Fine umanità mai di Carlo Fusi Il Dubbio, 12 ottobre 2019 Quando, con sentore di strumentalità, si tirano in ballo persone o fatti del passato per giustificare misure dell’oggi, spesso è perché le motivazioni dell’oggi sono scarse o poco convincenti. È la sensazione non l’unica: solo la più benevola - che si ricava dalla lettura delle valutazioni usate da Marco Travaglio per contestare la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che ha invitato l’Italia a ripudiare l’ergastolo ostativo - quello senza alcuna possibilità di benefici - in quanto, appunto, inumano. Travaglio ricorre alla memoria di Falcone e Borsellino per sostenere che loro quella misura, “l’hanno inventata” e dunque chi la critica fa il gioco dei malavitosi, dei mafiosi, dei corrotti. Anzi, dovrebbe avere il coraggio di deturpare il loro ricordo affermando che i due magistrati erano, oltre che inumani, “violatori” della Costituzione. A parte - e questo giornale lo ha scritto più volte - che la verità storica è un’altra e cioè che Falcone, consapevole che l’ergastolo senza condizionale (citiamo il nostro Damiano Aliprandi) era incostituzionale, non ha escluso i benefici bensì solo allungato i tempi per ottenerli, il nodo vero non è storico- memorialistico bensì culturale. Quanto il sofisma sia fuorviante è confermato dalla sua stessa essenza: praticamente - e Travaglio infatti lo fa - seguendo quel percorso logico si arriva a sostenere che i giudici europei con i loro verdetti intendono non salvaguardare principi basilari della civiltà e del rispetto della dignità umana bensì surrettiziamente “dare una mano” a mafiosi, malavitosi, corrotti. Di più. Usando lo schema precedente, perfino Papa Francesco quando sostiene che l’ergastolo ostativo è “una morte nascosta” si pone sullo stesso piano dei giudici di Strasburgo. Per Travaglio la Cedu è “demenziale”. Verrebbe da usare stesso aggettivo per le sue argomentazioni. Visto che la Costituzione viene tirata in ballo forse è il caso di ricordarla. Laddove agli articoli 13 e 27 prescrive che “è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone sottoposte a restrizioni di libertà”, e che “le pene... devono tendere alla rieducazione del condannato”. Vale per chiunque: perfino per mafiosi, malavitosi e corrotti. Nessuno vuole rimetterli in libertà gratuitamente: sarà il giudice a stabilire il se e il come. Ma negargli la speranza, solo quella, di lasciare un giorno, per alcune ore, il carcere è roba da aguzzini. Dei mille e passa in quelle condizioni, il ravvedimento anche di uno solo rappresenta una vittoria per tutti. Anche per Travaglio. Pene sempre più severe, detenuti sempre più vecchi di Gaetano Campione Gazzetta del Mezzogiorno, 12 ottobre 2019 In 10 anni le condanne più severe sono aumentate del 50 per cento, mentre quelle più lievi sono diminuite del 30 per cento. E i detenuti con meno di 40 anni sono divenuti una minoranza. A monitorare la situazione ci pensa l’associazione Antigone che da sempre analizza i flussi di dati attraverso un interessante rapporto, su scala nazionale, che mette in luce ombre e luci del sistema carcerario. Il concetto è che le pene si fanno più severe e la popolazione detenuta invecchia: in 10 anni, infatti, le condanne più severe sono aumentate del 50 per cento, mentre quelle più lievi sono diminuite del 30 per cento. E i detenuti con meno di 40 anni sono divenuti una minoranza. Quindi, crescono il numero complessivo dei detenuti (a fine giugno erano 60mila 522 a fronte dei 50mila 496 posti disponibili in 190 strutture penitenziarie) ed aumenta il sovraffollamento, il più alto nell’area dell’Unione europea (sfiora il 120 per cento), con la Puglia, maglia nera nella classifica italiana. La nostra regione ospita 3.834 detenuti a fronte di una capienza di 2.139. Il tutto - fa notare Antigone - con una criminalità da anni in calo, 15 per cento in meno il numero dei reati, come annunciano le statistiche governative: “È superfluo dire che in tutto questo, qualcosa non torna”. Patrizio Gonnella, è il presidente nazionale dell’associazione: “L’aumento del sovraffollamento, aldilà dei luoghi comuni agitati da alcune parti politiche, non è dovuto ad un aumento della criminalità, in particolare quella straniera. Infatti, da una parte, il numero dei reati è in costante calo e anche gli ingressi in carcere sono in conseguente diminuzione. Il numero più alto si spiega con l’aumento della durata delle pene, frutto anche di politiche legislative degli ultimi anni. Gli stranieri in carcere, ad esempio, dal 2010 sono diminuiti del 3,68 per cento. Se nel 2003 ogni 100 stranieri residenti regolarmente in Italia l’1,16 per cento degli stessi finiva in carcere, oggi la percentuale è scesa dello 0,36 per cento”. Il problema più urgente è legato alla vivibilità delle strutture carcerarie. Un peggioramento della qualità della vita che si traduce in un aumento dei suicidi, 27 nei primi sei mesi dell’anno, 67 quelli segnalati nel 2018, con 10mila368 atti di autolesionismo e 1.197 tentati suicidi. Con Taranto (268 detenuti in più rispetto al limite stabilito) in cima al tragico elenco, dove 4 persone si sono tolte la vita l’anno scorso. Piero Rossi, Garante regionale dei detenuti, ha detto recentemente a radio Radicale: “La situazione è grave. Dove ci dovrebbe essere una persona detenuta, ce ne sono quasi due. L’emergenza sovraffollamento amplifica le situazioni di disagio collettivo, può costituire un grave pericolo per l’incolumità delle persone, a cominciare dalla popolazione detenuta. Siamo molto impegnati a trovare soluzioni di riduzione del danno. Io ho invocato anche iniziative di natura straordinaria”. “Non sarò più al Cpt di Strasburgo per le mie battaglie sull’ergastolo” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 ottobre 2019 Elisabetta Zamparutti non confermata dall’Italia al Comitato contro la tortura. Non ce l’ha fatta per pochi voti. Elisabetta Zamparutti dell’associazione radicale Nessuno tocchi Caino, non è stata confermata referente dell’Italia nel Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa (Cpt), nonostante il Comitato stesso abbia espresso parere positivo sulla sua nomina. Il governo italiano ha preferito non confermarla. Anche questo è il segnale di un cambiamento che però viene visto, dalla Zamparutti stessa, come una “punizione” per il lavoro che svolge quotidianamente, forse scomodo rispetto al dibattito interno, in particolar modo a quello sulle nostre carceri e, non per ultimo, sull’ergastolo ostativo. Zamparutti, raggiunta dal Dubbio, commenta così la propria mancata riconferma. “Considero - spiega - una medaglia al mio valore e al valore delle cose che ho fatto in questi anni e che continuerò a fare per l’abolizione dell’ergastolo ostativo e l’isolamento, la decisione del governo italiano di non confermarmi nel secondo mandato al Comitato europeo per la prevenzione della tortura”. Sottolinea che si tratta di “una decisione, quella del governo italiano, che vìola la consuetudine di confermare l’uscente, tanto più che ero stata scelta dalla delegazione parlamentare italiana al Consiglio d’Europa in tutte le sue componenti di opposizione e di maggioranza che ringrazio, eccetto che dai 5 Stelle. Non solo, perché ero stata votata all’unanimità dall’Assemblea parlamentare di Strasburgo con indicazione a favore della mia riconferma anche del Bureau del Cpt”. Zamparutti prova anche a spiegare quale potrebbe essere, a suo giudizio, il motivo della decisione. “Il successo della sentenza Viola contro Italia e la visita ad hoc del Cpt quest’anno sul 41 bis e l’isolamento - osserva l’oramai ex membro del Cpt - è certamente qualche cosa di insopportabile rispetto alle politiche di questo governo, in particolare della sua componente Cinque Stelle, come insopportabili sono le lotte e la visione radicale, nonviolenta e liberale. Lo abbiamo visto su Radio Radicale, lo vediamo oggi sulla mia cancellazione dal Cpt con il voto che c’è stato il 9 ottobre al Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa dove 20 Paesi hanno votato a mio favore e 25 contro”. Elisabetta Zamparutti continua: “La mia elezione nel 2015 è stata anche un atto di riconoscenza nei confronti di Marco Pannella, in particolare da parte dell’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando nei cui confronti continuo a nutrire un senso di riconoscenza anche per il sostegno datomi per la riconferma. Quanto accaduto pochi giorni fa a Strasburgo si iscrive invece nel tentativo di cancellazione scientifica di ogni traccia di quella visione di Marco Pannella, di quella sua azione sempre volta a mutare in meglio le istituzioni e non a farsi da queste cambiare, a partire dalla istituzione carcere, intesa come comunità di detenuti e di personale penitenziario che lui ha sempre considerato e amato”. Ma Zamparutti non si abbatte e spiega che continuerà a impegnarsi con Nessuno tocchi Caino e il Partito Radicale in quell’opera di riconversione dalla violenza alla nonviolenza che in questi ultimi quattro anni ha sperimentato con i detenuti condannati all’ergastolo ostativo nei laboratori “Spes contra spem”. “E mi auguro che ci facciano proseguire”, conclude Zamparutti. Il Cpt, ricordiamo, prevede un sistema di visite nei luoghi di detenzione, per verificare le condizioni di trattamento delle persone private della libertà. Ha la facoltà di visitare carceri, centri di detenzione minorile, commissariati di polizia, centri di detenzione per immigrati irregolari e strutture e istituzioni di ricovero a carattere sociale. Dopo ogni visita, il Cpt invia un rapporto dettagliato al governo dello Stato interessato, contenente i risultati emersi nel corso della visita, nonché le raccomandazioni, i commenti e le eventuali richieste di informazioni complementari. Il Cpt invita inoltre lo Stato a fornire una risposta dettagliata alle questioni sollevate nel rapporto. I rapporti e le risposte fornite costituiscono la base del dialogo permanente con gli Stati membri. Per quanto riguarda l’Italia, ancora non è stato potuto pubblicare il rapporto sul 41 bis e l’utilizzo dell’isolamento. Il motivo è semplice. Mentre la maggior parte degli Stati membri hanno dato l’autorizzazione per la pubblicazione automatica dei rapporti, il nostro Paese è uno dei pochi dove ci vuole una autorizzazione governativa. Ma siamo sicuri che il governo correggerà, in nome della trasparenza, questa lacuna. Eliminare l’ergastolo ostativo significa arrendersi alla mafia di Roberto Scarpinato* Il Fatto Quotidiano, 12 ottobre 2019 Sentenza Cedu. Pericoloso sostenere che i condannati dei clan non sono liberi di collaborare con la giustizia. La sentenza sull’ergastolo ostativo della Corte europea dei diritti dell’uomo nella causa Viola contro l’Italia, appare suscettibile di innescare significative ricadute nella politica criminale adottata dallo Stato italiano contro le mafie dopo la drammatica stagione degli anni 1992-1993. In alcuni punti essenziali della motivazione, la Corte afferma infatti principi in grado di destabilizzare delicati meccanismi sui quali si è sin qui imperniata l’efficacia della risposta giudiziaria. Si afferma infatti che la legislazione italiana viola l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo in quanto i detenuti condannati all’ergastolo ostativo per omicidi di mafia non sono liberi di esercitare la scelta di collaborare con la magistratura così usufruendo, al pari di altri ergastolani, dei benefici penitenziari tra i quali i permessi premio, la semilibertà e la liberazione condizionale. Collaborando esporrebbero infatti se stessi e i propri familiari al rischio di gravi rappresaglie. Essi si troverebbero dunque dinanzi a una alternativa drammatica: collaborare rischiando la vita o rinunciare ai benefici di legge. Poiché la scelta del primo polo di tale alternativa equivale a una richiesta inesigibile da parte dello Stato, deve essere data a tali detenuti una terza via, consistente in una dissociazione senza collaborazione. In ordine al rischio insito nella collaborazione con i magistrati, la Corte dopo avere premesso che il ricorrente aveva deciso di non collaborare per non dovere subire reazioni violente da parte dei suoi ex associati, ha osservato: “Su questo aspetto è opportuno ricordare le dichiarazioni della terza parte “L’altro Diritto Onlus” relative alla sua attività di osservazione diretta di detenuti condannati all’ergastolo previsto dall’articolo 4 bis. Secondo questo terzo interveniente, il motivo principale del rifiuto di collaborare con la giustizia consisterebbe nel timore per i detenuti condannati per reati di tipo mafioso di mettere in pericolo la loro vita o quella dei loro familiari. La Corte ne deduce che la mancanza di collaborazione non può essere sempre imputata a una scelta libera e volontaria”. Più avanti la Corte nel ritenere che la collaborazione con le autorità non si può considerare come l’unica dimostrazione possibile della correzione del condannato, afferma che “non è escluso che la dissociazione dall’ambiente mafioso possa esprimersi in modo diverso dalla collaborazione con la giustizia”. In via esemplificativa la Corte constata “che il ricorrente ha dichiarato di non essere mai stato sottoposto a sanzioni disciplinari e di avere accumulato dalla sua condanna, in ragione della sua partecipazione al programma di reinserimento, circa cinque anni di liberazione anticipata”. L’affermazione secondo cui gli ergastolani per omicidi di mafia non sarebbero liberi di scegliere di collaborare, così auto-precludendosi l’accesso ai benefici penitenziari, perché si esporrebbero a rischio di vita, equivale ad affermare che lo Stato italiano non si è dimostrato in grado di garantire l’incolumità dei collaboratori e dei loro familiari, circostanza questa nettamente smentita dalla realtà storica attestante come invece i sistemi di protezione adottati abbiano efficacemente assicurato l’incolumità di varie centinaia di collaboratori e dei loro familiari trasferendoli in località protetta, fornendo loro nuove identità e la possibilità di iniziare nuovi percorsi di vita. Oltre che priva di fondamento storico fattuale, la motivazione addotta dalla Corte per giustificare e legittimare il diritto al silenzio dei mafiosi condannati all’ergastolo come stato di necessità indotto dalla perdurante prevalenza della forza di intimidazione dell’associazione mafiosa rispetto agli strumenti di protezione apprestati dallo Stato, veicola un messaggio fortemente negativo di sfiducia nella reale capacità delle istituzioni di ripristinare la forza della legge contro la sopraffazione della mafia. Se il diritto al silenzio è giustificato per capi mafia e killer condannati all’ergastolo, in quanto, secondo la Corte, nell’Italia del 2019 la mafia sarebbe ancora più forte e temibile dello Stato, a maggior ragione dovrebbe giustificarsi il silenzio degli imprenditori che pagano il pizzo e di tutti coloro che soggiacciono alle intimidazioni della mafia, preferendo talora farsi