Presentate 39 interrogazioni bipartisan sulle prigioni italiane di Valentina Stella Il Dubbio, 10 ottobre 2019 Redatte dal Partito Radicale dopo le visite di Ferragosto in 70 istituti. Sono 39 le interrogazioni redatte dal Partito Radicale e presentate da parlamentari di vari schieramenti dopo l’iniziativa “Ferragosto in carcere”, durante la quale 278 tra dirigenti e militanti del Partito, avvocati dell’Unione Camere Penali, deputati, senatori e Garanti delle persone private delle libertà personali hanno visitato 70 luoghi di detenzione dal 15 al 18 agosto. Ieri, presso la sala stampa della Camera, sono stati illustrati in sintesi gli atti di sindacato ispettivo indirizzati sia al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che a quello della Salute Roberto Speranza. Il quadro che emerge è quello di carceri sovraffollate, dove sono in aumento i suicidi e azioni di autolesionismo dei reclusi. La situazione è aggravata dalla carenza di agenti di polizia penitenziaria, educatori e psicologi. A ciò si aggiunge l’insufficienza di attività educative o lavorative, per non parlare delle gravissime condizioni sanitarie che coinvolgono soprattutto i malati psichici. I visitatori non hanno poi potuto non notare come in molte celle manchi l’acqua calda, il riscaldamento e i wc siano a vista e spesso a vista e alla turca, e nei bagni non ci siano né finestre né sistemi di areazione. Tutto ciò pregiudica gravemente la rieducazione dei detenuti, come previsto dalla Carta costituzionale. Per Maurizio Turco, segretario del Partito Radicale, “ogni detenuto non rieducato rappresenta un fallimento dello Stato”. La tesoriera Irene Testa ha sottolineato come “la forza e l’alterità del partito sta proprio nell’unire diverse forze politiche intorno al tema delle carceri e delle problematiche dell’intera comunità penitenziaria, detenuti e detenenti, come amava ripetere Marco Pannella”. Ed infatti all’incontro di ieri erano presenti parlamentari di varie forze politiche, a partire dal deputato di Forza Italia Roberto Cassinelli: “Dalla XVI legislatura tutti i ministri della Giustizia hanno usato parole di grande attenzione per il tema ma i passi in avanti sono stati davvero pochi”. Il suo collega di partito, Roberto Bagnasco, ha “invitato tutti i colleghi a visitare almeno una volta un carcere per rendersi conto che in molti vivono in condizioni disumane”. Il deputato di Italia Viva Roberto Giachetti ha, invece, evidenziato un dato importante: “In questo momento nelle nostre carceri ci sono addirittura oltre 10.000 detenuti in attesa di primo giudizio” a cui vanno aggiunti oltre 9. 300 persone senza una condanna definitiva. L’onorevole Manuela Gagliardi della componente 10 Volte Meglio del Gruppo Misto ha ricordato come “oggi si sottovaluti che la pena deve consistere solo nella privazione della libertà e non in altre lesioni di diritto”. La senatrice pentastellata Cinzia Leone, che ha visitato le carceri siciliane si è detta fiduciosa che il “ministro Bonafede possa accogliere in maniera adeguata le esigenze espresse dai detenuti e dagli agenti”. Se il governo accoglierà e si adopererà per fronteggiare la drammatica situazione è difficile da ipotizzare ma un punto fermo lo fornisce Rita Bernardini, del Consiglio generale del Partito Radicale, che richiama puntualmente il regolamento parlamentare in merito alle interrogazioni a risposta scritta: “Secondo l’articolo 134 di quello della Camera il governo deve dare la risposta all’interrogazione entro venti giorni dalla sua presentazione. Se il governo non fa pervenire la risposta nel termine previsto, il Presidente della Camera, a richiesta dell’interrogante, pone senz’altro l’interrogazione all’ordine del giorno della seduta successiva della Commissione competente. Stessa tempistica in Senato dove però, se non viene rispettato il termine dei 20 giorni, il Presidente di Palazzo Madama dispone che l’interrogazione venga iscritta, per la risposta orale, all’ordine del giorno della prima seduta dell’Assemblea destinata allo svolgimento delle interrogazioni, o della prima seduta della Commissione competente per materia”. Dunque gli strumenti ci sono, basta farli rispettare, come la legalità nelle carceri. Carceri, educatori penitenziari in stato di agitazione Giornale di Sicilia, 10 ottobre 2019 Educatori penitenziari in stato di agitazione. A proclamarlo è stata l’Anft, associazione che raggruppa e rappresenta i funzionari del trattamento, come tecnicamente vengono chiamati gli educatori che si occupano della riabilitazione sociale dei detenuti nelle carceri italiane. L’associazione chiede che agli educatori vengano riconosciute le stesse indennità e un ruolo equiparato a quello dei poliziotti penitenziari, dato che “condividiamo lo stesso luogo di lavoro, dunque gli stessi rischi e pericoli”, dice il presidente dell’Anft, Stefano Graffagnino. “Ormai da diversi mesi è in corso un fitto dialogo tra l’Anft ed i vertici politici e di alta amministrazione del Dap rispetto alla necessità di istituire all’interno dell’organico del corpo di Polizia penitenziaria, un ruolo tecnico che comprenda i funzionari del trattamento - spiega Graffagnino. Nell’ambito del Tavolo sul Riordino delle carriere delle forze di polizia, la stessa Amministrazione Penitenziaria ha proposto e ribadito tale necessità, consapevole del valore aggiunto che i Funzionari del Trattamento potrebbero apportare al lavoro del Corpo di Polizia Penitenziaria, proprio per la specificità del loro ruolo. Tuttavia, senza che sia stata resa nota alcuna motivazione o proposta soluzione alternativa, le altre componenti del Tavolo hanno ritenuto di non accogliere tale proposta, con grave pregiudizio per chi si trova quotidianamente in prima linea all’interno degli istituti penitenziari e per la funzionalità dell’esecuzione penale intramuraria”. “Un accoglimento di quanto prospettato, oltre a rispondere ad un interesse pubblico per il raggiungimento del mandato costituzionale riguardante l’effettività della funzione rieducativa della pena - sottolinea il presidente di Anft - comporterebbe un adeguato riconoscimento giuridico ed economico del ruolo dei funzionari giuridico pedagogici, che con la loro specificità rappresentano ad oggi il perno attorno cui ruota tutta l’esecuzione penale intramuraria, proprio per i compiti loro assegnati rispetto alle funzioni della pena ed in particolare di quella rieducativa, così come all’articolo 27 del nostro dettato Costituzionale”. “Appare dunque innegabile come la natura complessa dei compiti oggi attribuiti ai funzionari giuridico pedagogici, la particolarità dello svolgimento degli stessi all’interno degli istituti penitenziari, i rischi connessi e la responsabilità sociale legata all’esercizio di tale ruolo, dovrebbe essere riconosciuta attraverso un trattamento giuridico ed economico ben diverso dall’attuale e nettamente al di sotto di tutti gli standard europei. Si auspica quindi - conclude Graffagnino - che lo stato di agitazione della categoria, possa essere utile a svegliare le coscienze e che si possa così addivenire all’accoglimento delle nostre richieste”. Ergastolo: diritto certo, non resa ai boss di Danilo Paolini Avvenire, 10 ottobre 2019 Guardatevi intorno. Li vedete? Sono centinaia di boss mafiosi e terroristi tornati in libertà dopo la conferma della sentenza della Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo sull’ergastolo ostativo previsto dall’ordinamento penitenziario italiano. Non li vedete? In effetti non potete, perché quel verdetto non aveva lo scopo né il potere di scarcerare nessuno. Eppure a leggere i titoli urlati di molti giornali e le dichiarazioni (ormai altrettanto urlate, se non di più) della gran parte dei politici, ministri e parlamentari, il rapporto di causa-effetto sembra certo: tana libera tutti, l’Italia ha definitivamente perso la guerra contro la mafia e contro il terrorismo. Circolano già liste di nomi tristemente celebri che starebbero per uscire dal portone della prigione. Ogni cosa è perduta. Ne sono convinti, e ce lo spiegano, persino noti giuristi e stimati magistrati, in servizio o a riposo. Del resto, era stato proprio il governo italiano a ricorrere contro la sentenza emessa a giugno dalla Corte di Strasburgo. Per dare un contributo al dibattito in corso, avremmo preferito sinceramente attendere la decisione della Corte costituzionale italiana sulla medesima materia. Ma il clamore e l’allarme seguiti alla pronuncia inducono a una riflessione. Scrivere queste righe, per altro, è come remare contro corrente, con pochi compagni di viaggio (cappellani, avvocati penalisti, radicali) e però, tra i pochi, un campione dell’umanesimo integrale: Papa Francesco. È stato lui a definire l’ergastolo una “pena di morte nascosta”. Una pena fino alla morte. E ancora lui, un mese fa, ricevendo proprio il personale dell’Amministrazione penitenziaria italiana, ha ricordato che il compito del carcere è di indurre chi ha sbagliato a “prendere coscienza del male compiuto” per favorire “prospettive di rinascita per il bene di tutti”. Mentre “l’ergastolo non è la soluzione dei problemi, ma un problema da risolvere”, perché “se si chiude in cella la speranza, non c’è futuro per la società”. Ciò che i giudici del Consiglio d’Europa hanno detto al nostro Paese è: l’ergastolo ostativo - quello che nega a chi non ha collaborato con la giustizia la possibilità di chiedere, dopo un certo numero di anni di reclusione, benefici come il lavoro esterno o la semilibertà - è un trattamento inumano. Del resto, già l’ergastolo in sé è in contraddizione con l’articolo 27 della nostra Costituzione, laddove stabilisce che le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato”. Una contraddizione attenuata, appunto, dalla possibilità di un reinserimento, seppure parziale, nella società. Ma secondo l’associazione “Nessuno tocchi Caino”, gli ergastolani ostativi sono 1.250 su un totale di 1.790. Tutti irrecuperabili? Tutti capi della mafia? Tutti terroristi intenzionati a riprendere la lotta armata? La realtà è che collaborare con la giustizia non sempre è una libera scelta. Può non essere possibile per diversi motivi. Per esempio perché la propria famiglia è esposta a ritorsioni. O perché, da “manovali” della criminalità, non si hanno informazioni utili. Oppure, ancora, perché i propri compagni di crimine sono morti o già “dentro”. E può perfino darsi, pensate un po’, che uno sia condannato da innocente e che perciò non abbia proprio nulla da riferire. Ma come si può automaticamente escludere che il detenuto non “pentito” sia cambiato, sia oggi un uomo, una donna, differente rispetto a colui o a colei che si macchiarono del sangue altrui? Meglio che a farlo, come per gli altri ergastolani, sia il giudice di sorveglianza, valutando per ciascun richiedente vicende umane, condotta, circostanze. Tutto qui. Non sarebbe un passo indietro per la certezza della pena, ma un passo avanti per la certezza del diritto. Sarebbe senz’altro più difficile, laborioso, delicato, rispetto al “chiudere la cella e buttare via la chiave” che va tanto di moda. Purché la cella sia quella di qualcun altro, ovvio: tutti i populismi, anche quello giudiziario, prevedono due pesi e due misure. Sì, dunque, sarebbe più difficile valutare persona per persona. Ma proprio per questo è necessario e sarebbe più giusto. La sentenza europea non modificherà il regime del 41bis di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 10 ottobre 2019 Ogni discussione tra tesi contrapposte richiede il rispetto per i fatti. E ciò che è mancato nel caso della recente sentenza della Corte europea dei diritti umani, da parte di diversi commentatori, anche specialisti della materia, che sembra non abbiano letto la sentenza. Il risultato è disinformazione grave, che getta allarme in materia di lotta alla mafia (“La mafia ringrazia”) e delegittima il sistema di protezione europea dei diritti umani (“Quei giudici non sanno cosa sia la mafia”). Va dunque innanzitutto precisato che la sentenza non riguarda il regime dell’art. 41bis della legge penitenziaria, che tra l’altro esclude i detenuti cui viene applicato da contatti con l’esterno, contatti con altri detenuti, ecc. allo scopo di interrompere le loro comunicazioni con gli ambienti criminosi da cui provengono. Anzi, la Corte europea, proprio perché avvertita della natura della mafia, ha più volte dichiarato che quel regime restrittivo non è inumano ed è giustificato dallo scopo di prevenzione del crimine. Il ricorso di un ergastolano in carcere da vent’anni perché condannato per gravi reati di mafia ha dato occasione alla Corte europea di esaminare la legge penitenziaria del 1975 e i suoi articoli 4bis e 58-ter introdotti nel 1992. Tali norme riguardano tutti i condannati a pena detentiva, anche diversa dall’ergastolo, per una serie eterogenea di reati (da quelli associativi di stampo mafioso o terroristico o relativi agli stupefacenti, a molti altri come per esempio quelli contro la pubblica amministrazione, o di violenza sessuale, ecc.). Quei condannati nel corso della detenzione sono esclusi dalla possibilità di accesso a benefici penitenziari, come i permessi di uscire, il lavoro all’esterno del carcere, la liberazione condizionale (per gli ergastolani dopo 26 anni di detenzione) e le misure alternative alla detenzione, salvo che collaborino con le autorità per la ricostruzione dei fatti e l’identificazione di altri responsabili. Si tratta di una condizione rigida, che non consente al Tribunale di Sorveglianza di valutare complessivamente l’esito del percorso rieducativo che il detenuto ha compiuto in carcere e quindi concedere o negare benefici. La Corte ha ritenuto che il rifiuto di collaborazione è certo significativo, tuttavia in concreto può non essere sintomo inequivoco di perdurante