettero al suicidio. Non vi credette ad esempio Sandro Pertini, che in quel carcere vi trascorse un periodo della sua lunga prigionia. A Gaetano Bresci, secondo il futuro presidente della Repubblica, avrebbero fatto il Sant’Antonio, ossia sarebbe stato massacrato di botte fino alla morte. Ancora oggi nello slang delle galere si usa l’espressione Sant’Antonio per indicare una pratica di punizione violenta per le vie brevi. Gaetano Bresci fu dunque probabilmente ammazzato nell’isola degli ergastolani. Nelle scorse settimane ho avuto la fortuna di visitare l’ex carcere di Santo Stefano insieme a un gruppo di studiosi e studenti dell’Università Roma Tre. Un viaggio che, anche grazie alla sapienza e alla passione di una guida del comune di Ventotene, si è efficacemente trasformato in una lezione di diritto e di etica sull’antropologia della pena e del potere. Il carcere di Santo Stefano, oramai chiuso da decenni, ci interroga intorno a chi sono le persone pericolose, a come vengono trattate, al rapporto tra potere e diritto ma anche tra uso della forza e garanzie fondamentali. Gaetano Bresci, prima di tornare in Italia per uccidere re Umberto I di Savoia, aveva vissuto nella città americana di Paterson, dove qualche decennio più avanti il pugile Rubin Carter, detto anche Hurricane per la forza devastante che esprimeva sul ring, sarebbe stato arrestato e condannato a tre ergastoli per un delitto che, come sarà successivamente acclarato, non aveva mai commesso. Fu Bob Dylan a raccontare e cantare la storia di Hurricane, ergastolano innocente, condannato, come la stessa Corte Federale Usa riconobbe, per evidenti pregiudizi di discriminazione razziale. L’ergastolo, al pari della pena di morte, è una pena eliminativa. Solo chi ha vissuto il carcere-fortezza degli ergastolani può intuire cosa significhi la condizione umana dell’ergastolano. Eugenio Perucatti nei primi anni Cinquanta, finita la tragedia fascista, andò a dirigere il carcere di Santo Stefano. Al momento del suo arrivo non c’erano più i dissenzienti politici imprigionati dal regime mussoliniano. Alcuni erano già morti, come ad esempio Antonio Gramsci, proprio a causa della durezza del regime penitenziario. Nel carcere diretto da Perucatti c’erano solo criminali comuni. Lui iniziò ad osservarne la vita di tutti i giorni. Oziavano rinchiusi in celle, che lo scrittore risorgimentale Luigi Settembrini, anche lui recluso a Santo Stefano, circa un secolo prima, aveva definito ‘la tomba dei vivi’. Perucatti avviò un percorso di attenuazione della durezza delle condizioni di vita interne. Fece costruire all’interno del carcere dagli stessi ergastolani un campo di calcio nonché quella che lui chiamò con enfasi religiosa la Piazza della Redenzione, con alberi, panchine e viali. La redenzione di cui parlava e scriveva il direttore Perucatti, non era altro che la risocializzazione di cui negli anni a seguire ha descritto la Corte Costituzionale. Avviò una campagna per l’abolizione della pena dell’ergastolo, suggerendo al suo posto la cosiddetta pena condizionalmente perpetua. Ricevuto dal Presidente della Repubblica, scrisse: “La disumanità della pena dell’ergastolo non sta nel fatto di minacciare ad un individuo di fargli terminare la sua vita in carcere, qualora continuerà ad essere delinquente, ma nel fatto di non offrirgli la possibilità di riscattarsi, modificandosi. In questo senso io penso possano conciliarsi le esigenze della remora al delitto con le ragioni di umanità; la soluzione più giusta e più equa: pena condizionalmente perpetua”. Michele Giua, azionista, professore di chimica, fu incarcerato dai fascisti per lunghi otto anni nelle galere dell’allora Regno d’Italia. Così descriveva la pena dell’ergastolo: “L’ergastolo è immorale oltre che dispendioso; forse meglio la pena di morte per i grandi colpevoli. Eppure vi sono ministri della giustizia che negano la libertà ad ergastolani che hanno passato trentacinque o quaranta anni di galera! Tali ministri sono sacerdoti di una giustizia che nulla ha di umano. Dopo trent’anni di reclusione non si è più uomini, anche nel senso fisico della parola, si è degli spettri nella vita fisica e morale”. La presenza degli ergastolani in un carcere ne cambia la fisionomia. Di fronte a una pena senza prospettiva di rilascio il detenuto pensa più