incriminare per favoreggiamento piuttosto che rivelare ai magistrati il loro stato di vittime. Un avallo culturale alla rassegnazione fatalistica e lo svilimento dello straordinario sforzo collettivo profuso in questo ultimo quarto di secolo per alimentare nella società civile la fiducia nelle istituzioni debellando la legge dell’omertà. Ancora più paradossale appare tale motivazione se si considera che il ricorrente Viola, capomafia della ‘ndrangheta, è stato condannato all’ergastolo proprio grazie alla collaborazione con la giustizia di due suoi sodali. La Corte afferma inoltre che il sistema normativo vigente viola l’art. 3 della Convenzione sotto un ulteriore profilo: “Il sistema nazionale è in contrasto con il diritto di autodeterminazione (...) Il detenuto non è in grado di determinare la sua esistenza in carcere e di avere una influenza sull’esecuzione della sua pena, in quanto il giudice non tiene conto del suo comportamento e delle sue azioni in assenza di collaborazione”. In altri termini il mancato riconoscimento del diritto del condannato all’ergastolo per delitti di mafia di scegliere liberamente se auto-emendarsi collaborando con la giustizia (così come richiesto dalla legge, adoperandosi per evitare che l’attività delittuosa dell’associazione mafiosa sia portata a conseguenze ulteriori), oppure di auto-emendarsi in altri modi, ad esempio, limitandosi a dissociarsi, comprometterebbe il diritto di autodeterminazione, ledendo la dignità dell’individuo. Il giudice Wojtyczek nel motivare la propria opinione dissenziente rispetto agli altri componenti della Corte ha definito testualmente “sconcertante” tale argomento, osservando che in materia di politica penale agli Stati è riconosciuto un margine di apprezzamento nel bilanciamento tra esigenze di tutela della collettività e diritti individuali. Ha ricordato infatti che oltre agli obblighi previsti dall’art 3, l’articolo 2 della Convenzione impone alle parti contraenti l’obbligo di adottare le misure necessarie per proteggere la vita delle persone sottoposte alla loro giurisdizione e che “l’obbligo dello Stato a questo riguardo implica il dovere primario di garantire il diritto alla vita istituendo un quadro giuridico e amministrativo atto a scoraggiare la commissione di reati contro la persona e concepito per prevenire, reprimere e punire le violazioni (...) Questo obbligo riguarda in particolare la protezione contro la criminalità organizzata (...) La legislazione italiana non priva le persone condannate all’ergastolo per i crimini più pericolosi per la società di sperare di ottenere un giorno la libertà. Essa prevede la possibilità di ottenere una liberazione condizionale ma subordina quest’ultima alla condizione di una collaborazione con la giustizia”. La Corte - secondo il giudice dissenziente - ha travalicato i limiti della propria competenza in quanto non si è limitata ad un controllo di razionalità e di proporzionalità della scelta di bilanciamento operata dal legislatore italiano, ma si è sostituita ad esso con una scelta politica alternativa e sbilanciata che indica come prevalente rispetto alle esigenze di tutela della collettività il diritto soggettivo del detenuto a scegliere i modi e i percorsi della propria risocializzazione, rifiutandosi di aderire a quelli previsti dalla legge. Senza dubbio né il giudice Wojtyczek né gli altri componenti della Corte ricordano che tale soluzione corrisponde esattamente a quella fortemente auspicata e promossa da autorevoli esponenti del Gotha di Cosa Nostra dalla fine degli anni Novanta sino al 2005. In quegli anni Pietro Aglieri, capo mandamento condannato per le stragi, si fece capofila di una proposta che trovava la piena adesione di molti boss importanti tra i quali Salvatore Biondino, l’uomo di fiducia di Salvatore Riina arrestato insieme al suo capo, Benedetto Santapaola, boss di Catania, Giuseppe Madonia capo mafia di Caltanissetta, Giuseppe Farinella capo delle Madonie. I boss chiedevano appunto che venisse modificata la normativa sull’ergastolo ostativo in modo da assicurare l’accesso ai benefici penitenziari ai condannati all’ergastolo per delitti di mafia anche in assenza di collaborazione, stabilendo che fosse sufficiente una “dissociazione”, cioè il ripudio della scelta di adesione all’organizzazione e la scelta di altri percorsi individuali di risocializzazione. Dopo alterne e scabrose vicende, tra le quali la repentina rimozione del capo dell’Ispettorato del Dap Alfonso Sabella che aveva bloccato la richiesta di Salvatore Biondino di essere autorizzato a fare lo “scopi - no” al fine di muoversi liberamente dentro il carcere e mettere meglio a punto con gli altri capi detenuti i termini della “trattativa Aglieri”, la fattibilità della soluzione proposta fu abbandonata in sede governativa aderendo alle argomentazioni contrarie fatte valere dai magistrati più impegnati sul fronte antimafia, i quali, sulla base dell’esperienza acquisita e della profonda conoscenza del mondo mafioso, avevano fatto rilevare che un eventuale cedimento alle richieste dei boss sarebbe stato tutto a favore della mafia, senza che lo Stato ne ricevesse una contropartita adeguata. La possibilità per i mafiosi di essere ammessi ai benefici penitenziari dei permessi premi, della semilibertà e della liberazione condizionale in assenza di collaborazione, avrebbe infatti demotivato ogni spinta a collaborare, consentendo così alla mafia di conseguire l’obiettivo di privare lo Stato di uno strumento rivelatosi prezioso per destabilizzare gli equilibri interni delle organizzazioni criminali disarticolandone le strutture. L’abolizione di fatto della pena dell’ergastolo per gli omicidi di mafia, avrebbe inoltre fatto venir meno l’unico vero deterrente temuto dai mafiosi i quali sono da sempre rassegnati a dovere scontare anche lunghi anni di carcere come prezzo della propria carriera criminale, ma temono fortemente invece l’ergastolo che li priva per sempre del potere acquisito e della possibilità di godere delle ricchezze accumulate. Nella mia lunga esperienza sul campo ho potuto constatare l’immediato reinserimento nell’organizzazione di mafiosi che erano usciti dal carcere dopo venti o trenta anni di detenzione. Infine va considerato che i mafiosi doc sono sempre stati detenuti modello, formalmente rispettosi delle regole interne del carcere e quindi già usufruiscono della liberazione anticipata cioè di uno sconto automatico di 90 giorni di pena per ogni anno di detenzione. L’accumulo progressivo di tre mesi di sconto per ogni anno di pena, sommandosi nel tempo accorcia di molto il periodo previsto per l’accesso ai benefici penitenziari. Dieci anni si riducono a otto anni e sei mesi, venti anni si riducono a quindici. Molti in carcere si sono dedicati agli studi e ad alcuni si sono pure laureati. Se a ciò si aggiunge una dichiarazione formale di dissociazione, di ripudio del passato, si comprende come possa divenire problematico per il magistrato di sorveglianza motivare il diniego dei benefici penitenziari in assenza di concreti elementi (come, ad esempio, le intercettazioni in carcere di Giuseppe Graviano) che provino come la risocializzazione del detenuto - dimostrata nei modi esemplificati - sia il frutto di una abile strategia di dissimulazione e non il sincero punto di arrivo di un ripensamento critico delle proprie scelte di vita. Scoprirlo soltanto dopo potrebbe comportare il rischio del sacrificio di vite umane e della perdita di credibilità dello Stato nel fronteggiare il crimine mafioso, proprio il rischio che il legislatore aveva ritenuto di potere evitare subordinando l’accesso ai benefici alla collaborazione, mediante un equilibrato bilanciamento degli interessi della collettività e dei diritti del singolo. *Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Palermo Gli educatori delle carceri chiedono il riconoscimento giuridico di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 ottobre 2019 Stato di agitazione dell’Associazione Nazionale Funzionari del Trattamento (Anft). Gli educatori che operano in carcere sono una figura importantissima nell’opera trattamentale per il detenuto. Insieme al recluso e ad altre figure professionali l’educatore costruisce un progetto educativo e di reintegrazione dell’individuo nel contesto sociale, coinvolgendo i servizi pubblici, le agenzie territoriali, le associazioni e le singole persone che si rendono disponibili. Questi progetti possono essere realizzati non solo all’interno del carcere, ma anche attraverso strumenti legislativi che consentono al detenuto di scontare la sua pena all’esterno dell’istituto, in famiglia o in altre situazioni di vita. A proposito delle misure alternative, il lavoro dell’educatore mira anche a valutare la possibilità per il detenuto di scontare la pena fuori dal carcere. Però la realtà è che tale figura professionale non solo è carente, ma non ha un adeguato riconoscimento in senso giuridico ed economico della specificità del ruolo. Per quest’ultimo motivo, l’Associazione Nazionale Funzionari del Trattamento (Anft) ha promosso uno stato di agitazione per fare pressione al governo affinché ne sia atto. “Da diversi mesi - spiega in un comunicato l’Anft - è in corso un dialogo tra questa associazione e i vertici politici e di alta amministrazione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria in ordine alla necessità della istituzione, nell’ambito dell’organico della Polizia penitenziaria, di un ruolo tecnico ricomprendente il profilo dei funzionari del trattamento”. L’Anft aggiunge che “nella piena convinzione di rendere organico e sistematico il contributo professionale e di esperienze che tale profilo fosse in grado di procurare al corpo di Polizia penitenziaria, l’Amministrazione, in sede di Tavolo sul riordino delle carriere delle Forze di polizia, ha proposto e ribadito tale necessità”. Però ha dato atto che “a fronte di tale evidenza, documentata nella piattaforma associativa, le altre componenti del Tavolo suindicato, non hanno condiviso, e non ne sono neppure immaginabili le motivazioni, la proposta”. L’accoglimento di questa proposta, oltre a rispondere ad un interesse dello Stato, determinerebbe un adeguato riconoscimento in senso giuridico ed economico della specificità del ruolo dei funzionari giuridico pedagogici nell’esecuzione penale, che, come detto, rivestono un ruolo centrale nelle attività intramurarie di osservazione e trattamento dei soggetti condannati e di rilevazione dei bisogni degli stessi e consentirebbe allo Stato italiano di aderire alle esortazioni contenute nelle Regole penitenziarie europee deliberate dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa e contenute nella Raccomandazione agli Stati membri. La regola n. 79 di tale raccomandazione prevede, infatti, l’attribuzione agli operatori penitenziari, tra i quali gli educatori, i benefici spettanti agli appartenenti alle Forze dell’ordine. Lo yoga aiuta la riabilitazione dei detenuti corrierequotidiano.it, 12 ottobre 2019 Giornata internazionale dell’educazione in carcere. La scienza accredita lo yoga come strumento di riabilitazione per i carcerati. Migliora l’umore e lo stato di salute mentale in cella, riduce la propensione a comportamenti aggressivi e antisociali dei carcerati e fa calare il tasso di recidiva. Sono questi alcuni dei benefici derivati dallo Yoga come strumento di educazione e recupero per la vita dei detenuti. Una pratica che potrebbe tornare utile alle oltre 50mila persone che affollano le carceri italiane. Il percorso che i detenuti devono affrontare per avere nuovi contatti con l’ambiente esterno ed essere reinseriti nella società è alle volte lungo e tortuoso anche per via di numerosi problemi psicologici. Basti pensare che secondo i dati del Ministero della Salute il 40% dei reclusi soffre di disturbi psichici, causati da forme di dipendenza da sostanze, problemi nevrotici e di adattamento. Secondo numerose ricerche scientifiche internazionali una soluzione utile per il loro recupero arriva dallo Yoga: stando a quanto riportato da una ricerca della Oxford University e pubblicata sulla Bbc, infatti, sessioni prolungate di yoga in carcere aiutano a migliorare lo stato di salute mentale dei detenuti, alleviando i livelli di ansia e depressione, e portano a un calo della recidiva. Pratica che potrebbe tornare utile alle oltre 60mila persone che affollano le carceri italiane, secondo i dati Istat, e al 68% di coloro che tendono nuovamente a finire tra le sbarre ripetendo gli stessi errori. Ma non è tutto, perché da una ricerca della Washington State University e pubblicata su Science Daily praticare yoga in carcere aiuta i detenuti nel creare relazioni più sane con i compagni di cella, aumenta la loro sensazione di autostima e riduce la propensione a comportamenti aggressivi e antisociali. “La pratica dello yoga può essere un valido aiuto per compensare i numerosi problemi psicofisici generati dalla carcerazione. Molto spesso si crea un circolo vizioso che nel tempo può solo aggravarsi ed è per questo che l’apprendimento di una corretta respirazione può mitigare disturbi fisici e stati di tensione crescente - spiega Andrea Di Terlizzi, fondatore di Inner Innovation Project, tra i massimi esperti in Italia di Yoga e scienze antiche. La mia personale esperienza nel carcere di San Vittore a Milano e in quello di Cremona, risalente agli anni ‘80, ha portato alla luce un fenomeno rilevante, ovvero che i carcerati, così come le persone libere, possono aver sentito parlare di Yoga e Meditazione oppure non saperne nulla. Tendono subito ad accogliere positivamente o respingere colui che potrebbe insegnarli queste discipline e il fattore rapporto è più importante della pratica in sé. Per questo motivo ci tengo a sottolineare che l’azione riabilitativa dello Yoga non dipende unicamente dall’efficacia della disciplina trasmessa ma soprattutto dall’esperienza di chi la comunica e, nel caso dei detenuti, e dalle sue capacità empatiche nello stabilire con loro il giusto rapporto”. Ma non è tutto, perché alcuni esercizi di yoga, armonizzati con tecniche respiratorie e di concentrazione mentale, consentono la sperimentazione di uno stato di equilibrio nervoso che si riflette sulla percezione generale del carcerato, fornendogli una diversa condizione di calma e autocontrollo. Una ricerca compiuta dalla University of Pennsylvania, pubblicata sulla rivista scientifica Journal of Clinical Psychiatry, ha rilevato un miglioramento significativo in un gruppo di pazienti colpiti da gravi stati di ansia e depressione. E ancora, le sessioni di yoga possono risultare utili anche agli operatori nelle carceri, spesso sottoposti a un grave peso psicologico dovuto al loro lavoro: da un’indagine britannica condotta in un carcere di Manchester e pubblicata su The Telegraph è emerso che oltre 60 addetti dello staff hanno migliorato la propria condizione di salute fisica e mentale grazie a questa disciplina. L’utilizzo