affiliazione all’associazione criminosa, ma essere invece effetto della paura di ritorsioni che potrebbero subire anche i famigliari e che viceversa una collaborazione potrebbe essere puramente opportunistica e non escludere la pericolosità del condannato. La mancanza della possibilità di accertamento da parte del giudice è la ragione della valutazione negativa della Corte europea. L’adeguamento della legge italiana alla sentenza europea potrà semplicemente porre fine all’automatismo e rimettere il giudizio al Tribunale di Sorveglianza. Fine dell’automatismo, come ha precisato la Corte, non significa affatto ammissione del detenuto ai benefici. Nello stesso senso d’altra parte si era già espressa anni orsono una commissione di studio del Ministero della giustizia. Nulla di drammatico dunque. Semplicemente un adeguamento alle legislazioni presenti negli altri Paesi europei. Da anni ormai la Corte europea, sulla base dell’orientamento prevalente in Europa di dare spazio alla finalità della pena e promuovere la risocializzazione del detenuto, ha sanzionato quei sistemi che, con esclusioni automatiche come quella italiana, negavano ogni rilevanza ai progressi compiuti dal condannato nel corso degli anni di carcere. E quei sistemi si sono adeguati senza drammi. Il caso più evidente è la pena dell’ergastolo, ma il principio riguarda tutte le pene detentive. Non è solo la Convenzione europea dei diritti umani, ma prima ancora la Costituzione che stabilisce che le pene devono tendere alla rieducazione del reo. Di tutti i rei. La concessione o la negazione dei benefici sono strumenti efficaci di accompagnamento del processo di rieducazione. Negare rilevanza al complessivo atteggiamento del detenuto nel corso dell’esecuzione della pena, o vincolarla a condizioni rigide e automatiche, impedisce l’opera di rieducazione. Se non serve a niente, a che pro impegnarsi? Lo hanno affermato sia la Corte europea, sia in passato anche la Corte costituzionale, che a sua volta prossimamente dovrà valutare la costituzionalità delle norme che la Corte europea ha ritenuto in contrasto con la Convenzione europea dei diritti umani. Ergastolo: rigore, dignità, speranza. Ciò che i giudici della Cedu hanno detto di Mario Chiavario Avvenire, 10 ottobre 2019 No, non è un cedimento postumo al ricatto di un “papello” di Totò Riina la conferma della censura della Corte europea dei diritti umani (Cedu) per l’“ergastolo ostativo”. Non è vero, insomma, che d’ora in poi mafiosi e terroristi, camorristi e ‘ndranghetari, saranno sicuri di fruire comunque, prima o poi, di “benefici” come permessi e semilibertà, fino alla liberazione condizionale dopo ventisei anni di espiazione carceraria, che l’art. 4bis della legge penitenziaria ha finora precluso a coloro i quali, condannati in quanto rientranti in tali categorie, non prestino “collaborazione” con la giustizia. Sono dunque del tutto infondate le preoccupazioni immediatamente espresse o ribadite da valorosi magistrati o ex magistrati da sempre impegnati con rigore e competenza in indagini sulla criminalità organizzata? Un’altra volta si deve rispondere di no. E meno ancora si può rimanere insensibili allo sconcerto di persone come la vedova dell’agente Vito Schifani quando non a torto ricorda, a confronto del carcere perpetuo per boss ed esecutori spietati, l’“ergastolo a vita” inflitto a lei nella primavera del 1992 con la strage di Capaci. Molto, però, dipende da una integrale lettura di ciò che la Corte europea ha davvero detto e voluto dire e che è in parte diverso da ciò che qualcuno attribuisce o addebita al collegio giudicante; e subito dopo dipende dalla capacità del nostro Stato di rispondere in modo puntuale - senza isterismi, senza arroganze, senza applicazioni esorbitanti - al messaggio europeo. E qui sono in molti a essere chiamati in causa, ciascuno nel suo ambito: i detentori del potere legislativo, cui si rivolge direttamente, per una riforma della legge vigente, la Corte stessa; prima ancora la nostra Corte costituzionale, che il 22 ottobre dovrà pronunciarsi su questioni in larga parte ricalcate su quella affrontata a Strasburgo; ma inoltre, e soprattutto, i giudici di sorveglianza, che dovranno esaminare vecchie e nuove istanze presentate da persone sottoposte a quella forma di ergastolo. Anzitutto, dunque, non si faccia dire ai giudici di Strasburgo ciò che non hanno detto. A essere giudicato inumano è stato l’inderogabile automatismo normativo tra il rifiuto di “collaborazione” e l’assoggettamento al regime del “fine pena mai”, in quanto tale da avvilire la dignità delle persone, e da spegnere ogni speranza di ritorno a una vita “diversa”, sulla base di una presunzione di permanente pericolosità che non potrebbe definirsi assolutamente incontrovertibile. Ma è la Corte stessa a precisare che dalla sua pronuncia non consegue affatto il riconoscimento di un diritto del detenuto sollevato da quel regime ad essere messo necessariamente in libertà. Né viene svilito il ruolo che le “collaborazioni” (di giustizia) hanno avuto e possono avere tuttora come preziosi strumenti d’indagine. Indubbiamente esce accentuata la responsabilità dei tribunali di sorveglianza. Senza più lo “scudo” di quella presunzione assoluta di pericolosità, spetterà loro valutare in concreto - come in ogni altro caso, compresi quelli di ergastolo “ordinario” - se persista o no la pericolosità del condannato (oggettivamente altissima in radice per la gravità dei crimini commessi), se e quando maturerà il tempo per un’eventuale concessione di questo o quel “beneficio”. Ma non è affatto detto che quella mancata “collaborazione” non debba più pesare per nulla. A un automatismo non se ne deve sostituire uno di segno opposto; e, se ce ne fosse bisogno per orientare i giudici, dal Parlamento e magari, già tra pochi giorni, da Palazzo della Consulta potrebbe venire qualche precisa indicazione in tal senso: per esempio, precisandosi esplicitamente che il rifiuto di collaborare, se non può essere di per sé motivo preclusivo a quella concessione, continua però a poter avere rilievo, se del caso anche decisivo, ai fini di una risposta negativa alla richiesta del condannato; e gli accertamenti e le valutazioni, proprio per la caduta di quello scudo, dovranno tendere a essere di particolare rigore. Per tutti noi, l’emersione di una realtà niente affatto marginale (l’“ergastolo ostativo” coinvolge più di mille persone), ma che troppo pochi conoscevano e la svolta impressa dalla Cedu dovrebbero comunque far riflettere parecchio, senza soggiacere all’alternativa tra la condivisione dei truculenti appelli al far “marcire in galera” e un ingenuo indulgenzialismo senza limiti. La strada la possono indicare proprio i valori della speranza e della dignità che stanno alle base di queste pronunce di Strasburgo. Speranza e dignità da non spegnere in nessuno e anzi da aiutare a risvegliare in chi possa averle smarrite. Speranza e dignità cui si richiama tanto spesso anche papa Francesco, non senza dedurne una contrarietà radicale al “fine pena mai”. Speranza e dignità che tuttavia non debbono trasformarsi in fonti di abusi finalizzati al ritorno nel mondo del crimine o addirittura al mantenervi o riconquistarvi posizioni di dominio. Perché l’Europa può aiutare l’Italia a rendere il carcere meno ostile alla nostra Costituzione di Giovanni Fiandaca Il Foglio, 10 ottobre 2019 Il tema dell’ergastolo cosiddetto ostativo pone sul tappeto questioni complesse e controverse, rispetto alle quali le opinioni si contrappongono non solo nell’orizzonte politico e nella pubblica opinione, ma persino all’interno della stessa magistratura. E’ giustificato o no che i condannati all’ergastolo per gravi reati di criminalità organizzata (politica o terroristica) possano accedere ai benefici penitenziari, e infine alla liberazione condizionale, soltanto a condizione che collaborino con la giustizia? Un interrogativo come questo, oltre a riguardare l’interpretazione delle norme costituzionali e convenzionali a tutela dei diritti umani, coinvolge la grande questione del senso e degli scopi della pena nella realtà contemporanea. Una questione a sua volta assai complessa e non poco divisiva, che nel dibattito corrente viene di solito lambita in termini superficiali e alquanto emotivi, ma che per fortuna riceve ben altro approfondimento da parte dei giuristi e dei giudici più illuminati. Sicché, oggi forse ancor più di ieri si avverte l’esigenza di rendere accessibili e comprensibili alla gente comune i discorsi sulla pena sviluppati dalla dottrina e dalla giurisprudenza più evolute. Invero, per contestare la legittimità dell’ergastolo ostativo si può fare a meno di iniziare col citare la ormai nota sentenza della Corte di Strasburgo sul caso del capocosca Francesco Viola (resa lo scorso 13 giugno e divenuta definitiva l’8 ottobre in seguito alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso del governo italiano da parte della Grande camera), sulla quale comunque tornerò. Piuttosto, basterebbe prendere le mosse dalla Costituzione italiana, il riferimento ai cui princìpi - se letti senza preconcette limitazioni o eccessive timidezze - potrebbe risultare già sufficiente allo scopo. A cominciare dal principio del finalismo rieducativo della pena e dal connesso divieto di trattamenti contrari al senso di umanità (entrambi sanciti dall’art. 27, comma 3), che insieme estendono al settore penale quella duplice istanza personalistica e solidaristica che più in generale connota una Costituzione come la nostra. Da qui, un duplice messaggio rivolto agli stessi cittadini. Primo: anche il delinquente (a prescindere dal tipo di reato commesso e dal livello di pericolosità) è titolare di una dignità umana inalienabile, che va il più possibile protetta pure durante l’esecuzione della pena. Secondo: nessun uomo è perduto per sempre, e quindi anche ogni delinquente è potenzialmente capace di miglioramento grazie a interventi di tipo rieducativo. La Costituzione, dunque, rispecchia una visione antropologica non pessimistica, ma aperta per ogni essere umano alla speranza di possibili miglioramenti futuri. Ora, sviluppando queste premesse con coerenza e rigore, si può giungere al punto di considerare poco compatibile con la Costituzione non solo l’ergastolo ostativo, ma più radicalmente l’ergastolo in ogni sua forma. Una conclusione, questa, tutt’altro che assurda o bizzarra specie se si considera che la pena perpetua è stata abolita in non pochi ordinamenti contemporanei, e le relative società mostrano ciononostante di continuare a ben sopravvivere. Se così è, c’è allora da chiedersi come abbia fatto la nostra Corte costituzionale a salvare finora l’ergastolo dalle eccezioni di costituzionalità più volte sollevate, e ciò a dispetto sia del suo sicuro contrasto col principio di rieducazione (la quale va infatti intesa come acquisizione della capacità di rispettare le leggi tornando a vivere nella realtà esterna, e non già come mero ravvedimento interiore nel chiuso di un carcere), sia della sua plausibile qualificazione in termini di trattamento contrario al senso di umanità (una pena senza fine, privando di ogni speranza la prospettiva esistenziale del condannato e rinnegando la possibilità di una sua risocializzazione, può infatti - alla stregua dell’evoluzione della sensibilità collettiva - essere percepita come offensiva della dignità umana). In estrema sintesi, questo salvataggio è stato operato sulla base di argomenti non irresistibili, che possiamo riassumere in forma semplificata così. Per un verso, la presa d’atto della progressiva erosione del carattere perpetuo dell’ergastolo per effetto della sua inclusione legislativa prima nell’area di applicazione della liberazione condizionale (sin dal 1962), e successivamente dei vari benefici previsti dalle leggi di riforma dell’ordinamento penitenziario (lavoro all’esterno, permessi-premio, semilibertà) e concedibili sulla base dei progressi compiuti dal condannato nell’ambito del percorso rieducativo intrapreso durante la detenzione. Per altro verso, facendo leva sulla tradizionale concezione polifunzionale della pena, che valorizza la finalità rieducativa senza assegnarle un ruolo preminente, ma considerando scopi altrettanto importanti della punizione la difesa della società dalla delinquenza e altresì la repressione dei reati in chiave retributiva. Solo che l’evoluzione più recente della giurisprudenza costituzionale tende in verità a superare la concezione suddetta, riconoscendo alla rieducazione un rango decisamente prioritario come si desume, da ultimo, dalla affermazione del “principio della non sacrificabilità della funzione rieducativa sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena” (emblematica in questo senso la sent. n. 149/2018). Passiamo, a questo punto, dal problema generale dell’ergastolo in sé a quella forma più specifica di ergastolo definito “ostativo”, previsto nel 1992 dopo l’assassinio di Giovanni Falcone per i mafiosi e i terroristi (ma poi irragionevolmente esteso ad autori di reati disomogenei di altra natura!) e la cui particolarità - come già detto - consiste in questo: la sua perpetuità non si interrompe (come nel caso dell’ergastolo comune) grazie ai soli progressi compiuti dal condannato sulla strada del ravvedimento, ma necessita di un presupposto ulteriore costituito appunto dalla collaborazione giudiziaria. Perché? Ciò si spiega con la preoccupazione emergenziale, successiva alla strage di Capaci, di contrastare la contingente escalation della criminalità mafiosa con strumenti repressivi drastici e il più possibile funzionali alla prevenzione generale e alla difesa sociale. Ecco che, proprio allo scopo ultimo di scompaginare le organizzazioni mafiose, il legislatore ha preteso che i mafiosi ergastolani per