Nel carcere di Parma, una intensa giornata di formazione per i giornalisti Ristretti Orizzonti, 13 ottobre 2019 Si è svolta venerdì 11 ottobre nel teatro del carcere di Parma una giornata di formazione per i giornalisti organizzata dalla locale redazione di Ristretti Orizzonti e dalle due associazioni “Per ricominciare” e “Verso Itaca”, in collaborazione con l’Ordine dei Giornalisti dell’Emilia Romagna. “Verità e riconciliazione. Giornalisti, magistrati, esperti, vittime e autori di reato si interrogano sul senso delle parole”, questo il tema su cui si sono confrontati alcuni redattori ristretti e gli ospiti presenti all’incontro. Dopo il saluto del vice-direttore dell’istituto Lucia Monastero, Ornella Favero ha introdotto i lavori della giornata con alcune puntuali notazioni sul recentissimo parere della Corte Europea dei Diritti Umani in merito all’ergastolo ostativo e sulla “mala informazione” prodotta nell’occasione da numerosi organi di stampa italiani. A seguire la testimonianza di Claudio Conte condannato al fine pena mai, ristretto in carcere a 19 anni e chiuso da ormai un trentennio, laureato in Giurisprudenza con una tesi sull’ergastolo. Sono, quindi, intervenuti i due giornalisti Chiara Cacciani della Gazzetta di Parma e Danilo Paolini responsabile della redazione romana di Avvenire. Introdotti, poi, da Carla Chiappini da tre anni impegnata nella redazione di Ristretti - Parma, hanno portato la loro testimonianza sul tema delicato della verità e della riconciliazione nei confronti delle istituzioni, Salvatore Fiandaca e Giovanni Mafrica condannati all’ergastolo e Arek giovanissimo “messo alla prova”. A seguire sono intervenute due figure istituzionali: il magistrato Riccardo De Vito che ha spiegato con estrema chiarezza la sentenza Cedu, soffermandosi sulla questione della incompatibilità costituzionale dell’ergastolo ostativo e Luigi Pagano già direttore di San Vittore, provveditore e vice-capo Dap, che ha sottolineato l’impegno per ridurre il sovraffollamento a seguito della notissima “sentenza Torreggiani” e la solitudine in cui il Dipartimento si è trovato a operare in quell’occasione. Claudia Francardi, moglie di un carabiniere ucciso nell’aprile del 2011, ha dato parola al dolore e al coraggio di una vittima che ha intrapreso con Irene, mamma del giovanissimo omicida, un percorso di avvicinamento, di reciproco ascolto e infine di autentica amicizia. Dopo alcune domande, è una persona ristretta a pronunciare le parole più inattese: - Io sento vergogna per quello che ho fatto. - Nel pomeriggio sono proseguiti i lavori, approfondendo in modo particolare il tema della mediazione con Maria Pia Giuffrida già dirigente del Ministero della Giustizia, ora presidente dell’associazione Spondé, e Loredana Genovese psicoterapeuta e mediatore penale formato secondo il modello umanistico. I loro interventi sono stati introdotti dalla testimonianza sempre molto coinvolgente di Lucia Annibali, avvocato, vittima nel 2013 di un attacco da parte dell’ex compagno che l’ha fatta sfigurare con l’acido, e dalle parole di tre persone condannate all’ergastolo componenti la redazione di Parma: Gianfranco Ruà, Tonino Lo Russo e Nino Di Girgenti. Una giornata molto densa, chiusa da alcune parole di restituzione da parte dei giornalisti partecipanti al seminario e dall’auspicio conclusivo di Ornella Favero rispetto al prossimo pronunciamento della Corte Costituzione sull’ergastolo, atteso per il 22 ottobre. Tra ergastolo ostativo e sadismi di Gabriella Imperatori Corriere di Verona, 13 ottobre 2019 Dalla conferma da parte della Corte Europea per i Diritti Umani della condanna all’Italia per il persistere dell’ergastolo ostativo, il dibattito si è fatto più polemico e incandescente. L’ergastolo è di per sé una condanna che alcuni paragonano a una prolungata pena di morte, ma quello ostativo (che “osta”, cioè si oppone a qualsiasi modifica) è molto degradante, perché vìola la dignità della persona, sia pur rea de terribili delitti come quelli di mafia e terrorismo, e potrebbe essere considerato incostituzionale (su questo si esprimerà la Consulta), perché il carcere ha lo scopo di una possibile redenzione del colpevole e non solo quello afflittivo. Di fatto, chi è condannato a questo tipo di ergastolo, nato come misura eccezionale dopo le grandi stragi mafiose ma divenuto permanente, non può usufruire di alcun beneficio penitenziario (permessi, semilibertà, affidamento ai servizi sociali…). È invece murato vivo, col destino di essere per sempre una sorta di bestia chiusa in gabbia, a “marcire in cella”, come auspicano alcuni nostri politici e i loro seguaci. Anche se fosse vittima di un errore giudiziario e perciò si dichiarasse innocente. È possibile? Magari raro, ma possibile sì, com’è stato possibile, in America, che siano stati condannati alla pena capitale Sacco e Vanzetti, e non solo loro. È comunque importante sentire le vive voci dei condannati. Nel Veneto, il “Due Palazzi” è considerato un carcere modello, dove si cerca di redimere i detenuti attraverso lo studio, il lavoro, la semilibertà. Esempi ce ne sono tanti, e chi ha frequentato degli eventi in questa prigione ha potuto constatare l’abilità culinaria degli apprendisti pasticcieri, i risultati scolastici di chi ha conseguito diplomi o lauree, la collaborazione alla rivista “Ristretti orizzonti” che permette di far conoscere la vita carceraria e di esprimersi. Però ci sono eccezioni, specie per gli ergastolani che sono circa 70, di cui una decina gli ostativi. Fra questi Carmelo Musumeci, da vent’anni dietro le sbarre per gravissimi delitti, ma che nel frattempo s’è laureato in Giurisprudenza e ha scritto libri fra cui un racconto per bambini prefato da Margherita Hack. Ora, dopo la permanenza in altre carceri fra cui l’Asinara, s’è fatto promotore di un referendum per abolire l’ergastolo, cioè “la pena di morte viva” come recita il titolo della sua tesi di laurea, dopo aver scritto all’allora presidente Napolitano una lettera in cui chiedeva provocatoriamente di commutargli l’ergastolo in pena di morte. Ma quando i giornalisti del “Fatto” sono arrivati a incontrare i detenuti, gli fu negato di scendere fra loro, per punizione, essendosi ribellato a una misura del Dap (Dipartimento di amministrazione penitenziaria). Altri detenuti hanno rivelato di soffrire di autolesionismo, o sentono di star perdendo la ragione. Eppure la magistratura è divisa fra chi dichiara incostituzionale l’ergastolo ostativo e chi vuole mantenerlo, per evitare il rischio che i capimafia ergastolani conservino il potere di comando dietro le sbarre, e affermando inoltre che senza l’ergastolo ostativo con ci sarebbero stati progressi nella lotta alle mafie. E anche questo può essere vero. Sappiamo peraltro che la pena può essere ridotta a chi collabora con la giustizia. Ma c’è chi rifiuta, e occorre chiedersi il perché. Ebbene, può farlo perché non pentito, per non tradire o per rendere immortale la mafia, per paura di terribili ritorsioni sui familiari. In ogni caso, senza spingersi agli eccessi di Paesi che come la Norvegia puniscono con pene inadeguate anche i colpevoli di strage, non si dovrebbe mai arrivare a forme di grande o piccolo sadismo, come quello raccontato da un detenuto a cui era stato rifiutato un libro richiesto (“Il nome della rosa”). Avrà avuto in compenso il permesso di leggere Topolino. Bugie e ipocrisie contro la sentenza sull’ergastolo di Carmelo Sardo buttanissima.it, 13 ottobre 2019 Come fa a recuperarsi e a essere restituito alla società un detenuto che dovrà stare in galera fino a quando non sarà morto? La politica non tiene conto che perfino il peggiore dei criminali possa ravvedersi. Ci sono argomenti sui quali, senza una approfondita conoscenza, a pronunciarsi si rischia di annaspare nella più disarmante ignoranza e si finisce per dare in pasto, a chi è facile all’abbindolamento, teorie populistiche e facili retoriche fasulle, ingozzando chi all’intelletto che latita rimedia con ragionamenti di pancia. Prendiamo la notizia di questi giorni che riguarda l’ergastolo ostativo e la sonora bocciatura che ha subìto l’Italia ad opera della Corte europea dei diritti dell’uomo. Che cos’è intanto l’ergastolo ostativo, o il cosiddetto articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario? È il carcere a vita, nel vero senso della parola. Il fine pena mai. O meglio: una data di scadenza la pena ce l’ha: il 31 dicembre 9999; sì, 9999: non è un refuso. E lungo tutta la detenzione, il condannato non potrà chiedere - attenzione, chiedere, non ottenere, non lo potrà neppure chiedere- un permesso, nemmeno di un’ora; figuriamoci la semilibertà, o men che meno la libertà condizionale. Insomma, chi viene condannato all’ergastolo ostativo uscirà dalla cella solo dentro a una bara, quando sarà morto. Questa forma di condanna è stata introdotta in Italia, unico paese europeo a contemplarla, dopo la strage di Capaci per dare una risposta forte ai boss. Si disse che si trattava di una legge temporanea, ma dopo 27 anni è ancora lì. A chi viene applicata l’ostatività? A tutti quei condannati per reati di mafia, di terrorismo, di sequestro di persona a scopo estorsivo, non necessariamente ergastolani. Attenzione, una strada per evitare l’ostatività c’è: collaborare con la giustizia, come hanno fatto molti carnefici di cosa nostra, e come ha fatto Giovanni Brusca, non esattamente uno qualsiasi, ma l’uomo che ha ucciso e sciolto nell’acido il piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio undicenne del pentito Santino; ma è anche colui che premette il pulsante del telecomando che azionò il tritolo che fece saltare in aria Falcone, la moglie e tre agenti della scorta. Brusca ha collaborato, seppur in ritardo e a spizzichi e bocconi, e da allora ha ottenuto un’ottantina di permessi per uscire dal carcere per alcuni giorni. Giusto così si dirà, lo prevede la legge. Ma tutti coloro che per un motivo o per un altro, soprattutto per evitare ritorsioni ai danni dei familiari, hanno scelto di non collaborare, si sono beccati il carcere a vita, senza poter usufruire di alcun beneficio. Giusto così, si dirà, lo prevede la legge. Peccato che la legge cozzi contro quanto prevede la nostra costituzione secondo la quale, all’articolo 27, chiunque abbia sbagliato, di qualunque reato si sia macchiato, ha diritto a una detenzione umana, che lo possa riabilitare e recuperare. Ora, ragionate con me. Come fa a recuperarsi e a essere restituito alla società un detenuto che dovrà stare in galera fino a quando non sarà morto? Non vi sembra un’incongruenza? Eppure il carcere dovrebbe servire proprio a questo no? A recuperare chi ha sbagliato. Chiediamoci allora se non siano tutti ammattiti quelli della corte Europea dei diritti dell’uomo che hanno prima accolto il ricorso di un detenuto ostativo, Marcello Viola, che si lamentava proprio di questo, di non avere una speranza, di subire una detenzione inumana, e poi ha rigettato il ricorso del governo italiano. E chiediamoci se non siano rincitrulliti anche quei fior di magistrati, di ex magistrati, di docenti universitari, di scienziati, di professionisti, tutto quel fronte insomma che da anni si batte contro l’ergastolo ostativo. Una battaglia che si erano intestate personalità come Marco Pannella e Umberto Veronesi. E ora che succede? Ecco, è qui il punto. Sulla scorta della decisione della Corte dei diritti dell’uomo, si sono levate altissime le voci di dissenso della politica, di certa politica. Trasversalmente, a dire il vero. E la maggior parte dei politici, che cosa ha fatto? Ha sbandierato, annegando nella retorica e nella demagogia, i vessilli dell’antimafia per difendere il 4 bis, l’ergastolo ostativo appunto. Dicendo cosa? Dicendo che è stato voluto da Falcone (falso, è stato adottato con il disegno di legge 8 giugno 1992 n.306 e Falcone era morto da due settimane); che è l’unico baluardo contro i boss (falso, le mafie continuano a prosperare e agiscono subdolamente sotto traccia, in giacca e cravatta); che ora usciranno tutti i mafiosi (falso, uscirà solo chi lo merita, a discrezione del giudice). Ma su quest’ultimo punto va fatto un ragionamento più documentato, cosa che nessuno dei politici che si sono pronunciati in queste ore, ha fatto, per ignoranza, o per opportunismo politico. Qual è la verità? Semplice. La verità che nessuno dice è che se venisse abolito il 4 bis, o comunque rivisitato per non essere più tacciato di anticostituzionalità, la grande novità consisterebbe nel fatto che tutti gli oltre 1.200 detenuti ostativi sepolti nelle nostre carceri, potrebbero chiedere al giudice di sorveglianza un permesso, la semilibertà o altri benefici. Potrebbero chiederlo, non ottenerlo! Badate bene. Per chiederlo, un ergastolano dovrà aver scontato almeno 26 anni di carcere, ventisei! Non solo. Dovrà presentare al giudice le cosiddette sintesi in cui dimostri di essere cambiato, di essere recuperato. Queste sintesi le scrivono i direttori delle carceri sulla base delle valutazioni di assistenti sociali, psicologi, e di tutte quelle figure professionali che operano negli istituti di pena con questo compito: recuperare chi ha sbagliato! Quando al giudice arriverà la richiesta con tutta la documentazione la valuterà e solo dopo potrà decidere se e quale beneficio concedere. Ora, immaginate Totò Riina se fosse ancora in vita e chiedesse un permesso: secondo voi, obiettivamente, un giudice lo accoglierebbe? Come potrebbe dimostrare di essersi recuperato se nelle ore d’aria veniva intercettato mentre parlava con un altro detenuto e gli diceva che al Pm Di Matteo avrebbe fatto fare “la fine del tonno”? Capite quindi che un’eventuale abolizione del 4 bis non spalancherebbe le porte del carcere “a tutti i boss”? Eppure, in queste ore, molti politici, e perfino molti magistrati che pur dovrebbero saperlo, si lanciano in affermazioni di questo tenore. Prendete il presidente della commissione parlamentare antimafia, il senatore del M5s Nicola Morra. In una lunga dichiarazione pubblicata sui suoi social afferma addirittura che “in Italia l’ergastolo non c’è più”, peccato lo faccia commentando appunto l’ergastolo ostativo, il carcere a vita. Non solo. Morra da’ per scontato che usciranno dal carcere pressoché tutti i mafiosi e dice che coloro i quali hanno un’età ancora “di vigore fisico”, torneranno a delinquere, ad organizzare perfino nuove cosche. Non solo. Sempre Morra teme che il pronunciamento della Corte Europea dei diritti dell’uomo metta a rischio anche il 41 bis, che è cosa diversa dall’ostatività, è il cosiddetto “carcere duro”, quando invece costituzionalisti di livello hanno già escluso questa evenienza. E con Morra, anche i Salvini, i Di Maio, le Meloni, e molti altri, si sono pronunciati contro la decisione della Cedu che “non sa cosa significhi combattere la mafia”. Con buona pace dei principi enunciati dai nostri padri costituzionalisti, questi signori non tengono minimamente in conto che perfino il peggiore dei criminali possa ravvedersi dopo un quarto di secolo di galera e possa prendere coscienza dei propri errori e dei propri orrori, e diventare un uomo nuovo. Vorrei sommessamente invitare il senatore Morra, ma anche tutti coloro che ne parlano senza conoscere, ad andare nelle carceri italiane ad incontrare alcuni di questi ergastolani ostativi. Gli suggerisco per esempio di andare a parlare con uno degli assassini del giudice Rosario Livatino si chiama Gaetano Puzzangaro, vada a vedere che uomo è diventato oggi. Puzzangaro è rinchiuso da 26 anni, si trova nel carcere di Opera, e già che c’è, sempre a Opera chieda di parlare con Giuseppe Grassonelli che era analfabeta e ha preso una laurea (le consiglio di leggere il libro che ho scritto con lui a quattro mani “Malerba” Mondadori editore); chieda di parlare con Alfredo Sole, che di lauree ne ha due; con Orazio Paolello, con Domenico Pace, con Paolo Amico; erano tutti ventenni quando sparavano e ammazzavano nelle guerre di mafia che insanguinarono la Sicilia, erano ignoranti, non capivano; oggi sono uomini, sono altro: li vogliamo far morire in galera? Se poi qualcuno volesse completare questo percorso di conoscenza diretta prima di pronunciarsi a vanvera sull’ergastolo ostativo, vada a incontrare Carmelo Musumeci: è un ex ergastolano ostativo. Ex perché dopo quasi trent’anni di carcere, è uscito con la libertà condizionale. Lavora in una comunità e ha il sorriso più buono che abbia mai visto sulla faccia di un uomo. Gli ho telefonato il giorno della “sentenza” della Grande Camera della Cedu, era felice e speranzoso che altri, come lui, che si sono recuperati, possano tornare liberi di rifarsi una vita e mi ha detto che “la mafia non si combatte con il fine pena mai, perché è una pena di morte lenta che distrugge le menti e lacera i corpi”. Lo ha detto di recente anche Papa Francesco all’Angelus: “Bisogna rendere le carceri luoghi di recupero e non polveriere di rabbia”. Conosco decine e decine di ergastolani ostativi. Ho parlato con loro nei numerosi incontri che ho avuto nelle carceri italiane. So chi sono, cosa hanno fatto e so cosa sono diventati, come si sono trasformati. Giuseppe Grassonelli un giorno mi ha detto “non ho scelto di collaborare con la giustizia non tanto e non solo per evitare ritorsioni contro la mia famiglia, ma perché credo sia un ricatto dello Stato “fammi i nomi dei tuoi complici, imprigioniamo loro e liberiamo te”. No, io non ci sto a questo baratto. Io ho sbagliato ed è giusto che paghi la mia pena fino in fondo. Ma io non sono più quello che ero. Io non sono il reato che ho commesso”. Andate a conoscerli i “pericolosi” ergastolani ostativi, per poterne parlare. Mellano: “Anche ai peggiori delinquenti dev’essere garantita una speranza” di Gabriele Massaro lavocediasti.it, 13 ottobre 2019 L’esponente politico ha commentato positivamente il pronunciamento della Corte Europea per i diritti umani, che ha invitato l’Italia a modificare la norma sull’ergastolo ostativo. A margine della presentazione del corso di gestione dei conflitti tra agenti di Polizia Penitenziaria e detenuti, presentato ieri mattina ad Asti, abbiamo chiesto all’On. Bruno Mellano, Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, un commento in merito al recente pronunciamento con il quale la Grande camera della Corte europea per i diritti umani (Cedu), con sede a Strasburgo, ha invitato l’Italia a rivedere la sua legge che regolamenta il cosiddetto ergastolo ostativo. Pena inflitta principalmente a persone macchiatesi di reati di tipo mafioso. È una sentenza molto importante e attesa. Debbo dire che come Garanti l’avevamo in qualche modo anche auspicata, cercando di far aumentare la consapevolezza su cosa vuol dire nella pratica “ergastolo” nel nostro Paese. Io stesso, due anni fa, ho organizzato in Regione Piemonte un importante convegno giuridico su questo tema. Perché c’è un po’ la percezione comune che in Italia non esista l’ergastolo. Mentre in realtà i dati ci dicono che al momento abbiamo in Italia circa 