In Europa calano reati e detenuti. Un quinto gli stranieri. Emergenza suicidi di Luca Liverani Avvenire, 15 ottobre 2019 Rapporto di Antigone e European Prison Observatory. Quasi 600 mila le persone detenute. In testa Regno Unito, Polonia, Francia, Spagna, Germania e Italia, che è ancora a rischio sovraffollamento. Nell’Unione Europea sono attualmente detenute 584.485 persone. I paesi con il maggior numero di detenuti - in numeri assoluti - sono Regno Unito, Polonia, Francia, Spagna, Germania e Italia. Il tasso medio di carcerazione ogni 100.000 abitanti è del 118,5 e i paesi con i tassi più alti (fra il 173 e il 234,9) sono soprattutto i paesi dell’est Europa: Lituania, Estonia, Lettonia e Slovacchia. L’Italia è intorno a 100. Il tasso di affollamento nella regione dell’Unione Europea non raggiunge il 100%, il che significa che nel complesso il sistema penitenziario Europa non raggiunge la sua massima capacità, ma le situazioni fra gli stati variano considerevolmente. In particolare i paesi con carceri sovraffollate sono Francia, Italia, Ungheria e Romania, con tassi fra il 115% e 120% della capacità di accoglienza. (In Italia, dati di settembre 2019 del Ministero della giustizia, le persone detenute sono 60.881 a fronte di una capienza di 50.472). I paesi dell’est Europa che presentavano alti tassi di carcerazione sono però i sistemi meno affollati. Il rapporto di Antigone precisa che le capacità dei sistemi penitenziari non sono calcolate tenendo conto degli stessi parametri. In alcuni paesi cioè i metri quadrati considerati sono di più che in altri. Pertanto una perfetta comparazione non è possibile. Le donne detenute sono circa 30.000 e rappresentano circa il 5% della popolazione detenuta (di poco superiore al dato italiano di 2.652 detenute su un totale di 60.881). I detenuti stranieri poi sono un quinto della popolazione detenuta e sono localizzati soprattutto in nord, centro e sud dell’Europa (Lussemburgo, Austria e Grecia sono i paesi con le percentuali più alte) mentre i paesi dell’Europa dell’est presentano percentuali molto più basse. In Italia invece la quota degli stranieri è percentualmente più alta: 20.225, un terzo Un dato in controtendenza, secondo i dati di Eurostat, è la diminuzione negli ultimi dieci anni dei reati così come della popolazione detenuta. Le situazioni variano molto fra paese e paese e le variazioni non sono state le stesse per tutti i paesi. In Italia, ad esempio, nonostante un calo dei reati, il numero dei detenuti è andato crescendo. I reati commessi dai detenuti con sentenza definitiva sono furto (16,3%), violazione della legislazione sugli stupefacenti (15,3%), rapine (13,6%) e i reati contro la persona rappresentano un altro 27%. I paesi con il maggior numero di detenuti con sentenza definitiva per violazione della legislazione sugli stupefacenti sono Lettonia (40,7%), Grecia (32,8%) e Italia (31,1%). Sul fronte della custodia cautelare, cioè la detenzione delle persone in attesa di giudizio, il rapporto di Antigone segnala grosse discrepanze tra paese e paese. Un quinto delle persone detenute non ha una sentenza definitiva. In media i non definitivi sono il 23% del totale, meno di un quarto. Lussemburgo, Paesi Bassi e Danimarca presentano percentuali superiori al 40%, seguite da Belgio, Italia e Grecia, le cui percentuali variano fra il 35,6% e 32,4%. La lunghezza delle sentenze è un altro dato molto interessante. In tutto il sistema Europa il 19,4% dei detenuti definitivi sta scontando una pena di meno di un anno e un altro 25% sta scontando una pena fra 1 e 3 anni. Questi casi potrebbero certamente essere meglio contrastati con misure alternative alla detenzione. Nell’Ue circa 800.000 persone sono in misura alternativa. Il 10% di queste è in attesa del primo grado di giudizio. Interessante è la correlazione degli andamenti fra il 2010 e il 2018 della popolazione detenuta e delle misure alternative. Nei diversi paesi le esperienze sono molto diverse fra loro: in alcuni gli andamenti delle due curve salgono o scendono quasi parallelamente (indicando politiche penali più o meno rigide), in altri paesi la correlazione è negativa e quindi all’aumentare di un valore l’altro diminuisce (quindi questo può giustificare un investimento sulle misure alternative al fine di ridurre il peso della detenzione), infine, in un altro gruppo di paesi i due andamenti non sono correlati fra loro. Nel 2017 sono state 1.380 le persone decedute durante la loro detenzione in carcere. Di queste, ben un terzo sono morte suicide. Il tasso di suicidi in detenzione per 10.000 detenuti (su dati 2017) è di 6,32, mentre in libertà il tasso è di 1,41. In carcere ci si uccide quattro volte di più che all’esterno. I maggiori tassi di suicidi in carcere sono quelli di Francia (12,6%), Austria (12,3%), Germania (11,8%), Portogallo (11,2%), Danimarca (10,9%). Il 5,9% dei suicidi sono commessi da donne. In carcere il 70% di chi lavora è agente penitenziario. Un dato che è il sintomo di sistemi penitenziari che investono maggiori risorse sul compito di custodia anziché su quello della risocializzazione del condannato. La media detenuti/agenti penitenziari nell’Ue è di 2.7 detenuti ogni agente. Nei paesi dell’Est Europa questo numero sale e in Polonia si assiste ad un tasso di 4.7 detenuti ogni agente e in Estonia di 4.9 detenuti ogni poliziotto penitenziario. La media tra detenuti e staff che si occupa di attività educative è di 56.6 detenuti ogni funzionario, con un tasso che in Polonia arriva a 351 detenuti ogni educatore. Sul fronte dei costi del sistema penitenziario, in genere sono i paesi dell’Est Europa a spendere di meno, con una media di circa 50 € a detenuto al giorno. I paesi dell’Europa centrale spendono invece circa 100 € per detenuto ogni giorno (tra questi Italia, Francia, Germania e Austria), mentre i paesi del nord Europa hanno costi che raggiungono cifre che vanno dai 180 € ai 380 € al giorno per detenuto. In Italia celle tra le più affollate d’Europa di Eleonora Martini Il Manifesto, 15 ottobre 2019 Presentato ieri a Roma il rapporto di Antigone e dell’European Prison Observatory sul sistema penitenziario europeo. Nel nostro Paese, nonostante il calo dei reati, il numero dei detenuti è andato crescendo. Il 70% delle figure professionali che lavorano nelle prigioni è agente penitenziario. Se è vero che dalle prigioni si evince il livello di civiltà di un Paese, anche l’Europa nel suo insieme ha ancora molto da progredire, soprattutto a causa di alcune nazioni dove il tasso di carcerazione è molto elevato (ma ancora proporzionale al volume di edilizia carceraria sviluppata), o di altre dove le celle sono decisamente sovraffollate. In molti - troppi - di questi casi i diritti dei detenuti sono considerati vicino allo zero. E l’Italia è tra i Paesi meno virtuosi, in questo campo. È nelle nostre carceri infatti - secondo il rapporto sul sistema penitenziario europeo redatto dall’associazione Antigone e dall’European Prison Observatory, presentato ieri a Roma alla presenza, tra gli altri, del Garante nazionale delle persone private di libertà, Mauro Palma - che si trova un numero di detenuti tra i più alti dell’Unione europea. Al primo gennaio 2018 nell’intero continente erano recluse 584.485 persone e nella classifica della detenzione, in numeri assoluti, ai primi posti si trovano il Regno Unito (oltre 93.000 carcerati a fronte di una popolazione di circa 66 milioni di persone) e la Polonia (73.000, con 38 milioni di abitanti), seguite da Francia, Germania, Italia e Spagna, con oltre 60.000 detenuti ciascuno. Il tasso medio di carcerazione nell’Ue ogni 100.000 abitanti è del 118,5. L’Italia si è fermata, per ora, intorno a 100, mentre a far lievitare il dato contribuiscono soprattutto i Paesi dell’est Europa: Lituania, Estonia, Lettonia e Slovacchia, con tassi che vanno fra il 173 e il 234,9%. In queste aree però il numero di istituti penitenziari è talmente alto da non far registrare alcun tipo di sovraffollamento. In effetti, nell’insieme, i penitenziari europei non raggiungono il 100% di affollamento ma la situazione peggiora decisamente in Francia, Italia, Ungheria e Romania, dove si registrano tassi di sovraffollamento che vanno dal 115% al 120%. È però importante sottolineare - fa notare il rapporto di Antigone - “che le capacità dei sistemi penitenziari non sono calcolate tenendo conto degli stessi parametri e in alcuni paesi i metri quadrati considerati sono di più che in altri. Pertanto una perfetta comparazione non è possibile”. Le donne detenute negli istituti dell’Unione sono 30 mila, circa il 5% della popolazione carceraria, con punte che vanno dal 3,1% della Bulgaria al 10,4% di Malta. Se però si analizzano i dati dei detenuti stranieri (che sono un quinto della popolazione reclusa, con percentuali più alte in Lussemburgo, Austria e Grecia) la porzione femminile arriva al 30%. Fa notare Antigone che “i reati, secondo i dati di Eurostat, sono diminuiti negli ultimi dieci anni così come è avvenuta una leggera diminuzione della popolazione detenuta”. Eppure in Italia, “nonostante un calo dei reati, il numero dei detenuti è andato crescendo”. Ciò è dovuto soprattutto all’uso della custodia cautelare: da noi circa un terzo dei reclusi è in attesa di sentenza definitiva, come in Belgio e Grecia, mentre Lussemburgo, Paesi Bassi e Danimarca presentano percentuali superiori al 40% (23% è la media Ue). “I reati commessi dai detenuti con sentenza definitiva sono furto (16,3%), violazione della legislazione sugli stupefacenti (15,3%), rapine (13,6%) e i reati contro la persona rappresentano un altro 27%. I Paesi con il maggior numero di detenuti con sentenza definitiva per violazione della legislazione sugli stupefacenti sono Lettonia (40,7%), Grecia (32,8%) e Italia (31,1%)”. E - forse anche in correlazione - il numero dei suicidi in carcere è quattro volte maggiore che fuori (nel 2017 furono mediamente 6,32 ogni 10.000 detenuti, mentre in libertà il tasso era di 1,41). Tra i dati che potrebbero risultare più interessanti a quanti oggi prenderanno parte al dibattito nella casa circondariale milanese di San Vittore dove tornerà in visita, dopo il “Viaggio in Italia” dell’anno scorso, la Corte costituzionale, con una lezione su “Pena e Costituzione” tenuta dal giudice Francesco Viganò, c’è sicuramente quello della lunghezza delle pene: “In tutto il sistema Europa il 19,4% dei detenuti definitivi sta scontando una pena di meno di un anno e un altro 25% sconta una pena fra 1 e 3 anni. Questi casi - sottolinea il rapporto - potrebbero certamente essere meglio contrastati con misure alternative alla detenzione. Nell’Ue circa 800.000 persone sono in misura alternativa. Il 10% di queste è in attesa del primo grado di giudizio”. Infine un dato che dovrebbe interessare l’ex ministro Matteo Salvini che ieri ha scelto il carcere di massima sicurezza di Spoleto come location per lo slogan “Più diritti agli agenti di polizia penitenziaria che ai detenuti”: il 70% delle figure professionali che lavorano in carcere è agente penitenziario. “Segno di sistemi penitenziari che investono maggiori risorse sulla custodia anziché sulla risocializzazione del condannato”. Sovraffollate e senza speranza di miglioramento: lo stato del disastro-carceri in Italia di Chiara Colangelo e Lucio Palmisano linkiesta.it, 15 ottobre 2019 Con 60mila detenuti per appena 47 mila posti disponibili, il nostro Paese non ha ancora trovato una risposta. Stipati spesso in meno di tre metri quadrati di spazio, il rischio che i reclusi possano presentare nuovi ricorsi alla Corte di Strasburgo è sempre più alto. Dieci anni, senza soluzioni: l’Italia si trova costretta a dovere affrontare il problema del sovraffollamento delle carceri. A conferma c’è il quindicesimo rapporto pubblicato dall’associazione Antigone sulle condizioni di detenzione “Il carcere secondo la Costituzione”. Dopo un iniziale calo nel 2010, il numero dei detenuti presenti nelle strutture penitenziarie italiane negli ultimi due anni ha ricominciato a crescere. Al 30 settembre infatti si calcolano oltre 60 mila reclusi, con un tasso di sovraffollamento del 120 per cento. L’Italia che, con il Regno Unito, la Polonia, la Germania e la Spagna, si conferma uno dei Paesi con il numero più alto di reclusi nell’Unione europea non è riuscita dal 2013 - quando la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha emesso una condanna per trattamento inumano e degradante al pagamento di migliaia di euro di risarcimento per danni morali nei confronti di alcuni detenuti - a oggi a intervenire in modo incisivo su un problema che, stando anche a quanto dichiarato dal comitato dei ministri del Consiglio europeo, è strutturale. E che non riguarda singole celle o un numero limitato di detenuti. “Il sovraffollamento è un problema da cui partire, afferma Aldo Di Giacomo, sindacalista del Corpo di Polizia Penitenziaria, ma è solo uno dei tanti che riguardano le carceri italiane”. Se negli ultimi dieci anni ci sono stati diversi provvedimenti legislativi per ovviare alla situazione degli istituti penitenziari, anche a fronte di un netto calo dei crimini denunciati alle forze di Polizia, come l’indulto, o il tiepido intervento di depenalizzazione di alcuni reati, secondo Di Giacomo, la questione che non è mai stata affrontata è quella di chi sono i detenuti ospiti nelle 190 carceri italiane. “Tra i 60mila detenuti più di un terzo sono stranieri, uno su tre sono persone affette da disturbi psichiatrici, mentre due su tre sono tossicodipendenti o alcoldipendenti”, denuncia Di Giacomo. Ma nel frattempo i posti disponibili nelle carceri italiane restano poco più di 50mila, un numero, diffuso dal ministero della Giustizia a luglio 2019, che non tiene conto delle numerose sezioni chiuse: Alba, Nuoro, Camerino - vuota dal terremoto che ha colpito l’Umbria nel 2016 - Como, Brescia, Taranto sono solo alcune. Per un totale di almeno 3mila posti non agibili che devono essere sottratti dai 50mila dichiarati dal ministero della Giustizia e che in alcuni istituti penitenziari, come denunciato dall’associazione Antigone, ci sono situazioni limite, con celle che non rispettano il parametro minimo dei tre metri quadrati di spazio per detenuto. E che lascia aperti i margini per la Corte di Strasburgo per nuove pesanti condanne. Quello del sovraffollamento è solo uno dei tanti elementi di disfunzione delle carceri italiane. Negli ultimi due anni, nonostante il calo dei reati denunciati e la diminuzione degli ingressi nelle carceri, a peggiorare non sono solo le condizioni di vita dei detenuti, ma anche quelle di lavoro dei poliziotti penitenziari. Al drammatico aumento del numero dei suicidi tra i reclusi, si aggiunge quello delle guardie carcerarie, con casi sempre più frequenti di liti, abusi e violenze. Di detenuti in possesso di telefoni cellulari che, come denuncia Di Giacomo, permettono loro di avere contatti con l’esterno e di commettere, seppure all’interno delle mura penitenziarie, altri reati. Anche la detenzione di sostanze stupefacenti, l’ingresso di farmaci, soprattutto psicofarmaci - circa l’80 per cento dei detenuti ne fa uso - utilizzati spesso come merce di scambio, sono problemi gravi che, come sottolinea Di Giacomo, passano erroneamente in secondo piano. Ma il sindacalista punta il dito anche contro la vigilanza dinamica, che può funzionare solo come sistema premiale, e non per tutti i detenuti, per chi ha già scontato una parte della pena e non ha commesso nessun altro reato all’interno del carcere. Oggi sussiste un meccanismo distorto, che ha comportato un aumento del numero delle evasioni, che sono i permessi premio. I casi sono aumentati di 600 volte negli ultimi due anni, per questo motivo focalizzarsi sul sovraffollamento o sulla carenza di organico non è sufficiente. “La detenzione si gestisce con altre misure, se metti insieme detenuti con problematiche diverse, il sistema non funziona. L’intera macchina smette di funzionare”. Tanti i problemi, ma non mancano le soluzioni. Anche se restano sempre le stesse. “Le misure cautelari alternative sono la via maestra per ridurre i detenuti”, sostiene Marco Taradash, rappresentante di +Europa. Sulla stessa linea anche Alessio Scandurra, Coordinatore dell’osservatorio nazionale sulle condizioni di detenzione di Antigone, secondo cui “già adesso in Italia ci sono misure che risparmiano il carcere ai detenuti che funzionano e che vanno semplicemente implementate. Costano 1/10 del carcere tradizionale, perché non usarle per ridurre l’utilizzo della misura detentiva?”