vedersi aprire le porte del carcere non possono limitarsi a una dissociazione psicologica dalla mafia, ma devono altresì collaborare con lo Stato rendendo dichiarazioni utili alla repressione giudiziaria delle mafie. Così, l’ergastolano viene sottoposto a una pressione psicologica finalizzata allo smantellamento delle associazioni criminali: egli si trova cioè di fronte all’alternativa di rimanere a vita in carcere serbando il silenzio, o di potere in prospettiva riconquistare la libertà denunciando i reati di altri mafiosi. E’ legittimo questo meccanismo di ricatto psicologico? I magistrati antimafia ne rivendicano con forza la legittimità, insieme a una parte significativa delle attuali forze di governo, continuando a elevare a obiettivo prioritario l’efficacia della lotta contro il fenomeno mafioso. In aggiunta, le vittime di mafia avvertono come ingiusto, sul piano di una giustizia retributiva, che un mafioso possa sottrarsi all’ergastolo senza scampo pur rifiutando la collaborazione giudiziaria. Sennonché, la lotta contro le mafie non può essere assolutizzata come interesse supremo, addirittura sino al punto di bollare come teoria astratta o preoccupazione di “anime belle” il rispetto di princìpi e diritti che il costituzionalismo nazionale ed europeo oggi impone di tutelare in misura maggiore che in passato. Quanto poi ai sentimenti delle vittime, non sarà certo l’estremo rigore di una pena congegnata per favorire la collaborazione o declinata in chiave fortemente retributiva a sanarne davvero i traumi e le ferite. Gli studi di psicologia della vittima attestano che essa ha bisogno di ben altro per elaborare il lutto delle ingiustizie sofferte. A ben vedere, l’ergastolo ostativo va incontro a più obiezioni per le seguenti ragioni. Esso, ancor più dell’ergastolo comune, contrasta col principio rieducativo: la indisponibilità a collaborare con la giustizia non è infatti un indicatore certo e univoco di mancato ravvedimento; il mafioso può rifiutare di collaborare per il timore di esporre se stesso o propri famigliari al pericolo di ritorsioni o per la indisponibilità morale a scambiare la propria libertà con quella di altri. Ma vìola, altresì, il diritto alla libertà morale (inviolabile in base all’art. 2 Cost.) proprio perché la scelta tra collaborare e non collaborare avviene sotto la forte pressione psicologica dell’alternativa tra segregazione perpetua e possibilità di tornare liberi. Ancora, si profila un contrasto col diritto di difesa sotto forma di diritto al silenzio. E, infine, si può contestare la compatibilità col principio costituzionale di umanità della pena (per approfondimenti cfr. il recente e importante volume collettivo “Il diritto alla speranza. L’ergastolo nel diritto penale costituzionale”, Giappichelli, 2019). Dal canto suo, la Corte di Strasburgo ha bocciato l’ergastolo ostativo in base alla prevalente motivazione che esso contrasta con l’art. 3 della Convenzione europea (divieto di trattamenti inumani e degradanti), dal momento che “limita eccessivamente la prospettiva di rilascio dell’interessato e la possibilità di riesame della pena”. Una conclusione condivisibile, questa, che non potrà non incidere sulla presa di posizione della nostra Corte costituzionale nel caso dell’ergastolano Sebastiano Cannizzaro attesa il prossimo 22 ottobre. “Così ho vinto la battaglia contro il fine pena mai” di Andrea Priante Corriere di Verona, 10 ottobre 2019 A 58 anni, la veronese Antonella Mascia è l’avvocato che ha seguito il caso del mafioso Marcello Viola di fronte alla Corte europea dei diritti dell’Uomo. Già nel giugno scorso, Strasburgo le aveva dato ragione: gli articoli 4bis e 58ter dell’ordinamento penitenziario (che vietano permessi e semilibertà a chi non collabora con la Giustizia) violano i diritti umani. Ora la Grande Chambre ha respinto l’opposizione dell’Italia, che chiedeva un nuovo giudizio. Capitolo chiuso, e il nostro Paese dovrà tenerne conto. Piaccia o meno la decisione dei giudici, resta che a discutere di diritti dei detenuti con questa donna - una pasionaria alla Erin Brockovich - si finisce con l’affrontare temi molto più ampi, compresa la difficoltà che incontrano tantissime donne a coniugare figli e carriera. Ma prima della vita privata, ci sono gli echi delle polemiche scatenate dalla decisione della Grande Chambre. E l’avvocato Mascia sembra voler subito ribattere a chi l’accusa di aver fatto un favore ai boss della criminalità organizzata. “La mafia è una cosa orribile. Ma uno Stato civile non può fare delle leggi che calpestano la dignità delle persone, decidendo a priori che “se un criminale non collabora allora è pericoloso”. E se non lo facesse perché è innocente? Oppure per il timore di ritorsioni? Senza contare che c’è chi entra nel programma di collaborazione solo per ottenere sconti di pena. Insomma, pentiti e redenti non sempre coincidono”. Dicono che se un giorno alcuni criminali come il boss Leoluca Bagarella o la brigatista Nadia Lioce otterranno dei permessi premio, la colpa sarà soltanto sua... “Già. Mi ha sorpreso la superficialità di alcuni commenti politici, ma anche il livore dimostrato da alcuni giuristi che sembrano voler soffiare sulla paura, invece di fare chiarezza”. Doveva metterlo in conto: in fondo ora l’Italia dovrà modificare l’ergastolo ostativo, che è il cardine della lotta alla mafia... “Il timore è che senza lo spauracchio del “fine pena mai”, i mafiosi non collaboreranno più. In realtà non esiste alcun automatismo: semplicemente all’ergastolano andrà riconosciuto il diritto di chiedere permessi premio o altri benefici. Se accogliere o meno questa domanda, però, lo deciderà il giudice: nel caso rappresenti ancora un pericolo per la società, il detenuto rimarrà in carcere. Insomma, è stata una battaglia per garantire dei diritti, non per conquistare dei privilegi”. Ne è valsa la pena? “Certo. E vedrà che prima o poi lo capiranno” Capiranno che cosa? “Che ho reso un grande servizio al mio Paese”. Come c’è finita un’avvocatessa veronese a combattere al fianco di un condannato per mafia? “Mi interessava la sua battaglia. Ormai da tempo mi sento libera di occuparmi esclusivamente di cause legali che riguardano i diritti civili, la salvaguardia dell’ambiente, la salute...”. Un’idealista... “Sì, mi batto per degli ideali. Quando lavoravo a Verona mi occupavo di tutelare i diritti dei migranti per conto della Cgil ed ero l’avvocato di Legambiente. Oggi che ho uno studio a Strasburgo faccio causa allo Stato per non aver impedito l’avvelenamento della Terra dei Fuochi, mi occupo di maltrattamenti da parte delle forze dell’ordine e di come portare di fronte alla Corte europea l’inquinamento da Pfas che ha colpito il Veneto”. Perché proprio Strasburgo? “Perché sento di poter fare la differenza. Le sentenze della Corte europea incidono sulla vita di milioni di persone. E poi perché qui riesco a coniugare lavoro e vita privata”. A Verona non ci riusciva? “L’Italia ha ancora tanta strada da fare sul fronte del diritto di vivere appieno l’essere genitore. Nel 2000 mi sono ritrovata di fronte a un’evidenza: realizzarmi professionalmente significava dover trascurare il mio bambino, non potergli stare accanto e guidarlo nella crescita come avrei voluto. Insomma, non riuscivo a fare bene sia la mamma che l’avvocato. Così, quando mio marito ha ricevuto la proposta di lavorare in Francia, ho accettato di seguirlo”. Ha ricominciato da zero... “Per un anno e mezzo mi sono concentrata sulla famiglia. Poi è arrivata l’opportunità di uno stage di tre mesi alla Corte europea dei diritti dell’Uomo. Avevo 42 anni e gli altri stagisti erano tutti giovanissimi. Me la sono cavata bene e sono arrivati dei contratti a tempo determinato. Lì ho capito quanto sia importante l’Europa e il suo apparato giudiziario”. Quando è tornata a indossare la toga? “Mentre lavoravo ho cominciato ad approfondire gli argomenti di cui mi occupavo tutti giorni. Così ho conseguito un master in Diritto internazionale e Diritti dell’Uomo, presso l’Università Shuman di Strasburgo. Giorno dopo giorno, sentivo il bisogno di mettere a frutto ciò che stavo imparando. Tradotto: ho capito di voler tornare a fare l’avvocato. Ci sono riuscita nel 2010, quando ormai ero sulla soglia della cinquantina: ho aperto il mio ufficio legale a Strasburgo, iniziando a collaborare con alcuni studi in Italia”. Oggi riesce a conciliare l’essere una mamma e un avvocato? “Ora mio figlio è un adulto e io riesco a dedicare molto più tempo al lavoro. Ma intanto ho imparato a bilanciare le esigenze personali e quelle professionali. Spero che altre colleghe ci riescano. Anche in Italia”. Annamaria Torre: “Non si può dimenticare il dolore delle vittime della violenza mafiosa” di Gigi Di Fiore Il Mattino, 10 ottobre 2019 “Ho perso mio padre per decisione di Cutolo. Ai mafiosi è già data la possibilità di pentirsi”. Da quell’undici dicembre del 1980 sono passati 39 anni, ma la ferita aperta in lei da quel dolore non si è mai sanata. Quel giorno, Annamaria Torre perse il padre, l’avvocato Marcello sindaco di Pagani, ucciso da due killer della Nuova camorra organizzata cutoliana. L’agguato mortale fu un avvertimento preventivo della Nco, in vista della gestione dei fondi del dopo-terremoto. Per quell’omicidio, è stato condannato all’ergastolo Raffaele Cutolo ritenuto il mandante della spedizione di morte. Uno degli esecutori, Francesco Petrosino, condannato a sedici anni, è diventato collaboratore di giustizia. Annamaria, che cosa ha pensato alla notizia della sentenza decisa dalla Grande Camera di Strasburgo? “Ho percepito quel provvedimento come un attacco al nostro dolore, un successo dei mafiosi in carcere, che da anni tentano di modificare quell’articolo delle norme antimafia che subordina la fine dell’ergastolo che stanno scontando alla loro collaborazione con la giustizia”. È toccata personalmente da questa decisione, perché anche Raffaele Cutolo potrebbe presentare ricorso puntando alla scarcerazione? “Cutolo è stato riconosciuto definitivamente nel 2002 mandante dell’omicidio di mio padre, ma la sentenza di Strasburgo non colpisce me, ma tutto il sistema di contrasto alle mafie. Le singole posizioni dei mafiosi che presenteranno ricorso contro l’ergastolo ostativo dovranno essere valutate dai giudici di sorveglianza. Potrebbero essere in molti a beneficiare di un’interpretazione meno rigida della legge antimafia”. Anche lei pensa che si rischia di depotenziare le armi giuridiche in possesso dei magistrati contro le mafie? “Sì, l’ergastolo ostativo è stata un’arma importante in questi anni. È storia criminale, che coinvolge lutti e dolori di intere famiglie. E poi, come ha ricordato don Tonino Palmese presidente di Polis, i mafiosi hanno una strada per evitare il fine pena mai”. Allude alla collaborazione con la giustizia? “Certamente, è la scelta prevista dalla legge. Una scelta fatta da molti, che ha permesso di sgominare interi gruppi mafiosi. Confido sempre che, anche dopo la decisione di Strasburgo, si mantenga il rispetto di una giurisdizione che non ignori le vittime delle mafie”. Molti giuristi sostengono che questa norma sia anticostituzionale perché non rispetta il principio della rieducazione della pena. Cosa ne pensa? “So che con questa tesi giuridica concordano molte associazioni impegnate a migliorare le condizioni carcerarie. Le rispetto, ma dico anche che non si può azzerare tutto, cancellando con un colpo di spugna la violenza delle mafie. E, lo dico ancora una volta, faccio un ragionamento generale anche se parto dalla mia esperienza di dolore personale. È una questione di giustizia, in un sistema giurisdizionale che aveva voluto anche Falcone”. Pensa che le norme antimafia italiane non abbiano bisogno di correttivi? “Sono convinta che le norme antimafia italiane siano tra le migliori del mondo, apprezzate da tanti altri Paesi. Vedo pericoli nella decisione di Strasburgo e, su questo, concordo con il presidente della commissione parlamentare antimafia, Nicola Morra”. Insomma niente modifica del fine pena mai per i mafiosi? “I mafiosi, se lo vogliono, hanno la strada della collaborazione con la giustizia per evitare di restare in carcere per sempre. La strada c’è ed era stata individuata dall’approvazione delle norme. Una strada che ha aiutato in tutti questi anni le indagini sui gruppi mafiosi”. Ergastolo ostativo e “mafiosi che ora escono dal carcere”: perché non c’è nessun allarme di Violetto Gorrasi today.it, 10 ottobre 2019 Intervista a Patrizio Gonnella (Presidente dell’Associazione Antigone). Gli scenari dopo la sentenza della Corte europea dei diritti umani, che ha invitato il governo italiano a rivedere la pena più dura prevista nel nostro ordinamento penitenziario. La Grande camera della Corte europea dei diritti umani ha respinto il ricorso presentato dall’Italia contro una sentenza del 13 giugno 2019 (qui nel dettaglio): con quella decisione, che riguardava il caso del boss di ‘ndrangheta Marcello Viola, i giudici di Strasburgo hanno stabilito che la condanna al carcere a vita “irriducibile” - senza cioè la possibilità di poter accedere a permessi e benefici - inflitta al ricorrente viola l’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti umani che vieta la tortura. E’ una sentenza storica non solo perché il nostro Paese dovrà ora riformare il carcere duro a vita (il cosiddetto ergastolo ostativo), ma anche perché nelle condizioni di Viola ci sono alcune centinaia di boss mafiosi, condannati per le stragi e per terrorismo, che non hanno mai collaborato in alcun modo con la giustizia. Cosa succederà dopo questa sentenza? C’è chi ha parlato di “allarme sociale”, evocando una sorta di automatismo che possa favorire da ora in poi l’uscita dal carcere dei boss. E c’è chi ha alzato i toni parlando di “colpo