1.800 persone condannate all’ergastolo e, di queste, oltre due terzi sono condannate all’ergastolo ostativo, cioè fine pena mai. Che una norma la quale prevede il “fine pena mai” sia difficilmente compatibile con l’art. 277 della Costituzione che afferma che la pena deve essere rivolta al reinserimento e alla rieducazione è abbastanza evidente. In più, come affermava anche Santi Consolo, precedente capo dell’Amministrazione Penitenziaria che è anche stato magistrato che ha comminato parecchie sentenze molto pesanti a carico di mafiosi, il quadro giuridico è profondamente mutato in questi anni con varie riforme dell’Ordinamento Penitenziario e relative norme in deroga. Per cui, mentre all’inizio c’era compatibilità giuridica dell’ergastolo con il quadro normativo, è sempre più venuta meno con il passare del tempo. La Costituzione dice che anche ai peggiori delinquenti occorre dare una speranza, una luce in fondo ad un percorso. Poi il percorso deve essere individuale, serio e monitorato, ma deve venir meno il meccanismo automatico che attualmente non permette al magistrato di valutare il cambiamento della persona. Per queste ragioni la decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo è particolarmente importante. Aggiungo che siamo in attesa fiduciosa anche rispetto al 22 ottobre, quando sarà la Corte Costituzionale italiana chiamata a valutare l’articolo 4bis, che è quello inerente l’ostatività. Ovvero quel meccanismo per cui, se uno ha compiuto un determinato tipo di reato, non può mai ambire a benefici e attività trattamentali esterne al carcere. Come Garanti abbiamo sempre auspicato che, così come il magistrato può scegliere in autonomia e indipendenza, di comminare un certo tipo di pena piuttosto che un altro, deve venir posto in condizioni di poter farsi liberamente un convincimento sul percorso individuale del detenuto e valutare caso per caso. Si tratta di abolire dei meccanismi automatici e di rimettere in testa al magistrato competente la libertà di valutare. Che poi, soprattutto per quanto concerne la Regione Piemonte, non abbiamo una magistratura di sorveglianza particolarmente “buona” o “buonista”. Per cui la responsabilità sarà sempre del magistrato: dall’ergastolano all’ultimo tossicodipendente accusato magari di reato di droga, che ha reato ostativo perché il reato compiuto viene assimilato a quelli di criminalità organizzata. Poliziotti e carceri, allarme suicidi: 25 casi nel 2019 di Cristiana Mangani Il Messaggero, 13 ottobre 2019 Nasce un osservatorio permanente. Il Sindacato Sappe: “servono medici e psicologi”. È successo anche qualche giorno fa: un assistente capo della Polizia penitenziaria di 53 anni, con un lungo periodo di lavoro nel carcere di Piacenza, si è tolto la vita impiccandosi vicino alla cantina di casa. Prima di lui, l’estate scorsa, a Pisa, un agente scelto di soli 30 anni, si è ucciso una domenica pomeriggio in casa dei genitori. E il bollettino di una guerra di dolore, stress fisico e psicologico, è ogni giorno più pesante: 3, 5,10, il numero aumenta di continuo, tanto da diventare un vero allarme sociale per l’intera categoria. Sono già circa 25 i suicidi nel solo 2019 degli appartenenti alle Forze dell’ordine. Una media che cresce e preoccupa. Il dato doppia quello relativo ai suicidi nell’intera popolazione, e sono soprattutto poliziotti e agenti penitenziari a togliersi la vita. Per 1’88 per cento con la propria pistola di ordinanza. Il Sindacato autonomo della Penitenziaria ne sta facendo una vera e propria battaglia sociale. “Sembra davvero non avere fine il male di vivere che caratterizza gli appartenenti al Corpo - dichiara Donato Capece, segretario generale del Sappe - Quel che è certo è che sui temi del benessere lavorativo l’Amministrazione e il ministero della Giustizia sono in colpevole ritardo, senza alcuna iniziativa concreta”. Capece ritiene che sia “un luogo comune pensare che lo stress lavorativo sia appannaggio solamente delle persone fragili e indifese”“. “Il fenomeno - aggiunge - colpisce inevitabilmente anche quelle categorie di lavoratori che almeno nell’immaginario collettivo ne sarebbero esenti, ci riferiamo in modo particolare alle cosiddette “professioni di aiuto”, dove gli operatori sono costantemente esposti a situazioni stressogene. Vorrei fare un appello al guardasigilli Bonafede: “se ci sei, batti un colpo!”. Servono soluzioni concrete. Come anche hanno evidenziato autorevoli esperti del settore, è necessario strutturare un’apposita direzione medica della Polizia penitenziaria, composta da medici e da psicologi impegnati a tutelare la salute di tutti i dipendenti”. Prima dell’agente che ha fatto una strage in famiglia e si è sparato, era successo in Calabria, e poi ancora a una agente donna nel Nord Italia. Tutte persone che non avevano mai manifestato particolari disagi. Impossibile individuarli e aiutarli. La Penitenziaria è tra le più esposte alle situazioni di disagio, ma ugualmente accade con la polizia di Stato, tanto che il prefetto Gabrielli ha costituito un Osservatorio permanente interforze proprio sul fenomeno suicidario nel Corpo. E la scelta è innovativa, soprattutto perché la prassi è sempre stata “lavare i panni sporchi in famiglia”. L’Italia, comunque, non è la sola a soffrire di questo allarme, perché dati anche più preoccupanti arrivano da Francia e Spagna, dove il fenomeno è in grandissimo aumento. In oltre - come chiariscono dall’Associazione Cerchio blu dove è stato creato un Osservatorio dei suicidi nelle Forze dell’ordine, “contrariamente a quanto accade nel resto della popolazione, c’è una quasi totale assenza di tentati suicidi, perché essere in possesso di un’arma da fuoco non dà scampo”. Giornata dell’educazione in carcere: intervista al professor Simone Zacchini di Chiara Genovese periodicodaily.com, 13 ottobre 2019 Oggi ricorre la Giornata Internazionale dell’Educazione in Carcere. Per l’occasione, abbiamo avuto il privilegio di intervistare il professor Simone Zacchini, docente di Storia della Filosofia presso l’Università degli Studi di Siena e da anni impegnato nel campo dell’insegnamento nelle carceri, argomento sul quale ha scritto diversi testi. Quanto e perché è importante la formazione all’interno di un carcere? Il carcere è un sistema non solo punitivo per i trasgressori, ma anche riabilitativo. Il tempo della pena è commisurato non solo al danno, ma anche al tempo necessario alla riabilitazione per tornare in società. Così la funzione del carcere è sostanzialmente rieducativa, fin da quando, a fine Settecento, il supplizio di tradizione medievale è stato sostituito dall’Istituzione Carceraria. Come si svolge l’attività didattica all’interno di un carcere? In carcere, le due fondamentali attività rieducative sono la scolarizzazione e l’insegnamento di un lavoro. Io ho svolto attività integrativa, con un progetto di filosofia. I corsi sono volontari? Vi è molta affluenza? I miei corsi sono volontari, ma partecipano sempre tutti. C’è una differenza nell’apertura ai nuovi apprendimenti tra i detenuti più giovani e quelli più anziani? E tra uomini e donne? Naturalmente, in carcere uomini e donne sono separati, e spesso in istituti differenti. Io ho svolto attività in una casa circondariale maschile. Il suo lavoro è incentrato in special modo sulla filosofia. Come influisce lo studio delle materie umanistiche sulla visione della legalità (e della vita in generale) di detenuti ed ex detenuti? Ha un impatto importante perché permette di incontrare un modo di pensare e vedere che era totalmente estraneo ai detenuti. Nessuno di loro aveva mai avuto l’opportunità di confrontarsi con certe tematiche e quindi li hanno sia incuriositi che affascinati. Quanto è difficile per il docente “farsi accettare” da una fascia di studenti così particolare? Dipende da come il docente si pone. Non si sopporta tanto volentieri un docente autoritario o arrogante, in un ambiente di privazione di libertà e di sorveglianza totale. Ho cercato di entrare nella loro voglia di mettersi in gioco e di cambiare. La mia attività è stata così accettata benissimo. Quali prospettive si aprono alla persona che esce dal carcere? Quanto e come influisce la formazione nel futuro di un ex detenuto? Dipende. La società intera dovrebbe frequentare corsi di filosofia e invito alla tolleranza. C’è però un atteggiamento di forte chiusura nei confronti degli ex detenuti. Io li invito a non farsi schiacciare dagli stereotipi e a cominciare una vita dove si è sempre soggetto delle proprie scelte e non oggetto del pregiudizio. Tra i suoi campi d’interesse, oltre a storia dell’arte e filosofia, anche la musica ha una grande rilevanza. Adopera la musica nell’approccio all’insegnamento con i detenuti? Quanto e come può influire? Tutte le arti contribuiscono. Anzi, siamo noi a vederle come settorializzate: in realtà, l’arte è unica ed ha la funzione non solo di meravigliare e piacere, ma anche di orientare diversamente il nostro modo di pensare. Per questo è determinante in tutti i contesti. David Ermini: “Processi, senza tempi brevi non si cancelli la prescrizione” di Alberto Gentili Il Messaggero, 13 ottobre 2019 Intervista al vicepresidente del Csm: “I cittadini non possono attendere anni, è negare il diritto”. Ermini non ha dubbi: prima strutture e risorse. E sulla questione morale ammette che “c’è ancora da lavorare, Csm e magistratura sono apparsi deboli”. Vicepresidente Ermini, il plenum del Csm è stato integrato con l’elezione dei giudici Di Matteo e D’Amato. Ritiene rimarginata la profonda ferita inferta dallo scandalo Palamara e dall’inchiesta di Perugia sul tentativo di pilotare le nomine di alcuni procuratori? “No, ancora no, c’è da lavorare ancora parecchio. E il passato non si può e non si deve dimenticare. Ciò che è accaduto deve essere un monito. E poi, sotto l’aspetto numerico, dobbiamo integrare il giudice di merito e provvedere alla nomina, spero prima di dicembre, del nuovo procuratore generale presso la Cassazione”. Dunque la questione morale non è ancora alle spalle… “Va affrontata quotidianamente. La questione morale si supera con una tensione etica e morale continua, di pari passo al nostro lavoro”. Lei ha detto: “Il Csm non va normalizzato”. Cosa intende? “Il Csm e la magistratura sono apparsi deboli all’opinione pubblica a causa delle note vicende. Ma non ritenevo e non ritengo giusto che gli altri poteri dello Stato, in particolare il potere legislativo, possano approvare delle norme che potrebbero diminuire la funzione che la Costituzione assegna e prevede per il Consiglio superiore”. Ha chiesto “un cambio di passo” al Csm. In concreto? “Ho chiesto che le correnti si limitino a svolgere un lavoro di valorizzazione degli ideali e delle posizioni tecnico-giuridico- scientifiche-valoriali, interpretando i diversi modi di concepire il lavoro dei magistrati. Ma se le correnti agiscono per proporre esclusivamente i loro candidati, al di là delle valutazioni di merito, ciò è inaccettabile. È un metodo che non deve più esistere e che va cambiato”. Insomma, i magistrati una volta eletti si devono spogliare delle rispettive casacche? “Esattamente. Del resto lo dice anche la Costituzione: nel momento in cui un giudice entra nel Csm non deve rispondere a chi lo ha eletto. Non esiste alcun rapporto fiduciario. Chi viene eletto nel Csm deve rispondere solo alla legge e alla Costituzione: non si deve scegliere in base alle appartenenze, si deve scegliere il migliore. E se qualcuno questa idea non ce l’ha ancora in testa, farò tutto ciò che è nelle mie possibilità per renderla chiara e indiscutibile. Tanto più che, non essendoci la rielezione, chi entra nel Csm è un uomo libero che non deve cercare consenso. Per la stessa ragione nelle varie votazioni non devono esistere maggioranze precostituire in base all’appartenenza correntizia o politica”. Però il sostegno delle correnti è decisivo per entrare nel Csm, non è perciò semplice spezzare il cordone ombelicale... “In questo Paese bisogna mettersi in testa che esistono le istituzioni e che tutti facciamo parte delle istituzioni. Ci deve essere un senso civico e valoriale che deve prescindere dall’appartenenza a una corrente o a un partito”. Queste sono belle parole e belle intenzioni, ma ha individuato un modo per debellare e sterilizzare l’influenza delle correnti? “Ci sto provando. E devo dire che finora ho trovato nei consiglieri una buona rispondenza. Bisogna però che i consiglieri non si sentano pressati dalle correnti e che le correnti evitino di fare pressioni”. Per la riforma del Csm, il Guardasigilli Bonafede propone il sorteggio. Cosa ne pensa? “È fortemente dubbia la sua costituzionalità, in quanto negherebbe l’elettività e la rappresentatività previste dalla Carta. Sarebbe una sorta di normalizzazione. Cambiamo piuttosto il sistema della rappresentatività: passiamo dal collegio unico nazionale, in cui inevitabilmente le correnti hanno un peso, a piccoli collegi per valorizzare il rapporto tra magistrati e territorio. Così facendo emergerebbero i giudici più bravi e stimati, indipendentemente dall’appartenenza”. Dopo lo scandalo Palamara, è stata interrotta la procedura di nomina del procuratore capo di Roma. Quando pensa che verrà scelto il successore di Pignatone? “Il 22 e il 24 ottobre ci saranno le audizioni dei candidati, cosa che avevo chiesto nel maggio scorso ma mi venne negata. Dopo di che avvieremo le discussioni per la nomina che avverrà in tempi brevi, spero entro la fine di gennaio”. Quali garanzie si sente di offrire che questa nomina, come quelle dei procuratori di Torino e Perugia, avvenga in modo limpido ed esclusivamente in base al merito? “Rispetteremo l’istruttoria in modo chiaro, limpido e trasparente, esaminando i profili dei singoli candidati con grande attenzione. Ciò che è accaduto in passato, non accadrà più. Il Csm deve essere una casa di vetro”. Dal primo gennaio verrà cancellata la prescrizione dopo il primo grado di giudizio. Il Pd chiede che prima vengano fissati tempi certi per la durata dei processi. È d’accordo? “L’approvazione delle leggi appartiene al Parlamento, dunque non ho titolo per intervenire in questa discussione. Il Csm aveva già espresso il proprio parere, a titolo personale affermo che abolire la prescrizione, senza che prima siano stati introdotti strumenti per rendere rapida e certa la durata dei processi, sarebbe sbagliato. A farne le spese sarebbero i cittadini: non solo gli imputati, ma anche le parti offese che non possono attendere anni e anni prima di avere una sentenza. Del resto è la Costituzione a parlare di durata ragionevole dei processi. I processi infiniti sono una negazione del diritto”. Se i processi durano tanto la responsabilità è anche dei magistrati. O no? “Il problema è che non ci sono strutture e risorse. Oltre alle buone leggi bisogna dare ai magistrati gli strumenti, il personale, le aule, per svolgere i processi e smaltire gli arretrati”. Bonafede nelle sue linee guida ha fissato in 4 anni la durata dei processi civili e penali nei tre gradi di giudizio. È un proposito velleitario? “No, è giusto. Bisogna però, come dicevo, potenziare Procure e Tribunali, decidersi una volta per tutte a stanziare le risorse necessarie”. Cosa ne pensa dell’uso del Trojan per le intercettazioni? “Le intercettazioni come strumento investigativo non vanno ridotte: servono a smascherare chi compie i reati. Il problema è la loro diffusione: chi gestisce le intercettazioni, a chi vanno in mano, cosa va a finire nel fascicolo del dibattimento, ciò che può essere diffuso e come si tutela la privacy delle persone che nulla hanno a che fare con il processo ma che finiscono ugualmente per essere distrutte”. Lei in questi mesi ha spesso ha ringraziato Mattarella per il sostegno. Il capo dello Stato svolge in modo effettivo, e non solo formale, il ruolo di presidente del Csm? “Il capo dello Stato segue con grande attenzione, quasi quotidiana, il lavoro del Consiglio. E nei momenti di grande difficoltà a me e ai consiglieri, che ringrazio, Mattarella ha dato una grande spinta e una grande fiducia. È stato un faro e, direi, anche uno scudo”. Abuso d’ufficio, quel castello fragile che non regge ai gradi di giudizio di Andrea R. Castaldo Il Mattino, 13 ottobre 2019 Qual è il sottile legame tra il reato di abuso d’ufficio e la scarsa efficienza dell’operato della Pubblica Amministrazione? Apparentemente nessuno, anzi il primo dovrebbe servire a prevenire e correggere fenomeni di mala-admnistration e così alimentare un circuito virtuoso di best practices. Ma le cose non stanno così. Il risultato, ancorché paradossale, va nella direzione contraria. E allora, andando per ordine, cerchiamo di comprenderne i motivi. Partendo da un dato pacifico, l’ipertrofia legislativo-regolamentare. Il numero sconfinato e sconosciuto della normativa vigente, in perenne e inarrestabile crescita, produce due effetti distorsivi. Il primo, il necessario rinvio a decreti attuativi, demandati a organismi delegati, che vengono alla luce con estremo ritardo; dunque, nella migliore delle ipotesi, creando di fatto un periodo di vacatio, nel quale la norma formalmente esiste, di fatto non può essere attuata. Il secondo, la burocrazia asfissiante che si nutre di un reticolato di disposizioni frammentate temporalmente, non omogenee, di modesta fattura linguistica (a voler essere generosi). Ma sono le stesse norme che dovranno essere applicate nella prassi quotidiana (nell’espletamento delle funzioni o del servizio, per usare un linguaggio da iniziati) dall’agente pubblico. E sono sempre le stesse norme, la cui violazione ricadrà nello spettro di incriminazione dell’art. 323 codice penale. Certo, si obietterà (correttamente) che per la consumazione del reato occorre una trasgressione intenzionale e che tale condotta abbia generato un vantaggio o un danno ingiusti. Ma non è questo il punto. Perché non si tratta di decidere se costui sia innocente o colpevole, ma di chiedersi nell’immediato come reagisca alla spada di Damocle di un’indagine a suo carico e quanto ciò influisca sulla serenità del lavoro. Detto in parole povere: ai suoi occhi non conta tanto il risultato finale, cioè l’esito di un processo che probabilmente si chiuderà in maniera favorevole, ma il processo in sé, ossia l’alea, il disdoro reputazionale, il blocco di carriera, i costi per la difesa. Il rischio di incappare allora in un incidente di percorso genera l’amministrazione difensiva, la fuga dal potere di firma, con l’inevitabile scadimento delle performance. Purtroppo non si tratta di valutazioni affidate a parametri personali, ma dell’esito di ricerche “sul campo”. Un primo sondaggio, consistito nella somministrazione di questionari e interviste ai dipendenti della Regione Campania, ha confermato come la loro stragrande maggioranza (oltre il 60%) si senta condizionata negativamente dalla inquietante presenza dell’abuso di ufficio; percentuali più o meno analoghe si registrano a proposito della reazione di conseguenti ritardi o blocchi nella