Ergastolo ostativo, un tema su cui riflettere in vista del pronunciamento della Consulta di Andrea Pugiotto* Il Sole 24 Ore, 11 ottobre 2019 Il 22 ottobre la Corte costituzionale misurerà la legittimità del regime ostativo applicato all’ergastolo. Come dopo una frana, tutto si è finalmente sedimentato: rigettato il ricorso del governo, la sentenza Viola c. Italia pronunciata il 13 giugno scorso dalla Corte europea dei Diritti dell’Uomo è definitiva. È certo, quindi, che il cosiddetto ergastolo ostativo previsto nel nostro ordinamento penitenziario vìoli l’articolo 3 Cedu. La sua riforma s’impone, trattandosi di un problema strutturale che riguarda tre ergastolani su quattro (1.255 a fronte di 1.790 condannati a vita). Diversamente, l’Italia sarà oggetto di reiterate condanne a Strasburgo, in ragione dei tanti ricorsi siamesi di ergastolani non collaboranti cui è precluso per legge l’accesso a qualsiasi beneficio penitenziario. Nei giorni scorsi, in un crescendo wagneriano, contro questo esito è stato scagliato di tutto: dallo scenario di boss e killer mafiosi liberi di circolare per le strade all’accusa di cedimento dello Stato alla criminalità organizzata, dai corpi nuovamente martoriati di Falcone e Borsellino al perentorio invito alla Corte europea di “dichiarare da che parte sta nella lotta alla mafia”. Una “sentenza papello”, è stato urlato in prima pagina. Sono allarmi giustificati? La risposta è nella lettura di quanto realmente deciso a Strasburgo. I Giudici europei non hanno contestato la collaborazione con la giustizia quale via privilegiata di accesso ai benefici penitenziari. Semmai, hanno negato la tenuta logica e giuridica della preclusione assoluta ai benefici penitenziari per l’ergastolano non collaborante. Perché tacere, pur potendo parlare, spesso è una scelta obbligata per mettere al riparo da ritorsioni sé stessi o i propri familiari. Perché dopo venti o trent’anni di reclusione in carcere non si ha più nulla di utile da confessare. Perché la collaborazione può nascondere una finta dissociazione mirante a ottenere i benefici di legge. Perché la risocializzazione può desumersi da altre condotte concludenti diverse dalla delazione. Meglio, allora, una valutazione del giudice di sorveglianza, caso per caso, in luogo di un generalizzato automatismo penitenziario. Qui è il punto critico del regime ostativo applicato all’ergastolo: se non collabora, il reo è presunto omertoso, dunque irrecuperabile alla società, criminale perinde ac cadaver. Quando invece - come scrivono i giudici di Strasburgo - non si può “privare una persona della sua libertà, senza operare al tempo stesso per il suo reinserimento e senza fornirgli una possibilità di riguadagnare un giorno questa libertà”. Ecco perché in Europa sono vietate pene perpetue non riducibili, indipendentemente dalla gravità del reato commesso. Un “fine pena mai” è contrario alla dignità umana, scudata dal divieto di tortura e di trattamenti inumani o degradanti scolpito nell’articolo 3 Cedu. Un divieto - è bene ricordarlo a chi pure dovrebbe saperlo - che non ammette né deroghe né sospensioni, neppure “in caso di guerra o di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione” (art. 15 Cedu). La frana non si fermerà qui. È facile prevedere rinnovati e più catastrofici smottamenti a ridosso del 22 ottobre, data in cui la Corte costituzionale misurerà la legittimità del regime ostativo applicato all’ergastolo. Gli echi della sentenza Viola si sentiranno fino a Roma, perché è fortemente indiziata di incostituzionalità la legge che vìoli gli obblighi derivanti dall’adesione alla Cedu, specialmente se la giurisprudenza di Strasburgo è consolidata e riguarda espressamente il nostro paese. Come in questo caso. Sono passati sedici anni da quando - con la sentenza n. 135/2003 - la Corte respinse come infondata la quaestio sull’ergastolo ostativo. Da allora, i giudici costituzionali hanno corretto il tiro. Oggi, il principio di progressività trattamentale e di flessibilità delle pene, l’accesso ai benefici penitenziari, la valutazione di un giudice sul percorso rieducativo del singolo detenuto, il divieto di rigidi automatismi penitenziari sono - tutti e ciascuno - “in attuazione del canone costituzionale della finalità rieducativa della pena” (sent. n. 149/2018). Se questo è il volto costituzionale della pena, difficile non vedere nell’ergastolo ostativo un suo sfregio. Attingendo al sapere e alla saggezza di giuristi come Francesco Palazzo e Vladimiro Zagrebelsky se ne è discusso all’Università di Ferrara il 27 settembre scorso, in vista dell’atteso pronunciamento della Corte costituzionale. Grazie all’ospitalità de Il Sole 24 Ore, si vuole proseguire quella riflessione. Lo si faccia sine ira et studio: un tema drammatico come il carcere a vita, cioè fino alla morte, lo pretende. Buona discussione. *Ordinario di Diritto costituzionale, Università di Ferrara I diritti umani non si barattano. La Cedu non cede di fronte a malafede e ignoranza di Franco Corleone L’Espresso, 11 ottobre 2019 La Corte europea dei diritti umani ha confermato la sentenza Viola del 13 giugno scorso che applica all’Italia una giurisprudenza consolidata che considera contraria all’articolo 3 della Convenzione di Strasburgo una pena perpetua priva di una qualche prospettiva di liberazione del detenuto in conseguenza del percorso educativo. È falso che ora i mafiosi torneranno in libertà. Altra falsità propalata quella che finirà il carcere duro. Si tratta di una confusione incredibile tra il 41bis e il 4bis. Se si elimina un automatismo assoluto che vieta di valutare la possibilità di concedere un beneficio previsto dall’Ordinamento penitenziario, torna la responsabilità della decisione alla magistratura di sorveglianza. Quindi non si sostituirà un automatismo a un altro, ma tornerà un sistema che consentirà di esaminare i singoli casi nella loro concretezza. Va detto che è l’ergastolo che è incostituzionale e che non è stato dichiarato tale dalla Corte Costituzionale in quanto la pena poteva almeno come ipotesi non essere senza fine. Con l’ergastolo ostativo questo paravento era caduto. Ora le lancette tornano al tempo della ordinarietà rispetto alla logica dell’emergenza. Forse per fare chiarezza assoluta va ripresa la battaglia per la cancellazione dell’ergastolo tout court. Gli esempi di Paesi senza questa pena condannata da Aldo Moro non mancano nel mondo. A cominciare dalla Norvegia che subì l’orrenda strage di Anders Breivik. Ergastolo, perché la sentenza Ue non sarà un “libera tutti” di Mario Bruno* Il Mattino, 11 ottobre 2019 Esimio direttore, vorrei intervenire riguardo il cosiddetto ergastolo ostativo, all’attesa e quindi da ultimo alla sentenza pronunciata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che ha respinto il ricorso proposto dal nostro Stato. Devo immediatamente precisare che ritengo che la sentenza abbia fissato un principio di assoluta ed eccezionale civiltà giuridica e sociale, perché finalmente il nostro Stato potrà (spero) non solo teoricamente essere annoverato tra quelli - e sono la stragrande maggioranza di quelli cosiddetti civili - che ritengono che il carcere sia non solo un luogo di punizione, ma soprattutto, come è sancito dalla nostra Carta Costituzionale, luogo di emenda, recupero sociale e rieducazione del cittadino che si è reso responsabile di reati e di illeciti penali. Quello che mi ha indignato è il fatto che prima e dopo questa sentenza siano stati espressi commenti assolutamente scollegati dalla realtà. Non mi sorprendono certamente i commenti dei vari politici che si sono manifestati in questa occasione, perché è assolutamente chiaro che, vivendo e sopravvivendo essi soltanto sul consenso della opinione pubblica, debbono necessariamente cavalcare la tigre della più becera ignoranza giuridica (oramai quasi tutti i rappresentanti dei vari partiti sanno soltanto parlare di gente che “deve marcire in galera”), ma quello che mi sorprende e mi indigna sono le affermazioni rilasciate da tecnici, soprattutto magistrati ed anche di superiore livello, che rilasciano interviste che contengono affermazioni del tutto lontane dalla verità. Sostenere, come si assume, che con questa eccezionale sentenza, venga scoraggiata la collaborazione, che venga incoraggiata la criminalità organizzata, che oramai non ci sarà più nessuno disposto a collaborare con la giustizia, che si corre il rischio di fare uscire dal carcere decine di criminali della peggiore specie, che addirittura ci saranno richieste di risarcimenti, è realmente una conclusione irreale, aberrante e sconclusionata. Il ministro della Giustizia ha addirittura affermato, secondo quanto leggo nella vostra sintesi, che “Noi non ci stiamo”. Vai a capire cosa significa questa specie di minaccia. Ma, ripeto, anche egli è un politico, (nonostante abbia letto che sarebbe un avvocato) e quindi non mi sorprendo. Però quando leggo che magistrati ventilano la possibilità che i peggiori criminali saranno praticamente liberati su un tappeto rosso mi indigno. Non è certamente così: la applicazione nei loro confronti di eventuali, futuri, possibili benefici sarà subordinata ad una serie infinita di accertamenti, indagini, informazioni e soprattutto dovranno essere loro concessi da altri magistrati sulla base proprio di quella attività articolata di indagine, che dovrà stabilire se essi abbiano effettivamente reciso qualsiasi tipo di contatto con la criminalità di riferimento. Soprattutto questa conclusione dovrà essere certificata proprio da quegli stessi magistrati che oggi diffondono notizie del tutto inconcludenti, perché sarà proprio la Procura Antimafia che dovrà esprimersi sulla recisione di qualsiasi contatto e senza questo parere sarà impossibile accedere a benefici di qualsiasi specie. Eppure questi signori si stracciano le vesti, ventilano ipotesi del tutto false e calpestano la stessa Costituzione sulla quale hanno giurato. Le collaborazioni non saranno certamente scoraggiate, perché l’obiettivo sarà sempre quello di evitarlo l’ergastolo, come è notorio ed è anche accettato da tutti indistintamente. Sarebbe forse molto più giusto che i politici e la stessa magistratura si interrogassero - una volta tanto seriamente - sui motivi per i quali, nonostante da trenta anni l’unica politica giudiziaria sia stata quella di aumentare le pene ed introdurre nuove e sempre più originali ipotesi di reato, circostanze aggravanti e chi più ne ha più ne metta, i delitti non siano per niente diminuiti e le organizzazioni criminali siano sempre più forti e presenti in tutto il territorio nazionale. *Avvocato L’aiuto di “Nessuno tocchi Caino” per gli ergastolani ostativi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 ottobre 2019 I laboratori “Spes contra spem” nelle carceri per promuovere il valore del mutamento. Fino a una settimana fa, nonostante la sentenza Cedu era stata emessa da qualche mese, nessun giornale - tranne Il Dubbio, il Manifesto e Il Foglio - ha parlato dell’ergastolo ostativo. In realtà, ora che se ne parla, le argomentazioni sono inesatte, confuse e rabbiose. Il tema dell’ergastolo ostativo è stato posto per anni, da diversi giuristi, militanti di associazioni, ergastolani ostativi stessi che hanno preso coscienza attraverso strumenti non violenti e anche di riconciliazione, di percorsi umani e di un ravvedimento che però non possono essere valutati dai magistrati di sorveglianza. Questo, d’altronde, è ciò che censurano i giudici di Strasburgo. Parliamo di detenuti che hanno commesso crimini legati alla mafia, già in giovane età. Ci sono ergastolani ostativi che hanno varcato il carcere a 18, 20 anni, e tuttora sono ancora dentro. Molti di loro ci moriranno, anche di malattie che inevitabilmente si acutizzano tra le quattro mura. L’ergastolo ostativo è, di fatto, una pena senza fine e senza speranza di una fine. Non a caso Marco Pannella utilizzò il termine “Spes contra spem”, prendendo laicamente spunto dall’apostolo Paolo, che fu carcerato e insegnava che “è spesso contro la speranza che bisogna sperare”. Da quattro anni c’è l’associazione Nessuno tocchi Caino del Partito Radicale che ha dato il via ai laboratori “Spes contra spem” in alcune carceri italiane per estendere la consapevolezza del valore del mutamento oltre che ad elevare la coscienza di chi vi partecipa. E a partecipare ci sono anche diversi ergastolani ostativi. Persone, recluse da decenni, che per la prima volta vengono messe a confronto tra di loro, con la possibilità di parlare, esprimere le loro idee e raggiungere la consapevolezza dei loro sbagli. Chi ha la fortuna di parteciparvi, ne esce inevitabilmente arricchito. A dirigere i laboratori è soprattutto Sergio D’Elia, il coordinatore dell’associazione Nessuno tocchi Caino. Un uomo che è l’esempio vivente di come si possa passare dalla violenza (nel suo caso ideologica) alla non violenza, attraverso lo strumento del Diritto. D’altronde lo stesso Nessuno tocchi Caino è un macro laboratorio dove persone che hanno avuti trascorsi diversi, anche ideologicamente contrapposti, convivono e lottano per i principi umanitari. C’è, come detto, Sergio D’Elia, il quale ha un passato di sinistra extraparlamentare, ma anche Francesca Mambro e Valerio Fioravanti, provenienti dall’organizzazione dell’estrema destra Nar. Nel direttivo ci sono anche ben sette ergastolani ostativi, i protagonisti del docu-film - duro e bellissimo - “Spes contra spem” di Ambrogio Crespi. Un film che era stato presentato al Festival del Cinema di Venezia e alla Festa del Cinema di Roma, alla presenza dell’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando e del sottosegretario Gennaro Migliore. In quel film sono loro, i carcerati, i senza speranza a raccontarsi. Così come, appunto, si raccontano nei laboratori “Spes contra spem”. Tante le parole che dicono, tutte incentrate sulla speranza. C’è l’avvocata e militante radicale Simona Giannetti, la quale partecipa spesso in questi laboratori, specificatamente al carcere milanese di Opera. “Il senso che noi riusciamo a trasmettere gli ergastolani è il bisogno di aspirare a un cambiamento essendo essi stessi