all’antimafia”, temendo anche un crollo delle collaborazioni di giustizia. Come stanno davvero le cose e quali sono gli scenari dopo la sentenza? Per capirne di più abbiamo intervistato Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, associazione non governativa che si interessa della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale. La Corte europea dei diritti umani ha stabilito che l’Italia deve riformare la legge sull’ergastolo ostativo, ossia il carcere a vita che non prevede benefici né sconti di pena e che viene applicato dal nostro sistema giudiziario per reati gravissimi come l’associazione mafiosa o il terrorismo, in assenza di collaborazione con la giustizia da parte del condannato. Cosa rappresenta per l’Italia questa sentenza? E’ una sentenza importante che ristabilisce un principio fondante della nostra Carta costituzionale, sottolineato con forza all’articolo 27, ovvero che tutte le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è possibile dunque prevedere pene che non tengano in giusto conto il percorso che una persona compie durante la detenzione, tenendola ancorata a quella che era 25 o 30 anni prima. Inoltre la Corte, questo nella sentenza di giugno, aveva sottolineato come la collaborazione non fosse un elemento sufficiente per valutare l’effettivo allontanamento di un individuo dalla sua affiliazione. Questo sia perché - ed è quello che ad esempio sostiene Viola, il ricorrente alla Cedu - si possono temere ritorsioni verso membri della propria famiglia; sia perché - e questo lo sottolinea la Corte - questa collaborazione può avere un carattere opportunistico e non rappresentare in sé e per sé la testimonianza di un distacco dal proprio gruppo criminale. Questa della Cedu è inoltre una sentenza che anticipa analoga decisione che dovrà prendere la Corte Costituzionale che, entro fine ottobre, si pronuncerà proprio sulla conformità alla Costituzione di questa pena ostativa. Cosa può succedere, in concreto, dopo che la Corte di Strasburgo ha respinto il ricorso dell’Italia contro la sentenza Viola? Le persone che in Italia stanno scontando condanne all’ergastolo per reati di mafia e terrorismo ora faranno ricorsi alla Cedu, per chiedere benefici, permessi e indennizzi? Premesso che un impatto maggiore e più diretto potrebbe averlo la sentenza della Corte Costituzionale cui facevamo riferimento prima, dopo la sentenza della Cedu l’Italia è chiamata a rivedere alcune norme prevedendo, a certe condizioni, una prospettiva di rilascio. Se non lo facesse è possibile che arrivino altri ricorsi alla Corte Europea che, tuttavia, per i compiti che le sono conferiti nell’ambito del Consiglio d’Europa, non potrà certo decidere benefici e permessi di alcun tipo, su cui solo i giudici dei paesi membri possono pronunciarsi, ma potrà certamente condannare l’Italia ad indennizzare il ricorrente per il trattamento inumano e degradante che subisce, richiamando ancora una volta il paese ad aggiornare le proprie leggi. La legge ora va modificata? Con quali tempi? Come dicevamo precedentemente la legge andrebbe modificata prevedendo prospettive di rilascio (modificando ad esempio l’istituto della liberazione condizionale). Questo, per non incorrere in eventuali ulteriori condanne, ma soprattutto per ristabilire il rispetto dei diritti umani che in questo momento il nostro paese sta violando. Sui tempi e sul fatto che una eventuale modifica sia portata a compimento non è facile pronunciarsi, essendo la palla in mano al legislatore. Quanti sono gli ergastolani oggi in Italia e quanti di questi ostativi? Gli ergastolani in Italia oggi sono circa 1750 e di questi quasi 1250 sono ostativi. Per il presidente della Commissione Antimafia Nicola Morra la decisione della Corte di Strasburgo mette “a rischio il 41bis, perché il 41bis è il regime che controlla rigorosamente ogni forma di comunicazione. Nel 41bis non si può, né si deve comunicare perché, non avendo dato un segnale di ravvedimento, il detenuto è considerato ancora parte dell’associazione mafiosa”. E’ davvero così? Qual è il parere di Antigone a riguardo? Il 41bis e l’ergastolo ostativo non c’entrano nulla l’uno con l’altro. Il primo infatti è un particolare regime penitenziario, mentre il secondo è una pena. Non tutti i condannati all’ergastolo ostativo sono al 41bis. Dunque la sentenza della Cedu non toccherà in alcun modo né questo regime, né l’ergastolo non ostativo. Secondo Nino Di Matteo, pm simbolo della lotta alle mafie, con questa sentenza “gli stragisti mafiosi ottengono uno dei loro scopi principali”. “Buttiamo 150 anni di antimafia. Così non parlerà più nessuno”, ha detto invece al Fatto quotidiano Nicola Gratteri, procuratore capo a Catanzaro. E’ giustificato oppure no un allarme del genere dopo la sentenza della Cedu? Non è nostro interesse entrare in polemica con chi si occupa di antimafia, anche perché crediamo che la lotta al crimine organizzato sia un obiettivo di ciascuno di noi. Siamo inoltre grati a chi rischia la propria vita per ripristinare la legalità. Tuttavia è importante ribadire quali sono in una democrazia i limiti invalicabili al potere di punire. Ciò nell’interesse di tutti. In una democrazia costituzionale i mezzi non possono giustificare i fini. Inoltre un’eventuale abolizione dell’ergastolo ostativo, come dicevamo più su, manterrà comunque in vigore l’ergastolo. L’unica differenza è dunque che un giudice, dopo anni e anni in cui una persona è stata in carcere, potrà valutare se il percorso di rieducazione può eventualmente portare alla concessione di benefici, parziali o totali. In questo campo anche una collaborazione con la giustizia certamente potrà essere ben valutata. Probabilmente nessun giudice avrebbe mai scarcerato Totò Riina, anche se non ci fosse stato l’ergastolo ostativo. Uno Stato forte non ha paura di lasciare a dei suoi apparati la libera determinazione. Ergastolo ostativo, Bonafede: “L’Italia ha autonomia politica” di Eleonora Martini Il Manifesto, 10 ottobre 2019 Deluso dalla decisione della Corte europea dei diritti umani, il Guardasigilli spera ancora nel giudizio della Consulta previsto per il 22 ottobre. “Dal mio punto di vista, l’unica pena che non finisce mai è quella che sono costretti a soffrire i familiari delle vittime della mafia”. Dopo la decisione del Collegio dei giudici della Grande Chambre della Corte europea dei diritti umani di confermare la condanna all’Italia per il caso di Marcello Viola, il boss di ‘ndrangheta condannato all’ergastolo ostativo, pena a vita senza possibilità di riscatto, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede mostra ancora tutta la sua delusione, mentre il governo sta prendendo le misure della nuova situazione, che al momento contempla solo il rischio di una valanga di ricorsi alla Corte di Strasburgo da parte di altri ergastolani ostativi (al 30 giugno erano più di 1100), con conseguenti risarcimenti a carico delle casse dello Stato. “La nostra idea è molto chiara - spiega il Guardasigilli, parlando anche a nome dell’esecutivo giallorosso -: nel momento in cui una persona che si è macchiata di gravi delitti, come un boss mafioso, decide di collaborare con la giustizia, in quel momento lo Stato ha la dimostrazione che è stato reciso il legame con la mafia. Quindi, non c’è il fine pena mai che ci viene contestato. È un tema molto delicato, abbiamo le nostre ragioni e il governo sta facendo le sue valutazioni”. Ma il problema potrebbe diventare più pressante per il legislatore quando, il 22 ottobre prossimo, la Corte Costituzionale si pronuncerà sullo stesso tema in un caso analogo, quello di Sebastiano Cannizzaro, per il quale il 20 dicembre 2018 la Cassazione ha sollevato davanti alla Consulta la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 4bis che norma appunto l’ergastolo senza benefici o liberazione condizionale, accogliendo largamente le eccezioni sollevate dall’avvocato Valerio Accorretti che ha assistito il ricorrente. Ecco perché a Palazzo Chigi e in Parlamento si discute già di come eventualmente riformare il regime considerato dalla Cedu “inumano e degradante”, senza sconvolgere troppo la giurisdizione antimafia. “Esamineremo anche il tema della collaborazione con la giustizia”, aveva detto in mattinata Bonafede. A sera però, a “Porta a porta”, il ministro si mostra più cauto, recuperando un po’ le distanze dai toni apocalittici del suo M5S: “Non è che a seguito della sentenza della Cedu si aprono le celle del carcere - ha spiegato dal salotto di Bruno Vespa - È inoltre attesa una pronuncia della Corte Costituzionale. La Cedu dice che lo Stato ha una sua autonomia nella politica criminale, e che non viene toccato il 41bis”. Parla del regime di carcere duro, Bonafede, quello che secondo i suoi estimatori sarebbe servito a combattere le mafie. Le quali però ancora sono vive e vegete, mentre il 41bis ha esteso il suo campo di applicazione a molte altre categorie di detenuti. Ergastolo ostativo, politica ancora superata dai giudici di Errico Novi Il Dubbio, 10 ottobre 2019 La Cedu chiede all’Italia di cancellare il 4bis. Che il 22 ottobre sarà vagliato dalla Consulta. Come per il fine vita, è una giurisdizione superiore a sciogliere il nodo del fine pena mai. Con la decisione di martedì, la Corte europea dei Diritti dell’uomo ha di fatto ordinato allo Stato italiano di eliminare l’ergastolo ostativo. Non solo, perché a breve la ritrosia dell’Italia a eseguire l’ordine rischia di essere superata dalla Corte costituzionale. Il 22 ottobre il giudice delle leggi potrebbe dichiarare illegittimo proprio l’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario, che condanna appunto alcuni ergastolani a morire in galera. Come per il caso Cappato, la Consulta pare destinata ad arrivare lì dove il legislatore è venuto meno. Ieri la politica ha taciuto. O quasi. Si è accontentata del riverbero irradiato il giorno prima dalla decisione sull’ergastolo ostativo, con cui la Corte europea costringe di fatto l’Italia ad abolire l’istituto. Si sono subito diradati gli allarmi sulla “lotta alle mafie demolita”, per citare il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede si è limitato a sostenere che “il fine pena mai in realtà non esiste, c’è solo se un boss non collabora con la giustizia”. Fotografia proprio di quello status quo che i giudici di Strasburgo hanno censurato. Nella decisione di giugno, confermata martedì, la Corte europea dei Diritti dell’uomo ha infatti ricordato come sia lesivo della dignità umana subordinare alla “collaborazione” una pur lontana speranza di non morire in galera. Non solo, perché a breve la Corte costituzionale potrebbe eliminare, per lo stesso motivo, l’ergastolo ostativo dall’ordinamento italiano. Uno scenario del tutto analogo a quello del fine vita. La politica resta inerte e una giurisdizione superiore la sostituisce. Dopo le iperboli indignate delle prime ore, governo, Parlamento e magistratura scelgono, sul fine pena mai, la prudenza e una certa sobrietà. Come ricordato ancora ieri dal Dubbio, il 22 ottobre la Consulta ha in agenda un’udienza sulla questione di legittimità dell’articolo 4bis. È la norma, già travolta dalla censura europea, che preclude l’accesso ai benefici penitenziari, ivi compresa la liberazione condizionale, per alcuni reati, mafia e terrorismo in primis. È appunto la disposizione che nega agli ergastolani ogni prospettiva di reinserimento sociale. A portare la misura dell’ordinamento penitenziario dinanzi al giudice delle leggi è stato il detenuto Sebastiano Cannizzaro, difeso dall’avvocato Valerio Vianello Accorretti. Si è quindi costituito nello stesso giudizio un altro “ergastolano ostativo”, Pietro Pavone, assistito dai legali Michele Passione e Mirna Raschi. Con l’ormai imminente pronuncia, la Corte costituzionale potrebbe compiere l’opera sollecitata dalla Cedu: eliminare l’ergastolo ostativo nella forma in cui è attualmente previsto dal diritto italiano. Di nuovo, dunque, e stavolta in modo irreversibile, sarebbe un’alta giurisdizione a sostituirsi alla politica. Ed ecco il punto. La politica ha avuto le sue occasioni. La ha lasciate scivolare via. Lo ha fatto due anni fa, in particolare. Quando il Parlamento ha approvato la cosiddetta riforma Orlando, la legge 103 del 2017. Un testo molto articolato in cui era inserita anche la delega a riformare l’ordinamento penitenziario. Era l’occasione per eliminare una norma, come il 4bis, chiaramente in contrasto con l’articolo 27 della Costituzione. Ossia col divieto di pene inumane e con il loro fine necessariamente rieducativo. L’allora guardasigilli Andrea Orlando aveva avuto un merito: istituire gli Stati generali dell’esecuzione penale. Accademici, avvocati, magistrati e politici (come la dirigente radicale Rita Bernardini) che ne avevano fatto parte avevano espresso una chiara indicazione: superare l’articolo 4bis, sottrarre gli ergastolani alla collaborazione quale sola via d’uscita. Ma con l’esame della legge il proposito venne tradito, perché l’articolo 4bis, secondo la delega e il successivo decreto legislastivo (emanato in via non definitiva il 22 gennaio 2018) mantenne l’ostatività per i reati di mafia e terrorismo. Cioè per la gran parte dei detenuti interessati. Dal cono d’ombra del 4bis vennero sottratte solo le fattispecie “mono-soggettive” di alcuni altri reati: il sequestro di persona a scopo di estorsione, la tratta di esseri umani e alcuni delitti legati all’immigrazione. Tutti illeciti quasi sempre commessi, nella concreta realtà, in quell’ambito associativo per il quale l’ostatività sarebbe invece rimasta. Ad analizzare con straordinaria puntualità lo spiraglio quasi impalpabile aperto dal decreto Orlando rispetto all’ergastolo ostativo è stata anche un’analisi condotta nel marzo 2018 dall’Ufficio studi del Cnf. Non solo quella