spesso alla morte, oppure a forme di anomalo adattamento al contesto. In un memorabile scritto inviato a Piero Calamandrei, Altiero Spinelli, che per motivi politici aveva scontato durante il regime fascista nove anni di carcere e sei di confino di cui metà del tempo proprio a Ventotene, affermava: “L’ergastolano è il detenuto di cui i reclusi più diffidano perché è quasi regolarmente una spia della direzione, un servitore abbietto dei guardiani. Egli dovrebbe portare una matricola scritta in stoffa nera, ma, per poco che si rilassi la severità della regola carceraria, se la toglie e la sostituisce con la matricola su stoffa bianca o verde dei condannati a tempo”. La pena dell’ergastolo è una pena innaturale che cambia la natura dei comportamenti, li deforma irreversibilmente. L’ergastolo senza alcuna prospettiva di rilascio lo fa assomigliare drammaticamente alla pena capitale. Le contraddizioni dei Nobel per la pace di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 16 ottobre 2019 Ecco una riflessione su come è stato dato nei decenni il Nobel più importante, quello per la pace. La consegna del Nobel per la letteratura all’austriaco Peter Handke, schierato durante la guerra civile in Jugoslavia dalla parte dei serbi di Slobodan Milosevic e del generale Ratko Mladi, il macellaio di Srebrenica, ha riacceso le polemiche: si può premiare una persona per un pezzo solo della sua vita ignorando il resto? Mah... Al di là dei distinguo di oggi (uomo discutibile, grande scrittore) è comunque un peccato non aprire una riflessione su come è stato dato nei decenni il Nobel più importante, quello della pace. Perché, certo, la scelta di alcuni politici autori di passi storici ma anche di incoerenze pacifiste (dall’americano Kissinger al vietnamita Le Duc Tho, da Arafat a Rabin o Obama) può essere motivo di dibattito, ma altri Nobel nella lista gridano vendetta. Un esempio? La svedese Alva Reimer Myrdal, premiata nel 1982 per l’”impegno a favore del disarmo” svolto durante la sua seconda vita, dedicata alla diplomazia. Nella prima, infatti, la donna si era dedicata insieme col marito Gunnar Myrdal (lui pure Nobel per l’economia nel ‘74) alla politica e alla definizione del sistema sociale del suo Paese. E scrisse con lui un libro, Kris i befolkningsfrågan (La crisi nella questione demografica), teorizzano nel 1934 l’urgenza di soluzioni eugenetiche raggelanti. Un esempio? “Consentire a dei genitori idioti di riprodursi ci sembra un argomento indifendibile, da qualsiasi punto di vista. Ogni caso, è un caso di troppo”. Una tesi che apriva all’oscena legge eugenetica svedese del 1935 (che avrebbe portato alla sterilizzazione di oltre 63mila persone “difettose”, uno scandalo coperto per quarant’anni) ed era in linea con le idee che si andavano imponendo nella Germania nazista per compiersi nella mattanza dei disabili nota come progetto AktionT4. Di più: quel 1935 fu anche l’anno in cui, per una delle contraddizioni della storia, il Nobel svedese per la pace venne assegnato a uno che se lo meritava davvero, il pacifista tedesco Carl Von Ossietzky. Che non poté mai ritirare il premio perché da due anni era nelle carceri hitleriane. A proposito: sarebbe il caso che Wikipedia, nella pagina in cui elenca i vincitori del Nobel, rimuovesse accanto alla foto del martire non violento il simbolo del Terzo Reich. Che sventola con tanto di croce uncinata. Migranti. Barca con 12 cadaveri sul fondale a Lampedusa: una madre abbracciata al bimbo di Fulvio Fiano Corriere della Sera, 16 ottobre 2019 Il naufragio il 7 ottobre. Sull’imbarcazione c’erano 50 persone, in gran parte donne. Il vento e la pioggia che avevano contribuito ad affondare il barchino sul quale viaggiavano stipati sembravano averli condannati anche a una morte senza sepoltura, spingendo i loro corpi al largo, verso la Tunisia da dove erano partiti. E invece, quando ormai la speranza andava svanendo, i cadaveri sono stati individuati proprio lì dove, la notte tra il sei e il sette ottobre, sono scesi verso il fondo, a sessanta metri di profondità, sei miglia al largo della costa di Lampedusa. Sono dodici corpi di chi, partito carico di speranze, ha perso la vita in quel viaggio. Ma altri potrebbero essere nelle vicinanze. Tra loro, ci sarebbe anche una mamma abbracciata al figlio di pochi mesi che