“Fine pena mai”? I giudici sono più importanti delle formule di Antonio Pagliano* ilsussidiario.net, 14 ottobre 2019 La Cedu ha stabilito che l’ergastolo ostativo viola la Convenzione europea sui diritti umani. Il senso vero di una sentenza, fuori dagli allarmismi. La Corte europea dei diritti dell’uomo torna alla ribalta dell’opinione pubblica e della politica dai proclami allarmistici alimentati, con un po’ troppa disinvoltura, dalla consueta giostra della disinformazione. Occorre fare un po’ di chiarezza e ragionare così su quanto accaduto con pacata serenità. Nei giorni scorsi, la Grande camera della Cedu ha respinto il ricorso presentato dall’Italia contro la sentenza del 13 giugno 2019 con la quale i giudici di Strasburgo hanno stabilito che il così detto ergastolo ostativo viola l’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti umani. La decisione, innescata da un ricorso presentato da un affiliato alla ‘ndrangheta, tal Marcello Viola, ha prodotto un’enorme attenzione mediatica sul presupposto che la sentenza aprirà le porte del carcere di 957 persone che in Italia stanno scontando condanne all’ergastolo per reati di mafia e terrorismo. Cerchiamo allora di capirne di più, provando a fare un po’ di chiarezza per diradare timori ingiustificati. Inevitabile partire col chiarire cosa sia l’ergastolo ostativo. Esso altro non è che la condanna al carcere a vita caratterizzato però dall’impossibilità, a differenza del regime ordinario dell’ergastolo, di poter accedere a permessi e benefici previsti invece dalla legge per i detenuti comuni, pur se appunto ergastolani semplici. L’ergastolo ostativo preclude soprattutto l’accesso al beneficio della liberazione condizionale che il giudice può accordare dopo 26 anni considerando positivamente il percorso riabilitativo del detenuto. Nel nostro sistema, quindi, colui il quale viene condannato all’ergastolo, ovvero quella condanna che comporta il “fine pena mai”, sa che in realtà quel mai può sfumare, trasformandosi in un fine pena a termine. Mantenendo infatti una buona condotta detentiva e partecipando ai percorsi di reinserimento sociale, l’ergastolano ordinario può contare su una sorta di attenuazione di quel mai. Per una precisa scelta del legislatore, l’ergastolo ordinario può trasformarsi, evolversi, facendo lentamente dischiudere le porte del carcere. Questi benefici, tuttavia, non si applicano a coloro i quali sono condannati per reati non comuni, ovvero quelli legati alla criminalità organizzata o al terrorismo, a meno che l’ergastolano, oltre a comportarsi bene durante la detenzione, non decida di collaborare con la giustizia ovvero dimostri che, pur volendolo fare, non può più svelare altri fatti e scenari non noti all’autorità giudiziaria. Per dirla allora in breve, se io uccido un paio di vicini di casa e mi becco l’ergastolo, cosa di per sé già difficile (e non per la mia personalità bonaria ma per il sistema processuale in sé), posso serenamente coltivare il progetto di recuperare comunque la mia libertà. Se invece ho ucciso nella qualità di affiliato a un clan di criminalità organizzata, quella speranza sarà assai più flebile in quanto subordinata, esclusivamente, al fatto di dover collaborare a far arrestare i miei sodali e se essi sono già tutti detenuti, dovrò io dimostrare che la mia collaborazione con la giustizia non potrebbe portare alcun beneficio per queste ragioni. Così individuato quale sia l’oggetto della sentenza e del relativo dibattito mediatico, cerchiamo ora di capire cosa ha stabilito la Corte europea, provando per quanto possibile a non indugiare in eccessivi tecnicismi. Condannato a quattro ergastoli per omicidi plurimi, occultamento di cadavere, sequestro di persona e detenzione di armi, in base all’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, tal Viola, affiliato alla criminalità organizzata calabrese, non aveva ottenuto accesso nel corso della sua detenzione all’assegnazione ai benefici come il lavoro all’esterno e i permessi premio e alle misure alternative alla detenzione, visto che non ha offerto alcuna collaborazione, anche quella che risulta oggettivamente irrilevante alle indagini. Ritenendo che la normativa italiana fosse violativa della Convenzione europea dei diritti dell’uomo in quanto integrante un “trattamento inumano e degradante”, il condannato ergastolano si è rivolto ai giudici di Strasburgo e questi, non proprio a sorpresa, gli hanno dato ragione. Contro questa decisione, il nostro governo ha prontamente proposto ricorso alla Grande camera, la quale, a sua volta, pochi giorni fa ha confermato quella decisione respingendo il ricorso dell’Italia. La Grande camera della corte europea dei diritti umani, respingendo il ricorso presentato dall’Italia, ha così definitivamente confermato che l’ergastolo ostativo previsto dalle nostre leggi viola l’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti umani. Se questo è vero, il punto è comprendere quale sia il reale effetto di questa decisione soprattutto rispetto a quanto troppo superficialmente si è da troppe voci affermato. Procediamo con ordine. Non vi è dubbio che si tratti di una sentenza di rilievo anche perché nelle condizioni del ricorrente ci sono alcune centinaia di mafiosi, boss e gregari, condannati fra l’altro per le stragi, per terrorismo, senza evidentemente che essi abbiano mai inteso collaborare in alcun modo con la giustizia. Tuttavia, occorre fare attenzione, e qui veniamo al punto. Per comprendere bene gli effetti di questa decisione e capire bene cosa ha scritto la Corte europea, è necessario andare oltre i facili proclami e andare a leggere nel dettaglio la motivazione della sentenza. Ebbene, nel dettaglio, i giudici di Strasburgo hanno affermato che “lo Stato deve mettere a punto, preferibilmente su iniziativa legislativa, una riforma del regime della reclusione a vita che garantisca la possibilità di un riesame della pena”. Quanto appena riportato risulta essere cosa assai diversa dall’affermazione che si imputa alla decisione di Strasburgo ovvero di aver cancellato l’ergastolo ostativo. La Corte europea non ha quindi prescritto la cancellazione dal nostro sistema dell’ergastolo ostativo. Al contrario, la Corte chiede al nostro paese una “riforma” della normativa che introduca una possibilità da parte del giudice della sorveglianza di procedere a un “riesame” dell’ostatività dell’ergastolo, permettendogli di determinare se, durante l’esecuzione della pena stessa, il detenuto si sia evoluto e abbia fatto progressi tali da non giustificare più il suo mantenimento in detenzione, non necessariamente essendo costretto a collaborare con la giustizia. La Corte europea, inoltre, pur ammettendo che lo Stato possa pretendere la dimostrazione della dissociazione dall’ambiente mafioso, ha evidenziato che tale rottura può esprimersi anche in modo diverso dalla collaborazione con la giustizia e senza l’automatismo legislativo attualmente vigente. Pare quindi evidente che la campagna mediatica cui abbiamo assistito in questi giorni risulta fuorviante e non corrispondente alle statuizioni contenute nella sentenza di cui ci stiamo occupando. Riformare la legge sull’ergastolo ostativo, cioè, ripetiamo, quel regime che non prevede benefici né sconti di pena per i condannati al carcere a vita, nei sensi appena chiariti, non vuol dire affatto cancellare l’istituto in questione, ma solo dare al giudice un maggiore margine di valutazione ovvero ciò che l’ordine giudiziario sempre reclama di fronte alle occasioni in cui esso viene ristretto dal legislatore. Conseguentemente, non corrisponde affatto al vero che la decisione dei giudici di Strasburgo abbia riflessi diretti e immediati sulla situazione di 957 persone che in Italia stanno scontando condanne all’ergastolo ostativo per reati di mafia e terrorismo. Occorre piuttosto che il nostro legislatore, cioè la politica, quella dei facili proclami, intervenga presto a recepire il principio affermato dalla Corte europea, evitando quindi che i predetti ergastolani possano chiedere di accedere ai benefici previsti e avanzare poi ricorso nel caso i giudici di sorveglianza dovessero negarglieli. Niente affatto scontato inoltre, come pure detto da molti con un po’ troppa leggerezza, che i boss di Cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra, i terroristi neri e rossi, i pluriomicidi e gli stragisti potrebbero vedersi riconoscere un indennizzo da parte dello Stato. Diverse, e senza dubbio legittime, quelle osservazioni formulate da persone altamente qualificate come il procuratore Scarpinato, che per esempio ha sostenuto che la sentenza della Corte europea contiene la pericolosa affermazione che i condannati all’ergastolo ostativo non sono liberi di collaborare con la giustizia perché ciò comporta riconoscere implicitamente che lo Stato non sarebbe in grado di tutelare chi decida di collaborare con esso. Non è questa la sede per sviscerare il tema della dissociazione e quello della collaborazione con lo Stato, ma il punto focale resta il fatto che la Corte europea non ci ha imposto di abolire un istituto importante nella lotta alla criminalità, ci ha solo segnalato la necessità di superare l’attuale automatismo fra revoca della ostatività e collaborazione. Il pallino, dopo le scelte che farà il legislatore, resterà nelle mani del giudice, al quale esprimerei la piena fiducia nella sua capacità di valutazione caso per caso delle eventuali condizioni in presenza delle quali poter o meno revocare il regime ostativo dell’ergastolano. La severità del giudizio non viene in alcun modo messa in discussione dalla Corte europea. La guardia resta alta e il fronte della lotta alla criminalità non può essere messo in crisi da queste decisioni che invece devono essere lette nell’ottica di attribuire maggior responsabilità decisionale a chi ricopre quel ruolo di giudice e tutore della legge e che ha sempre giustamente criticato il ricorso della politica a meccanismi di presunzione in grado di restringere la piena autonomia di valutazione. Piuttosto, il 22 ottobre sullo stesso tema si esprimerà la Corte costituzionale. Dopo aver già dichiarato costituzionale l’ergastolo ostativo in passato, la Consulta dovrà ora decidere su un altro ricorso di un condannato per associazione mafiosa. Sarà interessante verificare che posizione prenderanno i nostri giudici delle leggi e se si creerà o meno un conflitto fra le Corti, ma questo è tutto un altro scenario di cui ci dovremo occupare in altre sedi. Ciò che tuttavia occorre qui ribadire è che la decisione della Corte europea non induce alcun automatismo nella valutazione sulla permanenza del regime ostativo che di per sé non viene minimamente messo in discussione. Si tratterà di verificare come il nostro legislatore, quindi il Parlamento, riterrà di operare. Resta in ogni caso fatta salva la discrezionalità dei giudici e nessun automatismo abolitivo si profila all’orizzonte. Ogni allarmismo sulla decisione della Corte europea appare, lo ripetiamo, del tutto ingiustificato. Come affermato dal portavoce di Amnesty International, i sentimenti dei familiari delle vittime di crimini orribili restano al primo posto tra le nostre preoccupazioni, condividendo le legittime esigenza di sicurezza espresse da più parti. Nondimeno, i diritti umani si devono applicare a tutti, tutti, non potendo che biasimare l’idea che a determinate persone non debba trovare applicazione il criterio della rieducazione della pena. L’auspicio è che le questioni delicate come queste conoscano adeguati approfondimenti da parte dei protagonisti della nostra vita pubblica e politica prima di formulare sentenze. Contro le quali non si può, ahi noi, ricorrere neanche alla Corte europea. *Professore in Diritto processuale penale, Università della Campania “Anche i lavoratori detenuti hanno diritto all’indennità di disoccupazione” di Stefano Galeotti Il Fatto Quotidiano, 14 ottobre 2019 Antigone e 4 Garanti contro l’Inps. Il presidente dell’associazione per i diritti dei detenuti Patrizio Gonnella ha promosso un ricorso per impugnare il rifiuto a veder riconosciuto il diritto alla Naspi. “Ricordiamoci sempre che la pena, nel nostro ordinamento, è privazione della libertà di movimento: tutto il resto è afflizione”. Le case di detenzione non potrebbero andare avanti senza di loro. Barbieri, cuochi, bibliotecari, addetti alla lavanderia e alle pulizie: nelle carceri italiane, stando ai dati del 2017, lavorano 18.404 detenuti, il 31,95% del totale. Sono dipendenti a tutti gli effetti dell’amministrazione penitenziaria, quindi dello Stato italiano, che nella Costituzione riconosce il fondamentale ruolo del lavoro per la rieducazione del condannato, ma che nei fatti produce discriminazioni: secondo l’Inps, ad esempio, chi ha dovuto interrompere il proprio periodo di lavoro quando era in carcere non ha diritto a ricevere l’indennità di disoccupazione. “Quello all’interno del carcere è qualificato come lavoro e va trattato come tale in tutti suoi aspetti, altrimenti stiamo creando un mondo differente”, dice Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione Antigone, che ha promosso un ricorso per impugnare il rifiuto