parte attiva in questa speranza - spiega Giannetti - e quindi ogni giorno lavorare per un cambiamento che passa dalla violenza alla non violenza”. Quello che emerge in tutta chiarezza è che le persone che partecipano al laboratorio, sono diverse a quelle che erano vent’anni fa. Uno di questi si chiama Roberto, portato in una scuola per raccontare agli studenti la sua vita. “Ha raccontato che quando aveva vent’anni - dice sempre l’avvocata Giannetti - gli hanno ucciso il padre e questo atto di violenza subito lo ha fatto entrare in una cosca mafiosa per vendicarsi e ci riuscì, uccidendo persone delle cosche rivali”. Ma in tutti questi anni ha fatto un percorso, e ha raccontato agli studenti che “la violenza non è la soluzione, se non l’avessi usata io non avrei perso la mia vita e così anche mia figlia che non mi chiama più “papà” e non mi ha mai più voluto vedere”. Non è una passeggiata partecipare ai laboratori, alcuni ergastolani sono depressi, altri scoraggiati, alcuni bofonchiano, ma c’è Sergio D’Elia che riesce ad entrare in empatia con loro, guardandoli diritti negli occhi riuscendogli ad infondere speranza. Lui, per loro, è la prova del cambiamento. Ma l’associazione Nessuno tocchi Caino è riuscita a compiere un salto di qualità in termine di battaglia del Diritto. È riuscita a coinvolgere 252 ergastolani ostativi per compiere una class action contro il fine pena mai direttamente al comitato di diritti umani dell’Onu. Il quale, recentemente, ha dato risposta positiva, accogliendo il ricorso. Quindi anche l’Onu potrà valutare, per la prima volta in assoluto, se il cosiddetto ergastolo ostativo rispetta i diritti umani. La sua eventuale sentenza, come ha già fatto con il 41 bis, non sarà vincolante dal punto di vista giuridico, ma sarà utile per gli stessi giudici che potranno utilizzarla per motivare eventuali decisioni. I 252 ergastolani che hanno fatto ricorso, sono tutte persone che hanno intrapreso un percorso trattamentale, preso le distanze dalla mafia e quindi hanno una visione critica con il passato. Ma, non essendo dei collaboratori della giustizia, sono costretti a rimanere a vita nel carcere. Una visione non contemplata dalla nostra Costituzione. Ed è proprio su questo che i giudici della Consulta dovranno esprimersi. Il giudice che scrive all’ergastolano. “L’ho condannato, lo vorrei libero” di Caterina Pasolini La Repubblica, 11 ottobre 2019 “Ci mandiamo lettere da 35 anni e capisco la Corte Europea: no al fine pena mai. Se un uomo cambia la porta va aperta”. “Mi disse: signor giudice se suo figlio fosse nato dove sono vissuto io, ora lui sarebbe in cella e io al suo posto. Intelligente, arrogante, Salvatore a 27 anni era uno dei capi della mafia catanese. Mi aveva parlato dopo un’udienza, col suo tono da sbruffone, quelle parole però mi scavavano dentro. Mi restava l’immagine di chi aveva preso il biglietto sfortunato nella lotteria della vita”. Elvio Fassone, 81 anni di passione civile e umana, nell’85 presiede a Torino un maxi processo alla mafia catanese, 242 gli imputati e alla fine 20 ergastoli. Uno lo dà a Salvatore. Con lui ha parlato più volte negli incontri che organizza tra le udienze, ma quelle parole sui destini incrociati lo segnano, e cambiano le loro vite. Tanto che nel n12015 scrive il libro “Fine pena: ora” (Sellerio), che raccoglie l’epistolario lungo 35 anni tra giudice e detenuto. Perché ha scritto a Salvatore? “Dopo la sentenza continuavo a pensare alle sue parole. Mia moglie mi consigliava di scrivergli ma io ero il giudice e lui il giovane che avevo condannato all’ergastolo. Mi sembrava fuori luogo: come il carnefice che accarezza la vittima. Poi l’ho fatto. E lui da decenni mi risponde dalla prigione che non ha mai lasciato. Il suo fine pena è: mai. Non è giusto perché lui, come altri, è un uomo diverso da quello entrato in carcere”. Le ha comminato molti ergastoli, ora è contrario? “No, è giusto che sia prevista questa pena, serve a sanzionare un delitto grave che ha provocato una ferita profonda nella comunità. Ma in un secondo momento penso si debba rivalutare la situazione del detenuto. In Italia oggi 1.700 persone hanno l’ergastolo di cui 1.200 quello ostativo: senza permessi né uscite, approvato dopo la morte di Borsellino”. Lei cita Siddharta... “Sì, Herman Hesse diceva: nessun uomo è tutto nel gesto che compie, nessun uomo è uguale nell’attraversare del tempo. Per questo credo abbia ragione la Corte Europea: bisogna rivalutare una persona dopo 25 anni in carcere. E se è cambiata, se non ha più contatti con la mafia, bisogna prenderne atto e aprire le porte, come diceva Falcone, di cui ero amico. Altrimenti la pena non è educativa, senza speranza si priva il condannato di qualsiasi stimolo a migliorare”. Torniamo a Salvatore… “Era un ragazzino finito in carcere innocente, ci è stato due anni prima di essere assolto. Un’esperienza che lo ha segnato, che gli ha stravolto la vita. Così è esplosa la rabbia giusta per scalare la gerarchia mafiosa. Una rabbia nata, mi ha scritto nelle rare confidenze private, dalla morte del fratello ucciso in una guerra tra bande. Si sentiva obbligato a vendicarlo”. Come è nato l’epistolario? “Gli ho mandato con la prima lettera un libro, proprio quel Siddharta che parlava dell’uomo che si trasforma, e mi sono impegnato ad esserci per lui. Salvatore in 15 anni ha cambiato modo di porsi davanti al deserto che è il carcere a vita. 1Ia. fatto tutti i corsi che poteva, mi mandava copia dei diplomi con l’orgoglio di chi manteneva un patto”. Poi cosa è successo? “Otto anni fa è stato condannato per aver fatto da paciere tra bande mafiose in carcere, dice la sentenza. Per me questo era il cambiamento, non voleva spargimento di sangue: ma peri giudici no, si è visto confermare i legami con la mafia, quindi permessi e uscite cancellati. Un giorno ricevo una lettera: “Mi scusi ne ho fatto un’altra delle mie, mi sono impiccato”. Lo avevano salvato e lui mi chiedeva scusa. Ma ero io che mi sentivo colpevole di non aver fatto abbastanza. Da questo è nato il libro: per raccontare la sua storia, e perché altri riflettano sulla necessità di cambiare l’ergastolo”. Vi siete mai visti in carcere? “Una sola volta durante ima recita e basta. La mia presenza lo metteva in pericolo, pensavano fosse un infame”. Com’è ora? “Spento, senza speranze. Da una foto sembra L’urlo di Munch” I carnefici prima delle vittime di Paolo Siani La Repubblica, 11 ottobre 2019 La Corte europea ha invitato l’Italia a rivedere la sua legge sull’ergastolo ostativo: interviene il fratello del giornalista ucciso dalla camorra. I detenuti nelle carceri in Italia sono 60.894, di cui 36.903 “definitivi”. I carcerati condannati all’ergastolo, su cui non pende alcun altro giudizio definitivo, sono 1.633: di questi 1.106 sono ergastolani “ostativi”, ai sensi dell’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario. Gli ergastolani definitivi con l’associazione di tipo mafioso sono 944, quelli ai quali è applicato anche il 41 bis sono 101 in carcere da oltre 20 anni e 55 in carcere da oltre 25 anni. Sono dati aggiornati ad oggi del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia. Fatta questa premessa, va detto che la Grande Camera della Corte Europea dei diritti umani ha invitato l’Italia a rivedere la sua legge che prevede il cosiddetto ergastolo ostativo, una pena senza fine prevista nell’ordinamento penitenziario italiano che “osta” a qualsiasi sua modificazione: non può cioè essere né abbreviata né convertita in pene alternative, a meno che la persona detenuta decida di collaborare con la giustizia. In altre parole, è il carcere per sempre e il detenuto non può avere permessi premio o misure alternative al carcere. Questa sentenza adesso potrebbe influenzare la situazione di 944 ergastolani definitivi con l’associazione di tipo mafioso. È vero che il carcere ha anche la finalità di rieducare e la pena dell’ergastolo lo esclude, ma è anche vero che la rieducazione ha bisogno della volontà del soggetto a farsi rieducare e quindi ad allontanarsi con convinzione dal mondo mafioso, che non vuol dire solo pentimento ma molto di più. Vuol dire per esempio fare in modo che i suoi figli, la moglie, i parenti si dissocino dal mondo mafioso in maniera chiara e inequivocabile. Questo invece non sempre accade. Anzi, sono proprio le mogli o i figli a prendere il posto del boss in carcere e a continuare le loro illecite attività. Ci vuole, ora, una soluzione legislativa che non renda vani anni di lotta alle mafie e che sappia contemperare i diritti con la sicurezza dei cittadini. E sappia continuare a tener ben presente la singolarità della criminalità organizzata in Italia, che in questi anni ha causato migliaia di morti, terrorizzato intere città e condizionato la vita di milioni di persone. Allora il legislatore tenga presente la storia delle organizzazioni mafiose e soprattutto il dolore di tutti i familiari delle vittime innocenti delle mafie. Perché, se è vero che la sofferenza dei colpevoli non allevia il dolore delle vittime, è altrettanto vero che troppo spesso i familiari delle vittime sono lasciati soli dallo Stato, e, molto spesso, non trovano quel necessario sostegno per continuare a vivere e dare una speranza ai loro figli. Loro, i familiari delle vittime, non hanno nulla, ma proprio nulla da farsi perdonare. E invece si continua ad affrontare questo complesso e articolato tema soprattutto sul versante dei carnefici e in maniera non ancora efficace dall’ottica delle vittime. Il caso della strage del Rapido 904, una delle pagine più buie della storia della Repubblica, il cui processo si è estinto con la morte del boss Riina, ne è una chiara e ulteriore testimonianza. Ci sarà mai giustizia per i familiari delle 16 vittime e dei 267 feriti di quella efferata strage? Se per giunta il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho, per anni in prima linea nel contrasto alle mafie in contesti territoriali di particolare delicatezza, afferma che si rischia un ritorno al passato facendo un passo indietro nella lotta alle organizzazioni criminali, c’è da essere molto preoccupati. I dati illustrati all’inizio di questa riflessione danno contezza di quanto grave sia ancora la piaga della criminalità organizzata in Italia. E allora, con uno sguardo rivolto al futuro, si decida, una volta per tutte, di spezzare quei meccanismi che consentono alle mafie di riprodursi socialmente. Occorre, innanzitutto, non lasciare crescere i bambini in quartieri malavitosi senza provvedere a politiche educative e di sostegno alle famiglie. La vera lotta alle mafie comincia esattamente da qui. Fine pena vediamo di Marco Travaglio Il Fatto Quotidiano, 11 ottobre 2019 Facciamo così. Siccome il cosiddetto “ergastolo ostativo” - cioè vero, senza sconti né scappatoie - l’hanno inventato Falcone e Borsellino e l’hanno ottenuto soltanto nell’agosto del 1992, da morti ammazzati per mano della mafia, chi non è d’accordo la smette di tirare in ballo Falcone e Borsellino quando parla di lotta alla mafia. Per un minimo di coerenza, e anche di decenza, chi lo considera - come la Corte di Strasburgo e la sua Grande Chambre - una forma di tortura, una violazione della Costituzione, una negazione del valore rieducativo della pena, un ricatto per estorcere confessioni, un’istigazione alla delazione, liberissimo: ma deve prima ammettere che Falcone e Borsellino, oltre a tutti i magistrati e i giuristi vivi che ne condividono i metodi, erano aguzzini, torturatori, ricattatori e violatori della Carta. Già, perché purtroppo la demenziale doppia sentenza di Strasburgo, che giudica contrario alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo l’ergastolo ostativo, ha raccolto molti e trasversali consensi in Italia. Fra i tanti, quelli di Luigi Manconi su Repubblica, del rag. Claudio Cerasa e Giovanni Fiandaca (quello che “Il processo Trattativa è una boiata pazzesca”) sul Foglio, di Vittorio Feltri e Filippo Facci su Libero (solo che a Facci un collega dispettoso ha messo un titolo alla rovescia, “L’Europa dà una mano a mafiosi e brigatisti”, e ci ha pure azzeccato), di Mattia Feltri su La Stampa, di Tiziana Maiolo sul Dubbio, di Mauro Palma sul manifesto. Oltre ovviamente ai mafiosi e i terroristi coi loro avvocati e amici: ma questi almeno si capisce perché non sopportano l’ergastolo. Anche per gli ergastolani. Che, nella sentenza hanno “fine pena mai”, ma nella realtà “fine pena sempre” o “vediamo”, con 4+X anni d’anticipo (dipende dell’età al momento della condanna). Fino all’altro giorno l’unica certezza, nell’incertezza, era che dal 1992 i benefici non si applicavano ai detenuti per i reati più gravi: tipo mafia, terrorismo, sequestro di persona, traffico di droga e (grazie alla legge Spazza-corrotti del 2018) tangenti. Il che, almeno per quel tipo di ergastolani, rendeva l’ergastolo una cosa seria: cioè “fine pena mai” non trattabile. A meno che, si capisce, non dessero segni concreti di ravvedimento collaborando con la giustizia per aiutare lo Stato a reprimere e prevenire reati. Ora, improvvisamente e inopinatamente, questo principio di minima civiltà diventa un “trattamento inumano o degradante” per mafiosi e terroristi ergastolani. Che, secondo le Corti europee, meriterebbero permessi premio, liberazione anticipata, lavoro esterno, semilibertà e altre scappatoie anche se non collaborano. Anche i mafiosi che restano mafiosi, essendo noto a tutti - fuorché a quelle anime belle - che si è mafiosi a vita (“fine mafia mai”) e si smette di esserlo soltanto in due modi: morendo o collaborando. Il che rende surreale, ai limiti del Comma 22, tutto il dibattito sull’ergastolo “ostativo”, cioè vero, che impedirebbe la “rieducazione” e la “riabilitazione” del condannato. Intanto perché ci si può riabilitare e rieducare in carcere, come dimostrano i numerosi casi di ergastolani che studiano, si diplomano, si laureano, partecipano a percorsi riabilitativi e rieducativi nelle strutture interne dei penitenziari, senza uscire di galera. Ma soprattutto perché, almeno per chi è inserito in organizzazioni fondate sull’omertà - come quelle terroristiche, quelle mafiose e quelle tangentizie - l’unico sistema per uscirne è quello di parlare, dei propri delitti e di quelli dei complici, rendendosi inaffidabile ai loro occhi e dunque uscendo dal giro. Se un mafioso, un terrorista o un tangentista non denuncia i suoi complici, rimane un terrorista, un mafioso o un tangentista a tutti gli effetti (anzi, ancor più potente e più influente di prima sugli impuniti rimasti liberi grazie al suo silenzio). Dunque non si è affatto rieducato né riabilitato. Perciò non ha senso contestare l’ergastolo ostativo perché non aiuta la rieducazione, quando tutti sanno che è l’unica arma per spingere alcuni ergastolani a rieducarsi davvero, cioè a parlare, per accedere ai benefici. Ma questo, obietta Feltri jr., è “un ricatto di Stato”! Se ci riflettesse, potrebbe dirlo per tutte le pene di tutti i Codici penali: se commetti quel reato, ti metto in galera per tot anni. In realtà sono semplici avvertimenti a scopo deterrente rivolti ai criminali. Che, se delinquono, sanno benissimo a cosa vanno incontro. Sta a loro scegliere. Se sono mafiosi o terroristi e commettono omicidi o stragi, sanno che finiranno all’ergastolo vero, cioè non usciranno più se non con le gambe davanti. E, se vorranno uscire da vivi, dovranno dire tutto ciò che sanno. In ogni caso non sarà lo Stato che li ha ricattati o torturati. Saranno loro che se la sono cercata. Giustizia, avanti sulla riforma di Nadia Pietrafitta Il Tempo, 11 ottobre 2019 Incontro tra Bonafede e una delegazione Dem. Resta il nodo prescrizione. Avanti con la riforma del processo civile e di quello penale, con l’obiettivo di dimezzare i tempi, nonostante sia ancora lontana l’intesa sulla prescrizione. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede incontra alla Camera una delegazione Pd per cercare un’intesa, ma - nonostante la condivisione degli obiettivi - i nodi da sciogliere retano sul tavolo. Lo stop delle lancette dei processi dopo la sentenza di primo grado continua a non convincere i dem. La proposta, allora, è quella di procedere con i due disegni di legge delega che riguardano i tempi del processo civile e penale, valutare gli effetti della riforma e, in base alla sua attuazione, riaprire il capitolo prescrizione, magari vincolandone lo stop proprio alla durata dei provvedimenti. Il Guardasigilli continua a professare ottimismo. “Dopo questo incontro penso ancora più di prima che ci sono dei margini di convergenza importanti per una riforma coraggiosa e ambiziosa per accelerare i tempi dei processi - dice. Loro sulla prescrizione rimangono della loro idea e io ne ho un’altra. Ci stiamo concentrando sulle cose su cui andiamo d’accordo”. Il faccia a faccia, chiesto dal Pd per presentare a Bonafede le proposte dem, aveva anche rischiato di inclinare gli equilibri all’interno della maggioranza. Con Liberi e uguali che aveva fatto trapelare “irritazione” per “quello che è stato definito vertice di maggioranza e che in realtà è una ennesima riunione di due sole forze della maggioranza di Governo”. Il Guardasigilli chiarisce che l’incontro è stato richiesto dal Pd, presenti il sottosegretario Andrea Giorgis e la rappresentante Giustizia della segreteria Roberta Pinotti e il clima torna tranquillo. Anzi, è proprio grazie a una proposta “forte” che arriverà nelle prossime ore da Pietro Grasso che potrebbe invece sciogliersi l’altro punto di distanza tra gli alleati. L’ex presidente del Senato, infatti, lavora a una riforma del sistema di elezione dei componenti del Csm che esclude il sorteggio, che l’ex presidente del Senato reputa incostituzionale. Bonafede apre: il sorteggio “non è un modo che per me è cruciale, l’obiettivo è combattere e cancellare le degenerazioni del correntismo e su questo ci siamo trovati d’accordo. Sono disposto a lavorare su un sistema elettorale che possa eliminare il più possibile quelle degenerazioni”. Prescrizione, intesa lontana tra Pd e M5s. Da FI una legge per evitare i processi eterni di Errico Novi Il Dubbio, 11 ottobre 2019 Un anno fa era stata l’Anm, oltre agli avvocati, a muovere un rilievo semplicissimo sullo stop alla prescrizione: “Nel testo di legge parlate di sospensione, ma se il decorso è sospeso dopo il primo grado fino a sentenza definitiva vuol dire che la prescrizione non è sospesa, è abolita”. Giusto. Poi però nel testo in cui la norma è contenuta, la “spazza corrotti”, il paradosso semantico è rimasto. Ora il Pd propone di superarlo, con un limite di tempo superato il quale la prescrizione tornerebbe a decorrere. Una delegazione dem ne ha parlato ieri con il guardasigilli Alfonso Bonafede, nella sala del governo a Montecitorio. “Siamo stati noi a chiedere l’incontro”, spiega il vicecapogruppo dei democratici alla Camera, Michele Bordo, presente al summit. “Il punto è stabilire cosa succede quando non siamo in grado di assicurare quella durata ragionevole del processo che è l’obiettivo della riforma”, aggiunge. C’erano anche Roberta Pinotti, responsabile Giustizia ad interim del Pd, il capogruppo in commissione Giustizia alla Camera Alfredo Bazoli e il sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis, dem anche lui. Bonafede non è convinto: “Sulla prescrizione il Pd resta della sua idea, io ne ho un’altra”, dichiara. Eppure, assicura, “abbiamo trovato margini di convergenza ancora maggiori, sono ottimista: intanto approfondiamo tutto quello su cui siamo d’accordo”. La delegazione democratica ha messo sul tavolo altre ipotesi. “Dalla digitalizzazione di diversi passaggi anche nel penale, a regole diverse sulla rinnovazione del dibattimento in caso di sostituzione del giudice, senza compromettere oralità e immediatezza nella formazione della prova”, spiega ancora Bordo. “Sulla prescrizione lavoriamo per trovare un punto di caduta, cosa che però avverrà in Parlamento”. Sulle intenzioni degli alleati, Bonafede preferirebbe avere un quadro chiaro, prima di presentare le bozze “definitive” dei suoi due ddl (uno su penale e Csm, l’altro sul civile). L’obiettivo è andare in Consiglio dei ministri tra non più di 20 giorni. Il punto è che i renziani non intendono sciogliere alcuna riserva se prima non si risolve il rebus prescrizione. “Sarebbe in ogni caso assurdo introdurre un’ulteriore sospensione dei termini di estinzione dei reati”, fa notare il presidente dell’Unione Camere penali Gian Domenico Caiazza, “vorrebbe dire allungare la sospensione già prevista dalla riforma Orlando, che stoppa il cronometro della prescrizione per un anno e mezzo dopo la sentenza di primo grado. Senza contare che la stessa latenza di un anno e 6 mesi era stata introdotta, sempre dalla riforma Orlando, anche dopo l’appello”. Due giorni fa Caiazza, insieme con gli altri vertici dell’Ucpi, ha incontrato una delegazione proprio di Italia viva. I renziani hanno assicurato di essere pronti a chiedere che lo stop alla prescrizione non entri in vigore il 1° gennaio prossimo, come previsto, ma più tardi, anche fra un anno, quando cioè sarà stata approvata una riforma penale davvero in grado di accelerare i tempi dei processi. Tuttavia Bonafede, dal suo punto di vista, non ha interesse a riaprire un dossier, come quello sulla prescrizione, che considera ormai in cassaforte. Ed è anche vero che se per tutta risposta Italia viva e Pd si rifiutassero di dare l’ok al ddl sul penale, il M5S potrebbe facilmente addebitare loro, dinanzi a un’opinione pubblica impregnata di pulsioni punitive, la responsabilità della mancata accelerazione sui tempi della giustizia. Un intrigo. Forza Italia prova sparigliare le carte: “Abbiamo presentato una proposta di legge semplicissima”, spiega Franco Dal Mas, rappresentante azzurro nella commissione Giustizia del Senato, “è un testo di un solo articolo, che abroga la norma sulla prescrizione altrimenti destinata a entrare in vigore con l’inizio del 2020. Lo abbiamo fatto perché riteniamo che lo stesso Pd non possa ignorare la proposta: altrimenti, con la norma in vigore dal 1° gennaio, la prescrizione sarebbe abolita nonostante non si siano ancora stati mesi alla prova gli effetti della riforma Orlando”. È esattamente l’analisi dell’Unione Camere penali. “A breve renderemo pubblici i dati sulla durata massima effettiva del termine di prescrizione con le norme già oggi in vigore”, spiega Caiazza, “per le fattispecie di maggiore allarme sociale si sfonda quasi sempre il muro dei 20 anni”. Su altri aspetti della riforma le distanze tra Pd e M5S sono minime. Anche sul sistema per eleggere i togati al Csm. Probabile che venga accantonata l’idea del sorteggio. Ieri i dem hanno ribadito a Bonafede di non condividerla. Si parte da una base che il guardasigilli aveva già definito nei mesi scorsi: incremento del numero dei consiglieri (da 26 a 30), 20 posti per i togati, con 17 collegi uninominali territoriali più 2 per i magistrati di legittimità e della Direzione antimafia. Si cercano ulteriori limitazioni all’influenza delle correnti. Ma non è certo questo il punto sul quale la maggioranza si consumerà in trattative estenuanti. Prescrizione lunga, dubbi anche nei 5Stelle: rinviamo di Emilio Pucci Il Messaggero, 11 ottobre 2019 Clima di dialogo, volontà di superare gli ostacoli ma nel merito zero passi avanti. Sulla riforma della prescrizione Pd e Bonafede restano sulle proprie posizioni. Nell’incontro tra la delegazione dem e il Guardasigilli tenutosi ieri alla Camera è stata fatta una ricognizione su tutti i capisaldi della riforma della giustizia ma il nodo più controverso non è stato sciolto. Nonostante il muro contro muro c’è l’intenzione del ministro di portare la riforma della giustizia in una dell prossime riunioni del Consiglio dei ministri. “Fate presto le vostre valutazioni. Non possiamo più rinviare”, l’input di Bonafede. E se il partito del Nazareno - pur prendendo tempo - non alza (per ora) lo scontro, sono i renziani a far sapere di voler salire sulle barricate. “Pensare di portare a compimento una riforma della giustizia in due mesi è un’utopia. Non vogliamo porcate, meglio che il ministro si fermi e rinvii di un anno l’entrata in vigore della riforma della prescrizione”, la linea di Italia viva. “Dovrebbe capire che il governo è cambiato ma siamo allo stesso punto di partenza. E noi non siamo la Lega”, l’alt di un altro big del nuovo gruppo. Renzi ai suoi ha spiegato di non voler essere un problema per il governo. Tuttavia di fronte al “prendere o lasciare” i fedelissimi del senatore di Firenze hanno già deciso quale strada percorrere. L’invito al responsabile di via Arenula è di fare autonomamente un passo indietro. Un ragionamento che sta maturando anche in una larga parte del Movimento 5 stelle. Soprattutto tra chi è preoccupato che la giustizia possa essere l’elemento divisivo e mandare in tilt esecutivo e maggioranza. “Con una legge di bilancio aperta è impensabile correre sulla giustizia. Prima o poi lo capirà anche Bonafede”, spiega uno dei big dell’ala ortodossa del Movimento. I fedelissimi di Di Maio non la pensano così. Anzi il capo politico M5s un paio di giorni fa è stato tranchant: “Senza i numeri della maggioranza ci saranno conseguenze”. Proprio per evitare un dialogo tra sordi i dem non hanno lanciato alcun aut aut. “Con la riforma della giustizia il problema dell’allungamento dei processi non ci sarà più”, ha spiegato ieri nuovamente Bonafede alla Pinotti, responsabile giustizia del partito, al sottosegretario Giorgis e ai capigruppo delle commissioni di Camera e Senato. Ripetendo di fatto ai dem gli stessi ragionamenti fatti nel vertice di maggioranza della settimana scorsa. Senza per il momento prendere in considerazione un piano B. Neanche compromessi come quello di una norma di salvaguardia che i dem vorrebbero inserire in una legge delega per far sì che ci sia la garanzia sul dimezzamento dei tempi processuali. Facendo di nuovo correre i termini della prescrizione qualora i tre gradi di giudizio dovessero andare oltre i quattro o cinque anni. Anzi pubblicamente Bonafede si è detto soddisfatto dell’incontro: “Sono ancora più convinto che ci siano ampi margini di convergenza”, ha sottolineato ai giornalisti. Su prescrizione, intercettazioni e riforma del sistema di elezione del Consiglio della magistratura “resta ad oggi una distanza evidente”, ha spiegato il capogruppo dem in Commissione Giustizia alla Camera Bazoli. Una nota del partito del Nazareno ha sottolineato come l’esito del vertice sia stato interlocutorio. Il sistema del sorteggio per la composizione del Csm non è un tabù per Bonafede ma anche su questo punto non è stata trovata una soluzione. “C’è il rischio che la norma sia anticostituzionale”, la linea dem. Anche se entrambe le parti ritengono la riforma della giustizia “una priorità politica” la strada per un’intesa appare in salita. “Siamo convinti della necessità della riforma, ma non si può certo comprimere il dialogo”, afferma il renziano Cucca. In Leu ci sono due linee: l’ex presidente del Senato, Grasso è più vicino alle posizioni di Bonafede, altri invece a quelle del Pd. La questione saraà presto sul tavolo del Consiglio dei ministri. Lo ha assicurato Bonafede, ma è anche l’auspicio della capogruppo di Italia viva Boschi secondo la quale “va aperta una discussione su tutto”. La strategia è quella di far capire al presidente del Consiglio Conte che è sbagliato tirare la corda e che sarebbe meglio approfondire il tema. “Se si va avanti con la riforma della giustizia senza un’intesa sulla prescrizione i numeri non ci saranno”, la convinzione di diversi big dem. E mentre la rappresentanza della magistratura aspetta una convocazione del Guardasigilli in Parlamento l’opposizione è pronta alla guerra. “Più Bonafede è ottimista più siamo preoccupati”, dice l’azzurro Costa. “È una pazzia parlare di abolizione della prescrizione: si allungheranno i tempi dei processi e non si trarrà nessun beneficio”, rilancia il leghista Morrone. Manette agli evasori, il testo M5S: le pene salgono fino a otto anni di Luciano Cerasa Il Fatto Quotidiano, 11 ottobre 2019 Hanno scritto quanto promesso, perché lo hanno detto ovunque di voler azzannare i grandi evasori. Lo predica da settimane il premier Conte, lo ha garantito poche ore fa il