positivo dello yoga come strumento di riabilitazione per i detenuti è un pensiero condiviso dalla dottoressa Amy Bilderbeck del dipartimento di psichiatria e psicologia alla Oxford University, che ha dichiarato alla Bbc: “I nostri ricercatori hanno individuato come i detenuti sottoposti a una sessione intensiva di 10 settimane di yoga hanno migliorato notevolmente le loro condizioni di salute mentale, risultando più inclini alla partecipazione di attività educative rispetto a coloro che continuavano la solita routine. Più della metà dei carcerati adulti torna dietro le sbarre dopo un anno ripetendo gli errori del passato. Per questo motivo sensibilizzare le carceri nell’utilizzo di sedute di yoga e meditazione diventa un monito fondamentale per ridurre il tasso di recidiva e aiutare i detenuti nel loro percorso di riabilitazione all’interno della società”. Riforma della giustizia, Zingaretti chiede il rinvio del blocco della prescrizione Il Fatto Quotidiano, 12 ottobre 2019 “Prima ridurre i tempi dei processi e poi vediamo”. Il segretario del Pd: “Positivo che Bonafede abbia aperto un dialogo”. E poi rilancia il patto con i Cinque Stelle: “Sì al carcere per i grandi evasori contro i furbi. Ma sarà in un provvedimento ad hoc. L’ossessione nostra e del M5s? Crescita e giustizia sociale”. Il rapporto, dice, è così buono che ora propone una vera alleanza: “Insieme siamo al 47-48 per cento, sennò torna Salvini”. La prescrizione può diventare un problema per il governo. Se nei primi vertici sulla riforma della giustizia i toni sono stati cauti e fiduciosi e gli esiti interlocutori, ora a chiedere un rinvio dell’entrata in vigore della legge - prevista per il primo gennaio - è il segretario del Pd Nicola Zingaretti. Il leader democratico non entra nel dettaglio, ma intervistato da Lilli Gruber a Otto e mezzo scandisce: “Abbiamo sempre detto lavoriamo sulla riduzione dei tempi dei processi e vediamo gli effetti, poi affrontiamo il tema della prescrizione. È positivo che il ministro Bonafede abbia aperto a un dialogo”. Il ministro guardasigilli in effetti - anche dopo un nuovo vertice di maggioranza, giovedì - continua a ostentare ottimismo: “Penso ancora più di prima che ci sono margini di convergenza importanti per una riforma della giustizia che tutti vogliamo coraggiosa e ambiziosa per accorciare i tempi dei processi”. Ma appare chiaro che lo scoglio principale all’accordo finale è proprio lo stop alla prescrizione dopo la sentenza di primo grado. Il Pd, dalla sua, sembra aver cambiato binario rispetto agli anni scorsi proprio sul tema della prescrizione, come gli ha ricordato oggi l’ex presidente del Senato Piero Grasso, intervistato sul Fatto Quotidiano: il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, ha rammentato l’ex alto magistrato, “era nel programma del Pd nel 2013. E lo stesso Andrea Orlando, quando presiedeva il Forum Giustizia, era perfettamente d’accordo con questo principio, come è ben documentato nei lavori del forum”. Su tutto il resto, però, Zingaretti rinnova la fiducia nel rapporto di lavoro con i Cinque Stelle. A partire per esempio da un’altra misura bandiera dei grillini, il carcere per i grandi evasori. Il segretario del Pd si dice d’accordo: “Dentro una strategia che mette in campo altre misure, digitalizzazione, controllo, non dobbiamo avere paura di mettere in campo anche misure più dure. Sennò rendiamo dei santi e dei furbacchioni questi che si rubano 100 miliardi di euro dei cittadini”. Il freno arriva però sullo strumento da utilizzare: “Questa sera - annuncia - è stato deciso che questa parte andrà vista nella delega sulla lotta all’evasione, cioè tolta da un impianto sulla giustizia e collocata questa discussione dentro quello che sarà lo strumento per combattere l’evasione fiscale. Hanno deciso qualche ora fa di rimandare questa discussione in un provvedimento sulla lotta all’evasione”. Il leader democratico ha raccontato del suo buon rapporto con Luigi Di Maio spiegando tra l’altro che “l’ossessione condivisa del programma con M5S è crescita e giustizia sociale, grandi assenti nelle sceneggiate del Papeete”. La priorità, aggiunge, è “non mollare sulla riduzione delle tasse sul lavoro sui redditi medio bassi”. Un rapporto talmente buono che Zingaretti fa un altro passo in avanti, tutto politico: “Il Pd e il M5s insieme rappresentano oltre il 40 per cento dell’elettorato italiano, se allarghiamo anche agli altri alleati abbiamo un’alleanza che sta intorno al 47-48 per cento. Anche Renzi? Per quanto mi riguarda ovviamente sì, poi va chiesto a lui. “Noi oggi abbiamo forze politiche che rappresentano il 45-48 per cento degli italiani, Pd e M5s sono oltre il 40 per cento assieme. Vogliamo provare a farla diventare un’alleanza? Io dico di sì, sennò torna Salvini”. Se in Umbria l’alleanza c’è già e in Toscana, per esempio, sta per esserci, il segretario frena quando si parla di Emilia Romagna: “No, in Emilia c’è un bravissimo presidente e un ottimo bilancio di quella amministrazione”. Sugli altri temi, poi, Zingaretti ha ribadito che questo patto col M5s si fonda non sulla messa in evidenza delle differenze, ma sulle cose in comune. Sul tema dei migranti, per esempio, il segretario democratico smussa le differenze: “Lo ius culturae non fa parte del programma, lo porremo in Parlamento per andare avanti”, mentre “sul dl sicurezza almeno i rilievi del Quirinale dovranno essere accolti. Ma tutta la maggioranza dovrà costruire una nuova politica dell’immigrazione”, arrivando quindi a “cambiare i decreti sicurezza”. Stefano Parisi: “Orlando, dov’è la tua riforma della giustizia?” di Errico Novi Il Dubbio, 12 ottobre 2019 La strategia dei renziani sulla giustizia? Nessun sabotaggio: casomai un pressing, che partirà a breve, sull’ex ministro Orlando affinché difenda la “sua” riforma della prescrizione. Stefano Parisi non coltiva rancori. “La stagione del berlusconismo va superata”, dice. Ma non parla da esule della galassia che orbita attorno al Cavaliere. Ne fa un punto di evoluzione culturale. “Dobbiamo deberlusconizzare una cosa su tutte: il dibattito sulla giustizia. Passare dall’opposizione tra giustizialisti e garantisti alla rappresentazione corretta, presso l’opinione pubblica, delle vere disfunzioni del sistema giudiziario, delle chiavi per risolverle”. Obiettivo ambizioso, in cui hanno fallito in molti. Il fondatore di Energie per l’Italia ha inventato anche un “think tank post populista, “Pop Up”, che contribuirà a fare luce su temi centrali come l’obbligatorietà dell’azione penale, le carriere in magistratura, il disciplinare del Csm, oggi luogo di valutazioni paradossali, sempre favorevoli alle toghe”. Primo step dell’ambizione di Parisi: l’incontro pubblico su “Fare giustizia” organizzato per mercoledì prossimo a Roma, presso il Tempio di Adriano, con accademici, magistrati, politici che seguono la giustizia “e naturalmente avvocati: ci sarà anche il presidente dell’Unione Camere penali Gian Domenico Caiazza”. I partiti più garantisti, da Fi a Renzi, soffrono di un “pregiudizio del secondo fine”? I cittadini snobbano le loro idee garantiste perché vi colgono solo l’ansia di tutelare il leader? È così. Ma mi permetta di dire innanzitutto che oggi l’allarme si è ulteriormente innalzato. In che senso? Non si può ignorare il rischio di una saldatura forte, molto forte, tra due giustizialismi: quello del M5S e quello del Pd. I primi hanno dalla loro parte molta magistratura politicizzata, un giornale, avamposti saldi nell’Anm e soprattutto un’idea chiara e integralista sulla giustizia. Il secondo, il Pd, è stato sotto ricatto un po’ delle Procure, un po’ degli elettori, da cui temeva di essere bollato come fiancheggiatore del Cavaliere. Di fronte ai rischi di una simile saldatura l’unica via d’uscita è appunto deberlusconizzare la giustizia. Come pensa di riuscirci? Si deve capovolgere la prospettiva. Basta con l’opposizione tra giustizialisti e presunti paladini del garantismo. Alle persone va spiegato cosa manca al nostro ordinamento giudiziario perché possa apparire davvero moderno. Intanto, per l’incontro su “Fare giustizia” di mercoledì prossimo, abbiamo selezionato esponenti politici tutti concordi su separazione delle carriere, sulla necessità di smascherare l’obbligatorietà dell’azione penale e su una sezione disciplinare del Csm a maggioranza laica. Tanto per essere chiari: è insensato che sui magistrati sospettati di illecito decidano loro colleghi. L’autonomia deve essere accompagnata da un’effettiva responsabilità delle violazioni eventualmente commesse, mentre oggi le valutazioni della disciplinare sono positive per il 93 per cento. Ma tra la tenaglia formata dall’elettorato giustizialista dei 5 Stelle e da quello vendicativo della Lega, in Italia c’è ancora qualche garantista? Esiste ancora se superiamo l’approccio basato sull’opposizione garantismo- giustizialismo. Ci si può riuscire. Perché gli italiani sono molto insoddisfatti delle performance del sistema giudiziario. Vanno messi di fronte alla scelta: volete andare avanti con questa roba? Fa parte del comune sentire il peso che incombe sull’attività economica per le incertezze della risposta processuale. Così come è avvertita l’inadeguatezza dell’ordinamento nella risposta all’esigenza di sicurezza, alla criminalità organizzata, alla corruzione. Va ricordata quanto sia stata infruttuosa la politica giudiziaria in questi anni. Se dovesse citare un errore in particolare? Qual è stata la ricetta sistematicamente proposta dal legislatore? Innalzare le pene. Ora c’è il rischio che lo facciano anche in materia fiscale. Va spiegato che aumentare le sanzioni è un’opzione devastante. Si intasano i Tribunali e inevitabilmente si accrescono anche tutte le disfunzioni che lasciano i cittadini insoddisfatti. Meglio dare risposte veloci che degne di un ayatollah... È chiaro. Come è chiaro che anche la ricetta della Lega è giustizialista, e irrazionale: dicono di voler accorciare i tempi dei processi, poi però intasano comunque il tavolo delle Procure perché, con le loro scelte, tutto è reato. Altri tabù da sfatare? Vietare l’appello del pm sull’assoluzione in primo grado non è perdonismo: semplicemente, un livello di giudizio è sufficiente per dire che quella vicenda lì è chiusa. Rispetto alla separazione delle carriere è evidente che oggi abbiamo due parti contro una. Vanno ricordate le migliaia di errori giudiziari, le tante persone rovinate da sciocchezze come gli errori di omonimia. Quando l’Ucpi ha raccolto le firme in tanti chiedevano: “Ma perché, le carriere non sono già separate?”… Veniamo da anni di disinformazione sulla giustizia, prodotta dall’alleanza tra giornali e Procure. Noi lanciamo un think tank per contribuire a invertire la rotta. Certo non ci si può riuscire se si resta imprigionati nella logica dei berlusconiani opposti ai giustizialisti. Testimoni di giustizia “traditi”, la Lamorgese dice basta di Clemente Pistilli La Notizia, 12 ottobre 2019 Il ministro dell’Interno: “Assunto dallo Stato chi ha sfidato la mafia”. Non hanno mai fatto parte della criminalità organizzata e non hanno fatto neppure affari con i boss. Hanno creduto nello Stato e, essendo testimoni delle malefatte dei clan, hanno denunciato i mammasantissima. Da quel momento hanno perso tutto, dalle aziende agli affetti. Vivono nascondendosi pur di garantire con le loro testimonianze il buon esito di indagini e processi. Sono i testimoni di giustizia. Ben diversi dai collaboratori, che prima di pentirsi sedevano allo stesso tavolo dei malavitosi. Eppure lo Stato, come più volte denunciato dai testimoni, non è mai stato particolarmente vicino a chi ha dato al Paese un aiuto così importante. Ha lasciato gli autori delle denunce e le loro famiglie soli, con un piccolo assegno per andare avanti e nulla più. Il ministro dell’interno Luciana Lamorgese sembra decisa a cambiare rotta, dando a quelli che sono dei fantasmi una chance: un lavoro con cui poter progettare il proprio futuro. I testimoni di giustizia, in base agli ultimi dati disponibili, in Italia sono 78 e 255 sono i loro familiari, costretti a seguire in una vita diventata un inferno chi ha denunciato fatti e misfatti delle organizzazioni criminali. Un incubo che coinvolge anche 80 minori, per i quali di frequente è difficile anche andare a scuola. Senza contare che gli stessi contatti con le istituzioni di media sono complicatissimi. Lamorgese ha deciso di affrontare un simile dramma e di ridare speranza a chi da troppo tempo non ne ha più. Un impegno preso anche analizzando i risultati dell’analisi fatta sul fenomeno dalla Commissione parlamentare antimafia e spulciando l’ampia documentazione in materia, da cui emerge “la sostanziale richiesta di una revisione del sistema di protezione dei testimoni di giustizia”. La legge dell’11 gennaio 2018 sulla protezione dei testimoni prevede il “reinserimento sociale e lavorativo” di chi ha contribuito a sconfiggere i clan mettendo a rischio la propria vita. E prevede che una seconda chance possa arrivare con un posto di lavoro nella pubblica amministrazione. Il ministro dell’interno, partendo da lì, ha quindi messo a punto uno schema di decreto ministeriale con cui regolare tali assunzioni e prevedendo che i posti di lavoro possano essere assegnati anche ai familiari dei testimoni, finiti a loro volta in un limbo di precarietà e privazioni. Fino ad oggi, in base alla normativa precedente, un lavoro del genere è stato dato soltanto a 16 testimoni di giustizia. Si può fare meglio e di più. Con un lavoro a chi ha contribuito in maniera determinante nel contrasto alle mafie al posto dell’assegno di Stato, che in tal modo si troverebbe anche a risparmiare. Lamorgese ha specificato nello schema di decreto chi avrebbe diritto alle assunzioni pubbliche e con che modalità, garantendo ovviamente ai beneficiari tutte le misure di sicurezza di cui hanno bisogno. Ora manca solo il via libera da parte del Senato. “Carcere per chi evade il fisco”, la sequela di slogan vuoti su una misura che già c’è di Eugenio Fatigante Avvenire, 12 ottobre 2019 I progetto di passare dalla “pace fiscale” al rafforzamento del carcere per i grandi evasori (pur essendo entrambe proposte cavalcate dal M5s nella sua doppia versione di governo, prima giallo-verde e ora giallo-rossa) sembra scontrarsi ancora una volta con la realtà. Quella che dice, peraltro, che prima ancora di parlare di “rafforzamento” forse basterebbe applicare quello che c’è e non viene fatto. Del tema se ne parla dal lontano 1982, da quando le “manette fiscali” furono introdotte per la prima volta, con maggiore o minore intensità a seconda della consapevolezza della maggioranza di turno di adottare scelte impopolari sul versante fiscale. Di fatto, il codice penale già prevede la punizione con il carcere per diversi reati tributari reputati di natura penale. La sostanza, però, è che in carcere non ci va nessuno. “In verità - argomenta Enrico Zanetti, commercialista ed ex viceministro