. Un principio forse facile da applicare, ma serve soprattutto la volontà politica. Il tentativo promosso dall’ex ministro della Giustizia Orlando nel 2017 di favorire provvedimenti alternativi come la detenzione domiciliare, l’affidamento ai servizi sociali o la semilibertà è stato poi affossato dal successivo governo gialloverde. Volontà che cambiano ma per Scandurra servirebbe uno sforzo in più. “È chiaro come sia necessario depenalizzare alcuni reati esistenti, perché da troppo tempo in Italia si ha la tendenza a introdurre nuovi reati nel Codice penale per ogni emergenza sociale, vera o presunta”. Una misura controversa, ma gli ostacoli di natura politica non mancherebbero di certo. Soprattutto se si comincia a parlare di sostanze stupefacenti. “Cambiare la legislazione in materia permetterebbe di togliere molta gente dalle carceri, la depenalizzazione qui è necessaria così come nel contesto dei reati contro il patrimonio, spesso effettuati proprio in tale logica”, conclude Scandurra. Secondo di Giacomo, però è necessario riflettere anche su altro. “Data l’attuale situazione delle carceri italiane, servirebbe prendere come modello il carcere di Rimini. Una struttura detentiva che ha permesso non solo di far rispettare la pena ma anche di curare i tossicodipendenti. E questo ha aiutato notevolmente, perché ha permesso di far calare la recidiva dopo la scarcerazione del 98%”. Un modello che funziona, da prendere certamente in considerazione. Lo stesso non si può dire dell’idea di nuove carceri, proposta dal governo gialloverde riadattando vecchie caserme. Il ministro Bonafede aveva promesso 9 mila letti in più in 5 anni. Una proposta che però non trova il placet né del sindacato di polizia giudiziaria, per di Giacomo “è una misura inutile e senza un reale effetto”, né dei due rappresentanti di +Europa e di Antigone. Taradash definisce l’idea “arcaica, perché serve pensare a come costruire delle carceri efficienti nel terzo millennio. L’idea che c’è adesso è rimasta ferma al 1600-1700”. Una concezione ormai passata che anche Scanderra ha riscontrato. “Le nuove carceri non servono, la misura detentiva deve consistere nella privazione della libertà in un posto sano. Costringere il condannato a stare in un posto scomodo, angusto, malsano, antigienico come sono le carceri oggi vuol dire solo aggiungere un ulteriore afflizione. Non si possono combattere così i problemi”. Un punto fermo da cui anche il governo giallorosso deve ripartire. La discontinuità tanto promessa dovrà passare anche da qui. Carceri: più casi di tubercolosi ma diminuiscono i malati di Hiv di Eugenia Sermonti Libero, 15 ottobre 2019 Ecco la fotografia scattata dalla Simspe sulle malattie: nei luoghi di reclusione. Rallenta la diffusione del virus Hiv e si riduce quella dell’epatite C un detenuto su due è malato di epatite C. Aumentano invece i malati di tubercolosi. Circa 200 i partecipanti, provenienti da tutta Italia, al XX Congresso Nazionale Simspe, Agorà Penitenziaria 2019, intitolato “Il carcere è territorio”, appuntamento, organizzato in collaborazione con Regione Lombardia e Simit - Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali, e presieduto dal dottor Roberto Ranieri. Un appuntamento che rappresenta il momento di confronto fra quanti, a vario titolo, si occupano di sanità e di salute all’interno degli Istituti Penitenziari, che vuole fornire spunti per una riflessione approfondita del fare Salute in carcere. Gli argomenti trattati hanno riguardato, tra l’altro, il rapporto tra medicina penitenziaria e medicina di comunità, il rapporto tra carcere e salute pubblica, la salute mentale, le popolazioni detenute che necessitano di trattamenti particolari, come donne e stranieri. Il carcere è territorio tra infettivologia e psichiatria. “Il carcere è territorio” è il tema appositamente scelto per la prima sessione di apertura di questa Agorà - dichiarano Luciano Lucanìa, Presidente Simspe e Roberto Ranieri, Presidente del Congresso - Ed è questo il nostro messaggio. Noi ci siamo: nel mondo variegato del Ssn, all’interno dell’offerta assistenziale dei Distretti, in un segmento nuovo, dove multi-professionalità e multi-culturalità - sotto il profilo sanitario - espresse dai presidi aziendali interni agli istituti penitenziari, tutti unità operative dell’azienda sanitaria con la loro struttura ed i rispettivi livelli di direzione, garantiscono un servizio alla persona ed alla istituzione” Hiv in carcere tra gestione e controllo. I dati relativi all’HIV sono oggi confortanti perché l’assunzione dei farmaci antiretrovirali nei soggetti consapevoli ha ridotto in maniera notevole la trasmissione del virus anche in presenza di comportamenti a rischio. Infatti, la prevalenza di detenuti HIV positivi è discesa dal 8,1 per cento del 2003 al 1,9 per cento attuale. Questo avviene in modo particolare tra i tossicodipendenti, che rappresentano oltre un terzo della popolazione detenuta, certificato dal 34 per cento di presenti per reati correlati a consumo e spaccio. “Questi dati - spiega Sergio Babudieri, direttore scientifico Simspe - indicano chiaramente che, nonostante i comportamenti a rischio come lo scambio delle siringe ed i tatuaggi non siano diminuiti, la circolazione di HIV non avviene più perché assente dal sangue dei positivi in terapia antivirale. Questi farmaci non sono in grado di eradicare l’infezione ma solo di bloccarla. Di fatto con l’aderenza alle terapie viene impedita l’infezione di nuovi pazienti”. Epatite C resta priorità. L’Epatite C è tuttora l’infezione maggiormente presente nella popolazione detenuta in Italia. Molti istituti italiani si stanno attenendo sempre di più alle indicazioni ministeriali, per raggiungere l’obiettivo dell’assenza di nuove infezioni da HCV entro il 2030. A questo consegue che, oramai, non c’è più diversità nel trattamento tra pazienti dentro e fuori le carceri ed abbiamo dimostrato come le persone oggi in cura raggiungano la guarigione in oltre il 95% casi, in modo indifferente se trattati in detenzione ovvero in libertà. “Un altro dato che sta emergendo dai nostri studi - aggiunge Babudieri - è che tra tutti i detenuti Hcv positivi, solo poco più del 50% sono realmente viremici e, quindi, da sottoporre a terapie, rispetto al 70-80% atteso. Per molti di questi già guariti è anche ipotizzabile che abbiano eradicato il virus in maniera spontanea”. Tubercolosi. Risulta poi dai dati ufficiali del Ministero della Giustizia che un terzo della popolazione sia straniera, e, con il collasso di sistemi sanitari esteri, con il movimento delle persone, si riscontrano nelle carceri tassi di tubercolosi latente molto più alti rispetto alla popolazione generale. Se in Italia tra la popolazione generale si stima un tasso di tubercolosi latenti, cioè di portatori non malati, pari al 1-2%, nelle strutture penitenziarie ne abbiamo rilevati il 25-30%, che aumentano ad oltre il 50% se consideriamo solo la popolazione straniera. “Anche se stiamo parlando non di malattia attiva ma solo di contatti con il patogeno - conclude Babudieri - un detenuto su due risulta essere tubercolino positivo e questo sottintende una maggiore circolazione del bacillo tubercolare in questo ambito. è, quindi, indispensabile effettuare controlli estesi in questa popolazione, perché il rischio che si possano sviluppare dei ceppi multi-resistenti è molto alto, con conseguente aumento della letalità nei pazienti in cui la malattia si sviluppa in modo conclamato”. Sull’ergastolo ostativo un dibattito tra giuristi di Carlo Melzi d’Eril e Giulio Enea Vigevani Il Sole 24 Ore, 15 ottobre 2019 Il prossimo 22 ottobre la Corte Costituzionale è chiamata a decidere di nuovo sulla legittimità dell’istituto. In attesa della decisione, apriamo il dibattito invitando al confronto studiosi e operatori della diritto. Il tema dell’ergastolo ostativo nei giorni scorsi è passato dall’occupare solo le pagine delle riviste giuridiche a trovare spazio anche sulle pagine della stampa quotidiana. Lo spunto è stato dato il 7 ottobre dalla Grande Camera della Corte europea, che ha respinto il ricorso del governo italiano contro la decisione del 13 giugno scorso con cui la Prima Sezione (caso Marcello Viola c. Italia n°2) aveva accertato la violazione della dignità umana, desumibile dall’art. 3 Cedu dell’ergastolo ostativo in quanto esso “limita eccessivamente la prospettiva di rilascio dell’interessato e la possibilità di riesame della pena. Pertanto, questa pena perpetua non può essere qualificata come comprimibile ai sensi dell’articolo 3 della Convenzione”. Il ricorso era stato presentato da un ergastolano ostativo a cui i giudici nazionali avevano rifiutato la misura della liberazione condizionale per la mancata collaborazione con la giustizia, ritenuta possibile e rilevante nel caso di specie, benché quest’ultimo si professasse da sempre innocente. Come noto, nel nostro ordinamento l’ergastolo è la sanzione detentiva perpetua, ovvero la galera a vita. Tuttavia, nel tempo sono state introdotte disposizioni premiali grazie alle quali il condannato meritevole può usufruire di benefici. Dopo 10 anni può essere ammesso ai permessi premio, dopo 20 alla semilibertà e dopo 26 alla libertà condizionale. Termini, questi, che possono essere diminuiti di 45 giorni ogni semestre se il detenuto partecipa positivamente al trattamento penitenziario. Così, ad esempio, i 26 anni per la libertà condizionale possono ridursi a 21. Tali benefici sono stati introdotti poiché, per l’art. 27 della Costituzione, tutte le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato”. È poi noto che i reati diminuiscono e la recidiva cala se le pene non sono draconiane ma certe e, soprattutto, se vi sono seri percorsi di risocializzazione. Quando però l’ergastolo viene irrogato essenzialmente per delitti di criminalità organizzata o terrorismo, una norma introdotta nel 1992, poco dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio, prevede che i benefici penitenziari siano possibili solo qualora il condannato collabori con la giustizia oppure dimostri di non poterlo fare, perché ad esempio poco o nulla sa. Questo istituto non è stato soltanto oggetto di un ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ma di numerose pronunce della Corte Costituzionale. Quest’ultima, con decisioni successive, aveva stabilito che la limitazione ai benefici è legittima soltanto in presenza di una collaborazione possibile, che il reo liberamente rifiuta. Non può quindi essere escluso chi fornirebbe una collaborazione inutile, impossibile e irrilevante. Il legislatore ha fatto propria la posizione della Corte introducendo il comma 1-bis dell’art. 4-bis, ord. penit., in base al quale la concessione dei benefici penitenziari può essere negata solo in presenza del rifiuto di una collaborazione esigibile. Ora, il prossimo 22 ottobre la Corte Costituzionale è chiamata a decidere di nuovo sulla legittimità dell’istituto, in particolare del negato accesso al beneficio penitenziario del permesso premio per il condannato all’ergastolo che non abbia collaborato con la giustizia, benché il detenuto abbia sempre tenuto negli anni di reclusione un comportamento rispettoso del programma trattamentale. La Corte dovrà giudicare se la scelta del legislatore di perseguire con tale istituto un interesse di indubbio rilievo costituzionale quale la lotta al crimine, specie associativo, sia compatibile con i principi di individualizzazione e di progressività del trattamento (art. 27 Cost) e al canone della ragionevolezza (art. 3 Cost.). Ma tali questioni interrogano più in generale il rapporto tra Stato e reo e il principio personalista inciso nell’articolo 2 della Costituzione. Ci pare dunque questo un buon momento per aprire un dibattito sull’istituto dell’ergastolo ostativo, sperando di poter poi, più in generale, estendere la discussione a quella tendenza del nostro ordinamento a escludere appunto alcune categorie di rei, ritenuti socialmente pericolosi (da ultimo, quelli che hanno commesso reati contro la pubblica amministrazione), dai benefici penitenziari, sol perché decidono di non collaborare con la giustizia. Di qui alcune domande che abbiamo posto a studiosi e operatori della diritto che negli anni si sono confrontati con questo tema così denso e delicato. 1) Cos’è l’ergastolo ostativo, come nasce e a che cosa è servito? È ancora necessario per contrastare la criminalità organizzata e il terrorismo? 2)Quale influenza può produrre la sentenza Viola sulla imminente decisione della Corte costituzionale? Quali le analogie e le differenze tra i due casi? 3) Quale è il nodo centrale relativamente all’ergastolo ostativo: l’equazione tra mancata collaborazione e presunzione assoluta di pericolosità sociale del condannato; la violazione della dignità umana; la violazione del principio rieducativo, la pena dell’ergastolo in sé? Esistono sistemi alternativi alla collaborazione per dimostrare quel percorso di reinserimento, che giustifica i benefici? E come si collegano le questioni relative all’ergastolo ostativo con la previsione di altri reati, meno gravi, per i quali il legislatore ha introdotto analoghe previsioni ostative rispetto ai benefici penitenziari (es. con la legge “spazza-corrotti”)? 4) Perché il tema dell’ergastolo ostativo divide così profondamente la comunità degli studiosi, quasi unanimemente orientata a ritenere l’istituto di dubbia costituzionalità, e una buona parte della magistratura impegnata nel contrasto alla criminalità organizzata, che prospetta conseguenze disastrose dalla pronuncia della corte di Strasburgo e, ancor più, da una eventuale sentenza di accoglimento della Corte costituzionale? 5) Quali potrebbero essere le conseguenze sul piano pratico di una sentenza che accogliesse le questioni sollevate? Sono fondate le obiezioni di chi ritiene che i giudici di sorveglianza potrebbero subire minacce e pressioni qualora i divieti assoluti fossero cancellati? Sull’ergastolo ostativo serve un punto di equilibrio di Marcello Bortolato* Il Sole 24 Ore, 15 ottobre 2019 È necessario un punto di equilibrio che non può che riporsi nella dignità dell’uomo. L’ergastolo ostativo nasce nel 1992, dopo le stragi di mafia, quale strumento di lotta alla criminalità organizzata. Serviva per indurre i colpevoli degli omicidi a collaborare con la giustizia in cambio del diritto di accedere, una volta condannati, ai benefici previsti anche in caso di pena perpetua. L’accesso alle misure non può essere precluso del tutto, poiché ciò renderebbe l’ergastolo incompatibile con la Costituzione risolvendosi in una pena senza speranza, contraria all’art. 27 Cost. che vuole tutte le pene, sempre, finalizzate al reinserimento sociale. Il diritto di accedere non significa certezza di essere ammessi, un conto è l’ammissibilità, un altro il merito, essendo i requisiti richiesti del tutto diversi: solo il “sicuro ravvedimento” previsto dall’art. 176 c.p. consente la liberazione condizionale, misura amplissima che cancella l’ergastolo dopo 26 anni. Questo non vale però per l’ergastolo ostativo che si configura, come una pena aggiuntiva in cui il passato schiaccia il presente e toglie ogni speranza al futuro: se non collabori non potrai uscire, mai. Non si può mettere in dubbio che la collaborazione sia ancora uno strumento strategico nella lotta alla criminalità organizzata, dove è “effettiva” e “utile” premia i condannati consentendo loro di accedere anticipatamente alle misure alternative, ma le ragioni di una mancata collaborazione non possono oggi essere sindacate dalla magistratura di sorveglianza che, pur apprezzando il processo rieducativo del reo, deve limitarsi a prenderne atto. Eppure queste ragioni potrebbero essere anche “nobili” o ben comprensibili (la scelta morale di non voler barattare la propria libertà con quella degli altri, la paura di esporre i propri familiari a ritorsioni e vendette), non necessariamente esse sono indice della volontà di rimanere “intraneo”. Si dirà che lo Stato protegge il collaboratore ed anche i suoi familiari, ma oltre ad essere un argomento “de facto” (i requisiti del programma di protezione sono assai restrittivi) si scontra con la realtà di uno Stato che spesso non è nemmeno in grado di proteggere i semplici testimoni, comunque a pagare sarebbero sempre degli innocenti (i familiari costretti a cambiare identità). Ma il nodo centrale dell’ostatività sta nell’esproprio della funzione del giudizio sulla persona, che la legge affida in via esclusiva al magistrato di sorveglianza, perché difronte a quella appaiono del tutto irrilevanti i traguardi rieducativi nel frattempo raggiunti: il giudice è impotente, nonostante la legge gli affidi ampio spazio al riconoscimento della concretezza e della specificità delle situazioni in cui un reato avviene, delle motivazioni dell’autore e soprattutto della sua evoluzione personale. Del resto i progressi del detenuto possono non avere nulla a che vedere con la sua volontà di collaborare con la giustizia, che può essere