Guardasigilli Bonafede: anche di fronte alle titubanze del ministro dell’Economia, il dem Roberto Gualtieri, manifestate un paio di giorni fa in audizione alla Camera: “Sul carcere agli evasori non ci sono misure allo studio”. E invece ecco le pene molto più alte per gli evasori, assieme a soglie di punibilità molto più basse, ridotte di un terzo e talvolta di un quarto. Eccola la linea dura del ministero della Giustizia, contenuta nella bozza di normativa inviata al Tesoro per essere inserita nel decreto fiscale. Ma chissà quanto rimarrà delle misure draconiane dopo i tavoli e le trattative con il Pd. Difficile valutare l’impatto delle norme pensate dai tecnici di Via Arenula, tarate sulla linea del Movimento. Più severe anche di quelle proposte nel dicembre scorso in un emendamento alla legge Anticorruzione dalla presidente della commissione Giustizia, Francesca Businarolo. “Sulla lotta all’evasione facciamo sul serio, va fatto per la maggioranza dei cittadini che è corretta e porta sulle spalle il peso dello Stato”, ha ribadito ieri a Montecitorio la viceministra dei 5Stelle all’Economia, Laura Castelli. Il giro di vite sui reati tributari è in quattro mosse. Viene rafforzato l’impianto sanzionatorio e vengono abbassate le soglie oltre le quali scatta il penale, alzate dalla riforma di del governo Renzi nel 2015. A queste si aggiungono misure complementari, come la possibilità di confiscare i beni dei condannati e l’estensione della responsabilità amministrativa alle società per i reati tributari. Andiamo con ordine. Nelle sanzioni di natura patrimoniale si rendono applicabili anche a chi sia stato condannato per delitti tributari misure pensate per il contrasto ai crimini mafiosi. Si consente il sequestro e la confisca dei beni e delle disponibilità finanziarie del condannato in via definitiva per le quali non sia in grado di giustificare la legittima provenienza. Il giudice potrà disporre la confisca anche nei casi di estinzione del reato, come l’amnistia e la prescrizione. Ma si è operato anche sul versante penale, con una stretta della riforma renziana e un aumento delle pene. Con le nuove norme viene punito con la reclusione da quattro a otto anni (invece che da 1 anno e sei mesi a sei anni) chiunque si avvalga di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti e che indichi in una delle dichiarazioni annuali relative, elementi passivi fittizi. Se l’ammontare è inferiore a euro 100 mila (la vecchia soglia era fissata a 150 mila) si applica la reclusione da 1 anno e sei mesi a 6 anni. La dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici è punita con la reclusione da tre a otto anni e non più da un anno e sei mesi a sei anni. La dichiarazione infedele, finora punita con una pena da uno a tre anni, passa a due fino a cinque anni di carcere. Basta che l’imposta evasa sia superiore ai 100 mila euro e non più ai 150 mila. Inasprimenti di pena sono previsti anche per l’omessa dichiarazione e per le emissioni di fatture per operazioni inesistenti. Se l’importo non rispondente al vero indicato nelle fatture o nei documenti, per periodo d’imposta, è inferiore a 100 mila euro, si applica la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni. L’occultamento o la distruzione di documenti contabili vengono perseguiti portando la reclusione prevista finora da un minimo di un anno e sei mesi a sei a una previsione compresa tra tre e sette anni. Il penale nell’o - messo versamento di ritenute scatta oltre un ammontare di 50 mila euro e la soglia per gli omessi versamenti Iva scende a 100 mila euro. Nel 2015, Renzi aveva alzato le soglie rispettivamente a 150 mila e 250 mila. Insomma, si torna a prima della riforma. Altra novità introdotta è la punibilità delle società come responsabili dei reati tributari. In sostanza viene estesa anche a queste fattispecie la responsabilità amministrativa prevista dalla legge 231 del 2001. Nello schema 5S si applica il sequestro e la confisca anche in danno della persona giuridica, cioè la società, se beneficiarie degli illeciti tributari e il cui patrimonio non era direttamente aggredibile. La nuova norma, si legge nella relazione tecnica, punta a superare le incertezze interpretative manifestatesi in giurisprudenza sull’applicabilità dell’attuale disciplina sulla sequestrabilità e confiscabilità dei beni per i delitti tributari commessi in associazione o per reati presupposti dei delitti di riciclaggio o auto-riciclaggio, la truffa ai danni dello Stato o il falso in bilancio, per i quali sarà chiamata a rispondere anche la società nell’interesse della quale sono stati commessi. Csm. Addio sorteggio, la riforma Bonafede perde il primo pezzo di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 11 ottobre 2019 Il primo vertice era andato male, tanto da rendere necessario l’intervento del premier Giuseppe Conte per evitare che la carovana giallorossa deragliasse sulla giustizia al primo chilometro. Quello di ieri tra il ministro M5S Alfonso Bonafede e la delegazione Pd - Giorgis, Pinotti, Bazoli - lascia i partecipanti “meno pessimisti”. Clima collaborativo, pregiudizi smussati. Il Pd ha smontato il primo e ingombrante pezzo della riforma concepita dallo stesso ministro e abortita vigente l’era grillo-leghista (era di luglio). Il sorteggio per l’elezione dei membri togati del Consiglio superiore della magistratura non è più sul tavolo. Tecnicamente pasticciato, costituzionalmente pericolante, politicamente insostenibile. Non solo perché avversato da tutta la magistratura (compresa quella più ascoltata dal M5S) e dall’avvocatura, ma anche per il goffo e controproducente endorsement renziano. Il Pd ha avuto gioco facile e lo stesso Bonafede non ha alcun interesse a sbattere contro un muro a braccetto di Renzi. Meglio ripiegare sulla riforma della legge elettorale per il Csm, probabilmente con liste aperte e collegi territoriali. Rinviata a tempi migliori la questione intercettazioni, il nodo più stretto resta il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, che entrerà in vigore il 1° gennaio e contro cui i penalisti sciopereranno dal 21 al 25 ottobre. Inizialmente il Pd puntava a un decreto ad hoc per rinviarla. Bonafede non sente ragione: non può permettere al Pd di sradicare la bandierina che era riuscito a piantare in faccia alla Lega. Il vertice di ieri ha avvicinato gli interlocutori, posto che gli effetti della riforma della prescrizione si produrranno non prima di 4/5 anni. Da un lato il Pd ha accettato di non cancellarla; dall’altro Bonafede ha dato disponibilità a valutarne un’applicazione meno rigida per processi di durata irragionevole per motivi che prescindono dagli imputati. Tutto ciò senza ansia di riformare processi penali e civili entro due mesi, come proclamato finora. Nei prossimi giorni nuovo vertice con LeU e Italia Viva. In caso di accordo, la bozza tornerà in Consiglio dei ministri. Rivista, corretta e spacchettata. Vittime di reati violenti: la Cassazione sbaglia davanti alla Corte Ue di Enrico Traversa Il Sole 24 Ore, 11 ottobre 2019 Una recente ordinanza di rinvio della Cassazione alla Corte Ue (causa C-129/19) ha riacceso i riflettori sulla trasposizione nella legislazione italiana della direttiva 2004/80/CE sull’indennizzo dello Stato alle vittime di reati intenzionali violenti. Un atto legislativo europeo di altissima civiltà giuridica che prevede due principali obblighi per gli Stati membri. Il primo è l’istituzione di “un sistema di indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti commessi nei rispettivi territori, che garantisca un indennizzo equo ed adeguato delle vittime” (articolo 12, paragrafo 2). Il secondo (articoli 1-11) consiste nel facilitare, con apposite procedure di cooperazione fra le amministrazioni competenti, l’accesso a tale sistema da parte delle vittime residenti in altri Stati membri che si trovano temporaneamente nello Stato membro in cui è stato commesso il reato. La direttiva andava recepita entro il 1° luglio 2005, ma ci sono voluti 11 anni e due sentenze della Corte Ue per arrivare alla fine di un iter tormentato, con la legge 122/2016 (poi modificata in parte dalla 167/2017 e dalla legge 145/2018). Ora in Italia c’è un sistema generalizzato di indennizzo per le vittime di tutti i reati dolosi commessi con violenza alla persona e non solo per mafia e terrorismo. La determinazione dell’indennizzo è stata rimessa dall’articolo 11, comma 3, della legge 122/2016 a un Dm Interno-Giustizia, approvato il 31 agosto 2017: 7.200 euro in caso di omicidio, 4.800 per violenza sessuale e per gli altri reati un massimo di 3mila euro. La Cassazione ha posto alla Corte Ue due importanti quesiti. Con il primo, partendo dalla constatazione che la direttiva garantisce l’accesso all’indennizzo solo a vittime residenti in altri Stati membri, si chiede se si può estendere il novero dei beneficiari della direttiva alle vittime residenti in Italia in virtù del principio di non discriminazione sulla base della nazionalità (articolo 18 del Trattato Ue). Una risposta positiva renderebbe rilevante per la Cassazione quella al secondo quesito, cioè se sia da considerare “indennizzo equo e adeguato” in base all’articolo 12.2 della direttiva una cifra fissa di 4.800 euro per i reati di violenza sessuale. È molto probabile che la Corte Ue risponderà negativamente al primo quesito: il divieto di discriminazioni invocato dalla Cassazione tutela per giurisprudenza costante solo i cittadini di altri Stati membri e non vale nelle cosiddette discriminazioni a rovescio, cioè i trattamenti meno favorevoli riservati ai cittadini residenti nello stesso Stato in cui è stato commesso il reato, rispetto ai cittadini residenti in altri Stati membri. La Cassazione avrebbe dovuto motivare in tutt’altro modo la pertinenza del suo primo quesito, ispirandosi a quanto saggiamente spiegato dalla Corte d’appello di Milano alla Corte Ue nella causa C-451/03: “Il suo diritto nazionale impone di far beneficiare un cittadino italiano degli stessi diritti di cui godrebbe in base al diritto dell’Unione un cittadino di uno Stato membro nella medesima situazione” (punto 29). In due sentenze degli anni 90 - 249/1995 (lettori di lingua straniera nelle università) e 443/1997 (produttori italiani di pasta) - la Corte costituzionale ha infatti affermato che il principio di uguaglianza sancito dall’articolo 3 della Costituzione impone al legislatore italiano, e a maggior ragione ai giudici, di estendere ai cittadini italiani gli stessi diritti che l’ordinamento europeo dà ai cittadini di altri Stati membri. Tale principio - si badi bene: di rango costituzionale - è trasposto nell’articolo 53 della legge 234/2012 che prescrive la disapplicazione delle norme legislative e delle prassi interne “che producono effetti discriminatori” a danno dei cittadini italiani rispetto ai cittadini di altri Stati membri. Quindi la Cassazione avrebbe fatto meglio a porre solo il secondo quesito - quello sì cruciale - sull’interpretazione dell’articolo 12 della direttiva sull’adeguatezza dell’importo fisso di 4.800 euro. Ciò per la semplice ragione che se tale importo comportava una violazione di quell’articolo 12 relativamente ai cittadini Ue, la disapplicazione del Dm 31 agosto 2017 avrebbe riguardato anche i cittadini italiani, in forza dell’articolo 3 della Costituzione e dell’articolo 53 della legge 234/2012. A parte l’indignazione, vi sono solide motivazioni giuridiche per ritenere che nei confronti di una donna vittima di violenza sessuale l’indennizzo a carico dello Stato debba essere ben superiore a 4.800 euro. In primo luogo, le leggi speciali sugli indennizzi alle vittime di terrorismo e criminalità organizzata prevedono importi fino a 200mila euro o, nei casi di violenza per manifestazioni sportive, l’intero ammontare del danno subìto. In secondo luogo, un importo fisso non consente di tener conto dei criteri in uso nei tribunali civili per valutare il danno nei singoli casi, quali la gravità della violenza, la giovane età della vittima e le conseguenze psicologiche del trauma. In terzo luogo, la Corte Ue ha già affermato in una sua precedente sentenza (C-168/15, punto 38) che le norme nazionali sulla responsabilità dello Stato devono garantire il carattere “effettivo” del risarcimento del danno. Qualunque sia il contenuto della futura sentenza della Corte Ue, vi è quindi da sperare che la causa pregiudiziale C-129/19 induca il Governo a rivalutare l’importo dell’indennizzo. Oggi - rileva la Cassazione nell’ordinanza di rinvio, è “nell’area dell’irrisorio”. Reati tributari come la mafia, si prepara la confisca allargata di Giovanni Negri Il Sole 24 OreV Non solo carcere. La manovra, nella parte penale, tuttora oggetto di discussione, anche per la non banale valutazione sull’opportunità di inserire misure di natura penale sostanziale in un decreto legge, punta in maniera decisa anche su interventi indirizzati a colpire patrimoni di provenienza ingiustificata o imprese coinvolte in fatti di evasione. Sul primo versante, l’ipotesi messa a punto e tradotta già in articolato prevede di considerare i reati tributari alla medesima stregua di quelli di criminalità organizzata. Si estende infatti la possibilità di applicazione della confisca allargata, quella penale “per sproporzione” (confisca obbligatoria dei beni di cui il condannato non può giustificare la legittima provenienza e di cui risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito), disciplinata dall’articolo 240-bis del Codice penale, anche alle ipotesi di condanna per i reati tributari. Una decisione che cancella la necessità di un nesso, come invece previsto nel caso della confisca tradizionale, tra i beni oggetto della misura e il reato compiuto. Un collegamento che è di solito assai complicato da individuare nel caso dei reati di natura economica, per la concreta difficoltà di individuare ex post, nel patrimonio del condannato, i proventi dell’attività criminale, perché consumati o confusi con gli altri beni nella sua disponibilità, perché ceduti a terzi in buona fede, oppure perché reinvestiti o anche solo nascosti. Con la confisca allargata verrebbe così a essere