dell’Economia -, dietro a questa dichiarazione d’intenti risulta sempre difficile capire cosa si intenda davvero, posto che il carcere per gli evasori è già da molto tempo parte integrante del nostro ordinamento giuridico”. Il riferimento è in particolare alla “legge 74” del 2000, poi un po’ ammorbidita da un’altra legge del 2015. Il testo di inizio millennio ha previsto una reclusione da 1,5 a 6 anni per frode fiscale e da 1 a 3 anni per dichiarazione infedele “non fraudolenta”, oltre ovviamente a sanzioni pecuniarie salatissime che vanno dal 135 al 270% (nella prima fattispecie). In tali casi, tuttavia, le pene previste non produrrebbero effetti perché sono combinate a soglie d’evasione molto elevate (per la denuncia infedele l’imponibile non dichiarato deve superare i 3 milioni di euro). Ma non è sempre così. Nell’altro caso di frode mediante fatture false, infatti, sulla carta la reclusione non è nemmeno limitata ai grandi evasori perché scatterebbe anche per un solo euro, mentre davanti a una frode con “altri artifici” scatta oltre i 30mila euro. Per di più, dal 2015 è stato introdotto anche il reato di auto-riciclaggio, per cui è prevista una pena potenziale da 2 a 8 anni per chi impiega il denaro proveniente da reati di tipo fiscale. D’altro canto, osserva ancora Zanetti, “se non fosse già così, non si spiegherebbero gli arresti, singoli o di più persone in concorso, compiuti meritoriamente dalla Finanza a fronte della scoperta di frodi fiscali”. Nel 2018 gli arresti sono stati 400, secondo dati delle Fiamme Gialle. Il problema si materializza dopo, quando si tratta di andare a processo e alla sentenza definitiva. Raramente, infatti, in fase di giudizio viene comminato il massimo della pena; inoltre, se il soggetto è incensurato, scatta la sospensione condizionale che riduce di un terzo la detenzione, da 3 anni si passa facilmente a 2, soglia sotto la quale in prigione non si finisce pur restando condannati, ma questo, annota ancora Zanetti, “è più un tema di sistema che riguarda l’amministrazione della giustizia”. La sua conclusione è che “invocare inasprimenti “mirati” non pare francamente condivisibile, senza una volontà politica di più ampia revisione dei minimi e massimi edittali delle pene previste anche per altre tipologie di reato, che destano non meno allarme sociale”. Csm. Nascondere Palamara sotto al tappeto Il Foglio Quotidiano, 12 ottobre 2019 Sulla riforma della giustizia Pd e M5s continuano a essere distanti. Anche il vertice di giovedì tra il Guardasigilli Bonafede e la delegazione dem (Giorgis, Bazoli e Pinotti) si è concluso con l’ennesimo nulla di fatto. Solite dichiarazioni distensive e collaborative, ma il problema rimane: su prescrizione, riforma del processo penale e civile e intercettazioni le due compagini di governo non trovano accordo. Solo su un punto, per ora, dem e grillini sembrano aver raggiunto un’intesa, ma anche questo è un compromesso che porta all’immobilismo: Bonafede avrebbe infatti accettato di scartare definitivamente l’ipotesi di introdurre il sorteggio per l’elezione del Consiglio superiore della magistratura. L’idea del sorteggio era stata avanzata con forza proprio dai grillini dopo che l’inchiesta di Perugia per corruzione nei confronti di Luca Palamara aveva rivelato ciò che in realtà tutti sapevano già da tempo, cioè l’esistenza di un sistema di spartizione sistematica tra le correnti togate delle nomine negli uffici giudiziari del paese. L’ipotesi del sorteggio non era certamente immune da limiti, sia di merito che di compatibilità costituzionale (anche se insigni giuristi come Michele Ainis avevano escluso violazioni della Costituzione), ma rappresentava una risposta radicale alla crisi della magistratura dopo decenni di rassegnazione. Dopo cinque mesi, invece, la degenerazione correntizia della magistratura non sembra più interessare a nessuno. Quattro dei cinque consiglieri del Csm dimessisi per lo scandalo sono stati sostituiti (due con i subentri e due con elezioni suppletive, che peraltro hanno visto trionfare la corrente più colpita dallo scandalo), il quinto sarà sostituito con un’altra tornata elettorale suppletiva a dicembre, e ora anche la politica pare intenzionata a nascondere il problema sotto al tappeto. Così, il “mercato delle vacche” in Csm resta vivo e vegeto. Sardegna. Lo sport come riscatto sociale per i detenuti, 30 diplomati dietro le sbarre youtg.net, 12 ottobre 2019 Il riscatto sociale e la speranza di un lavoro futuro per trenta detenuti delle carceri di Sassari, Nuoro e Cagliari passa per lo sport e la formazione. A offrire questa opportunità è il progetto “Liberi nello Sport”, organizzato dal Csen Sardegna in collaborazione con la Regione. Il programma consiste in un percorso formativo iniziato ad aprile scorso e che si concluderà il prossimo novembre con l’assegnazione ai partecipanti del diploma di Istruttore di Body Building e Fitness, e l’abilitazione al primo soccorso con l’uso di defibrillatore semiautomatico, conseguito grazie al corso Blsd offerto ai detenuti insieme con le lezioni per istruttore sportivo. Le lezioni sono state suddivise in quattro moduli formativi per un totale di 56 ore più 4 di esame finale, per far acquisire ai detenuti che hanno aderito al progetto la capacità di progettare un programma di allenamento che integri le fasi di riscaldamento con le fasi di fitness cardiovascolare e/o di dimagrimento con delle attività isotoniche, fino ad arrivare alle fasi di defaticamento, che spesso includono anche lo stretching. Per favorire il processo di insegnamento e apprendimento si è scelto di utilizzare metodologie didattiche attive, comprendenti lezioni frontali, discussioni, dimostrazioni, esercitazioni e tirocinio. All’interno del progetto il Csen Sardegna ha fornito alle tre carceri e poi donato il materiale tecnico per poter allestire una palestra utilizzabile da qualsiasi detenuto, e anche dell’abbigliamento sportivo per tutti i partecipanti al progetto. Alla fine del corso e con il conseguimento del diploma, dieci detenuti per ogni carcere avranno la possibilità di avere un titolo riconosciuto che li proietterà nel mondo del lavoro attraverso lo sport. Infatti, con il diploma Nazionale di istruttore di Body Building e Fitness, potranno lavorare in tutti quei centri sportivi e non, dove è prevista la figura del tecnico sportivo. Piacenza. Suicida poliziotto penitenziario del carcere delle Novate piacenzasera.it, 12 ottobre 2019 Un poliziotto penitenziario di 53 anni, da molti anni in servizio nel carcere di Piacenza, si è tolto la vita in mattinata, suicidandosi presso la propria abitazione. A darne notizia è Domenico Maldarizzi della Uil-Pa Polizia Penitenziaria Emilia Romagna. “Non sappiamo - afferma - se in questo caso c’entrino o meno le pessime condizioni di lavoro degli agenti, ma di certo non si può sottacere sul fatto che nell’ultimo periodo per molti appartenenti alle forze dell’ordine, ed in particolare alla Polizia Penitenziaria, questo triste trend sia in continua ascesa”. “Una strage silenziosa - sottolinea Maldarizzi - quella di chi si toglie la vita tra gli appartenenti alle forze dell’ordine, a dimostrazione che l’accesso a strumenti letali e particolari situazioni lavorative di stress sono tra i “fattori incidenti” considerati dagli psichiatri nella valutazione clinica del rischio di suicidio”. “È vero - precisa il sindacalista - è difficile arginare questo rischio suicidio per il numero di variabili a cui sono esposti i membri delle forze dell’ordine, ma è pur vero che l’Amministrazione ben poco fa per diminuire le azioni stressogene del nostro lavoro o per cercare di captare disagi anche familiari”. “Le esperienze pregresse, che pure sono state realizzate a macchia di leopardo sul territorio nazionale, hanno dimostrato che i “centri di ascolto” o gli “sportelli psicologici”, per evidenti ragioni, non sono frequentati o non sono da soli sufficienti: perciò l’Amministrazione, oggi, deve analizzare le cause dello stress - carenze di personale, strutture, mezzi, attrezzature, insufficienze formative - ma soprattutto deve cercare di prevenire gli eventi critici ai quali i poliziotti possono essere coinvolti in qualità di spettatori, soccorritori e protagonisti durante l’espletamento del proprio servizio al punto di mettere a dura prova le capacità di adattamento”. “Questi eventi possono avere un effetto traumatico e potenzialmente lesivo dell’idoneità specifica del lavoratore, sia per colui che è rimasto vittima dell’infortunio/incidente, sia per coloro che hanno assistito direttamente all’intervento o prestato soccorso. Questo induce nel personale un significativo senso di isolamento sociale e fisico, che suscita un sentimento di abbandono da parte della propria amministrazione, una tendenza a confrontare la propria condizione con quella dei detenuti, una monotonia e ripetitività del lavoro che possono risultare dannosi ed ingigantire eventuali problemi personali”. “Ci stringiamo - conclude Il Segretario della Uil-Pa Polizia Penitenziaria Emilia Romagna - con tutto l’affetto e la solidarietà possibile al dolore indescrivibile della moglie, dei familiari, degli amici e dei colleghi a cui vanno i sentimenti del più vivo cordoglio da parte di tutta la Uil-Pa Polizia Penitenziaria”. Palermo. Carcere di Pagliarelli, nel mistero la morte di un detenuto nigeriano di Giovanni Cammarata monrealenews.it, 12 ottobre 2019 Emeka Dom aveva collaborato con la giustizia. Circostanze ancora da chiarire per decesso di un detenuto nigeriano presso il carcere Pagliarelli di Palermo. L’uomo, Emeka Dom, 29 anni, di origini nigeriane in passato aveva collaborato con i Pm, raccontando un’aggressione subita tra il 2014 e il 2016 nel quartiere storico di Ballarò. Questa estate, per Dom erano scattati gli arresti durante il blitz “Disconnection Zone”, con l’accusa di essere coinvolto nel clan nigeriano “Viking”. Venne condannato a 12 anni di reclusione per tentato omicidio usando una scure (arma che caratterizza l’appartenenza alle bande nigeriane). Domenica 6 ottobre il detenuto è deceduto presso l’ospedale Civico, dopo un ricovero d’urgenza. Il giorno prima infatti era stato colto da un malore. In seguito ai fatti avvenuti, lunedi scorso si era riunita una rappresentanza della comunità etnica presso la squadra mobile di Palermo. Frank Obidike, presente al presidio, portavoce dell’associazione multiculturale “Arci Ikenga” aveva affermato: “Per noi questa morte è davvero sospetta, sappiamo che diverse persone in detenzione volevano ucciderlo per via della sua collaborazione con la giustizia”. Secondo i medici: “Emeka soffriva di una grave forma di cirrosi, ma non spiega comunque le cause del decesso”. È stata eseguita l’autopsia, che non ha esposto esaustive cause del decesso, restano ancora aperte diverse piste. Si attendono gli esiti degli esami istologici e tossicologici che ovviamente hanno tempistiche differenti rispetto l’esame autoptico. Una morte avvolta ancora nel mistero, non sono da escludere i sospetti di una ritorsione avvenuta dietro le sbarre. Il nigeriano aveva fornito informazioni importantissime, aprendo scenari interessanti riguardo le strutture, componenti, affari illeciti e riti delle diverse bande nigeriane a Palermo. Portoferraio (Li). Al “Foresi” una giornata dedicata al carcere elbareport.it, 12 ottobre 2019 Si terrà nell’Aula Magna della sede di Salita Napoleone, il seminario “Quali prospettive di lavoro nel sociale? Esperienze nel carcere”. L’appuntamento, in programma per mercoledì 30 ottobre, è organizzato dall’Isis Foresi insieme alla Casa di reclusione di Porto Azzurro e all’Università delle 3 Età-Unitre. Partecipano le classi Quinte del liceo delle Scienze umane. L’inizio è previsto alle 9,30 con il saluto del preside del Foresi Enzo Giorgio Fazio. Seguirà la relazione del dott. Luca Lischi, Capo di Gabinetto dell’Assessore regionale a “Istruzione, formazione e lavoro” Cristina Grieco sul tema “Conoscere, Comprendere, Cogliere”. Di esperienze lavorative in carcere parleranno il direttore della Casa di reclusione di Porto Azzurro, dott. Francesco D’Anselmo, e la responsabile dell’area educativa, dott.ssa Giuseppina Canu. Sono previsti interventi degli studenti. I lavori proseguiranno nel pomeriggio sulle esperienze di volontariato in carcere, con l’introduzione del presidente Unitre di Porto Azzurro, dott. D. Casalini. Verrà presentato il Premio letterario “Casalini” per i detenuti, con due membri della Giuria: i proff. Pablo Gorini e Fabio Canessa. Saranno distribuite copie del volume “L’altra Libertà” che raccoglie composizioni di detenuti. “Questa giornata - dichiara il preside Fazio - centrata su una delle realtà presenti sull’isola, testimonia il legame fra il Foresi e carcere. Un rapporto che dura da molti anni e che, oltre alla sezione del liceo scientifico, vede la collaborazione su diversi progetti. Tutto per favorire la conoscenza di un pianeta sconosciuto, da una parte, e favorire, dall’altra, il dialogo fra studenti interni ed esterni, e rafforzare così il rapporto scuola-territorio. Il Foresi, come le altre scuole elbane, contribuisce ai percorsi rieducativi delle persone condannate, in linea con l’articolo 27 della Costituzione Italiana, sul fronte dell’istruzione e della formazione professionale. La presenza di classi del liceo delle Scienze umane è significativa per la coerenza fra materie di studio e i temi della devianza, della pena e della rieducazione”. Torino. Arti dentro e fuori (il carcere): il Festival LiberAzioni fa il bis di Antonietta Nembri Vita, 12 ottobre 2019 Al via lunedì 14 ottobre il programma di avvicinamento alla seconda edizione del festival nazionale che dal 18 al 20 ottobre vivrà il suo clou nel quartiere Le Vallette. A inaugurare gli eventi nella casa Circondariale Lorusso e Cutugno uno spettacolo di Paolo Rossi che sarà poi replicato per il pubblico. La chiusura affidata al musicista Omar Pedrini che accompagnerà la serata finale delle premiazioni. Dopo Ascanio Celestini e Moni Ovadia che sono stati i testimonial artistici della prima edizione, quest’anno LiberAzioni, il Festival delle Arti dentro e fuori (il carcere) che avrà come cuore pulsante il quartiere Le Vallette di Torino ospitando tra la Casa Circondariale Lorusso e Cutugno e il Teatro Don Orione il clou degli eventi vedrà la presenza di Paolo Rossi e Omar Pedrini. Teatro, disegno, pittura, musica scrittura, fotografia, cinema e video sono la base di una visione di organizzazione partecipata che attraverso il progetto AxTo (si legge Aperto e sono azioni per la periferie torinesi) offre a titolo gratuito attività, laboratori dentro e fuori che raccontano il carcere e il quartiere. Ad aprire la settimana del festival una serie di eventi di avvicinamento che si svolgeranno nel centro di Torino e in particolare lunedì 14 ottobre a inaugurare LiberAzioni sarà la proiezione speciale su Armando Punzo e la sua Compagnia della Fortezza di Volterra, (ore 17.30 