a veder riconosciuto il diritto alla Naspi. “Ricordiamoci sempre che la pena, nel nostro ordinamento, è privazione della libertà di movimento: tutto il resto è afflizione. Se non ci abituiamo a riconoscere tutti i diritti a chi lavora in carcere, comprese le prerogative del welfare, stiamo solo facendo del paternalismo”. E proprio riguardo a un altro strumento di welfare, il reddito di cittadinanza, è scoppiata di recente la polemica legata all’ex brigatista Federica Saraceni, che percepisce l’assegno mensile mentre si trova ai domiciliari per scontare una condanna a 21 anni e 6 mesi per l’omicidio del giuslavorista Massimo D’Antona: “Il principio giuridico è lo stesso: il reddito di cittadinanza è una misura di sicurezza sociale, che potrebbe avere effetti positivi anche sulla riduzione della criminalità, e non deve avere eccezioni nella sua possibilità di fruizione. Alle vittime dobbiamo garantire tutto il riconoscimento necessario nel processo e attraverso i risarcimenti, ma non possiamo dare loro anche il peso morale di decidere dei diritti di tutti gli altri. È una questione di carattere universale ed è lo Stato che deve assumersi questa responsabilità”. La prassi del mancato riconoscimento della Naspi a detenuti ed ex detenuti che abbiano lavorato per l’amministrazione penitenziaria è stata instaurata dall’Inps con il messaggio n.909 del 5 marzo 2019. “Il lavoro penitenziario è peculiare: già a partire dal nome della retribuzione, chiamata ancora mercede, c’è una differenziazione”, spiega Gennaro Santoro, avvocato dell’Associazione Antigone. “Il lavoro è pagato di meno e la capacità produttiva può essere diversa, ma la giurisprudenza della Corte Costituzionale e della Cassazione ha ormai sancito da anni diritti come quello al riposo settimanale e annuale, ai benefici previdenziali e in generale a un trattamento che deve essere mutuato su quello della società libera. Anche la Naspi quindi, nel momento in cui c’è uno stato di disoccupazione involontaria, deve essere riconosciuta al detenuto”. Da qui la decisione dell’Associazione Antigone, che ha inviato all’Inps una lettera di protesta e insieme ai garanti regionali di Lazio, Umbria, Emilia Romagna e Toscana si è mossa per contestare una prassi ritenuta illegittima, elaborando un modello di ricorso gerarchico, a disposizione di tutti, per impugnare il rifiuto a veder riconosciuto il diritto alla Naspi. Il rapporto tra lavoro e detenzione, oltre che nella Costituzione, che all’articolo 27 prevede come finalità della pena la rieducazione, è trattato dalla legge 354 del 1975 sull’ordinamento penitenziario. Lì si specifica che quello del lavoro in carcere è un diritto-dovere che deve essere privo di carattere afflittivo e svolgersi con modalità il più possibile analoghe a quelle utilizzate all’esterno del carcere. “iL punto fondamentale è considerare come primo elemento di qualificazione la condizione di lavoratore e di persona bisognosa di reddito, e non di detenuto”, ribadisce Gonnella. “Trattare i detenuti al pari delle persone libere dal punto di vista dei diritti fondamentali è un principio di carattere universale che può anche avere un effetto positivo sul loro percorso rieducativo: in questo modo infatti li sottraiamo a quella sindrome di vittimizzazione con cui possono giustificare i loro comportamenti illegali, per il fatto di essere trattati in maniera diversa. Non gli diamo albi, ma offriamo a tutti gli stessi diritti”. E tra questi diritti c’è anche quello di avere a disposizione un reddito, o un sussidio quando questo viene a mancare: “Escludere quote di persone da misure anche minime di reddito significa dire che il loro destino è essere povere. E chi non ha alle spalle una famiglia in grado di aiutare, tornerà con ogni probabilità a commettere reati una volta uscito dal carcere. Le leggi non si valutano ascoltando il parere di chi si sente offeso perché vittima, è lo Stato che deve assumersi la responsabilità della rieducazione”. Stato agitazione funzionari pedagogici. Lettera aperta al presidente della Repubblica di Evelina Cataldo* articolo21.org, 14 ottobre 2019 Egr. Presidente, la mancanza di parità di riconoscimento professionale, in termini economici e giuridici, rispetto alla polizia penitenziaria, è elemento di disconoscimento che mette a rischio l’esercizio di una corretta funzione rieducativa della pena. Il trattamento penitenziario non rappresenta il solo compito dei funzionari giuridico pedagogici ma è uno degli strumenti che il segretario tecnico dell’équipe è chiamato a utilizzare per articolare un progetto di esecuzione penale quanto più conforme alle indicazioni e gli orientamenti costituzionali e normativi. La nostra figura professionale ha rappresentato il passaggio in senso legalitario dell’ordinamento penitenziario, una legge disapplicata e ancora priva di obiettivi definiti a causa di interpretazioni e applicazioni disomogenee, disorganizzazione interna degli istituti, assenza di protocolli operativi e di poca disponibilità delle altre aree a sostenere la funzione principale della pena, oltre alla mancanza di differenziazione sia in termini di risorse umane che economiche tra case circondariali e case di reclusione. Per comprendere la difficoltà concretamente vissuta da tali funzionari dello Stato, è importante richiamare l’autonomia professionale di cui essi sarebbero beneficiari, non essendovi gerarchizzazione rispetto alle altre aree gestionali ma un’esclusiva dipendenza funzionale al dirigente d’istituto. Tuttavia, essi vengono utilizzati, sempre più, come operatori dell’emergenza, coartati a interventi d’urgenza, ancorché strumentali, che non rispondono ai loro compiti istituzionali rendendo le condizioni di lavoro disumane e degradanti, apportando stress e, nei casi peggiori, malattia legata alla professione. I compiti di questi funzionari dello Stato non assoggettati a regime di turnazione ma ad orario lavorativo definito dal comparto del pubblico impiego, sono innumerevoli. Delegati al colloquio nuovi giunti: partecipiamo come componenti attivi e decidenti al consiglio di disciplina, un momento importante, strutturato ex lege, caratterizzato da fasi tassative in cui si deciderà se procedere con una sanzione rispetto al comportamento scorretto assunto dal ristretto; osserviamo i ristretti in ogni ambito dell’esecuzione penale durante le attività istruttive, durante quelle culturali - ricreative, durante l’esecuzione del lavoro penitenziario; elaboriamo il documento di sintesi raggruppando organicamente i contributi sia del Got allargato che di quello istituzionale, coordinandoci con la sanità penitenziaria nel caso di soggetti psichiatrici o seguiti dal servizio dipendenze, valutiamo il ravvedimento critico del reo, elaboriamo relazioni comportamentali per la magistratura di sorveglianza, seguiamo i percorsi di trattamento definiti all’interno del progetto pedagogico assicurando la partecipazione e l’osservazione delle persone recluse; scriviamo relazioni semestrali sui soggetti detenuti in alta sicurezza, esprimiamo pareri in équipe per la declassificazione dal regime di alta sicurezza; operiamo osservazione penitenziaria con esperti psicologi nel caso di detenuti sex offenders; formuliamo i programmi previsti ex art. 21 O.P. e di semilibertà, su delega del direttore d’istituto e tanto ancora. Anche la gestione delle biblioteche d’istituto è una specificità della professionalità educativa, ma la funzione culturale viene ampiamente sacrificata in nome di quella burocratica. Siamo coartati, invece, a fare o giustificare interventi che non ci competono perché è difficile accettare che noi non siamo delegati alla gestione del disagio dei detenuti, espresso nelle sue diverse forme, ma osserviamo i loro comportamenti valutando in équipe se quel disagio può tradursi in un programma di trattamento. Risultano necessarie, inoltre, azioni positive volte a debellare lo stereotipo delle donne lavoratrici in ambito educativo come assistenti alla persona deputate all’ascolto di mere doglianze; tali distorsioni rappresentano quel terreno su cui maturano idee paternalistiche, sessiste e contenuti di infantilismo penitenziario che compromettono un reale cambiamento culturale. Il quadro delineato mostra un’evidente difficoltà che induce a intraprendere uno stato di agitazione permanente di categoria sia per sollecitare l’inquadramento nei ruoli tecnici dell’amministrazione penitenziaria che per favorire condizioni lavorative che riconoscano la risocializzazione come compito precipuo, attivato principalmente da componenti istituzionali, laddove il volontariato, parte attiva e partecipe, non può supplire allo sguardo tecnico e competente dei lavoratori assunti dall’Amministrazione tramite concorso pubblico. Siamo certi che Lei, generoso ed egregio Presidente, vorrà sollecitare azioni di riconoscimento della nostra categoria, sottaciuta ma necessaria, intervenendo su un’Amministrazione che poco riconosce e poco tutela lo sforzo da noi compiuto in questi decenni per mantenere un profilo di legalità costituzionale alla pena detentiva. *Funzionario giuridico pedagogico La solidarietà in lettere. Premio Castelli a Gallico (detenuto nel carcere di Tolmezzo) di Marzia Paolucci Italia Oggi, 14 ottobre 2019 Concorso letterario per detenuti della Società San Vincenzo De Paoli. E’ andato a Carmelo Gallico del carcere di Tolmezzo in provincia di Udine, con il suo testo “Per chi muore, per chi rimane”, il Premio Carlo Castelli per la solidarietà, concorso letterario destinato ai detenuti delle carceri italiane promosso dalla Società di San Vincenzo De Paoli. A lui vanno i mille euro messi in palio da questa dodicesima edizione del premio e il merito di finanziare un progetto di solidarietà, nello specifico la costruzione di un’aula scolastica a Lurhala, in Congo. Secondo e terzo classificato, nell’ordine, Alessandro Cozzi e Alessandro Crisafulli di Milano-Opera con “Riscoprire i rapporti di buon vicinato” e “Un padre”: a loro premi per rispettivi 800 e 600 euro con annessi mille euro per un progetto formativo e di reinserimento sociale di un giovane dell’Istituto penale minorile di Bari e 800 euro per l’adozione a distanza di un bambino della Bolivia per 5 anni. La premiazione è avvenuta l’11 ottobre presso la Casa circondariale della città di Matera, patrimonio Unesco, eletta quest’anno capitale europea della cultura. Patrocinato da senato della Repubblica, camera dei deputati, ministero della giustizia, Università europea di Roma, Fondazione Matera Basilicata 2019 e un media partner d’eccezione, il quotidiano della Santa Sede L’Osservatore Romano, il premio quest’anno ha affrontato il tema “Riconoscere l’Umanità in sé e negli altri per una nuova convivenza”. I premi aggiuntivi di solidarietà introdotti vogliono favorire quel modello di giustizia restitutiva ormai riconosciuto anche in Italia che pone in primo piano l’autore del fatto criminoso e i danni provocati alla vittima del reato proponendo il confronto tra vittime di reati e detenuti condannati con sentenza passata in giudicato, responsabilizzazione del reo e condotte riparatorie. E tra gli autori meritevoli segnalati dalla giuria del premio, c’è anche chi si firma con lo pseudonimo Il Cavagliere: detenuti provenienti dalle più varie destinazioni dal Marassi di Genova a Tempio Pausania, in provincia di Olbia e Roma Rebibbia. Per Antonio Gianfico, presidente della Federazione nazionale Società di San Vincenzo De Paoli, “scrivere libera la mente, aiuta a riflettere sui propri errori ed è un’occasione per aiutare ‘chi sta fuori’ a non ripeterli. Ogni anno riceviamo centinaia di testi dai reclusi di tutte le carceri italiane. Il mondo carcerario è un condominio fatto di spazi angusti, di regole rigide, di relazioni forzate, di privazioni e di sofferenza. C’è quindi la necessità e la convenienza di condividere al meglio quel poco che si ha materialmente a disposizione ma, soprattutto, di attingere a quelle risorse interiori che possono veramente segnare una svolta nella propria vita. Dagli scritti pervenuti, emerge un’umanità soffocata dalla sofferenza, un’umanità che si confronta con quella del vicino, cercando di abbattere il muro del pregiudizio, di comprendere e valorizzare le differenze. Una convivenza di prossimità”. Claudio Messina, un’esperienza di lungo corso da volontario penitenziario, oggi delegato carceri della Società di San Vincenzo De Paoli e organizzatore del Premio Carlo Castelli, ricorda ancora la prima edizione dodici anni fa: “Era a Napoli nel 2008 e d è stata un po’ il banco di prova del premio quell’anno dedicato al tema dell’istruzione. “Fatemi studiare, conviene a tutti”, era lo slogan che confermava l’importanza dello studio e della formazione per sfuggire la devianza. Negli anni, poi, ne abbiamo affrontati tanti altri: la famiglia, l’uscita dal carcere e la riconciliazione con il proprio passato. Il tempo del carcere è spesso lungo, un tempo vuoto a cui si cerca di dare un valore. Oggi i detenuti possono studiare, lavorare ma c’è sempre bisogno di un incoraggiamento perché spesso sono persone senza risorse, sprovvedute, imputate di reati bagatellari finite in carcere senza sapere nemmeno come”. La cerimonia di premiazione è stata seguita dal convegno “In carcere con umanità. Nell’incontro la scoperta dei valori comuni”. Tra i relatori presenti: Luigi Accattoli, Guido Traversa, Rita Barbera, Don Raffaele Sarno, Gabriella Feraboli, Carmelo Cantone. La giustizia fallibile che persegue i “sistemi” di Andrea Valesini L’Eco di Bergamo, 14 ottobre 2019 “Sistema” è parola che, usata in ambito giudiziario, rimanda a una serie di relazioni ampie e durature con finalità criminale. È suggestiva, ma spesso applicata a priori e non alla fine di un percorso investigativo con riscontro di fatti che certifichino la giustezza del ricorso a quel termine. Si parlò di “sistema Sesto” tangentizio a proposito dell’inchiesta che coinvolse tra gli altri l’ex sindaco di Sesto ed ex presidente della Provincia di Milano Filippo Penati, morto mercoledì scorso. A conclusione delle indagini il teorema del “sistema Sesto” fraudolento si sciolse come neve al sole: assolti i nove imputati. Ma intanto Penati rimase inguaiato nell’inchiesta per anni e si ammalò di tumore, anche per le sofferenze profonde patite in quel periodo infernale. Fu pure scaricato dal suo partito, il Pd, per il quale si era speso tanto. In Italia non è in voga la preoccupazione per le persone coinvolte ingiustamente in inchieste giudiziarie, tra patimenti e esistenza rovinata, che può restare tale anche dopo l’assoluzione. Qualcuno si è tolto la vita mentre era in carcerazione preventiva (quindi ancora innocente) non reggendo l’urto della cella, altri si ammalano di depressione e non ne escono più. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede nel precedente governo riuscì ad ottenere la cancellazione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio: eppure i processi prescritti sono solo il 9% del totale, ma lascia indifferenti invece che il 50% siano indebiti. Quest’estate si è parlato di sistema anche a proposito del caso Bibbiano, l’inchiesta della procura di Reggio Emilia denominata “Angeli e demoni”. Nove bambini tra i 5 e 14 anni sarebbero stati sottratti ai genitori naturali sulla scorta di testimonianze e relazioni falsificate, per essere poi affidati ad altre famiglie che percepivano una somma mensile (prevista per legge). In base all’accusa, i minori erano costretti a ricordare fatti mai avvenuti. Gli indagati sono 29, tra assistenti sociali, il sindaco di Bibbiano Andrea Carletti (Pd), gli ex sindaci di Montecchio Emilia e Cavriago, i terapeuti della Onlus Hansel e Gretel di Moncalieri (Torino) ai quali erano stati affidati il servizio di psicoterapia e corsi di formazione. Le accuse vanno dalla frode processuale all’abuso d’ufficio, fino alle lesioni sui bambini. Il Tribunale dei minori di Bologna ha proceduto in questi mesi a una verifica, dalla quale è emerso che rispetto ai procedimenti contestati dalla procura di Reggio, 7 bambini su 9 erano già stati restituiti alle loro famiglie prima che scattassero le misure cautelari. Prima, non dopo. Al contrario di quello che molti media hanno raccontato, volendo presentare il rientro in famiglia come riparazione a un errore. I giudici nella maggior parte dei casi prendevano decisioni contrarie alle richieste dei servizi sociali. Decidendo, nei 7 casi, per un rientro a casa. Restano tuttora fuori famiglia due bambini dei 9 citati, sulla cui situazione un nuovo consulente sta svolgendo ulteriori accertamenti. Di fronte alla gravità della vicenda sollevata dall’inchiesta, è stata svolta una verifica su tutti i fascicoli dei minori per cui negli ultimi due anni gli incriminati servizi sociali della Val d’Enza avevano fatto una segnalazione e ipotizzato l’allontanamento dalla famiglia. Su 100 segnalazioni, in 85 casi il Tribunale aveva deciso di lasciare il minore nel proprio nucleo. Solo in 15 casi i giudici hanno scelto per l’allontanamento del bambino dal nucleo familiare. Di questi 15, in 8 casi i genitori non hanno fatto ricorso, quindi nei fatti riconoscendo la necessità di quella decisione. Contro le sentenze di allontanamento sono stati presentati invece 7 ricorsi, tutti respinti dalla sezione minori della Corte d’Appello. La conclusione sgonfia l’esistenza del sistema, di cui non facevano parte senz’altro i giudici minorili, che nel percorso dell’affido hanno un ruolo decisivo. Ciò non cambia la gravità di eventuali abusi, fosse anche uno solo. Ora la Procura di Reggio dovrà esprimersi sui casi in sospeso. Ma non siamo di fronte a “decine di migliaia di bambini portati via alle loro famiglie per fare quattrini”, come è stato ripetutamente detto nei mesi scorsi da politici di primissimo piano, o “tolti ai genitori e addirittura sottoposti a elettroshock” come disse Luigi Di Maio riprendendo una notizia falsa. L’effetto di questa caccia alle streghe, come ha riportato “Avvenire”, è però pesante: adesso è diventato quasi impossibile trovare una famiglia affidataria e anche interventi ordinari degli assistenti sociali. Alla Camera è in discussione una riforma dell’affido, con aspetti controversi. La diffusa conflittualità familiare, fino ai casi di divorzi burrascosi, porta i minori ad essere usati come oggetto delle controversie, alle quali vanno sottratti. Solo nell’8% dei casi segnalati c’è abuso sessuale e nell’80% il maltrattamento è trascuratezza. Va quindi cambiata anche la cultura suggestiva ed emotiva che allontana dall’accertamento dei fatti. Ma è in generale che il nostro sentire comune sulla giustizia va rettificato (tanto più se ci sono di mezzo minori) improntandolo alla prudenza, che non è la cifra dei pavidi, ma una virtù. Riforma, i renziani a Orlando: “Difendi la tua prescrizione” di Errico Novi Il Dubbio, 14 ottobre 2019 Italia Viva andrà in pressing sul vicesegretario del Pd, autore del ddl che aveva già allungato i termini di estinzione dei reati. Tra i dem circola un bisbiglio: “Vedrete che i renziani faranno saltare il tavolo sulla giustizia”. Ma a sentire i parlamentari di Italia viva lo schema andrebbe rovesciato: non faranno da guastatori. Casomai chiameranno il Pd alle proprie responsabilità. Ecco, sulla prescrizione la chiave di un Renzi fustigatore dei compromessi rischia di essere semplicistica. Nei prossimi giorni dai suoi gruppi potrebbe piuttosto partire un appello, rivolto innanzitutto al vicesegretario Pd Andrea Orlando: difendi la “tua” prescrizione, gli chiederanno gli ex compagni di partito. Gli ricorderanno che proprio la sua riforma penale, entrata in vigore nel 2017, già contiene un enorme allungamento dei tempi di estinzione dei reati: “Un anno e mezzo dopo la condanna, non l’assoluzione, in primo grado, e un altro anno e mezzo dopo l’eventuale condanna in appello: sarebbe assurdo”, osserva un senatore di Italia viva che preferisce restare anonimo, “se Orlando non ricordasse ai 5 Stelle che neppure c’è stato il tempo di testare gli effetti della sua legge”. Il pressing dell’ala più garantista della maggioranza partirà da qui: dal pro memoria per l’ex guardasigilli. Che però nelle ultime ore, come anticipato dal Fatto, ha lasciato intendere di voler tenere un profilo defilato sulla giustizia. Ragioni di opportunità, anche nel senso di non voler offrire ai renziani un bersaglio personalizzato. Intanto i capigruppo di Italia viva dovrebbero vedere il guardasigilli Bonafede a breve. Convocheranno quindi una riunione unitaria dei loro gruppi parlamentari per decidere se assumere, sulla prescrizione, “una linea tosta”, come la definisce il senatore renziano, “già condivisa nei fatti dalla stragrande maggioranza di noi”. Le proposte correttive sono varie. La più gettonata, peraltro, coincide con l’idea sottoposta dalla delegazione dem due giorni fa al guardasigilli: visto che la riforma penale punta a stabilire un tempo massimo accettabile per i processi (oltre il quale si profilerebbero conseguenze disciplinari per i giudici) sarebbe giusto prevedere anche che, sfondata quella soglia (4 o 5 anni) ricominci pure a decorrere la prescrizione. Si vedrà. Intanto giovedì anche l’Organismo congressuale forense, in un incontro con Bonafede, ha sollecitato il dietrofront sulla norma che abolisce i termini di estinzione dei reati. Certo a dar man forte al M5S è, dalla sponda Leu, Pietro Grasso. Che ha ricordato come pure i dem, anni fa, fossero innamorati della prescrizione bloccata dopo il primo grado. E che comunque ha forse trovato l’uovo di Colombo per l’elezione dei togati al Csm: niente sorteggio ma una sorta di voto all’americana, con 150 delegati che verrebbero eletti in altrettanti mini collegi, in modo da favorire chi è davvero noto ai colleghi per dedizione e capacità, anziché le correnti. I delegati poi eleggerebbero i consiglieri: è la quadra attesa da tempo. Carcere agli evasori, Di Maio s’impunta: slitta il decreto fiscale di Luca De Carolis Il Fatto Quotidiano, 14 ottobre 2019 Avverte da Napoli perché in testa ha già la partita di Roma. Quella da dove vuole uscire con le bandiere del Movimento, prima tra tutte il carcere per gli evasori, per marcare il territorio e segnare una distanza dal Pd, il partito con cui “non facciamo alleanze nelle Regioni, al limite patti civici”. Ecco perché Luigi Di Maio chiude Italia 5 Stelle, la festa nazionale del Movimento, accennando a nuove urne: “Noi siamo al governo per fare le cose, ma se mancano i voti in Parlamento si può tornare a elezioni anche con questa legge elettorale: va rifatta, ma questo non ci obbliga a restare nell’esecutivo”. È il suo modo, ormai classico, di alzare la voce quando tratta con i dem. Minacciò il ritorno alle urne già durante la trattativa per formare il governo, così da ottenere di più al tavolo sul programma (e sui ministeri da dividere). In un pomeriggio quasi estivo, davanti a un platea non foltissima, Di Maio rigioca la stessa carta: innanzitutto per ottenere il sì alle norme contro i grandi evasori, quelle che vuole subito, nel decreto fiscale collegato alla manovra. È il primo, grande nodo. Perché il Pd punta a prendere tempo sul provvedimento costruito dal ministro della Giustizia, il grillino Alfonso Bonafede, che prevede pene più alte per gli evasori (fino a otto anni, rispetto all’attuale tetto massimo di sei) e soglie di punibilità molto più basse, assieme a un allargamento della confisca (anche quando il reato è prescritto). Il primo effetto è che il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, che vorrebbe approvare il decreto fiscale già nel Consiglio dei ministri di stasera (forse domani) e senza le norme sull’evasione, dovrà rinunciarci: alla fine a Chigi verrà approvato solo il cosiddetto “Dpb”, il documento programmatico di bilancio da inviare a Bruxelles. Sul decreto c’è ancora parecchio da discutere e il primo scoglio è la normativa contro gli evasori. “Le norme penali non possono essere inserite in un decreto”, hanno opposto i dem nella lunga riunione al Tesoro di venerdì, intenzionati a rimandare tutto a un provvedimento apposito, da approvare nel 2020 visto che la manovra inghiottirà ogni spazio fino a Natale. E chissà in che forma, visto che sulle soglie e in parte sulla confisca la distanza è notevole. Il M5S, invece, insiste per il decreto. Dal governo, raccontano, hanno anche chiesto un parere informale ai tecnici del Quirinale sulla fattibilità giuridica, ma il problema è innanzitutto politico: il Movimento che non può cedere. Così viene ribadito nella riunione mattutina sulla manovra tra Di Maio e i ministri grillini, riuniti in un albergo a Napoli. E per questo il capo ne fa il perno del suo comizio di chiusura. “Se uno ha emesso fatture false per oltre 100 mila euro, io lo mando direttamente in galera”, scandisce dal microfono Di Maio tra gli applausi. Certo, prevede, “proveranno a terrorizzarvi dicendo che vogliamo le manette”, ma “non ce l’abbiamo certo coi commercianti, ma con quell’1 per cento che toglie a tutti quelli che le tasse le pagano. Ora se evadono pagano una multa, ma comunque vanno sempre in attivo”. E allora “confisca e carcere”, subito. Nella riunione coi ministri Di Maio concorda anche una strategia sulla manovra: “Ci servono temi da rivendicare “. E la priorità, dicono nel Movimento, è difendere Quota 100: “Marattin di Italia Viva ha proposto di abolirla e Gualtieri non si è mostrato contrario”. Altro punto, il no alla tassazione delle schede “sim”, su cui la viceministra all’Economia Castelli ha già discusso con dem e renziani. Ma di questo Di Maio non parla alla piccola folla. Piuttosto torna a frenare sull’accordo col Pd: “Quelli coi dem sono patti civici e si possono fare solo come è già stato fatto in Umbria, con un candidato terzo, civico”. Ergo, no ai governatori uscenti, primo tra tutti l’emiliano Stefano Bonaccini. Ma c’è anche il M5S da risistemare nel discorso di Di Maio: “Non possiamo più permetterci di non avere un’organizzazione - scandisce - dopo dieci anni un capo politico e un garante (Grillo, ndr) non bastano”. E allora via alla struttura, con “un team” nazionale di 12 persone diviso per temi e decine di referenti regionali. Gli aspiranti ai ruoli potranno candidarsi sulla piattaforma web Rousseau, “presentando un progetto” fino all’11 novembre. Poi a dicembre voteranno gli iscritti. Ma della