arricchito un arsenale che, oggi, prevede, sul fronte dei reati tributari, l’applicazione della confisca per equivalente e le misure di prevenzione del Codice antimafia, utilizzabili quando si può ritenere, sulla base di elementi di fatto, che l’evasore fiscale è abitualmente dedito a traffici delittuosi o vive abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività criminali. E sempre in materia di confisca potrebbe essere introdotta la possibilità per il giudice di appello di procedere alla misura patrimoniale anche quando il reato per il quale si procede è estinto per effetto di amnistia o, soprattutto, di prescrizione. Quanto alla responsabilità delle imprese per reati tributari compiuti da dipendenti (al di là del caso delle frodi Iva per le quali il Governo ha già una delega approvata da rendere esecutiva), ma dalla cui commissione hanno tratto vantaggio, si osserva che “considerazioni di equità e ragionevolezza” rendono opportuna la scelta di prevedere la responsabilità degli enti non solo nei casi di violazioni penali in materia di imposta sul valore aggiunto ma anche a quelle in materia di imposta sui redditi. L’introduzione della norma, messa a punto dal ministero della Giustizia, dovrebbe così permettere di superare la situazione attuale e le incertezze interpretative espresse dalla giurisprudenza sull’applicabilità della disciplina del decreto legislativo 231/2001 ai delitti tributari, dove a essere utilizzata dai giudici è la leva dei reati scopo dell’associazione per delinquere (per i quali è prevista la responsabilità delle persone giuridiche) o dei reati presupposto dei delitti di riciclaggio o auto-riciclaggio. Nello stesso tempo, l’estensione, con la conseguente possibilità di applicare anche le sanzioni interdittive che non sono solo di natura pecuniaria, dovrebbe permettere di superare le incertezze dei tribunali e le aperture interpretative sulla sequestrabilità e confiscabilità (anche per equivalente) del profitto del delitto tributario quando lo stesso è confluito nelle casse della persona giuridica a beneficio della quale il delitto sia stato commesso. E nella manovra potrebbe finire anche un generale innalzamento delle sanzioni detentive per tutti maggiori reati tributari, accompagnato da una contestuale riduzione delle soglie di punibilità. A parziale bilanciamento, nei casi nei quali soglie non sono previste dal decreto legislativo 74 del 2000, potrebbero essere inserite ipotesi attenuate quando l’evasione ha una natura modesta. Revocata la sentenza se la Cassazione decide non sapendo del ricorso di altro difensore di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 11 ottobre 2019 Corte di Cassazione - Sezione I - Sentenza 10 ottobre 2019 n. 41656. Il ricorso straordinario contro l’omissione materiale - che abbia impedito la piena trattazione, in sede di legittimità, delle ragioni dell’imputato - non soggiace ad alcun termine di decadenza. Come nel caso in cui non sia stato preso in considerazione il ricorso promosso da uno dei due difensori e la Corte abbia deciso in una situazione “monca”. La Corte di cassazione con la sentenza n. 41656 depositata ieri ha qualificato come ammissibile, ai sensi del terzo comma dell’articolo 625 bis del codice di procedura penale, l’impugnazione della sentenza di legittimità - che aveva rigettato per inammissibilità il ricorso proposto da uno dei due difensori del ricorrente - per la mancata unificazione con quello dell’altro difensore. Carenza dovuta in realtà al fatto che la stessa Cassazione non era avveduta dell’esistenza del secondo ricorso. Errore materiale e non di fatto - Infatti, nel caso concreto, la mancata conoscenza dell’atto d’impugnazione che necessariamente andava unificato con l’altro, ha giustificato la revoca del rigetto di inammissibilità del primo e riaperto - anche alla luce del secondo ricorso fino a quel momento “sconosciuto” - il giudizio di legittimità sulle ragioni esposte dal ricorrente contro la decisione sfavorevole di merito. La mancata conoscenza era dovuta a un fatto totalmente esogeno rispetto alla Cassazione: la mancata trasmissione da parte della cancelleria del giudice di appello del ricorso dell’altro difensore dell’imputato. La decisione chiarisce che si tratta di errore materiale che consente, senza l’applicazione del termine perentorio di 90 giorni deve essere tale da non aver consentito il pieno esercizio della giustizia per la non conoscenza di un atto legittimo del ricorrente e che non avrebbe dovuto essere ignorato. Ma in un caso come quello risolto la Corte era totalmente all’oscuro sull’esistenza di tale atto processuale e tale circostanza è diversa dal caso dell’errore di fatto compiuto dal giudice che può concretizzarsi con l’omissione (pretermissione di parte delle doglianze) o l’invenzione (errata percezione delle censure o delle risultanze processuali) da parte del giudice. In entrambe i casi l’errore di fatto è rilevante e quindi ricorribile se in sua assenza, attraverso una previsione prospettica, è sostenibile che la conclusione del giudizio sarebbe stata differente. Nel caso invece affrontato dalla Cassazione l’errore materiale, cioè l’omessa trattazione del ricorso “sconosciuto” è quell’omissione materiale che si può “cancellare” attraverso la procedura di correzione non soggetta al termine di 90 giorni dalla deliberazione della sentenza. Padova. “Fine pena mai”, sono dieci i detenuti con l’ergastolo ostativo di Renato Piva Corriere del Veneto, 11 ottobre 2019 “Non mi va di inchiodare una persona a quel che era trent’anni fa. Credo sia giusto che uno possa prendere le distanze da quel che era, anche senza collaborare. Un boss non resta un boss per sempre, anche se non collabora”. La Corte europea dei diritti umani ha chiesto all’Italia di rivedere le proprie norme in materia di ergastolo ostativo, la pena che prevede la reclusione a vita e l’assenza totale di benefici per il detenuto. Ornella Favero, direttore di Ristretti Orizzonti, rivista di cultura e informazione dal carcere, redazione all’interno del Due Palazzi, struttura di massima sicurezza alle porte di Padova, non ha timori a schierarsi con la sentenza europea. Senza dimenticare, fatto non secondario, come i giudici dell’Unione abbiano risposto a un’istanza curata proprio da un legale veneto, Antonella Mascia, avvocato veronese che ha curato il ricorso contro la prigione sine die del condannato per mafia Marcello Viola, intervistato ieri dal Corriere del Veneto, Favero aggiunge una nota di sostanza: “Parliamo del fatto che i magistrati tornano (quando e se l’Italia modificherà le proprie norme, ndr) ad avere facoltà di decidere se una persona ha fatto o meno un determinato percorso e se è pericolosa socialmente oppure no...”. La sentenza di Strasburgo, insomma, non spalanca autostrade di libertà ai boss: di mezzo c’è un ritocco legislativo tutto da fare (tempi non brevi, se si conferma l’italian style) e il filtro della magistratura, che, al netto dei venti di propaganda e, certamente, di qualche umana scivolata, con gli ergastolani è “storicamente” selettivo. Per restare al Veneto, solo la Casa di reclusione di Padova accoglie attualmente detenuti in regime di ergastolo ostativo: sono una decina, cifra spuria causa filtro burocratico e oggettive difficoltà contabili. Vicenza attende per novembre 36 detenuti ad Alta Sicurezza. Facile che il gruppo comprenda dei “fine pena mai” ma si parla di futuro. Ad oggi, dato del ministero della Giustizia aggiornato al 31 agosto, il Veneto ospita 71 ergastolani, di cui 11 stranieri. La popolazione carceraria di casa nostra tocca (dato al 31 luglio) tocca quota 2401. Nel primo semestre dell’anno i detenuti hanno ottenuto in tutto 559 permessi. Milano. Ex detenuti, in 30 anni più di 200 minori hanno trovato una nuova identità sociale La Repubblica, 11 ottobre 2019 La Cooperativa sociale “Cidiesse” di Milano festeggia nella nuova sede di viale Monza che ospiterà fino a 10 ragazzi contemporaneamente. Era il 1989 quando nel laboratorio della chiesa di Santa Croce di via Giuditta Sidoli a Milano nasceva la Cooperativa Sociale Cidiesse. Da allora sono passati 30 anni, un periodo lungo, a tratti difficile, ma che nel tempo ha favorito la nascita di un percorso formativo efficace e strutturato che è riuscito, attraverso la dignità del lavoro, ad accompagnare tantissimi minori sottoposti a provvedimenti penali verso una nuova identità sociale di cittadini-lavoratori. Un metodo a tutti gli effetti in cui la produzione industriale di quadri elettrici altamente specializzati rappresenta il mezzo e non l’obiettivo finale. Cidiesse calibra i percorsi educativi sulla reale capacità delle persone e - citando Goethe - trattandole “come se fossero ciò che dovrebbero essere e aiutandole a diventare ciò che sono capaci di essere”. Una bassa recidività. É proprio grazie alla professionalità, che passa attraverso strumenti di maturazione e consapevolezza, che i ragazzi diventano buoni cittadini. Un reinserimento sociale e lavorativo pieno, basato su di un’esperienza concreta di vita e di lavoro e non su teoremi astratti. Con Cidiesse, 9 ragazzi su 10 non diventano recidivi di reato - contro una media nazionale per gli ex-detenuti che si attesta al 70%. Dal 1989 Cidiesse ha seguito più di 200 inserimenti lavorativi con una media di 7 percorsi formativi all’anno attivati. Il laboratorio nel carcere Beccaria. Dal 2013 la Cooperativa ha aperto un suo laboratorio all’interno del Carcere Minorile C. Beccaria di Milano dove accoglie i minori ancora carcerati iniziando da subito l’attività di recupero. Dopo un primo breve periodo, li assume con un regolare contratto di lavoro in qualità di soci-lavoratori e, come tali, dopo la loro scarcerazione continuano presso il Laboratorio esterno di Cidiesse il proprio percorso educativo fino al completamento. Nel 2018, Cidiesse, grazie ai finanziamenti avuti dalle Fondazioni Cariplo, Fondazione Peppino Vismara, e Fondazione S. Zeno ha acquisito il nuovo laboratorio di Viale Monza 338, una struttura di 1.000 mq che consentirà di ospitare contemporaneamente fino a 10 ragazzi garantendo loro una maggiore efficienza nel lavoro e una più qualificata accoglienza. La lotta ai pregiudizi. “Lavoro, tecnologia, solidarietà e inclusione sociale sembrano parole in contraddizione tra loro, ma per noi rappresentano ancora oggi la chiave del successo in una società che tende ad emarginare anziché includere” - sottolinea Antonio Baldissarri, Presidente di Cidiesse. “Sono trent’anni che lottiamo affinché tanti giovani possano avere un’altra possibilità. Questa è la nostra missione e questa resta sempre la nostra vera priorità. É una lotta fatta di contrasto ai pregiudizi, ai luoghi comuni, non solo della gente, ma spesso anche dei nostri stessi utenti che in qualche modo si sono rassegnati a vivere il ruolo di emarginati per sempre. La nostra forza sta proprio in questo lottare a oltranza contro la rassegnazione e il perbenismo che ci circondano, perché una vita recuperata vale più di qualsiasi difficoltà”, conclude Baldissarri. Bergamo. Messa alla prova e pene alternative, un progetto sulla forza dei legami familiari di Giuliana Ubbiali Corriere della Sera, 11 ottobre 2019 C’è il grafico che ha insegnato ai bambini disegnare, la prof che ha dato ripetizioni, il parrucchiere che ha tagliato i capelli ai nonni di una casa di riposo, l’esperto di karate che ha impartito lezioni di difesa. Sono persone che hanno riparato a reati per lo più bagatellari con quello che meglio sapevano fare. Si chiama messa alla prova, sospende il processo e, se il programma viene rispettato, estingue il reato. Chi non ha competenze specifiche, si è reso utile in parrocchia, nelle associazioni, tanti al gattile o al canile, o per il proprio comune. Per chi ha causato un incidente sono previsti percorsi di rieducazione stradale e un incontro con i medici della Terapia Intensiva, dove la cura choc può essere una visita ai pazienti. I casi in carico all’Ufficio per l’esecuzione penale esterna sono 350 su 1.800 totali, che comprendono le persone in affidamento in prova, in detenzione domiciliare, ai lavori di pubblica utilità, in libertà vigilata. C’è un prima e un dopo la condanna, e la carcerazione. Diversi percorsi di cui si parlerà oggi, al convegno “La cura delle relazioni familiari nei percorsi della giustizia”, a partire dalle 8.30, all’auditorium Lucio Parenzan del Papa Giovanni. Sono coinvolti l’ospedale di Bergamo, la Camera penale di Bergamo, il Centro per il bambino e la famiglia, l’associazione Nepios. Al centro, l’impatto della carcerazione sui rapporti con il coniuge e i figli, e la prospettiva di realizzare il progetto “family group”. “Da un lato lavoriamo sulle pene alternative, dall’altro sul rientro a casa del detenuto, affinché possa progettarsi verso il futuro, ripensarsi dentro la famiglia e la società”, ne parla Maria Simonetta Spada, direttrice dell’Unità di Psicologia del Papa Giovanni. La famiglia è un supporto fondamentale anche per evitare il carcere, che a Bergamo ha 490 detenuti (30 sono stati trasferiti alcuni giorni fa). Il condannato a una pena definitiva fino a quattro anni può scontarla in affidamento in prova. Non sarà mai come stare dietro le sbarre, ma prevede controlli, limiti negli spostamenti e attività in positivo per dimostrare di voler riparare agli errori. Non è scontato che venga concesso. Così come la detenzione domiciliare, che richiede una casa e una famiglia disposta ad accogliere. È più difficile per gli stranieri, spesso qui soli. Esistono anche i lavori di pubblica utilità, come sanzione sostitutiva. La durata dipende dalla pena, sono comunque molte ore e questo aumenta l’impegno. Chio sgarra, perde il beneficio dell’alternativa. Il giudice decide, molto del lavoro è dell’Uepe, che ha in carico anche i vigilati di pubblica sicurezza. La pianta organica è di 14 persone, ce ne sono 13. Una è la funzionaria, un’altra è la responsabile d’area, che però se ne andrà a Brescia. Due agenti di polizia penitenziaria lavorano uno come autista e l’altro alla banca dati. Gli altri sono liberi professionisti. Manca il personale di