gestione della pratica, nonché nella difficoltà di comprendere come comportarsi, stante l’oscurità della legge. Una seconda indagine ha riguardato invece la “sorte” dei processi nati per abuso di ufficio nel distretto della Corte di Appello di Salerno nel quinquennio 2014-2018. Ebbene, solo un misero 10% si conclude con una condanna, il resto si perde per strada tra assoluzioni già in sede di udienza preliminare e prescrizioni. Ed è una strada lastricata di durature sofferenze, poiché i tempi sono estremamente lunghi (8-13 anni). Ognuno può pensarla come crede sul perché ciò avvenga, ma tutti saranno d’accordo di fronte all’evidenza: un reato così concepito non intercetta le patologie dell’operato pubblico, anzi crea disfunzioni. Riformare l’abuso nel segno di una profilata selettività della condotta tipica in chiave di reale offensività consentirà risultati positivi in molteplici direzioni. Viva le manette! di Marco Travaglio Il Fatto Quotidiano, 13 ottobre 2019 La nostra copertina dell’altro ieri, sulla bozza del ministro della Giustizia per le manette agli evasori, non è piaciuta a Gad Lerner che è personcina sensibile e l’ha riprodotta su Twitter con un commento affranto: “Manette sbattute così in prima pagina, non c’è buona causa che giustifichi questa perversione. Con tutto quel che succede nel mondo... e ora datemi pure dell’amico degli evasori”. Sotto, com’era prevedibile, una raffica di leggiadre contumelie al sottoscritto e al Fatto Quotidiano (i famosi “hater” e “odiatori” che, quando odiano dalla parte giusta, diventano boccioli di rosa). Insulto per insulto, potremmo rispondere che è quantomeno inelegante, per un giornalista di un gruppo edito da due famiglie fiscalmente a dir poco discutibili, dare del pervertito a chi chiede che gli evasori vadano in galera, come in tutto il mondo civile. Ma non ci abbassiamo a tanto, anche perché non pensiamo che sia la sua frequentazione con editori-evasori a suscitare in Lerner cotanta repulsione per le manette a chi le merita. Non è un fatto personale, ma culturale. Che nasce nei due filoni del pensiero purtroppo dominante, molto diversi fra loro, ma accomunati dall’allergia al senso dello Stato e allo Stato di diritto, cioè per il principio di responsabilità: chi sbaglia paga e chi delinque viene punito. Il primo è quello da cui proviene Gad: quello dei gruppettari di ultrasinistra anni 60 e 70, così abituati a fuggire dalle forze dell’ordine e dai magistrati da non riuscire a liberarsene nemmeno dopo 40-50 anni. L’altro è l’impunitarismo dei ricchi e dei potenti, abituati a una giustizia di classe forte coi deboli e debole coi forti, ai quali Gad è estraneo, ma che nel suo mondo hanno pescato a piene mani per sostenere sui rispettivi giornali le loro battaglie contro la legge uguale per tutti. Queste due culture, che partono dagli antipodi ma si uniscono nella comune avversione alla legalità, si sono saldate negli anni del berlusconismo, quando molti ex-extraparlamentari di sinistra (che già flirtavano con Craxi per la sua guerra ai giudici) si ritrovarono al servizio di B.. Oppure, anche se stavano sulla sponda opposta (come Gad), invocavano continue amnistie e indulti, intimando alla sinistra di guardarsi dalla “via giudiziaria”: pareva brutto che un amico dei mafiosi, un frodatore e un corruttore di giudici, finanzieri, senatori, testimoni e minorenni finisse a processo e poi in galera. Ora, confidando nella smemoratezza sulle stragi politico-mafiose e sulle retrostanti trattative, insigni esponenti di quelle due culture applaudono insieme le sentenze di Cedu e Grande Chambre contro l’ergastolo “ostativo”. Quelle che regalano agli stragisti insperate aspettative di resurrezione. Naturalmente ciascuno è liberissimo di pensarla come gli pare. Ma è davvero paradossale che chi difende la legalità e lo Stato di diritto sia chiamato continuamente a giustificarsi dai sedicenti “garantisti” per il sol fatto di chiedere l’applicazione della legge. I “pervertiti”, caro Gad, non siamo noi: siete voi. Le manette sono uno strumento previsto dalle norme per assicurare alla giustizia i criminali: quelli di strada e quelli in guanti gialli e colletto bianco. Ti dirò di più: negli Stati Uniti, e non solo là, gli evasori e i frodatori fiscali, come i corrotti, i corruttori, i bancarottieri e i falsificatori di bilanci, vengono condannati a pene detentive molto pesanti, che regolarmente scontano nei penitenziari di Stato accanto ad assassini, stupratori, terroristi e trafficanti di droga, non solo con le manette ai polsi, ma anche con le catene ai piedi. Per evitare che scappino o che commettano altri reati (le manette salvano anche vite umane, come ha appena dimostrato la strage alla Questura di Trieste: i due agenti assassinati, se avessero ammanettato il ladro appena fermato, sarebbero ancora vivi). Ma anche perché servano di lezione a chi sta fuori, affinché gli passi la tentazione di delinquere. Perciò, non di rado, arrestati e detenuti - poveracci e white collar - vengono esibiti in manette e in catene: perché le pene, quando sono certe e vere, non finte come da noi, hanno una funzione deterrente prim’ancora che rieducativa. E quella rieducativa dipende anch’essa dalla certezza della pena: se uno sa di poter delinquere facendola franca, non si rieduca mai. Anzi si diseduca vieppiù. Quindi no, non penso affatto che Lerner abbia orrore per le manette perché sia un evasore o un amico degli evasori. Penso che Gad e quelli come lui non abbiano senso dello Stato e non abbiano ancora introiettato il principio di responsabilità che regge lo Stato di diritto, cioè l’unica forma di convivenza civile che trattiene i cittadini dal farsi giustizia da soli come nel Far West. Non vorrei beccarmi altri tweet e insulti. Ma confesso che mi prudono le mani quando ogni anno pago fino all’ultimo euro di tasse e poi penso che, grazie al centrosinistra e al centrodestra, milioni di evasori vivono alle mie spalle senza mai rischiare la galera. E neppure un’indagine, se hanno cura di non superare le soglie di impunità gentilmente offerte nel 2015 da Renzi & C.: 250 mila euro di omesso versamento Iva; 1,5 milioni non dichiarati di frode fiscale; 150 mila euro di dichiarazione infedele; 10% di false valutazioni; 50 mila euro di omessa dichiarazione. Ecco, io questi ladri vorrei vederli in manette (e magari pure in catene), come accadrebbe se queste somme, anziché all’erario, le rubassero in un portafogli, in una borsetta, in un’abitazione, in una banca, in un negozio. Solo le manette possono spaventare gli evasori fino a indurli a rinunciare ai loro enormi guadagni per versare il dovuto allo Stato. Quindi continuerò a pubblicare manette in prima pagina finché non troverò un governo che tratta tutti i ladri allo stesso modo. O lascia rubare tutti, o non lascia rubare nessuno. Se la famiglia di oggi fa più morti della mafia di Antonio Biasi Gazzetta del Mezzogiorno, 13 ottobre 2019 La famiglia “malata” uccide più della mafia. Non è una novità purtroppo, ma una amara constatazione che continua a lasciare sconcertati. La tragedia avvenuta a Orta Nova, nel Foggiano, dove un agente penitenziario ha ucciso la moglie e due figlie (18 e 12 anni) togliendosi poi la vita, è solo l’ultimo di una inesauribile serie di casi. Nei primi 12 giorni del mese ci sono state cinque tragedie che vedono come vittime mogli o compagne, più una sesta nella quale il femminicidio, per fortuna, è stato solo tentato. In media, ogni due giorni una donna viene ammazzata dal compagno di vita, e non di rado, anche i figli della coppia finiscono nel mirino del genitore killer. A Orta Nova un terzo figlio è scampato alla furia del padre perché lavora lontano da casa. Siamo di fronte a un autentico bollettino di guerra che non conosce soste, nonostante le iniziative, anche parlamentari, rivolte a definire nuove figure di reato, aggravanti e, all’avvio di campagne di sensibilizzazione per squarciare il muro di silenzio dietro il quale maturano e poi esplodono le tragedie. Nella fattispecie, il caso di Orta Nova fa scattare l’allarme sulle problematiche psicologiche e relazionali che taluni lavori possono far scaturire o aggravare. Da parte di psicologi e sindacati degli agenti di custodia si fa presente come sia necessario vigilare di più sulle condizioni di salute mentale nei luoghi di lavoro, soprattutto quelli che comportano situazioni di stress dovute a interazioni sociali particolarmente complesse e pericolose. Come pure viene lanciato l’allarme sulle gravose condizioni di lavoro degli agenti penitenziari dovute, oltre che alla natura particolare dell’impiego, soprattutto al sovraffollamento carcerario, con le inevitabili conseguenze di possibili disagi. Proprio l’altro ieri un agente di custodia si è ucciso a Piacenza. Nei giorni scorsi, il Sappe, uno dei sindacati degli agenti di custodia, aveva evidenziato la carenza di personale nel carcere del capoluogo dauno. Non si sa ancora, cosa possa aver scatenato la furia omicida e suicida dell’agente di Orta Nova, però va sottolineato come queste tragedie non conoscano confini. Riguardano ogni ambito sociale e lavorativo e colpiscono indifferentemente da Nord a Sud. Quindi sarebbe errato circoscrivere al lavoro dell’agente la fonte della tragedia, per quanto possa aver funzionato come aggravante. Resta insoluto il problema di come prevenire la mattanza. Non tutti i drammi hanno campanelli d’allarme o manifestano i cosiddetti “reati spia”: stalking, maltrattamenti, percosse, violenze sessuali. Nel caso di Orta Nova chi conosceva l’agente di custodia lo descrive come taciturno, forse un po’ troppo chiuso in se stesso, ma non sembra che quanto accaduto possa essere ascritto alle cosiddette “tragedie annunciate”: tante volte si riscontrano tutti i “sintomi” di quello che poi drammaticamente viene ad accadere. Ma a volte, come ad Orta Nova, non è così. E l’esplosione di violenza colpisce come un fulmine a ciel sereno. Ma, almeno nei casi in cui il processo di degenerazione dei rapporti familiari si evidenzi chiaramente, come non di rado avviene nelle separazioni particolarmente conflittuali, almeno in quei casi sarebbe possibile intervenire. Qui, però, anche le iniziative legislative messe in atto, come il Codice rosso sulla violenza di genere, vanno a cozzare contro le carenze di organico e strutturali di chi dovrebbe intervenire. Chiedere aiuto e segnalare il disagio psicologico, proprio o di chi è vicino, non sempre riesce a evitare i drammi, ma resta ancora l’unica strada per cercare di prevenire lo scoppio della violenza. In attesa di una maturazione delle coscienze, auspicabile, ma difficilmente prevedibile. La strage delle pistole d’ordinanza tenute in casa di Edoardo Venditti e Mattia Giusto Zanon Il Manifesto, 13 ottobre 2019 La distanza psicologica dell’arma. Una “dinamica delittuosa” con numeri in forte in crescita, anche in Italia. È successo di nuovo. A Orta Nova, in provincia di Foggia, intorno alle due di sabato si è consumata l’ennesima tragedia con armi legalmente detenute. L’agente di polizia penitenziaria Cirio Curcelli, 53 anni, ha ucciso la compagna Teresa 54enne e le due figlie di 12 e 18 anni, per poi suicidarsi. Con la pistola di ordinanza. “Ho ucciso mia moglie e le mie figlie. Ora mi uccido. Lascio la porta aperta” ha confessato Curcelli in una chiamata ai carabinieri prima di mettere la parola fine al suo folle gesto. La tragedia ci riporta alla mente casi analoghi di omicidi-suicidi in ambito familiare ben noti alle cronache italiane. Come quello dell’ispettore in servizio all’ufficio immigrazione della Questura di Venezia Luigi Nocco, che nell’agosto 2017 ha sparato alla moglie uccidendola per poi rivolgere l’arma contro se stesso. Ancora una volta con la pistola d’ordinanza. O il caso più recente, nell’aprile di quest’anno, di Simone Cosentino, poliziotto 42enne della questura di Ragusa che ha scaricato sulla moglie mentre dormiva tre colpi della pistola di ordinanza. Subito dopo, il suicidio. Il problema non è la professione degli omicidi, simili tragedie sono avvenute anche per mano di non appartenenti alle forze dell’ordine. Il problema reale è la disponibilità di armi in casa. È vero che un omicidio può essere commesso con qualsiasi oggetto, o anche solo con le proprie mani, ma in un momento di follia o di disturbi psichici l’avere o non avere a disposizione un’arma da fuoco tra le mura domestiche fa la differenza. E secondo i dati del Viminale, aggiornati a luglio 2018, sono 1.315.700 le licenze rilasciate in Italia per detenzione legale. L’arma da fuoco comporta degli evidenti vantaggi per chi intende compiere un simile gesto. Il primo è sicuramente la distanza fisica dalla vittima: una pistola può sparare anche a distanze non strettamente ravvicinate, mentre un altro tipo di arma, un coltello per esempio, necessita di una prossimità con la vittima che può comportare tutta una serie di complicazioni. Psicologiche, soprattutto quando la vittima fa parte della sfera familiare, nonché di efficacia. Sparare è senza dubbio più facile. Chi decide di compiere questo folle gesto ha bisogno di un’arma che non fallisca. Ha già corso tanti rischi, non può permettersi anche questo. Uno studio americano del 2015 dal titolo Men who murder their families: what the research tell us ha analizzato 408 casi di omicidio-suicidio. Di questi, l’88% sono stati compiuti con armi da fuoco, per il 91% dei casi da uomini che già in passato avevano manifestato segni di violenza domestica. La ricerca dimostra chiaramente come ci sia un’immediatezza nell’uso dell’arma da fuoco che nessun altro tipo di arma ha. Concetto ribadito ieri anche da Giorgio Beretta, esponente di spicco dell’Osservatorio Permanente sulla Armi Leggere (Opal), che in tweet ha affermato: “Negli omicidi familiari sono le armi da fuoco lo strumento più usato. Armi detenute da legali detentori, spesso persone in divisa. L’arma non è solo un mero strumento, ma stabilisce la dinamica delittuosa”. Ma come fare a prevenire episodi di questo tipo in un paese, il nostro, in cui sempre più persone si avvicinano al mondo delle armi? Nel caso di un semplice legale detentore, una delle soluzioni, anche se poco nota all’opinione pubblica, potrebbe essere il cosiddetto “ritiro cautelativo”: è possibile infatti rivolgersi agli organi di polizia ogni qualvolta si abbia anche solo il sospetto che un legale detentore possa fare un uso improprio della propria arma affinché gli venga momentaneamente ritirata. Ma come comportarsi nella fattispecie in cui a sparare sono membri delle forze dell’ordine? Ponendo delle limitazioni: basterebbe che fossero obbligati a lasciare le armi di ordinanza nei posti di lavoro al termine del turno, oltre che prevedere un rigoroso sistema di controlli psicologici frequenti. Troppi gli orfani di femminicidio. Un network per non lasciarli soli di Jacopo Storni Corriere della Sera, 13 ottobre 2019 In Italia viene uccisa una donna ogni 72 ore. I loro figli sono le vittime indirette di questa violenza. Per aiutarli è nata l’associazione Edela. Carmine aveva soltanto 14 anni quando, chiuso nella sua cameretta, sentiva le urla della madre. Il compagno la picchiava selvaggiamente e lei implorava aiuto. Carmine li ricorda quei momenti, non potrà mai dimenticarli. Li sogna di notte, sono incubi ricorrenti. Ricorda di quella volta che aprì la porta della camera, fece due passi nel corridoio ed entrò in cucina. Lo vide nitidamente, il volto di sua madre tumefatto dal sangue e dai lividi, le sue lacrime, le sue mani protese ad allontanare quell’uomo. Anzi no, dice Carmine, che oggi ha 22 anni, “non era un uomo, era una bestia”. Era una bestia che riduceva sua madre sull’orlo della disperazione. Ricorda tutto, il bambino Carmine diventato uomo troppo in fretta. Ricorda quella volta in cui vide uscire la mamma di casa per l’ultima volta. “Vado in farmacia e torno” le disse semplicemente. Poco dopo sentì le urla forsennate della nonna, lo spavento del nonno. Carmine si precipitò giù per le scale, poi in mezzo alla strada, corse come un indemoniato fino all’incrocio con la farmacia. E vide quello che ancora oggi ha davanti agli occhi: “I vetri frantumati della macchina, la portiera aperta, il sangue sull’asfalto, i proiettili per terra”. Sua madre non c’era, era dentro l’ambulanza che correva verso l’ospedale. Anche lui si precipitò all’ospedale insieme ai nonni. Ma sua madre, quella madre che per lui era tutto, era già morta. Vittima di femminicidio, barbaramente uccisa dal compagno. Carmine è rimasto orfano di mamma a soli 17 anni. Carmine come Andrea, Andrea come Marianna, Marianna come Emanuele. Non ci sono soltanto le donne uccise, c’è anche chi rimane al mondo e combatte per sempre con quel dolore lancinante. I numeri - Sono i figli delle donne uccise, gli orfani di femminicidio. Rimasti improvvisamente soli, spesso torturati psicologicamente dalle violenze di cui sono stati testimoni. E infine privati dell’amore più grande, della donna che li ha messi al mondo. Come Francesco, che aveva soltanto 12 anni quando i nonni lo informarono che sua madre era stata uccisa. Non erano bastate le ripetute denunce al compagno, non erano bastati i carabinieri sotto casa. Oppure i gemelli Mario e Milena, che hanno visto la madre morire dopo 22 coltellate inferte dall’uomo che credeva di amare. E ancora Martino, adolescente con la madre uccisa e il padre killer in carcere. Vite straziate, da proteggere. Per questo è nata l’associazione Edela, che opera in tutta Italia per offrire supporto gratuito agli orfani di femminicidio. Che sono tanti, duemila ragazzi e ragazze rimasti senza madre. E spesso senza padre. Vengono così affidati ai nonni, o magari entrano in gioco nuove famiglie affidatarie. “In Italia - ha detto la presidente onoraria dell’associazione Edela, Roberta Beolchi - viene uccisa una donna ogni 72 ore. Questo rende necessario una riflessione sui “figli” del femminicidio e cioè i bambini, protagonisti passivi e silenti di un delitto terribile”. L’hastag - Per aiutare e sostenere gli orfani di femminicidio, il prossimo 11 ottobre a Palazzo Parigi di Milano si terrà una cena di gala #inpiedipertutte, con madrina Barbara De Rossi: un evento promosso da Feminin Pluriel Italia, associazione presieduta da Diana Palomba che ha l’obiettivo di creare un network internazionale tutto “al femminile”, promuovendo al contempo attività finalizzate all’educazione, formazione e protezione di donne e bambini. “Tutto questo - ha spiegato Palomba - mettendo sempre al centro la prevenzione, forse l’aspetto più importante della questione, una prevenzione che deve necessariamente partire dalla scuola, perfino dall’asilo, affinché possa cambiare un linguaggio sessista che spesso è la prima causa degli atteggiamenti che sconfinano nella violenza”. Il ricavato della cena sarà suddiviso tra una serie di realtà impegnate in questo campo: l’associazione Edela, l’associazione Salvamamme (che aiuta le madri vittime di violenza), il progetto Centri Milano Donna del Comune