alla Bibliomediateca Rai di via Verdi 31), all’appuntamento interverranno Valentina Noya, direttrice di LiberAzioni, Franco Prina, che per l’Università di Torino è responsabile nazionale dei poli universitari carcerari, e Filippo Cropanese dell’associazione Quinto Polo. Sempre lunedì si parlerà anche delle “Parole che liberano”, incontro dedicato alle esperienze di scrittura in carcere (ore 20.45 all’Unione Culturale “Franco Antonicelli”). Tra gli eventi a Palazzo Barolo, mercoledì 16 ottobre inaugura la mostra “Oltre. Tra dentro e fuori”. Si tratta di un evento satellite del progetto-festival LiberAzioni - l’arte dentro e fuori. La mostra è il momento culminante di due percorsi separati, ma paralleli, che si sono sviluppati all’interno della Casa Circondariale Lorusso Cutugno di Torino e ideati dall’Associazione Museo Nazionale del Cinema: un laboratorio di disegno, guidato dagli artisti Petra Probst e Jhafis Quintero, e i worshop di fotografia, tenuti da Francesca De Dominicis, formatrice ed esperta in arti visive. Probst e Quintero hanno lavorato con alcuni detenuti della sezione di Alta Sicurezza avvicinandoli al disegno: il segno grafico è servito da indagine della propria identità, riscrittura del sé, rottura della contenzione fisica che il carcere impone, giungendo a comporre un foltissimo corpus di lavori, dei quali la mostra offre una selezione, frutto dell’attività guidata dai due formatori, ma anche della pratica autonoma svolta da alcuni nelle proprie celle. Il titolo della mostra evoca il superamento di un confine: da parte della persona detenuta, oltre le sbarre e la limitazione dello spazio, oltre le proprie capacità e l’immagine di se stessi, ma anche da parte del visitatore, invitato ad andare al di là del pregiudizio e dello stereotipo. La mostra si pone quindi come spazio di incontro tra chi è libero e chi è detenuto, tra chi è presente e chi è assente. L’esposizione è aperta fino al 17 novembre. A chiudere gli eventi di avvicinamento in centro Torino, giovedì 17 ottobre l’anteprima del cortometraggio “Sacro ardente cuore” scaturito dal laboratorio di video partecipato di LiberAzioni nella sezione Prometeo dei detenuti sieropositivi del carcere di Torino al Lacumbia film e la prima sessione dei cortometraggi in concorso (teatro don Orione a partire dalle ore 20,30). In programma per esempio La madre e il suo principe di Roberto Agagliate, ispirato a una fiaba della raccolta “Gypsy Folk-tales”, e Voci di dentro di Lucio Laugelli, che punta l’obiettivo su sei detenuti della Casa di reclusione di San Michele ad Alessandria. Due sono i concorsi nazionali di cinema e scrittura, uno per cittadini liberi e l’altro per detenuti, a cui si aggiunge quest’anno un contest musicale nelle periferie alla ricerca del pezzo che farà da colonna sonora alla sigla durante la settimana di LiberAzioni; sette sono i premi in denaro, equamente ripartiti tra i partecipanti che si trovano dentro e fuori dalle carceri italiane. Le giurie sono miste e composte da detenuti e da professionisti che li incontrano in carcere, tra i quali il regista Daniele Gaglianone, la scrittrice Paola Mastrocola, la Managing Director del TorinoFilmLab Mercedes Fernandez Alonso, la programmatrice del Museo Nazionale del Cinema Grazia Paganelli, i registi Marilena Moretti, Oreste Crisostomi e Francesco Cordio, il produttore Massimo Arvat, la scrittrice Giusi Marchetta e la ricercatrice Perla Allegri di Antigone Piemonte. Il festival prevede anche il convegno, La pena dopo la pena, in programma sabato 19 ottobre alle ore 10 al Campus Luigi Einaudi. Si parte da una domanda: Quali sono i limiti della pena? Quesito che si rende necessario dai tanti e crescenti episodi nei quali persone condannate, dopo aver espiato la condanna ed essere tornate libere, anche a distanza di molti anni, hanno subito ostracismi di varia natura e intensità nel loro percorso sociale. Come se la pena dovesse produrre effetti senza fine, come se lo stigma nei confronti del reo dovesse rimanere per sempre e pregiudicare il suo reinserimento sociale. Ci si chiede anche che ruolo abbiano i media e gli operatori penitenziari e del diritto in questo processo? Che ruolo possono avere i Garanti dei detenuti? A parlarne: Emilia Rossi, dell’Ufficio del Garante nazionale delle persone private della libertà, Davide Demichelis, giornalista, Susanna Ronconi, dell’associazione Sapere Plurale e Sergio Segio, dell’associazione Società Informazione. Modera Claudio Sarzotti di Antigone Piemonte, ma interverrà anche la Garante di Torino, Monica Cristina Gallo, e ci saranno letture dell’attrice e regista Clara Galante. A Paolo Rossi spetterà inaugurare il festival vero e proprio, venerdì 18 ottobre alle ore 9, nella sala del teatro all’interno della Casa circondariale “Lorusso e Cutugno”. La sera, poi, lo spettacolo sarà aperto al pubblico al Teatro Don Orione, in piazza Montale 18, nel cuore del quartiere Le Vallette (ore 21). L’ultimo giorno, domenica 20 ottobre, sarà Omar Pedrini a chiudere i Festival accompagnando la serata finale delle premiazioni dei vincitori del contest (ore 20 teatro Don Orione). L’ex leader dei Timoria inoltre presenterà il suo libro Cane sciolto (Chinaski Edizioni) alle ore 17 al Teatro Don Orione, con Sergio Segio e Andrea Perrone. Bari. Teatro, riparte “Sala prove” nel carcere minorile Fornelli baritoday.it, 12 ottobre 2019 Il teatro come pratica artistica e civile, per un progetto, a cura di Teatri di Bari/Teatro Kismet OperA, in collaborazione con la Compagnia CasaTeatro, che da più di vent’anni continua ad offrire uno spazio di alta formazione e produzione scenica, rivolto ai giovani detenuti dell’Istituto penale per i minorenni “Fornelli” di Bari e non. Parte da ottobre la stagione 2019/2020 della Sala Prove, lo spazio teatrale dell’Istituto, con un ricco calendario di appuntamenti che sarà presentato in questa sede al pubblico mercoledì 23 ottobre e giovedì 24 ottobre alle 20.30. Sala Prove è un progetto nato nel 1997 grazie a un protocollo di intesa tra Ministero della Giustizia ed Ente Teatrale Italiano, che si avvale della direzione di Lello Tedeschi - drammaturgo, regista e formatore teatrale - e della collaborazione della Compagnia CasaTeatro diretta da Piera Del Giudice. Tre i pilastri su cui si fondano le attività: programmazione, produzione e formazione. Iniziative che approcciano al mondo teatrale non solo i giovani detenuti dell’istituto, ma anche persone esterne alla struttura, con l’obiettivo di non marginalizzare il lavoro svolto al Fornelli e offrire alla città un singolare spazio artistico e culturale. Un’iniziativa che non si ferma alla sola produzione teatrale, ma mira anche a realizzare e curare la programmazione culturale multidisciplinare pubblica degli spazi e promuovere attività formative - artistiche, organizzative ed educative - in rete con gli istituti scolastici della città e l’Università degli Studi “Aldo Moro” di Bari. Come il festival ‘Way out - Visioni e suoni per un teatro altrovè, che per la sua prima edizione a giugno 2019 ha aperto le porte dell’Istituto al pubblico per 6 giorni di eventi teatrali e musicali nel teatro, attrezzato con 70 posti a disposizione degli spettatori, e negli spazi esterni dell’Istituto. Le attività della Sala Prove, che si avvalgono anche dell’expertise di artisti esterni, hanno portato infatti alla creazione di una vera compagnia, la Compagnia della Sala Prove, composta da detenuti-attori e artisti professionisti esterni che sono parte integrante del progetto, promuovendo le produzioni e l’attività nei circuiti professionali nazionali e definendo dunque l’esperienza tra le più significative nel panorama del teatro carcere italiano. In scena lo spettacolo “Tutto ricordare, tutto dimenticare” - L’ultimo lavoro firmato Compagnia della Sala Prove è lo spettacolo ‘Tutto ricordare, tutto dimenticarè, primo appuntamento della stagione 2019/2020, che fino a giugno prevede spettacoli, laboratori e seminari di alta formazione aperti a tutti. Tutto ricordare, tutto dimenticare, che andrà in scena nelle due serate di presentazione della nuova stagione, è diretto da Lello Tedeschi e si avvale della prova attoriale del detenuto-attore Alex Nistor e Piera Del Giudice. Una pièce ispirata a una delle favole italiane più amate: il Pinocchio di Collodi, che si incrocia sul palco alla storia di un giovane dei nostri tempi, un’apprendista dell’esistenza in cerca di identità e leggerezza in un mondo che riconosce insidioso e incerto. Ad accompagnarlo, in questo apprendistato, una giovane donna, in cui riverbera, come in un sogno, la figura della Fata, che però non ha nulla da insegnare, né, tanto meno, vuol farsi madre. Guida complice, semmai, specchio su cui far rifrangere desideri, mancanze, speranze, paure. E con cui condividere il bisogno di difendere e custodire gelosamente la propria essenza originaria, per l’uno il legno, per l’altra il sogno. L’evento è a posti limitati, con prenotazione obbligatoria. Per partecipare bisogna inviare una mail di richiesta, indicando nome e cognome e il proprio numero di telefono e allegando copia del documento di identità all’indirizzo botteghino@teatrokismet.it, entro e non oltre giovedì 17 ottobre. Per informazioni: 080.579.76.67. Roma. “Fuori le ali” porta l’Altro Sguardo del Cinema nelle scuole e nei luoghi del disagio La Repubblica, 12 ottobre 2019 Una serie di film con l’obiettivo di coinvolgere i giovani nel racconto del rapporto tra società e legalità: violenza sulla donna, l’adolescenza, i genitori, la libertà, l’ergastolo, la marginalità. Fuori le Ali, in collaborazione con la Scuola d’Arte cinematografica “Gian Maria Volonté”, l’Associazione Culturale “Boncompagni 22”, il Liceo Scientifico Statale “Augusto Righi” e con il sostegno del Mibac, presenta la rassegna Cinematografica (con un ciclo di tavole rotonde) “Un Altro Sguardo”: dall’11 ottobre 2019 al 7 febbraio 2020 per due venerdì al mese (ore 15.00-19.00, Liceo Righi, sede di Via Boncompagni 22, Roma; l’ultimo appuntamento sarà alla Casa del cinema. Le proiezioni dei film saranno destinate al solo pubblico studentesco, mentre le tavole rotonde a tema (che dai film prenderanno spunto) sono aperte al pubblico e gratuite. L’iniziativa, che rientra nel piano “Buone Pratiche per la Scuola”, intende essere per gli studenti oltre che un arricchimento culturale, un’occasione di utilità pratica, permettendo ai partecipanti di usufruire dei crediti previsti per i Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento (Pcto). Il cinema e i suoi mestieri nel disagio sociale. L’Associazione Culturale Fuori Le Ali, che unisce cineasti, personalità impegnate nella lotta alle disuguaglianze e alle ingiustizie, intellettuali italiani e professionisti dello spettacolo ha come obiettivo portare il cinema e i suoi mestieri nei luoghi del disagio sociale, fisico, psicologico, dove diritti civili e dignità personali sono negati o limitati: un cinema non inteso come privilegiata industria e “fabbrica dei sogni”, ma come modello di cooperazione attiva e strumento artistico e culturale di creazione di coscienza. L’inizio di un lungo percorso. Nata nell’ottobre 2017, Fuori le Ali incomincia il suo percorso nell’Istituto Penitenziario Minorile di Airola (Bn) nella primavera 2018 - come unico partner del progetto Il Palcoscenico della Legalità, tenuto dal rapper Luca “Lucariello” Caiazzo dell’Associazione TheCo2 - che prosegue nell’Ipm di Roma di Casal del Marmo tra giugno e luglio 2018 con il progetto Fare Cinema, portando le maestranze e i professionisti del cinema tra i ragazzi del carcere con incontri settimanali dedicati alle molteplici professioni, prendendo spunto dalla visione comune dei film realizzati da registi, attori, scenografi, montatori. Per il suo impegno nelle carceri, Fuori le Ali ha ricevuto nel novembre 2018 il premio “Nella Memoria di Giovanni Paolo II”, iniziativa promossa con il sostegno del Ministero della Giustizia (Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità) e il patrocinio del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, la Fondazione Ente dello Spettacolo e la Fondazione Giovanni Paolo II. Il coinvolgimento delle nuove generazioni. Presente e solidale in cause sociali come quella portata avanti dalla “Casa Internazionale delle Donne”, fino a giungere alla recente premiazione insieme ad Amnesty International dell’Associazione Davide Bifolco - Il dolore non ci ferma Onlus lo scorso 29 settembre al Rione Traiano di Napoli in occasione della proiezione del film Selfie di Agostino Ferrente, Fuori le Ali sarà ora impegnata in una rassegna cinematografica con tavole rotonde a tema che si terrà presso il Liceo Scientifico Statale “A. Righi” di Roma, dal titolo “Un Altro Sguardo”. Una serie di film con l’obiettivo di coinvolgere le nuove generazioni con la capacità del cinema di raccontare il rapporto tra società e legalità, che toccherà i temi del disagio sociale, la violenza sulla donna, l’adolescenza e i rapporti con i genitori, la delinquenza, la marginalità. Gli argomenti scottanti con gli occhi del Cinema. Gli argomenti più scottanti della contemporaneità visti attraverso gli occhi del cinema, dei suoi interpreti, ma anche di intellettuali, magistrati, artisti, che parteciperanno alle tavole rotonde aperte al pubblico e moderate dal responsabile della comunicazione di Fuori le Ali Serafino Murri: testimonianze di interpreti dei film, intellettuali, scrittori, magistrati e psicologi, per mettere a fuoco nella loro complessità e nella loro urgenza tutti i luoghi oscuri del nostro tempo, quelle zone grigie dove il confine tra la normalità e il perdersi sfuma in situazioni di inquietudine, disagio e crimine. Le proiezioni dei film saranno destinate al solo pubblico studentesco, mentre le tavole rotonde a tema (che dai film prenderanno spunto) sono aperte al pubblico e gratuite. Catanzaro. Carcere, presentato il libro di Felice Foresta “Il faggio che sposò la luna” catanzarotv.net, 12 ottobre 2019 Lo scorso 4 ottobre, nella sala Teatro della Casa Circondariale di Catanzaro si è svolta la presentazione del libro “Il faggio che sposò la luna” dell’avvocato Felice Foresta, un viaggio nei luoghi tradizionali ed emozionanti della Calabria, recentemente pubblicato da Argot Edizioni. L’evento rientra in una più ampia programmazione di recupero che prevede la partecipazione dei detenuti ad un laboratorio di scrittura e lettura, attivo ormai da anni. “La nostra realtà - ha affermato la direttrice Angela Paravati - è consapevole dell’importanza di riscoprire il valore della propria terra: della Calabria si racconta spesso il male, la nostra regione ha gli onori della cronaca in genere solo per notizie relative alla criminalità. In realtà una Calabria positiva esiste, è fatta di tante realtà e di tante bellezze spesso offuscate”. Presenti all’incontro, che ha visto una viva e attiva partecipazione dei detenuti, oltre all’autore, il magistrato di sorveglianza Angela Cerra, che