partita non potranno essere figure di governo o presidenti di commissione. Così ha stabilito il capo politico, che detta anche l’agenda per il 2020: “Dovremo fare la legge sull’acqua pubblica e quella sul conflitto di interessi, e via le mani delle Regioni dalle nomine nella sanità”. Un altro messaggio al Pd di un Di Maio che si mostra ottimista: “Resteremo al governo altri 10 anni”. Una citazione anche per Alessandro Di Battista, assente per un grave problema familiare (“gli siamo vicini”) e saluta. Su palco scendono i coriandoli, ma il ministro pensa già al vertice notturno sui conti a Palazzo Chigi. Perché la festa è già finita. Reati in calo ma è allarme su estorsioni, cyber e droga di Marta Casadei e Michela Finizio Il Sole 24 Ore, 14 ottobre 2019 Ogni giorno in Italia vengono denunciati circa 6.500 reati. Una media, riferita al 2018, che si conferma in calo rispetto all’anno precedente (-2,4%), in linea con la flessione che prosegue dal 2013, quindi cinque anni fa. Continua, invece, da ormai dieci anni l’esplosione delle truffe e frodi informatiche: ne vengono rilevate, in media, 518 al giorno. Sono questi alcuni dei principali trend che emergono dall’Indice della criminalità elaborato dal Sole 24 Ore in base ai dati forniti dal dipartimento di Pubblica Sicurezza del ministero dell’Interno e relativi al numero di delitti commessi e denunciati l’anno scorso. A confermare l’allarme sui cyber attacchi è l’ultima edizione del rapporto Clusit dell’Associazione per la sicurezza informatica in Italia, presentato lo scorso 3 ottobre, che segnala un incremento degli episodi pari all’8,3% anche nel primo semestre 2019. Il problema è soprattutto la tipologia di frode compiuta allo scopo di estorcere denaro alle vittime o di sottrarre informazioni per ricavarne denaro, che rimane la principale causa (per l’85%) di attacchi gravi. “Dal 2016 assistiamo - afferma uno degli autori del rapporto, Andrea Zapparoli Manzoni - alla diffusione di attività cyber-criminali spicciole, come le quotidiane campagne mirate a compiere truffe ed estorsioni realizzate tramite phishing e ransomware, che hanno colpito molte organizzazioni e cittadini italiani”. Sono in crescita - e quindi in controtendenza con la flessione generale - anche gli illeciti connessi allo spaccio di stupefacenti (+2,8%), che emergono con 76 denunce ogni ventiquattrore, e le estorsioni (+17%) che tornano ad aumentare, invertendo la rotta degli ultimi anni, con 27 episodi al giorno. Un dato che si espone a una doppia lettura: più denunce, infatti, significa più vittime che hanno fatto appello alla giustizia, abbattendo il muro dell’omertà che spesso circonda questi crimini. Per quanto riguarda le altre tipologie di delitto, rispetto al 2017 si evidenzia la flessione di omicidi (-10%), furti (-6%), rapine (-7%) e associazioni per delinquere (-15%). Risultano in calo netto anche le denunce per usura (-38%) e gli incendi (-53,9%). La discesa generale si può imputare a diversi fattori: la diffusione di sistemi di allarme e videosorveglianza che scoraggiano i malintenzionati, gli accordi territoriali tra le autorità per una maggiore presenza di agenti sul territorio, le reti tra commercianti e Prefetture oppure la diffusione, soprattutto in alcune parti del Paese, delle garanzie assicurative (in alcuni casi, infatti, si tende a denunciare solo in caso di copertura per l’accertamento dei danni). Questi dati, infatti, fotografano solo gli illeciti “emersi”. Restano nell’ombra i fenomeni di microcriminalità, anch’essi diffusi sul territorio, che per diversi motivi sfuggono ai controlli oppure la cui comunicazione da parte delle vittime non è affatto scontata. Analizzando nel dettaglio i dati delle 106 province, la maglia nera per numero di reati riportati nel corso del 2018 spetta a Milano che, con 7.017 denunce ogni 100mila abitanti, mantiene la leadership poco lusinghiera fotografata già nei due anni precedenti, registrando però un calo (-5,2%) su base annua. Subito dietro: Rimini e Firenze, rispettivamente con 6.430 e 6.252 illeciti rilevati. A Firenze, in particolare, spetta un record negativo: è il territorio che ha registrato il più elevato incremento annuo di delitti, pari a 9,5%, decisamente in controtendenza con il trend nazionale. L’altra faccia della medaglia è quella dei territori meno esposti alla criminalità: Oristano, ultima con 1.493 denunce ogni 100mila abitanti, Pordenone (2.126) e Benevento (2.138). Province in cui il numero dei reati denunciati non solo è basso, ma continua a scendere: se Pordenone e provincia, infatti, hanno messo a segno un calo del 2,8%, in linea con la media nazionale, a Oristano e Benevento si è andati oltre con un -8,2% e un -10,9 per cento. La mappa della criminalità nazionale continua a essere sbilanciata verso le grandi città e le località turistiche. Tra le prime 20 classificate, troviamo, infatti, Bologna (4°), Torino (5°), Roma (6°), Genova (10°), Pisa (13°), Venezia (14°) e Napoli (17°), insieme a province più piccole, ma storicamente legate al turismo internazionale. Imperia e Savona, infatti, si posizionano nona e decima, seguite da Ravenna (15°) e Ferrara (18°). In tutti questi casi il rapporto tra il numero di illeciti rilevati e popolazione residente, ovviamente, non tiene conto dell’effetto generato dalle denunce presentate dai turisti. Che spesso, invece, sono le prede più appetibili per chi perpetra un certo di tipo di reato, come furti, scippi e rapine in cima alla lista. L’ergastolo ostativo non blocca la riparazione per la detenzione in carceri sovraffollate di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 14 ottobre 2019 Cassazione, sentenza 41649 del 10 ottobre 2019. Anche chi sta scontando l’ergastolo per delitti ostativi, se ha subito un periodo di detenzione in condizioni inumane, ha il diritto di scegliere come riparazione lo sconto dei giorni e non é obbligato a optare per il rimedio economico. La Corte di cassazione, con la sentenza 41649del 10 ottobre scorso, ricorda che il concetto di pena perpetua é ormai eroso dal tempo, anche per quanto riguarda il carcere ostativo sulla cui non immutabilità sono più volte intervenute sia la Consulta, sia la Corte di Strasburgo che, nel caso Viola, ha condannato l’Italia. Partendo dunque dalla negazione della perpetuità della pena - contraria alla sua finalità rieducativa - i giudici della Prima sezione penale hanno affermato l’interesse del ricorrente a opporsi alla decisione del tribunale di sorveglianza che, proprio in considerazione dell’ergastolo, gli aveva negato la possibilità di scelta tra la riparazione pecuniaria e lo sconto di pena per i 312 giorni che aveva trascorso in condizioni inumane e degradanti. Un “indennizzo” introdotto con l’articolo 35-ter della legge 354/1975, dopo la sentenza Torreggiani con la quale la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per il sovraffollamento delle carceri. La norma prevede una riparazione in forma specifica, ovvero lo sconto di pena di un giorno per ogni dieci trascorsi in condizioni inumane, o un indennizzo in denaro. Secondo la sentenza impugnata la via obbligata del ricorrente, in considerazione dell’ergastolo, era il ristoro economico. Una decisione che non convince la Cassazione che, pur in assenza di una norma specifica sul punto, afferma che la riparazione in questione non è un beneficio premiale ma una tutela piena per la lesione del diritto a un trattamento conforme al senso di umanità. E la possibilità di decidere per lo sconto dei giorni non può essere negata a chi è all’ergastolo ostativo anche se non collabora con la giustizia. I giudici ricordano infatti che la collaborazione non è sottoposta a limiti temporali e la decisione di “pentirsi” può essere maturata anche nel corso del tempo. Come durante il trattamento può essere riconosciuta anche l’impossibilità della collaborazione o la sua “inutilità”. Condizioni che aprono la strada ai benefici, compresa la liberazione condizionale. E in tal caso si potranno decurtare i giorni riconosciuti. La Cassazione quindi annulla la pronuncia e rinvia al tribunale di sorveglianza perché riveda il suo verdetto. “Esercizio arbitrario” per non si affida alla giustizia ma cerca di farsi ragione da solo di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 14 ottobre 2019 Cassazione - Sezione II penale -Sentenza 24 settembre 2019 n. 39138. La fattispecie prevista dall’articolo 393 del Cp (esercizio arbitrario delle proprie ragioni) si fonda sull’esistenza di un preteso diritto, che l’autore soddisfa attraverso l’”uso”, “non costrittivo”, della violenza o della minaccia, mentre l’estorsione ha il suo nucleo proprio nell’azione costrittiva, ovvero nell’annichilimento delle capacità volitive della vittima, la cui mediazione passiva è indispensabile per ottenere il risultato illecito. E ciò, afferma la Cassazione con la sentenza n. 39138 del 2019, deve ritenersi anche in presenza di una pretesa che fosse tutelabile per via giurisdizionale o percepita come tale, perché la soddisfazione di un preteso diritto attraverso la coazione alla persona non può che essere “ingiusta” e quindi tale da integrare il profitto ingiusto della fattispecie estorsiva. Conferma di tale discrimine la si evince dalla identificazione del bene protetto dalle rispettive norme incriminatrici, ovvero: a) il “monopolio statale” nella risoluzione delle controversie, per quanto riguarda l’esercizio arbitrario; b) la tutela della “persona”, anche (sebbene non solo) nella sua dimensione patrimoniale, con riguardo all’estorsione. In materia di esercizio arbitrario - In definitiva, l’esercizio arbitrario sanziona le deviazioni comportamentali del privato che, invece di affidare la risoluzione dei conflitti alla giurisdizione statale, riesca a farsi ragione da sé, utilizzando la violenza e la minaccia o per l’impossessamento diretto del bene che si ritiene dovuto, o a fini persuasivi, senza giungere alla soglia della costrizione che incide sul diritto alla libertà della persona, tutelato dalla più grave fattispecie dell’estorsione. Mentre l’estorsione “copre” le condotte “costrittive”, anche in ipotesi finalizzate alla soddisfazione di un preteso diritto, ogni volta che l’azione si risolva nell’annichilimento della capacità reattiva della vittima. La Corte ha altresì affermato, nell’approfondire i rapporti tra l’estorsione e l’esercizio arbitrario, che tale ultimo reato, commesso sia con violenza sulle cose che sulle persone, rientra, diversamente da quello di estorsione, tra i cosiddetti “reati propri esclusivi” o di mano propria, configurabili solo se la condotta tipica è posta in essere dal titolare del preteso diritto. Ne deriva così che, in caso di concorso di persone nel reato, è configurabile il concorso del terzo estraneo nell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni (per agevolazione o anche concorso morale) solo ove la condotta tipica, ovvero l’azione violenta o minatoria sia posta in essere dal titolare del preteso diritto, mentre, qualora tale condotta sia realizzata da un terzo che agisca su mandato del creditore, essa può assumere rilievo soltanto ai sensi dell’articolo 629 del codice penale. La problematica dei rapporti tra estorsione ed esercizio arbitrario - In altri termini, secondo la Corte, l’inquadramento dell’esercizio arbitrario come un reato proprio “esclusivo” esclude la delega della condotta di ragion fattasi e, di fatto, in relazione all’articolo 393 del codice penale inibisce l’operatività della norma generale sul concorso di persone nel reato, dovendosi quindi, in tal caso, ravvisare la fattispecie dell’estorsione. La problematica dei rapporti tra estorsione ed esercizio arbitrario è comunque controversa in giurisprudenza. Ciò quindi ha indotto, di recente, la sezione II della Cassazione, all’udienza del 25 settembre 2019, a rimettere alle sezioni Unite le questioni: 1) se ai fini dell’inquadramento della condotta nella fattispecie prevista dall’articolo 393 del codice penale ovvero in quella prevista dall’articolo 629 del codice penale rilevino le modalità della violenza e della minaccia o l’elemento psicologico; e 2) se il reato di cui all’articolo 393 del codice penale sia qualificabile come delitto “di mano propria” e quindi se, e in che termini, sia ammissibile il concorso di persone nel reato. Cannabis, verifica dal giudice sull’idoneità della sostanza a produrre effetti droganti di Ilaria Livigni Italia Oggi, 14 ottobre 2019 Alcune riflessioni sulla sentenza delle Sezioni unite penali della Corte di cassazione. E’ indispensabile che il giudice di merito verifichi la concreta offensività della condotta, riferita alla idoneità della sostanza a produrre un effetto drogante. Questo uno dei principi messi a fuoco dalle sezioni unite penali della Corte di cassazione con la pronuncia del 30 maggio (sentenza n. 30475/19) in tema di vendita di prodotti derivanti dalla canapa in relazione a quanto descritto dalla legge n. 242/2016, “Disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa”. Sentenza con cui è stato dato uno stop definitivo alla possibilità di vendere al pubblico foglie, infiorescenze, olio e resina derivati dalla “cannabis light”. Ma andiamo