strumentale o addirittura ‘falsa’, mentre la dimostrazione della sua cessata pericolosità può desumersi da altro. L’assenza di collaborazione non è di per sè sintomo di mancata dissociazione: è una presunzione che nella sua assolutezza ha ormai scarse ragioni d’essere, tanto più a molti anni di distanza dai fatti. Esistono indici ben più sicuri di rescissione dei legami: si pensi che il ‘ravvedimento’ (pieno riconoscimento della propria responsabilità ed assunzione di impegni riparatori) è sufficiente per ottenere la liberazione condizionale (unico beneficio che può cancellare l’ergastolo) ma non basta per accedere ai benefici anche minori a chi, pur non collaborando, abbia ammesso le proprie responsabilità. L’ergastolano ostativo, pur ravveduto, non può andare in permesso se non fa il nome dei correi, eppure con il ravvedimento (traduzione laica del concetto di “emenda”) egli dimostra di aver raggiunto un grado di rieducazione tale da meritarlo. L’equiparazione ‘collaborazione = ravvedimento’ è irragionevole se non addirittura smentita da molti fatti di cronaca. A chi obietta che la risocializzazione del detenuto, dimostrata in modi differenti dalla collaborazione, possa essere il frutto di un’abile strategia di dissimulazione e non il sincero punto di arrivo di un ripensamento critico delle proprie scelte di vita, si può rispondere che anche la collaborazione, come molte vicende processuali dimostrano, analogamente può essere il prodotto di un’abile strategia dissimulatoria volta a coinvolgere degli innocenti per salvare se stessi. Non si comprende perché solo il disvelamento della seconda strategia debba essere affidato a dei giudici e non anche quello della prima: forse perché i magistrati di sorveglianza sono meno giudici degli altri? Perché il tema dell’ergastolo ostativo divide così profondamente? Perché da un lato non si è mai spenta in Italia l’inquietudine, circa la compatibilità dell’ergastolo con le acquisizioni di civiltà maturate e, in particolare, sul nesso problematico che intercorre fra pena perpetua (irrimediabilmente intrecciata ad un retaggio millenario di vendetta sociale, del cui classico emblema, la pena di morte, essa ha preso ambiguamente il posto) e diritti fondamentali (proiettati invece verso il futuro) e, dall’altro, perché non si possono negare gli indubbi meriti della collaborazione che ha consentito nel tempo di raggiungere risultati investigativi di enorme portata ma che, anche in caso di accoglimento delle questioni, è bene ribadirlo, non verrà affatto cancellata (rimarrà sia per i condannati al fine di accedere ai benefici prima degli altri, che per i collaboratori di giustizia tout court la cui legislazione speciale non verrà minimamente intaccata). E tuttavia va individuato un punto di equilibrio che non può che riporsi nella dignità dell’uomo, in quel nucleo incomprimibile di diritti che nemmeno la pena più grave piò cancellare del tutto: questo ci insegna la Corte di Strasburgo, a cui pur appartengono Giudici provenienti da Paesi che hanno conosciuto tristi stagioni terroristiche e di sangue per le strade. La decisione della Corte costituzionale è ormai imminente e su di essa può avere qualche influenza la sentenza Viola della Cedu, non fosse altro perché l’art. 117 della Costituzione obbliga il nostro Paese al rispetto della Convenzioni internazionali e dunque anche alle decisioni della Corte europea. Ma le conseguenze sul piano pratico dell’una e dell’altra pronuncia saranno principalmente due: riaffidare alla magistratura di sorveglianza, che nulla può temere dall’abbattimento delle preclusioni se non di riacquistare la dignità del decidere, il potere di valutare i progressi - se ci sono - dell’ergastolano (in una parola: la sua “persona” e non il suo “reato”) e, infine, restituire ogni caso umano alla sua complessità, alle sue caratteristiche reali e, soprattutto, alla sua effettiva possibilità di evoluzione. È una strada difficile, da praticare anche se meno appagante della punizione esemplare. È sempre necessario avere il coraggio, senza il comodo paravento delle preclusioni e delle presunzioni assolute, di guardare a fondo nella realtà dei fatti e delle persone coinvolte anche nei crimini più efferati e devastanti, evitando di rimuovere l’orrore con la durezza della sanzione che allontana e definitivamente seppellisce. *Presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze Ergastolo ostativo, troppo rigida e automatica l’esclusione dei benefici di Vladimiro Zagrebelsky* Il Sole 24 Ore, 15 ottobre 2019 La questione sull’ergastolo ostativo riguarda il diritto a che il giudice possa prendere in esame la posizione del detenuto nel suo complesso, in tutti gli aspetti che in concreto presenta nel corso dell’esecuzione della pena. Le polemiche che hanno accompagnato la sentenza della Corte europea dei diritti umani sull’”ergastolo ostativo” possono ora essere accantonate in attesa della prossima decisione della Corte costituzionale, che deciderà se il regime di quel tipo di pena contrasti con l’art. 27 della Costituzione. La sentenza della Corte costituzionale sarà certo accolta da critiche di un segno o dell’altro a seconda del suo tenore. Ma almeno non si potrà dire - come con leggerezza è stato fatto per la Corte europea - che la sua sentenza dimostra che quei giudici non conoscono la realtà italiana e giudicano su cose che ignorano. Il quesito cui risponderà la Corte Costituzionale, infatti, è stato sollevato da giudici italiani, specificamente competenti nella materia. Si tratta della Corte Cassazione e del Tribunale di Sorveglianza di Perugia, per casi di diniego dei permessi premio che l’art. 30-ter dell’Ordinamento penitenziario ammette come “parte integrante del programma di trattamento”, ma che sono esclusi per i condannati per una serie di reati (di mafia e terrorismo, ma anche contro la pubblica amministrazione e altri ancora, che nulla hanno a che vedere con mafia e terrorismo), a meno che il condannato non collabori con l’autorità, ricostruendo pienamente i fatti e indicando i suoi complici. La possibilità di ammissione a permessi premio del detenuto che se li merita, è funzionale del programma di rieducazione. Nello stesso senso si sono da tempo pronunciate sia la Corte costituzionale, che la Corte europea. L’art. 27 della Costituzione stabilisce che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Il caso deciso dalla Corte europea dei diritti umani riguardava invece l’impossibilità per il condannato all’ergastolo di vedere esaminata dal giudice la sua domanda di liberazione condizionale (dopo 26 anni di detenzione) per la sola ragione, assolutamente impeditiva, che non ha collaborato con l’autorità. Assolutamente impeditiva significa che qualunque altra considerazione, relativa al caso concreto, è irrilevante. La questione che la Corte costituzionale deciderà è in sostanza la stessa affrontata dalla Corte europea, anche se le norme di riferimento (della Costituzione e della Convezione europea dei diritti umani) sono diverse. Per la Corte costituzionale si tratta del contrasto con la finalità rieducativa della pena e per la Corte europea del carattere inumano di un ergastolo che esclude il condannato dalla possibilità di accesso a quell’aspetto del trattamento rieducativo che è rappresentato dai benefici penitenziari e rende irrilevante ogni progresso che il detenuto compia, a meno che non collabori con l’autorità. È l’irrilevanza di ogni risultato del processo rieducativo, organizzato dall’amministrazione penitenziaria e cui il detenuto deve partecipare, che rende quel tipo di ergastolo “senza speranza” e quindi, secondo la giurisprudenza della Corte europea, inumano. Nel giudizio avanti la Corte costituzionale, come in quello della Corte europea non si tratta naturalmente di decidere se i condannati abbiano diritto ai permessi premio o alla libertà condizionale. La questione riguarda il diritto a che il giudice possa prendere in esame la posizione del detenuto nel suo complesso, in tutti gli aspetti che in concreto presenta nel corso dell’esecuzione della pena. Secondo la Corte europea la mancata collaborazione è certo un elemento rilevante, ma può essere equivoca in concreto, per esempio perché motivata dal timore di ritorsioni da parte dell’ambiente criminale cui il detenuto ha appartenuto o perché solo opportunistica. L’inidoneità della mancata collaborazione a offrire una prova non equivoca di pericolosità e di persistente appartenenza al gruppo criminoso, in ogni caso e a prescindere dalla possibile esistenza di prove di segno diverso, è la ragione per cui la Corte europea ha ritenuta eccessiva, rispetto allo scopo legittimo di prevenzione del crimine, la condizione non superabile in alcun modo di collaborazione con l’autorità. È cioè l’esclusione della valutazione del giudice competente nella materia, che produce una non giustificata esclusione dei detenuti da momenti importanti del trattamento rieducativo e rende irrilevante ogni sviluppo della personalità, nel corso dei lunghi anni di carcere. Dirà la Corte costituzionale se l’esclusione senza eccezione e senza valutazione giudiziaria dai benefici che sono funzionali alla rieducazione contrasta con la finalità propria di ogni pena. Per la Corte europea nei casi di ergastolo ostativo quando non vi sia stata collaborazione con l’autorità, l’inumanità di quel tipo di pena deriva dalla troppo rigida e automatica esclusione dei benefici che fanno parte del trattamento del detenuto e di ogni rilevanza di qualunque progresso rieducativo eventualmente dimostrato da fatti diversi dalla collaborazione con l’autorità. *Magistrato, già giudice presso la Corte europea dei diritti dell’uomo Sentenza Cedu sul carcere ostativo: intervenga la Corte costituzionale di Paolo Maddalena* Il Sole 24 Ore, 15 ottobre 2019 La sentenza della Corte dei Diritti dell’uomo di Strasburgo, ma la Corte costituzionale può sindacare le decisioni della Cedu e dichiararle inapplicabili. Le Corti internazionali di giustizia stanno dando sempre maggiore prova della loro incapacità a valutare le reali condizioni di singoli Paesi, emettendo sentenze frutto di argomentazioni teoriche senza alcun rapporto con la realtà. Sorprendente è la sentenza della Corte dei Diritti dell’uomo di Strasburgo che ha accolto le richieste del capo mafia Marcello Viola, il quale era già stato condannato in Italia a 4 ergastoli. Secondo la Corte di giustizia la condanna al carcere “duro” o “ostativo”, cioè a vita e senza nessun altra possibilità di beneficio, sarebbe disumana, perché toglierebbe anche la speranza di uscire dal carcere. La Corte non tiene conto del fatto che tale tipo di pena è evitabile se il mafioso condannato si pente e collabora con la giustizia. La Corte confonde la disumanità del carcere con la speranza di venirne fuori. E dimostra di non conoscere che i nostri carceri sono tutt’altro che disumani, tranne alcuni casi che devono essere assolutamente risolti. La Corte, inoltre, non valuta il fatto, storico e accertato, che i mafiosi mantengono per tutta la loro vita una convinzione non sradicabile di appartenere a una realtà sociale perennemente in contrasto con lo Stato e la legalità costituzionale. Gli esempi sono numerosissimi. E, pertanto, cancellare la norma del carcere ostativo è fuori luogo. In una parola, la Corde dei Diritti dell’Uomo ha deciso in assenza di potere e la sua decisione è da ritenere giuridicamente nulla. Comunque, è da ricordare che le norme e le decisioni della Cedu sono norme “interposte” tra la Costituzione e la legge, il che significa che la Corte costituzionale può sindacare le decisioni della Cedu e dichiararle inapplicabili. La dizione “norme interposte” infatti significa che il giudice delle leggi, e cioè la Corte costituzionale, prima di decidere della validità o meno delle nostre leggi, deve stabilire se le norme e le sentenze Cedu siano conformi alla nostra Costituzione. Insomma la Corte costituzionale ha giurisdizione sugli atti della Cedu (vedi sentenze 348 e 349 del 2007). In conclusione, un compito importante grava oggi sulla Corte costituzionale, poiché se essa non rimuove gli effetti di questa sentenza della Corte dei Diritti dell’Uomo, che ha competenza a farlo, vedremo che tutti i mafiosi ricorreranno alla Cedu e otterranno la loro scarcerazione. Un bell’effetto contro la lotta alla mafia e alla criminalità organizzata, posta nel nulla da una sentenza astratta della Cedu. La quale, ripetiamo, non valutato la natura e il contenuto del fatto oggetto della propria decisione. *Vice presidente emerito della Corte Costituzionale e presidente dell’associazione “Attuare la Costituzione” Autoriciclaggio, accusa facilitata di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 15 ottobre 2019 Corte di cassazione - Sentenza 42052/2019. L’autoriciclaggio scatta anche se il reato presupposto è prescritto. O provato solo in base alla logica. Lo puntualizza la Corte di cassazione con la sentenza 42052della seconda sezione penale depositata ieri. La Corte ricorda, facendo riferimento anche a precedenti pronunce che, quando si procede per i reati di riciclaggio e autoriciclaggio, non è necessario che l’esistenza del reato presupposto sia stata accertata da una condanna passata in giudicato, “essendo sufficiente che il fatto costitutivo di tale delitto non sia stato giudizialmente escluso, nella sua materialità, in modo definitivo, e che il giudice procedente per il riciclaggio ne abbia incidentalmente ritenuto la sussistenza; in difetto, venendo meno uno dei presupposti del delitto di riciclaggio, l’imputato deve essere assolto perché il fatto non sussiste”. Nel dettaglio, la Cassazione prosegue chiarendo che la circostanza che alcuni dei reati presupposti non fossero ancora oggetto di indagini preliminari, in assenza della iscrizione al Registro delle notizie di reato, o che comunque per alcuni di questi fossero in corso semplici indagini preliminari, non ha effetti sulla possibilità di procedere sul reato “a valle”. L’autorità giudiziaria può infatti dedurre l’esistenza del reato “a monte”, anche solo attraverso la presenza di “prove logiche”. Nel caso esaminato, il giudice aveva correttamente ritenuto provato il delitto presupposto di furto di documenti provenienti da archivi di Stato, sulla base delle dichiarazioni convergenti degli esperti, anche se le denunce di furto erano state presentate successivamente al sequestro dei documenti. Per quanto riguarda l’effetto di cause estintive del reato, come per esempio la prescrizione, la sentenza ricorda quanto previsto dal Codice penale per il quale quando il reato è presupposto di un altro delitto la causa che lo estingue non ha portata estensiva. Si può andare in carcere per il canto di un gallo di Giulio Benedetti Il Sole 24 Ore, 15 ottobre 2019 Corte di Cassazione - Sentenza. 