di Milano e la Ginecologia e Ostetricia del Pronto soccorso del Policlinico di Milano. Piemonte. Detenuti e lavoro: la Regione “apre i cantieri” obiettivonews.it, 13 ottobre 2019 Via libera a un bando per attivare cantieri di lavoro per detenuti. Potranno svolgere attività di pubblica utilità per i Comuni. L’assessore Chiorino: “Con questa misura offriamo un aiuto agli Enti con carenza di personale e una chance a chi vuole davvero reinserirsi nella società”. La Regione Piemonte ha pubblicato un bando rivolto ai Comuni e alle Unioni di comuni, per attivare cantieri di lavoro con persone sottoposte a misure giudiziarie. Gli enti possono presentare domanda di partecipazione dal 4 al 25 novembre prossimi. Destinatarie del bando sono le persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Le attività dei cantieri di lavoro possono riguardare numerosi ambiti, dal rimboschimento e sistemazione montana, alla costruzione di opere di pubblica utilità, dalla piccola manutenzione del patrimonio pubblico, agli interventi nel campo dell’ambiente, dei beni culturali, del turismo o altri servizi pubblici. I progetti possono essere integrati con percorsi di formazione finalizzati sia a far apprendere le modalità di svolgimento delle attività, sia a favorire l’acquisizione di competenze spendibili in seguito sul mercato del lavoro. Le risorse regionali stanziate ammontano a 456.463 euro, che saranno corrisposti direttamente ai Comuni che avranno attivato progetti sul proprio territorio. I costi ammissibili riguardano la copertura dell’indennità giornaliera corrisposta al lavoratore, che è pari a un massimo di 35,01 euro al giorno (per un impegno giornaliero di 7 ore). I cantieri, a seconda del progetto e delle attività previste, possono durare da un minimo di due mesi a un massimo di dodici. “Si tratta di una misura importante, perché è tesa a raggiungere due obiettivi - spiega l’assessore regionale al Lavoro, Elena Chiorino. Da un lato si offre ai Comuni, e mi riferisco in particolare a quelli piccoli, sempre alle prese con fisiologici problemi di personale, la possibilità di avvalersi di persone che possono svolgere attività importanti per la gestione del bene pubblico. Dall’altro si offre la possibilità ai detenuti che intendono davvero, in prospettiva, reinserirsi virtuosamente nella società di aumentare le proprie competenze e di sperimentare esperienze lavorative anche durante il periodo in cui scontano la propria pena. In ultimo, credo che questa misura sia portatrice anche di un importante valore simbolico: proprio il lavoro, per chi viene da percorsi penali, può offrire la possibilità di reinserirsi nella società nella maniera corretta, praticando un’attività di pubblico servizio e stando alla larga dall’emarginazione e dall’illegalità”. Lombardia. Carceri e fragilità psichiche, un quarto dei detenuti soffre di disturbi Ristretti Orizzonti, 13 ottobre 2019 Il 23,6% della popolazione detenuta soffre di disturbi del comportamento per uso di sostanze (cannabis e alcool) e il 17,3%, per lo più donne, ha disturbi di ansia e di adattamento. Questo il quadro delineato ieri da Tiziana Valentini, Coordinatrice degli psicologi che operano nelle carceri milanesi dell’Uos Psicologia Settore Penitenziario dell’Ospedale Santi Paolo e Carlo, intervenuta alla prima giornata del corso di formazione promosso da Sesta Opera San Fedele, dedicato al riconoscimento e accompagnamento delle fragilità psichiche negli autori di reato. Per quanto riguarda l’età, i disturbi mentali sono più frequenti nei detenuti over 70, mentre nei giovani 14-24 anni si registrano per lo più disturbi della personalità che hanno tendenza evolutiva e cronicizzante: al “Beccaria”, unico carcere minorile lombardo, ben il 34% dei detenuti sottoposti a valutazione psicologica ha disturbi della condotta. “L’episodio dell’incarcerazione è la prima causa scatenante un disturbo psicologico - ha spiegato la dottoressa Valentini - ma è importante intervenire con uno sguardo rivolto alle possibili evoluzioni della patologia, considerando i rischi di cronicizzazione”. “È fondamentale che volontari e istituzioni collaborino per rafforzare gli interventi di rieducazione e assistenza degli autori di reato, soprattutto in soggetti fragili”, ha spiegato Guido Chiaretti, Presidente di Sesta Opera San Fedele. Nel corso della mattinata è intervenuto anche Pietro Buffa, Direttore del Prap Lombardia, che ha delineato le possibili modalità di intervento di prevenzione del rischio suicidario, intercettando e interpretando i segnali del comportamento “con grande senso di umanità e di passione per l’altro”. Lazio. Tra Prap ed Enci un accordo per l’impiego di unità cinofile in carcere di Antonella Barone gnewsonline.it, 13 ottobre 2019 Unità cinofile per migliorare l’ambiente detentivo rendendolo più adeguato anche ai familiari che si recano ai colloqui e opportunità per tutto il personale di frequentare corsi di cino-tecnica qualificati. Sono i principali obiettivi del protocollo d’intesa quadriennale sottoscritto lunedì 7 ottobre tra il Provveditorato regionale (Prap) di Lazio, Abruzzo e Molise e l’Ente Nazionale per la Cinofilia italiana (Enci), associazione che si occupa della catalogazione delle razze canine, di formazione di esperti e di organizzazione di eventi nazionali e internazionali di sport cinofili. “Visto il rapporto qualificato esistente da tempo con l’Associazione - spiega il Provveditore di Lazio, Abruzzo e Molise, Carmelo Cantone, promotore dell’accordo assieme a Espedito Massimo Muto, Presidente Enci - abbiamo pensato di mettere a regime alcune esperienze già in atto e di portare avanti nuovi interventi che comprenderanno accoglienza dei familiari con accompagnamento dei cani ai colloqui quando ci sono minori (come già sperimentato con successo in Toscana) e attività di formazione per il personale”. “Master per unità cinofile in ambito penitenziario “è il titolo del percorso di formazione e aggiornamento delle unità cinofile che prevede anche l’organizzazione di convegni, seminari, incontri culturali e attività di approfondimento. L’accordo si propone, inoltre, anche di definire i criteri per il rilascio di brevetti ai binomi (costituiti dal cane e dal suo conduttore) abilitati all’intervento nelle strutture detentive e la creazione di uno specifico registro d’intesa quadriennale per la formazione e l’impiego di attività cino-tecniche in ambito penitenziario. Le attività previste dal protocollo riguarderanno buona parte delle 25 sedi detentive del Prap. A breve la nomina di un Comitato di Coordinamento composto da due membri per ciascuna parte contraente con funzioni tecnico-operative e di indirizzo di verifica degli impegni sottoscritti. Ancona. Una nuova vita come educatore cinofilo: la seconda chance dei detenuti di Alessandra Napolitano centropagina.it, 13 ottobre 2019 In 12 hanno partecipato al corso di formazione di 30 ore delle associazioni “Sguinzagliati” di Senigallia e “Il mio Labrador” di Pollenza, dedicato all’educazione cinofila e alla pet therapy per persone con disabilità. Nel carcere anconetano la consegna degli attestati. Imparare ad addestrare i cani e magari ricominciare una nuova vita come educatori cinofili una volta usciti dal carcere. Sono 12 i detenuti della Casa Circondariale di Monteacuto che hanno partecipato al corso di 30 ore delle associazioni “Sguinzagliati” di Senigallia e “Il mio Labrador” di Pollenza. “Il progetto è un bando del Comune di Ancona ed è “Educazione cinofila e pet therapy in carcere”. Abbiamo tentato di fare una cosa un po’ diversa rispetto agli altri: cerchiamo di dare una formazione in più ai ragazzi che, quando usciranno, avranno già iniziato il percorso per diventare educatori cinofili- spiega Gabria Pierfederci, educatore cinofilo. Il corso ha previsto una parte teorica- come comunica il cane e come noi dobbiamo cercare di comunicare per avere risultati migliori-, una parte di pet therapy e una pratica. Per quanto riguarda la pet therapy si preparano cani per disabili: il nostro amico a 4 zampe deve imparare a essere gestito da una carrozzina. I ragazzi hanno fatto tutte le prove camminando con la sedia a rotelle, cercando di tenere il cane al guinzaglio superando degli ostacoli. La parte pratica è stata fatta al campo del carcere. I detenuti hanno appreso i comandi base come: seduto, terra, resta. Infine, spazio agli sport e ai giochi cinofili, all’agility ecc.”. Entusiasti i detenuti che hanno partecipato al progetto. “Ho imparato cose che non sapevo e quando sarò libero sicuramente prenderò un cane” commenta Cristian Gainescu. “Questa esperienza è stata positiva. Aiuta a passare la settimana, hai uno spazio di libertà in cui puoi essere te stesso, sereno. È stato un bel percorso. Mi è piaciuto molto l’addestramento, insegnare i comandi ai cani, il momento in cui ci hanno spiegato l’utilità dei cani per le persone con disabilità” riferisce Davide Storlazzi. “Una bella esperienza. La parte che mi ha colpito di più è come vengono educati i cani per aiutare le persone disabili. In futuro mi piacerebbe fare l’educatore. A casa ho due cani, è da tanto che non li vedo e ho voglia di riabbracciarli” afferma Salvatore Fontana. L’Associazione “Il mio Labrador” Asd si occupa della preparazione dei cani di assistenza per persone con disabilità motoria, in particolare con disabilità cognitiva. “Anche se questo è un contesto diverso, abbiamo dato a questi ragazzi delle nozioni avanzate che saranno utili quando usciranno - spiega Andrea Zenobi, presidente e fondatore Associazione “Il mio Labrador” Asd. È la prima volta che faccio lezioni in un carcere e prima di venire qui avevo dei preconcetti nei confronti di chi mi sarei trovato di fronte. Invece ho trovato delle persone che, anche se hanno commesso errori nella loro vita, a livello umano hanno imparato tanto e sono sicuro che, una volta fuori di qui, lo trasmetteranno ai cani e ai loro futuri clienti”. Concluso il corso e le attività i detenuti hanno ricevuto un attestato. Gli amici a 4 zampe coinvolti nel progetto, circa una decina e provenienti dal canile, tramite l’associazione Code Ribelli sono stati adottati. Cremona. I problemi del carcere in un’interrogazione parlamentare cremonaoggi.it, 13 ottobre 2019 Interrogazione parlamentare sul carcere di Cremona. L’ha presentata il deputato Roberto Giachetti su input del gruppo dei Radicali di Cremona, che durante la visita alla Casa Circondariale cittadina, effettuata a ferragosto dagli esponenti del Partito Radicale, Gino Ruggeri e Maria Teresa Molaschi, e dall’avvocato della locale Camera Penale Laura Negri, “ha evidenziato una situazione preoccupante dal punto di vista sanitario per la presenza di un numero estremamente alto di detenuti con patologie di tipo psichiatrico - 74 psicotici; 48 con disturbo depressivo maggiore, 20 con disturbo borderline, 76 con disturbo di personalità - e di 107 detenuti tossicodipendenti” fa sapere l’esponente radicale Gino Ruggeri. L’interrogazione, presentata il 27 settembre scorso ai ministri della Giustizia e della Salute, chiede “quali iniziative di competenza si intendano adottare per garantire il diritto alla salute dei detenuti e in quale modo intendano intervenire al fine di garantire un adeguato livello di assistenza alla popolazione reclusa”. Roma. Carceri d’Europa, proposte, tendenze, rischi e prevenzione della radicalizzazione antigone.it, 13 ottobre 2019 Il prossimo 14 ottobre a Roma, a partire dalle ore 10.00, presso la Sala di Santa Maria in Aquiro del Senato della Repubblica, Antigone e lo European Prison Observatory organizzano un incontro pubblico per affrontare il tema delle carceri europee. Verrà presentato il primo Rapporto sulle carceri in Europa nonché le proposte dello European Prison Observatory da presentare alle istituzioni europee. In un’epoca in cui il sovraffollamento carcerario investe molti Stati membri, l’assistenza sanitaria e psichiatrica rivolta ai detenuti è troppo spesso inadeguata, le opportunità di lavoro sono carenti e poco qualificate, l’uso della forza da parte del personale penitenziario è stato motivo di preoccupazione in vari Paesi europei, cosa possono fare le istituzioni dell’Unione Europea per garantire condizioni di detenzione rispettose della dignità della persona privata della libertà? Durante l’incontro verranno presentati i risultati di una ricerca condotta dallo European Prison Observatory nell’ambito del progetto “Prison de-radicalization strategies, programmes and risk assessment tools in Europe”, realizzato con il sostegno del Programma Giustizia (2014-2020) della Commissione Europa, un tema al quale l’intera Europa ha dedicato una grande attenzione negli ultimi anni. Lo European Prison Observatory è una rete di associazione ed enti di ricerca europei coordinato da Antigone e sviluppato con il sostegno-del Programma di Giustizia dell’Unione Europea. Questo osservatorio studia, attraverso analisi quantitative e qualitative, la condizione dei sistemi penitenziari nazionali e dei relativi sistemi di alternative alla detenzione, confrontandola con le norme e gli standard internazionali rilevanti per la tutela dei diritti fondamentali dei detenuti. Mette in evidenza le “buone pratiche” esistenti nei diversi paesi, sia per la gestione delle carceri che per la protezione dei diritti fondamentali, e promuove l’adozione degli standard del Cpt e degli altri strumenti giuridici internazionali per la gestione delle carceri in Europa. Nel 2017 lo European Prison Observatory ha avviato un progetto sulla prevenzione ed il contrasto alla radicalizzazione in carcere, e sull’impatto che queste misure possono avere sui diritti fondamentali delle persone detenute. er partecipare all’evento è necessario accreditarsi, entro e non oltre le ore 11.00 dell’11 ottobre, mandando una e-mail a: segreteria@antigone.it. L’accesso alla sala - con abbigliamento consono e, per gli uomini, obbligo di giacca e cravatta - è consentito fino al raggiungimento della capienza massima; I giornalisti devono accreditarsi secondo le modalità consuete inviando un fax al numero 06.6706.2947. Di seguito il programma con i partecipanti: Saluti: Loredana De Petris (Senatrice, Presidente Gruppo Misto). Coordina: Alessio Scandurra (Antigone, coordinatore European Prison Observatory). Introducono: Mauro Palma (Garante nazionale persone private della libertà personale); Patrizio Gonnella (presidente Antigone). Relazioni: Antonio Pedro Dores (Iscte-Iul): European Prison Observatory: chi siamo, cosa facciamo?; Federica Brioschi (Antigone): Prisons in Europe; Giovanni Torrente (Università di Torino),Daniela Ronco (Università di Torino), Alvise Sbraccia (Università di Bologna): La radicalizzazione in carcere; Christine Graebsch, Melanie Schorsch (Fachhochschule Dortmund): Radicalizzazione e approcci operativi; Susanna Marietti (Antigone): Carceri d’Europa: cosa può fare l’Unione Europea? Le proposte dello European Prison Observatory. Conclude: Massimiliano Smeriglio (Parlamentare Europeo Pd-S&D) Trieste. La barca dei migranti ora salva i minori dal carcere di Lucia Bellaspiga Avvenire, 13 ottobre 2019 Noi ci sentiamo quasi eroi per queste 500 miglia da Reggio Calabria a Trieste, in 7 su una barca in cui è già complicato muoverci senza urtarci, e qui sopra in passato hanno navigato 60 persone stipate una sull’altra. Una donna ha persino partorito a bordo, ci sembra impossibile”. Il comandante della piccola ciurma è l’architetto Sandro Dattilo, presidente della sezione di Reggio Calabria della Lega Navale Italiana, e l’equipaggio con cui oggi a Trieste affronterà la Barcolana sono i ragazzi usciti per l’occasione dal carcere minorile della sua città, più due professionisti della vela accorsi a dare una mano nella regata più affollata e scenografica del mondo. Il tutto su una barca a vela sequestrata ai trafficanti di esseri umani e assegnata dal tribunale alla Lega Navale di Reggio Calabria, che l’ha sanificata e rinnovata a sue spese. “Un progetto ardito - ammette Dattilo -, più volte stavamo per gettare la spugna, ma alla fine abbiamo trovato le energie e avuto il nulla osta dal ministero della Giustizia, anche se l’accompagnatore che ci avevano promesso in un primo tempo per controllare i ragazzi non ce l’hanno più mandato e tutta la responsabilità me la sono presa io. Se ho avuto timore che combinassero qualcosa? Mai, l’addestramento è iniziato a giugno e ormai sanno che la vela significa rispetto delle regole. All’inizio durante le lezioni erano un po’ strafottenti, guardavano più i loro passatempi elettronici che il mare, in fondo pensavano di essere trattati da “confinati”, invece io li ho trattati da marinai, duramente nella disciplina ma con il rispetto che è dovuto a tutti gli uomini. Ora sono un vero equipaggio”. Alla fine dell’addestramento solo Mustafà, Alessandro e Antonio hanno avuto le autorizzazioni per salpare il 28 settembre alla volta di Trieste, dove sono arrivati due giorni fa costeggiando le coste ioniche e adriatiche. “Avevo il terrore che non mi scegliessero - racconta Mustafà, 14 anni, nato a Reggio da genitori di origine tunisina - così ho detto: “Comandante, se non mi portate inizierò a piangere nell’istante in cui uscirete dal porto e smetterò il giorno che tornerete”. Non era mai salito su una barca e il mare lo aveva visto molto poco, caduto presto nelle spire della criminalità. “Ho imparato a fare i nodi e come si mettono le vele. Col mare mosso ho avuto la nausea e tanta paura nelle tempeste, ma è l’esperienza più bella della mia vita, ora non vedo l’ora di fare la Barcolma, mi hanno parlato di migliaia di vele tutte insieme, manco le immagino, già una è un sogno”, dice con perfetto accento calabrese. Alessandro di anni ne ha 16 e viene da Arghillà, il quartiere dormitorio di Reggio Calabria, dove a breve verrà inaugurata la prima stazione di polizia (fino a oggi le forze dell’ordine non osavano nemmeno entrarci). “È stato, è, e sarà una cosa indimenticabile”, dice senza smettere di lucidare la barca. “Non mi aspettavo un privilegio così grande, perché noi viviamo in un contesto detentivo, siamo ragazzi diversi. Dattilo è un vero comandante, un papà, con lui pensiamo spesso, inevitabilmente, ai sessanta che erano qui stretti a bordo. Che dire, mi dispiace tanto per loro. Da questa esperienza mi riporto a casa il mio futuro: ho scoperto di amare il mare e dopo il diploma all’Istituto Nautico lavorerò con mio zio sulle navi petroliere”. Alla fine della Barcolana - lo sa bene il comandante Dattilo - torneranno dentro, “ma credo con speranza. Perché la cosa peggiore è quando perdiamo la speranza. Loro rientreranno con un sogno, hanno visto che un’altra vita è possibile, che ci sono cose splendide. Devono chiudere con il passato perché hanno un’età in cui tutto è ancora possibile”. Glielo ha detto l’altra sera nella tappa di Venezia, in pizzeria: “Per la prima volta ho chiesto loro che reato avessero commesso, per abbattere anche l’ultimo muro. Anche se ci sono cose che non diranno mai, perché