con ordine. La legge n. 242/2016 è volta a promuovere la coltivazione agroindustriale di canapa delle varietà ammesse (cannabis sativa L.), coltivazione che beneficia dei contributi dell’Unione europea, ove il coltivatore dimostri di avere impiantato sementi ammesse. Si tratta di coltivazione consentita senza necessità di autorizzazione, ma dalla stessa possono essere ottenuti esclusivamente i prodotti tassativamente indicati dalla legge n. 242/2016, art. 2, comma 2, e dunque: a) alimenti e cosmetici prodotti esclusivamente nel rispetto delle discipline dei rispettivi settori; b) semilavorati, quali fibra, canapulo, polveri, cippato, oli o carburanti, per forniture alle industrie e alle attività artigianali di diversi settori, compreso quello energetico; c) materiale destinato alla pratica del sovescio; d) materiale organico destinato ai lavori di bioingegneria o prodotti utili per la bioedilizia; e) materiale finalizzato alla fitodepurazione per la bonifica di siti inquinati; coltivazioni dedicate alle attività didattiche e dimostrative nonché di ricerca da parte di istituti pubblici o privati; g) coltivazioni destinate al florovivaismo. Esemplificando, ad avviso delle Sezioni Unite possono ottenersi fibre e carburanti, ma non hashish e marijuana. Pertanto, la commercializzazione di foglie, infiorescenze, olio e resina, derivanti dalla coltivazione di Cannabis Sativa Light, integra la fattispecie di reato di cui all’art. 73, commi 1 e 4, dpr 309/90, ossia vendita, cessione, distribuzione, commercio, consegna, detenzione e altre attività di messa in circolazione di sostanze stupefacenti o psicotrope. La commercializzazione di cannabis sativa L. o dei suoi derivati, diversi da quelli elencati dalla legge del 2016, integra il reato di cui si è detto anche se il contenuto di Thc sia inferiore alle concentrazioni indicate all’art. 4, commi 5 e 7 della legge n. 242/2016 (0,6 per cento). L’art. 73, citato, infatti, incrimina la commercializzazione di foglie, inflorescenze, olio e resina, derivati della cannabis, senza operare alcuna distinzione rispetto alla percentuale di Thc che deve essere presente in tali prodotti. Ciò detto, le Sezioni unite hanno, però, inteso ricordare l’insegnamento giurisprudenziale che da tempo valorizza il principio di concreta offensività della condotta, nella verifica della reale efficacia drogante delle sostanze stupefacenti oggetto di cessione. La sentenza ha rilevato che, rispetto al reato di cui all’art. 73 del Dpr 309/90, non rileva il superamento della dose media giornaliera, ma la circostanza che la sostanza ceduta abbia effetto drogante per la singola assunzione dello stupefacente. In particolare, i giudici hanno affermato come sia indispensabile che il giudice di merito verifichi la concreta offensività della condotta, riferita alla idoneità della sostanza a produrre un effetto drogante. Nel ribadire i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità, nell’ambito delle condotte di cessione di sostanze stupefacenti, le s.u. osservano che ciò che occorre verificare non è la percentuale di principio attivo contenuto nella sostanza ceduta, bensì l’idoneità della medesima sostanza a produrre, in concreto, un effetto drogante. Si tratta di coordinate interpretative di rilievo nella materia in esame, posto che la cessione illecita riguarda infiorescenze e altri derivati ottenuti dalla coltivazione della richiamata varietà di canapa, che si caratterizza per il basso contenuto di Thc. Dunque, anche se, secondo il vigente quadro normativo, l’offerta a qualsiasi titolo, la distribuzione e la messa in vendita dei derivati dalla coltivazione della Cannabis Sativa Light integrano la fattispecie incriminatrice di cui all’art. 73, Dpr 309/90, ciò nondimeno si impone l’effettuazione della puntuale verifica della concreta offensività delle singole condotte, rispetto all’attitudine delle sostanze a produrre effetti psicotropi. In definitiva, sulla base della sentenza non sembra esservi più alcun dubbio sul divieto di commercializzazione di foglie, infiorescenze, olio e resina, derivanti dalla coltivazione di Cannabis Sativa Light, che integra la fattispecie del reato di vendita, cessione, distribuzione, commercio, consegna, detenzione e altre attività di messa in circolazione di sostanze stupefacenti o psicotrope, anche qualora il contenuto di Thc sia inferiore alla concentrazione dello 0,6 per cento. In caso di giudizio sulla sussistenza del reato di cessione di stupefacenti, però, il giudice di merito dovrà valutare l’idoneità della sostanza a produrre, in concreto, un effetto drogante, specie trattandosi di cessione illecita che riguarda infiorescenze e altri derivati ottenuti dalla coltivazione della richiamata varietà di canapa, che si caratterizza per il basso contenuto di Thc. Inoltre, il giudice di merito potrebbe concludere il suo giudizio anche con l’esclusione della colpevolezza dell’imputato, vista l’oscurità del testo legislativo e l’atteggiamento interpretativo degli organi giudiziari (che hanno deciso su casi analoghi in modo diverso e a volte anche opposto). Insomma, come si evince da questa disamina, molti sono ancora i punti dubbi in tale materia e vedremo, nel corso dei prossimi mesi, come tale decisione sarà concretamente recepita dai tribunali di merito. Reato di evasione: il presupposto della legalità dell’arresto o della detenzione Il Sole 24 Ore, 14 ottobre 2019 Reati contro l’amministrazione della giustizia - Delitti contro l’autorità delle decisioni giudiziarie - Evasione - Assoluzione successiva dell’imputato - Irrilevanza ai fini della illiceità della condotta. Ai fini della configurabilità del reato di evasione il presupposto della legalità dell’arresto o della detenzione deve essere accertato al momento della esecuzione della misura restrittiva della libertà personale. Pertanto la successiva assoluzione dell’imputato non priva la condotta di quest’ultimo del carattere di illiceità penale. (Nel caso al vaglio dei giudici era stata avanzata richiesta di revisione della sentenza di condanna per il delitto di evasione, sul rilievo che successivamente era intervenuta sentenza definitiva di assoluzione dal reato costituente titolo per la misura coercitiva il cui regime era stato violato). Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 27 settembre 2019 n. 39828. Reati contro l’amministrazione della giustizia - Delitti contro l’autorità delle decisioni giudiziarie - Evasione - Ratio. Garantire il rispetto delle decisioni dell’A.G. costituisce la ratio sottesa al delitto di evasione di cui all’art. 385 c.p.; ai fini dell’integrazione del reato è sufficiente che il soggetto sia stato “legalmente” arrestato in relazione alle circostanze oggettivamente esistenti al momento dei fatti, anche se poi non venga aperto un procedimento penale per il reato per il quale sia stata disposta la misura restrittiva, o non venga convalidata la misura dell’arresto o se intervenga una sentenza di assoluzione che privi di giustificazione la misura cautelare con diritto a riparazione per l’ingiusta detenzione subita. Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 27 settembre 2019 n. 39828. Reati contro l’amministrazione della giustizia - Delitti contro l’autorità delle decisioni giudiziarie - Evasione - Procurata evasione - Presupposti - Persona “legalmente” arrestata - Nozione - Iscrizione di un procedimento penale per il reato determinativo dell’arresto - Necessità - Esclusione - Fattispecie. Ai fini della configurabilità del delitto di procurata evasione, è sufficiente che il soggetto in cui favore la condotta venga compiuta sia “legalmente” arrestato in relazione alle circostanze obiettivamente sussistenti al momento dei fatti, anche se poi non venga aperto un procedimento penale con riferimento allo specifico reato per il quale è stata applicata la misura pre-cautelare. (Nella specie, la Corte ha ritenuto correttamente motivata la decisione impugnata che aveva ravvisato il delitto di procurata evasione con riguardo a fatto commesso in favore di persona arrestata dalla polizia giudiziaria, in presenza dei presupposti di legge, per resistenza a pubblico ufficiale, e poi iscritta solo per altre fattispecie nel registro delle notizie di reato). Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 20 aprile 2015 n. 16460. Reati contro l’amministrazione della giustizia - Delitti contro l’autorità delle decisioni giudiziarie - Evasione - In genere - Presupposti - Persona legalmente arrestata o detenuta - Nozione - Fattispecie. In tema di evasione, la sussistenza del presupposto della legalità dell’arresto o della detenzione va verificata con esclusivo riferimento al momento della esecuzione della misura limitativa della libertà personale. (In applicazione del principio, la Corte ha confermato la condanna per evasione in caso di arresto in flagranza che, effettuato nei confronti di persona poi datasi alla fuga dai locali della Questura dove era stata condotta, non era stato convalidato per la mancata formulazione della richiesta di cui all’art. 390 cod. proc. pen.). Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 6 agosto 2013 n. 34083. Reati contro l’amministrazione della giustizia - Delitti contro l’autorità delle decisioni giudiziarie - Imputato - Arresti domiciliari - Evasione. In tema di obbligo di dimora, il fatto che, in epoca successiva all’allontanamento dal luogo dell’arresto domiciliare, tale misura cautelare sia risultata priva di giustificazione, perché insussistenti i presupposti in fatto per ritenere la contestata violazione degli obblighi (che ha così determinato la misura degli arresti domiciliari oggetto della condotta di evasione), come del pari avviene allorquando l’imputato venga assolto dalla imputazione che dà causa alla misura personale, tale evenienza non priva la condotta dell’accusato del carattere di illiceità penale, la quale deve essere valutata con riferimento alle condizioni esistenti all’atto dell’indebito allontanamento e della vanificazione del controllo della polizia giudiziaria. Corte di cassazione, sezione VI penale, sentenza 8 aprile 2009 n. 15208. Roma. Suicidio a Regina Coeli: detenuto si impicca nella sua cella di Alessia Marani Il Messaggero, 14 ottobre 2019 Un detenuto italiano, Roberto Lumaca, 52 anni, si è tolto la vita, ieri notte, impiccandosi nella cella che condivideva con altri detenuti nel carcere romano di Regina Coeli. L’uomo si trovava nell’ottava sezione dell’istituto. La scoperta è avvenuta all’alba. “In quel momento a vigilare su un centinaio di detenuti c’era un unico agente della Penitenziaria”, denuncia Daniele Nicastrini, segretario generale Uspp. “Pur salvandone a decine da tentativi di suicidio da parte della Polizia Penitenziaria, unico baluardo a confrontarsi con tragici momenti - spiega il sindacalista- diventa difficile intervenire in tutti i casi che di solito avvengono nelle ore notturne, quando il numero per la vigilanza diminuisce per le note carenze e dove anche i compagni di detenzione stanno dormendo. Chiudersi nel bagno della cella agganciare una striscia di qualsiasi simile ad una corda e lasciarsi andare diventa un rumore sordo avvolte totalmente non percepibile in sezioni detentive con corridoi lunghi anche 100 metri e altrettante celle e mura”. Dal 2000 ad oggi sono oltre 1.000 i suicidi nelle carceri italiane (di cui circa 35 su 100 decessi nel 2019). Numeri a cui si aggiungono i suicidi degli stessi poliziotti. “Una condizione che genera stress negli operatori”, conclude Nicastrini. Firenze. Telefoni e lavoro, le idee di Cruccolini per Sollicciano di Michele Bocci La Repubblica, 14 ottobre 2019 Il Garante dei detenuti dopo l’allarme lanciato dal sindacato degli agenti. “Solo migliorando la vita di chi è in carcere si allenta la tensione”. “Lo diciamo da tempo che la situazione è problematica ma abbiamo anche idee per migliorare le cose”. Eros Cruccolini è il garante dei detenuti del Comune di Firenze e su Sollicciano parte da un punto di vista affine a quello dei sindacati della polizia penitenziaria, che venerdì scorso hanno parlato di carcere più pericoloso d’Italia, di rischio sommosse, di violenze dei detenuti. Poi però, su come risolvere le cose, Cruccolini ha suoi punti di vista. “Va intanto detto che Comune e Regione hanno fatto anche più della loro parte per migliorare la situazione. Praticamente tutte le attività che ci sono dentro, ad esempio sul piano culturale, sono nate grazie ai due enti”. Cruccolini cita un progetto particolarmente interessante. “Quello riguardo alla certificazione delle competenze - spiega. Se un detenuto lavora dentro, magari in cucina o alla manutenzione, ottiene un certificato di formazione. La può presentare come curriculum quando affronta un reinserimento”. Per il garante il lavoro ha anche un valore fondamentale sul piano del reinserimento ed è un elemento importante per ridurre l’aggressività. “Rappresenta un antidoto rispetto ad atti di autolesionismo e aggressioni. Lavorare rende le persone più soddisfatte e rilassate. Anzi, faccio un appello al mondo degli industriali e della cooperazione sociale per dare impieghi ai detenuti”. Il lavoro e le altre attività