riforma menomata, com’è noto, è stata tenuta nel cassetto dal governo Gentoloni. Non solo il successivo governo Conte e il nuovo guardasigilli Bonafede hanno archiviato del tutto il decreto Orlando, che avrebbe pur timidamente superato alcune preclusioni nell’accesso ai benefici penitenziari. Nei mesi successivi si è arrivarti, con la “spazza corrotti”, addirittura a estendere il 4bis ai reati contro la pubblica amministrazione. Senza intervenire, evidentemente, sul carcere a vita, non previsto in quell’ambito, ma con una certificazione comunque chiara della direzione scelta. Negli ultimi anni, dunque, il legislatore ha fatto di tutto per eludere il nodo dell’ergastolo ostativo. Ora, come avvenuto col fine vita, viene sostituita da una giurisdizione superiore. Costretta ancora una volta a ricordare quanto siano invalicabili i limiti posti dalla Costituzione a tutela della dignità umana. Ergastolo ostativo, dopo l’Europa il rischio Consulta di Ilaria Proietti Il Fatto Quotidiano, 10 ottobre 2019 Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha le idee chiare: “L’unica pena che non finisce mai è quella che sono costretti a soffrire i familiari delle vittime della mafia”. E per questo ritiene “non condivisibile” la decisione della Cedu che ha chiesto invece al nostro Paese di modificare la legge sull’ergastolo ostativo che impedisce a chi si sia macchiato di gravissimi reati di uscire dal carcere anche solo temporaneamente, a meno che non decida di collaborare con la giustizia. “In casi del genere, come per il boss mafioso che decide di collaborare con la giustizia, in quel momento lo Stato ha la dimostrazione che è stato reciso il legame con la mafia” ha spiegato il Guardasigilli che ora però dovrà trovare una soluzione per superare i rilievi di Strasburgo a cui il 22 ottobre potrebbero sommarsi quelli della Consulta. Chiamata a stabilire la costituzionalità delle norme che escludono l’accesso ai benefici di legge (e in particolare alle uscite temporanee dal carcere) agli ergastolani modello non formalmente dissociati dalla consorteria criminale. Sul tavolo il caso di Sebastiano Cannizzaro, in carcere dal 1998 per associazione mafiosa, che avrebbe avuto da allora “una condotta rispettosa del programma rieducativo” in carcere senza però poter mai usufruire di permessi premio: di lì il suo ricorso fino in Cassazione che poi ha rimesso alla Consulta la questione. Una pronuncia di incostituzionalità potrebbe avere effetti dirompenti almeno quanto l’allarme che si è creato per la sentenza della Cedu che ha stabilito che l’ergastolo ostativo viola l’articolo 3 della Convenzione Europea sui Diritti umani. Il Movimento 5 Stelle ieri ha convocato una specie di gabinetto di guerra per studiare le contromosse che possano in qualche modo sterilizzare gli effetti della pronuncia della Corte di Strasburgo a cui si preparano a bussare anche i boss più incalliti oggi condannati al regime del 41bis: il sottosegretario alla Giustizia Ferraresi più una nutrita delegazione di parlamentari grillini delle commissioni Giustizia di Camera e Senato si sono dati appuntamento negli uffici di Nicola Morra all’Antimafia per capire che fare. Il prossimo passo sarà aprire il confronto con gli alleati di governo, specie con il Pd dove sul tema dell’ergastolo ostativo e del 41bis le sensibilità sono diverse. Stefano Vaccari della segretaria dem è netto: “Non concordiamo assolutamente con la sentenza europea: denota una scarsa conoscenza del fenomeno mafioso, della sua portata globale e degli strumenti atti a combatterlo. Così facendo si vanifica la tanto dolorosa quanto approfondita conoscenza maturata negli anni dal nostro Paese nel contrastare proprio questo fenomeno. Mettere in discussione l’ergastolo ostativo e il 41bis significa far tornare indietro la lotta alle mafie di un secolo. La legislazione antimafia italiana è presa a modello in tutto il mondo”. Ma non la pensano tutti così al Nazareno e non da ora. Nella scorsa legislatura Roberto Speranza e Enzo Amendola, che oggi sono insieme al governo Conte, uno per conto di Leu e l’altro per il Pd, avevano presentato un disegno di legge per depennare l’ergastolo e stigmatizzare in particolare quello ostativo definito dai due “una pena di morte al rallentatore, in insanabile contraddizione con la carta Costituzionale”. E lo stesso avevano fatto Sandro Gozi e il radicale Roberto Giachetti. Più recentemente Enza Bruno Bossio (l’unica deputata dem ad aver dichiarato in anticipo il proprio voto contrario all’arresto del forzista Diego Sozzani) ha presentato una proposta ora all’attenzione della commissione Giustizia della Camera. Che punta a rivedere la preclusione assoluta all’accesso ai benefìci penitenziari da parte dei soggetti all’ergastolo ostativo che decidano di non collaborare. Al posto della collaborazione “potrebbe assumere rilievo un complesso di comportamenti che dimostrino il distacco del condannato medesimo dalle associazioni criminali: dissociazione esplicita, prese di posizione pubbliche, adesione a modelli di legalità, interesse per le vittime dei reati, radicamento del nucleo familiare in diverso contesto territoriale. Ma anche l’impegno profuso per l’adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato e, quindi, il concreto interesse dimostrato per attività di risarcimento o, più in generale, di riparazione in favore delle vittime del reati” si legge nella proposta della deputata del Pd. Che prevede esplicitamente che per negare l’accesso ai benefici debbano essere indicati puntualmente i collegamenti tra il condannato e il sodalizio criminale “infatti, frequentemente, - si legge ancora - la magistratura di sorveglianza per negare la concessione dei benefìci in questione si limita a trascrivere in modo apodittico, riproducendo il contenuto generico delle informative del comitato provinciale per la sicurezza pubblica o delle Forze di polizia, senza enunciare gli elementi di fatto dai quali ha tratto il proprio convincimento afferente i collegamenti del condannato con la criminalità”. Chissà che ne pensa Bonafede. Ergastolo ostativo. Uno Stato forte non ne ha bisogno di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 10 ottobre 2019 La Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo ha respinto il ricorso del governo italiano contro la sentenza pronunciata dai giudici europei nel giugno scorso nel caso Viola vs. Italia. I ricorsi presso l’organo supremo della Cedu sono dichiarati ammissibili quando il caso trattato sia ritenuto di rilevanza generale per i Paesi del Consiglio d’Europa. Cosa che in questo caso non è successa. Il tipo di carcere a vita cui la sentenza si riferiva è qualcosa di peculiare del nostro ordinamento. Ma ripercorriamo i passaggi della vicenda per cercare di capire cosa ha affermato la Corte. Marcello Viola è un uomo condannato all’ergastolo, in carcere dal 1991. Da allora a oggi il suo comportamento penitenziario è stato impeccabile, non avendo mai ricevuto nemmeno un provvedimento disciplinare. Ma Viola non è condannato a un ergastolo “ordinario”, bensì a quello che viene chiamato “ergastolo ostativo”. A che cosa osta? Alla concessione di quei benefici penitenziari - permessi premio, misure alternative, liberazione condizionale dopo 26 anni di pena scontata - che la legge concede ai condannati che mantengono una buona condotta carceraria, come parte del percorso di recupero sociale sancito dalla Costituzione. L’ergastolo ostativo viene comminato per talune tipologie di reato elencate nell’ordinamento penitenziario. Se hai commesso uno di quei crimini e sei condannato all’ergastolo, non hai alcuna speranza che la tua pena venga rivista alla luce del tuo percorso personale, come solitamente accade - seppur faticosamente - in un sistema di pena flessibile quale quello pensato dal legislatore italiano. Una sola circostanza potrà determinare la tua uscita dal carcere: che tu faccia i nomi di qualche vecchio compagno di crimine, così da collaborare con la giustizia nel sostituire la sua libertà con la tua. Marcello Viola non ha mai voluto collaborare con i giudici, spiegando le sue paure nel lasciare la famiglia in balìa di possibili ritorsioni. Ma per la legge italiana non c’è spiegazione che tenga. Si procede in questo caso in maniera del tutto meccanica: se non collabori con gli inquirenti, oppure non dimostri secondo parametri estremamente rigidi che non sei in grado di collaborare perché ad esempio non hai alcuna informazione da condividere, allora automaticamente non hai accesso ai benefici di legge. La Corte di Strasburgo non ha fatto altro che contestare questo automatismo, ridando ai giudici potere decisionale anche in caso di ergastolo ostativo. Non ha mai detto che Marcello Viola deve uscire di galera, né tantomeno che devono farlo alcune centinaia di boss mafiosi, come in questi giorni è capitato di leggere. Ha detto solo che i magistrati devono poter sempre valutare il caso singolo, la singola situazione, il singolo percorso penitenziario, senza vedersi le mani legate da leggi che impongono percorsi prestabiliti. La mancata collaborazione con la giustizia può talvolta essere indice del fatto di sentirsi ancora vicini alla sfera criminale, ma altre volte può dipendere da tutt’altro. Sta ai giudici valutare. Quegli stessi giudici cui siamo felici di affidare il potere di infliggere una pena non possono poi venir privati del potere di stimare il percorso rieducativo di quella pena stessa. Nessun giudice avrebbe mai concesso un permesso premio a un Riina che mai aveva dato segni di ravvedimento; nessun giudice concederebbe mai una misura alternativa a qualcuno considerato ancora interno alla criminalità organizzata o comunque capace di tornare a delinquere; nessuno dei detenuti oggi in regime di 41bis, e dunque valutato come pericoloso, potrà mai venire interessato dalla sentenza della Corte europea. L’Italia dovrà adesso rivedere le proprie norme in materia di ergastolo ostativo. Non per fare favori alla mafia, non per spalancare indiscriminatamente le porte del carcere, non in termini lassisti. Ma per affermare al contrario che uno Stato forte non ha mai bisogno di sottrarre alcuna pena al proprio fine di recupero sociale. *Coordinatrice associazione Antigone “Non è vero che rivedremo circolare per le strade i boss mafiosi. È una bugia” di Manuela D’Alessandro agi.it, 10 ottobre 2019 Intervista a Andrea Pugiotto, ordinario di diritto costituzionale all’Università di Ferrara, tra i massimi esperti di ergastolo ostativo e capofila nella battaglia per eliminarlo, commenta all’Agi la decisione della Corte Europea. “Dopo la decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, non è vero che, come ho letto, rivedremo circolare per le strade i boss mafiosi. Questa è una bugia anche se detta da un procuratore antimafia”. Così Andrea Pugiotto, ordinario di diritto costituzionale all’Università di Ferrara, tra i massimi esperti in Italia di ergastolo ostativo e capofila nella battaglia per eliminarlo, commenta all’Agi la decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. “Caduto l’automatismo ostativo - argomenta - si ritornerà alla regola della valutazione giurisdizionale individuale. Si chiama riserva di giurisdizione ed è prevista dalla Costituzione come meccanismo di garanzia per tutti i cittadini, detenuti compresi. Chi preferisce un giudice ‘passacarte’, in realtà mostra totale sfiducia nella magistratura di sorveglianza, preferendo alla sua autonomia e indipendenza una sua subordinazione alle informative degli apparati di polizia”. “I giudici europei - prosegue il docente - non ignorano affatto il fenomeno mafioso, ma sanno che nessun reato, per quanto grave, legittima la violazione della dignità umana protetta dal ‘divieto di tortura e di trattamenti inumani o degradanti’ previsto dall’articolo 3 della Cedu. Non sono affatto sorpreso di questa decisione. La sentenza Viola del 13 giugno scorso non faceva altro che applicare al caso italiano una giurisprudenza consolidatissima che considera contraria all’articolo 3 della Cedu una pena perpetua priva di concrete prospettive di liberazione del detenuto, alla luce del suo percorso educativo. Solo chi antepone la logica della politica a quella, stringente, del diritto, poteva anche solo ipotizzare un esito differente”. Secondo il professore, autore anche di un libro a quattro mani con l’ex ergastolano Carmelo Musumeci, è sbagliato dire, come riportato da diversi organi di stampa, che “fare la guerra all’ergastolo ostativo è un messaggio ai boss mafiosi” e che “superare l’ergastolo ostativo significa armarli di nuovo” e che “la Corte europea deve dichiarare da che parte sta nella lotta alla mafia”. Per Pugiotto “sono prese di posizione chiaramente mirate a esercitare pressioni sul panel dei 5 giudici europei alla vigilia della loro odierna, coerente e scontata decisione. Eppure, i vari procuratori (anche emeriti) che hanno preso cosi’ la parola dovrebbero sapere che l’articolo 3 della Cedu è una delle sole quattro norme che non ammettono eccezione o sospensione, nemmeno in uno Stato di guerra. I giudici europei non ignorano affatto il fenomeno mafioso, ma sanno che nessun reato, per quanto grave, legittima la violazione della dignità umana protetta da quel divieto. Forse, nei prossimi giorni, ci toccherà sentire voci scandalizzate che chiederanno all’Italia di uscire dal Consiglio d’Europa”. La decisione di oggi è importante per due ragioni. La prima rigurda il fatto che “la sentenza definitiva segnala nell’ergastolo ostativo un problema strutturale nel nostro ordinamento penitenziario, invitando l’Italia a porvi rimedio attraverso una sua riforma ‘di preferenza di iniziativa legislativa’. Diversamente i molti ricorsi siamesi pendenti a Strasburgo e promossi da altri ergastolani ostativi saranno