liberarsi di certe storie familiari non so se sarà mai possibile”. Una pizza che volevano a tutti i costi pagarsi, i giovanissimi marinai, “ma non gliel’ho permesso, sono piccoli segnali che a loro danno una certezza, “allora ci vogliono bene”, e in automatico si comportano da persone per bene”. L’imbarcazione, confiscata alla criminalità organizzata dopo l’ultimo sbarco in Calabria nel 2014, è uno sloop di 12 metri: un solo albero, tre cabine e due bagni. Era partita dalla Turchia con il suo carico umano. “Strumento di morte e di tratta, oggi è diventata simbolo di rieducazione e speranza”, dice Antonio, 21 anni, il terzo dell’equipaggio, il più adulto. Avendo commesso il reato quando era minorenne ha il diritto di proseguire il suo iter nella giustizia minorile: “Dopo tanti anni di detenzione i magistrati ci hanno fatto questa concessione, siamo i primi a poter fare la Barcolana - sorride. Siamo grati e lusingati, ovviamente però siamo ragazzi con una giusta condotta- spiega-, i miei due compagni sono in “messa alla prova”, io dopo aver passato svariate carceri minorili da due mesi sono in detenzione domiciliare in una comunità ministeriale. Tutti e tre scontiamo una pena, ma su questo scafo abbiamo appreso il significato di libertà, letteralmente cerchiamo di capire dove ci porta il vento in questa fase della nostra vita. E poi abbiamo visto per la prima volta l’alta Italia, e dal mare aperto: nemmeno i cittadini normali hanno questa opportunità... ti può cambiare la vita”. Parla come un testo di giurisprudenza, cita leggi e articoli, ma “se parlo bene è perché il Codice penale in questi anni me lo sono ripassato molte volte”, sorride amaro. Cambiare la vita. È il senso del progetto di Dattilo, che si rifà ai veri obiettivi sociali scritti nello statuto della Lega Navale: diffondere la cultura marinaresca nella società civile con attenzione particolare ai meno fortunati. A questo scopo lui e altri soci si sono tassati e hanno lavorato manualmente per ripristinare la “Evai”, (la scaramanzia marinara vieta di cambiare il nome alle barche, pena la sfortuna), poi l’hanno messa a disposizione dei minori delle comunità di rieducazione (solo due gli sponsor, la ditta Fabbro che ha fornito i cibi in scatola e la Network Technology che ha installato a bordo le telecamere h 24, anche a infrarossi per le riprese notturne), fino a “osare” oggi la grande avventura triestina: “Il 28 mattina siamo salpati da Reggio dopo la cerimonia di benedizione data da don Nuccio Cannizzaro ed ora eccoci qui - conclude il presidente, emozionato nell’attesa che il cannone dia il via alle oltre duemila vele giunte da tutto il mondo. La Barcolana ha un significato speciale per noi, perché per statuto fin dalle origini la competizione è seconda allo stare insieme. Barcolana è uno stile di vita”. Alle 10 e mezza oggi le Frecce Tricolore dipingeranno nel cielo la linea di partenza ideale tra il Faro di Barcola e il Castello di Miramare, a quel punto Mustafà, Antonio e Alessandro isseranno le vele e prenderanno il vento. “In fondo se non ero detenuto non avrei mai studiato”, dice Antonio nell’ultima confidenza prima della gara, “a gennaio finisco la pena e mi laureo pure in Economia aziendale: in cella invece di perdere tempo ho studiato, da libero non l’avrei mai fatto. Anche Alessandro e Mustafà si stanno diplomando grazie al carcere. Mi creda - guarda all’orizzonte - la libertà è un concetto complesso”. Gorizia. Tre detenuti servono il pasto comunitario al convegno del Centro Balducci Il Piccolo, 13 ottobre 2019 Tre detenuti del carcere di via Barzellini hanno ottenuto nei giorni scorsi un permesso speciale per servire a Barcis il pranzo di comunità alla 27esima edizione del Convegno del Centro Balducci. I tre detenuti fanno parte del percorso educativo promosso all’interno della casa circondariale di Gorizia da don Alberto De Nadai e Steven Stergar con il fine di far convergere e dialogare le diverse attività formative tenute all’interno del carcere stesso e di permettere così alle persone private della libertà di tenere lo sguardo sempre rivolto al futuro. Grazie al permesso del magistrato di sorveglianza i tre detenuti, per un giorno, hanno potuto confondersi tra la folla, ma soprattutto hanno potuto confrontarsi con un ambiente sociale dove, tra un piatto servito e l’altro, hanno scambiato parole di sostegno e solidarietà. “Hanno dimostrato, per tutta la giornata di permesso, come sia possibile per tre attuali detenuti ripensare il concetto di vita, di stare al mondo, di prendersi cura l’uno dell’altro, finalizzando un percorso che da diverso tempo hanno intrapreso all’interno delle quattro mura del carcere - ricordano don Alberto e Stergar. L’impegno offerto è solo il prolungamento e la controprova di quanto dimostrato tuttora nella struttura di via Barzellini, ma è anche un premio che funge loro da responsabilità per altre persone che, come loro, vivono attualmente questa tipologia di realtà. Diventano esempio di come scomode etichette possano essere strappate ancora prima che applicate”. “Intraprendere percorsi interni al carcere non è certamente da tutti”, proseguono De Nadai e Stergar, ricordando però che al momento un’altra dozzina di detenuti prende parte al percorso rieducativo. “Passo dopo passo, i risultati iniziano a vedersi - dicono -. Concetti come diritto, dovere, responsabilità, volontà e duro lavoro stanno attecchendo nella mente di questi esseri umani volenterosi di dare prima una sterzata, e poi, per dirla alla don Ciotti, uno scatto alle loro rispettive vite, indirizzando queste in binari più congeniali al bene individuale e sociale. Ancora una volta l’ennesima attenzione alla cura reciproca, all’interessamento nei confronti del prossimo, dando a questo un esempio al quale potersi appigliare. Speranze trasmesse in alternative che divengono concrete possibilità, appigli, anche questi, indispensabili per poter meglio comprendere l’obiettivo rieducativo dell’istituzione carceraria”. Firenze. Il teatro in carcere in scena a Sollicciano gonews.it, 13 ottobre 2019 Il progetto Teatro carcere ha consentito anche per questa stagione teatrale la realizzazione del laboratorio e dello spettacolo Fra quattro mura, libero adattamento da “La casa di Bernarda Alba” di Federico Garcia Lorca. Il corso è stato curato dalle operatrici della compagnia Giallo Mare Minimal Teatro Maria Teresa Delogu e Rossella Parrucci, che hanno curato anche la regia dello spettacolo. Mercoledì 13 novembre alle 21.00 Fra quattro mura andrà in scena alla casa circondariale di Sollicciano Il dramma, nella sua versione originale, racconta del potere tirannico della madre (Bernarda Alba), che impone alle cinque figlie femmine un lutto di otto anni dopo la morte del padre; un potere simboleggiato dal bastone che Bernarda tiene tra le mani. Il personaggio non è un’invenzione letteraria, ma si ispira a quello di una vedova effettivamente vissuta nei pressi di Granada, che teneva prigioniere le proprie figlie a Firenze. Non è difficile immaginare che uno degli aspetti più laceranti della detenzione sia il dover fare i conti con la cessazione di una vita amorosa, affettiva, emotiva, sessuale e di relazione. Spesso questa lacerazione dà l’avvio a tentativi di cucitura, ricucitura, tessitura di rapporti (a volte più idealizzati che concreti) che rendano più sopportabile il tempo della clausura e soprattutto facciano da sostegno al sogno di una costruzione di un futuro, di una famiglia, di un destino non di abbandono. Questi aspetti prendono sovente la forma della presenza (o lamentata assenza) di un compagno, un marito, un fidanzato; a volte relegato nel passato, a volte cercato nell’ambiente del carcere, a volte irrimediabilmente rimpianto, a volte infine costruito con la fantasia, magari a partire da un modello autentico, ma più forma desiderata che autentica. Un insieme di spinte e pulsioni umane che in un ambiente rinchiuso vanno oltre la semplice presenza di qualcuno che condivida un percorso di vita, ma che vanno a simboleggiare aspetti peculiari che aiutano a riflettere su questa difficile condizione. Questo insieme di considerazioni ci ha spinto ad attraversare le situazioni proposte dalla vicenda narrata da G. Lorca, ne “La casa di Bernarda Alba”, dove due sono i punti-chiave intorno a cui ruota la tragedia: la figura della Madre-Tiranna, (Bernarda Alba) e un evanescente promesso sposo della figlia primogenita di cui, data la condizione di “detenzione” in cui si trovano le figlie, tutte sono innamorate di un amore che è essenzialmente proiezione di una libertà agognata ma mai conquistata. Il Teatro carcere è un progetto sostenuto con convinzione dalla Regione Toscana che, fra le prime in Italia e in Europa, si è distinta nel credere che il teatro - e più in generale, tutte le forme artistiche e creative - possano svolgere una importante funzione di riassetto civile e sociale nel complesso rapporto fra la detenzione e la cittadinanza. Giallo Mare Minimal Teatro dopo la chiusura della casa circondariale di Empoli, dove per anni aveva lavorato con le detenute, ha proseguito il suo impegno con le donne della casa circondariale di Sollicciano a Firenze. Per assistere alla performance è però necessario prenotarsi entro giovedì 17 ottobre inviando mail a info@giallomare.it oppure tramite Whatsapp al 335-5945440 indicando: cognome, nome, luogo e data di nascita e allegare fotografia fronte retro di un documento d’identità in corso di validità. I dati devono essere chiaramente visibili. L’ingresso del pubblico è previsto per le ore 20.00, è necessario portare con sé un documento di identità. Non è consentito l’ingresso al carcere di alcun cellulare, tablet, pc, o altro di analogo. I posti sono limitati, pertanto si prega di prenotarsi se si è ragionevolmente certi di poter partecipare, onde non precludere ad altri la possibilità di assistere allo spettacolo. Fine vita, saltano i primi paletti di Emilio Pucci Il Messaggero, 13 ottobre 2019 Meno ostacoli sul fine vita. Arriva la prima proposta del governo rosso-giallo. Ed è anche la prima proposta dopo la decisione della Corte costituzionale, sulla vicenda di dj Fabo, di ritenere “non punibile” chi “agevola l’esecuzione del proposito di suicidio di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile”. A palazzo Madama gli esponenti della maggioranza che sul tema hanno una posizione unitaria si sono coalizzati. Regista dell’operazione la dem Cirinnà. Sul fine vita arriva la prima proposta rosso-gialla dalla nascita del nuovo governo. Ed è anche la prima proposta dopo la decisione della Corte costituzionale di ritenere “non punibile” chi “agevola l’esecuzione del proposito di suicidio di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile”. Tra una decina di giorni arriveranno le motivazioni della Consulta, ma intanto a palazzo Madama gli esponenti della maggioranza che sul tema hanno una posizione unitaria si sono coalizzati. Regista dell’operazione la dem Cirinnà. I vertici della Camera e del Senato non hanno deciso se ripartire dal testo già incardinato nelle commissioni di Montecitorio e allora nell’impasse generale, che ha contraddistinto il Parlamento incapace nei mesi scorsi di legiferare sulla materia, la senatrice del Pd ha redatto un testo che ricalca la sentenza del 25 settembre scorso. La proposta porta anche la firma del renziano Nencini, del pentastellato Mantero, della De Petris per LeU, della ex M5s Nugnes e di altri senatori del Pd come Rampi e Cerno. Un malato terminale, capace di intendere e di volere, può chiedere l’aiuto medico a morire quando è in stato di irreversibilità. Si sancisce che l’aiuto al suicidio - contemplato dall’articolo 580 del codice penale che prevede pene tra i 5 e i 12 anni di carcere - può quindi non essere punibile a “determinate condizioni”. E allo stesso tempo sì introduce “la possibilità di formulare obiezione di coscienza da parte del medico e del personale sanitario” garantendo in ogni caso la terapia del dolore e la somministrazione delle cure palliative. “Su questa materia ovviamente si dovrà mediare ma non si possono fare trattative sul principio. Del resto - osserva la Cirinnà - il 70% degli italiani la pensa come la Corte costituzionale”. La dignità di morire, dunque. “Il legislatore - si sottolinea nel testo - non è chiamato a dare la morte, né a rinunciare all’obbligo dí prendersi cura di ogni persona malata. Piuttosto è chiamato a confrontarsi, con umiltà, con le forme che può assumere - nella concretezza delle situazioni di vita - la dignità personale, riconoscendola con rispetto”. In quest’ottica - questa la premessa - “mettendo al centro la persona del malato e la sua libertà di scelta, il presente disegno di legge non fa altro che disciplinare - con le opportune garanzie - la possibilità di consentire a chi già sta morendo di poterlo fare in modo “corrispondente alla propria visione della dignità del morire”. Nell’articolo 1 della Pdl si modifica il primo comma dell’articolo 580 del codice penale, differenziando le pene comminate per le due diverse fattispecie di istigazione e aiuto al suicidio. “Nel caso di paziente capace di prendere decisioni libere e consapevoli e affetto da patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, è consentita - questa poi l’aggiunta all’articolo 2 della legge 22 dicembre 2017 - su richiesta del paziente” la somministrazione di farmaci idonei “a provocarne rapidamente e senza dolore la morte”. Si include “nella disciplina dell’aiuto medico a morire anche quei pazienti che, sebbene non tenuti in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale (come ad esempio la ventilazione artificiale), siano comunque affetti da patologie gravi e irreversibili, fonte di sofferenze fisiche o psichiche intollerabili”. La somministrazione dei trattamenti è consentita “anche presso il domicilio del paziente, unicamente nell’ambito del Servizio sanitario nazionale, da parte di personale medico e sanitario che non abbia formulato al riguardo obiezione di coscienza”. Nella proposta di legge si punta ad introdurre anche il principio della retroattività. La causa di non punibilità non si limita al solo delitto di cui all’articolo 580 del codice penale, ma “include anche i delitti di cui agli articoli 575 (omicidio), 579 (omicidio del consenziente) e 593 (omissione di soccorso) ed è formulata in modo tale da valere anche per il passato”. Insomma non è punibile per i delitti chi “anche prima della data di entrata in vigore della presente legge, abbia direttamente o indirettamente cagionato, su sua richiesta, la morte di una persona nelle condizioni” di irreversibilità. Ovviamente la partita in Parlamento è soltanto all’inizio e i firmatari della legge dovranno vedersela con il fronte cattolico, trasversale ai partiti, e pronto a dare battaglia. Migranti. I morti in mare e i poliziotti uccisi di Roberto Saviano L’Espresso, 13 ottobre 2019 Sui social mi chiedono di commentare Trieste e non i naufragi. Una tragedia assurda e imprevedibile e una strage di cui siamo responsabili. Pensieri che si rincorrono, che affollano la mente. Pensieri sempre uguali, oggi come due anni fa, come sei anni fa, quando un barcone di migranti si rovesciò a mezzo miglio dalla costa di Lampedusa. Il mare restituì 368 cadaveri e non c’erano abbastanza bare per ospitarli tutti. Passano gli anni ma nulla cambia. Anzi no, cambia la percezione che si ha della tragedia, cambia finanche il racconto della verità. Eh sì, perché se “verità” è una parola abusata, è vero anche che abbiamo smesso totalmente di cercarla nei dettagli, in ciò che non viene raccontato, in ciò che sembra non esistere e che pure produce degli effetti. In fisica capita che si scopre l’esistenza di una particella non perché venga osservata direttamente, ma per gli effetti che produce. Allo stesso modo non possiamo pensare che solo ciò che è chiaro ed evidente, ciò che reputiamo possibile o che abbiamo sperimentato esista. Ma è difficile fidarsi, un tempo perché non avevamo rapporti diretti con le fonti, oggi perché temiamo che le fonti siano false o manipolate. Qualche giorno fa ho scritto un testo e l’ho pubblicato su Facebook, non ricordo l’argomento, ma ricordo la risposta di una donna: “Un commento sui poliziotti uccisi? Ovviamente tra un po’ arriverà quello sui morti suicidi della traversata”. Queste parole si sono impresse sul mio volto e sono diventate un sorriso sghembo. Un non sorriso. Un ghigno. A volte penso che chi mi detesta mi conosca meglio di chi mi vuol bene. Erano trascorsi solo pochi giorni dalla sparatoria nella Questura di Trieste ed eravamo tutti scossi da un avvenimento assurdo e imprevedibile. E proprio in quelle ore erano in corso le ricerche dei superstiti di un nuovo naufragio a poche miglia da Lampedusa. Era proprio vero, stavo per scrivere del naufragio, l’ennesimo e annunciato. Non avevo pensato di commentare ciò che era accaduto a Trieste perché non c’erano supposizioni da fare, ne previsioni per il futuro. Era accaduto l’imprevedibile e l’imprevedibile lascia sgomenti, così come la vicinanza alla Polizia e alla famiglia dei poliziotti che hanno perso la vita è immediata, umana e direi anche scontata. Ma sui social spesso si pretendono parole senza sapere esattamente cosa farsene. Il dubbio è che ormai le parole bastino a se stesse, che servano solo perché se ne stiano lì, senza produrre effetti. Anzi, meno ne producono, meglio è. Perché invece stavo per commentare l’ennesimo naufragio a Lampedusa? Perché è una tragedia che abbiamo già visto, per cui abbiamo già pianto, che era prevedibile e quindi evitabile. Questo vale la pena sempre ripeterlo, ripeterlo fino a perdere la voce e scriverlo fino ad avere dolore alle mani. Dal Mediterraneo hanno bandito le Ong eppure si continua a morire. Anzi. nel Mediterraneo si muore di più, proprio perché hanno bandito le Ong, ma mancano i testimoni, quindi possono dirvi ciò che vogliono e dare numeri di volta in volta utili alla propaganda. Si morirà sempre nel Mediterraneo, fino a quando ci saranno ragioni per partire, e su quelle nessuno ha idea di come agire, non solo: petrolio e armi ci legano le mani. Hanno bandito le Ong, che non vengono coinvolte nei salvataggi, come denuncia Oscar Camps, il fondatore di Open Arms, ma poi le autorità italiane chiedono alla Ocean Ming, nave delle Ong SOS Méditerranée e Medici Senza Frontiere, e a tutte le organizzazioni presenti nell’area con velivoli o imbarcazioni di aiutare a cercare i superstiti. Non aiuto per salvare i vivi, ma per cercare i cadaveri. Ai migranti morti a poche miglia da Lampedusa sarebbero bastati i giubbotti salvagente per non annegare: questo non dobbiamo dirlo? Hanno bandito le Ong chiamandole scafisti, trafficanti di uomini, ma poi a trattare con gli scafisti, con Bija, il noto trafficante di uomini libico (“uno dei più brutali aggressori di migranti” secondo l’Onu), abbiamo visto solo persone che agivano in nome e rappresentanza del governo italiano (su questo consiglio gli articoli di Nello