segreteria, rientrato in carcere. E c’è l’incognita della sede, ora in Piazza della Libertà. L’ipotesi è l’ex chiostro della Maddalena, ma potrebbe servire al tribunale per allargarsi. Roma. Attivato Ambulatorio di continuità per ex detenuti garantedetenutilazio.it, 11 ottobre 2019 Presso l’Istituto Spallanzani è stato attivato l’Ambulatorio di Continuità destinato all’assistenza dei pazienti ex detenuti che hanno concluso il periodo di reclusione e necessitano di continuità delle cure, per non compromettere i risultati di controllo delle malattie infettive, raggiunti grazie all’assistenza infettivologica organizzata nelle carceri durante il periodo di detenzione. Questa iniziativa si propone di evitare che queste persone in terapia per infezione da Hiv, Hbv, Hcv, e tubercolosi, si trovino senza alcun riferimento e, nell’attesa di appuntamenti presso ambulatori dedicati, possano restare senza terapia ed interrompere un percorso clinico - terapeutico che garantisca la salvaguardia del loro stato di salute che si è tentato di costruire durante il periodo detentivo, anche alla luce del percorso riabilitativo. L’interruzione del percorso clinico terapeutico crea un danno alla persona malata e potrebbe creare un problema di salute pubblica, in quanto non completando i cicli di cura tali persone possono costituire una fonte di trasmissione di malattie infettive. L’Ambulatorio, gestito dagli specialisti infettivologi dello Spallanzani è attivo come sportello ad accesso diretto, senza prenotazione dal lunedì al sabato dalle 8,30 alle 13,00, in via Portuense 292. Per eventuali informazioni 0655170239/267. Eboli (Sa). Il valore della dog therapy in carcere: un aiuto concreto per uomini e animali di Antonella Barone gnewsonline.it, 11 ottobre 2019 Negli ultimi anni sono aumentate negli istituti penitenziari italiani le esperienze di pet therapy e di formazione ad attività cinofile per positive ricadute non solo sui detenuti ma anche sul generale benessere ambientale. Paola De Vita, coordinatrice di Cittadinanzattiva A.T. di Eboli, nel descrivere il progetto di pet therapy in carcere Mi fido di te, cita due studi fondamentali in materia: la ricerca di Alle R. Mc Connell dell’Università di Miami, dalla quale risulta che l’umore di coloro che convivono con un animale è più bendisposto di quello delle persone che non sono proprietarie di cani e gatti, e quella, più nota, di Johannes S. J. Odendaal e Roy Alec Meintjes dell’Università di Pretoria, che descrive gli effetti pro-sociali dell’ossitocina, ormone stimolato da carezze e coccole varie agli amici quadrupedi. Mi fido di te è un progetto con evidenti vantaggi sia sulla sfera emotiva delle persone detenute (accertata riduzione di ansia, depressione e insonnia), sia sul benessere degli animali, randagi recuperati in strada ancora cuccioli e attualmente ospiti di un canile privato. Il progetto, interamente a carico di Cittadinanzattiva onlus, offre anche opportunità di formazione per diventare “assistente” di pet therapy od operatore cinofilo. Proprio in questi giorni nella casa circondariale di Foggia prende il via la seconda edizione del corso di formazione Amici Dentro organizzato dal Gruppo cinofilo Dauno, delegazione provinciale Enci di Foggia. Il progetto prevede attività specifiche e professionalizzanti come corsi per commissario di ring, cinofilia Handler, toelettatore, mascalcia e interventi assistiti con animali. Come nella precedente edizione, sono in programma dimostrazioni da parte dei detenuti - allievi delle competenze acquisite - durante occasioni di incontro con i familiari. Una fase del progetto questa ritenuta essenziale dagli organizzatori in quanto coerente con gli obiettivi di integrazione, risocializzazione e miglioramento delle capacità comunicative e relazionali. Alcuni detenuti che hanno partecipato alla precedente edizione hanno prestato attività fuori dal carcere come commissari di ring alle esposizioni canine regionali e internazionali di Foggia, Taranto e Bari. Napoli. La Curia promuove il corso di formazione per volontari nelle carceri di Concetta Formisano vesuviolive.it, 11 ottobre 2019 La Curia di Napoli si fa portatrice della promozione per la formazione dei volontari delle carceri. Il corso, il quale avrà inizio il giorno sabato 9 novembre 2019, sarà una formazione per volontari penitenziari dentro e fuori le carceri di Napoli e avrà luogo presso la sede della Pastorale Carceraria dell’Arcidiocesi di Napoli, in Via Giuseppe Buonomo 39/41 a Napoli. Sarà possibile iscriversi al corso fino al 31 ottobre 2019. Per la partecipazione è previsto un contributo alle spese di 10,00 euro. Il corso è aperto a chiunque desideri impegnarsi nel volontariato nella Diocesi di Napoli ed anche ai volontari già operativi di tutte le associazioni di volontariato penitenziario. L’intento del corso, promosso dalla Curia di Napoli, sta nel fornire le competenze di base per operare nell’ambito penitenziario di intervento, delineando le caratteristiche principali dell’ordinamento penitenziario italiano, del ruolo del volontariato e degli strumenti da utilizzare per ottenere una relazione efficace con le persone detenute e le persone soggette a provvedimenti restrittivi della libertà personale. Il corso consterà di sei incontri di formazione che si svolgeranno ogni sabato mattina dalle ore 9:00 alle ore 12:30. Tra i formatori figurano: Gherardo Colombo, ex magistrato, Don Tonino Palmese, Vicario Episcopale della Diocesi di Napoli, Samuele Ciambriello, Garante Regionale delle persone private della libertà, Roberta Gaeta, Assessore alle politiche sociali del Comune di Napoli, Maria Luisa Palma e Giulia Russo, rispettivamente direttrici della Casa Circondariale di Poggioreale e del Carcere di Secondigliano, Monica Amirante, Presidente del Tribunale di sorveglianza di Salerno, Monica Latini, responsabile area coordinamento interdistrettuale Uiepe Campania ed Antonio Mattone, della Comunità di Sant’Egidio. Gli incontri saranno moderati da Emanuela Scotti, giornalista e direttrice responsabile della testata Liberi di Informare, dentro ma fuori dal carcere. L’iniziativa è stata promossa dal Centro Diocesano di Pastorale Carceraria diretto da Don Franco Esposito, insieme alla Conferenza Regionale Volontariato Giustizia, alla Caritas Diocesana Napoli e all’Associazione Liberi di Volare Onlus. Perugia. Cinema: al festival “PerSo” detenuti e migranti in giuria di Alessio Vissani Avvenire, 11 ottobre 2019 “Ricorderemo il mondo attraverso il cinema”. Il grande regista italiano Bernardo Bertolucci aveva un’idea ben precisa dell’importanza dell’arte cinematografica e probabilmente i grandi eventi, momenti storici ed epoche sono tutte scandite da pellicole che hanno fatto più o meno la storia. Il cinema è universale, in ogni luogo può arrivare al cuore delle persone, di ogni sesso, colore e vita sociale. Perugia, nel cuore verde d’Italia, in questi giorni si è trasformata, per il suo quinto anno consecutivo, nella capitale del documentario. Dal 5 al 13 ottobre “PerSo Perugia Social Film Festival 2019” propone nove giorni di cinema del reale, concorsi e workshop con oltre quaranta film da tutto il mondo per mostrare i migliori documentari nazionali e internazionali. “Differente. Non indifferente”, questo il claim che riassume lo spirito del PerSo, festival che si è ritagliato, nel giro di pochi anni, un posto importante nel panorama dei concorsi internazionali e che cerca ogni anno di dimostrarsi sempre più vicino anche a realtà non sempre integrate. Uniche infatti sono le giurie composte dai detenuti della Casa circondariale di Perugia-Capanne, così come la giuria dei richiedenti asilo (trasformata quest’anno nella categoria migranti), oltre a quella degli studenti di cinema dell’Università degli studi di Perugia e quella del pubblico. La volontà è quella di affiancare due diversi modi di osservare e valutare la realtà, realizzando un avvicinamento tra mondi marginalizzati e la cosiddetta “società culturale” in cui viviamo. “Da subito abbiamo pensato di dare un valore non solo simbolico, ma anche materiale al lavoro di queste due giurie dando la possibilità di assegnare premi in denaro. Tra gli aneddoti mi ricordo uno dei detenuti che una volta mi disse commosso questa frase - racconta Maurizio Giacobbe, coordinatore delle giurie speciali: grazie perché noi siamo stati giudicati e oggi ci troviamo a giudicare. In questo pensiero, quasi ossimoro, c’è tutto quello che siamo riusciti a creare in questi cinque anni con i detenuti del carcere di Capanne di Perugia. Un esperimento all’inizio, una conferma poi e una piacevole certezza lungo gli anni del festival. Da cinque giurati del primo anno siamo arrivati a dodici nell’edizione attuale del 2019, abbiamo coinvolto sia la parte maschile che femminile tutti preparati da un percorso laboratoriale realizzato prima della visione dei documentari. Sempre all’interno della realtà carceraria - continua Giacobbe - mondo totalmente squarciato dalle regole classiche di libertà, un giurato ci disse questa frase: per noi quando voi entrate è come se le nostre batterie scariche si ricaricassero, respiriamo un’aria di libertà quando ci troviamo a metterci in gioco con il festival. Il concetto di libertà è sì materiale, ma il più delle volte è anche mentale perché paradossalmente in certi momenti queste persone sono più libere di tante che sono fuori legate a degli stereotipi rigidi e questo gli permette di giudicare una pellicola anche con più obiettività”. Il percorso in questi cinque anni del PerSo ha visto avvicendarsi oltre ai detenuti del carcere anche i richiedenti asilo, divenuti quest’anno migranti con l’obiettivo di giudicare cortometraggi, documentari, fiction e animazione di giovani registi under 35. “Il fatto che un festival di cinema sociale - afferma il coordinatore generale del PerSo Luca Ferretti - si occupasse di accogliere e integrare all’interno della macchina organizzatrice delle realtà sociali marginali come i migranti e detenuti era un qualcosa di utopistico all’inizio ma nello stesso tempo affascinante perché ci si trovava a rendere importanti dei soggetti che per la società erano definiti gli ultimi, questa è stata la scintilla che ci ha portato fin qua. Gli occhi e le reazioni dei vincitori, dei registi e degli addetti lavori sono un qualcosa di unico in quanto chi vince il premio giudicato da loro ha una riconoscenza veramente particolare”. Roma. Teatro: il dramma di Gulotta, innocente e scagionato dopo 22 anni di carcere Corriere della Sera, 11 ottobre 2019 L’appuntamento con lo spettacolo “Come un granello di sabbia” è per l’11 ottobre al Teatro India. A sostenere la rappresentazione la camera penale di Roma. Nel gennaio del 1976, Giuseppe Gulotta, diciottenne muratore siciliano, viene arrestato per l’omicidio di due carabinieri della stazione di Alcamo Marina. Costretto a confessare sotto tortura, viene condannato all’ergastolo, pur continuando a professarsi innocente. Dopo 22 anni di galera e dieci tentativi di revisione, nel marzo del 2012, viene definitivamente scagionato da tutte le accuse: finisce così finalmente un lunghissimo calvario. Il dramma di un uomo difronte alla devianza del sistema - Lo spettacolo “Come un granello di sabbia”, in scena l’11 ottobre al Teatro India, evoca in modo potente e simbolico il dramma di un uomo difronte alla devianza del sistema: un uomo appunto, come un granello di sabbia in un ingranaggio infernale. E rimette al centro il tema della imprescindibilità delle garanzie del giusto processo ed i rischi drammatici che discendono dal non rispettarle. Il sostegno della camera penale di Roma - La camera penale di Roma, da sempre in prima linea nella battaglia per i diritti del cittadino in ogni fase del procedimento penale, ha deciso di promuovere e sostenere questa rappresentazione teatrale, per la prima volta nella Capitale, per sensibilizzare la collettività su un tema così importante, ancor più in tempi di giustizialismo e populismo penale. Migranti. Per il Pd non è mai l’ora di Diego Bianchi Venerdì di Repubblica, 11 ottobre 2019 “Ecco perché penso che riaprire ORA il dibattito sullo ius culturae sia un errore”, scrive sui social Messia Morani, Pd, sottosegretario allo Sviluppo economico, argomentando poi nel dettaglio. Morani si dice convinta “di interpretare il sentiment” (il sentimene non so bene cosa sia né in cosa si distingua dal sentimento, ma dev’essere una cosa molto intima, alla portata di pochi) della maggioranza delle persone che guardano con simpatia al nuovo governo. Pur dicendosi favorevole allo ius culturae, l’esponente Pd afferma che, poiché il Paese è profondamente diviso sul tema dell’immigrazione, non basterà una legge per eliminare le tossine del razzismo inoculate da Salvini. Pertanto, la soluzione più furba per debellare le succitate tossine, sarebbe quella di non adottare un provvedimento che ORA (il maiuscolo è sempre suo, usato per sottolineare il concetto di momento sbagliato), non essendo compreso, avrebbe l’effetto contrario di aumentare l’intossicazione collettiva. Insomma, voi giovani italiani quanto me e la Morani, voi giovani italiani che di questo triste Paese assimilate quotidianamente pregi e difetti, voi giovani italiani che per natali o albero genealogico considerati “impuri” formalmente italiani non siete: portate ancora pazienza qualche mese. Lasciate lavorare il governo di ORA, quello che vede come azionista di maggioranza il partito il cui leader ancora si bea di aver inoculato la sua personalissima dose di tossine grazie allo slogan “taxi del mare”, e vedrete che il momento giusto arriverà. Per qualche strano sortilegio, accade da anni che per combattere le destre sui temi per le destre più demagogicamente forti, il centrosinistra, se al governo, decida strategicamente di comportarsi come le destre. Sul tema dello ius soli resta memorabile la tesi di Alfano alla vigilia delle ultime politiche, quella secondo cui affrontare il tema dello ius soli prima delle elezioni avrebbe regalato voti alle opposizioni. Come andarono le elezioni e la carriera politica di Alfano lo sappiamo. ORA, come scriverebbe la Morani, non