si è soffermata sull’importanza della cultura nei percorsi di rieducazione. E la particolarità del libro è proprio che la trama stessa è un percorso. La celebrazione liturgica per i trent’anni dalla morte della madre riconducono il protagonista, Giancarlo Morabito, docente di Botanica Farmaceutica all’Università di Agraria di Piacenza, in Calabria, tra volti e paesaggi familiari. Ritornano immagini, razionalmente sfocate, ma sempre vivide nell’anima. Giancarlo incontrerà anche il doloroso destino di un vecchio compagno di giochi e si farà forte del ricordo del padre per trovare soluzioni e andare avanti. Ne emerge il ritratto di una Calabria per alcuni tratti simile alle realtà detentive: fatta di dolore e forza, di presa d’atto degli errori commessi, di fragili speranze e di coraggio per inizi nuovi, nonostante tutto. La lettura di parti del libro è stata accompagnata dalle esecuzioni musicali di Gianfranco Riccelli, artista che si è esibito in passato con Rentoli e Guccini. Riccelli ha fatto anche ascoltare anche dei brani musicali su temi quali l’emigrazione e la morte del padre, molto coinvolgenti per i detenuti, che hanno posto all’autore alcune domande sul libro elaborate nelle ore di studio trascorse con la docente volontaria Liliana Olivo. Felice Foresta ha risposto ampiamente agli interventi dei lettori, soffermandosi in particolare su aspetti relativi all’attuazione della Costituzione in carcere. Agli spunti letterari si sono unite così riflessioni giuridiche e di attualità, in un dibattito ricco di idee e di “punti di vista” diversi. Libri. “Doppia pena. Il carcere delle donne” di Giovanna Pezzuoli Corriere della Sera, 12 ottobre 2019 Chi sta fuori sa ben poco della vita delle recluse, delle loro sofferenze, come delle loro risorse e della forza che consente loro di immaginarsi dopo la detenzione. Perché le donne vanno in carcere, come vivono, quali trattamenti vengono loro applicati, che cosa accade quando hanno figli piccoli? Il carcere non è un luogo per donne, che rappresentano un’esigua minoranza, il 4,4%, circa 2.600 persone. “Ce ne occupiamo non solo per il nostro interesse - vorrei dire passione - per le minoranze, ma per la peculiarità della questione, di fatto poco conosciuta. Per tutte le implicazioni che la detenzione ha nelle differenze di genere”, scrive Nicoletta Gandus, magistrata che partecipa al collettivo Donne e Diritto di Milano, nell’introduzione del libro Doppia Pena. Il carcere delle donne, curato insieme a Cristina Tonelli. E spiega la scintilla da cui è nato il volume, la lettura del testo Recluse. Lo sguardo della differenza femminile sul carcere, in cui le autrici, Susanna Ronconi e Grazia Zuffa, davano voce alle detenute, raccontando strategie personali e collettive per contrastare la mortificazione e la perdita di sé. Lettura da cui è scaturito, in un gruppo di socie della Casa delle donne di Milano, il desiderio di approfondire il tema, affrontato dalle relatrici durante un affollato incontro alla Casa (oltre a Ronconi e Zuffa, Tamar Pitch, Claudia Pecorella, Marianna Grimaldi, Eva Banchelli e Antonia Monopoli) e quindi approfondito ed elaborato in un libro. Si chiede Nicoletta Gandus: “Se il superamento della pena detentiva è un traguardo di certo lontano, e incompatibile con il pensiero oggi dominante, cosa fare, ora, in particolare per le donne detenute?”. Che sicuramente vivono una maggiore afflizione rispetto agli uomini per la loro pena. Il carcere del resto si declina sempre al maschile. Le differenze di genere comportano notevoli differenze di condizioni di vita nel sistema penitenziario italiano: le donne, le madri, ancora più le straniere (che sono il 70% delle recluse) e le transgender (minoranza della minoranza) sono nella grande maggioranza dei casi tenute fuori da corsi e programmi trattamentali. Sostiene Susanna Ronconi, attivista e ricercatrice che da anni si occupa di carcere, del quale ha una personale esperienza come detenuta politica negli anni 80 e 90: “Non è ancora morta la vecchia idea, alla base della storia della istituzionalizzazione femminile, che oltre alla trasgressione del codice penale, ci sia anche una certa trasgressione dei “codici di genere”, di cosa sia e debba essere “femminile”. E a volte pesa sulle donne come un macigno. Emblematico il tema della cattiva madre”. Aleggia, scrive Grazia Zuffa, psicologa, già senatrice per il Partito Democratico, “la rappresentazione della donna criminale che col reato tradisce la femminilità e la vocazione materna”. Del resto, nei secoli il carcere femminile era prevalentemente in mano alle suore, fa notare Nicoletta Gandus, erano sostanzialmente donne devianti dal modello. Stereotipi e pregiudizi segnano dunque la reclusione femminile, da sempre assimilata a quella dei minori, non degli uomini adulti. Spesso poi le donne non sono informate tempestivamente e restano escluse dalla cultura premiale che regola l’accesso a pene alternative, permessi, lavoro all’esterno e questo rappresenta un ulteriore elemento di sofferenza. Ma sono anche tante le testimonianze, riportate nel libro, che mostrano il potenziale di queste donne, la loro volontà di uscire dal ruolo di vittime passive. “Dare valore e parola a coloro che vivono il carcere può innestare un meccanismo di riforma delle pratiche concrete della vita carceraria”, nota Grazia Zuffa. “Si cade, ci si può rialzare più forti di prima; so che è difficile però ho affrontato di tutto e affronterò anche questo”, dice una detenuta. E un’altra: “Non ho perso questo voler bene a me stessa, questo posto non è riuscito ad annullarlo. Preferisco parlare quando il dolore è passato, perché non mi piace sentirmi una vittima”. Racconta un’altra ancora: “In fondo non mi costa niente compilare una domandina per una che non sa l’italiano, aiutare in qualche modo. Perché dà soddisfazione anche a me… è una cosa che comunque fa stare bene anche me, è uno scambio che mi gratifica”. E poi c’è il tempo che non passa mai: “Io mi sono inventata una valanga di cose da fare. C’era il teatro, mi sono offerta volontaria per cucire i vestiti da teatro; in cucina sono senza grembiuli, mi sono offerta volontaria per cucire i grembiuli… Se un’amica mi dice aggiustami una gonna, gliela riparo”. Tempo ma anche responsabilità, memoria, legàmi e cura sono parole chiave di un ritratto collettivo, scrive Susanna Ronconi, che dà l’idea di quanto sarebbe importante sostenere le strategie di queste donne. Soprattutto facilitando l’accesso alle pene alternative e limitando la carcerazione cautelare, che colpisce più le donne degli uomini. E conclude: il 75% delle donne incontrate nei cinque anni del percorso di ricerca hanno reati minori e pene sotto ai tre anni. Perché devono essere recluse? Esistono tuttavia alcuni isolati esempi positivi, come l’Istituto a custodia attenuata per detenute madri (Icam) di cui parla Marianna Grimaldi, educatrice professionale. Un’esperienza pilota, avviata nel 2006 grazie all’intervento del giornalista Candido Cannavò e del direttore Luigi Pagano che promuovevano una campagna di sensibilizzazione, condividendo una visione allora quasi utopica, portare all’esterno delle mura di San Vittore tutti i piccoli e le loro madri benché detenute. A tutt’oggi nella sezione distaccata sono state ospitate circa 350 donne, con i loro bambini da 0 a 6 anni, che hanno potuto usufruire di un progetto educativo relazionale in una prospettiva di prevenzione e di collaborazione con le risorse del quartiere. Della difficoltà di garantire l’interesse superiore del minore scrive la docente di diritto penale Claudia Pecorella, ripercorrendo le tappe del graduale adeguamento normativo all’esigenza di non interrompere il rapporto madre-figlio. Interventi culturali e formativi sono essenziali per mitigare il senso di isolamento anche per coloro che si trovano nelle situazioni più estreme, come le detenute transgender, a rischio di ghettizzazione, e le straniere. Eva Banchelli, germanista che lavora come volontaria all’associazione Naga, spiega le fragilità delle detenute straniere, per le quali peraltro mancano dati e studi di riferimento. “Portano su di sé il peso di una tripla assenza: dal Paese di origine, dal Paese d’arrivo e da quel Paese a parte che è il carcere, con i suoi codici, le sue regole, il suo linguaggio così difficile da imparare e che significheranno, nel loro caso, non solo reclusione, ma una spesso insormontabile esclusione”. Aggiunge Nicoletta Gandus che nel libro il tema specifico della detenzione femminile è stato inserito nel più ampio contesto della situazione carceraria italiana, con una sorta di “bigino” sull’evoluzione storica del carcere e della pena. Dando conto inoltre delle proposte contenute negli Stati Generali dell’esecuzione penale del 2016. Un lavoro enorme quest’ultimo, voluto dall’allora ministro alla Giustizia, Andrea Orlando, per lo studio di una diversa esecuzione penale più aderente alla Costituzione, dove si auspicava la messa a punto di misure alternative alla detenzione, “con un lungimirante e razionale ripensamento sulla funzione e sulla funzionalità delle risposte sanzionatorie”. “Prima proposta organica, per quanto imperfetta e incompleta, formulata dopo la legge del 1975, diventata ancora più imperfetta con i decreti attuativi dall’ex ministro degli Interni Matteo Salvini, che sosteneva invece la necessità di costruire più carceri”, afferma Nicoletta Gandus. Qualcosa comunque si muove: si è appena svolta a Milano, il 3/4 ottobre la conferenza nazionale dei garanti dei detenuti, durante la quale Stefano Anastasia, invitando a spezzare l’equazione tra pena e carcere, ha lanciato l’idea di una riconvocazione autonoma degli Stati Generali per capire che cosa si può fare con l’attuale legislazione. Le donne sono una minoranza, conclude Nicoletta Gandus, ma proprio da questa minoranza potrebbe partire un cambiamento nei fatti, per riguardare poi l’intera popolazione carceraria. Il libro, l’appuntamento - La presentazione: del libro “Doppia pena. Il carcere delle donne” (edizioni Mimesis/Eterotopie 2019, pag. 114) si parla sabato 12 ottobre, dalle ore 16 alle 20, alla Casa delle donne di Milano, in via Marsala 8. Al dibattito, cui partecipa Franco Maisto, garante dei detenuti di Milano, segue il monologo di Claudia Fontana “Io non faccio eccezione”. Coordina Nicoletta Gandus. Mostre. “Prigionieri” di Gaetano Vallini L’Osservatore Romano, 12 ottobre 2019 Le immagini del fotografo romano Valerio Bispuri trasudano dolore e solitudine restituendo un senso di angoscia e di infinita tristezza. Quello del carcere è un mondo a parte: rassicurante per chi sta fuori e che preferirebbe non sapere nulla di quanto vi accade, devastante per coloro che sono costretti a viverci dentro, perché la pena detentiva non consiste nella sola privazione della libertà, ma spesso anche in un’umiliante perdita della propria dignità. Una situazione di progressivo degrado e abbrutimento contro cui s’infrange l’aspirazione di poter restituire un giorno alla società uomini e donne capaci di reinserirsi a pieno titolo nel tessuto civile. Una dura e triste realtà mostrata senza possibilità di fraintendimenti dalle 103 fotografie di Valerio Bispuri contenute nel libro Prigionieri, un viaggio quasi dantesco nei gironi delle carceri italiane, secondo capitolo di un racconto iniziato nell’inferno delle prigioni sudamericane. Bispuri, romano, 48 anni, è il primo fotografo ad aver ottenuto dal Dipartimento amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia l’autorizzazione a visitare alcuni dei più importanti istituti di pena del paese, e il risultato è un documento crudo, senza filtri, sulla condizione delle carceri e di chi ci vive. Ma non solo. Perché Prigionieri (Roma, Contrato, 2019, pagine 173, euro 39), al pari del precedente lavoro, Encerrados (2014), si presenta soprattutto come una vera e propria indagine antropologica che l’autore porta avanti da tempo sul tema della libertà perduta per la conseguenza di un crimine, di una dipendenza e dell’emarginazione sociale. Il viaggio nelle carceri italiane è durato tre anni, durante i quali il fotografo ha visitato dieci istituti di pena: l’Ucciardone a Palermo, Poggioreale a Napoli, Regina Coeli e Rebibbia Femminile a Roma, Capanne a Perugia, Bollate e San Vittore a Milano, il carcere della Giudecca a Venezia, la Colonia penale di Isili a Cagliari e il piccolo penitenziario di Sant’Angelo dei Lombardi, in provincia di Avellino. Strutture di varia grandezza ed età, e con diversi gradi di sicurezza. Ma a guardarli attraverso l’obiettivo della macchina fotografica di Bispuri sembrano tutti uguali. Le immagini, rese ancora più drammatiche da un bianco e nero livido e granuloso, mostrano problemi comuni: il sovraffollamento, la precarietà dei fabbricati, la mancanza di personale, la difficoltà nell’organizzare programmi di rieducazione del detenuto. Ma ancora di più raccontano i drammi personali e collettivi di uomini e donne rinchiusi in spazi angusti e fatiscenti, in quelli che appaiono quasi come non-luoghi, fermi in un tempo indefinito e, sebbene spesso al centro delle città, percepiti come invisibili. Come i loro ospiti. Invisibili e soli. “In questi tre anni - scrive infatti Bispuri nel fascicolo accluso al libro fotografico - ho avuto l’opportunità di conoscere da dentro il mondo delle carceri italiane e l’idea che ne ho ricavato è di una solitudine sconfinata: i detenuti sono permanentemente a contatto tra di loro, eppure sono sempre soli, in qualsiasi momento della giornata”. La solitudine di corpi che, in giornate insopportabilmente lunghe, si aggirano in celle anguste dalle pareti scrostate, lungo stretti corridoi, cortili piccoli e soffocanti con alti muri e inferriate. I suoni sono sempre gli stessi - lo sbattere di spessi cancelli, il risuonare di piccoli passi, il bisbiglio di decine di voci che si confondono - e pare persino di sentirli. Microcosmi - Bispuri per descrivere una delle carceri usa l’immagine efficace di astronave decadente - dove si confondono lingue, rumori, umori; dove le persone private della libertà tentano disperatamente di ricostruire affetti e abitudini, di conservare un barlume di umanità. Significative le foto in cui le detenute si truccano, si abbracciano. O quelle dei detenuti che cercano di tenersi in forma, come l’uomo che solleva improvvisati manubri i cui pesi sono ricavati da confezioni di bottiglie di plastica piene d’acqua. O quello, osservato da altri due carcerati, appeso a una sbarra agganciata a una finestra: un’immagine che mostra però un inatteso simbolismo, presentandosi come una sorta di “crocifissione”. Blasfema la definisce in uno dei testi di commento al volume lo scrittore Edoardo Albinati, che da oltre vent’anni lavora come insegnante a Rebibbia, ma carica di drammatico realismo. Nel suo ultimo romanzo, Il confine, terzo capitolo di una ponderosa trilogia sul narcotraffico in America, Don Winslow dedica una pagina particolarmente toccante