Scavo su Avvenire). Era il 2017, era appena iniziata la “guerra” alle Ong per racimolare voti, una guerra combattuta e vinta comunicando con crudeltà e diffondendo fake news, e dopo migliaia di morti siamo ancora qui, a cercare in mare i corpi di donne e bambini che hanno perso la vita nel tentativo di sopravvivere. Chi viene in Europa non ha altra scelta: chi affronta la morte lo fa perché ciò che vive è peggio della morte. Migranti. Perché nel nostro mondo sono tornati i confini di Donatella Di Cesare L’Espresso, 13 ottobre 2019 Il Muro di Berlino sembrava l’emblema delle frontiere destinate a cadere per sempre. Dall’India al Sahara, dall’America a Cipro, le barriere si sono invece moltiplicate. E sono sempre più invalicabili. Si ricorda quest’anno la caduta del Muro di Berlino. Era il 9 novembre 1989. Apogeo dell’esclusione, sembrava ricapitolasse in sé i muri del passato. Dopo il crollo di quell’iperbole ultima sarebbero stati spazzati via tutti i resti di oscurantismo che deturpavano ancora la terra. È accaduto il contrario. Il terzo millennio si è aperto con una nuova età dei muri. Sono state rafforzate le “frontiere conflittuali”: il muro tra le due Coree, la “linea verde” che taglia a metà la parte greca da quella turca di Cipro, le trincee tra India e Pakistan, il muro di sabbia del Sahara occidentale che, difeso da oltre 6.000 mine anti-uomo, si estende per 2.730 chilometri. Nelle aree del pianeta a più alta tensione, dall’ex impero sovietico, dove i confini sono divenuti incerti e controversi, al Medio Oriente, squassato da guerre sporche, invasioni e attentati, le barriere sono andate moltiplicandosi. Ma la vera novità sono i muri edificati contro la cosiddetta “immigrazione clandestina”. Il più celebre è il “muro di Bush” alla frontiera tra Stati Uniti e Messico. La tortilla border, la più lunga barriera del mondo, che si snoda fra l’Atlantico e il Pacifico, per oltre tremila chilometri, è stata costruita per vietare l’ingresso ai migrantes, quei poveri che fuggono dai paesi latinoamericani in cerca di una nuova chance di vita. Non di rado ad attenderli è invece la morte - com’è capitato ad Alberto Martinez Ramirez e alla sua bambina Angie Valeria di due anni. Se si tenta di guadare il fiume è perché sulla frontiera si avvicendano palizzate di cemento, reticolati rudimentali, fossati antiveicoli, tubi di acciaio. Composita, intricata, multiforme, quanto la storia dell’immigrazione ispanica in America, la frontiera è costellata da ben dieci città, a cominciare da Tijuana, principale valico sul Pacifico. Nella parte centrale, intorno a Ciudad Juarez, la zona frontaliera, su entrambe le sponde del Rio Grande, è talmente vasta da essere chiamata Tercera Nación, terza nazione, o anche Mexicamerica. Il nome smentisce la frontiera e la possibilità di chiuderla. Eppure Trump ha vinto le elezioni promettendo di sigillarla. Come se questo bastasse a fermare i migrantes, salvadoregni, colombiani, guatemaltechi, spinti da una disperazione profonda, una miseria tetra. L’Europa, patria dei diritti umani, che avrebbe dovuto costituire un modello alternativo, ha seguito a ruota l’esempio statunitense. Dal lugubre passato è riemerso il filo spinato, che ha circondato le colline della Macedonia, i prati della Bulgaria, la pianura dell’Ungheria, raggiungendo Serbia, Croazia, Slovenia, quei Paesi solo di recente usciti da conflitti fratricidi. Così è stata chiusa la cosiddetta “rotta balcanica”. Le due enclavi di Ceuta e di Melilla, tra Spagna e Marocco, erano già lì per impedire il passaggio per lo stretto di Gibilterra. E tuttavia le barriere sono state ulteriormente innalzate fino a sei metri e rafforzate con sensori elettronici, illuminazione ad alta intensità, posti di vigilanza alternati, camminamenti per i veicoli di sicurezza. Per il resto l’Europa - anche quella mediterranea, da sempre caratterizzata dall’ospitalità - ha deciso di conformarsi ai criteri della logica poliziesca: droni, elicotteri, soldati, forze dell’ordine, agenti, intelligence, unità d’élite. Porti e aeroporti sotto sorveglianza, accessi interdetti, controlli sistematici - la “fortezza” si è trincerata. Per sottolineare il deserto di ostilità dove il rifugio è un miraggio, l’accoglienza un abbaglio. Un mondo senza frontiere non è prossimo, né vicino. Si deve anzi scorgere qui un mito della globalizzazione sapientemente manovrato da quelle forze politiche che mietono consensi fomentando la paura, acuendo il disorientamento, facendo leva sull’orrore del vuoto. Che cosa c’è di meglio che ricorrere a vecchi appigli? Ecco l’ossessione delle frontiere, il ritorno dei confini. Nel paesaggio del terzo millennio si sono moltiplicati a dismisura. Il geografo francese Michel Fourier ha accertato di recente almeno 322 frontiere politiche che si snodano per la lunghezza di oltre 248.000 chilometri. Ma cosa sono i confini? Come sono sorti? Che significato hanno oggi? Per capire è sempre bene storicizzare, risalire alla genealogia, decostruire. Può essere d’aiuto il volume dello storico americano Charles Maier, “Dentro i confini. Territorio e potere dal 1500 a oggi” (Einaudi). Il merito del lavoro è quello di distinguere la terra, in senso fisico, dal “territorio” inteso come spazio politico, idea in grado di essere, per secoli, motore della storia. Assunto a vessillo di identità, investito di attese, diventa la base su cui si viene istituendo la sovranità proprietaria del Stato. Senza lo spazio politico del territorio lo Stato come tale sarebbe, anzi, impensabile. La storia che Maier racconta è quella della spartizione della terra - violenta, condotta con criteri e metodi occidentali. Particolarmente interessanti sono gli ultimi capitoli dove si disegna il passaggio dagli imperi di fine secoli agli Stati-nazione. Il che non sarebbe stato possibile senza la forzatura del territorio come “spazio vitale”, Lebensraum, secondo il gergo nazionalsocialista, rivendicato come area biogeografica dove solo il popolo tedesco avrebbe potuto decidere sovranamente con chi coabitare. Non che questo retaggio sia esaurito. Tutt’altro! Oggi continua a funzionare in quell’ecologia etnica che viene perpetrata subdolamente alle frontiere delle nazioni europee. Maier, però, non denuncia tutto ciò. Dopo aver delineato la storia del “territorio”, traccia un quadro della situazione attuale dove la globalizzazione sembra minare dal fondo questo antico e familiare concetto. Con esiti imprevedibili. Come restare legati al territorio in un mondo dominato da Internet? Che ne è del cyberspazio? Certo non pare un bene comune, già spartito, com’è, e già dilaniato da lotte di potere. Il dilemma è se sia uno spazio pre-territoriale o post-territoriale. Si può immaginare che anche lì saranno proiettate esperienze e attese del territorio tradizionale. Più radicale e dirompente è il libro di Shahram Khosravi, antropologo iraniano, “Io sono confine” (Elèuthera). Si legge con trasporto perché è scritto in prima persona ed è un esempio di quel genere che oggi si chiama “auto-etnografia”: i racconti dei migranti - purtroppo rari - che non si limitano a narrare la propria storia, ma riflettono sulla Storia in cui si inserisce. È il caso di Khosravi, iraniano del Bakhtiari, figlio di una famiglia contadina benestante, costretto a fuggire per sottrarsi, solo diciottenne, alla guerra. Oggi insegna antropologia in Svezia, all’Università di Stoccolma. È uno - si potrebbe dire - che ce l’ha fatta. E tuttavia non dimentica i tanti sconfitti che ha lasciato indietro. Parla anche a loro nome. Il racconto si snoda da quella angolazione esterna, così difficile da assumere per chi guarda tutto nell’ottica statocentrica, e così decisiva per comprendere i fenomeni attuali. Anzitutto il trionfo dei confini. Che cos’è la frontiera per chi sta dall’altra parte? Per il migrante, l’indesiderato, l’anti-cittadino? È violenza sfrontata e discriminatoria. Cartelli, recinzioni, sono lì sia per respingere sia per intimidire. Ma è anche confine di classe: pur imbarazzato ad ammetterlo, il Nord controlla il Sud, stabilisce la mobilità dei lavoratori, preserva la sperequazione salariale. Ed è confine di genere: lo stupro è una sorta di rito di passaggio a cui le donne sono sottoposte in tutti i confini del mondo. Si può far finta di non saperlo. Khosravi non si limita a descrivere. La ricostruzione narrativa del viaggio è anche una riflessione critica su tanti luoghi comuni che sono andati consolidandosi. Anzitutto sull’attraversamento “illegale” dei confini che è anche una contestazione dell’autorità. Di qui il potenziale sovversivo che ogni migrazione porta con sé e che la rende un atto politico. Ecco perché i migranti non sono pacchi nelle mani dei “trafficanti”, come si vorrebbe far credere. In questa visione di comodo, diffusa persino a sinistra, si riduce il migrante a un oggetto, assecondando quella necropolitica che semplicemente lo lascia morire, dopo averlo disumanizzato, se non zoologizzato, per escluderlo da ogni protezione. Ma per di più si rende il “trafficante” un capro espiatorio. Si può dire che le pagine dedicate a questa figura della zona grigia siano fra le più riuscite del libro. “Agli occhi della legge Homayoun era un trafficante di esseri umani, un criminale e un fuorilegge. Ma nei fatti a me salvò la vita in uno dei luoghi più pericolosi al mondo, una regione di confine dominata da banditi spietati, guardie frontaliere corrotte e mujaheddin afghani”. Chi salva, chi protegge, chi sottrae alla morte? E chi condanna, mette a repentaglio? Il “trafficante” diventa il capro espiatore su cui si scaricano le responsabilità. Una volta oltrepassata la frontiera, dopo innumerevoli vicissitudini, non è detto che sia superato il confine. Anzi c’è una barriera che resta per mesi, per anni, invisibile, impercettibile, difficile da denunciare: quella della discriminazione che insegue, perseguita perfino lo straniero già proclamato “cittadino”. Anche la cittadinanza non è sufficiente per accogliere davvero. Sono in molti, da Étienne Balibar a Wendy Brown, a interrogarsi oggi su quel mascheramento che ha reso quasi naturale ciò che è storico: a cominciare dalle frontiere per finire con gli Stati-nazione. Spesso, nel passato, seguendo le indicazioni dell’arte cartografica che nelle mappe documentava e ratificava l’occupazione dei territori, sono stati presi a pretesto montagne, fiumi, valli, coste, nell’intento di offrire una patina di naturalità ai limiti artificiali. Forse anche per questo è così difficile congedarsi dal concetto di frontiera che, ad esempio, per una penisola come l’Italia, protetta a nord dalle Alpi e circondata dal mare, sembra ovvio. Eppure c’è ben poco di naturale nelle frontiere come negli Stati, deputati a organizzare la vita di chi nasce su un territorio, tenendola separata dalla vita di chi abita magari a pochi chilometri di distanza. Come le frontiere non sono mai linee precise, bensì luoghi, di un fronte-a-fronte, di un faccia-a-faccia, zone di conflitto, ma anche di contatto, di tensione, ma anche di incontro, così i confini, pur segnando la fine di due territori, suggeriscono con quel con- l’idea di una condivisione. Oggi avviene il contrario. Le frontiere, visibili e invisibili, reali e simboliche, politiche ed etiche, appartengono al variegato paesaggio della delimitazione e dell’esclusione. Tutt’altro che abolite, restano i fondamenti dell’alfabeto geopolitico. I muri lo confermano. La moltiplicazione delle barriere non è solo la risposta del revanscismo nazionalistico, e neppure solo il sintomo della fobia per ciò che è “fuori”. Non esiste ancora una psicopolitica dei muri, che analizzi quella pulsione a proteggersi da tutto ciò che è estraneo, a segregarsi sempre e ovunque, che finisce per tradursi in una tragicomica autosegregazione. Ma questo almeno si può dire: che il muro è la messa in scena di una sovranità in declino, pericolante, erosa. Ed è una teatralizzazione tanto più ripugnante e turpe quando avviene in un porto che dovrebbe accogliere, luogo d’approdo atto a far sbarcare, quando la sovranità statuale, risentita e incarognita, si vendica poliziescamente sul corpo di quegli anti-cittadini, i migranti. Migranti. In Italia cresce un esercito di prigionieri per legge, candidati alla clandestinità di Alessia Candito L’Espresso, 13 ottobre 2019 Dopo lo sgombero della baraccopoli di San Ferdinando non esiste nessuna soluzione per i migranti rimasti nelle tende. E i decreti di Matteo Salvini hanno tolto quei pochi diritti rimasti. Arrivano quasi sempre di notte. Da Saluzzo, Foggia, o dai campi siciliani. Viaggiano in piccoli gruppi, o da soli, trascinandosi dietro vecchie valigie in cui conservano i loro pochi averi. I soldi no, quelli sono sempre addosso. Destinazione, Rosarno, tappa autunnale di una stagione che per i braccianti migranti non termina mai. Nella Piana, la raccolta delle olive e degli agrumi è alle porte. E come ogni anno, un esercito silenzioso si presenta puntuale per avviare a forza di braccia il motore dell’economia agricola della zona. Un esercito di fantasmi, oggi in larga parte clandestinizzato per decreto. Fino a qualche mese fa, la maggior parte di loro trovava riparo nella baraccopoli, il ghetto informale nascosto nella zona industriale di San Ferdinando, che per anni ha supplito alla mancanza di alloggi. Nata come “temporanea” tendopoli istituzionale, negli anni è diventata un labirinto di baracche. Ad ogni stagione di raccolta, “un’emergenza” per istituzioni incapaci di proporre soluzioni. Senza acqua, né servizi sono arrivati a viverci in 4mila. E non ci abitavano meno di mille braccianti il 6 marzo scorso, quando oltre 900 agenti delle forze dell’ordine si sono presentati a protezione delle ruspe che, per ordine del Viminale di Matteo Salvini, hanno buttato giù il campo. Mentre le baracche cadevano come castelli di carta, i più sono andati via. A chi è rimasto, Viminale, Prefettura e istituzioni locali hanno offerto tanti proclami, qualche promessa di immediata bonifica dell’area, alloggi e solo “temporaneamente” nuove tende. Sono passati 7 mesi e sotto un sudario di erba, le macerie ci sono ancora. Percolato, ceneri e brandelli delle lastre di eternit che rivestivano le baracche - avvertono gli ambientalisti - stanno contaminando l’area. Ma dal ministero, i 569 mila euro necessari per rimozione delle macerie e bonifica dell’area non sono arrivati mai. Al pari degli alloggi. Le tende blu ministeriali, invece sono ancora lì. Presidiata notte e giorno dalle forze dell’ordine, la tendopoli è in mano al Comune di San Ferdinando, che ogni sei mesi ne affida (in via diretta) la gestione ad una cooperativa, incaricata di vigilare su ingressi e assenze. Progetti a lungo termine per gli ospiti, nessuno. Il cerino è rimasto in mano al sindaco Andrea Tripodi, che adesso tuona contro lo sgombero e sulla stampa locale parla di “campagna mediatica di Matteo Salvini che non è servita ai migranti”. Ma per l’ennesimo anno, nessuno sembra avere in mente una soluzione. “Io sono fra i fortunati, almeno sono riuscito ad entrare in tendopoli e per adesso un posto per dormire ce l’ho” dice Janko. Ventidue anni, un passato in Gambia e mesi di Libia di cui non ha voglia di parlare, è in Italia da quando ne aveva 16. È finito a lavorare nei campi. “È dura ma ci si abitua”. A schiena curva ha raccolto pomodori in Sicilia, ortaggi in Calabria, poi è finito a Foggia. Lì aveva un contratto di lavoro regolare, era riuscito a mettere via qualche risparmio e aveva la concreta possibilità di convertire la protezione umanitaria in permesso di lavoro. “Poi è successo il disastro. Stavamo cucinando in tenda, ma l’olio era troppo caldo, la pentola si è rovesciata e in pochi minuti tutto era in fiamme. Abbiamo perso tutto”. Vestiti, soldi, ricordi, documenti. “Ho fatto subito la denuncia, ma non è bastato. Da Foggia mi hanno mandato a Palermo, da lì in Calabria, ma continuano a rimpallarmi fra i vari uffici”. Janko è finito in un circolo vizioso e a distanza di un anno è ancora lì che si dibatte. La sua protezione umanitaria era in scadenza, dunque non gli hanno rilasciato un duplicato. Aveva tutte le carte in regola per chiederne il rinnovo, ma nell’Italia del decreto Salvini, per prassi amministrativa è necessario attestare una residenza, dunque essere iscritti all’anagrafe. E per essere iscritti all’anagrafe è necessario esibire quel permesso che solo con una residenza potrebbe avere. “Io sto in tendopoli, sulla mia tenda c’è scritto ministero dell’Interno, ho un certificato che dice che vivo lì, ma in commissariato mi dicono che non basta”. Nel frattempo, la sua protezione è scaduta, il contratto è sfumato e lui è un fantasma. Ad aiutarlo ci stanno provando Usb, Cosmi e Nuvola Rossa che insieme gestiscono uno sportello a San Ferdinando. Ma Janko sa che nella migliore delle ipotesi la possibilità di stabilizzazione è sfumata per sempre. La protezione umanitaria non esiste più e quella “speciale” con cui è stata sostituita non può essere convertita in permesso di lavoro e va rinnovata ogni anno. Sempre che il rinnovo venga concesso. “Sono in molti ad inciampare negli stessi gorghi burocratici - spiega l’avvocato Francesco Penna, che supporta l’Usb nelle battaglie legali. L’intero sistema sembra un imbuto, con l’irregolarità come unico sbocco”. E ci finiscono in molti, a partire dalle migliaia di braccianti che affollano i casolari diroccati, baracche costruite nel nulla, container o i cosiddetti insediamenti informali. I più grandi sono Testa dell’Acqua, nei pressi di Gioia Tauro, e Contrada Russo, a Taurianova. Molti dei residenti sono richiedenti asilo usciti dal circuito Sprar e con il decreto Salvini non hanno diritto all’iscrizione all’anagrafe. “Questo - spiegano dall’Usb - significa niente tessera sanitaria e carta d’identità. Quindi nessuna possibilità di avere un contratto di locazione, di impiego o persino un conto corrente”. Risultato, per casa e lavoro sono obbligati ad arrangiarsi. I pochi che riescono a trovare un impiego regolare devono necessariamente appoggiarsi a connazionali con un conto corrente su cui dirottare i pagamenti. E il servizio costa circa il 10-20% dell’importo accreditato. Caporali telematici che si aggiungono a quelli che già presidiano gli svincoli. È lì che all’alba, da anni, ogni mattina apre il mercato delle braccia. E i nuovi schiavi rischiano di essere sempre di più perché ad ingrossarne i ranghi ci sono tutti gli orfani della protezione umanitaria. Come Ibrahim. Trentun anni, ivoriano, in Italia dal 2015. Assunto in un piccolo negozio di ferramenta della provincia di Reggio Calabria, in breve è diventato fondamentale per la coppia di titolari. Cinquantacinque anni lui, un po’ meno lei, storicamente di centrodestra, persino sedotti dalla retorica di Salvini, di fronte a quel ragazzo e al suo impegno si sono dovuti ricredere. Progettavano di regolarizzarlo: l’età avanza, il lavoro in ferramenta è pesante ed è meglio assicurarsi una persona di fiducia. Ma il permesso umanitario di