certamente accolti e l’Italia subira’ ripetute condanne per non avere adempiuto all’obbligo di rispettare una delle norme chiave della Cedu”. La seconda ragione “è che il 22 ottobre, la Corte Costituzionale si pronuncerà su due questioni di legittimità riguardanti l’articolo 4bis, comma I, dell’ordinamento penitenziario, che introduce il regime ostativo applicato all’ergastolo. I giudici costituzionali dovranno misurarsi con le meditate argomentazioni dei loro colleghi di Strasburgo”. Attualmente, spiega Pugiotto, “tre ergastolani su quattro sono ostativi, cioè condannati per gravi reati associativi che, diversamente da tutti gli altri ristretti in prigione, non beneficeranno mai di alcuna misura extra muraria a meno che non rivelino ciò che ancora sanno dei loro crimini. Lo scopo di tale regime - come la stessa Corte Costituzionale ha recentemente riconosciuto - è di incentivare, per ragioni investigative e di politica criminale generale, la collaborazione con la giustizia attraverso un ‘trattamento penitenziario di particolare asprezza. Il perno di questo regime - una vera e propria presunzione legale assoluta - è che solo collaborando si ha la prova certa sia della rottura col sodalizio criminale che dell’avvenuto processo di ravvedimento del reo”. La Corte Europea, argomenta il professore, “non ha bocciato la collaborazione come condizione per accedere ai benefici penitenziari ma ha contestato l’equivalenza tra mancata collaborazione e pericolosità sociale del condannato, invitando il legislatore italiano a prevedere anche per l’ergastolano non collaborante la necessità di accedere ai benefici penitenziari, se ha dato la prova del sicuro ravvedimento”. Per esempio, “la scelta se collaborare o meno può non essere libera, quando il reo teme ritorsioni su di sé o vendette contro i propri familiari”. La stessa collaborazione “può nascere anche dall’unico proposito di ottenere i benefici”. “Ecco perché - è l’opinione di Pugiotto - il solo modo di restituire coerenza al sistema è che sia la magistratura di sorveglianza a valutare, caso per caso, alla luce dell’intero percorso trattamentale del reo, se sia ancora specialmente pericoloso, indipendentemente dalla sua collaborazione con la giustizia. Come diceva Leonardo Sciascia, ‘la criminalità mafiosa non si combatte con la ‘terribilità del diritto, ma con gli strumenti dello Stato di diritto’“. Il sovranismo giudiziario dei forcaioli anti Cedu di Dimitri Buffa L’Opinione, 10 ottobre 2019 Il sovranismo giudiziario dei forcaioli della pseudo antimafia. Pure questo ci è toccato di constatare dopo la sacrosanta sentenza Cedu confermata l’altro ieri dalla Grand Chambre che ha stabilito l’incompatibilità dell’ergastolo ostativo con i diritti elementari dell’uomo sanciti dai Trattati internazionali che l’Italia, quando era ancora un Paese civile e ancorato allo stato di diritto, a suo tempo firmò. Nel diluvio di fake news e dichiarazioni mistificatorie ad effetto dei politici (“così si distruggono 150 anni di antimafia”) a trazione grillina, a cominciare dal ministro Guardasigilli purtroppo ancora in carica, la parte del leone da tastiera la fanno i giornali che da questa atmosfera da Paese capovolto traggono vantaggi economico-editoriali. Titolare “Hanno ammazzato di nuovo Falcone e Borsellino” è veramente un insulto all’intelligenza di tutti gli italiani, oltre che alla memoria di quei due giudici all’ombra delle cui bare troppa gente ha fatto carriera senza merito. E poi dare al mondo l’idea di un Paese che non tollera le censure di una corte qualificata come la Cedu - e poi della Grand Chambre in sede di appello - ci avvicina ogni giorno di più a Paesi autoritari come la Turchia di Erdogan. Senza neppure averne la potenza militare e geopolitica. Soprattutto quello che indigna e riempie di rabbia sono gli allarmi ingiustificati lanciati in questi giorni nei giornali e in televisione. Un conformismo rivoltante. Sembra quasi che questa sentenza rimetta in libertà automaticamente tutti i boss. Mentre in realtà chiede solo di modificare gli automatismi (questi sì!) burocratici delle leggi antimafia del 1992 che non prevedono, neanche dopo oltre 30 anni di reclusione, che siano presi in considerazione, a fronte di ravvedimenti del comportamento del detenuto, eventuali permessi e benefici carcerari. Esiste solo il pentimento. Ma uno dopo essersi fatto 20, 25, 30 anni in carcere in 41bis ed essere uscito fuori non solo dal giro ma anche dalla realtà vera e propria, compresa quella degli affetti familiari, chi dovrebbe accusare? I morti? Uno a caso sull’elenco telefonico? E nessuno che dica - o spieghi - alla plebe catodica che eventuali benefici o semilibertà vanno comunque decisi caso per caso dai giudici di sorveglianza. Il non detto di questa posizione menzognera che serve solo per influenzare cittadini ed elettori - che di per sé hanno già dimostrato di essere più che disinformati e sprovveduti - è quello di voler mantenere gli automatismi suddetti di modo che non debbano essere i magistrati a prendersi la responsabilità di decidere - caso per caso - se dire si o no al singolo istante. In America, dove c’è la pena di morte, un ergastolano può richiedere i benefici o la liberta “on parole” anche a settimane alterne. I giudici si riuniscono, sentono i familiari delle vittime dell’ergastolano per capire se esiste un sentimento di perdono, e poi decidono. Quasi sempre la negano. Ma ogni tanto uno spiraglio di speranza, pur tra mille polemiche, viene lasciato aperto. Da noi, no. Decide l’ottusa burocrazia antimafia, che poi è quella dei professionisti del settore, compresi coloro che talvolta, per eccesso di zelo (chissà), vengono beccati ad approfittarsi economicamente della propria posizione di rendita con ladrocini vari. Certo che può esistere il rischio di prendere una decisione sbagliata, però i giudici italiani devono cominciare a prendersi le loro responsabilità e a decidere dopo aver studiato molto attentamente i singoli casi dei singoli detenuti e non basandosi su relazioni burocratizzate di medici e polizia penitenziaria. Sennò tanto vale abolirli i tribunali di sorveglianza. Purtroppo, nell’impazzimento generale, che è stata la conseguenza più vistosa dell’abolizione a spizzichi e a bocconi dello stato di diritto, per sentire questi ragionamenti si deve andare solo nella sede del Partito radicale a via di Torre Argentina. E talvolta al Palazzo della Consulta dove ha sede una Corte costituzionale per ora ancora incontaminata dal “sovranismo giudiziario” di cui sopra. E che presto dovrà esprimersi sempre sull’ergastolo ostativo. Gli altri giuristi, giureconsulti e commentatori di giornali ormai si sono convertiti all’ultima moda del grillismo imperante: la giustizia sovranista. Ma la mafia è ancora un’emergenza che giustifica la sospensione dei diritti? di Alberto Cisterna Il Dubbio, 10 ottobre 2019 Le citazioni giuridiche sono noiose lo sappiamo. Figurarsi quando si pretende di fare anche un po’ di storia. Alla noia segue quasi sempre una certa apprensione. Però nella storia del regime speciale di detenzione (il cd. 41bis ) è avvolto un pezzo di storia del Paese e tutto non si può ridurre ai lai delle solite vestali. Era il 1986 quando, nel mezzo delle turbolenze penitenziarie in gran parte collegate alla cattura di numerosi terroristi, si decise di introdurre l’articolo 41bis nell’Ordinamento penitenziario con il fine specifico di contrastare “casi eccezionali di rivolta” o “altre gravi situazioni di emergenza” nelle carceri. Una norma quasi mai applicata che concedeva ai ministri della Giustizia la facoltà di sospendere per un periodo molto circoscritto “l’applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti”. Uno spazio limitato e un tempo limitato. Quanto bastava, insomma, per ripristinare l’ordine carcerario messo in fibrillazione in un certo istituto. Era il 1992, dopo quella terribile estate di stragi e di sangue, e il governo Andreotti-Martelli decise di stringere le maglie aggiungendo all’articolo 41bis un secondo comma del tutto inedito: “quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica” il ministro ha “la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti per taluno dei delitti” più gravi “l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti” dall’Ordinamento penitenziario “che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza”. Insieme a questo il drastico irrigidimento del divieto di benefici penitenziari già previsto, nel 1991, con il nuovo articolo 4bis : mitezza solo per chi collabora con la giustizia. L’epicentro del regime duro fletteva, così, dai luoghi (le carceri) alle persone (i detenuti) che si trovavano ristretti per gravi reati, in primo luogo mafia e terrorismo. Non c’erano più rivolte da sedare, ma si doveva proteggere la sicurezza e l’ordine pubblico fuori dalle carceri. Bisognava impedire ai detenuti di proiettare all’esterno delle mura capacità criminali, visioni strategiche e soprattutto uno scellerato dominio. Era un cambio di passo impressionante che, per la prima volta, individuava classi di detenuti ritenuti pericolosi in ragione del loro ruolo nelle associazioni, della loro posizione apicale in esse il tutto a prescindere dal comportamento inframurario. Il mito del mafioso “detenuto esemplare” e dell’Hotel Ucciardone, dove entravano donne e champagne, si schiantava. I boss capirono di aver a che fare con un’arma nuova, micidiale e imprevista. La peggiore. I suicidi in cella aumentarono vertiginosamente, le isole più temute riaprirono le gabbie, un’imprevista segregazione colpiva i capi mafia impreparati al pugno di ferro. E’ la storia, ancora non del tutto scritta, del papello di Ciancimino, delle revoche dei decreti di 41bis da parte del ministro Conso, del processo sulla Trattativa in corso a Palermo. Il regime duro aveva, infatti, una via d’uscita per i mafiosi, era una norma a tempo, destinata a scadere e da rinnovare di volta in volta. Un barlume per trattare, un varco per brigare con la politica collusa. Un progetto infrantosi, però, con la definitiva stabilizzazione del 41bis imposta alla vigilia di Natale del 2002 dal Governo Berlusconi. Questo all’incirca quanto accaduto tra un nugolo di sentenze della Corte costituzionale (l’ultima del 2018 ha cancellato di divieto di “cuocere cibi” in cella per i boss), della Cassazione (il caso Riina in punto di morte) e, ora, della Corte di Strasburgo. Superati noia e fastidio di una storia ricostruita a spanne si impongono alcune riflessioni. Il regime di carcere duro era, come visto, un protocollo carcerario per sua definizione temporaneo. La logica era evidente, in periodi di eccezionale pericolo per la sicurezza collettiva è legittimo privare i detenuti per gravissimi reati di ogni capacità di manovra all’interno delle carceri e, come detto, verso l’esterno. L’aver reso, tuttavia, questo statuto della detenzione speciale la regola in relazione, si badi bene, a determinate classi di reati ha finito per attirare a sé il faro della giurisdizione di Strasburgo che ora ha imposto all’Italia di modificare il regime duro con una modifica dei divieti di cui all’articolo 4bis e l’ammissione anche di questi detenuti ai benefici penitenziari sinora interdetti loro per legge, salvo l’ipotesi della collaborazione con la giustizia. Si tocca, come visto, un ganglio vitale della percezione delle mafie. Per poter prendere una posizione serena e scevra da condizionamenti, non sempre disinteressati, occorrerebbe interrogarsi seriamente su quale sia l’effettiva condizione delle mafie nella società italiana. Una domanda di per sé scomoda e che irrita tanti addetti ai lavori e una certa industria mediatica la quale, tuttavia, non poche volte non è la parte più disinteressata a questo genere di dibattiti. Senza scomodare discussioni che hanno bruciato e spaccato la pubblica opinione già trenta anni or sono (la presunta querelle tra Sciascia e Falcone che, invece, quest’ultimo ossequiò citandolo in esergo al suo libro più bello), parrebbe evidente che manchi una ricognizione approfondita e rigorosamente documentate circa lo stato di operatività delle principali associazioni mafiose del Paese che hanno subito colpi durissimi dalle stragi del 1992 a oggi. Come nel 1989 i Vopos della Ddr sul muro di Berlino alla sua caduta, i mafiosi potrebbero sparare, ma non possono sparare perché obiettivamente privi di una struttura in grado di resistere ai violentissimi colpi dello Stato. Per dire nel gennaio del 1943, dopo Stalingrado, Hitler aveva perso la guerra, ma ci sono voluti purtroppo altri due anni e mezzo per venirne a capo. La stagione dell’egemonia mafiosa su pezzi significativi della società potrebbe essere trascorsa, ma per stabilirlo sarebbe necessario un approccio laico, privo di propaganda, scevro da carrierismi e capace di tracciare un serio bilancio sui successi ottenuti e su quanto resta da fare. Il fatto che parecchi invochino lo stato d’eccezione contro la criminalità mafiosa, ma rifiutino di indicare con serietà al Paese entro quando intendano distruggere questa cancrena suscita inevitabili riserve. Forse qui si annida il motivo per cui il Governo italiano non è riuscito a persuadere i giudici di Strasburgo delle proprie ragioni in favore della prosecuzione all’infinito di un regime che, obiettivamente, viola il principio di personalizzazione e di rieducazione della pena e sottopone i detenuti a costrizioni solo in ragione dei reati di cui rispondono. Una maggiore flessibilità, l’abbandono di automatismi e una maggior fiducia verso la magistratura di sorveglianza che presiede alla legalità costituzionale della pena sono possibili solo a questa condizione. Fine pena mai solo se la mafia non avrà mai fine.. Quanto ci mancano Falcone e la sua speranza: spes contra spem. Riforma del