41601/2019. Il condomino è responsabile penalmente dei canti dei suoi galli. È il caso trattato dalla Corte di Cassazione (sent. 41601/2019) che ha dichiarato inammissibile il ricorso di un condomino contro la sentenza di condanna a 20 giorni di arresto per il reato di disturbo alle occupazioni ed al riposo dei vicini (articolo 659 del Codice penale). Il condomino custodiva, all’interno del condominio, tre galli e delle galline, i quali, lasciati liberi, in orario notturno, cantavano in continuazione. Va anche ricordato che l’articolo 1138 del Codice civile afferma che il regolamento condominiale non può vietare di possedere o detenere animali domestici ma non specifica la loro specie e tale indeterminatezza crea indubbi problemi nella convivenza quotidiana. Il condomino non interveniva, nonostante le segnalazioni ricevute, e i canti disturbavano il riposo di un numero indeterminato di persone. E ricorreva affermando che nessun accertamento tecnico era stato compiuto per stabilire il superamento della soglia di normale tollerabilità delle emissioni. La Cassazione respingeva le argomentazioni difensive in quanto il giudice aveva accertato che galli e galline, tenuti nel condomino, erano soliti cantare di giorno e di notte, nonostante le proteste degli altri condòmini e i richiami formali dell’amministratore, tanto che per il fastidio una condomina era costretta a cambiare casa. Il tecnico dell’Arpa accertava che i tre galli, rinchiusi in una baracca, cantavano per cinque o sei minuti a intervalli di 20-30 minuti e venivano calcolati in 18 minuti ben 106 eventi sonori, percepibili dalla strada, con una frequenza di dieci secondo uno dall’altro. Inoltre i galli rispondevano ai richiami dei loro consimili presenti all’interno di un’abitazione vicina, e tale situazione amplificava, di notte, i rumori ed i disagi degli altri condòmini. La condotta dell’imputato, che non impediva gli strepiti, integrava la contravvenzione sotto il profilo oggettivo ed è inquadrabile più nel dolo eventuale che in quello della colpa. Calabria. Diritto allo studio per detenuti: corsi ripristinati quicosenza.it, 15 ottobre 2019 Il Governo ha risposto ai Radicali a Montecitorio. Ripristinati i corsi nelle strutture detentive di Paola, Cosenza, Rossano e Castrovillari. “In tutti gli Istituti Penitenziari sono stati attivati percorsi didattici completi, in numero tale da consentire di accogliere tutti gli iscritti, nel rispetto della normativa vigente sul numero minimo d’iscritti per ciascuna classe”. Questo è quel che ha riferito l’On. Giuseppe De Cristofaro, Sottosegretario di Stato all’Istruzione, all’Università ed alla Ricerca del Governo Conte bis, in risposta all’Interrogazione Parlamentare n. 5/02198 del 30 maggio 2019 dagli Onorevoli Alessandro Fusacchia (Più Europa) e Gabriele Toccafondi (Italia Viva), sollecitata da Emilio Enzo Quintieri, già Consigliere Nazionale dei Radicali Italiani, all’esito delle visite effettuate insieme all’esponente radicale Valentina Anna Moretti, negli Istituti Penitenziari di Paola, Cosenza, Castrovillari e Rossano, interessati da provvedimenti di soppressione e/o riduzione dell’offerta formativa per i detenuti da parte dell’Ufficio Scolastico Provinciale di Cosenza. Il Governo ha risposto alla Camera dei Deputati durante la seduta della VII Commissione Cultura, Scienza e Istruzione lo scorso 9 ottobre, sulla base delle notizie fornite dall’Ufficio Scolastico Regionale per la Calabria. In particolare, ha riferito che con Circolare Ministeriale n. 422 del 28 marzo 2019, è stato disposto che “in ogni caso, l’attivazione nell’ambito delle risorse dell’organico di autonomia, di almeno un primo periodo didattico in ciascun Istituto di Prevenzione” per cui, in coerenza con la stessa, l’Ufficio Scolastico Regionale per la Calabria ha attivato, per l’anno scolastico 2019/2020, almeno un primo periodo didattico in ciascuno degli Istituti Penitenziari. In più, è stato possibile attivare almeno un secondo periodo didattico e un terzo periodo didattico, quale percorso conclusivo del percorso di studi. Più in dettaglio, il Sottosegretario all’Istruzione De Cristofaro, ha riferito che sono stati autorizzati i seguenti percorsi: “Nella sezione carceraria di Castrovillari, sono stati autorizzati due primi periodi didattici, due secondi periodi didattici e due terzi periodi didattici, relativamente all’indirizzo professionale alberghiero e all’indirizzo tecnico di meccanica e meccatronica”. È stato precisato che “la proposta avanzata dalle istituzioni scolastiche di riferimento, in organico di diritto, risulta non conforme ai parametri minimi prescritti dalla normativa vigente laddove, a fronte di un numero di iscrizioni pari a 91, è stata richiesta l’autorizzazione di 17 classi, con una media di 5 iscritti per classe”. “Nella sezione carceraria di Rossano sono stati autorizzati tre primi periodi didattici, un secondo periodo didattico e un terzo periodo didattico, di cui un primo periodo didattico per l’indirizzo professionale alberghiero (di nuova istituzione) e due primi, un secondo e un terzo periodo didattico per l’indirizzo tecnico di meccanica e meccatronica. Anche in questo caso, la proposta avanzata dall’istituzione scolastica di riferimento, in organico di diritto, risulta non conforme ai parametri minimi prescritti dalla normativa vigente laddove, a fronte di un numero complessivo di iscrizioni comunicate pari a 131, è stata richiesta l’autorizzazione di 11 classi con una media di 11 iscritti per classe.” “Nella sezione carceraria di Cosenza sono stati autorizzati due primi periodi didattici, due secondi periodi didattici e un terzo periodo didattico, di cui un primo, un secondo e un terzo periodo didattico per l’indirizzo professionale alberghiero e un primo e un secondo periodo didattico per l’indirizzo tecnico di amministrazione, finanza e marketing. Similmente, la proposta avanzata dall’istituzione scolastica di riferimento, in organico di diritto, risulta non conforme ai parametri minimi prescritti dalla normativa vigente laddove, a fronte di un numero complessivo di iscrizioni comunicate pari a 79, è stata richiesta l’autorizzazione di 9 classi, con una media di 8 iscritti a classe”. “Nella sezione carceraria di Paola sono stati autorizzati due primi periodi didattici, un secondo periodo didattico e un terzo periodo didattico per l’indirizzo professionale alberghiero. Stessa circostanza per la proposta avanzata dall’istituzione scolastica di riferimento, in organico di diritto, che risulta non conforme ai parametri minimi prescritti dalla normativa vigente laddove, a fronte di un numero complessivo di iscrizioni comunicate pari a 105, è stata richiesta l’autorizzazione di 9 classi, con una media di 11 iscritti per classe”. Nei prossimi giorni, autorizzato dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, annuncia il radicale Quintieri, andrò subito a verificare di persona se le circostanze riferite al Governo dall’Ufficio Scolastico Regionale per la Calabria siano veritiere perché alcuni numeri esposti dall’On. De Cristofaro, mi sembrano sbagliati, come ad esempio quelli relativi alla Casa di Reclusione di Rossano ove, per quanto mi risulta, i detenuti iscritti a corsi di istruzione secondaria superiore all’epoca dei fatti - secondo dati ufficiali - erano 165 e non 131 come invece rappresentato (95 detenuti Alta Sicurezza Itis, 55 media sicurezza Itis e 15 media sicurezza Ipseoa). Qualora dovessi riscontrare difformità rispetto a quanto comunicato, relazionerò immediatamente a tutte le Autorità competenti, oltre a sollecitare la presentazione di un nuovo atto di sindacato ispettivo alla Camera dei Deputati. Per il momento ringrazio gli Onorevoli Fusacchia e Toccafondi per l’Interrogazione nonché il Sottosegretario De Cristofaro per la risposta fornita. Lazio. Screening mammografico: ottobre rosa per le carceri di Antonella Barone gnewsonline.it, 15 ottobre 2019 Se oggi l’87% dello donne sconfigge il tumore al seno - prima patologia oncologica femminile - lo si deve anche alla diffusione su larga scala in Italia dei programmi di screening mammografico che permettono di individuare la neoplasia quando è ancora in fase precoce e può essere curata, evitando anche terapie invasive. Assicurare lo screening alle donne detenute non risulta sempre di facile attuazione: per sottoporsi a una mammografia o un’ecografia ogni donna dovrebbe essere accompagnata con scorta nella struttura sanitaria, con un notevole impegno economico e organizzativo. Per semplificare l’accesso alle indagini diagnostiche delle donne detenute e renderlo sistematico, negli ultimi anni alcuni istituti hanno aderito a programmi di prevenzione itineranti. Tra i primi, quello realizzato nella casa circondariale di Rebibbia “Germana Stefanini” dove periodicamente, dal 2015, le attività di screening vengono effettuate attraverso l’uso di pulmini, macchinari mobili e personale specializzato. In occasione di Ottobre Rosa, mese della prevenzione del tumore al seno, gli istituti e le sezioni femminili del Lazio (Roma Rebibbia, Civitavecchia e Latina) saranno raggiunti dalla Carovana della Prevenzione, Programma Nazionale Itinerante di Promozione della Salute Femminile di Komen Italia onlus, pensato per le donne che vivono in condizioni di disagio sociale ed economico e che, per questo, dedicano meno attenzione alla propria salute. L’iniziativa è stata resa possibile dal contributo offerto all’Associazione dall’ufficio di Presidenza del Consiglio Regionale del Lazio d’intesa con l’Ufficio del Garante regionale dei diritti dei detenuti. Il programma prevede esami per la diagnosi precoce dei tumori del seno e del collo dell’utero, sessioni educative ed eventi di sensibilizzazione. Nei giorni scorsi un’analoga iniziativa è stata organizzata nella casa circondariale di Messina dalla breast unit dell’A.S.P. Paolo La Paglia, che ha offerto indagini mirate a tutte le donne dell’Istituto, compreso il personale civile e quello della Polizia Penitenziaria. Roma. Muore in carcere, si indaga per omicidio di Adelaide Pierucci Il Messaggero, 15 ottobre 2019 A Regina Coeli un uomo di 52 anni trovato impiccato in cella a un metro e mezzo di altezza: la Procura ha aperto un fascicolo. Penzolava da un gancio della cella con la tuta stretta al collo. Dai rilievi si calcola che era appeso a poco più di un metro e mezzo di altezza. Forse da qualche ora. Ci sono dei nodi da sciogliere sul caso del detenuto trovato morto sabato mattina a Regina Coeli. In procura è stato aperto un fascicolo per omicidio volontario. Ed il corpo è stato messo a disposizione di un medico legale affinché effettui, già nella giornata di oggi, gli esami autoptici. Gli accertamenti sulla morte di Roberto L., 52 anni, sono stati aperti, insomma, a largo spettro, anche se l’ipotesi iniziale del suicidio non è stata accantonata, anzi dai primi dati resterebbe la più accreditata. Il detenuto, un tecnico di Monteverde, era finito nel carcere di Trastevere nell’aprile 2018 dopo una lite furibonda con la madre e l’aggressione con coltelli e lanci di barbecue dal terzo piano contro i carabinieri intervenuti per riportarlo alla calma. Tra i punti da chiarire dal pm Alberto Galanti, assegnatario del fascicolo, i motivi per cui il detenuto sia stato trovato impiccato coi pantaloni della sua tuta, in bagno, a poco più di ventiquattro ore dall’assegnazione della nuova cella. Era stato lui stesso, per motivi di incompatibilità con altri compagni, a chiedere il trasferimento in un altro braccio, ma alla fine l’amministrazione penitenziaria aveva disposto solo la variazione della cella. Un passaggio che avrebbe dovuto sollevarlo da possibili incomprensioni. L’allarme all’ottavo braccio, invece, è scattato poco dopo le sette del mattino. Sono stati i tre compagni di stanza - una cella piccola, malmessa chiusa da un antico chiavistello - ad avvertire gli agenti della polizia penitenziaria. Ma al loro arrivo il corpo era già stato adagiato a terra. L’ultimo gesto estremo compiuto dai compagni di cella nella speranza di poterlo mettere in salvo. “Abbiamo aperto il bagno per preparare il caffè”, ha spiegato uno dei detenuti agli investigatori, “lì è appoggiato il tavolinetto sul quale prepariamo la caffettiera al mattino. Non ci eravamo accorti dell’assenza”. “Non abbiamo sentito rumori”, ha raccontato un altro detenuto, “e nemmeno la sera avevamo notato situazioni sospette. Sembrava tranquillo”. Il detenuto trovato impiccato in realtà era stato provato da un lutto nelle ultime settimane. A settembre aveva perso la madre, l’unica che le era rimasta sempre vicina nelle sue traversie, compresa l’ultima, l’ennesima, bravata compiuta per di più contro di lei in preda all’alcol e alla droga. I sindacati di polizia hanno subito puntato il dito sulla piaga suicidi. “Dal 2000 ad oggi sono oltre mille i suicidi nelle carceri italiane”, è stato il commento di Daniele Nicastrini, segretario regionale Lazio del sindacato Uspp. “Fatti che provocano anche un forte stress correlato a danno del personale di polizia penitenziaria”, ha aggiunto. Nel 2018 i suicidi negli istituti di pena sono stati 63. Firenze. La pena e la pietà, una drammatica storia di ordinaria burocrazia dal Direttivo della Camera Penale di Firenze camerepenali.it, 15 ottobre 2019 Un uomo vive ristretto nella propria abitazione, colpito da un’ordinanza cautelare disposta dalla Corte d’Appello perché un’altra Nazione ne ha chiesto l’estradizione, e si teme che possa fuggire; i giudici che ordinano la misura ritengono che i domiciliari siano sufficienti, anche perché sull’uomo vigilerà l’occhio impassibile d’un braccialetto elettronico. In pendenza del procedimento, il nipote - figlio della sorella - viene colpito da un ictus: le condizioni appaiono subito gravissime, il giovane viene ricoverato in terapia intensiva, in coma farmacologico, la prognosi è riservata, anzi disperata. Il detenuto chiede di poterlo visitare in ospedale, per salutarlo un’ultima volta finché è in vita. Lo chiede una, due, tre, quattro volte: ogni volta fornendo tutti i chiarimenti che i giudici, rigorosissimi, volta per volta richiedono (non è dimostrato che sia il nipote: si produce lo stato di famiglia; non è dimostrato il pericolo di vita: si produce la cartella clinica; etc.). Eppure i giudici della Corte, inflessibili, rigettano: tutte e quattro le volte. Perché, spiegano, la visita ai moribondi non è prevista dal codice, e perché lo stato di coma non consentirebbe comunque di interagire col moribondo, che non s’accorgerebbe di nulla. Inutilmente il difensore protesta, accorato: qui non è questione di fine diritto, bensì di umanità, di dignità, di rispetto dei diritti fondamentali della persona. È questione di pietas, avrebbero detto gli antichi. La malattia frattanto s’aggrava, le condizioni precipitano, il nipote muore. Lo zio vorrebbe andare almeno al funerale, ma le ragioni cautelari prevalgono di nuovo: difficile controllare qualcuno nel contesto di un funerale pubblico, scrivono i giudici, vada semmai (dopo) a pregare sulla sua tomba, con la scorta. Però, nelle more, ha miglior sorte la richiesta d’andare dal dentista: vada pure, senza scorta. È una storia triste, di burocratica disumanità. È la storia di come un sistema giudiziario sappia restare ferocemente indifferente alle ragioni di umanità, al punto da negare l’esercizio di un fondamentale diritto della personalità, quello di salutare in limine mortis un proprio caro, e di piangerlo ai suoi funerali. Vi sono ragioni plausibili per giustificare un esercizio così spietato della giurisdizione? La Costituzione vieta qualsiasi trattamento detentivo “contrario al senso di umanità”. Vi sono forse ragioni pratiche? Può forse il costo ipotetico di una scorta per il tempo d’una visita ad un moribondo, o di un funerale, indurre una Comunità a rinnegare il dovere di rispettare la dignità d’ogni persona, ancorché ristretta? Siamo sicuri che le domande che poniamo appariranno tutte - ed a tutti - solo retoriche. Milano. La Consulta torna a San Vittore, l’incontro sarà appuntamento fisso di Luca Imperatore gnewsonline.it, 15 ottobre 2019 Oggi, 15 ottobre, la Corte costituzionale tornerà nel carcere milanese di San Vittore, dove ha fatto tappa l’anno scorso con il Viaggio in Italia, l’iniziativa promossa dalla stessa Consulta per aprire l’Istituzione alla società e incontrarla fisicamente per diffondere la cultura costituzionale. Alle ore 15,00, nella Rotonda della casa circondariale, il giudice costituzionale Francesco Viganò terrà una lezione su La pena e la Costituzione, tema proposto dai detenuti del gruppo di lavoro Costituzione Viva coordinato dal professor Antonio Casella. Costituzione Viva è un progetto nato dopo la tappa milanese del Viaggio in Italia del 2018. In quell’occasione fu la vicepresidente Marta Cartabia a incontrare gli ospiti della casa circondariale, alcuni dei quali avrebbero poi dato vita al gruppo di lavoro, per continuare ad approfondire i temi della legalità costituzionale, anche con la collaborazione di esterni. “Il progetto dimostra che il Viaggio - con la tappa a San Vittore - non è stato un punto di arrivo ma di partenza per un itinerario ancora più lungo e importante, perché a promuoverlo e a portarlo avanti sono gli stessi detenuti e perché è finalizzato a coltivare e ad alimentare la cultura costituzionale dentro le mura del carcere, con lo sguardo proiettato oltre quelle mura, in una prospettiva di libertà” si legge in una nota della Corte costituzionale. Proprio per i suoi contenuti e le sue finalità, la Corte costituzionale ha proposto di tornare a San Vittore il 15 ottobre di ogni anno con uno dei suoi giudici, eventualmente anche emeriti, in modo che le attività del gruppo di lavoro siano orientate a questo appuntamento fisso, destinato ad essere per tutti - come il Viaggio in Italia - una straordinaria occasione di scambio di conoscenze, esperienze ed emozioni. Brescia. “Processi a numero chiuso: farne di meno, ma meglio” di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 15 ottobre 2019 “Troppe assoluzioni”. Accantonati i reati prescritti entro 2 anni. Processi a numero chiuso. Non oltre un predefinito tot l’anno. Anche a costo di instradare consapevolmente su un binario morto quelli destinati a prescriversi entro 2 anni. Una soluzione d’urto contro la presa in giro di “un produttivismo senza qualità” che, nell’ossessione di macinare statistiche, produce però già in primo grado pure un numero inaccettabile di assoluzioni (quasi una su due). I responsabili degli uffici del distretto di Corte d’Appello di Brescia (uno dei più grandi fra i 26 italiani, che con quello di Milano si divide la Lombardia) insieme agli avvocati rinunciano all’ipocrisia