alla descrizione dei penitenziari. “Le carceri - scrive tra l’altro - sono palazzi del dolore. Se i muri potessero parlare, urlerebbero”. Ecco, le foto di Bispuri urlano, trasudano dolore e ci restituiscono un senso di angoscia e di infinita tristezza. “Non si può non restare senza fiato - sottolinea Albinati - di fronte all’impressione più forte comunicata da queste fotografie: in galera (come del resto non sono in pochi ad augurarsi…) ci si marcisce dentro. Così come sono fatte queste prigioni, ci si marcisce e basta. Altro che! Le persone marciscono, i loro corpi si sfasciano, la loro mente pure, l’umanità non si riscatta o riabilita, semmai ulteriormente si degrada”. Un degrado che si legge soprattutto sui volti. Solcati da rughe profonde e da cicatrici, talvolta segnati da tatuaggi (come molti corpi), sono lo specchio di vite difficili, spesso oltre il limite. Allo stesso tempo sono testimonianze di esistenze che anche prima sembravano avere poche possibilità di un futuro diverso. Non che delinquere sia una strada obbligata, ovviamente, ma statistica e sociologia confermano un fenomeno sociologicamente reale, come spiega in un altro commento Stefano Anastasia, fondatore e presidente onorario dell’Associazione Antigone, Garante delle persone private della libertà per le Regioni Lazio e Umbria: “Si vedono, si riconoscono nelle immagini di Bispuri le persone predilette dal sistema penitenziario: hanno origini territoriali ed estrazioni sociali determinate. Un terzo, si sa, sono stranieri, quasi la metà meridionali”. E se negli anni passati la gran parte della popolazione penitenziaria era composta da persone provenienti da regioni del Mezzogiorno, oggi una buona parte di questi ultimi sono stati sostituiti da immigrati. Perché, spiega, Anastasia, “nella speciale classifica della non abbienza i migranti, in particolare se irregolari (come la nostra legislazione li preferisce), non sono solo poveri, ma anche privi dei più elementari diritti civili, e dunque esposti quanto altri mai alla necessità del lavoro illegale e, all’occorrenza, criminale”. Se la vita ti ha messo su un binario sbagliato, l’impressione successiva è che gli scambi lungo la linea siano tutti bloccati, la destinazione segnata. E così, nonostante la professionalità, l’impegno e l’umanità degli operatori e di tanti volontari, l’esperienza del carcere aggiunge dolore a dolore, lo amplifica, e lo espande. Bispuri è andato alla ricerca di questo dolore per documentarlo, ma anche per raccontare quell’umanità che prova a resistere, cercando di non cedere alla disperazione, aggrappandosi ostinatamente a frammenti di apparente normalità: una partita a carte, a bigliardino, a calcetto; una lezione in un’improvvisata aula scolastica o in un piccolo laboratorio. “Più di tutto - annota il fotografo - sono stato a stretto contatto con i detenuti: ho pranzato nelle loro celle, ho ascoltato i loro racconti, ho condiviso i loro pianti e le loro risate. Abbiamo vissuto momenti che sembravano quotidiani”. E “alla fine di questo lungo viaggio - conclude - rivedo un sorriso, una mano che si stringe, un abbraccio, il lamento e la paura di chi sa che il tempo è sempre uguale. Rivedo gli spazi stretti, la mancanza vitale di una speranza e il terrore mascherato delle giornate. L’ultima immagine che ritorna è quella di un detenuto di Regina Coeli che gioca da solo a pallone durante l’ora d’aria”. A chi attraverso questi scatti ha percorso in piccola parte quello stesso viaggio, resta una sensazione di profondo disagio. In Prigionieri ci s’imbatte in una sconfitta: quella di una società che non riesce a coniugare le esigenze della giustizia - che prescrive di scontare una giusta pena per un delitto - e la necessità di garantire il rispetto della dignità delle persone recluse, offrendo al contempo un percorso riabilitativo e di reale reinserimento. Perché, come ha detto di recente Papa Francesco ai membri dell’Amministrazione penitenziaria italiana, se non si garantiscono condizioni di vita decorose ai detenuti, “le carceri diventano polveriere di rabbia”. E, ha aggiunto, “se si chiude in cella la speranza, non c’è futuro per la società”. Rapporto sulla condizione delle donne: l’Italia osservata speciale di Adriana Pollice Il Manifesto, 12 ottobre 2019 Hate speech, violenze di genere, femminicidi, leggi punitive per le donne: preoccupante il report della Fondazione Pangea. Dai medici obiettori alla pillola del giorno dopo. Anche la salute è a rischio. L’Onu metterà sotto esame l’Italia il 4 novembre. Si tratta della Revisione periodica universale: ogni quattro anni gli Stati si sottopongono a un’analisi per stabilire il livello raggiunto in materia di diritti umani. La fondazione Pangea (in collaborazione con altre organizzazioni) ha stilato un rapporto sulla condizione delle donne in Italia con le relative raccomandazioni che presenterà oggi a Ginevra. “Le donne vengono attaccate sotto diversi punti di vista - spiega Simona Lanzoni, vicepresidente Pangea. I “discorsi dell’odio” spesso colpiscono il corpo e le capacità delle donne per svilirne la leadership, campagne che vogliono rimetterci dietro a un focolare familiare che non è mai esistito se non nei romanzi”. Preoccupanti i segnali arrivati dai diversi governi: “Abbiamo assistito a vere e proprie azioni politiche - prosegue Lanzoni - come il Fertility day dell’ex ministra della Salute Beatrice Lorenzin, la conferenza di Verona sulla Famiglia patrocinata dall’ex ministro Lorenzo Fontana e il decreto Pillon, con i quattro disegni di legge collegati, che vorrebbero punire le donne che vogliono divorziare, anche se vivono violenza domestica, e togliere loro i figli sulla base della capacità reddituale”. Il quadro che emerge dal report è preoccupante e le iniziative dell’esecutivo 5S-Lega l’hanno aggravato. In base ai dati Istat (fermi al 2015), 6.788.000 donne in Italia tra i 16 e i 70 anni (cioè il 31,5%) hanno vissuto una qualche forma di violenza. Ogni 72 ore un femminicidio (circa 120 donne all’anno), di solito per mano di un partner, ex partner o parente. Il possesso di un’arma è un fattore di rischio. “Small Arms Survey stima in 8.600.000 in totale le armi da fuoco detenute da civili in Italia nel 2017”, spiega il report, che poi aggiunge: “Due azioni legislative ne incentivano l’uso: il decreto 104 del 2018, che ha raddoppiato il numero di armi sportive che i cittadini con la licenza possono possedere, e la nuova legge sull’autodifesa”. Per le migranti la situazione è molto peggiore, soprattutto dopo il primo decreto Sicurezza che ha reso più difficile l’accoglienza. “L’identificazione e la protezione delle vittime di tratta - spiega il report - corrono il serio rischio di essere gravemente limitate a causa del decreto Sicurezza. Inoltre, l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati ha osservato che il decreto Sicurezza bis viola il principio di non respingimento”. Nel 2017 le vittime di tratta assistite sono state 1.050: l’85,6% donne; l’11,5% bambini. I principali Paesi di origine sono Nigeria, Romania, Marocco. La buona notizia dovrebbe essere l’introduzione del Codice rosso per il contrasto alla violenza di genere ma, d’altro canto, l’assistenza legale gratuita non è garantita a tutte le donne (come richiesto dalla legge 119/2013) perché “non è supportata da fondi dedicati”. E ancora: “La violenza di genere è sottovalutata dagli operatori coinvolti nella protezione, nell’investigazione e nei procedimenti giudiziari, i quali spesso trattano la violenza domestica come semplice conflitto all’interno della coppia. Le donne sono costrette a sottoporsi a procedure di mediazione familiare e, nel caso di bambini testimoni della violenza, ad accettare l’affidamento congiunto. Sono le premesse per il disagio del futuro”. E ancora: “La violenza psicologica e la denigrazione verbale - spiega Lanzoni - quasi sempre sono ignorate nei tribunali. In quelli civili le donne sono spesso condannate al risarcimento dei danni in quanto ritenute responsabili della cattiva relazione tra padre e figli”. Su salute e prevenzione si scontano ritardi cronici. Al tema dei medici obiettori che non praticano aborti (il 68,4%), si affianca il protocollo della “pillola del giorno dopo” che, quando applicato, obbliga a tre giorni di ricovero non necessario. Le donne, anche se altamente istruite, si limitano a impieghi precari e a paga ridotta: il tasso di occupazione nel 2017 è stato del 49,1%, quello maschile del 67,1%. A marzo ci sarà la sessione Onu che deciderà quali raccomandazioni vanno accolte: “L’esito dovrà avere effetti sull’agenda del governo - conclude Lanzoni. Il Piano strategico di contrasto alla violenza di genere va ridiscusso, finora nulla è stato fatto”. Migranti. Monito di Mattarella all’Europa: “Agisca o sarà travolta” di Marco Conti Il Messaggero, 12 ottobre 2019 “Tutti i problemi di carattere militare, di politica estera, economico, finanziario, ambientale, sono tutti risolvibili con l’attività di grandi soggetti e se l’Europa non diventa, sotto tutti i profili, un grande soggetto difficilmente avrà influenza”. Ad Atene si ritrovano tredici capi di Stato europei e Sergio Mattarella lancia l’allarme per il futuro incerto dell’Unione e per un’Europa che sembra aver smarrito il principio di solidarietà “per affrontare unita l’emergenza immigrazione” come le sfide economiche e sociali o ciò che sta accadendo in Siria. “Dobbiamo insieme costruire strumenti adeguati per una gestione comune e sostenibile del fenomeno migratorio - sostiene il Capo dello Stato - evitando la rimozione del problema o il tirarsene fuori, perché questo esporrebbe l’Europa nei prossimi decenni ad essere travolta dal fenomeno stesso”. Con coraggio e un parlar chiaro, Mattarella invita i presenti ad “una gestione comune” del fenomeno perché “se non è governato, diventerà una condizione che travolge il continente”. “Salvare le vite umane e cancellare l’ignobile fenomeno del traffico di esseri umani” che “per le nostre coscienze, è un costante rimprovero”. Mattarella parla davanti anche ai colleghi dei paesi di Visegrad ai quali ricorda che “se l’Unione si riducesse ad una comunità di interessi, il legame che la tiene insieme non reggerebbe a lungo”. In politica estera l’Ue si sta confermando “marginale, come la crisi siriana sta in queste ore dimostrando”: “I protagonisti sono altri ma - osserva - le conseguenze cadono sull’Europa”. Mattarella ricorda anche l’intesa raggiunta a Malta spiegando che ora la rotta con maggiori flussi è quella orientale, “ma per questo occorre una gestione comune”. Ma se Germania, Portogallo e Grecia hanno condiviso la visione solidale, fino a lodare il ruolo dell’Italia, il nord Europa ha confermato quanto siano ampie le distanze. A tentare di dare lezioni i presidenti di Ungheria, Polonia e Lettonia zittiti però dal padrone di casa, il greco Prokopis Paulopoulos: “Voi non capite che cosa significa avere il mare, avere dei confini di mare”. La pace tra Etiopia e Eritrea vale il Nobel a Abiy Ahmed Ali di Simona Verrazzo Il Messaggero, 12 ottobre 2019 Il premio Nobel per la Pace va nuovamente all’Africa, ma stavolta alla regione del Corno, una delle più povere e martoriate del continente. Il prestigioso riconoscimento è andato al premier dell’Etiopia, Abiy Ahmed Ali. “Per i suoi sforzi è la motivazione del Comitato di Oslo per raggiungere la pace e la cooperazione internazionale, e in particolare per la sua decisiva iniziativa per risolvere il conflitto di confine con la vicina Eritrea”. L’assegnazione del Nobel per la Pace, come ogni anno, ha acceso il dibattito politico e sociale, soprattutto perché la grande favorita era Greta Thunberg, la giovanissima attivista svedese, appena sedicenne, paladina della lotta contro il cambiamento climatico. In carica dall’aprile 2018, da quando ha iniziato a guidare il governo Abiy Ahmed Ali ha cambiato il volto del paese. In poco più di un anno ha tolto lo Stato di emergenza, liberato i prigionieri politici, legalizzato i partiti di opposizione. Storica anche la svolta di emancipazione femminile, con numerose donne ai vertici delle istituzioni, a cominciare da Sahle-Work Zewde, presidente della Repubblica. Ma la vera rivoluzione è arrivata nelle relazioni internazionali, in particolare con la vicina Eritrea, citata nelle motivazioni dell’assegnazione del Nobel per la Pace. Un tempo era un unico paese, fino all’auto-proclamazione dell’indipendenza di Asmara nel 1991 (ufficializzata con un referendum nel 1993), ma con l’avvio del conflitto, scoppiato nel 1998, i rapporti tra Etiopia ed Eritrea si sono interrotti, lasciando spazio alle armi. In due anni tra le 70.000 e le 100.000 persone hanno perso la vita, fino ad arrivare a una situazione di stallo racchiusa nell’espressione “nessuna pace, nessuna guerra”.Abiy Ahmed Ali, 43 anni e l’intera giovinezza trascorsa a convivere con il conflitto, ha fatto della distensione dei rapporti con l’Eritrea uno dei principali punti del suo programma di politico. Non tutti avrebbero scommesso che l’importanza data alla ripresa delle relazioni con Asmara lo avrebbe portato al potere, avendo l’Etiopia ben altri problemi interni. Invece così non è stato e a luglio 2018, soltanto tre mesi dopo la presa in carico del governo, ha annunciato il disgelo con Isaias Afwerki, 73 anni, eterno presidente dell’Eritrea, al potere dal 1991, disgelo suggellato dalla visita di quest’ultimo ad Addis Abeba dopo un’assenza di 22 anni. Ripresa delle relazioni diplomatiche e anche dei rapporti commerciali, compresa la riattivazione delle rotte aeree tra i due paesi: i progetti di infrastrutture comuni sono numerosi, tutti promossi dall’Etiopia che, a causa dell’indipendenza dell’Eritrea, ha perso lo strategico sbocco sul Mar Rosso. L’arrivo di Abiy Ahmed Ali è stato letto come un segnale di speranza per l’intero continente. “Il premio Nobel per la pace 2019 ha precisato il Comitato di Oslo in un tweet intende anche riconoscere tutte le parti interessate che lavorano per la pace e la riconciliazione in Etiopia e nelle regioni dell’Africa orientale e nord-orientale”. “Felicitazioni sono arrivate da tutto il mondo, compresa l’Italia, a cui l’Etiopia è storicamente legata. “Le mie più calorose congratulazioni al mio grande amico e coraggioso statista Abiy Ahmed Ali è il messaggio del presidente del Consiglio italiano, Giuseppe Conte l’Italia è e sarà al tuo fianco”. A ottobre Conte era volato ad Addis Abeba, primo leader europeo in visita in Etiopia dopo la pace con l’Eritrea, ricambiato da Abiy Ahmed Ali, che a gennaio è stato accolto a Palazzo Chigi. Siria. La guerra sporca, fatta per procura, per conto dell’Europa di Guido Viale Il Manifesto, 12 ottobre 2019 A fare le spese delle armi di Erdogan è l’unica democrazia del Medio Oriente. Non è Israele, ma la Confederazione Rojava, multietnica, tollerante, femminista, ecologista. La guerra di Erdogan contro il Rojava è fatta per deportare una grande parte dei profughi siriani che