svolgono un ruolo importantissimo, spiega Cruccolini “anche perché tengono i detenuti lontano dalla cella. Meno ci stanno meglio è, anche per ridurre l’aggressività nei confronti della polizia penitenziaria. Intanto invece stanno troppo chiusi nelle loro celle. Ad esempio chi è in attesa di giudizio ci trascorre anche 20 ore su 24”. Il tutto in una situazione di sovraffollamento preoccupante. “E noi su questo problema condividiamo le riflessioni che fa il sindacato. Potremmo mettere insieme le forze per sollecitare il ministro della Giustizia e il dipartimento a prendere provvedimenti che decongestionino il carcere”. Tra le idee di Cruccolini per umanizzare Sollicciano e rendere meno tesa la situazione interna c’è anche quella delle telefonate. “Una persona che non ha figlio può fare soltanto 4 chiamate al giorno. In Francia hanno sperimentato in un carcere la messa a disposizione di apparecchi nelle celle. I risultati sono stati così buoni che l’esperienza è stata allargata agli altri penitenziari. Ripeto, migliorando le condizioni di vita di chi è dentro per una condanna fa migliorare anche il rapporto con chi nel carcere ci lavora”. Presto saranno fatti dei lavori per migliorare la pesante situazione strutturale del carcere. Con interventi per installare pannelli fotovoltaici e cambiare gli infissi. “Io vorrei riprendere la provocazione del sindaco Nardella, che il 15 di agosto parlava di buttare giù e rifare Sollicciano - dice Cruccoli. Bene, visto che accanto ci sono dei terreni, penso sia ipotizzabile fare un padiglione ex novo. Con le caratteristiche strutturali giuste, e quindi senza le celle strette nelle quali sono costretti oggi i detenuti. Con delle aree per mangiare da 20-25 persone, con spazi adatti al lavoro e alle varie attività, cosicché in cella ci si vada solo per dormire”. Firenze. La Consulta e quel “Viaggio nelle carceri” che ci libera dalle pulsioni vendicative di Francesco Palazzo* Il Dubbio, 14 ottobre 2019 All’Università di Firenze il 22 ottobre verrà proiettato il film “Viaggio in Italia. La Corte costituzionale nelle carceri”. Qualche giorno dopo, l’11 novembre, seguirà una tavola rotonda con gli studenti coordinata dal Presidente della Corte costituzionale Giorgio Lattanzi. Il nostro è un tempo di molte contraddizioni. Una di queste riguarda il carcere e, più precisamente, gli orientamenti che si formano nella società intorno alla (perenne) “questione carceraria”. È incontestabile che il sentire popolare, alimentato anche da demagoghi senza scrupoli, coltiva spesso sentimenti vendicativi che, travisati sotto la nobile domanda di giustizia, in pratica sfociano spesso nella richiesta di “gettare la chiave” della cella o di farvi “marcire” senza scampo il condannato. Ma è altrettanto incontestabile che, d’altra parte, è vivo tutto un movimento di pensiero, che dalle élites degli studiosi si propaga verso gli operatori del carcere e verso larghi e variegati strati di gente comune impegnata sul fronte di una sentita solidarietà offerta anche alla popolazione carceraria. È, quest’ultimo, il segno che il processo di civilizzazione dell’umanità non si arresta nemmeno dinanzi alle forti reazioni emotive suscitate dal male criminale. Non è utopistico dunque insistere nell’alimentare la convinzione del progresso civile dell’umanità, ancorché non sempre - anzi quasi mai - lineare e continuo, anche nel ribollente campo della penalità: e continuare a pensare che, come furono superati i tormenti punitivi dell’antico regime, come si è imposto il prevalente orientamento abolizionistico della pena capitale, così si potrà prima o poi avviare un processo di ridimensionamento della pena carceraria, a cominciare dall’ergastolo, bollato da Papa Francesco come “un problema da risolvere” e non la soluzione dei problemi. In questo quadro di fondo e quale momento di forte impegno civile si pone l’iniziativa dell’Ateneo fiorentino, insieme agli enti territoriali e alla magistratura e all’avvocatura locali, di proiettare per la cittadinanza il docu-film “Viaggio in Italia. La Corte costituzionale nelle carceri” (Firenze, 22 ottobre, in casuale ma significativa coincidenza con il giorno dell’udienza della Consulta sull’ergastolo ostativo). A distanza di qualche giorno (l’ 11 novembre) seguirà una tavola rotonda dedicata principalmente agli studenti e coordinata dal Presidente della Corte costituzionale Giorgio Lattanzi. I due appuntamenti sono unificati sotto l’espressivo titolo “Bisogna aver visto”, mutuato da un articolo di Piero Calamandrei del 1948, le cui parole ci sono ancora monito per rimanere sulla via di quella civilizzazione cui - nonostante tutto - non sappiamo né vogliamo rinunciare. Eccole: “Noi crediamo di aver abolita la tortura, e i nostri reclusori sono essi stessi un sistema di tortura la più raffinata; noi vantiamo di aver cancellato la pena di morte dal codice penale comune, e la pena di morte che ammanniscono goccia a goccia le nostre galere è meno pietosa di quella che era data per mano del carnefice; noi ci gonfiamo le gote a parlare di emenda dei colpevoli e le nostre carceri sono fabbriche di delinquenti, o scuole di perfezionamento di malfattori”. *Professore emerito di Diritto penale Dipartimento di Scienze giuridiche Università degli Studi di Firenze Roma. Santo Stefano, l’oblio del carcere di Stefania Moretti Corriere della Sera, 14 ottobre 2019 Nel penitenziario borbonico, in abbandono dal 1965, è stato imprigionato pure Sandro Pertini. Ruggine, erba alta e calcinacci. Dal Cipe 70 milioni nel 2016, finora realizzato solo l’eliporto. La ruggine divora le porte delle celle, dietro cespugli alti mezzo metro. Tutto intorno, palazzine come ruderi e segnali di pericolo. Sull’isola-fortezza di Santo Stefano - territorio di Ventotene, provincia di Latina - l’ex carcere dei dissidenti politici si sbriciola. Molti lo confondono con i luoghi del confino di Altiero Spinelli, mandato invece in esilio forzato un miglio di mare più in là, a Ventotene. Dal penitenziario borbonico, l’anarchico Gaetano Bresci non uscì vivo. Sandro Pertini se ne andò dopo 14 mesi solo perché ebbe la fortuna di ammalarsi. Per il recupero della prigione settecentesca, chiusa nel 1965 e di proprietà demaniale, il Cipe ha stanziato 70 milioni nel 2016. Fondi inutilizzati, a parte 1,6 milioni di opere primarie, come l’eliporto per scaricare i materiali che dovevano servire per i lavori. Ma quali lavori? Il grosso dei fondi è ancora lì che aspetta: scadranno nel 2021. A quel punto, se mancherà ancora un progetto, troveranno un’altra destinazione. Da tre anni e tre governi si perde tempo senza un perché. Intanto l’intonaco della chiesetta al centro del carcere, restaurata nel 2005, si sta già staccando. I pavimenti della tessitoria, dove ai detenuti era concesso di lavorare, sono venuti giù due anni fa. Perde pezzi anche la palazzina del direttore. Tre quarti dell’ex penitenziario, ormai, sono inaccessibili: la cella 36 di Pertini non è più visitabile, né il cimitero. “Siamo all’ultima chiamata per salvarlo: ora o mai più”, è l’appello dell’assessore Francesco Carta, delegato dal comune di Ventotene a interfacciarsi col tavolo tecnico che deve decidere come investire le risorse. “Dovevamo aggiornarci a fine giugno: riunione saltata. Che aspettiamo a fissarne un’altra?”. Le visite erano sospese dal 2016. “Riprenderle - spiega Carta - è stato un primo passo irrinunciabile, l’anno scorso, per strappare il reclusorio almeno un po’ all’abbandono”. Un capolavoro di architettura giudiziaria, concepito sulla pianta del teatro San Carlo di Napoli: le celle disposte a ferro di cavallo, sotto tre piani di arcate che rischiano anch’esse di cedere; le torri di controllo, laterali come le quinte teatrali e, al centro, al posto del palco, una cappellina per la messa. Nessun detenuto poteva sfuggire all’ascolto del vangelo, né al controllo delle guardie: il dominio sui reclusi, circondati dal mare senza vederlo, era totale. Carta si perde nel ripercorrere le storie dei prigionieri, specie i meno noti. Da Sante Pollastri, la cui amicizia col ciclista Costante Girardengo ispirò a De Gregori “Il bandito e il campione”, a Rocco Pugliese, studente antifascista, stessa morte misteriosa di Bresci: suicida impiccato o massacrato in un “santantonio” delle guardie, la pratica di ammazzare di botte i detenuti avvolgendoli in un lenzuolo per non lasciare segni sul corpo. Suicidi finti, secondo Pertini, nel caso di Bresci come di Pugliese, per coprire le colpe dei carcerieri. Sulla riconversione dell’ex penitenziario, Carta ha idee chiarissime. “Il comune vorrebbe farne un museo. La struttura o si utilizza o muore, la messa in sicurezza periodica non basta. Servirebbe un ente gestore che se ne occupi stabilmente”. Quello della valorizzazione dell’ex carcere era un discorso iniziato con Dario Franceschini: a Ventotene sperano che il suo nuovo mandato di ministro della Cultura riparta da qui. “Chiediamo aiuto a lui e alla politica tutta - conclude Carta -. È paradossale che pur di non sederci intorno a un tavolo per prendere una decisione, rischiamo di sprecare dei soldi e di perdere un bene dal valore inestimabile. Il carcere di Santo Stefano è unico al mondo. Stiamo lasciando crollare un pezzo di memoria del Paese”. Napoli. Pietro Ioia premiato da Ilaria Cucchi: “È per tutti i detenuti” di Giuliana Covella Il Mattino, 14 ottobre 2019 Da narcotrafficante internazionale di hashish e cocaina e affiliato ai clan che un tempo comandavano al centro storico di Napoli, ad attivista per i diritti dei detenuti. Pietro Ioia, napoletano doc, è stato insignito a Roma del Premio Diritti Umani Stefano Cucchi onlus, promosso dall’omonima associazione. A consegnare il riconoscimento allo spazio indipendente Angelo Mai, nel corso della prima della due giorni del Quinto Memorial Stefano Cucchi, è stata Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, morto il 22 ottobre 2009 mentre era sottoposto a custodia cautelare. Dopo aver scontato i suoi reati, piccoli e grandi, in oltre vent’anni di carcere Ioia, che oggi è presidente dell’associazione Ex Don, attore e scrittore, è diventato il simbolo della difesa dei diritti di chi vive dietro le sbarre, diritti che non sempre vengono rispettati. Storie di cui ha ampiamente raccontato nel suo primo libro, “La cella zero”, ispirato alla famosa cella delle torture all’interno del carcere di Poggioreale, per la quale c’è un processo in corso nel quale sono accusati 12 agenti di polizia penitenziaria. Insieme a Ioia sono stati premiati Giuseppe Gulotta (entrato in carcere da innocente, dato che a 18 anni si è auto accusato di aver ucciso due giovani carabinieri: la sua confessione era stata estorta con botte, violenze e torture) e la comunità Sikh di Latina che porta avanti la battaglia per i diritti dei lavoratori nell’Agro Pontino. “Sono storie di giustizia negata. Hanno fatto sentire la loro voce e vogliamo contribuire alle battaglie che portano coraggiosamente avanti”, ha sottolineato Ilaria Cucchi, presidente dell’associazione. “La mia famiglia, da dieci lunghi anni, sa bene cosa vuol dire trovarsi davanti a muri da abbattere - ha aggiunto. Camminiamo insieme nella lotta per una giustizia che sia tale anche per gli ultimi: il velo può essere squarciato”. “Visto che nessuno vi dedica mai niente, questo premio è per voi - ha detto Ioia, rivolgendosi ai tanti detenuti delle carceri italiane e del mondo - e per il popolo curdo”. Pistoia. La libertà dopo la cella, l’attore Alessio Boni incontra i detenuti Il Tirreno, 14 ottobre 2019 Durante la mattinata di lunedì 7 ottobre, la Casa circondariale di Santa Caterina in Brana, a Pistoia, ha aperto le porte all’Associazione culturale “Teatro Electra” e all’attore Alessio Boni, attualmente sugli schermi televisivi con la fiction “La strada di casa”. Si è trattato di un evento che ha rappresentato il traguardo di un percorso avviato dalla compagnia teatrale all’interno del carcere ormai da più di un anno, con una serie di lezioni di cinema e teatro, e che potrà essere il punto di partenza per un cortometraggio da girare con la partecipazione di alcuni detenuti. L’attore Alessio Boni, che aveva già presenziato alla cena di domenica 6 ottobre all’agriturismo “La Corte degli Olivi”, alla presenza dei soci di “Electra Teatro”, ha accettato di prendere parte all’incontro e si è reso protagonista di uno scambio dialogico con i detenuti presenti toccando temi di grande rilievo: fra cui i concetti di libertà e autodeterminazione della persona, di prospettiva per il futuro e di come affrontare la delicata questione del “fuori”, quindi del reinserimento in società, dimostrando non solo un’elevata sensibilità artistica, ma anche un alto spessore umano. Si è trattato di un’occasione di arricchimento, confronto e condivisione di idee, pensieri, timori e consapevolezze, emerse anche grazie all’intervento della giornalista di Vanity Fair Nina Verdelli, che ha rivolto alcune domande ai presenti e ha raccolto le loro testimonianze. L’incontro ha riscosso il favore dei detenuti e della Polizia penitenziaria e ha rappresentato un’occasione importante e affascinante per avvicinare e mettere in comunicazione