disperatamente venivano cercati sul molo dell’isola da una superstite (sorella della donna e zia del piccolo) in quella che sarà ricordata come “la strage delle donne”. Il ritrovamento è avvenuto grazie ai sommozzatori della Guardia Costiera che, passato il maltempo, hanno ripreso a esplorare i fondali grazie anche a un robot subacqueo. Sulla nave di 10 metri, secondo le testimonianze, c’erano almeno 50 persone, 22 delle quali tratte in salvo nei primi minuti seguiti al rovesciamento, le altre condannate dal mare grosso. I tredici cadaveri portati a riva dalle navi intervenute allora erano tutti di giovani donne (una anche incinta), di Costa D’Avorio, Camerun, Guinea, Burkina Faso con l’ipotesi ancora in piedi che fossero almeno in parte destinate, lungo una nuova tratta, al mercato europeo della prostituzione. A bordo anche numerosi tunisini, a conferma della rotta battuta dagli scafisti in sostituzione di quella in acque libiche. Nel naufragio sarebbe morto anche l’uomo che governava la nave. “Ci abbiamo creduto sino alla fine. Il personale della Guardia Costiera non ha mollato un solo giorno, nonostante il carico di lavoro ordinario che continua a gravare su Lampedusa”, sottolinea il procuratore aggiunto di Agrigento, Salvatore Vella, che conduce l’inchiesta con l’ipotesi di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, naufragio e omicidio plurimo. “I nostri militari hanno messo in campo tutta la loro professionalità e anche il loro cuore”, aggiunge il pm. Nessuno dei passeggeri del barchino indossava il salvagente che sarebbe stato sufficiente a non annegare. Le operazioni di recupero delle salme partiranno nei prossimi giorni. Ma le stragi non fermano le partenze dei migranti. Centottanta persone sono state soccorse nel Canale di Sicilia, circa 35 miglia a sud ovest di Lampedusa, in area Sar maltese. Anche stavolta il soccorso è scattato prima dell’alba con una chiamata da un telefono satellitare. Un aereo dell’operazione internazionale Eunavfor med ha individuato il barcone e ha allertato la centrale operativa di Roma. La segnalazione è stata poi inoltrata alle autorità maltesi, che hanno assunto il coordinamento dell’operazione ma non hanno concesso un porto per sbarcare. L’Italia ha inviato due motovedette della Guardia Costiera e una della Guardia di Finanza giunte sul posto poco prima che il barcone affondasse. Stavolta, per fortuna, non c’era mare grosso. Altre 176 persone, salvate nei giorni scorsi dalla Ocean Viking (tra loro 4 donne incinte e 33 minori, di cui 23 non accompagnati), sbarcheranno invece oggi a Taranto. La lotta dei cittadini di Hong Kong per la libertà e per lo Stato di diritto di Nicola Galati extremaratioassociazione.it, 16 ottobre 2019 Abbiamo tutti negli occhi le immagini delle manifestazioni oceaniche ad Hong Kong, proteste iniziate ad Aprile ma esplose ad inizio Giugno e da allora non più cessate. La causa scatenante è stata la diffusa opposizione ad un emendamento alla legge sull’estradizione presentato dal Governo di Hong Kong. Ad oggi l’estradizione è regolata mediante accordi bilaterali con altri Paesi, tra i quali non vi è la Cina continentale. L’emendamento avrebbe reso possibile l’estradizione in Cina seppure soltanto per alcuni reati gravi, puniti con una pena di almeno sette anni (quali l’omicidio), e non per reati “politici”. In questo spazio si vuole porre l’attenzione sulle questioni riguardanti alcuni aspetti giuridici lasciando ad altri ben più preparati le considerazioni politiche, storiche, strategiche e sociali. La proposta è stata però vista come un primo cedimento nei confronti della Cina dalle conseguenze ben più significative. La limitazione dell’estradizione ai reati più gravi non è bastata a tranquillizzare i cittadini di Hong Kong ben consci che, una volta superata questa linea rossa, in futuro potrebbe essere facilmente esteso il catalogo di reati per cui è possibile concedere l’estradizione e che, intanto, potrebbero essere strumentalizzate accuse per reati più gravi per poter estradare dissidenti politici. Ciò che più preoccupa è finire nella mani del sistema giudiziario cinese. Mentre ad Hong Kong il sistema giudiziario è indipendente, basato sulla common law anglosassone e non è prevista la pena di morte, in Cina è ancora in vigore la pena di morte, vengono