fosse altro che per provare a fare qualcosa di diverso dal recente passato di sconfitte, visto che fare come le destre fa prendere voti alle destre, non sarebbe il caso di approfittare della fortuna avuta ritrovandosi al governo senza meriti e provare a lasciare un segno che ti faccia ricordare per qualcosa di giusto? Anche perché altrimenti, pur volendo uscire dalla facile e stucchevole retorica delle poltrone, si fa fatica a comprendere le ragioni nobili dell’ostinarsi a voler fare politica. Le droghe e i silenzi colpevoli di Antonio Polito Corriere della Sera, 11 ottobre 2019 Il problema è che diamo sempre più per scontato che l’istinto di fuga dal male di vivere richieda l’aiuto di una sostanza, il conforto di una dipendenza. “Se vado a piazza Navona, e incontro un drogato che passa ciondolando con aria noiosa e vagamente sinistra, maledico la misteriosa circostanza che ha costretto, lui singolo, a fumare dell’hascisc invece di leggere di un libro”. Pier Paolo Pasolini, non certo un intollerante nei confronti della differenza o del disagio giovanile, considerava la droga “una vera tragedia italiana”, come nel titolo dell’articolo che pubblicò nel luglio del 1975 sul Corriere della Sera. Però tentava di capirne il perché, che si trattasse di un giovane borghese o di “un drogato in un bar di piazza dei Cinquecento o al Quarticciolo”. “Per quanto riguarda la mia personale, e assai scarsa esperienza - scriveva - ciò che mi par di sapere intorno al fenomeno è il seguente fatto: la droga è sempre un surrogato. E precisamente un surrogato della cultura... la droga viene a riempire un vuoto causato appunto dal desiderio di morte e che è dunque un vuoto di cultura”. Non è arbitrario rileggere oggi uno dei più profetici interventi del grande scrittore, a più di quarant’anni di distanza. Molti esperti, alle prese con la forte recrudescenza del consumo e delle morti per droga, parlano infatti di un “ritorno agli anni 70”, il periodo in cui l’eroina, irrompendo come un fenomeno di massa nella modernità, bruciò la vita e le menti di tanti ragazzi. Forse la vera grande differenza tra ora e allora è che non c’è più un Pasolini, e per la verità non c’è quasi più nessuno, che si interroghi sul perché: se cioè si tratti solo di una questione privata, di chi si droga e delle loro famiglie; o se esista invece un qualche nesso tra la cultura del Paese e questa rinnovata emergenza, e dunque sia una questione pubblica, culturale e sociale, e perciò in definitiva politica. In verità qualcuno c’è: il capo della Polizia, per esempio. Segnalando qualche giorno fa a un convegno della Comunità di San Patrignano che negli ultimi anni è salito il numero di morti per overdose, è aumentato il consumo, e si è abbassata l’età, il prefetto Gabrielli ha aggiunto: “Ci sono stati ulteriori sdoganamenti culturali, non comprendendo che questo è un approccio pericoloso. Non credo che ci siano droghe meno pericolose di altre, basti pensare che quasi il 98% delle persone che approdano al consumo di sostanze letali hanno iniziato da sostanze che si considerano quasi ludiche o di poco conto”. Non ci interessa qui riaprire il dibattito sulla liberalizzazione delle droghe cosiddette “leggere”. È più importate segnalare il problema “culturale” che pone Gabrielli: e cioè che abbiamo accettato l’idea che una sostanza psicotropa possa essere assunta a scopo “ricreativo”, come si dice oggi con un gentile eufemismo da movida. Che dunque la ricerca dello sballo, di una perdita più o meno temporanea della coscienza, non denunci un disagio, ma configuri soltanto uno stile di vita. E che ci si debba dunque limitare a ridurre gli eventuali danni collaterali. Pasolini non la pensava così. Credeva che ci fosse una spiegazione culturale, che esistessero “periodi storici in cui non c’è spazio per la droga: o meglio, tale spazio in altro non consiste che nel vuoto culturale interiore di singoli individui”. Mentre invece gli pareva di vivere in un periodo “in cui lo spazio (o vuoto) per la droga è enormemente aumentato”. E se ne dava una spiegazione che forse calza a pennello anche per la nostra epoca: “La caduta del prestigio irrelato di tutti i valori di una intera cultura non poteva non produrre una specie di mutazione antropologica, e non poteva non causare una crisi totale”. Oggi non ci sono scrittori engagé che seguano questa pista interpretativa. Interrogarsi sul tessuto di valori che regge la società è diventato fuori moda, un esercizio senza alcun senso per chi aderisce a una idea di libertà individuale che confina con il relativismo etico, e dunque non vi scorge il trionfo di quel consumismo che tanto preoccupava Pasolini. Chissà se i nostri ragazzi che trovano in discoteca la pasticca giusta al momento giusto sono più liberi o più schiavi del mercato, e della sua capacità di sollecitare i gusti del pubblico con una vasta gamma di prodotti. A giudicare dal silenzio degli intellettuali si può anzi dire che la “mutazione antropologica” sia oggi così perfettamente compiuta che non la vediamo neanche più. Si discute perciò piuttosto di criminologia, come arrestare e sequestrare, e se liberalizzare danneggi o favorisca i trafficanti, accresca o riduca il traffico. Eppure anche Roberto Saviano, convinto liberalizzatore, non può evitare di darsi una spiegazione “esistenziale” del ricorso alla droga: “Perché la cocaina regna? Perché la vita è una merda, perché ti fa sentire sempre troppo brutto, troppo povero, troppo grasso”. Il problema è proprio lì: diamo sempre più per scontato che l’istinto di fuga dal male di vivere richieda l’aiuto di una sostanza, il conforto di una dipendenza. Accettiamo che i nostri figli siano così immaturi da non reggere altrimenti il dolore dell’esistenza. Per questo abbiamo smesso di combattere la battaglia contro la droga. Per questo “anche le famiglie non sono più in prima fila, come fu negli anni Settanta e Ottanta, e sembrano diventate parte del sistema consumistico”, denuncia il presidente dell’Associazione dei genitori antidroga. Per questo lo “spazio, o il vuoto” per la droga, diventa sempre più incolmabile. Stati Uniti. “Da undici anni scriviamo lettere a un detenuto condannato alla pena capitale” di Giorgia Venturini Il Fatto Quotidiano, 11 ottobre 2019 Alessia e Arturo, marito e moglie di 41 e 54 anni residenti a Milano, da undici anni hanno aderito al progetto “Scrivi a un condannato a morte” della Comunità di Sant’Egidio. Da quel momento, tengono una corrispondenza con Randy, detenuto nel braccio della morte. Randy Halprin, 40 anni, doveva morire il 10 ottobre, nel giorno della Giornata mondiale contro la pena di morte, con un’iniezione letale nel carcere texano Polunsky Unit. Qui, da quasi vent’anni, l’uomo è detenuto nel braccio della morte. Da quando il 24 dicembre del 2000 partecipò alla più grande evasione di prigionieri mai avvenuta in Texas, insieme ad altri sei detenuti di un carcere a Sud di San Antonio, Texas. Il piano di fuga riuscì, ma la libertà durò poco: uno dei fuggitivi si impossessò di una pistola e uccise il poliziotto 29enne Aubrey Hawkins. Ricercati, furono arrestati un mese dopo in Colorado. L’omicida è stato condannato alla pena di morte, così come gli altri suoi “compagni di fuga”. Esattamente come prevede la legge texana: la Law of Parties prevede che, per alcuni reati, la pena colpisca non solo chi compie materialmente il crimine, ma anche i membri del gruppo di cui fa parte. Dei Texas Seven, così è passato alla storia il gruppo dei fuggiaschi, uno è morto suicida prima della cattura, mentre per altri quattro l’esecuzione è già avvenuta. Nel braccio della morte restano Randy Halprin e Patrick Henry Murphy. Quest’ultimo doveva essere giustiziato lo scorso marzo, ma poi, grazie al ricorso del difensore legale, la pena è stata posticipata il prossimo 13 novembre. E ora è stato accolto anche il ricorso del legale di Randy: il giudice è stato accusato di aver emesso il giudizio di condanna a morte influenzato dalle sue idee antisemite e, siccome l’imputato è ebreo, il caso è stato riaperto. Alla notizia, Alessia e Arturo, marito e moglie di 41 e 54 anni residenti a Milano, hanno esultato: da undici anni scambiano lettere, rigorosamente scritte a mano, con Randy aderendo al progetto Scrivi a un condannato a morte della Comunità di Sant’Egidio. Come la loro, ci sono altre 370 corrispondenze sparse nel mondo, soprattutto con detenuti della Florida, Texas, California, Georgia, Oklahoma, Ohio, Idaho, Alabama. A offrirsi per iniziare la corrispondenza sono persone di 82 nazionalità diverse. “Le nostre e le sue lettere iniziano con ‘Caro fratello’ - precisa fin da subito la coppia - Perché sì, dopo undici anni possiamo dire di essere come parenti”. E iniziano a raccontare: “Nelle lettere scriviamo della nostra vita, gli mandiamo foto delle nostre gite, delle nostre vacanze, ma anche, semplicemente, della nostra routine quotidiana. E siccome da ragazzino Randy giocava a basket, commentiamo le partite e le squadre”. Non solo: “Spesso parliamo di musica perché nella sua cella non può fare altro che ascoltare la radio”. Randy passa 22 ore al giorno in una piccola cella, le restanti 2 le passa in un cortile all’aperto facendo qualche tiro a canestro (anche in questo caso da solo) o scambiando qualche parola con altri detenuti, rigorosamente dietro a delle sbarre e sorvegliati dalle guardie. Randy non può stringere la mano a nessuno, tantomeno abbracciare qualcuno. I familiari che vengono a trovarlo possono vederlo e parlargli solo da dietro un vetro. La routine di ogni condannato a morte. Questo fino a quando il giudice non fissa la data dell’esecuzione: allora, di prassi, i detenuti vengono trasferiti in un’altra ala del carcere, in una cella videosorvegliata 24 ore su 24 per evitare possibili e frequenti tentativi di suicidio. Da questa blindatissima cella, non si fa ritorno. “Randy per lo Stato non esiste più - continuano Alessia e Arturo - Le sue lettere sono di appena una pagina. Ci racconta dei suoi tiri a canestro e delle sue chiacchierate con il rabbino. Solo una volta ha parlato della sua vicenda giudiziaria, forse perché si sentiva in dovere di informarci. Poi basta. Vuole sapere altro, qualsiasi cosa succeda oltre quelle sbarre. E a volte fantastica su un nostro possibile incontro. A casa nostra, a Milano, a mangiare pizza. Lo sa lui e lo sappiamo noi che questo non succederà mai, ma resta lo stesso un sogno piacevole”. E se ad Alessia e Arturo chiedi perché questo incontro non può avvenire in Texas nel carcere in cui è detenuto, loro rispondono: “Ci sarebbero dieci secondi di felicità e poi solo tristezza. Meglio il nostro incontro immaginario”. Alcune volte capita che ci sia un ritardo nella consegna della corrispondenza: “Una volta abbiamo tardato a rispondergli e lui ci ha inviato una lettera chiedendoci se avessimo deciso di interrompere la corrispondenza. Mai. Non lo faremo mai. Eppure c’è chi inizia e dopo pochi mesi smette. Per il detenuto è uno choc”. E concludono: “La sensazione è che la pena di morte in Texas sia quasi una normalità. Come se fosse l’unico deterrente contro la criminalità. Eppure non ci sono dati che lo dimostrino. Per noi europei è pura follia”. Da inizio 2019 le esecuzioni accertate da Amnesty International Italia sono 522, di cui 17 negli Stati Uniti. I detenuti nel braccio della morte, a fine del 2018, erano almeno 19.336. Nello stesso anno sono state almeno 690 le esecuzioni, in 20 Paesi, una diminuzione del 31% rispetto al 2017. Le condanne a morte sono, invece, 2.531 in 54 Paesi, una leggera diminuzione rispetto alle 2.591 registrate nel 2017. La maggior parte delle esecuzioni ha avuto luogo, nell’ordine, in Cina, Iran, Arabia Saudita, Vietnam e Iraq: il maggior numero di detenuti messi a morte sono in Cina, dove però è impossibile ottenere cifre precise sull’applicazione della pena capitale nel Paese, poiché i dati sono considerati segreto di Stato. Certo è che la cifra di almeno 690 persone messe a morte in tutto il mondo non comprende le migliaia di esecuzioni ordinate da Pechino. Negli Stati Uniti, invece, nel 2018 il numero delle esecuzioni sono state 25, le sentenze capitali 45. Il Texas ha quasi raddoppiato le sue cifre rispetto al 2017 (da 7 a 13) e da solo rappresenta oltre la metà del totale di tutti gli Stati Uniti. “Si continua a credere che la pena di morte sia un deterrente per i crimini violenti e renda la società più sicura - precisa Tina Marinari di Amnesty International Italia - Ma non esistono dati a prova di tale mito. Il dovere dei governi dovrebbe essere quello di tutelare i diritti umani di tutti gli individui”. Siria. Raid turchi al confine e Erdogan minaccia l’Ue: “Vi spedisco i rifugiati siriani” di Marco Ansaldo La Repubblica, 11 ottobre 2019 Una prigione piena di combattenti dell’Isis, è stata bombardata ieri notte dalle forze militari turche. Usa, proposta di sanzioni alla Turchia pronta al Congresso. Oltre la frontiera turco siriana, verso il deserto, c’è un’altra battaglia che si svolge in queste ore seguita all’invasione delle truppe di Ankara. È quella scatenata subito, senza indugi, dai jihadisti dell’Isis contro i curdi. Il risveglio del cosiddetto Stato Islamico è il primo, prevedibilissimo risultato del ritiro americano annunciato lunedì da Donald Trump e dell’incursione turca scattata mercoledì. Ora i terroristi combattuti e sconfitti dai curdi, imprigionati dagli americani, e fino a ieri ridotti a cellule dormienti, hanno rialzato la testa. Con il rischio che, presto, i loro affiliati escano dalla Siria, passino in Turchia nell’ “autostrada del terrore” che per anni è stata a doppio senso di marcia, e arrivino in Europa. Molti di loro, difatti, hanno passaporto comunitario. Fonti curdo-siriane rivelano inoltre che le forze turche avrebbero bombardato nella notte una prigione in cui sono detenuti miliziani dell’Isis appartenenti “a oltre 60 Paesi”. Per le Forze democratiche siriane, una coalizione curda e araba costituita nel 2016, si tratterebbe di “un chiaro tentativo” di favorire la fuga dei jihadisti. Il carcere è quello di Chirkin, nella zona di Qamishli. Dopo che - secondo l’Osservatorio