auto-propagandistica delle cerimonie degli anni giudiziari, e si assumono invece una responsabilità: quella di mettere nero su bianco, e dunque di rendere controllabile anziché opaca nel non detto del fatto quotidiano, la presa d’atto della crisi di una grossa parte del sistema penale, quella dei processi per reati di competenza del giudice monocratico (come furti, truffe, ricettazioni), in particolare i giudizi su citazione diretta del pm. Il punto di partenza è la constatazione che la quantità di procedimenti istruiti dalle Procure (spesso in maniera incompleta o sbrigativa) è fisicamente incompatibile con la capacità di definizione dei Tribunali (nel caso bresciano 6.50o arrivati contro 4.50o celebrati), con il risultato che le prime udienze sono fissate - ad esempio a Brescia e Bergamo - tra 2021 e 2023. Il che innesca una doppia catena di danni. Ai cittadini, che pagano il prezzo (sempre personale, talvolta anche lavorativo) del restare appesi per anni già solo ad attendere un primo verdetto. Ma anche ai processi, perché poi in aula le deposizioni dei testi sono ormai scolorite dal tempo trascorso e cresce la possibilità di assoluzioni. Che infatti già in primo grado in giro per l’Italia sono spaventosamente alte, come il Corriere aveva additato in gennaio a partire da un rilievo del presidente del Tribunale di Torino: Brescia rileva ad esempio un tasso di assoluzione nel rito monocratico tra il 40% e il 45%, addirittura oltre il 50% sui furti, mentre nel collegiale va dal 20% al 35%. “Produrre magari meno ma almeno meglio” è l’obiettivo delle Linee Guida promosse dai presidenti della Corte d’Appello e del Tribunale bresciani, Claudio Castelli e Vittorio Masia, e condivise con Uffici giudiziari e Avvocatura. Assunta una capacità massima di 4.000 processi l’anno a Brescia, 3.500 a Bergamo, 1.250 a Mantova, 1.150 a Cremona, entro questo tetto i calendari d’udienza verranno formati in proporzione con tre quote di processi. Quelli a “priorità legali”, stabilite da leggi in base al tipo di reato; quelli a “priorità convenzionali”, dipendenti dalle specificità socio-economiche del territorio (ad esempio lesioni da colpe professionali o gli infortuni sul lavoro); e infine i non prioritari, tra i quali - scelta delicata - quei reati la cui prescrizione sia destinata a maturare nei successivi 24 mesi e i cui processi dunque si presume non facciano in tempo ad essere celebrati. Torino. “Psicofarmaci a litri ai migranti del Cpr”. La testimonianza di un medico di Giovanni Falconieri Corriere di Torino, 15 ottobre 2019 “Chiedono spesso qualcosa che aiuti a dormire”. “Gli psicofarmaci si usano a litri”. È la testimonianza resa in tribunale da Fulvio Pitanti, 80 anni, responsabile medico del Cpr di Torino, durante uno dei tanti processi relativi alle rivolte dei migranti scoppiate nella struttura di corso Brunelleschi e costate, in una occasione, anche il ferimento di un poliziotto. Uno dei fattori che periodicamente scatenano le proteste dei “trattenuti” - così vengono definiti gli ospiti del Cpr dagli addetti ai lavori - è la qualità dell’assistenza medica. Pitanti è intervenuto al processo su richiesta dei difensori degli imputati. Ed è stato invitato a raccontare in che maniera è organizzato quello che lui stesso ha definito in aula “un ambulatorio di prima linea”. Il responsabile ha spiegato che a diversi “trattenuti” vengono spesso somministrati dei calmanti. “Alla sera - ha sottolineato - capita che gli stranieri ci chiedano qualcosa che li aiuti a dormire: in quei casi diamo del Valium, che non è uno psicofarmaco. Poi capita però che alcuni di loro ci riferiscano che quando erano in carcere prendevano il Rivotril: non capisco il motivo, visto che si tratta di un antiepilettico. Ma se posseggono la prescrizione del medico, io procedo”. Quanto alle ambulanze, Pitanti ha quindi sottolineato che “si devono muovere solo su richiesta del nostro ambulatorio. Questo per evitare che qualcuno, dal Cpr, le faccia arrivare senza motivo, come è già successo in passato. Se ne viene chiamata una, la centrale contatta il nostro presidio medico per avere conferma”. L’ultima rivolta in ordine di tempo è stata registrata lo scorso agosto, quando un ispettore di polizia è rimasto ferito a una mano e tre persone sono state arrestate. Quella protesta fu la terza in pochi giorni, certamente la più violenta. Il poliziotto, che riportò la frattura di due falangi con una prognosi di trenta giorni, ha raccontato di aver dovuto fronteggiare per ore, insieme a cinque carabinieri, oltre 150 ospiti della struttura, sotto una sassaiola fittissima. Solo l’intervento di tre squadre del Reparto Mobile fu in grado di riportare la situazione sotto controllo. In carcere erano quindi finiti due marocchini e un tunisino, di 24, 31 e 33 anni. L’ispettore di polizia si lasciò infine andare a un duro sfogo su Facebook: “Per un po’ non voglio sentire parlare di comprensione, integrazione ed accoglienza”. Il sindacato di polizia Siap parlò di situazione di emergenza al Cpr e sottolineò che ad aggravarla era la scarsità del personale. Milano. Ingoia la droga per sfuggire agli agenti, s’accascia e muore dopo un’ora e mezza di Sandro De Riccardis La Repubblica, 15 ottobre 2019 Vista la volante ha ingerito qualcosa, poi all’improvviso è stato male nella cella della questura. Inutile la corsa in ospedale, disposta l’autopsia: forse l’involucro dello stupefacente si è rotto. Viene notato durante un normale servizio di pattugliamento dagli agenti di una volante. Il magrebino si aggira nei parchetti alla fine di via Giovanni da Cermenate, poco lontano da piazzale Ferrara, alla periferia sud della città. Vede la volante e cambia direzione, poi cerca di nascondersi dietro le siepi, tanto da far insospettire i poliziotti. Che vedono anche l’uomo tirare qualcosa fuori dalle tasche e metterla in bocca. Quando lo raggiungono e lo fermano, alle 18 di sabato, lo trovano senza documenti. Sulla base delle generalità che comunica, viene identificato come un tunisino di 46 anni, già raggiunto da un provvedimento di espulsione dal territorio italiano emesso a gennaio. Così l’uomo viene trasferito in questura e rinchiuso nelle camere di sicurezza. Non manifesta malesseri fino a quando, dalle videocamere che controllano l’interno delle celle, altri poliziotti non lo vedono cadere per terra e non rialzarsi più. Scatta subito l’allarme, viene richiamata l’ambulanza che si trova in via Fatebenefratelli, fuori dalla questura, intervenuta per assistere un altro fermato, diabetico, che si trova in cella con il tunisino. I sanitari entrano e lo soccorrono, l’uomo dice di avvertire forti dolori all’addome. Poi è preda di convulsioni. È così che viene trasferito in codice giallo al vicino Fatebenefratelli. Sono le 18.30. In pochi minuti la situazione precipita. Mentre è in ambulanza perde conoscenza e inizia a emettere schiuma dalla bocca. Quando arriva in ospedale, è passata poco più di un’ora e mezzo dal fermo. Ma l’uomo ora è in condizioni gravissime, in arresto cardiocircolatorio. Un’ora dopo, alle 19.30, muore. Viene subito avvisato il pm di turno, Enrico Pavone, che ordina l’autopsia per togliere ogni dubbio sulle cause della morte. Perché l’ipotesi più verosimile è che a uccidere il magrebino sia stata la sostanza che lui stesso ha ingerito. Per sfuggire al controllo ed evitare di essere trovato con lo stupefacente. Ma - questa resta la ricostruzione più probabile - la confezione che conteneva la droga, di cellophane o carta stagnola, nella fretta di anticipare il controllo di polizia, potrebbe essere stata chiusa male. Tanto da rilasciare droga nel corpo, una volta ingerita. Sostanza che potrebbe essere stata fatale all’uomo. Dalle prime analisi nel sangue, riferisce la questura, risulterebbero tracce di stupefacente nell’organismo. Sarà ora l’esame autoptico a verificare questa ricostruzione. Che si basa anche sui precedenti di polizia a carico della vittima. Il tunisino, irregolare e senza una residenza ufficiale in città, oltre a essere gravato dall’ordine di espulsione, aveva dei precedenti con diversi alias per detenzione a fini di spaccio, resistenza e lesioni. Arrivato nel 2007 per la prima volta in Italia, era stato detenuto diverse volte a Milano, Novara e altri penitenziari. Aveva sempre dichiarato di essere tunisino, ma il consolato aveva chiesto verifiche sulla sua reale nazionalità. Bologna. Minori detenuti, arrivano gli chef di Chiara Pazzaglia Avvenire, 15 ottobre 2019 Si chiama “Brigata del Pratello”, che è il nome con cui i bolognesi conoscono l’Istituto Penale Minorenni “Siciliani”, ed è la prima osteria d’Italia aperta in un carcere minorile. Impiegherà come cuochi e camerieri, su turni, 8 dei 25 ospiti della struttura. Lo scopo, come spiega Antonio Pappalardo, il Dirigente del Centro per la Giustizia Minorile di Emilia-Romagna e Marche, “è anzitutto formativo”. Ai ragazzi “viene data la possibilità di sperimentare in una situazione reale quanto apprendono durante un corso apposito, organizzato dall’Ente di formazione professionale Fomal all’interno del carcere”. Al Direttore dell’Istituto penale Alfonso Paggiarino il compito di riportare le impressioni degli aspiranti chef e camerieri coinvolti nel progetto: “Ho scoperto una passione”, dice uno. “Sono bravissimo nel fare la pasta e la pizza”, aggiunge un altro. La costante è che i ragazzi pensano che questa possa essere “una speranza per il loro futuro, anche lavorativo, una volta usciti”. Quello che è certo è che, oltre alle competenze in ambito ristorativo, i giovani detenuti “apprendono anche come ci si deve comportare con i clienti, a lavorare in squadra, nella “brigata di cucina”, come ricorda il nome dell’osteria, collaborando con i colleghi e ascoltando gli ordini dello chef, per eseguirli al meglio”, dice Paggiarino. E non è uno chef a caso quello che è stato scelto come insegnante: si tratta di Mirko Gadignani, “che è anche cuoco del Bologna Calcio, elemento che esercita ulteriore appeal sui detenuti coinvolti”. Il progetto, che è sostenuto dalla Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna e dalla Regione Emilia Romagna, si inserisce nell’ambito di numerose iniziative volte alla rieducazione, al recupero, alla rigenerazione personale dei giovani ospiti del Pratello, che durante la giornata “giocano a calcio, frequentano corsi di teatro e di formazione professionale e la scuola, di ogni ordine e grado, a seconda dell’età e del livello di istruzione precedente”, continua il direttore della struttura bolognese. Le porte del carcere si sono aperte per la prima volta per i commensali nei giorni scorsi. All’inaugurazione era presente l’arcivescovo di Bologna, cardinale Matteo Maria Zuppi, mentre il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ha inviato un messaggio augurale ai promotori dell’iniziativa di riscatto sociale a favore dei giovani detenuti. Successivamente, le cene - evento avranno luogo una o due volte al mese, per 40-50 coperti alla volta. E richiesta un’offerta libera e si accede solo dopo un accurato controllo dei documenti: un’osteria, sì, ma pur sempre dietro le sbarre. E “sbarrini”, infatti, si chiamano i biscotti che ogni commensale potrà portarsi a casa come ricordo dell’esperienza, che potrà così essere condivisa con i familiari. Alcune delle materie prime utilizzate verranno direttamente dall’orto “a chilometro O” che è dentro al carcere. I partecipanti percepiranno anche un’indennità per il lavoro svolto. Alba (Cn). L’iniziativa “Tutti i Diritti” offre visibilità al mondo delle carceri di Giada Chirivì ideawebtv.it, 15 ottobre 2019 Un modo per conoscere sempre più la realtà delle Case Circondariali. Tra le molte proposte della Fiera del Tartufo non è venuto a mancare l’appuntamento con l’iniziativa “Tutti i Diritti-Produzioni Ristrette”, la quale offre visibilità alle iniziative su detenzione, legalità e diritti umani. Giunta alla sua ottava edizione, la manifestazione ha avuto luogo presso Piazza Pertinace in concomitanza con i Mercati della Terra, proponendo visibilità all’economia penitenziaria del nord Italia. Le merci esposte sono il risultato di prodotti realizzati da detenuti, che aderiscono ai progetti offerti dalle cooperative che operano sui vari centri, il cui scopo è il reinserimento sociale e lavorativo. Tra le diverse realtà presenti, troviamo il centro anti violenza donne “Mai + Sole” di Savigliano, che propone un progetto di cucito rivolto ai detenuti maschi del carcere Morandi di Saluzzo. Grazie all’utilizzo di tessuti di recupero, vengono realizzate borse, a cui viene cucito lo slogan: “mai più dentro”, creato dai partecipanti stessi. Non è mancato il progetto “Valelapena”, che presso la Casa Circondariale di Alba ha realizzato un vigneto curato dai detenuti, che dopo un’accurata formazione professionale, possono procedere alla coltivazione e produzione dei vini. Vibo Valentia. Callipo porta il lavoro in carcere e assume sette detenuti lacnews24.it, 15 ottobre 2019 Saranno affiancati da personale dell’azienda del tonno nel confezionamento delle cassette regalo che saranno messe in vendita per le festività natalizie. Un’opportunità, di lavoro e di riscatto, un modo per fare sentire i detenuti non più soli e per rafforzare in loro la convinzione che, una volta scontata la pena, un’altra vita fuori dal cercare è possibile. Torna, per il quarto anno consecutivo, l’iniziativa della Callipo, che porterà all’assunzione di sette ristretti nella casa circondariale di Vibo Valentia ai quali sarà affidato il confezionamento di 11.000 cassette regalo contenenti una selezione di pregiati prodotti dell’azienda che saranno messi in vendita per le festività natalizie. Il percorso lavorativo prevede l’affiancamento da parte del personale esperto per trasferire, oltre alle tecniche di confezionamento, anche lo spirito ed i valori dell’azienda del tonno che opera in Calabria da ormai 106 anni. “Sono particolarmente grata all’imprenditore Callipo per la particolare attenzione manifestata anche quest’anno verso questa struttura confermando l’assunzione di 7 detenuti - ha commentato la direttrice del penitenziario Angela Marcello. Il suo impegno spero che sia di esempio anche per altri imprenditori affinché considerino l’istituto penitenziario come opportunità concreta anche per le loro attività, dando maggiori possibilità ai detenuti della struttura. “Si tratta di un progetto che ci sta molto a cuore - ha invece ribadito Callipo - perché ci permette di dare, concretamente, un’occasione di riscatto a 7 detenuti del penitenziario di Vibo Valentia. È un’occasione molto significativa anche per i nostri dipendenti che, ogni anno, a fine progetto, dicono di sentirsi umanamente toccati dal confronto con i detenuti e dai loro racconti, spesso malinconici, ma carichi della speranza di poter riprendere un giorno in mano la loro vita. Ringrazio la direttrice Marcello per aver immediatamente accolto la nostra richiesta di proseguimento del progetto, avviato con successo negli anni scorsi con il precedente direttore Antonio Galati”. La gestione delle assunzioni dei detenuti è stata affidata a a Openjobmetis Spa. Piombino (Li). Al liceo un seminario sulle esperienze in carcere e le prospettive di lavoro Il Tirreno, 15 ottobre 2019 Non solo alternanza scuola lavoro e crediti formativi. L’opportunità di affacciarsi su un mondo del tutto diverso rispetto alle tradizionali lezioni tra i banchi. “Quali prospettive di lavoro nel sociale? Esperienza in carcere”: è il seminario che il 16 ottobre vedrà coinvolti gli studenti di 4 e 5 del liceo scienze umane di Piombino. “Incontro importante - spiega la dirigente Isis Carducci Volta Pacinotti Gabriella Raimo - anche per acquistare consapevolezza e spendibile in un secondo momento, qualora gli allievi decidessero di partecipare a selezioni per assistente sociale in carcere”. Per questo sarà rilasciato un attestato di partecipazione. Progetto promosso da Università delle 3 Età - Unitre, Casa di reclusione Porto Azzurro e Volterra. Verrà anche presentato il Premio letterario “Casalini” per i detenuti, con due membri della giuria: Pablo Gorini e Fabio Canessa. E saranno distribuite copie del volume “L’altra Libertà” che raccoglie composizioni di detenuti. Appuntamento alle 9,30 nell’auditorium del liceo in via della Pace. Dopo il saluto di Raimo, la relazione di Luca Lischi, capo di gabinetto dell’assessorato regionale a istruzione, formazione e lavoro” sul tema “Conoscere, comprendere, cogliere”; alle 10, 30 “Esperienze lavorative”, relatori la direttrice della casa di reclusione Volterra Maria Grazia Giampiccolo e Giuseppina Canu, responsabile area educativa di Porto Azzurro. Interventi degli studenti. Alle 12, 30: sosta pranzo self-service. Dalle 14 si parlerà delle esperienza di