processo penale. Il Pd insiste: modifica alla prescrizione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 10 ottobre 2019 I dem propongono una sospensione a tempo dopo il primo grado: 4 o 5 anni Oggi nuovo round sulla giustizia tra Pd e M5s in vista del vertice definitivo tra tutti i partiti della maggioranza prima della presentazione in Cdm da parte del Guardasigilli Alfonso Bonafede dei due Ddl, uno per il processo penale e l’elezione del Csm e l’altro per il processo civile. Il nodo della prescrizione resta in primo piano: da una parte il M5s che difende la riforma della prescrizione che entrerà in vigore dal primo gennaio 2020 (sospensione dopo il primo grado di giudizio), dall’altra il Pd - in questo d’accordo con i renziani di Italia viva - che insiste per una modifica in senso garantista prima di quella data. La proposta che il Pd sottoporrà al ministro (all’incontro di oggi saranno presenti tra gli altri il sottosegretario a Via Arenula Andrea Giorgis e la responsabile giustizia del Pd Roberta Pinotti) è una sorta di sospensione a termine da approvare con legge delega entro l’anno. Ossia la sospensione scatterebbe sì dopo il primo grado di giudizio, ma se il processo non dovesse concludersi entro un congruo numero di anni ancora da stabilire (4 o 5) la prescrizione scatterebbe di nuovo. C’è accordo, invece, sullo spacchettamento della riforma Bonafede in due Ddl e sull’opportunità di coinvolgere durante l’iter le categorie interessate, avvocati e magistrati. Riforma del processo penale. Il M5S insiste sul carcere per i grandi evasori di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 10 ottobre 2019 Dall’inasprimento delle pene, alla revisione delle soglie di punibilità, dalla confisca allargata all’estensione del decreto 231. Prende forma il pacchetto penale che potrebbe essere inserito nel decreto legge da approvare la prossima settimana, anche se si dibatte sull’opportunità di inserire misure di diritto penale sostanziale all’interno di un decreto legge. Le misure sono state messe a punto dal ministero della Giustizia e ieri il ministro Alfonso Bonafede se ne è intestato la paternità a fronte di un assai più cauto Roberto Gualtieri: “La lotta all’evasione fiscale è una priorità di questo governo e c’è un progetto di legge, in alcuni articoli scritto personalmente da me, che stabilisce che per i grandi evasori è prevista anche la pena detentiva, quindi il carcere”. “Credo - ha proseguito il Guardasigilli - che in tutta Italia ci siano 250 persone in carcere per evasione fiscale. Sono solo loro i grandi evasori in Italia? Penso di no. C’è un accordo di governo e sono sicuro che il ministro Gualtieri sia molto determinato nella lotta all’evasione. E lo sta dimostrando con forme di prevenzione, che sono quelle che garantiscono la trasparenza nei pagamenti. Ritengo, quindi, che ci sia totale convergenza di azione e di visione di come dovrà essere fatta la lotta all’evasione. Ci sarà un inasprimento delle pene per i grandi evasori fiscali”. E proprio su quest’ultimo punto l’intervento potrebbe prevedere da una parte l’innalzamento dei massimi e anche dei minimi edittali previsti dal decreto legislativo n. 74 del 2000 e dall’altra un abbassamento delle soglie di rilevanza penale ancora di recente ritoccate, all’insù, dal Governo Renzi. Soglie più basse e sanzioni più alte, quindi. In questo senso, del resto, andava un anno fa l’emendamento a firma dell’attuale presidente della commissione Giustizia della Camera, Francesca Businarolo (M5S), al disegno di legge anticorruzione. Emendamento, se non promosso quanto meno caldeggiato dal ministero, analogamente a quanto avvenne con la prescrizione. A differenza di quest’ultima poi però il testo venne accantonato, ma il punto di riferimento è quello. Tanto per dare un’idea, per il reato di “dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”, era prevista una reclusione da 4 a 8 anni, a fronte dei limiti attuali, da 1 anno e 6 mesi a 6 anni. Potrebbe poi essere estesa ai reati tributari la confisca allargata e cioè la misura patrimoniale destinata a colpire i patrimoni di chi non è in grado di giustificare il proprio tenore di vita, del tutto disallineato rispetto al reddito dichiarato. Questa particolare misura di sicurezza patrimoniale, svincolata da un rapporto di pertinenza tra beni e reato, è sinora prevista solo quando si procede per delitti assai gravi, anche se l’elenco si è via via allungato sino a comprendere, tra gli altri, i principali reati contro la pubblica amministrazione, dalla concussione alla corruzione, alcune forme di associazione per delinquere, il riciclaggio. Direttamente rivolta a colpire le imprese che si sono avvantaggiate dalla commissione di reati fiscali è poi l’intenzione di procedere all’estensione del decreto 231 del 2001, sulla responsabilità amministrativa degli enti, con misure sanzionatorie, non solo pecuniarie e non solo dopo condanna, ma anche interdittive (come il commissariamento o il blocco dalla contrattazione con la pubblica amministrazione). Nelle mani del Governo del resto c’è, dalla settimana scorsa, dopo l’approvazione finale della legge di delegazione comunitaria, una delega per inserire le frodi Iva nella lista dei reati presupposto. Elezioni al Csm. Vince D’Amato, Di Matteo passa ma senza exploit di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 10 ottobre 2019 Le correnti sono morte, lunga vita alle correnti! Soprattutto a una: Magistratura Indipendente. Esecrata e falcidiata (3 consiglieri dimissionari su 5) per lo scandalo del mercato delle nomine, resiste a una campagna in trincea ed elegge alle suppletive del Csm Antonio D’Amato, procuratore aggiunto di Santa Maria Capua Vetere, con 1.460 voti. L’altro seggio va a Nino Di Matteo. Partiva favorito e centra l’elezione, ma manca l’exploit: 1.184 voti (in linea con quelli della sua corrente, Autonomia e Indipendenza, nel 2018). Sfumato il sogno di ripetere il plebiscito di Davigo, peraltro mai citato al contrario di Sebastiano Ardita. Malumori tra i suoi per il proclama sui “metodi” dei magistrati “vicini a quelli mafiosi” e per una campagna puntata sulla notorietà, rifuggendo il contatto diretto sui territori. Tutto il contrario di D’Amato, che ha battuto l’Italia a palmo a palmo, ha ricompattato la sua corrente al grido “né con Cosimo Ferri né contro Cosimo Ferri”, si è proclamato difensore delle toghe “senza volto” lontane dai riflettori mediatici, ha giocato la carta dell’orgoglio della magistratura moderata contro due avversari: sinistra moralizzatrice ed estremismo giustizialista. Astensionismo alto: 26% nonostante la pluralità di candidature (16 per due posti, l’anno scorso correvano in 4 per altrettanti posti) e l’apertura agli indipendenti, decisa dall’Associazione nazionale magistrati come penitenza dopo lo scandalo di giugno e in realtà solo parzialmente rispettata. Non a caso hanno vinto le due correnti (Magistratura Indipendente e Autonomia e Indipendenza, che fino a 5 anni fa erano tutt’uno) capaci di esprimere, sia pure indirettamente, un solo candidato. La progressista Area, con 5 candidati l’un contro l’altro armati, ha disperso gli oltre 1800 voti e la certezza di un seggio. Moralità somma o tattica suicida, il dibattito è aperto e si annuncia battaglia all’assemblea del weekend. La centrista Unicost, in crisi di identità dopo il caso Palamara, con due candidati crolla dal 25% al 14%. Da cuore a margine del sistema. Nel Csm ora è Autonomia e Indipendenza la prima corrente con 5 seggi: se regge il patto con Area (4) possono governare nomine e strategie. Anche perché tra due mesi si rivota per un altro seggio vacante. Il sistema maggioritario impone alleanze. Unicost a rischio diaspora, Magistratura Indipendente fa da calamita. Si delinea un bipolarismo giudiziario, come in Parlamento. L’ex pm antimafia irrompe nel Csm, ma le correnti non sono sconfitte di Liana Milella La Repubblica, 10 ottobre 2019 È il magistrato antimafia più conosciuto e scortato in Italia, ma Nino Di Matteo arriva secondo nella corsa per conquistare un seggio da consigliere togato al Csm. Si ferma a 1.184 voti. In compenso il suo ingresso porta il gruppo di Piercamillo Davigo, Autonomia e indipendenza, a essere il primo a palazzo dei Marescialli con cinque esponenti. A battere Di Matteo, conquistando il primo posto, è Antonio D’Amato, procuratore aggiunto a Santa Maria Capua Vetere, una vita da pm tra Palmi, in Calabria, e Napoli, a fianco dell’ex procuratore Agostino Cordova. D’Amato viene votato da 1.460 colleghi, anche se, tra le 6.799 toghe che hanno imbucato la scheda nell’urna, Di Matteo è assai più conosciuto di lui. Ma nel voto di domenica e lunedì c’è un segnale che conta di più. Perché, dopo l’inchiesta di Perugia per corruzione sull’ex pm di Roma Luca Palamara e la bufera che ha investito il Csm per il mercato delle nomine tra toghe e politica e ha costretto ben cinque componenti togati su 16 alle dimissioni, tra cui tre di Magistratura indipendente e due di Unicost, i giudici hanno deciso di votare proprio per un esponente di Mi, il gruppo più colpito numericamente dai ricaschi dell’inchiesta. È un fatto. Innegabile perché certificato dai numeri. Che fa dire all’ex segretario di Mi Antonio Racanelli (dimessosi dalla carica perché nei rapporti della Finanza c’erano tracce di suoi incontri con Palamara) che “la magistratura moderata esiste e si fa sentire”. E pure un altro ex del Csm, il deputato di Forza Italia Pierantonio Zanettin, dice che “la magistratura moderata vince e si afferma”. A parte gli auguri a Di Matteo, M5S non parla del risultato, Né tantomeno lo fa il Pd. I 1.460 voti di D’Amato sono un punto fermo. Certo D’Amato, durante la sua campagna elettorale, ha ripetuto più volte “non sono il candidato di Cosimo Maria Ferri”, una battuta mai smentita che suona come una presa di distanza dall’ex leader di Mi, divenuto sottosegretario alla Giustizia su input di Niccolò Ghedini, passato per tre governi, eletto con Renzi alla Camera nel Pd, e ora con lui in Italia viva. Proprio Ferri con il dem renziano Luca Lotti, fresco di rinvio a giudizio per Consip, era con Palamara negli incontri per le nomine. Come leggere allora il voto del Csm, che all’inizio di dicembre si ripeterà per un’altra poltrona mancante? C’è una magistratura che svolta a destra? Il risultato non lo conferma perché, se è vero che nessuna delle toghe della sinistra di Area passa, tuttavia i risultati dei singoli candidati - il pm di Napoli Fabrizio Vanorio (615 voti), l’ex segretaria di Md Anna Canepa (584), Paola Cameran (311), la stessa Tiziana Siciliano, pm a Milano del caso Cappato (413), indipendente ma sostenuta da Area - dimostrano che molti consensi sono andati a sinistra. Come ammette il segretario di Area Eugenio Albamonte, forse l’errore è stato quello di candidare molti magistrati con una conseguente dispersione del voto. All’opposto però non vince neppure Unicost, perché l’unico candidato, Francesco De Falco, il pm di Napoli noto per l’inchiesta sulla paranza dei bambini, si ferma a 950 voti. L’attuale presidente di Unicost Mariano Sciacca smentisce che qualcuno dei suoi possa aver sostenuto D’Amato, ma più di una toga al Csm lo sostiene. Tant’è. Ora, come dicono i consiglieri davighiani, il loro gruppo sarà “il futuro ago della bilancia”. Con toghe come Davigo, Di Matteo e Sebastiano Ardita da sempre polemiche sul correntismo. Le prossime due settimane saranno rivelatrici, perché bisognerà scegliere in commissione il pg della Cassazione e il procuratore di Roma. In pole rispettivamente Giovanni Salvi e Michele Prestipino. Misure cautelari: la Pec inviata dalla cancellaria non sana l’impugnazione irrituale di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 10 ottobre 2019 Corte di cassazione - sezione VI - Sentenza 9 ottobre 2019 n. 41283. Nel processo penale l’impugnazione contro la misura della custodia cautelare in carcere, proposta irritualmente, non può essere sanata con la trasmissione a mezzo Pec dalla cancelleria del tribunale che ha ricevuto l’atto, al tribunale competente. La Cassazione, con la sentenza 41283, respinge così il ricorso di un indagato per reati di traffico di stupefacenti nell’ambito di un’associazione criminale di stampo mafioso. I giudici ricordano che la possibilità di usare la Pec, in un atto di parte come l’impugnazione è esclusa in caso di trasmissione, a cura della cancelleria dell’ufficio giudiziario presso il quale questa è stata depositata. Se così non fosse, precisano i giudici, la cancelleria dell’ufficio giudiziario si sostituirebbe alla parte nell’esercizio di una facoltà che è negata alla parte stessa. Un paletto giustificato in assenza di una infrastruttura digitale in grado di assicurare la ricezione e la conoscenza, nel rispetto dei termini processuali, da parte della cancelleria che ha emesso il provvedimento impugnato e quindi del giudice. Tempi e modi nell’invio con la Pec sono affidati a fattori casuali e indeterminati, primo fra tutti, chiarisce la Suprema corte, la stampa del file a cura della cancelleria ricevente. Elementi che sono in contrasto con il principio di tassatività e inderogabilità delle forme per presentare le impugnazioni. La Cassazione precisa che il principio affermato non è in contrasto con altre decisioni prese su materie diverse, come il giudizio di convalida delle misure disposte per disordini in caso di manifestazioni sportive (sentenza 11475/2018) o isolate pronunce in tema di deposito di istanza di rinvio del dibattimento per legittimo impedimento (sentenza 47427/2014). Differenze che derivano dal “tema” trattato relativo a procedure per le quali non sono previste specifiche modalità di deposito degli atti in cancelleria, o inerenti a istanze che, anche se irrituali, sono state tempestivamente conosciute dal