Ibrahim è scaduto prima che il contratto venisse formalizzato e alla richiesta di rinnovo, la commissione territoriale ha risposto un secco no. Lavoro regolare, una casa in affitto, un discreto livello di conoscenza di lingua italiana, una rete ormai solida di rapporti non solo con connazionali, non sono bastati. Per la commissione la situazione in Costa d’Avorio non è sufficientemente tragica da motivarne la permanenza in Italia. Fino a qualche mese fa non era così. La stessa commissione, pur non riconoscendo la protezione internazionale a Seykou, omosessuale e per questo perseguitato in Gambia, lo aveva concesso “in ragione dell’inserimento lavorativo e della conoscenza della lingua italiana”. Criteri che dopo il decreto Salvini non valgono più. Il titolare della ferramenta si dispera. È andato in commissariato, in prefettura, in questura. Non vuole rinunciare a quell’apprendista. Ma tutti allargano le braccia. Impiccati alla volubilità delle commissioni, precari per decreto: in Italia cresce un esercito di prigionieri per legge, candidati alla clandestinità. Migranti. Abolire i decreti sicurezza: una battaglia civile e culturale di Marco Damilano L’Espresso, 13 ottobre 2019 Messo alle spalle Salvini, serve una politica fondata sul protagonismo della società. Capace di interessarsi davvero agli invisibili. Tè e biscotti, stendini per i panni, donne velate, bambini di ogni colore. All’ingresso, un cartello: “C’è la sbarra dietro il cancello, chi esce dovrà chiamare un parente o un amico per farsi aprire a mezzanotte”. Superato il primo blocco, un recinto carico di reti da materasso, poltrone di pelle, travi di legno. All’ascensore fermo al piano, un altro cartello che segnala il veleno per i topi e un avviso: “Care mamme e papà, bisogna pulire i sottoscala e il posto dei passeggini dei vostri bambini per una questione igienica e di buona convivenza, altrimenti i passeggini verranno sbattuti fuori”. Nel sotterraneo dove si fanno le assemblee, c’è un murale di Che Guevara con l’aureola che lo fa sembrare un Cristo bizantino. La prima sera di ottobre con Fabrizio Barca, una vita da tecnico in Banca d’Italia e al ministero di via XX Settembre, poi ministro della Coesione sociale nel governo di Mario Monti, oggi animatore del Forum Disuguaglianze Diversità, nelle palazzine occupate di viale del Caravaggio 107, dove abitano più di 380 persone, era la sede dell’assessorato alla Casa della regione Lazio, oggi ospita la più grande occupazione di Roma, probabilmente d’Italia e dunque forse d’Europa. Va avanti dal 2013, in una condizione di illegalità permanente che per molti è diventata l’unica possibilità di un’esistenza normale, dignità, vita. In tanti sono al Caravaggio fin dall’inizio, c’è da mesi l’attesa che l’ordine di sgombero venga eseguito, com’è avvenuto in estate in un vecchio istituto occupato nel quartiere Primavalle, all’epoca c’era ancora Matteo Salvini al Viminale. Le inquietudini non sono finite tra gli abitanti della città degli invisibili, il condominio che non potrebbe esistere, la stiva dei clandestini che viaggia a pochi chilometri dal centro di Roma. “Lottiamo per avere un tetto sulla testa”, dice Anna. “Le guerre contro i poveri non riguardano solo la stagione politica appena conclusa, sarebbe un errore semplificare tutto attorno alla figura di Salvini. Si sono spaventati dello squilibrio creato dai populisti, ma gestire una situazione diversa non significa cambiare”, spiega Luca Fagiano dei Movimenti per l’abitare. Gli inquilini in gran parte sono in possesso della residenza fittizia concessa ai senza fissa dimora dal Comune di Roma e da altri comuni, via Modesta Valenti, come si chiamava una clochard morta quasi quarant’anni fa alla stazione Termini senza identificazione. È il pezzo di carta che permette l’assistenza sanitaria o la partecipazione a un concorso, in molti non hanno neppure questa, sono sconosciuti per lo Stato e per l’amministrazione comunale, sono fantasmi. In tanti sono migranti, silenziosi e attenti. Si fanno i turni di pulizia o di sorveglianza, sembra una scena del film di Ettore Scola “C’eravamo tanto amati”, l’accampamento notturno dei genitori davanti a una scuola per iscrivere i figli. Gestione collettiva, comunitaria. Resistenza significa fare una vita normale e aspettare. La casa per tutti è uno dei 169 target indicati dall’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, il 4 ottobre è stato presentato il rapporto che fotografa la situazione in Italia dall’Asvis, l’alleanza presieduta da Enrico Giovannini. Sono le voci delle viscere, del basso della società, il lato fragile del Paese, anche se questa definizione viene rifiutata dagli occupanti del Caravaggio. Nelle stesse ore, in superficie, un ex vice-ministro dell’Economia, Stefano Fassina, viene ferito mentre partecipa a una manifestazione per il lavoro durante una carica della polizia, si dimette l’intero consiglio di amministrazione dell’Ama, l’agenzia che gestisce i rifiuti della capitale, con una lettera durissima nei confronti della sindaca Virginia Raggi, ripercorrendo le tappe di una vicenda anticipata dall’Espresso nel mese di aprile. Qualche chilometro più in là, a Palazzo Chigi, viene approvata la nota di aggiornamento al documento di programmazione economica che dà i numeri e le indicazioni per la legge di Bilancio in arrivo. Per il presidente del Consiglio Giuseppe Conte farà volare il Paese, lui infatti giura di essere qui per riformare l’Italia, per meno non si sarebbe mosso dal suo studio legale, per il ministro Peppe Provenzano è la più a sinistra degli ultimi anni. Nella palazzina occupata, però, ne dubitano. Una situazione estrema, si dirà. Il giorno dopo l’assemblea del Caravaggio mi sono ritrovato ad ascoltare i sindaci arrivati a Roma per il festival delle città: il milanese Beppe Sala, e poi l’ex grillino Federico Pizzarotti di Parma, Carlo Salvemini di Lecce, Rinaldo Melucci di Taranto, fino al sindaco della piccola Acri in provincia di Cosenza Pino Capalbo. E il dubbio è ritornato, in tutt’altra sede. “Quando si fa un governo non veniamo ascoltati, quando si fa una manovra economica neppure, ogni volta che viene pubblicato un Def incrociamo le dita e diciamo: speriamo bene!”, ha raccontato Sala. “Noi che abbiamo la responsabilità di fronte ai cittadini non possiamo accontentarci di giocare in difesa, dobbiamo essere coinvolti nelle decisioni”. Politica di prossimità, la chiama Salvemini, ribellandosi all’idea di convivere con i servizi che non ci sono, i fondi Ue che non vengono spesi. Non è la riproposizione del partito dei sindaci modello anni Novanta e Duemila, che partiva dalle città per andare alla conquista del Palazzo nazionale. Nel frattempo, il divario tra le due dimensioni si è allargato, fino a far esclamare al sindaco di Taranto Melucci che sono le città “la dimensione politica del futuro”. In sala, però, si intuiva che negli ultimi anni il passato è tornato. Nell’Agenda 2030 dell’Onu, per esempio, il quinto obiettivo si propone di eliminare la differenza di genere, ma nella seconda giornata del dibattito le donne con la fascia tricolore erano due su 18 e le intervenute sei su 47 relatori. E il dubbio si è allargato. Il salvinismo, più di ogni altra cosa, come tutti i sovranismi (pensate a Boris Johnson), è mortificazione del pluralismo e delle autonomie. La sorda contrapposizione tra l’ex ministro dell’Interno e i presidenti delle regioni del Nord, tutti leghisti (più l’emiliano Stefano Bonaccini del Pd), che chiedono allo Stato l’autonomia differenziata, non è soltanto uno scontro correntizio dentro il partito che fu della Padania. La politica di Salvini è stata centralismo, occupazione, richiesta di delega, soluzione di tutti i problemi affidata o all’uomo forte al comando o al singolo cittadino, come nel caso della legge sulla legittima difesa. Anche i decreti sicurezza, di cui parlano Aboubakar Soumahoro e Stefano Allievi sull’Espresso, erano il prodotto di questa concezione. Il blocco delle navi delle Ong deciso da Roma, da una stanza del Viminale (peraltro disabitata dal titolare dell’epoca), così come lo smantellamento della rete Sprar, gli istituti di seconda accoglienza attivati dagli enti locali in collaborazione con il volontariato e il terzo settore, erano due facce della stessa medaglia. Mortificare le diversità, appiattire la società in un’unica dimensione securitaria. Finito Salvini, almeno per ora, dovrebbe riemergere un’altra idea dello Stato e della politica. Fondata sul pluralismo, il rispetto delle diversità, il protagonismo delle città e della società civile. Dovrebbe essere questo, ben più del no all’aumento dell’Iva, il collante che tiene unita la nuova maggioranza giallorossa. Il Movimento 5 Stelle è nato esattamente dieci anni fa, il 4 ottobre 2009 giorno di San Francesco d’Assisi, con l’icona di Beppe Grillo e da un’idea di Gianroberto Casaleggio, dare voce alla rabbia dei cittadini comuni contro una politica che si era rinchiusa nei suoi quartieri, blindata e sorda rispetto alle proteste e alle frustrazioni degli italiani normali. Oggi M5S è il partito del Palazzo, il decennale della nascita se l’è scordato. Forse sarà lo stesso Grillo a riprendere la strada, ma intanto i suoi eredi tacciono, per eccesso di furbizia o di imbarazzo. Ma anche il Partito democratico, nato ufficialmente due anni prima, il 14 ottobre 2007, doveva servire nelle intenzioni a raggiungere lo stesso risultato: un grande partito nazionale pensato come uno strumento di partecipazione, non soltanto il giorno dei gazebo per le primarie. Chi avesse il coraggio di riprendere quei progetti ambiziosi, nei rispettivi campi, avrebbe di fronte a sé le praterie politiche e elettorali. Invece, il segno più evidente di questa stagione politica è l’assenza di uno spazio, quello intermedio che c’è tra le sottili manovre delle leadership di partito e di corrente e il muoversi della società, unito alla ricerca e alla richiesta di spazi. Matteo Renzi è alla ricerca di spazi, avanza a strappi e forzature, si colloca nel centro del sistema politico e promette colpi di scena e capovolgimenti di fronte, soprattutto ai danni del suo vecchio partito, il Pd. Per altri soggetti, più importante, è l’assenza di uno spazio. Che è un guaio, ma anche un’opportunità. Cercano uno spazio politico i sindaci, schiacciati dalle alchimie della politica nazionale. Cercano uno spazio i movimenti della società civile, non più minoritari. L’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile di Enrico Giovannini e il Forum Disuguaglianze Diversità coordinato da Fabrizio Barca sono network che mettono in contatto associazioni nazionali e locali su progetti concreti, sono idealisti e pragmatici, sostituiscono sui territori e nel dibattito politico nazionale i partiti in disarmo organizzativo, culturale, sociale. Sono, da questo punto di vista, i nuovi partiti che uniscono i puntini, anziché dividerli, come faceva il ministro dei decreti sicurezza. Per questo, abolirli non significa compiere un procedimento legislativo, ma prendere una posizione civile e culturale. Per non continuare con una politica che vola ma non tocca le macerie sociali, il desiderio di tetto, i fantasmi che abitano il paesaggio italiano. Droghe. Il pericolo di vedere i fenomeni nuovi con gli occhi di ieri di Riccardo Gatti Corriere della Sera, 13 ottobre 2019 Possiamo affrontare un problema grave, multiforme, complesso e diffuso, quale la droga, oppure ignorarlo, in un mondo che è cambiato. La seconda opzione è la più distruttiva, funzionale all’ulteriore sviluppo del problema. Corriere del 10 ottobre, prima pagina: “I colpevoli silenzi e la droga”. Antonio Polito richiama un articolo del 1975 scritto da Pasolini che considerava la droga “una vera tragedia italiana”, laddove la droga era vista come parte di un desiderio di morte legato alla necessità di riempire un vuoto di cultura. Sempre il io ottobre, nelle pagine di Milano, Elisabetta Andreis, porta in primo piano una nuova tendenza “Consegne a domicilio in pochi minuti. Il nuovo business della cannabis light”. Qui, un operatore di settore spiega che “La cannabis light è diventata il prodotto più richiesto a domicilio, dopo il cibo”. C’è un vuoto culturale? Senz’altro: il passaggio tra la società post-industriale e l’attuale società interconnessa è stato rapidissimo. Ha sconvolto una serie di equilibri che definivano, ad esempio, l’autorevolezza degli educatori, basata sull’esperienza ed una serie di “valori” e di “regole” che si davano per assodati, al punto di costituire il confine tra la vita integrata e la devianza; tra la cultura e le controculture possibili. Un salto così grande che, per restare nel tema droga, ha trasformato situazioni limite, come quella del parchetto dello spaccio di Rogoredo, in luoghi simbolici, perché correlatili gli antichi canoni Pasoliniani della droga come desiderio di morte in una società diventata invivibile. Canoni ripresi, almeno in parte, anche da Saviano, a proposito della diffusione di cocaina, cui si ricorre “Perché la vita è una merda”. Insomma situazioni che, anche quando generano conseguenze drammatiche ed estreme, rimangono ancora comprensibili, perché spiegate secondo interpretazioni già conosciute e, quindi, “rassicuranti”. Ma proprio queste “rassicuranti” interpretazioni, anni 70, impediscono di comprendere che non solo le droghe non sono più (solo) quelle di una volta, ma che noi stessi siamo cambiati rapidamente e viviamo in un modo diverso, dove alle esperienze si attribuiscono significati differenti e mutevoli, nel momento stesso in cui sono vissute e comunicate. È questo che, ad esempio, permette ad una sorta di “non droga”, come la cannabis “light”, di diventare un sopravvalutato bene di consumo. Una diffusione che, forse, non sarebbe mai avvenuta se non ci fosse anche la cannabis “stronfi”, venduta a minor prezzo sul mercato illecito e dotata di “efficacia drogante”. Più che di fronte a silenzi colpevoli, la colpevolezza è proprio ciò che c’è dietro al silenzio, ovvero il non parlare di cose che non si conoscono, perché non ci importa di conoscerle, oppure di parlarne a sproposito per la medesima ragione. Colmare in tempi brevi un enorme vuoto culturale per non lasciare spazio alla droga è, infatti, faticoso e complesso perché la cultura non è l’esibizione di pseudo-saperi astratti, in un decadente salotto televisivo, ma l’insieme delle cognizioni intellettuali che i singoli e la collettività acquisiscono e condividono attraverso lo studio e l’esperienza. Studio ed esperienza che non solo richiedono tempo, lavoro e fatica ma che, se trasformati in cultura, ci obbligherebbero a rivedere proprio quei rassicuranti canoni che ci fanno leggere i fenomeni di oggi con gli occhi di ieri. Visioni che ci hanno portato a dichiarare guerra ad alcune sostanze, sostenendo contemporaneamente il commercio di altre che, ancor oggi, sono la principale causa di morti e malattie evitabili per milioni di persone. Probabilmente il tutto ci obbligherebbe a rivedere norme, processi educativi, leggi e approcci terapeutici e riabilitativi che, quando necessari, non possono prescindere dai significati dei fenomeni che generano patologia. Oggi possiamo affrontare un problema grave, multiforme, complesso e diffuso, per quello che è, oppure ignorarlo ancora, in tutto o in parte, in un mondo che è cambiato. La seconda opzione è senz’altro la più distruttiva perché funzionale all’ulteriore sviluppo del problema. Estraniarsi dalla realtà e non affrontarne le problematiche per quello che sono, infatti, è pur sempre una forma di alienazione. Medio Oriente. Crisi curda, un’occasione per l’Unione Europea di Danilo Taino Corriere della Sera, 13 ottobre 2019 La nuova Commissione dovrà passare a un paradigma diverso da quello solo introspettivo. La pugnalata alle spalle di Donald Trump agli alleati curdi in Siria sta facendo vacillare la credibilità degli Stati Uniti, in Medio Oriente e non solo. Nel vuoto che si è creato, è però anche drammaticamente evidente la fragilità dell’Europa. La quale Europa è, se non altro per ragioni di vicinanza geografica, la regione più vulnerabile alle conseguenze dell’offensiva turca, sia in termini di possibile nuova ondata migratoria sia in termini di possibile rilancio delle attività terroristiche dell’Isis. In questi giorni dovrebbe essere in prima fila, non solo con dichiarazioni, nella gestione della crisi. Dalla situazione siriana e dalla questione curda, la Ue si è invece tenuta lontana; e nei confronti della Turchia ha compiuto una serie di errori. Il risultato è che oggi è di fatto spettatrice di una azione di polizia cruenta alle sue porte e che Recep Tayyip Erdogan può minacciare, senza ritegno ma anche senza visibili conseguenze, i Paesi europei di aprire le porte a più di tre milioni di migranti. La crisi che si è aperta con il ritiro delle truppe americane dalla Siria è un’occasione - forzata e orribile ma un’occasione - per dare all’Unione europea un minimo di visione geopolitica nella propria difesa. Visione geopolitica che è straordinariamente assente nei governi europei da trent’anni, dalla caduta del Muro di Berlino, e la cui mancanza è sempre più ragione di pericoli. L’esempio forse più evidente dell’illusione europea che la Storia e i conflitti che essa si porta dietro fossero finiti riguarda proprio la Turchia. Nei confronti del Paese che sta sul confine tra Europa e Asia, la Ue ha tenuto una posizione ambigua durante i lunghi anni di trattative per l’ingresso di Ankara nell’Unione. In certi momenti ha illuso i turchi che le porte fossero aperte, in altri, e sempre più negli ultimi anni soprattutto da parte di Germania e Francia, ha sollevato ostacoli. Una forma di aggancio, il più stretto possibile, era quello che la maggioranza dei turchi sperava; la loro delusione ha avuto l’effetto di rafforzare la retorica nazionalista e panturca di Erdogan. Il quale oggi gioca una partita violenta contro i curdi e cinica con gli europei. Più in generale, distratta dalle proprie crisi interne e dall’idea che nella globalizzazione contasse quasi esclusivamente l’economia, l’Europa non ha agito e nemmeno pensato in termini di geopolitica se non quando ne è stata costretta, come nel caso delle sanzioni a Mosca dopo l’annessione della Crimea da parte della Russia. Non solo non lo ha fatto con la Turchia, non lo ha fatto seriamente nemmeno nei Balcani, oggi terreno di ingresso degli interessi cinesi. E molto poco anche in Africa, al di là degli aiuti umanitari. Ora, in un mondo sempre più pericoloso, è sotto pressione per cercare di recuperare una posizione nel panorama internazionale, non solo per sedersi ai tavoli dove si prendono le decisioni ma anche per costringere altri a sedersi. Non sarà facile. La nuova presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha detto di volere una Ue “geopolitica”, che si muova cioè dandosi un ruolo negli affari mondiali. La commissaria al commercio Cecilia Malmström ha sostenuto che la Ue deve “pensare seriamente” a come