volontariato in carcere. Introduce il presidente Unitre di Porto Azzurro Davide Casalini. Tra gli argomenti, come detto, pure il premio letterario (la premiazione dei detenuti alla casa di reclusione di Livorno il 6 novembre). Piacenza. Un corso di teatro in carcere di Laura Parmeggiani ilnuovogiornale.it, 15 ottobre 2019 Un corso di teatro in carcere e un protocollo, ancora da siglare, con le associazioni professionali piacentine, per una possibile integrazione socio-lavorativa di giovani detenuti, a fine pena. Un’idea nata dall’incontro tra il prefetto Maurizio Falco e il presidente del Rotary Piacenza Pietro Coppelli, nel luglio scorso, parlando di disagio giovanile e di possibili service del Rotary Piacenza in questa direzione. Detto e fatto. Il percorso, già definito, potrà contare sul coordinamento complessivo della Prefettura, il sostegno del Rotary Piacenza, la professionalità della direttrice della Casa circondariale “Le Novate”, Maria Gabriella Lusi, oltre che sul talento e l’esperienza di Mino Manni, attore e regista. Se n’è parlato per la prima volta in modo ufficiale nel corso di una conviviale rotariana all’albergo Roma a cui, oltre al prefetto Falco, al presidente Coppelli e a tutti i protagonisti del progetto, ha partecipato anche il presidente del Comitato esecutivo della Banca di Piacenza avvocato Corrado Sforza Fogliani. Circa 15, di età inferiore ai 25 anni, scelti in modo mirato, i detenuti che parteciperanno al corso di teatro; lavoreranno con Manni per 4 mesi, tutti i lunedì pomeriggio, da gennaio 2020. L’artista piacentino, che già lo scorso anno aveva curato un progetto simile, sempre in carcere, e incentrato su “Giulio Cesare” di Shakespeare, questa volta ha scelto Iliade “Lavoreremo sul testo di Omero, ma anche sulla riscrittura di Baricco, con un linguaggio adatto e facendo leva sui valori che quest’opera trasmette - ha precisato Manni -. Useremo il teatro come veicolo di comunicazione, come esempio raro di corrispondenza universale, terreno efficace per un recupero e una nuova consapevolezza, senza paura di essere giudicati”. Il service rotariano, come rimarcato all’unisono dal prefetto Falco, dal presidente Coppelli e dalla direttrice Lusi, punta a mettere insieme il dentro e il fuori dal carcere nel modo più efficace possibile, perché prepara i ragazzi per un futuro reinserimento, dando loro la certezza di poter tornare ad essere una risorsa per la società. Un gesto di valenza sociale, che contribuirà a migliorare la sicurezza del territorio, ma non un atto di buonismo gratuito. Applicato secondo regole di civiltà, premierà chi lo merita. Il laboratorio teatrale si chiuderà con una rappresentazione finale, in spazi dedicati. “In collaborazione con la Scuola edile di Piacenza, stiamo riqualificando alcuni spazi perché l’esperienza del teatro possa avere un set adeguato all’interno dell’Istituto delle Novate - ha annunciato la direttrice Lusi durante la serata Rotariana -. Stiamo predisponendo un percorso di formazione professionale per allestire un locale che si presti ad ospitare spettacoli teatrali ed eventi simili”. Un segnale di apertura, un gesto di coraggio, un’azione concreta oltre facili slogan. Il progetto di teatro in carcere firmato Prefettura e Rotary Piacenza è in linea con lo spirito della nostra città “A Piacenza sono riuscito a fare cose che non avrei mai immaginato - ha affermato il Prefetto riferendosi proprio a questo aspetto. Anche in questo caso, la comunità piacentina, conferma di essere improntata al valore del fare, seguendo una tradizione di positività e concretezza”. Civitavecchia. Asl Rm 4 in carcere, prosegue il “Progetto Fortezza” trcgiornale.it, 15 ottobre 2019 Al teatro della casa Circondariale di Civitavecchia, si è svolto lo spettacolo “Il Campo” liberamente ispirato al libro “I ragazzi della via Pal” di Molnàr e interpretato dai detenuti della compagnia “Addentro”. Il “Progetto Fortezza” si rivolge alla popolazione detenuta maschile e femminile della Casa Circondariale e della Casa di Reclusione di Civitavecchia e nasce con l’intento di utilizzare il potenziale terapeutico dell’arte teatrale come strumento di prevenzione e riabilitazione del disagio mentale attraverso la promozione generale del benessere psico-fisico. L’esperienza teatrale, infatti, non svolge una semplice funzione ricreativa e di stimolo intellettuale, poiché permette lo sfogo, la canalizzazione e la trasformazione in atti costruttivi di emozioni potenzialmente distruttive. Si tratta di fatto, di interventi di prevenzione primaria, secondaria e terziaria in ambito psicologico e psichiatrico. Nel periodo di riferimento di 6 mesi sono stati coinvolti 36 detenuti, e di questi 16 hanno partecipato alla rappresentazione finale. I partecipanti avevano età ed etnie differenti. Le differenti etnie hanno costituito una ricchezza di risorse, prima fra tutte la possibilità dio trovare un linguaggio comune, attraverso l’espressività teatrale si è evidenziata una diminuzione dell’aggressività e degli atteggiamenti negativi, e l’utilizzo di comportamenti più congrui e adeguati all’ambiente detentivo. Il laboratorio teatrale ha rappresentato un’effettiva ed efficace terapia del disagio, nonché uno stimolo per l’attivazione delle risorse personali di pazienti e operatori con conseguenze trasformative di luoghi e persone. Lo spettacolo “Il Campo” si è svolto in un clima di grande commozione, presenti la dottoressa Andò, la dottoressa Celozzi e il Direttore Generale Quintavalle che ha manifestato la sua soddisfazione nel progetto. Palermo. “Transiti” al teatro Biondo: in scena i detenuti del Pagliarelli Giornale di Sicilia, 15 ottobre 2019 Dopo il record di “Enigma 23” allo Stabile della città tocca ora a “Transiti”. Dal Pagliarelli al palcoscenico del teatro Biondo in un progetto che evoca riscatto e rinascita. I detenuti - attori della casa circondariale Pagliarelli - Lo Russo di Palermo escono allo scoperto e propongono il loro nuovo lavoro “Transiti”, frutto di un anno di lavoro all’interno del carcere e che ha debuttato a giugno nella casa circondariale. L’appuntamento per la compagnia “Evasioni”, diretta dalla regista Daniela Mangiacavallo che firma anche la regia del testo scritto insieme al drammaturgo Rosario Palazzolo, è per sabato 19 ottobre alle 21 al Teatro Biondo, che con l’associazione Baccanica, che cura il progetto di teatro con i detenuti, ha già avviato una collaborazione. Dopo il record di “Enigma 23” allo Stabile della città tocca ora a “Transiti”, uno studio sulle opere di Jean Paul Sartre e Martin Heidegger. “Transiti” è un viaggio chiamato vita, tra imprevisti, attese e qualche volta un profondo vuoto da attraversare. Una riflessione intima sul valore che diamo al tempo. “Transiti” va in scena con i costumi realizzati all’interno del carcere frutto di un corso di sartoria teatrale realizzato dall’associazione “Baccanica”: i detenuti armati di ago e filo hanno lavorato alla preparazione dei costumi guidati da Giulia Santoro. Anche le scenografie sono state realizzate dagli ospiti del Pagliarelli impegnati in un progetto sui mestieri in carcere, finanziato dalla Fondazione Acri - programma Per Aspera ad Astra. Metro, stoffe, colori per tessere una nuova vita e un sogno oltre le sbarre. Volti assonnati, infreddoliti, stanchi, felici, malinconici, persi attendono il treno. “Macchine di carne ed ossa” si muovono freneticamente verso il loro qualcosa, umanità distratta, assetata di ignoto. Intorno ai binari solo il vuoto, l’attesa. Uno speaker annuncia il ritardo del treno, poi il guasto. Un’interminabile attesa fatta di incontri, addii, abbracci, arrivederci... per scoprire solo se stessi. L’esistenza, l’essere, l’inatteso, l’ignoto come possibilità di prendere coscienza del viaggio chiamato vita. Rimane solo quell’istante, il futuro è qualcosa di molto lontano, a cui penseremo dopo. La compagnia teatrale Evasioni diretta da Daniela Mangiacavallo nasce quattro anni fa all’interno della sezione maschile della Casa Circondariale Pagliarelli-Lo Russo di Palermo. Il Teatro che percorriamo ogni giorno costruisce relazioni e produce bellezza umana. Bologna. Cinevasioni, il cinema va in carcere Corriere di Bologna, 15 ottobre 2019 Si chiama AtmospHera la sala cinematografica da 200 posti realizzata all’interno della Casa Circondariale Rocco D’Amato di Bologna. L’ha voluta l’associazione Cinevasioni, che tra queste mura dal 2016 organizza l’omonimo festival di cinema, rivolto anche al pubblico esterno, come cì scrive un lettore. In giuria ci sono i detenuti che hanno partecipato al laboratorio CiakinCarcere. Il corso viene riproposto per il terzo anno consecutivo. Ha solo cambiato nome in “Cinevasioni Scuola”, È frequentato da una ventina di persone di diverse nazionalità, scelte dalla direzione del carcere, recluse sia nel reparto penale (pene definitive) sia in quello giudiziario (in attesa di giudizio). Ed è finalizzato anche ad acquisire una professionalità in vista di un futuro reinserimento lavorativo dei detenuti. Il film inaugurale è stato “Ammore e malavita” dei Manetti Bros: presenti alla proiezione, l’hanno introdotto. Il Premio Nobel a chi combatte la povertà in strada di Federico Rampini La Repubblica, 15 ottobre 2019 Economia, vincono gli studi sugli ultimi. Tre premiati: due sono marito e moglie. I vincitori del premio Nobel per l’economia quest’anno sono tre. Una coppia, marito e moglie: l’indiano Abhijit Banerjee e la francese Esther Duflo, entrambi docenti al Massachusetts Institute of Technology. Al terzo è l’americano Michael Kremer, che insegna ad Harvard. Tutti e tre sono studiosi dello sviluppo. Secondo le motivazioni del premio, si sono distinti per aver “introdotto un nuovo approccio per ottenere risposte affidabili sui modi migliori per combattere la povertà globale. In due decenni, il loro nuovo approccio sperimentale ha trasformato l’economia dello sviluppo, che ora è un fiorente campo di ricerca”. Quello che hanno in comune è l’approccio “sperimentale”, appunto: cioè pragmatico, empirico, ai problemi del sottosviluppo e delle diseguaglianze. Niente proclami ideologici, bensì la ricerca delle soluzioni che funzionano, sperimentandole sul campo per sottoporle alla prova dell’efficacia. Uscire dalle stanze dell’accademia, andare tra la gente a vedere cosa funziona e cosa no. Per fare un esempio, un esperimento di cui si occupò la Duflo all’inizio della sua carriera (quando era appena 34enne), consisteva nel distribuire un medicinale contro i vermi intestinali in un campione di scuole del Kenya: con una spesa minima l’assiduità degli scolari in classe aumentò del 25%. La coppia Banerjee-Duflo ha appena pubblicato un libro, “Good Economics for Hard Times” (Public Affairs, New York 2019), cioè “una buona economia per tempi duri”, che uscirà in italiano presso Laterza. È una lettura sorprendente, non è il saggio di economia che ti aspetteresti da due accademici titolati. Ci rivela che Banerjee e Duflo hanno molto da dirci su di noi, oltre che sulle ricette giuste per sollevare l’Africa dalla miseria. Sono anche due fustigatori spietati della propria professione. Il libro comincia con una barzelletta feroce sugli economisti, e non a caso: il punto di partenza è il crollo della loro credibilità, solo il 25% dei cittadini ha qualche fiducia negli esperti di economia. Peggio di così nella stima popolare ci sono solo i politici. Le ragioni sono tante e i due neo-premiati dal Nobel non ne risparmiano nessuna. Tanto per cominciare c’è un dilagante conflitto d’interessi: “Quegli economisti che vanno in tv e scrivono sui giornali sono spesso portavoce di interessi aziendali, prescindono dall’evidenza empirica, hanno un pregiudizio favorevole ai mercati ad ogni costo”. In un piccolo test significativo si scopre che la maggioranza dei cittadini pensa che i chief executive siano troppo pagati, mentre gli economisti no. A loro i super stipendi dei top manager vanno bene. Il legame con i fondi per la ricerca economica elargiti dalle multinazionali potrebbe essere una spiegazione di questo accecamento ideologico? Ma dopo aver denunciato gli economisti legati al mondo del business, i due Nobel se la prendono anche coni loro colleghi che lavorano per istituzioni pubbliche, teoricamente “asettiche” e protette da ogni interferenza d’interessi privati. Ci ricordano, per esempio, che i super-esperti del Fondo monetario internazionale hanno sistematicamente sbagliato le loro previsioni sull’economia globale. Un altro tratto saliente del libro di Banerjee-Dufilo è l’importanza assegnata alla “dignità umana”, spesso un bene più prezioso dello stesso reddito. Questo ci porta all’altro grande tema, dove i due Nobel ci parlano di noi. È la decadenza della democrazia, e il ruolo delle scienze sociali per rimediarvi. I due autori osservano che in America il 61% dei democratici considerano i repubblicani indistintamente razzisti, sessisti e bigotti oscurantisti. La sinistra ha una visione “millenarista” - cioè apocalittica - dell’ascesa dei populismi. I repubblicani contraccambiano con altrettanti pregiudizi. Il ruolo delle scienze sociali, economia in testa, secondo Banerjee e Duflo deve essere quello di ricostruire le basi concrete e pragmatiche di un dibattito pubblico, civile e rispettoso. Non si ricostruisce una democrazia sana se ci si affronta con astratti proclami di principio, del tipo “sono per gli immigrati perché sono generoso e umanitario”, oppure “sono contro perché minacciano l’identità della mia nazione”. L’approccio sperimentale, giustamente premiato dal Nobel, richiede allo studioso serio di consumare la suola delle scarpe: andare sul terreno, studiare caso per caso, distinguere, entrare nel vivo delle cose che interessano o preoccupano o spaventano i cittadini. Migranti. Da Benin City all’inferno di Sergio Nazzaro* La Repubblica, 15 ottobre 2019 Il traffico di esseri umani, considerato nelle due forme dello smuggling e del trafficking, costituisce ormai, per gli illeciti profitti che ne derivano, il secondo settore d’interesse illecito delle più qualificate organizzazioni criminali di matrice etnica, dopo il traffico di droga. Tale dato è riscontrato anche per la criminalità nigeriana, affermatasi negli ultimi venti anni in Europa, negli Stati Uniti e nel Sud America in entrambe le attività. In Italia, in particolare, gruppi di tale etnia hanno cominciato a mettersi in evidenza negli anni Ottanta, in coincidenza coi consistenti flussi migratori provenienti dal continente africano, insediandosi inizialmente nel casertano e dedicandosi allo sfruttamento di giovani prostitute connazionali. Nel corso degli anni, i sodalizi nigeriani si sono diffusi su tutto il territorio nazionale, creando stabili e consistenti insediamenti, soprattutto nella città di Torino, divenuta la principale destinazione italiana delle giovani donne nigeriane trafficate ai fini di sfruttamento sessuale, ma anche nel Veneto (Padova), in Lombardia (Brescia e Milano) e, in misura minore, nel centro-sud, come confermato dalla presente attività di indagine. La maggiore colonia di cittadini nigeriani è situata tuttavia proprio in Campania, a Castel Volturno, un piccolo paese del casertano che sorge sul litorale Domizio, a poche decine di chilometri da Napoli, dove una sensibile quota della popolazione è formata proprio da persone di tale nazionalità. Ed è proprio nel casertano, e nella zona Domiziana della provincia di Napoli, che sono state effettuate, anche nel recentissimo passato, innumerevoli operazioni di polizia nei confronti di tantissimi soggetti di nazionalità nigeriana. Ciascun gruppo si caratterizza per la comune provenienza etnico-tribale che contribuisce a garantire, unitamente ai vincoli familiari e alle tradizioni magico-religiose, una elevata compattezza interna, che rende possibile un’efficace operatività nonostante la ricorrente suddivisione in cellule attive in diverse aree territoriali. Si tratta di gruppi connotati da un alto livello organizzativo e di pericolosità, ai quali sono riconducibili i caratteri dell’associazione mafiosa, sotto il profilo del metodo “violento” scaturente dalla forza di intimidazione del vincolo associativo adoperato dai promotori dell’associazione per ottenere l’assoggettamento dei soggetti sfruttati a fine di prostituzione. I dati dell’attività di contrasto alla matrice criminale relativi agli ultimi tre anni, ne confermano la capillare distribuzione sul territorio, la tendenza a un accresciuto coinvolgimento in attività illecite di vario tipo, tra le quali prevalgono quelli in materia di stupefacenti e immigrazione clandestina. La maggior parte delle ragazze trafficate ai fini dello sfruttamento sessuale proviene dal sud della Nigeria (Benin City o Lagos) o da alcune cittadine dell’interno e appartiene