dei diritti umani in Siria - in meno di 24 ore oltre 60mila persone hanno lasciato le loro abitazioni al confine, il secondo giorno delle operazioni turche in Siria, in una giornata chiara e soleggiata, continua a concentrarsi sui due villaggi di Ras al-Ayn e di Tell Abyad, già colpiti nelle prime ore dell’attacco scattato nel pomeriggio di mercoledì e annunciato con un tweet dal presidente Recep Tayyip Erdogan. Un’azione motivata dal Sultano con l’obiettivo di portare almeno 2 dei 3,6 milioni di profughi siriani ospitati in Turchia verso la loro terra. Il risultato di questo programma di ingegneria demografica è per ora la creazione di nuovi rifugiati. Donne e bambini, in maggior parte, visti fuggire dai centri abitati per ripararsi dagli attacchi portati dai caccia e dall’artiglieria. E a chi parla di “invasione” o “occupazione”, Erdogan ha risposto: “Apriremo le porte a 3,6 milioni di rifugiati siriani e li manderemo da voi”, aggiungendo che “109 terroristi curdi” sarebbero già stati uccisi. Ankara per ora non rivela quale sia il suo obiettivo finale, forse la creazione di quella che definisce come “safe zone”, un corridoio umanitario che separi i combattenti curdi (considerati terroristi) dalla propria frontiera. Non si sa fin quando vuole attaccare e dove intende arrivare. I morti sono già decine. La Turchia assicura: “Non abbiamo colpito civili”. Ora anche l’Esercito libero siriano, filo turco, è entrato in campo affiancando le truppe di Ankara nell’operazione chiamata “Fonte di pace”. Sono 14 mila uomini su cui la Turchia può contare nel suo obiettivo di liberare la zona dalle forze alleate curde e siriane. Anche il fronte diplomatico è caldo. Da Washington il presidente Trump minaccia nuove sanzioni contro la Turchia, se non agirà in modo “umanitario”. E qui il discrimine diventa opinabile. Il Sultano deve stare attento a non spingersi oltre i limiti “umanitari” nominati dal presidente americano. L’economia turca deraglia ogni giorno di più, e il capo dello Stato turco non può permettersi di lasciare andare il proprio Paese verso una nuova crisi, pena le fortissime critiche che già lo avevano messo in difficoltà a partire dall’agosto 2018. La deputata repubblicana al Congresso Usa, Liz Cheney, è pronta a presentare nei prossimi giorni una legge che impone sanzioni alla Turchia per l’attacco alle milizie curde. La figlia dell’ex vicepresidente Dick Cheney, nonostante sia una delle più strette alleate di Donald Trump, si è unita al coro delle critiche contro il presidente per aver abbandonato gli alleati curdi. Oltre 20 deputati repubblicani avrebbero già espresso sostegno alla sua proposta. Tra questi il leader della minoranza repubblicana alla Camera Kevin McCarthy. Il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, ha difeso Trump: “Non abbiamo mai dato un via libera a un’operazione turca sulla Siria”. Il capo della Casa Bianca a Erdogan aveva parlato solo di un ritiro delle truppe Usa. A New York si tiene ora anche il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, convocato da molti Paesi per la crisi siriana. E sabato, “d’emergenza”, come viene detto (ma la tempistica ovviamente va intesa in senso mediorientale) anche quello della Lega araba, considerando pure la festa del venerdì islamico. Gli Stati Uniti hanno infine annunciato di avere in custodia i due “Beatles dell’Isis”. Alexanda Kotey ed El Shafee Elsheikh, sul campo ‘Jihadi Ringo’ e ‘Jihadi Georgè. Due britannici membri dello Stato islamico, fino a l’altro giorno nelle carceri controllate dai curdi, che dovrebbero essere estradati negli Usa per essere processati. Nell’immediato, saranno trasferiti semplicemente in Iraq. Trump stesso ha dichiarato di avere assicurato la cattura di “alcuni dei più pericolosi combattenti dell’Isis”, una quarantina di uomini dispersi in varie carceri. I “Beatles” erano chiamati così per via del loro accento. Nella Turchia oggi in guerra è comunque vietato criticare l’attacco. A meno di 24 ore dall’inizio dell’operazione militare contro le milizie curde, la procura di Ankara ha aperto un’inchiesta per “propaganda terroristica” contro i co-leader del partito filo curdo, che in Parlamento costituisce la quarta forza. Si tratta dei deputati Sezai Temelli e Pervin Buldan. E poi tre deputati dello stesso partito: Leyla Guvel, Kilic Kocyigit e Berdan Ozturk. Non solo. Ma le persone indagate per postare commenti critici sui social media sono al momento 78. La stretta non risparmia i giornali. Il quotidiano di sinistra Birgun ha da stamane il suo caporedattore del sito web, Hakan Demir, in carcere. È stato arrestato in casa, all’alba, dalla polizia, per la copertura dell’operazione militare fatta del suo giornale. L’accusa per gli articoli considerati critici di Birgun è quella di “favorire la propaganda al terrorismo”. Siria. Tra i detenuti anche jihadisti italiani. “Se tornano difficile condannarli” di Marco Ventura Il Messaggero, 11 ottobre 2019 Ci sono italiani tra i jihadisti nei campi di detenzione controllati finora dai curdi nel nord della Siria. E non si sa che fine faranno. Perché i curdi sostengono di non essere più in grado di garantirne il controllo. Stati Uniti e Gran Bretagna si stanno muovendo per trasferire in luoghi sicuri, e processare, i soggetti più pericolosi. Ma per centinaia di combattenti di non si sa quante nazionalità (50, 60, c’è chi dice di più), non è chiaro il destino. Senza contare lo scarico di responsabilità tra europei, curdi e americani, ma anche siriani e iracheni “ufficiali”, sulla giurisdizione dei processi, sull’eventualità della creazione di una Guantánamo mediorientale e la “presa in carico” di jihadisti pro-Isis per i quali, in base agli standard occidentali, è praticamente impossibile istruire un’indagine o raccogliere prove di crimini commessi. Gli esperti di diritto internazionale e non solo si stanno interrogando, in Italia, su come trattare il dossier. Perché oggi non esiste uno strumento legislativo per perseguire i combattenti dell’Isis italiani, una volta rientrati. C’è la legge che punisce il reclutamento, specie via Internet, ma non quella che serve a condannare un seguace e miliziano del Califfato che abbia preso la via di casa. Il risultato è che finora anche l’Italia, come altri Paesi europei, ha avuto le mani legate (e scarsa volontà) nell’operazione di “rimpatrio” dei propri jihadisti. “Tecnicamente non so quanti siano, ma so che ci sono italiani”, ha detto ieri il presidente della regione dell’Eufrate ed ex sindaco di Kobane, Anwar Muslem, all’Aki-Adnkronos. “Quando la Turchia entrerà nel Rojava”, regione presidiata dalle milizie curde Ypg (Protezione del Popolo), dice Muslem, “non potremo più controllare i detenuti dell’Isis che attraverso la Turchia si sparpaglieranno in tutto il mondo, perché sono cittadini di 52 Paesi”. Si tratta, rincara Dalbr Jomma Issa comandante delle Ypg femminili, di elementi “molto pericolosi non solo peri curdi, ma per l’intera umanità. Noi - aggiunge - non pensiamo di rilasciarli, ma non sappiamo neanche noi fino a quando possiamo sorvegliarli. In tante città ci sono cellule dormienti che ora, nel caos, iniziano a muoversi”. Trump ribadisce che saranno i turchi a occuparsi dei prigionieri. Ma è realistico? La linea di Ankara verso l’Isis è oggi di netta chiusura. Ma intanto nella disgregazione e nel “fai-da-te” generale in Siria, gli USa hanno preso in consegna e trasferito due membri britannici dell’Isis colpevoli di avere decapitato ostaggi. Sono Alexanda Kotey e El Shafee Elsheikh, componenti di un gruppo jihadista chiamato “i Beatles”. Ma in Gran Bretagna non c’è la pena di morte e negli States, invece, sì. E finora il massimo che il Regno Unito abbia escogitato per evitare il rientro di famiglie jihadiste in patria è la revoca della cittadinanza, misura che presenta criticità legali non potendo nessuno ritrovarsi per il diritto internazionale nella condizione di apolide. Il che è successo a familiari di detenuti dell’Isis con passaporto della Regina. La realtà è che pochi Paesi si sono preoccupati finora di far rientrare propri concittadini: Kazakhstan, Uzbekistan, Tajikistan, Russia, Kosovo e la stessa Turchia. Diciotto bambini in Francia, 16 tra adulti e minori negli USA, meno di una decina in Germania. E 8, 7 e 5 bambini rispettivamente in Australia, Svezia e Norvegia. Quattro francesi sono stati processati in Iraq, tra mille polemiche. Siria. Da dove viene l’arroganza di Erdogan di Tommaso Di Francesco Il Manifesto, 11 ottobre 2019 Il lessico delle guerre provocate dall’Occidente abbonda di parole come tute mimetiche. Non è infatti né l’ennesima guerra, né è del solo Erdogan la “pugnalata alle spalle” dei curdi. Ma da dove vengono i ricatti di Erdogan? Vale la pena chiederselo, vista la faccia tosta con cui rivendica il buon diritto di invadere il nord della Siria e fare terra bruciata dell’esperienza dei curdi del Rojava. Ieri è stato più esplicito del solito, rivolto ad una Turchia che, tutta, - tranne l’Hdp curda - plaude all’offensiva. Ha ammonito l’Ue che se la considera un’invasione, rimanderà in Europa i 3 milioni e 600mila profughi che gli abbiamo appaltato; ha attaccato chi lo critica, come l’ egiziano al Sisi definendolo “il killer della democrazia; e ai Saud ha ricordato le stragi in Yemen…Insomma: “Da che pupito”. E certo è una bella accozzaglia di criminali. E alla Nato ha chiesto: “La Turchia è un membro alleato, c’è l’articolo 5. Come fate a non reagire mentre i terroristi ci attaccano?”. Più provocatorio di così. “Ennesima guerra”, “La guerra di Erdogan”, “Pugnalata alle spalle”… I titoli dei media si rincorrono; con il titolo “offensivo” dell’offensiva turca: “Fonte di pace”. Il lessico delle guerre provocate dall’Occidente abbonda di parole come tute mimetiche. Non è infatti né l’ennesima guerra, né è del solo Erdogan la “pugnalata alle spalle” dei curdi. E l’invasione turca è solo sorgente di nuove guerre. Non è l’ennesima guerra perché Erdogan così facendo porta a termine la somma delle ambiguità che hanno caratterizzato l’impresa statunitense ed europea di destabilizzazione della Siria. Rappresentata, come ha scritto sul manifesto Alberto Negri, dal tentativo di “guidare da dietro le “primavere arabe”. A cominciare dal ruolo del segretario di Stato Hillary Clinton - entusiasta - e di Obama - reticente - con la guerra Nato che ha abbattuto in Libia Gheddafi nell’ottobre 2011; per ritrovarsi solo un anno dopo (l’11 settembre 2012) al rovescio disastroso dell’impresa, con l’uccisione a Bengasi dell’ambasciatore Usa Chris Stevens. “Abbiamo fatto in Libia una figura di m…” commentò lo stesso Obama. Ma sempre nel 2011 si apriva il portale della destabilizzazione della Siria, ben più decisiva strategicamente in Medio Oriente della pur imperdibile piattaforma petrolifera libica. La passeggiata ad Hama dell’ambasciatore Usa Robert Ford - come ha raccontato lui stesso in una intervsita del 2017 a Newsweek - tra i ribelli siriani fu il via libera per l’ingresso dei foreign fighters jihadisti che stazionavano in Turchia, cui veniva delegata la loro gestione. Ruolo che Erdogan prese alla lettera con la collaborazione della Nato: li armava, li addestrava e con l’Isis stabilì profiqui affari anche petroliferi, come testimoniarono giornalisti coraggiosi di Cumhuryet, incarcerati o costretti all’esilio. L’invenzione che fu lanciata, dentro la Coalizione degli Amici della Siria (dagli Usa a tutti i Paesi europei, Italia compresa e con i fondi dell’Arabia saudita) fu quella dell’”opposizione democratica”, fallita in pochi mesi perché divorata dal radicalismo e dalla forza dell’Isis e delle molte diramazioni siriane di Al Qaeda. Così l’intera operazione fallì. In Siria la destabilizzazione riuscita in Libia non funzionava, il regime di Assad resisteva da tre anni e mezzo, tra macerie, massacri e 6 milioni di profughi. Se ne accorse Obama che a fine 2015, nell’incontro del “caminetto”, nella Sala Ovala alla Casa bianca con Putin, aprì all’intervento russo, mentre sul campo si avviava anche l’intervento iraniano, con pasdaran e forze Hezbollah a sostegno del regime sciita di Damasco. A combattere l’Isis - organico al regime saudita - non c’erano più sedicenti opposizioni armate democratiche, né l’Occidente ma, insieme a esercito siriano e russi, i pasdaran iraniani e gli Hezbollah - presi subito anche di mira dai bombardamenti aerei israeliani. E soprattutto le forze curde progressiste dell’Ypg che si richiamano a Ocalan e al Pkk turco, impegnate in piena guerra a costruire nel Rojava un’autonomia confederale, democratica e interetnica. Nella rincorsa al ruolo di Mosca, mentre in Siria ormai era preda di una divampante guerra per procura tra Stati, Washington prima con Obama poi con Trump ha contribuito a bombardare, anche coi droni, lo Stato islamico dall’alto; gli “scarponi a terra” di un centinaio di forze speciali Usa, finite a coabitare con i i curdi dell’Ypg, sono il residuo di questa ambigua storia. Una ambiguità che Trump, sovranista e isolazionista, ha alla fine rotto con la decisione del “ritiro” che altro non è che l’autorizzazione all’alleato atlantico Erdogan - nel timore che finisse definitivamente nelle braccia di Putin - ad avere, dopo tante promesse occidentali, la sua fetta di torta siriana: la zona cuscinetto per il controllo “turcomanno” dell’area, dove cominciare a riversare il serbatoio di profughi che gli abbiamo delegato, previo pagamento di più di 6 miliardi di euro. Così suona quantomeno complice la richiesta congiunta di Conte e del segretario della Nato Jens Stoltenberg, di “avere moderazione”. Erdogan ha mano libera, è il nostro debito estero di guerre occidentali, può insanguinare ancora di più la Siria e fare terra bruciata dell’esperienza rivoluzionaria del Rojava; tanto più che la Turchia è il “baluardo sud” della Nato; e se un esercito Nato muove alla guerra a quanto pare gli alleati si limitano a chiedere, complici, “moderazione”. Come finirà questa immane “pugnalata alla schiena” dei curdi che l’Occidente ha allestito con il killer assoldato che si chiama Erdogan, stavolta davvero dipenderà anche dalla nostra capacità di mobilitazione.