proiettare nel mondo i suoi obiettivi di sicurezza e di politica estera, perché “non è veramente equipaggiata per affrontare un mondo in cambiamento”. Un politico importante del Parlamento europeo, Guy Verhofstadt, ha addirittura evocato la necessità di fare parte di “un ordine mondiale che si basa sugli imperi”. Sono le crisi e le necessità a produrre i salti di qualità nella politica e nelle istituzioni. La sfida prima che avrà di fronte la nuova Commissione europea, e con essa i governi della Ue, sarà la necessità di passare a un paradigma diverso da quello solo introspettivo che l’ha sostenuta negli scorsi decenni. Di fronte alla crisi di questi giorni dei curdi in Siria e al vuoto lasciato da Trump, la domanda è se ci sia, nel Vecchio Continente, la forza e la volontà di affrontare la nuova realtà prima che sia davvero troppo tardi. Medio Oriente. I jihadisti attaccano le carceri in Siria. In fuga foreign fighters e miliziani di Giordano Stabile La Stampa, 13 ottobre 2019 I curdi: non possiamo più difendervi dallo Stato islamico. Colpi di artiglieria turca sfiorano base Usa a Kobane. L’attacco turco “fa risorgere l’Isis”. E i curdi non si sentono più “responsabili della sorveglianza” dei jihadisti prigionieri. L’avvertimento del comandante delle Forze democratiche siriane Redur Khalil arriva mentre la prima città del Rojava, Ras al-Ayn, è ormai perduta e persino soldati statunitensi sono finiti sotto il fuoco dell’artiglieria di Ankara. Stati Uniti ed Europa devono fare qualcosa, o la bomba Isis gli esploderà in mano. A cinque giorni dell’inizio delle operazioni di terra da parte della Turchia e degli alleati arabi, lo Stato islamico ha rialzato la testa, in uno stile che ricorda l’insorgenza irachena. Attacchi alle prigioni per liberare i combattenti e ingrossare le file delle cellule clandestine. Con l’obiettivo di ricreare un’armata in grado di prendere il controllo del territorio. Lo ammettono anche gli ufficiali americani. La lotta contro l’Isis è “finita”. Un ufficiale curdo ha confermato, in quanto “gli Usa non possono agire senza le Sdf al loro fianco sul terreno”. Un concetto che è stato ribadito ieri dal comandante Khalil. “Ci sentiamo traditi e dobbiamo combattere su due fronti, uno contro l’Isis e l’altro con la Turchia. Mantenere la sicurezza nelle prigioni dell’Isis non è più la nostra priorità. Il mondo si può occupare del problema Isis se davvero lo vuole”. Ancora più duro il generale Mazloum Kobani: “Gli Usa ci hanno venduti, lasciati soli, al massacro”. Tanto che è pronto a chiedere protezione ai russi, una loro “no fly zone”. In queste condizioni è impossibile sorvegliare le 20 prigioni dove sono tenuti i 1500 jihadisti più pericolosi, su un totale di 12 mila. In quella di Qamishlo la fuga è già cominciata. È stata colpita da una bomba, e almeno cinque prigionieri dell’Isis sono riusciti a uscire dalla breccia nel muro di cinta. Un’altra, a Hasakah, dove i detenuti sono alcune centinaia, è stata presa di mira da un’autobomba dei jihadisti, che ha innescato una rivolta interna. Sono due centri che custodiscono soggetti pericolosi, come il foreign fighter francese Adrian Guihal, che fonti locali, finora non confermate in Francia, danno già in fuga. Guihal è responsabile dell’organizzazione degli attentati a Magnanville, due agenti francesi uccisi, e di Nizza, 87 vittime. A rischio evasione è invece lo svizzero Damien Grivat, uno dei coordinatori dei massacri di Parigi del 12 novembre 2015. La situazione è al limite nel campo di Al-Hol, con 10 mila jihadisti di caratura minore e 58 mila civili, moltissime vedove di combattenti morti. Fra loro ci sono anche Mylène Facre e Dorothée Maquère, vedove dei fratelli Clain. Le irriducibili conducono una guerriglia strisciante dentro il campo, sul punto di esplodere. Il caos è tale che nella tarda serata di venerdì colpi di artiglieria turca sono finiti a 200 metri dalla base Usa di Kobane i militari dell’avamposto sono stati sfiorati. Ankara ha poi spiegato di aver preso di mira i mortai curdi che colpivano una caserma della polizia oltre la frontiera. Le tensioni con l’America sono però sempre più forti. Senza una no fly zone il tempo gioca a favore dello Stato islamico. Le difese curde, impossibilitate a contrastare i raid aerei in un terreno piatto, privo di ostacoli naturali, cedono. Ieri i miliziani arabi alleati della Turchia hanno preso Ras al-Ayn. I curdi sostengono che il centro è ancora in mano a loro, ma sono circondati. I miliziani jihadisti di Ahrar al-Sharqiya hanno poi fatto un puntata fino all’autostrada M4, che attraversa tutto il Rojava. Sono stati respinti dopo due ore, ma nel frattempo hanno ucciso a sangue freddo sei civili. Fra loro ci sarebbe anche una nota esponente della leadership curdo-siriana, Hevrin Khalaf. I raid hanno causato perdite pesanti fra i guerriglieri. Il ministero della Difesa di Ankara sostiene che sono 415 i “terroristi neutralizzati”. Per l’Osservatorio: siriano dei diritti umani il bilancio è di 74 guerriglieri uccisi, 49 miliziani arabi, 5 soldati turchi. Egitto. Torturato l’attivista Alaa. Nel silenzio della Ue e di Roma di Pino Dragoni Il Manifesto, 13 ottobre 2019 Dalla sciagurata prigione di Tora il regime di al Sisi manda un segnale a tutti gli attivisti. Bendato, denudato e picchiato. I suoi aguzzini: “Noi odiamo la rivoluzione”. “Alaa è stato torturato e umiliato, e adesso è in pericolo”. La notte del 10 ottobre la famiglia dell’attivista e intellettuale Alaa Abdel Fattah ha lanciato l’allarme per le condizioni in cui è detenuto dal 29 settembre, quando è stato arrestato direttamente nella stazione di polizia in cui era costretto a passare tutte le notti. Il giorno dopo l’arresto Alaa è stato trasferito nel famigerato braccio di massima sicurezza del carcere di Tora, insieme al suo avvocato Mohammed Baqer, inspiegabilmente preso anche lui durante l’interrogatorio a cui stava assistendo. Alaa è arrivato in carcere bendato, lì è stato denudato e picchiato per la prima volta. Poi ha ricevuto quella che i detenuti chiamano la “parata di benvenuto”, costretto cioè a camminare in un corridoio in cui è stato preso a schiaffi, calci e pugni dai secondini. Dopo il pestaggio, di nuovo bendato, è stato portato da un ufficiale che gli ha spiegato “questa prigione è fatta per dare una lezione a quelli come te”, per poi aggiungere “Io ti odio, e odio la rivoluzione”. Ma Alaa, nonostante le minacce, come sempre ha deciso di parlare, e nell’interrogatorio con il procuratore (che ha rinnovato l’ordine di detenzione per lui e per il suo avvocato) ha denunciato tutte le violazioni subite, pur consapevole che di lì a poco sarebbe tornato dritto nelle mani dei suoi aguzzini. La sorella Mona e la madre sono costantemente in cerca di sue notizie, e finora sono riuscite ad ottenere una visita in cui hanno potuto constatare, attraverso un vetro, che finora non ci sono state ritorsioni. Non è la prima volta che Alaa finisce in carcere. Volto simbolo della rivoluzione del 2011, l’attivista è stato arrestato sotto tutti i presidenti che hanno governato l’Egitto da Mubarak in poi. È la prima volta però che subisce abusi fisici a questi livelli. Botte e torture sono la norma nelle stazioni di polizia e nelle carceri egiziane, ma finora le figure più importanti e più in vista erano state risparmiate da pratiche simili. A quanto pare ormai il regime del presidente Abdel Fattah al-Sisi ha superato anche questa linea rossa. “Il fatto che Alaa sia stato arrestato - scrive la famiglia in un comunicato - non è una questione che riguarda lui in particolare. Ma è per mandare un messaggio a tutto il paese: non pensate neppure per un istante che vi permetteremo di protestare contro questo regime”. L’arresto di Alaa infatti rientra in quella che è la più vasta campagna di arresti politici da quando al-Sisi è al potere. Tutto è cominciato il 20 settembre, quando alcune rabbiose proteste contro il regime di al-Sisi sono esplose inaspettatamente nelle strade di diverse città dell’Egitto. Da allora 3.120 persone sono state arrestate, attivisti e attiviste, avvocati per i diritti umani, dirigenti di partiti di opposizione, ma soprattutto gente comune prelevata arbitrariamente in strada o nelle abitazioni. Tra questi ci sono anche 111 minori, alcuni dei quali appena undicenni, arrestati nel tragitto da casa a scuola. Tra i fermati ci sono anche numerosi stranieri, sudanesi, turchi, yemeniti, ma anche europei. Due studenti di arabo dell’Università di Edimburgo, sono stati arrestati per alcuni giorni con l’accusa di spionaggio. In seguito all’incidente l’università scozzese ha chiesto a tutti i suoi studenti di tornare a casa. Uno studente statunitense ha raccontato di essere stato bendato per circa 15 ore durante i quattro giorni che ha passato in una struttura detentiva con altre 300 persone, tutte arrestate in relazione alle proteste. La sua colpa era quella di avere salvati sul suo smartphone alcuni articoli sulle manifestazioni dei giorni precedenti. E venerdì una giornalista italiana, Francesca Borri, è stata fermata per circa 24 ore al suo arrivo all’aeroporto del Cairo. L’ambasciata si è immediatamente mobilitata per seguire il caso. Si è parlato di “accertamenti sul passaporto”, ma alla fine alla giornalista è stato di fatto impedito l’accesso al paese. “Trattenuta per quello che penso e dico del regime di al-Sisi”, ha twittato la freelance. “Ma onestamente, essendo una dei giornalisti che ha indagato sull’omicidio Regeni, per me questo ingresso negato in Egitto è una medaglia al valore”. E proprio l’Unione Europea, di cui Giulio Regeni era cittadino, tace e “chiude un occhio” sulla repressione in corso in Egitto, come denuncia Euromed Rights, una rete di Ong per i diritti umani. Pochissime le condanne che si sono alzate (un pugno di parlamentari europei). Silenzio tombale dalla Farnesina. Spagna. I capi indipendentisti catalani sono “colpevoli di sedizione” di Paola Del Vecchio Avvenire, 13 ottobre 2019 I media anticipano la sentenza del Tribunale Supremo, che sarà pronunciata domani, contro dodici politici che dichiararono l’indipendenza nel 2017. Escluso il golpe. “Saranno dodici gli anni inflitti a Junqueras”. Nel rovente autunno secessionista del 2017 in Catalogna non ci fu una ribellione con una violenza diretta a sovvertire le strutture dello Stato. Ma i leader indipendentisti furono promotori di una “sedizione tumultuosa”, per impedire l’applicazione di leggi statali e dichiarare unilateralmente l’indipendenza. La conclusione della sentenza di condanna dei nove dirigenti catalani in carcere emessa dal Tribunale Supremo, che sarà pronunciata domani, ma è stata già anticipata da tutti i quotidiani e la tv nazionale. A due anni dal fatidico referendum illegale del primo ottobre - cui l’allora governo di Rajoy rispose con cariche nei seggi - e dalla successiva dichiarazione di indipendenza lasciata senza effetto, l’alta corte considera accreditata per sei ex “conseller” anche l’accusa di malversazione di fondi per la convocazione delle urne. Secondo fonti giudiziarie, il cumulo di reati comporterà per Oriol Junqueras, l’ex vicepresidente catalano e leader di Erc, la pena più pesante: 12 anni di carcere, vicina al massimo dei 15 previsti per la sedizione. Con pronunciamento unanime, la Corte, presieduta dal giudice Manuel Marchena, avrebbe così sposato la tesi dell’Avvocatura dello Stato, che ha escluso la ribellione, sostenuta dal pro, punita fino a25 anni di carcere. E. che aveva sollecitato 11 anni e mezzo per gli ex conseller Iordi Turull, Josep Run, Maquim Form, Raul Romeva e Dolors Bass; 10 per l’ex presidente del Parlament, Carmen Forcadell e 8 per i “due lordi”, Sanchez e Cuixart, leader dell’Anc e di Omnium. I tre giudicati a piede libero, Santi Vila, Carles Mondó e Meritxell Borràs, pagheranno per la sola disobbedienza. Significa che, dopo 2 anni di prigione preventiva scontati, la cupola politica potrebbe presto lasciare le celle per accedere alla semilibertà. Non servirà comunque a raffreddare il clima rovente e lo “tsunami democratico” in risposta al verdetto in Catalogna. La mobilitazione in nome della “disobbedienza civile”, un’azione di forte impatto, che duri il più a lungo possibile, preparata dal popolo indipendentista. Due anni dopo lo strappo, il conflitto catalano resta senza sbocco, nonostante l’avvicendamento del governo di Slinchez con quello di Rajoy. Con l’ex president Puigdemont e 5 ex conseller riparati all’estero, l’attuale “govem” del successore Quim Torta è fermo su posizioni oltranziste, distanti da quella più pragmatica di Esquerra Republicana, decisa ad abbandonare l’unilateralismo. Ma ricompattate nella difesa dei “prigionieri politici”, dopo aver approvato nel “Parlament” una mozione che reclama il ritiro della guardia civile dalla regione e l’indulto. E l’irrisolta questione territoriale resta un fulcro dell’instabilità politica, alla vigilia delle quarte elezioni in 4 anni, il 10 novembre. La sentenza aggrava il solco fra separatisti e unionisti, che ieri hanno marciato in 10mila a Barcellona, con i leader di Ciudadanos, Pp e Vox, per esigere mano dura e l’arresto di Carles Puigdemontin “esilio” in Belgio. E da Waterloo in videoconferenza a Terrassa, l’ex president ha esortato “a reagire”, al verdetto “farsa”. La fuga di notizie sui media ha tenuto banco a Madrid al tradizionale ricevimento per la festa nazionale al palazzo reale, dove il giudice Marchena, fra gli invitati, ha ricordato che la sentenza non è firmata e che possono esserci “discrepanze fino all’ultimo momento” fra le 7 toghe della Corte. Poco distante, il premier Sanchez assicurava che governo ha “previsto ed è pronto a tutti gli scenari”. Stati Uniti. La California abolisce le carceri private e i centri di detenzione per migranti globalist.it, 13 ottobre 2019 La decisione del governatore democratico Gavin Newsom che ha già dichiarato una moratoria sulla pena di morte. Il segnale di un’America che prende le distanze dai metodi di Trump: il governatore democratico dello stato americano della California, Gavin Newsom, ha emanato ieri una legge che abolisce le prigioni private. Le carceri private “contribuiscono all’eccesso di detenzione” e “non riflettono i nostri valori”, ha dichiarato Gavin Newson, un democratico che è salito al potere nel gennaio 2019 e che aveva già dichiarato una moratoria sulla pena di morte in California lo scorso marzo, come riportano media Usa. Il testo promulgato ieri proibisce ai dipartimenti di Correzione della California di approvare o rinnovare, dal 2020, contratti con carceri private, che non avranno più il diritto di esistere nello stato entro il 2028. La stessa misura si applica alle società private che gestiscono centri di detenzione per migranti illegali. Degli attuali 115.000 residenti nelle carceri californiane, circa 1.700 sono detenuti in carceri private, dove le condizioni carcerarie vengono regolarmente criticate da attivisti a difesa dei diritti umani.” Cina. I laogai, una storia di schiavitù moderna di Elena Pompei insideover.com, 13 ottobre 2019 Il 22 settembre abbiamo visto festeggiarsi in pompa magna i 70 anni della Repubblica Popolare Cinese, quando la parata più grande mai dispiegata dal governo ha marciato per ottanta minuti sulle strade di Pechino. Ma nel 1949, all’alba del regime di Mao Zedong, nasceva anche il segreto meglio tenuto della storia contemporanea: i Laogai. Ispirato dall’esperienza dei Gulag sovietici, nel 1950 Mao Zedong dà vita ai primi Laogai, campi di lavoro e di rieducazione progettati per sfruttare la manodopera dei “nemici del regime”. In queste strutture, uomini e donne reclusi senza processo erano sottoposti a lavori forzati e torture, lavaggio del cervello, fame e condizioni igieniche inumane. Settant’anni dopo, i Laogai sono ancora attivi, evoluti e moltiplicati. L’ultimo dato disponibile della Laogai Research Fundation attesta il numero dei campi attualmente attivi sul suolo cinese ad oltre 1500, ed il conteggio delle vittime - fermo all’epoca maoista - ad oltre 27 milioni di persone. Molte delle informazioni sui laogai provengono da Harry Wu, un uomo che dopo aver speso 19 anni in un campo di lavoro è fuggito negli Stati Uniti e ha fondato la Laogai Research Fundation, accogliendo e dando supporto alle centinaia di sopravvissuti dispersi in giro per il mondo. Wu sostiene che dal 1949 alla metà degli anni Ottanta si debbano contare almeno 50 milioni di prigionieri, e che il numero dei detenuti si aggira intorno agli otto milioni. Harry, detenuto in 12 diversi campi nel corso dei suoi quasi vent’anni di prigionia, ha raccontato di esecuzioni capitali, traffico di organi, orari lavorativi sfiancanti e una giustizia arbitraria, se non assente. A seguito delle forti proteste di Harry Wu e degli altri sopravvissuti, i laogai in senso stretto sono stati formalmente aboliti dalla Corte Suprema cinese nel 2013, assieme alla politica del figlio unico; tuttavia, le testimonianze più recenti affermano che, oltre le formalità, i laogai restano la forma di prigionia privilegiata in Cina. I campi di rieducazione al lavoro, però, non sono più da tempo riservati a dissidenti o criminali; nei Laogai ci finisce anche chi è un imprenditore, perché considerato un oppositore di destra. Ci finisce chi ha deciso di infrangere la regola dei due figli. Ci finisce chi fa parte di un ordine religioso o di una minoranza, siano essi musulmani, cristiani o cattolici. Sabrina Wu, religiosa appartenente ad un ordine protestante e rifugiata politica in Italia, afferma che “solo nel 2018, almeno 23.567 membri della Chiesa sono stati perseguitati direttamente dalle autorità, e più di 10mila persone sono state arrestate”. Sabrina, fuggita con alcune consorelle a seguito della persecuzione, sostiene che sono almeno 500mila i cristiani costretti ad espatriare, e che solo in Italia ci sono 854 richiedenti, “ma solo il 10% ha ottenuto l’asilo”. Nel 2019, il ruolo dei Laogai rimane fondamentale per lo Stato cinese. Essi servono senz’altro a perpetuare la macchina dell’intimidazione contro gli oppositori politici, ma sono ancor più necessari perché i prigionieri costituiscono un’inesauribile forza lavoro a costo zero. Nei Laogai si producono beni che vengono poi importati in tutto il mondo, una realtà che già nel 2004 era emersa violentemente, tanto da spingere alcuni parlamentari europei a chiedere alla Commissione di andare a fondo della natura degli scambi commerciali con la Cina. Solo nel 2007 la Commissione europea ha potuto affermare che “su ogni bene esportato la Cina deve dare garanzia scritta che non è prodotto nei Laogai e, in mancanza di quest’assicurazione, la Commissione deve proibirne l’importazione nell’Ue”. È evidente, però, che a tredici anni di distanza questo non può bastare. Non possiamo più usare la scusa dell’indifferenza: finché l’Occidente accetterà prodotti fabbricati in Cina, i Laogai continueranno ad esistere e, per tornare alle parole di Wu, a fabbricare “due generi di cose: i prodotti e gli uomini”.