solitamente alle tribù Igbo, Yoruba, Bini, Edo. Sono tutte donne con una età compresa tra i 16 ed i 25 anni con un basso livello di istruzione. La situazione di precarietà economica e la speranza di trovare all’estero migliori condizioni di vita, agevolano le attività delle organizzazioni criminali. Le famiglie delle vittime, allo scopo di finanziare il viaggio verso l’estero delle proprie figlie, contraggono debiti con le “madame” che possono arrivare a 50.000, e in alcuni casi anche a 60.000 euro. Cifre che verranno saldate proprio attraverso il successivo sfruttamento delle trafficate. Una volta esaurita la fase del reclutamento, i gruppi criminali organizzano il viaggio verso le destinazioni finali. Predispongono la documentazione necessaria all’espatrio, spesso assicurata dalle proprie cellule attive in territorio estero, con specifici compiti di reperimento, attraverso canali internet, dei documenti di viaggio e dei biglietti. Tali attività vengono compiute attraverso l’uso fraudolento di codici di carte di credito, preventivamente captate da sodali incaricati dell’attività. Il passaporto, in alcuni casi, viene ottenuto direttamente da soggetti che hanno contatti di natura illegale con la polizia locale e con elementi che si trovano all’interno delle varie ambasciate che rilasciano i visti d’ingresso. Sono passaporti “regolari”, acquisiti attraverso l’organizzazione criminale, che poi, in maniera fraudolenta, si limita a sostituire la fotografia. In alcuni casi i passaporti sono inviati per posta in Italia o fatti arrivare attraverso un amico o un parente. Il luogo di partenza, nella maggior parte dei casi, è l’aeroporto di Lagos in Nigeria. Il primo scalo è un altro aeroporto africano, spesso in Ghana, dove è presente storicamente una forte comunità di origine nigeriana, ma anche a Cotonou, città del vicino Stato del Benin. Altre volte la prima tappa è invece nel Togo, da dove le donne partono per la Spagna (Barcellona e Madrid) prima di arrivare in Italia. Le principali città di elezione dei traffici di “smistamento” delle donne, sono: Torino, Milano, Genova, Verona, Padova, Brescia e Mestre per il nord; Livorno, Rimini, Perugia e l’hinterland romano per il centro; Napoli, Castel Volturno e l’agro domiziano per il sud. Queste donne arrivano in Italia in aereo, facendo scalo negli aeroporti di Milano e a Fiumicino, e vengono prese in consegna dai referenti delle consorterie che le affidano alle madame o ad altre donne di fiducia delle stesse madame che hanno compiti di controllo e riscossione dei proventi della prostituzione. Le madame rivestono una funzione essenziale all’interno del sodalizio criminale. Spesso, infatti, è la stessa madame, scaricatasi a sua volta del debito contratto, a inserirsi nell’attività di “acquisto”, pagando tra i 10.000 e 12.000 euro, per l’ingresso delle ragazze. In tal modo si garantisce la destinazione e l’amministrazione finale delle ragazze, usufruendo di un maggior guadagno. Queste stesse donne hanno il compito di sorvegliare le ragazze e di avviarle all’esercizio della prostituzione, e lo fanno ricorrendo a metodi di coercizione psicologica e morale come la sottrazione dei documenti d’identificazione, utilizzati dall’organizzazione per l’ingresso di altre donne, e la segregazione delle vittime in alloggi gestiti dai sodalizi, oltre che con il ricorso ai riti magico-esoterici, come i riti vudù, particolarmente efficaci per l’assoggettamento delle giovani sfruttate. *Sergio Nazzaro è l’autore di “Mafia Nigeriana. La prima indagine della squadra antitratta edizioni Città Nuova”) Facciamoci sentire contro Erdogan di Dacia Maraini Corriere della Sera, 15 ottobre 2019 Il 19 ottobre ci saranno manifestazioni in tutto il mondo per protestare contro la prepotenza gratuita e illegittima del dittatore Erdogan. Facciamoci sentire. Ogni tanto la storia presenta delle occasioni di indignazione emotiva a cui è difficile sottrarsi. È successo nel 1936 con la guerra di Spagna quando migliaia di giovani da tutta Europa sono partiti per combattere il colpo di Stato di Francisco Franco. È successo nel 1956 quando la coraggiosa Ungheria, uscita dagli orrori dello stalinismo, stava per darsi una organizzazione democratica ed è stata invasa dai carri armati russi. Certamente ci sono stati altri orrori, altre prepotenze, ma quando una ingiusta sopraffazione colpisce un piccolo popolo di combattenti armati solo della loro passione, le emozioni che suscita sono insopprimibili. È comunque un buon segno: vuol dire che il sentimento di indignazione politica riesce ancora a colpire il cuore di nuove generazioni considerate indifferenti e prive di memoria. Il popolo curdo ha combattuto a mani nude contro i terroristi dell’Isis, ha dato esempi straordinari di solidarietà e di pratica democratica. È il solo popolo in mezzo a tanti in cui le donne vengono considerate pari all’uomo, senza doversi trasformare in neri fantasmi vaganti. Oggi questo piccolo popolo valoroso viene sloggiato dalle sue terre, incalzato bombardato con crudeltà. Dicono che Erdogan sia in difficoltà al suo interno e stia cercando di trovare la rivincita attraverso un atto di guerra. Una tattica tipica dei dittatori: creare allarme suscitando il sentimento nazionalistico, e così riprendere il controllo della situazione interna. Cosa fare? Ascoltiamo i suggerimenti di chi conosce dal vivo la situazione come i giovani audaci di “Un ponte per”, la sola organizzazione umanitaria presente sul campo: bloccare la vendita delle armi alla Turchia, chiudere lo spazio aereo, stabilire sanzioni durissime contro i prodotti turchi. Ora veniamo a sapere che, per disperazione, essendo stati abbandonati dagli Usa, i curdi si stanno affidando a un poco affidabile Assad. “Non lasciamoli soli” gridano i tanti generosi ragazzi che sono partiti per aiutare una comunità minacciata di sterminio. “Sono gli unici che hanno sempre combattuto contro i tagliatori di gola dell’Isis”. E ancora: “Mandate medicine, acqua, cibi, indumenti a chi oggi è spogliato di tutto”. Comunque sappiamo che il 19 ottobre ci saranno manifestazioni in tutto il mondo per protestare contro la prepotenza gratuita e illegittima del dittatore Erdogan. Facciamoci sentire. Perché nessuno ferma il Sultano di Bernardo Valli La Repubblica, 15 ottobre 2019 Trump ha abbandonato i curdi, Putin non va oltre la diplomazia e l’Europa è inconsistente: ecco perché la Turchia ha mano libera. Per Erdogan, il presidente turco, i principali obiettivi dell’offensiva in Siria sono uno politico e l’altro militare. Quello politico riguarda la Turchia dove la sua popolarità era in netto ribasso, come si è visto alle ultime elezioni amministrative, quando l’opposizione ha ottenuto un notevole successo. Da lui subìto come un’umiliazione. Le azioni a sfondo nazionalista consentono di recuperare larga parte dell’opinione pubblica ed è quello che sta accadendo con la spedizione contro i curdi di Siria. Le minoranze sono spesso le vittime. In Turchia uno pensa agli armeni. Il carattere politico dell’operazione ha un’ampia dimensione internazionale. Il ritiro americano e quindi l’abbandono degli alleati curdi decisi da Donald Trump hanno lasciato a Erdogan la libertà di agire. La fedeltà agli impegni del presidente della superpotenza non si è dimostrata salda. Ancor meno autentica. Non ha tenuto conto che i curdi sono stati la sua fanteria nella lotta contro il “califfato”. Trump ha superato i suoi predecessori, Bush padre e Bush figlio, nel provocare danni in Medio Oriente. Si è detto di un silenzioso consenso russo alla spedizione turca in Siria, senza che ci siano state conferme in merito. Né penso ci saranno. Vladimir Putin è alleato del regime di Damasco, che negli ultimi giorni si è schierato con i curdi e ha mandato l’esercito sul confine turco. Ma il presidente russo si è limitato a favorire l’accordo tra curdi e Bashar el Assad. Ha svolto un’azione diplomatica e ha lasciato intendere che non andrà oltre. È quel che pensa lo stesso Erdogan. L’ ha affermato, senza entrare nei dettagli. È come se Putin avesse affidato al regime di Damasco il compito di aiutare i suoi amici curdi. Lui non si impegnerà direttamente. In quanto agli europei che hanno sbattuto la porta in faccia per anni alla Turchia ansiosa di entrare nell’Unione, in questa occasione dimostrano tutta la loro debolezza. La loro vergognosa inconsistenza è evidente di fronte alla grave crisi, che rischia di traboccare in un conflitto più ampio. Non lo esclude quel che sta accadendo tra Turchia da un lato e dall’altro il regime di Damasco e i curdi. Già il numero dei morti e l’importante movimento di truppe consentono di parlare della “guerra di Erdogan”. Il quale restituisce adesso lo schiaffo, quello subito con l’umiliante rifiuto all’ingresso nell’Unione. La sua offensiva mette in risalto l’incapacità degli europei a concordare un’azione comune e riduce a frantumati balbettii le dichiarazioni sull’embargo delle armi ai suoi danni. Visto che la Turchia è uno dei principali membri è lecito parlare di un forte scollamento tra alleati nella Nato. Conclusione: il ritiro americano precipitoso e l’impotenza europea non aumentano il prestigio dell’Occidente difensore della democrazia. Il secondo obiettivo, quello militare, non manca di incognite. Non era previsto un accordo tanto rapido tra i curdi di Siria e il regime di Damasco. Abbandonati da Trump i curdi si sono rivolti a Bashar el Assad, il quale in poche ore ha schierato l’esercito al confine, a ridosso e all’interno della zona amministrata dai curdi e aggredita dai turchi. Erano anni che i militari di Damasco non mettevano piede in quella regione autonoma. Nelle due zone di confine, quella turca e quella siriana, vivono forti comunità curde. Quella di Kobane si è difesa con coraggio dai jihadisti del “califfato” quando quest’ultimo disponeva di notevoli forze. Ho assistito a una di quelle battaglie, che si concluse con una strage e tra le macerie. L’offensiva turca ha indirettamente favorito in queste ore la fuga di molti prigionieri dai luoghi di detenzione organizzati allora, dopo quello scontro armato. Gli evasi si sono dati alla macchia con la probabile intenzione di rianimare la battaglia perduta. Erdogan gliene ha offerto l’occasione. L’intenzione dei turchi è di spezzare i rapporti tra i due versanti della frontiera, dove vivono comunità curde. Quella installata in Siria ha conquistato una forte autonomia e ha creato un apparato dirigente di qualità. Ma i turchi denunciano i suoi rapporti, la sua complicità, con il Partito dei lavoratori curdi (Pkk), operante in territorio turco che Ankara considera un movimento terrorista. Il progetto di Erdogan sarebbe di installare nelle zone abitate dai curdi la massa di siriani profughi che si trovano in Turchia. Servirebbe da muro di separazione tra le due comunità a ridosso del confine. Il popolo curdo merita l’attenzione dell’Occidente. Esso conta trenta-quaranta milioni di persone, distribuite tra Iran, Turchia, Siria e Iraq. Il Kurdistan iracheno, ricco di petrolio, ha conquistato una forte autonomia rispetto allo Stato iracheno, e ha creato istituzioni assai più liberali di quelle esistenti tra i vicini. È curioso che, almeno fino a qualche tempo fa, la Turchia avesse buoni rapporti con il Kurdistan iracheno. E al tempo stesso perseguitasse le minoranze curde di casa. Adesso anche quelle siriane. La spiegazione è forse che i curdi dell’Iraq hanno il petrolio. Siria. Torna Assad, i curdi perdono il loro sogno di libertà di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 15 ottobre 2019 Alla frontiera si ammassano i civili in fuga dopo l’accordo con Damasco. E mentre già sventola la bandiera siriana cresce il rimpianto per l’autonomia persa. Stanno qualche ora in fila, attendono pazienti. Salvo poi venire ricacciati indietro con i bambini, le valigie troppo grandi, le mogli troppo coperte che sudano copiosamente sotto il sole ancora caldo di metà ottobre, l’aria secca, le sporte di vestiti pesanti. “Partono adesso quelli di noi che in passato hanno combattuto contro il regime di Bashar Assad, oppure i giovani renitenti alla leva. Non vogliono essere costretti nelle unità di punizione dell’esercito nazionale siriano, mandate subito a combattere e morire in prima linea contro i turchi”, confida un quarantenne dall’aria distinta. Lascia capire di essere un alto esponente dell’intelligence di Rojava, ma si mette in coda paziente come tanti altri. Il centinaio di chilometri di viaggio dalla città di Qamishli al confine di Semalka sul Tigri rivela la profondità del dramma che sta traumatizzando i curdi siriani. In passato questa regione collinosa, verde, puntellata di pozzi petroliferi, è sempre stata considerata una delle più stabili per le decine di villaggi a popolazione quasi totalmente curda. E anche adesso a prima vista poco sembra cambiato. I posti di blocco paiono ancora saldamente in mano ai soldati curdi, le loro bandiere sventolano dovunque, come sempre. Ad ogni incrocio, sugli edifici più alti delle caserme, continua a troneggiare la gigantografia di “Apo”, Abdullah Ocalan, il leader storico e massimo ideologo del socialismo militare curdo. Non importa che da un ventennio sia chiuso in una prigione turca. Per Erdogan è il diavolo in persona, incarna l’alleanza militante e “terroristica” tra il Pkk, il Partito dei Lavoratori curdo in Turchia, e i combattenti di Rojava. Un fronte che per il presidente turco va eliminato a qualsiasi prezzo. Se però si scava un poco non è facile scoprire la nuova fragilità dell’intero sistema di autogoverno costruito negli ultimi otto anni. “Non sappiamo cosa troverete domani. Noi curdi vogliamo controllare da soli il confine con l’Iraq. Ma non è detto che da Damasco non cerchino di mandare i loro agenti dei servizi per monitorare i transiti”, ammette sotto voce una delle principali addette a timbrare i passaporti al valico di Semalka. L’altra notte le guardie mandavano via le auto delle famiglie che volevano accamparsi nelle vicinanze per essere prime la mattina dopo all’apertura degli uffici. “Qui ci sono installazioni militari. L’aviazione turca opera spesso di notte, potrebbe bombardare in ogni momento”, spiegavano. Deserta dopo il tramonto anche la vicina cittadina di Derek. È stata abbellita e ampliata negli ultimi anni con alberghi e ristoranti, soprattutto grazie ai copiosi finanziamenti americani, per offrire un centro di ritrovo e svago ai dirigenti di Rojava. Proprio per questo ora viene disertata, temuta. Ma il discorso che va per la maggiore nei caffè, tra la gente riguarda adesso la valenza reale della nuova alleanza con il regime di Damasco, sotto l’egida di Mosca, per fare fronte comune contro l’invasione turca. Ancora non si era asciugato due sere fa l’inchiostro delle firme, che già i soldati di Bashar Assad irrompevano verso le linee dei combattimenti passando per Hasakah, Ain Issa, Tel Tamar, sino al vecchio fronte di Manbij e quello nuovo tra Ras Al Ayn e Tel Abyad. I capi del Rojava continuano a ribadire che per ora si tratta solo di intese militari “preliminari”, dettate all’emergenza. “I contenuti politici dell’accordo vanno ancora messi a punto. Lo faremo in un secondo tempo”, dice tra i tanti Badran Jia Kurd. Un altro, Aldar Xelil, alla stampa internazionale minimizza spiegando che è un adattamento pragmatico “figlio delle difficoltà”. In realtà, sul campo si notano cambiamenti importanti. L’altra sera a Qamishli erano sparite le consuete pattuglie curde che si muovono nei quartieri controllati dai fedeli al regime di Bashar. Damasco ha sempre negato qualsiasi forma di autonomia curda e nulla lascia credere abbia cambiato politica. Tutt’altro. Per la prima volta dal ritiro dopo lo scoppio delle rivolte nel 2011, i suoi soldati tornano a marciare per le strade del Nordest siriano. Nulla lascia credere che smetteranno di farlo. Uno degli articoli in discussione nell’accordo contempla che le unità curde vengano assorbite in quelle dell’esercito regolare. Inoltre su tutti gli edifici pubblici dell’intera Rojava dovrà sventolare la bandiera nazionale. Una mossa non solo simbolica. Il regime espande la sovranità. Non sono pochi adesso i curdi che iniziano a mettere in dubbio il valore del tributo di sangue pagato dalle loro forze armate nella guerra contro Isis: oltre 11.000 morti e quasi il doppio di feriti. Un numero enorme, specie se si pensa che Rojava conta in tutto meno di 60.000 effettivi tra combattenti uomini e donne. “Valeva la pena perdere tanti soldati alla luce del tradimento americano?”, si chiedeva ieri un giovane giornalista della televisione locale. Lo smarrimento è palpabile. Il futuro un’incognita inquietante. Rispondeva disilluso un suo collega: “Possiamo dire che abbiamo vissuto otto anni inebrianti di libertà, almeno