l’Europa non vuole accogliere, in un territorio trasformato in un enorme campo di concentramento a cielo aperto; dopo averne scacciato le popolazioni, curde e non solo, che lo abitano e lo hanno difeso con tutti i mezzi. È inutile girarci attorno: quella di Erdogan è una “guerra per procura” fatta per conto dell’Europa. A nulla valgono le dissociazioni e l’invito alla moderazione dei governi europei: l’Europa non muoverà un dito per fermare Erdogan, come non lo ha fatto di fronte alle sue continue violazioni della legalità e dei più elementari diritti umani. Soprattutto a partire dal 2016, data del patto scellerato per affidare alla Turchia la “custodia” dei profughi siriani in transito verso il nostro continente. D’altronde, questa combinazione di finta indignazione, ma di sostanziale complicità e aperta collaborazione (la Turchia è e resta un membro della Nato e le armi che utilizza contro i curdi sono in buona parte di fabbricazione europea, con annesse istruzioni per usarle “al meglio”) è lo stesso atteggiamento adottato dall’Unione europea nei confronti della Libia, delle bande criminali che la governano: a parole, indignazione e dissociazione dai loro crimini - omicidi, schiavismo, stupro, estorsioni, annullamento della dignità - ormai riconosciuti non solo dalle Ong, ma anche dalle agenzie dell’Onu e persino da diversi ministri dei paesi membri. Nei fatti, trattative, appoggio politico, forniture militari, finanziamenti e persino riconoscimenti ufficiali dei trafficanti libici, come rivelato dal quotidiano Avvenire a proposito di uno dei loro capi più feroci. Non sono le Ong a stringere accordi con i trafficanti libici, ma tutta l’Unione, e per suo conto il governo italiano. A fare le spese dell’aggressione scatenata da Erdogan è l’unica democrazia del Medio Oriente. Non parliamo di Israele, ormai costitutivamente impegnato in pratiche di apartheid e di repressione feroce dei nativi del suo territorio, ma la confederazione multietnica, tollerante, femminista ed ecologista del Rojava: una vera minaccia, non dall’esterno, ma dall’interno, per i regimi dispotici che spadroneggiano nella regione con la protezione dell’Occidente. L’Europa non si ritiene in grado di accogliere i profughi siriani, anche solo temporaneamente; in attesa di un ritorno alla pace in cui evidentemente non crede e che non fa nulla per promuovere: con il loro arrivo “la stabilità tra i governi sarebbe messa di fronte a una prova che non è in grado di sostenere…e la sopravvivenza dell’Unione europea sarebbe messa in discussione” scrive Andrea Bonanni su Repubblica. Ma perché mai, allora dovrebbe reggere una prova del genere la Turchia, senza precipitare, come è successo, in una condizione di rigetto radicale della democrazia e dei diritti umani? Lungi dal tener lontani i pericoli per la democrazia, gli accordi con la Turchia o con la Libia sono l’inizio della sua trasformazione in ciò che l’Europa sostiene di non voler mai diventare: uguale a loro. Finché profughi e migranti verranno trattati come un peso e un costo al proprio interno (una minaccia per “lo stile di vita europeo”) e come nemici all’esterno (questo è non altro vuol dire “difendere le frontiere”) non esiste altra prospettiva che la militarizzazione della vita sociale (anche e soprattutto contro il dissenso e l’opposizione interna) e la guerra per respingere “l’invasione”. Ma se nelle “fortezze” è difficile entrare per i profughi, sarà sempre anche più difficile uscirne per i cittadini europei, anche solo per “fare affari”, cioè per sostenere “lo stile di vita europeo”. L’alternativa significa trattare profughi e migranti non come un peso e un nemico, ma come una risorsa e una benedizione: non solo economica (per il loro lavoro e il loro contributo a pagarci le pensioni), ma anche demografica e culturale. Questa prospettiva è la conversione ecologica, il Green New Deal imposto dalla crisi climatica e affrontato non come una delega ai governi, alle imprese e alla finanza, di ciò che non hanno saputo né voluto fare finora, nonostante gli allarmi che risalgono ad almeno trent’anni fa; bensì come un processo di attivazione e di mobilitazione dal basso, come interpreta questa formula Naomi Klein nel suo ultimo libro Il mondo in fiamme: un processo insieme ai profughi e ai migranti già arrivati sul “nostro” suolo, ma anche ai molti che cercheranno ancora di arrivarci; per preparare insieme a quelli di loro che lo vogliono (e sono in tanti) un ritorno volontario nelle loro terre per risanarle e ricostruirle; dopo aver imposto con una mobilitazione comune quella pacificazione che le grandi potenze che governano gli attuali conflitti non sapranno mai né individuare né promuovere. Siria. Quei 12mila soldati Isis prigionieri che adesso possono essere liberati di Gianandrea Gaiani Il Mattino, 12 ottobre 2019 Non sono solo i curdi siriani ma anche Mosca e le agenzie di intelligence europee lanciano l’allarme per la possibile liberazione dei 12 mila miliziani dell’Isis e dei 70 mila loro famigliari prigionieri dei curdi nel nord della Siria, tra i quali vi sono moltissimi bambini e adolescenti indottrinati alla causa del Califfato e potenzialmente addestrati a compiere attacchi e attentati suicidi. Nei giorni scorsi il presidente turco Recep Tayyp Erdogan ha cercato di rassicurare l’Occidente affermando che i prigionieri non verranno liberati e che i 2.500 foreign fighters presenti nei campi di detenzione verranno estradati nei paesi d’origine, inclusi quelli europei che finora hanno rifiutato i rimpatri di miliziani e terroristi opponendosi alle richieste in tal senso degli Stati Uniti. Il ritiro delle forze americane dal nord della Siria, dove i turchi stanno istituendo la fascia di sicurezza di 32 chilometri, pone i presupposti che potrebbero favorire la “resurrezione” dello Stato Islamico. Il comando curdo paventa infatti il rischio che miliziani e i loro famigliari possano venire liberati dai turchi e diventare “una minaccia alla sicurezza locale e internazionale” ma se è comprensibile che i curdi vogliano accentuare le pericolose conseguenze derivanti dall’offensiva turca non si può negare che l’allarme sia motivato da diverse valutazioni. Fonti russe affermano che i campi di prigionia sono stati abbandonati dalle guardie curde e il rischio di fughe dei prigionieri sarebbe quindi già qualcosa di più di un’ipotesi e Mosca teme il ritorno a casa di molti combattenti caucasici e delle repubbliche asiatiche dell’ex Urss. Inoltre la Turchia ha avuto un ruolo chiave nell’avvio della rivolta armata contro il regime di Bashar Assad armando e inquadrando il cosiddetto Esercito Siriano Libero (Esl) le cui milizie oggi affiancano le truppe di Ankara nell’operazione nel nord della Siria. Al tempo stesso Ankara ha sostenuto lo Stato Islamico tra il 2014 e il 2016 nella campagna contro i curdi. Molti miliziani dell’Isis feriti durante la battaglia di Kobane vennero curati negli ospedali turchi mentre il petrolio estratto abusivamente dal Califfato dai pozzi occupati in Iraq e Siria venne venduto illegalmente in Turchia. Negli ultimi anni l’appoggio turco allo stato islamico è venuto meno, determinando una recrudescenza degli attentati jihadisti in territorio turco, ma oggi ci sono le condizioni per una nuova cooperazione tra Ankara e le milizie dell’Isis in funzione anti-curda. La liberazione o la fuga dei prigionieri jihadisti potrebbe alimentare nuovamente il conflitto a sud della fascia di sicurezza occupata dai turchi, dove i curdi ormai abbandonati dagli statunitensi potrebbero presto saldarsi con le truppe governative siriane schierate oggi per lo più a ovest dell’Eufrate. In quella regione le milizie dell’Isis sono ancora presenti ma con poche, piccole unità. L’arrivo degli ex prigionieri costituirebbe in grave problema di sicurezza per la regione dove peraltro dovranno venire ospitati 2,5 milioni di civili curdi in fuga dai territori occupati dai turchi in cui Ankara intende trasferire 3 milioni di profughi siriani. Non è forse casuale che l’Isis abbia rialzato la testa, attaccando postazioni curde proprio lungo il confine turco alla vigilia dell’avvio dell’offensiva di Ankara. Episodio che potrebbe costituire l’indizio di una possibile intesa tra i turchi e le milizie jihadiste mentre l’eventuale liberazione dei prigionieri dell’Isis è vista come una minaccia pure al di qua del Bosforo dove l’intelligence teme che molti jihadisti cerchino di raggiungere l’Europa. Anche mischiandosi agli immigrati illegali i cui flussi verso la Grecia sono già da tempo in vertiginoso aumento e che potrebbero trasformarsi in ondate (come nel 2015) se Erdogan dovesse aprire le frontiere occidentali come minacciato nei giorni scorsi. Tra i terroristi che potrebbero infiltrarsi non ci sono solo foreign fighters che vorrebbero “tornare a casa” ma anche combattenti arabi e asiatici del Califfato che preferirebbero raggiungere l’Europa piuttosto che affrontare, esecuzioni sommarie, impiccagioni o dure prigionie in Iraq e Siria. Il vecchio Continente continua infatti a essere una sorta di paradiso per i veterani del jihad: solo pochi dei foreign fighters rientrati dopo la caduta di Raqqa e la fine del Califfato sono stati arrestati mentre la gran parte resta a piede libero sorvegliata con discrezione dai servizi di sicurezza. Sia la Ue che i singoli Stati hanno annunciato e varato piani ben poco repressivi ma improntati al recupero sociale dei veterani del jihad con programmi di welfare che prevedono sussidi e persino corsi universitari pagati ai terroristi dell’Isis. Yemen. Un Paese sotto tortura da 5 anni ormai prossimo a diventare il più povero del mondo La Repubblica, 12 ottobre 2019 Le stime dell’Onu: avverrà entro il 2022, quando il 79% della popolazione risulterà al di sotto della soglia di povertà. Ad oggi, il conflitto ha provocato oltre 90mila vittime, civili e combattenti. Lo Yemen è “sotto tortura” da anni per un conflitto sanguinoso che ha innescato la più grave crisi umanitaria dalla Seconda guerra mondiale. È di oggi la notizia secondo la quale diventerà anche il Paese più povero al mondo, se la guerra dovesse continuare in un prossimo futuro. È quanto emerge da un rapporto elaborato dagli esperti delle Nazioni Unite, secondo cui “se i combattimenti continuano fino a tutto il 2022”, il 79% della popolazione risulterà al di sotto della soglia di povertà. Lo si apprende da Asianews. Il rapporto pubblicato il 9 ottobre sorso dal Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp) mostra inoltre che, già oggi, il 65% degli abitanti del Paese è “classificato come estremamente povero”. A causa della guerra, infatti, la povertà nello Yemen è balzata dal 47% della popolazione nel 2014 al 75% (previsto) per la fine del 2019. L’intervento militare saudita e l’80% della gente da assistere. La nazione araba, già da tempo la più povera di tutta la penisola araba, è sprofondata in un conflitto sanguinoso dopo che i ribelli Houthi, sostenti dall’Iran, hanno conquistato la capitale Sana’a nel 2014. Lo scontro fra governativi filo-sauditi e ribelli è degenerato nel marzo 2015 con l’intervento della coalizione araba guidata da Riyadh. Ad oggi, il conflitto ha fatto registrare oltre 90mila vittime, fra civili e combattenti. Le divisioni a livello locale si sono poi trasformate in una guerra per procura, che ha causato milione di sfollati e - fonti Onu - innescato “la peggiore crisi umanitaria al mondo”, con circa 24 milioni di yemeniti (l’80% della popolazione) che necessitano di assistenza umanitaria. I bambini soldato sarebbero circa 2500 e la metà delle ragazze si sposa prima dei 15 anni. Gli spiragli di dialogo. “La guerra - afferma Auke Lootsma, responsabile Yemen per lo Undp - non ha solo innescato la più importante crisi umanitaria al mondo, ma ha pure sprofondato la nazione in un vicolo cieco senza prospettive di sviluppo”. La situazione attuale, aggiunge, minaccia di trasformare la popolazione yemenita “nella più povera al mondo”, una situazione che “una nazione già sofferente non è certo in grado di poter sostenere nel futuro”. Sul fronte diplomatico si muovono ancora spiragli di dialogo fra i ribelli Houthi e il governo riconosciuto dalla comunità internazionale e sostenuto da Riyadh. Ieri le milizie filo-Teheran hanno proposto un nuovo scambio di prigionieri, fra i quali vi sono anche 2mila detenuti, dopo aver liberato a inizio mese quasi 300 persone, compresi cittadini sauditi. Il “gesto distensivo” degli Houthi filo iraniani. Analisti ed esperti parlano del più importante “gesto distensivo” degli Houthi in una prospettiva di allentamento della tensione e di distensione con il fronte nemico vicino ai sauditi. “Abbiamo detto ai mediatori locali - afferma Abdul Qader al-Murtada, capo del comitato Houthi per le questioni riguardanti i prigionieri - che siamo pronti ad applicare uno scambio di prigionieri entro una settimana. Restiamo in attesa di una risposta dalla controparte”. Al momento non si sono registrate ancora risposte ufficiali dal governo yemenita, anche se - a livello ufficioso - si parla di passo positivo in un’ottica di distensione. Le ragioni di un conflitto così lungo e spaventoso. Lo Yemen - al di là del racconto quasi esclusivamente “umanitario” che se ne fa, tra i civili uccisi, gli sfollati, gli stupri, il colera... - ha una sua grande rilevanza strategica. Non ci vuole molto a capire la portata cruciale di questo Paese: basta dare uno sguardo alla carta geografica, per capire le ragioni per cui i gruppi jihadisti come Al Qaeda abbiano avuto facile accesso e perché gli Usa e l’Arabia Saudita coalizzati siano lì a tutelare i loro enormi interessi. Lo Yemen si trova, infatti, nel punto più estremo della Penisola arabica e sotto i suoi occhi, ogni giorno, passano milioni di tonnellate di petrolio, milioni di tonnellate di merci, e tutto questo nel bel mezzo di una guerra, con un altro “attore” della scena come l’Iran, sempre meno silente, che nello Yemen ha un suo presidio militare rappresentato, appunto, dagli Houti. Quando la posizione geografica gioca un ruolo ostile. Il destino di un popolo non è mai disgiunto dalla posizione geografica dove ha radicato la sua storia, la sua cultura, la sua economia. Gli yemeniti, dunque, non godono di una situazione geopolitica “amica”. La riconquista del porto di Hudaya, città portuale assediata dalla coalizione Usa-Arabia Saudita per essere strappata dalle mani delle forze armate filoiraniane degli Houthi, non ha altro scopo se non quello di riconquistare una postazione di importanza strategica sulle rotte che solcano il Mar Rosso. In particolare, c’è da tener d’occhio lo stretto di Bab el Mandeb, dove tutti i Paesi che si affacciano su quel mare, colossi economici regionali come l’Arabia Saudita e Israele, non possono prescindere dal volume di traffici commerciali che si muovono proprio lì. Un luogo che - se si osserva ancora una volta una carta geografica - altro non è che il cancello d’ingresso del Canale di Suez.