denunciate violazioni dei diritti umani e del diritto di difesa ed il sistema penale è spesso utilizzato per fini politici. Inoltre, come sottolineato da Giulia Pompili, giornalista esperta di Asia, con la nuova legge anche i cittadini stranieri che si trovano a Hong Kong avrebbero rischiato di essere estradati in Cina. I manifestanti hanno raggiunto un primo obiettivo: l’emendamento sull’estradizione è stato sospeso dal Governo di Hong Kong in giungo ed è stato ritirato in settembre. Le proteste non si sono però fermate e proseguono ancora oggi; i manifestanti chiedono riforme democratiche, maggiore autonomia, le dimissioni della governatrice, la fine della repressione. La risposta delle autorità è stata infatti dura e violenta fino a giungere, il 1 ottobre, al grave ferimento di un manifestante, colpito al petto da un colpo d’arma da fuoco esploso da distanza ravvicinata da un poliziotto, immagini che hanno fatto il giro del mondo. Il Governo di Hong Kong, il 5 ottobre, ha anche disposto il divieto di coprire il volto durante le manifestazioni, utilizzando una legge dell’epoca coloniale inglese che non veniva utilizzata dal 1967. I manifestanti coprono il volto per proteggersi dai gas urticanti e dai lacrimogeni e per non essere identificati dalle autorità temendo gravi ripercussioni. Il diritto ad un giusto processo, il diritto ad un giudice terzo ed imparziale, il diritto di difesa, non sono capricci da azzeccagarbugli, sono le garanzie fondamentali del cittadino per difendersi dagli abusi del potere. La difesa delle libertà dell’individuo passa da un sistema giudiziario liberale ed indipendente. Idee ben chiare ai cittadini di Hong Kong che sono scesi in piazza pur di scongiurare il pericolo di essere estradati e processati in Cina. Così come la repressione del libero dissenso passa spesso dall’adozione di leggi speciali che reprimono le manifestazioni pubbliche, motivate da supposte emergenze e minacce alla sicurezza. Non vi è alcun riferimento alle vicende italiane, la gravità dei fatti di Hong Kong non si presta a strumentalizzazioni. Si può solo ammirare l’anelito di libertà ed indipendenza che pervade i cittadini di Hong Kong che meritano il sostegno di chi crede ancora in questi valori fondamentali. Malta. Due anni senza Daphne Caruana Galizia, due anni senza giustizia di Riccardo Noury Corriere della Sera, 16 ottobre 2019 A chiusura del suo ultimo pezzo, pubblicato poco prima di morire, Daphne Caruana Galizia, la più nota giornalista investigativa di Malta, aveva lasciato una frase suonata tragicamente profetica: “Ci sono criminali ovunque io guardi. La situazione è disperata”. Daphne è morta di fronte alla sua abitazione, a Bidnija, il 16 ottobre 2017. Saltata in aria nella sua automobile a causa di un ordigno molto potente: 400 chili di esplosivo. Omicidio politico con modalità criminale mafiosa. A distanza di due anni, tre persone sono sotto processo con l’accusa di essere stati gli esecutori dell’omicidio. Ma chi l’ha ordinato? Daphne si era fatta molti nemici: attraverso il suo blog (che aveva anche 400.000 visualizzazioni al giorno) aveva indagato sulla corruzione ai più alti livelli governativi, sui legami tra esponenti politici e società private costituite offshore, sul riciclaggio di denaro sporco. In poche parole, sulla collusione tra criminalità e politica. Qualcosa che, neanche in uno stato membro dell’Unione europea, risparmia i giornalisti dal vivere in una situazione di costante pericolo. La commissione d’indagine, a lungo sollecitata in questi due anni, alla fine è stata istituita ma non pare avere l’indipendenza necessaria. Oltretutto, in violazione di precise disposizioni europee, è stata istituita senza informare della sua composizione i familiari di Daphne. Questi ultimi devono affrontare ancora 109 querele con cui chi la odiava aveva cercato di fermare Daphne. Non riuscendoci con le querele, c’è riuscito con un attentato. Ieri mattina i giornalisti italiani hanno ricordato Daphne in una conferenza stampa ospitata a Roma dalla Federazione nazionale della stampa italiana. Poi nel pomeriggio, sempre a Roma dopo averlo fatto la sera del 14 a Milano, ne hanno parlato Roberto Saviano e i tre figli di Daphne. A quanto pare, il sindacato dei giornalisti di Malta per oggi non ha in programma alcuna commemorazione.