il mondo artistico culturale con la realtà del carcere, spesso dimenticata, o addirittura invisibile e celata, agli occhi della società esterna. Per Alessio Boni, nato il 4 luglio 1966 a Sarnico, in provincia di Bergamo, entra nel mondo dello spettacolo nel 1988, prima prestandosi a dei fotoromanzi e successivamente dedicandosi al teatro. Due anni dopo debutta al cinema con Il mago (1990), affiancando Anthony Quinn. Nel frattempo inizia a studiare recitazione e si diploma nel 1992 all’Accademia nazionale d’arte drammatica. Quindi la tv, il teatro e ancora il grande schermo, dove il grande momento arriva con il ruolo di protagonista insieme a Luigi Lo Cascio ne La meglio gioventù (2003) di Marco Tullio Giordana, con cui si aggiudica il Nastro d’argento come Miglior attore protagonista. Catania. Il progetto “Scritture dal Silenzio” di Laura Grasso Ristretti Orizzonti, 14 ottobre 2019 Grazie alla volontà della Direzione della Casa circondariale Bicocca di Catania, col patrocinio del Dap Direzione Generale Detenuti e Trattamento e della Onlus Libertarea di Torino dal 30 settembre è stata realizzata la Terza edizione del progetto “Scritture dal Silenzio” che si è conclusa il 4 ottobre. Il progetto da me ideato è finalizzato all’insegnamento della Scrittura Trasduzionale. Trattasi di un metodo di scrittura - frutto di una ricerca che conduco dal 1997 - che permette a chiunque - indipendentemente dal grado di istruzione - di attingere nel profondo della propria interiorità e di rivelarne i sorprendenti contenuti, diversamente inaccessibili. Dal 2015, in qualità di volontaria, avevo già realizzato questo progetto oltre che all’Istituto Bicocca, presso gli Istituti penitenziari di Porto Azzurro all’Isola d’Elba, di Cagliari Uta, di Regina Coeli e di Rebibbia a Roma. L’esperienza ha dimostrato che tale metodo, oltre ad aprire nuovi spazi espressivi e di auto-conoscenza, senza pretenderlo né dichiararlo, di fatto sembra proporre ai partecipanti un vero e proprio percorso di “ricostruzione” interiore. Una scintilla di rinascente fiducia in sé stessi è l’effetto portante di questi seminari. E’ tale scintilla, l’inaspettata propulsione rigeneratrice e risanatrice che induce un processo virtuoso capace di creare interessanti prospettive di riabilitazione. Attraverso il metodo vengono forniti gli strumenti operativi ed i contenuti per poter continuare il percorso in autonomia, anche una volta concluso l’incontro; in questa ottica si tratta di una proposta a lungo termine. Nei giorni 7-8 ottobre il progetto “Scritture dal Silenzio” è stato realizzato per la prima volta ad Agrigento, presso l’Istituto Petrusa e nei giorni 9-10-11 ottobre, presso l’istituto Ucciardone di Palermo. “Je ne te voyais pas”. Guardando la giustizia riparativa di Ivo Silvestro La Regione, 14 ottobre 2019 Girato in Belgio e nel carcere argoviese di Lenzburg, il docu-film racconta di come vittime e autori di reati possono superare insieme le ferite del crimine. La prigione è un muro: troppo poco, per chi vuole pene non solo più severe, ma anche più dolorose; troppo, per chi invece vede i limiti di un sistema punitivo che - giustamente - si concentra sul reato e sulla pena, ignorando tuttavia sia la vittima sia l’autore. Perché per avere una riparazione del torto, una ricomposizione di quello che, non solo nella società ma anche dentro le persone, il reato ha rotto, quel muro andrebbe (metaforicamente) abbattuto, dando la possibilità a vittime e autori di confrontarsi, di trovare le risposte alle domande che la giustizia penale non può dare. Un’idea, quella della giustizia riparativa, che non vuole sostituire o abolire l’attuale sistema penale, ma al contrario completarlo. Il come lo mostra il cineasta e giurista François Kohler nel suo documentario “Je ne te voyais pas”, proiettato domenica al Film festival diritti umani di Lugano e realizzato in Belgio, dove la mediazione penale è una realtà consolidata, e nel carcere di Lenzburg nel Canton Argovia. François Kohler: a cosa si riferisce il titolo del documentario? Nel film si trova la risposta: è un detenuto che incontra una delle sue vittime, un giovane al quale ha rotto la mascella per prendergli cellulare e computer - e gli dice “io non ti vedevo”, non mi preoccupavo di te, ma in qualche maniera quel giovane, delle sue venti vittime, gli è entrato nell’anima, chi gli ha aperto uno spazio di compassione, di riflessione, di pentimento. È il detenuto che ha chiesto la mediazione - in Belgio è possibile da entrambe le parti - perché questo giovane non gli usciva dalla testa e ha voluto incontrarlo, parlargli. Questo è uno dei vari incontri tra vittime e autori che si vedono nel film: come è riuscito a filmare dei momenti che immagino psicologicamente intensi e personali? Sì, in effetti è stato un ostacolo importante in questo film. Ma tutti i miei lavori si muovono nella dimensione dell’intimità e della trasformazione interiore. Mi sono quindi posto da tempo il problema di come affrontare questi temi senza essere indiscreto, rispettando l’integrità delle persone. Per me è importante conoscere bene le persone coinvolte, c’è sempre un grande lavoro di avvicinamento prima delle riprese. Ma in questo caso non era sufficiente e così ho insistito per far fare alle parti una seconda mediazione - non un messa in scena della prima, perché sarebbe stato falso, ma di capire che cosa potevano ancora condividere, concludere quello che la prima mediazione non aveva ancora risolto. Quello che vediamo non è quindi il primo incontro... No, ma è interessante che lo sembri: perché non sono incontri fatti apposta per il film, ma la decisione del mediatore e delle parti di proseguire con il percorso di mediazione. Il film ha portato a una nuova riflessione, anche da parte dei mediatori - e in Belgio la mediazione esiste dal 2005, ma nessuno l’aveva mai filmata. Il Belgio è più avanti nella giustizia riparativa, ma per un documentario hanno dovuto aspettare uno svizzero... Esattamente, ma non ho idea del perché. Io comunque ero partito con l’idea di filmare un progetto pilota di mediazione in una prigione romanda, portato avanti dall’associazione Ajures - di cui adesso faccio parte anch’io, ma all’epoca, dovendo filmare il loro lavoro, no. Ma non è stato possibile, mancavano le autorizzazioni necessarie e così ho deciso di andare in Belgio. Subito prima di partire, ho trovato un carcere in Svizzera tedesca dove si pratica un altro tipo di giustizia riparativa, quella dei “dialogues restauratifs”. Nei quali non si incontrano direttamente vittime e autori di reati... Ci sono vari sistemi di giustizia riparativa. Quello in Belgio è la mediazione penale, l’incontro diretto tra vittime e autore. Poi ci sono i “dialogues restauratifs”: detenuti e vittime che si incontrano ma non si tratta delle vittime di quei criminali. Durante questi incontri ognuno può ascoltare le storie degli altri, ed è di aiuto per i detenuti, per comprendere le sofferenze delle vittime, anche se non si tratta delle loro vittime. Un confronto che giova sia alle vittime, sia agli autori di reati, parti come accennato spesso trascurate dall’attuale sistema penale. Esattamente. La giustizia penale è verticale: è lo Stato, con i procuratori, che punisce e che indennizza la vittima, ma tutte le conseguenze personali del conflitto non sono affrontate, se non marginalmente. E questo significa che la vittima resta con molte domande: perché mi ha fatto questo? Perché proprio a me? Mi ha seguito prima di assalirmi? Così non riesce a uscire dal suo statuto di vittima, resta imprigionata in quelle emozioni, in quella perdita di controllo che ha subito. Il sistema penale risponde con l’aiuto alle vittime, ma non è sufficiente, non aiuta a rispondere a quelle domande. La giustizia riparativa permette invece di riprendere il potere: guardando il detenuto negli occhi, può dar voce alla propria sofferenza, ai propri bisogni. Per il detenuto, permette di comprendere gli effetti delle sue azioni nella vita delle vittime. E forse anche di assumersi la responsabilità, ma il pentimento e il perdono sono un qualcosa di più: non sono l’obiettivo della giustizia riparativa, che rimane l’espressione dei bisogni. Nel film infatti una vittima non riesce a perdonare l’autore del reato. Esattamente: lui non riesce. Il paradosso è che spesso sono i detenuti che hanno maggiori possibilità perché sono seguiti, assistiti da psichiatri e psicologi. La vittima invece spesso è sola e ci mette molto più tempo a lavorare sull’esperienza. Alcuni definiscono la giustizia penale “la giustizia degli uomini in nero”: io lo trovo un po’ esagerato, ma è vero che ci si è concentrati soprattutto sulla pena dimenticando le vittime. L’Unhcr e la battaglia globale contro l’apolidia di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 14 ottobre 2019 Nei giorni scorsi a Ginevra oltre 85 attori fra governi, società civile e organizzazioni internazionali e regionali hanno assunto centinaia di nuovi impegni per porre fine all’apolidia, causa primaria di privazione di diritti umani per milioni di persone nel mondo. Oltre 300 dichiarazioni di impegni sono state presentate nel corso di una riunione organizzata dall’Unhcr, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati. La riunione, conosciuta come Segmento di alto livello sull’apolidia (High-Level Segment on Statelessness), rientrava nella serie di incontri annuali tenuti dal Comitato Esecutivo dell’Unhcr. Quest’elevato numero di assunzioni di impegni è senza precedenti per una singola occasione. Fra questi, oltre 220 sono stati presi da più di 55 Stati con la promessa di aderire o ratificare le convenzioni delle Nazioni Unite sull’apolidia, facilitare la naturalizzazione delle persone apolidi, prevenire l’apolidia ponendo fine alla discriminazione di genere in seno alle leggi in materia di cittadinanza, assicurare la registrazione universale delle nascite, garantire protezione agli apolidi e migliorare o intraprendere la raccolta di dati inerenti alle popolazioni apolidi. Altri Paesi impegnati a riformare le leggi in materia di cittadinanza che impediscono alle donne di far ereditare la propria nazionalità ai propri figli. Questa settimana l’Unhcr ha accolto con favore l’emendamento della Repubblica Islamica dell’Iran a una legge sulla cittadinanza che permette ai figli di donne iraniane e padri non iraniani di usufruire di una procedura per l’acquisizione della nazionalità iraniana. Fra le altre dichiarazioni di impegni, oltre 35 erano relative all’incremento degli sforzi per assicurare la registrazione universale delle nascite, oltre 30 hanno riguardato l’istituzione di procedure per l’identificazione delle persone apolidi al fine di garantire loro protezione e facilitarne la naturalizzazione, e oltre 15 hanno rappresentavano la volontà degli Stati di introdurre tutele giuridiche in seno alle proprie legislazioni sulla cittadinanza per prevenire i casi di apolidia nell’infanzia. “Stiamo costituendo una massa critica nello sforzo globale di porre fine all’apolidia. Questa settimana ha mostrato l’esistenza di un livello di volontà e impegno politico senza precedenti volti a risolvere questa questione e, in primo luogo, a prevenire che essa si manifesti - ha dichiarato Filippo Grandi, alto commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati. È fondamentale che tali assunzioni di impegni ora si trasformino in azioni. Aumenteremo gli sforzi per aiutare gli Stati a conseguire l’obiettivo di sradicare l’apolidia in modo definitivo - un obiettivo che è alla nostra portata, finché tale slancio continuerà”. L’Unhcr ha indetto il Segmento di alto livello sull’apolidia una volta giunti a metà percorso della campagna decennale #IBelong, lanciata nel 2014 per porre fine all’apolidia entro il 2024. Vi sono almeno 3,9 milioni di apolidi noti nel mondo, ma si stima che il numero reale su scala mondiale sia significativamente più elevato, non per ultimo poiché le statistiche sull’apolidia sono disponibili solo per un terzo degli Stati a livello globale. Al fine di identificare e assistere con più efficacia le persone apolidi, più di 25 Stati si sono impegnati ad adottare misure volte a migliorare la raccolta di dati inerenti all’apolidia, in alcuni Paesi anche tramite lo svolgimento di censimenti nazionali. L’apolidia segna le vite di milioni di persone in tutto il mondo, privandole dei diritti legali o dei servizi essenziali ed emarginandole sia sul piano politico sia su quello economico, portandole a subire discriminazioni e a essere particolarmente vulnerabili a sfruttamento e abusi. Canapa legale: “Ora o mai più”. Intanto proseguono i sequestri di cannabis “light” di Paolo Dimalio Il Fatto Quotidiano, 14 ottobre 2019 “Legalizzare la cannabis? Dopo Salvini, ora o mai più”. Luca Marola, tra i pionieri della cannabis light con il marchio EasyJoint, rischia la galera ma conservava almeno la speranza, con il Capitano all’opposizione. “Pd e M5s sono sempre stati aperti alla canapa, perciò ero ottimista”. Poi, la grande delusione a Cinque stelle: il 24 settembre, il gruppo pentastellato in Commissione agricoltura sostiene all’unanimità una mozione controversa. “Il Movimento ha scaricato la ‘galassia cannabis’”, accusa Marola. Il documento esorta il Parlamento a scrivere regole per “la cessione, da parte degli agricoltori, di biomassa di canapa a fini estrattivi”. Cioè: i coltivatori possono vendere la pianta alle aziende che distillano cannabinoidi (il Cbd, per lo più). Lo scopo? Preparare alimenti, cosmetici e prodotti di benessere a base di canapa. La Commissione però non spreca una parola sui cannabis shop, dove si vendono fiori e oli. “Quella è materia del ministero della Salute”, dice Filippo Gallinella, presidente grillino della Commissione agricoltura della Camera. Problema: gli imprenditori del fiore “light” rischiano il tracollo per via dei sequestri e speravano nell’aiuto pentastellato. Ora sono su tutte le furie: “Ci sentiamo scaricati ma siamo pronti ai blocchi davanti Palazzo Chigi, nelle chat di WhatsApp siamo circa 3mila, coltivatori e venditori”, dice Daniele D’Agata. La sua azienda, a Isernia in Molise, si chiama Green Passion Agritech. Ha investito denaro e pagato tasse, Daniele. In cambio, chiede leggi certe per il business. I negozi infatti continuano a chiudere: a Macerata, l’8 ottobre, serranda giù per 4 cannabis shop. “Finché il legislatore non farà chiarezza - ha detto il questore Pignataro la norma vieta la vendita di infiorescenze, olio e resine, e noi dobbiamo applicarla”. Domanda: “Non si può stabilire che vendere i fiori di canapa è legale, se il Thc (tetraidrocannabinolo) non supera lo 0,5%?”