saranno un punto fermo nei libri della storia del popolo curdo. Ma li stiamo perdendo”. Guerra in Siria. Ue: sanzioni per difendere il petrolio, non per salvare i curdi di Gianluca Di Feo La Repubblica, 15 ottobre 2019 Condanna a parole dell’invasione di Erdogan, misure concrete contro le trivellazioni turche a Cipro. Che mettono a rischio il giacimento di Eni e Total. Tanto che Parigi manda la flotta. Per difendere i curdi l’Europa tergiversa, usando parole dure senza provvedimenti concreti. Ma quando entrano in campo interessi economici l’atteggiamento cambia. E sono pronte a muoversi le cannoniere. Ieri in maniera sorprendente l’Ue ha messo sullo stesso piano le centinaia di morti provocate dall’invasione della Siria settentrionale e i giacimenti di petrolio a largo di Cipro, oggetto di una lunga contesa tra Ankara e uno dei più piccoli stati dell’Unione. Una disputa che però mette a rischio i fatturati di Total ed Eni, le compagnie italiana e francese che hanno i diritti di sfruttamento. Contro la guerra c’è soltanto la “condanna” mentre a Bruxelles si è deciso di adottare “misure restrittive nei confronti delle persone fisiche e giuridiche responsabili o coinvolte in attività perforazione di idrocarburi nel Mediterraneo orientale”. Non solo. Parigi ha spedito due navi militari per pattugliare le acque di Cipro: la scorsa settimana due delle fregate più moderne della flotta francese sono arrivate a Larnaca, formalmente per partecipare ad esercitazioni con la minuscola marina locale. In realtà, devono dimostrare la volontà di non cedere un miglio alle pretese petrolifere di Recep Tayyip Erdogan. Il ministro della Difesa greco Nikos Panagiotopoulos ha dichiarato di avere chiesto il sostegno francese “per rispondere alle provocazioni turche”. E ha aggiunto: “Credo che anche l’Italia farà qualcosa di simile”. Non è la prima crisi in quel mare. I turchi hanno occupato parte di Cipro nel 1974, dando vita a un’autoproclamata repubblica autonoma del Nord: è il più antico conflitto irrisolto d’Europa, con l’isola divisa in due da un lungo muro. La scoperta dei giacimenti però è molto più recente ed ha riaperto quella ferita. Nel febbraio 2018 la flotta di Ankara ha sbarrato la strada alla nave inviata dall’Eni per le esplorazioni petrolifere. Il governo Gentiloni ha protestato, facendo intervenire nella zona la fregata Zaffiro della nostra Marina. Dopo un confronto abbastanza teso, Roma preferì desistere e l’Eni rinunciare ai sondaggi. Trascorsi diciotto mesi di calma, a inizio ottobre i turchi sono passati all’offensiva mandando l’unità speciale Yavuz a esplorare proprio l’area del “blocco 7”: uno dei giacimenti assegnati a Eni e Total. La missione turca ha provocato una dura reazione del governo cipriota, che lo scorso 4 ottobre l’ha definita “una pesante escalation nelle violazione della nostra sovranità”. E anche gli Stati Uniti - alcune concessioni sono della Exxonmobil - si sono allineati, tanto che il segretario di Stato Mike Pompeo ha parlato di perforazioni “illegali e inaccettabili”. Ma il ministro dell’Energia di Erdogan, Fatih Donmez, ha risposto che non intende rinunciare allo sfruttamento di quelle risorse: “Abbiamo già perforato due pozzi a est e a ovest di Cipro, Yavuz realizzerà il nostro terzo pozzo. Queste attività proseguiranno con determinazione”. L’arrivo della flotta francese e le sanzioni annunciate dall’Ue adesso rendono la situazione esplosiva. Con Ankara che ieri ha ribadito di non volere cedere. Un altro fronte tra Turchia ed Europa, molto più determinata ad agire per proteggere i giacimenti che non per salvare le popolazioni della Siria. La Turchia di Erdogan condannata come l’Italia per l’ergastolo ostativo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 ottobre 2019 La sentenza della Cedu sul caso Ocalan. “Le prigioni non dovrebbero essere come le porte dell’inferno, dove si avvererebbero le parole di Dante: lasciate ogni speranza, voi ch’entrate”. Così hanno scritto i giudici della Corte europea dei diritti umani (Cedu) nella sentenza del 18 marzo 2014 per il caso Ocalan (leader curdo del Pkk) contro la Turchia, condannando lo Stato di Erdogan per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione, dal momento che la legge turca “non prevede, dopo un certo periodo di detenzione, alcun meccanismo di riesame della pena all’ergastolo comminata per reati come quelli commessi da Ocalan, allo scopo di valutare se continuano a sussistere motivi legittimi per tenere la persona in carcere”. Parliamo della stessa identica sentenza riguardante il caso Viola che ha condannato definitivamente l’Italia, perché - come stabilisce l’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario prevede che la richiesta di ammissione alla liberazione condizionale sia subordinata alla collaborazione con la giustizia. Anche a Istanbul c’è quello aggravato - Per quanto riguarda la Turchia, l’articolo 107 della legge n. 5275 sull’esecuzione delle pene e delle misure di sicurezza prevede la possibilità della libertà condizionale, su riserva di buona condotta, per le persone condannate alla pena della reclusione (severa) a vita dopo un periodo minimo di detenzione di trent’anni, per i condannati alla pena della reclusione a vita (ordinaria) dopo un periodo minimo di detenzione di ventiquattro anni e per gli alti condannati dopo aver scontato un periodo pari ai due terzi della loro pena detentiva. Tuttavia, sempre secondo la medesima disposizione, i condannati alla pena della reclusione a vita aggravata per dei reati contro la sicurezza dello Stato, contro l’ordine costituzionale e contro la difesa nazionale (quindi come il caso di Ocalan) commessi in gruppi organizzati all’estero non possono essere ammessi al beneficio della libertà condizionale. In sostanza anche la Turchia, come il nostro Paese, ha due forme di ergastolo: uno “ordinario” e l’altro “aggravato” (in Italia viene definito “ostativo”). Il Pkk è ormai un partito illegale - Da ricordare che Ocalan aveva fondato nel 1978 il Partito dei lavoratori del Kurdistan, meglio conosciuto con il nome di Pkk, che per anni ha combattuto per il riconoscimento di una propria etnia. Il Pkk è ancora una realtà presente nel sud- est della Turchia benché sia considerato un partito illegale. Inizialmente era un gruppo che s’ispirava al marxismo- leninismo, rivendicando (insieme ad altri partiti tra cui il Pyax, il Pyd, e il Kpd) la fondazione di uno stato indipendente nella regione storico- linguistica del Kurdistan. Il Pkk, però, al fine delle sue rivendicazioni, utilizzava metodi violenti ricorrendo spesso al conflitto armato, ricorrendo anche all’uso di attentati dinamitardi e kamikaze contro obiettivi militari turchi, ritenuti oppressori del popolo curdo. Quando Ocalan arrivò a Roma - Come sappiamo giunse a Roma il 12 novembre 1998 accompagnato da Ramon Mantovani, all’epoca deputato di Rifondazione Comunista. Il leader del Pkk si consegnò alla polizia italiana, sperando di ottenere entro qualche giorno asilo politico. Questa sua richiesta provocò un dibattito sull’opportunità di accettare tale richiesta. Alla fine - ricordiamo che c’era il governo D’Alema venne espulso in Kenia, dove poi le forze di intelligence lo presero e riportato in Turchia. In seguito la pena di morte gli verrà commutata in ergastolo a vita. D’altro canto la Cedu ha voluto esprimere concetti che poi ribadirà anche nei confronti del nostro Paese. “Le difficoltà - hanno scritto i giudici di Strasburgo - che gli Stati si trovano a dover affrontare nella nostra epoca per proteggere le loro popolazioni dalla violenza terrorista sono reali. Tuttavia - hanno sottolineato -, l’articolo 3 non prevede alcuna limitazione, non consente alcuna deroga, neppure in caso di pericolo pubblico che minaccia la vita della nazione”. Un concetto che i giudici hanno dovuto cristallizzare nella sentenza, perché il governo turco ha difeso la legittimità dell’ergastolo a vita, spiegando che Ocalan si era reso responsabile di una campagna di violenza che la sua ex organizzazione ha condotto e che ha costato la vita a migliaia di persone, tra cui numerose vittime civili innocenti. Deciderà sempre un giudice - La Cedu ha ben spiegato che “nessun problema si pone rispetto all’articolo 3 se, ad esempio, un condannato all’ergastolo che, in base alla legge nazionale, può in teoria ottenere la liberazione, richiede di essere liberato ma si vede rifiutata la richiesta per il fatto che egli continua a rappresentare un pericolo per la società”. In sintesi, è esattamente lo stesso concetto espresso per quanto riguarda la sentenza di condanna nei confronti dell’Italia. Non si tratta di alcun automatismo, ma la concessione all’ergastolano di poter chiedere la liberazione condizionale dopo un numero congruo di anni di detenzione: sarà sempre un giudice a valutare se concedergliela o meno. La Cedu ha citato anche una sentenza della Corte costituzionale tedesca su un caso relativo alla reclusione a vita, la quale ha sottolineato che la pena perpetua “sarebbe incompatibile con la disposizione della Legge fondamentale che consacra la dignità umana che, coercitivamente, lo Stato privi una persona della propria libertà senza dargli almeno una possibilità di poterla un giorno recuperare”. Spagna. Pugno duro contro gli indipendentisti: scontri a Barcellona di Valerio Sofia Il Dubbio, 15 ottobre 2019 Dodici condanne: 13 anni di prigione all’ex vicepremier Oriol Junqueras, mandato di cattura per Puidjemont. La prima sentenza di condanna per il tentativo secessionista della Catalogna ha subito scatenato la contestazione di piazza. La Corte suprema spagnola ha condannato nove dei dodici catalani che hanno avuto un ruolo nella secessione della Catalogna nel 2017 con pene che vanno dai 9 ai 13 anni di carcere per sedizione e appropriazione indebita di fondi pubblici. Condanne dure, ma non quanto richiedeva l’accusa, e in questo senso vanno forse anche lette come un tentativo di mediazione, che però non è stato per nulla apprezzato dalla parte catalana. La procura infatti aveva chiesto fino a 25 anni di prigione per l’ex vicepresidente regionale della Generalitat Oriol Junqueras, poi presidente, che invece è stato condannato a 13 anni di prigione. Pene fino a 12 anni sono state inflitte a Carme Forcadell, Ios Jordis, e altri cinque ex ministri della giunta catalana. La Corte ha evitato di accogliere l’accusa di tradimento. La Corte ha poi assolto dall’accusa di malversazione altri tre imputati, che peraltro non sono in carcere, e che dunque non andranno in prigione. Intanto in perfetta coincidenza un giudice spagnolo ha emesso un nuovo mandato internazionale di arresto per l’ex presidente della Generalitat catalana Carles Puigdemont, che si trova attualmente in auto- esilio in Belgio. Anche per lui l’accusa è di sedizione e appropriazione indebita. Pacata la reazione del governo di Madrid. “Rispetto e senso di responsabilità” sono le parole chiave, pronunciate per primo dal ministro per lo Sviluppo, segretario dell’organizzazione del Psoe, José Luis balos. Il ministro ha aggiunto che la sentenza “rende chiaro che in Spagna lo Stato di diritto funziona”. “A seguito della decisione della Corte suprema, dobbiamo voltare pagina sulla base di una pacifica coesistenza in Catalogna attraverso il dialogo. Possiamo iniziare un nuovo capitolo per una Catalogna moderna, plurale e tollerante”, ha commentato il premier spagnolo Pedro Sanchez. Di tutt’altro tenore le reazioni catalane. Junqueras, il principale attivista catalano a favore dell’indipendenza, ha assicurato che, nonostante le dure sentenze inflitte, il movimento separatista tornerà “ancora più forte, oggi non è finito nulla, non ci avete né sconfitto né convinto”. “100 anni di carcere in totale. Una barbarie. Ora più che mai, al vostro fianco e al fianco delle vostre famiglie. Bisogna reagire, come mai prima d’ora. Per il futuro dei nostri figli. Per la democrazia, Per l’Europa. Per la Catalogna”, ha scritto su Twitter Carles Puigdemont. Le manifestazioni di protesta intanto hanno destato qualche preoccupazione. Tensione all’aeroporto di Barcellona, dove la polizia ha caricato i manifestanti, mentre gli indipendentisti hanno interrotto varie strade della regione. Una svolta inquietante nella Spagna postfranchista di Donatella Di Cesare Il Manifesto, 15 ottobre 2019 Comunque si voglia valutare la complessa questione catalana, è indubbio che si è trattato di un processo politico, dove sono state giudicate anzitutto le idee. E questo è inaccettabile in una democrazia. La parola chiave della sentenza emessa dalla Corte Suprema spagnola è “sedición”, sedizione, cioè la rivolta pubblica contro l’autorità. Ma le pene sono talmente pesanti che, malgrado ogni smentita, dietro sembra risuonare il reato di ribellione, vale a dire uso della violenza anticostituzionale. Il che è in linea con tutto il processo contro gli esponenti dell’indipendentismo catalano, un processo durato due anni, durante i quali gli imputati, costretti al carcere preventivo, non hanno potuto far valere i loro diritti. Particolarmente significative sono la condanna a 12 anni inflitta a Carme Forcadell, filologa e attivista politica, ex presidente del Parlament catalano e quella a 13 anni, la più alta di tutte, con cui è stato punito Oriol Junqueras, ex vicepresidente del governo catalano, leader del partito di Sinistra repubblicana (Esquerra Republicana). Alla sedizione si aggiunge il reato di malversazione, cioè l’utilizzo di fondi pubblici impiegati per il referendum del 2017. Occorre ricordare che ad essere colpiti sono anche i rappresentanti della società civile accusati di “disobbedienza”. Il bersaglio è tutto l’indipendentismo catalano. Ada Colau, sindaca di Barcellona, ha parlato giustamente di “sentenza crudele”. Le manifestazioni di protesta riempiono le strade della Catalogna, da Girona a Lleida, mentre sono previste anche azioni di sabotaggio. Come il carcere preventivo non ha aiutato ad affrontare il problema, così questo giudizio finirà per aggravare ed esasperare il conflitto trasferendolo alla Corte europea e ai tribunali internazionali. Il verdetto segna una svolta inquietante nella storia della Spagna postfranchista. Comunque si voglia valutare la complessa questione catalana, è indubbio infatti che si è trattato di un processo politico, dove sono state giudicate anzitutto le idee. E questo è inaccettabile in una democrazia. Pesa in tutta la vicenda il ruolo ambivalente giocato dal Partito socialista di Pédro Sanchez che alla fin fine non si è impegnato a trovare una via d’uscita, come dimostrano le richieste di condanna presentate dalla Procura e dall’Avvocatura di Stato, cariche nominate dal governo. Tutto ciò avrà importanti conseguenze sulle prossime elezioni spagnole del 10 novembre. Non si può escludere che ne approfitti non tanto il Partito popolare, quanto l’ultradestra di Vox, il partito erede di Francisco Franco, guidato ora da Santiago Abascal, che al motto di “Prima gli spagnoli!”, oltre ad abolire l’aborto e mettere fuori legge le organizzazioni femministe, vuole chiudere i porti ai “clandestini”, autorizzare solo lo spostamento di popoli di lingua e cultura ispanica e soprattutto eliminare le autonomie. Il che deve far riflettere sulla collocazione politica dell’indipendentismo catalano attaccato da un inquietante fronte reazionario come non si era mai visto negli ultimi decenni. Emerge oggi, attraverso questo verdetto, quanto gli Stati-nazione europei siano un ostacolo alla vita dei popoli, producendo conflitti interni, fomentando il sovranismo, richiedendo neppure troppo tacitamente la pulizia etnica alle frontiere. Emblematico è proprio lo Stato-nazione spagnolo con le sue differenze linguistiche e culturali, che dovrebbero arricchirlo, e la sua aspirazione a una fantomatica identità. Proprio questo è il tema che la sinistra anti-sovranista dovrebbe ripensare. L’Europa avrebbe dovuto diventare una nuova e flessibile forma politica sovranazionale, capace proprio per ciò di ospitare al suo interno le autonomie, garantendo i diritti attraverso una nuova cittadinanza, aperta anche ai migranti. È rimasta invece un coacervo di Stati-nazione in continua competizione, sempre più ripiegati su se stessi e gelosi della propria sovranità. Nell’Europa attuale, che ha chiuso un occhio, anzi due, sull’annessione della Crimea, la questione catalana, pur non essendo l’unica, ha un valore simbolico. Anzitutto per quella grande tradizione democratica che la Catalogna rappresenta. Ma anche perché il conflitto non ha tanto connotati proto-nazionali (anche se non mancano frange identitarie), quanto post-nazionali. Questo spiega perché mette in discussione il tema dello Stato, tocca l’Europa, investe la democrazia, richiede una risposta internazionalista.