. Dice Gallinella: “Sarei favorevole, ma la vendita dei fiori non dipende solo dalla soglia del principio attivo”. Ecco il punto cruciale: la cannabis light sarebbe vietata a prescindere dalla percentuale di tetraidrocannabinolo. Lo dice la Suprema Corte e lo ribadisce la risoluzione della Commissione agricoltura. Con l’eccezione: “Non si può vendere, a patto che non abbia effetto drogante”. Così, si arriva al paradosso: come misurare l’effetto drogante, senza indicare il tetto di Thc? Mistero. Senza Salvini al Viminale, intanto, i commercianti provano a rialzarsi. Molti sono finiti in ginocchio per via dei sequestri innescati dal verdetto della Cassazione, il 30 maggio. Ad esempio: il franchising Cbweed contava 50 punti vendita, ma 10 hanno chiuso dopo la pronuncia del palazzo di Giustizia, per paura di finire in tribunale. Poi era tornata la speranza: “A luglio ed agosto, nessuna richi esta di apertura - dice Riccardo Ricci, fondatore di Cbweed - ma a settembre, col cambio di governo, ne sono arrivate più di 20”. Ma il rischio legale è alto perché nessuno sa come misurare l’effetto drogante. In teoria, la Circolare del Ministero degli Interni del 31 luglio 2018 (approvata da Salvini) chiarisce l’enigma: se il Thc è sotto lo 0,5% al grammo, la sostanza è legale. In pratica, la Cassazione affida al giudice la libertà di decidere. Risultato: “Vendere cannabis light è una roulette russa e il settore è in bilico”, dice l’avvocato Carlo Alberto Zaina: “Per alcuni tribunali è spaccio, per altri libera impresa. Ma i giudici dovrebbero fare un passo indietro e seguire le indicazioni scientifiche dei tossicologi”. Zaina racconta la storia esemplare di una commerciante di Tempio Pausania, in Sardegna, finita in arresto: “Il Riesame di Sassari l’ha scagionata perché la cannabis light non è droga; per le toghe di Nuoro invece è merce stupefacente”. Un altro problema sono i controlli stradali, suggerisce l’avvocato: “Il narcotest delle forze dell’ordine rileva la presenza di Thc senza misurare la soglia percentuale: così ti arrestano senza badare all’effetto drogante”. Zaina auspica una legge, manon si fida del Partito Democratico: “Nel 2014 ha modificato la tabella 2 degli stupefacenti: prima era vietata la cannabis indica, ora la cannabis tout court”. Luca Marola intanto è indagato a Parma per spaccio di stupefacenti: il 23 luglio le forze dell’ordine hanno sequestrato all’imprenditore 640 chili di cannabis light. Ma la legge non è uguale per tutti: a Genova, il 22 giugno, un venditore di Rapallo è stato scagionato per via del thc sotto lo 0,5%. Sembrava la Caporetto dello “sceriffo” leghista: i tribunali di Novara, Salerno, Messina, Catania, Padova, Perugia, Caserta e Mantova seguono la scia del Riesame ligure. Ma il tribunale di Parma va contromano: la prova dell’effetto drogante non è il livello percentuale di Thc, bensì la quantità totale del cannabinoide. Per capirci: EasyJoint vende una varietà di cannabis sotto lo 0,5% di thc. Tutto in regola? Nemmeno per sogno: per i giudici parmensi bisogna moltiplicare 0,5 per 640 mila (i grammi di canapa sequestrati ad EasyJoint). Ecco perché Marola è indagato per spaccio. Secondo l’avvocato Zaina, difensore dell’imprenditore, non ha senso: “Tutte le perizie tossicologiche per identificare gli stupefacenti misurano la soglia percentuale. Qualcuno crede sia possibile assumere 640 chili in una volta?”. Se Marola andrà a processo, la tesi degli inquirenti emiliani potrebbe diffondersi a macchia d’olio: vale la somma, non la percentuale di Thc. In tal caso, la slavina dei sequestri travolgerebbe i’ cannabis shop. Per la gioia di Matteo Salvini. Forse non ha letto lo studio pubblicati dalla rivista European Economic Review: i negozi di cannabis light riducono i sequestri di marijuana del 14%, le mafie perdono almeno 100 milioni di euro. Siria. Hevrin Khalaf, paladina dei diritti umani, violentata e lapidata per strada di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 14 ottobre 2019 L’attivista uccisa in un agguato. Sotto accusa milizie pro Ankara. Sono andati quasi tutti i massimi esponenti politici e militari curdi ieri al suo funerale a Derek, un villaggio lungo il confine con l’Iraq. Nonostante la guerra, nonostante Rojava sia a rischio di essere sconfitta per sempre dall’esercito turco assieme ai suoi alleati tra le milizie sunnite siriane, alcune di esse in odore di qaedismo, non era possibile non renderle un ultimo saluto. Così, la 35enne Hevrin Khalaf ha ricevuto l’estremo addio con tutti gli onori. La sua morte due giorni fa sulla strada tra Hasakah e Qamishli è stata una crudele cartina al tornasole di quanto l’intera regione sia destabilizzata e sull’orlo del collasso. Curda, donna forte, attivista per la difesa dei diritti civili, impegnata a garantire i deboli. La conoscevano tutti tra Qamishli, Kobane e Raqqa. Aveva imparato l’inglese sin da giovanissima, era diventata ingegnere, quindi si era impegnata ad aiutare le donne. Amava la politica a tempo pieno. “Era sempre presente alle riunioni con le delegazioni straniere. Elegante, sobria, teneva rapporti diretti con i diplomatici americani ed europei”, raccontano i suoi collaboratori. I social media locali rivelano dettagli terrificanti, con foto crude. Secondo alcuni pare sia stata vittima di un’imboscata ben pianificata. Doveva partecipare a una riunione ad Hasakah con alcuni attivisti del suo nuovo partito, di cui era anche segretaria generale, il “Partito Siriano del Futuro”. Ma la sua macchina è stata presa di mira a colpi di mitra. Assassinati subito l’autista e un suo collaboratore. Lei trascinata giù dalla vettura, forse violentata, prima di essere uccisa a pietrate. Una lapidazione vera e propria. I curdi accusano le milizie arabe mercenarie di Ankara. I comandi turchi negano, affermano di non essere neppure arrivati così nel profondo di Rojava. Ma le cronache delle ultime ore provano il contrario. Ispirati dai turchi, i miliziani dell’Isis, i jihadisti arabi, lo stesso regime di Damasco, alzano la testa. I curdi sono sulla difensiva. Non si capisce più quali strade siano sicure e quali no. E nella terra di nessuno tutto diventa possibile. Anche assassinare una giovane donne innamorata della libertà e dei diritti umani. Siria. Evasi 100 detenuti, donne imparentate o affiliate allo Stato Islamico e i loro figli sicurezzainternazionale.luiss.it, 14 ottobre 2019 Sono scappati da un campo adibito a prigione e sorvegliato dalle forze di sicurezza curde siriane nel nord del Paese. A renderlo noto è stato l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, il quale ha citato fonti interne al campo di Ain Issa, situato a nord di Raqqa. Il direttore dell’Osservatorio, Rami Abdulrahman, ha aggiunto che all’interno della struttura vige al momento uno “stato di anarchia”. Anche l’amministrazione locale a guida curda ha confermato che alcuni membri delle famiglie dell’Isis sono riusciti a evadere dal luogo, spiegando che hanno approfittato di alcuni bombardamenti causati dall’avanzata dell’offensiva turca nei dintorni. Gli ufficiali curdi hanno spiegato che, a causa della campagna militare lanciata da Ankara, le abilità delle loro truppe di pattugliare le carceri sta venendo a mancare, e ciò rischia di scatenare l’inizio di un’ondata di evasioni dalle carceri, occupate in massima parte di jihadisti. Le autorità in questione hanno commentato che la situazione rappresenta una vera e propria fonte di “sostegno a una nuova emergenza dell’Isis”. In questo contesto, domenica 13 ottobre, un comunicato pubblicato dall’Ufficio per la Coordinazione degli Affari Umanitari delle Nazioni Unite (Ocha) ha reso noto che sono oltre 130.000 le persone sfollate dalle aree rurali intorno a Tel Abyad e Ras al Ain, le due cittadine siriane nord-orientali di confine prese di mira dall’offensiva guidata da Ankara. Oltre a ciò, l’Ocha ha stimato che, al momento, circa 400.000 civili siriani nella zona di conflitto hanno bisogno di aiuti umanitari e protezione. Quello di domenica non è il primo fenomeno di agitazione nelle carceri dei prigionieri dell’Isis. Già in precedenza, nella notte tra sabato 11 e domenica 12 ottobre, un’autobomba era esplosa in una prigione in cui sono detenuti alcuni militanti dello Stato Islamico, nella città di Hasaka, nella Siria nord-orientale. Inoltre, venerdì 10 ottobre, i membri delle Sdf avevano reso noto che 5 militanti dello Stato Islamico erano riusciti a evadere da un carcere situato a Qamishli, dopo l’esplosione di un ordigno turco nei dintorni. Nella medesima giornata, e nella stessa regione siriana, alcune donne affiliate all’organizzazione terroristica avevano attaccato ufficiali di sicurezza con pietre e bastoni durante violente agitazioni verificatesi presso un campo dove militanti islamici erano detenuti. La Tunisia elegge presidente il giurista anti-corruzione Kais Saied di Gabriella Colarusso La Repubblica, 14 ottobre 2019 Batte con oltre il 75% dei voti il rivale Nabil Karoui. “Ringrazio i giovani che hanno aperto una nuova pagina”. Kais Saied, il professore di diritto costituzionale che fino a un anno fa era sconosciuto anche ai più accorti analisti politici tunisini, è il nuovo presidente della Tunisia. “Ringrazio i giovani che hanno aperto una nuova pagina” nella storia del Paese, ha detto ieri subito dopo l’elezione. Sessantuno anni, in pensione da poco, è stato eletto al secondo turno delle presidenziali con un’ampia maggioranza, oltre il 76,9% dei voti, battendo Nabil Karoui, un uomo d’affari molto potente in Tunisia, considerato una specie di Berlusconi tunisino per via dei suoi interessi nel settore dei media (è proprietario della principale televisione privata del Paese, Nessma tv). Karoui ha passato gran parte della campagna elettorale in carcere: era stato arrestato a fine agosto con l’accusa di riciclaggio, frode finanziaria e corruzione. Entrambi erano considerati candidati anti-establishment, populisti. Il neo presidente, Saied, ha condotto una campagna elettorale molto sobria - i media l’hanno soprannominato Robocop per il suo modo di parlare un po’ rigido, sempre in perfetto arabo classico - con pochi soldi e nessun partito politico tradizionale alle spalle, anche se ha poi avuto il sostegno di Ennhada (Movimento per la rinascita), il movimento islamico moderato che ha conquistato la maggioranza dei seggi alle recenti elezioni parlamentari, e di una parte della sinistra tunisina. “Cercheremo di costruire una nuova Tunisia”, ha detto, stoico, di fronte alla sua famiglia e alla stampa dopo la proclamazione dei risultati. “Conosco l’entità della responsabilità”. La sua campagna contro la corruzione e contro il sistema politico tunisino ha conquistato il consenso di molti nel Paese, soprattutto nelle periferie e nell’entroterra tunisino, più colpito dalla crisi economica, ma ha anche spaventato laici e minoranze per le posizioni ultra conservatrici di Saied sul piano sociale, vicine all’islamismo più radicale. Il neo presidente si è detto favorevole alla pena di morte, contrario ai diritti delle persone omosessuali e alla pari eredità per uomini e donne. Durante i suoi discorsi pubblici, ha espresso spesso molto scetticismo nei confronti della democrazia parlamentare e vorrebbe riformare le istituzioni tunisine introducendo elementi di democrazia diretta e decentralizzando il più possibile i poteri dello Stato. Iperfederalista in patria, e sostenitore del panarabismo in politica estera. “Il potere deve appartenere direttamente alle persone”, ha detto. Ma con il Parlamento e i suoi rappresentanti Saied dovrà fare i conti, considerato che la Costituzione tunisina che anche lui ha contribuito a scrivere affida al presidente poteri limitati.