giudice. Materie fuori dal raggio d’azione della tassatività delle forme di deposito diversamente dalle impugnazioni. Guida in stato di ebbrezza contestabile anche dopo aver parcheggiato il veicolo di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 10 ottobre 2019 Corte di cassazione - Sentenza 9 ottobre 2019 n. 41457. La guida in stato di ebbrezza può essere contestata anche se l’auto è parcheggiata. È infatti sufficiente la prova che il veicolo sia stato guidato poco tempo prima. La Corte di cassazione, sentenza n. 41457 di oggi, ha così respinto il ricorso di un uomo sanzionato (ex articolo 187, comma 7 del Cds) per non essersi sottoposto all’alcol test dopo che una videoregistrazione lo aveva immortalato alle 22.55 alla guida di un’ape, sebbene gli agenti l’avessero fermato alle 22.57 quando il mezzo era stato ormai posteggiato, con le quattro luci accese, in una piazza cittadina. Secondo il guidatore, a quel punto egli sarebbe dovuto essere considerato un semplice “pedone”. Per i giudici tuttavia “solo con un inammissibile “salto logico” è possibile affermare - cosi come fatto nell’atto di impugnazione - che, dopo aver parcheggiato il veicolo, l’imputato avesse perso la sua qualità di “conducente”, diventando mero “pedone” della strada, posto che era stato visto alla guida dell’ape pochi attimi prima di essere stato fermato dai poliziotti, che lo avevano così notato in evidente stato di ebbrezza alcolica e che perciò, avevano deciso di sottoporlo all’alcoltest”. L’articolo 186, comma 7, codice della strada, ricorda la decisione, sanziona la condotta del “conducente” di un mezzo che rifiuta di sottoporsi all’esame alcolimetrico richiesto dagli agenti della polizia in caso di incidente stradale ovvero “quando si abbia altrimenti motivo di ritenere che il conducente del veicolo si trovi in stato di alterazione psicofisica derivante dall’influenza dell’alcool”. “È di tutta evidenza - spiega la decisione - che il termine “conducente” si riferisca a colui che guida o che ha guidato - fino a poco prima delle richiesta degli agenti di polizia - un veicolo”. In questo senso, prosegue la Corte, si è espressa anche la giurisprudenza di legittimità (n. 10475/2010) secondo cui: “ai fini del reato di guida in stato di ebbrezza, rientra nella “nozione di guida” la condotta di chi si trovi all’interno del veicolo (nella specie in stato di alterazione, nell’atto di dormire con le mani e la testa poste sul volante) quando sia accertato che egli abbia in precedenza, deliberatamente movimentato il mezzo in area pubblica o quantomeno destinata al pubblico”. Sulla stessa linea, la sentenza n. 37631/2007 ha affermato che “deve ritenersi che la fermata costituisca una fase della circolazione stradale, talché è del tutto irrilevante, ai fini della contestazione del reato di guida in stato di ebbrezza, se il veicolo condotto dall’imputato risultato positivo all’alcoltest fosse, al momento dell’effettuazione del controllo, fermo ovvero in moto”. Valida l’espulsione comunicata con copia conforme del decreto prefettizio Il Sole 24 Ore, 10 ottobre 2019 Stranieri - Espulsione - Consegna copia conforme del decreto di espulsione - Validità - Consegna in carta libera - Nullità dell’espulsione. E’ valida l’espulsione comunicata all’espellendo mediante copia conforme del decreto prefettizio purché sulla copia consegnata sussista la certificazione di conformità apposta dal funzionario di polizia addetto all’ufficio depositario dell’atto e autorizzato all’autenticazione a norma dell’art. 14 legge n. 15 del 1968. Sussiste al contrario radicale vizio di nullità dell’espulsione qualora venga comunicata con una semplice copia fotostatica perché non recante l’attestazione di conformità all’originale. Ne consegue che il decreto di espulsione vada annullato. • Corte di cassazione, sezione VI civile, sentenza 27 settembre 2019 n. 24119. Ordine e sicurezza pubblica - Polizia di sicurezza - Limitazioni di polizia - Stranieri - Immigrazione - Decreto di espulsione privo della sottoscrizione del prefetto - Illegittimità - Sanatoria - Inammissibilità. Nel caso in cui il decreto prefettizio di espulsione dello straniero, comunicato all’interessato, sia sprovvisto di sottoscrizione dell’autorità preposta ovvero dell’attestazione della conformità all’originale accertata da altro pubblico ufficiale, esso è, se non inesistente, illegittimo e insuscettibile di sanatoria attraverso la produzione di una copia conforme all’originale nel corso del procedimento giurisdizionale per la sua impugnazione. • Corte di cassazione, sezione VI civile, sentenza 12 novembre 2015 n. 23171. Ordine e sicurezza pubblica - Polizia di sicurezza - Limitazioni di polizia - Stranieri - Provvedimento prefettizio di espulsione - Comunicazione all’interessato in copia libera o informale - Mancata successiva consegna di altra copia debitamente autenticata - Conseguente nullità del provvedimento - Configurabilità - Produzione della copia autenticata in corso di giudizio di opposizione - Irrilevanza. In tema di espulsione dello straniero dal territorio dello Stato, sussiste il radicale vizio della nullità del relativo provvedimento prefettizio - per difetto della sua necessaria formalità comunicatoria - tutte le volte in cui all’espellendo venga comunicata una mera copia, libera e informale, dell’atto, non sottoscritta dal Prefetto né recante attestazione di conformità all’originale, e senza che, neanche successivamente, gli venga consegnata altra copia debitamente autenticata, irrilevante essendo, ai fini dell’eventuale sanatoria della detta nullità, che tale copia venga invece prodotta soltanto in giudizio, e al solo fine di attestare al Giudice che, nell’ufficio depositario, giace l’originale dell’atto opposto. Tale produzione persegue, difatti, finalità estranee a quella delineata dagli artt. 13 comma tre e sette del D.Lgs. 286/1998 e quattordici della legge 15/1968 e risulta del tutto inidonea a sanare il vizio di nullità dell’atto, non rappresentando tempestivo esercizio di autotutela da parte dell’organo amministrativo. • Corte di cassazione, sezione I civile, sentenza 6 settembre 2004 n. 17960. Prova civile - Documentale (prova) - Copie degli atti - Di atti pubblici - Provvedimento prefettizio di espulsione “ex” art. 13 t.u. immigrazione - Comunicazione all’interessato - In copia conforme all’originale - Legittimità. Il provvedimento prefettizio di espulsione dello straniero ben può essere comunicato all’interessato in copia conforme formata dal pubblico ufficiale autorizzato, atteso che l’autenticazione a norma dell’art. 14 della legge 4 gennaio 1968, n. 15 offre la certezza, fino a querela di falso, della esistenza del provvedimento originale conforme e dell’autografa sottoscrizione dell’organo competente. (Nella specie il ricorrente censurava che la copia conforme del provvedimento di espulsione a lui comunicata non risultasse, anch’essa, sottoscritta dal prefetto, ma da un funzionario delegato; la S.C., enunciando il principio di cui in massima, ha respinto la censura). • Corte di cassazione, sezione I civile, sentenza 9 novembre 2001 n. 13871. Campania. Detenuti da recuperare di Carmine Alboretti ladiscussione.com, 10 ottobre 2019 “Puntare tutto sulla sicurezza, trascurando l’aspetto del recupero della persona del detenuto rende inutile gli sforzi, anche economici, dello Stato”. Carmine Uccello si è occupato di gestione delle risorse umane per conto di una importante azienda sanitaria. Oggi presiede “Carcere Vi.vo”, un’associazione legata alla Società di San Vincenzo de Paoli che da 40 anni entra negli istituti di pena della Campania per portare un messaggio di speranza. Presidente lei, nel corso della sua attività di volontario in carcere, ha avuto la possibilità di interfacciarsi con ergastolani? “Personalmente no, ma il cappellano e alcune suore sì”. Che idea si è fatto della sentenza della Corte europea dei diritti umani che ha bocciato il cd. “ergastolo ostativo”? “Come volontario penso poco; cerco, piuttosto, di portare avanti la mia missione. E, comunque, non commento mai le sentenze”. Cosa fate in carcere voi volontari? “Non andiamo in carcere per curiosare o giudicare, ma per confortare, sostenere e accompagnare. Insomma per fare un cammino di detenzione insieme ai detenuti e alle loro famiglie. Sono due facce della stessa medaglia: non possiamo trascurare l’uno a discapito dell’altro”. Quale è il vostro modus operandi abituale? “I detenuti con una domandina chiedono di poter parlare con noi. Ci presentiamo e ascoltiamo la loro storia. In questo modo veniamo a sapere in che ambiente sono vissuti, quali esperienze hanno fatto. A volte ci contattano le famiglie per andare a trovare i congiunti. Una cosa è certa: qualsiasi volontario sa che il suo compito è quello di accompagnare la persona fino a quando non avrà scontato la sua pena”. Nel corso di questi incontri i detenuti fanno mai accenno alle vittime dei loro reati? “Certamente. Il perdono dei familiari delle vittime è molto importante per loro. Le posso raccontare un aneddoto?”. Faccia pure… “A Pasqua, il Venerdì Santo nel carcere a Poggioreale a Napoli organizziamo una via Crucis particolare…”. Perché? “Perché vi partecipano i detenuti, gli operatori, i volontari ed i componenti dell’associazione dei familiari delle vittime innocenti della camorra che seguono un cammino pastorale don Tonino Palmese. Carnefici e vittime si ritrovano a portare la croce della redenzione insieme, lungo le mura del perimetro della struttura. È una scena molto suggestiva ed emotivamente coinvolgente. Quando siamo andati in udienza dal Papa abbiamo ascoltato la testimonianza di un ergastolano che aveva ottenuto un permesso dopo 22 anni di detenzione e quella di una donna. Il primo ha dichiarato di essersi sentito libero il giorno in cui ha saputo di essere stato perdonato dalla madre della vittima, lei di aver raggiunto un senso di pace e di serenità interiore, quando ha perdonato l’assassino del figlio…”. È consapevole che ci sono persone per le quali, dopo aver condotto in cella determinate persone, bisognerebbe gettare via la chiave? “Puntare tutto sulla sicurezza, trascurando l’aspetto del recupero della persona del detenuto rende inutile gli sforzi, anche economici, dello Stato. Se chi esce torna a delinquere a cosa serve spendere tutti quei soldi? Del resto l’articolo 27 della Costituzione dice che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Ecco perché è importante lavorare nella direzione che auspichiamo, senza trascurare le famiglie”. Quale aiuto fornite? “Le incontriamo mensilmente per fare il punto della situazione e per venire incontro ai loro bisogni”. Come vi mantenete? “Non abbiamo appoggi esterni. Ci autofinanziamo e organizziamo ogni anno uno spettacolo per raccogliere fondi. Il 29 novembre prossimo abbiamo invitato in carcere per un concerto il Coro delle Voci di Massabielle. Il ricavato andrà alle famiglie dei detenuti che seguiamo direttamente. A maggio, poi, come di consueto, organizzeremo un pellegrinaggio sempre con i nuclei familiari”. Milano. Le letture in pubblico dei condannati al “fine pena mai” di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 10 ottobre 2019 Opera, il ringraziamento dei detenuti: un’opportunità. Riconoscenti. Commossi. Emozionati. Non la finivano più di ringraziare per l’opportunità concessa, tutt’altro che scontata. Martedì 19 uomini che da decenni vivono isolati in un regime durissimo di ergastolo ostativo, per la prima volta sono potuti salire su un palco, in pubblico. E’ accaduto al penitenziario di Opera con il direttore Silvio Di Gregorio e la presidente del Tribunale di sorveglianza Giovanna Di Rosa, la platea piena di cittadini e studenti. In scena i detenuti, per lo più anziani, hanno letto un racconto di Friedrich Durrenmatt. Per combinazione, proprio nel giorno in cui la Corte europea ribadiva all’Italia la necessità di riformare l’istituto dell’ergastolo ostativo perché “degradante” e “inumano”. Quel regime, spiega Di Rosa, “esclude a priori la possibilità di qualunque permesso o beneficio, a meno che il recluso non accetti di diventare collaboratore di giustizia o sia provata la sua impossibilità a collaborare. L’eventuale cambiamento della persona dunque non viene valutato, nemmeno dopo decenni di carcerazione”. In altre parole, chiarisce il legale Eugenio Losco della Camera penale di Milano, l’ostativo cristallizza la pena togliendo “al detenuto la speranza nel futuro” e al giudice “il potere di decidere con discrezionalità, caso per caso, se concedere (o no) un piccolo permesso premio”. In fondo il racconto rappresentato sul palco, La Panne - in cui un giudice, un avvocato e un boia in pensione dimostrano l’impossibilità umana di arrivare alla verità - diceva anche questo: lo Stato, per poter “correggere” chi ha sbagliato, dovrebbe prendere in carico la persona nel suo complesso e valutarla man mano, riducendo al massimo rigidità e automatismi. Altrimenti si rischia di ipotecare il futuro, come fosse già predefinito. “Gli umani, nei decenni in cella, possono cambiare davvero, è questo il senso più profondo del carcere” spiega Losco che ha organizzato l’evento con le responsabili del laboratorio Donata Civardi e Patrizia Ferragina. Il trasporto era degli “attori” condannati al fine pena mai, uomini in quell’attimo responsabili, perché investiti di un po’ di fiducia. Ma emozionatissimo era anche il pubblico, assicura chi era presente in sala. Dopo lo spettacolo alcuni hanno preso il microfono. “Abbiamo bisogno di mostrarci per come siamo oggi. E nello sguardo di chi vive fuori che ci riconosciamo diversi - diceva un detenuto -. Quello che abbiamo fatto nel passato lontano non lo possiamo cancellare, resta come sofferenza infinita, colpa che espieremo per sempre. Ma siamo uomini nuovi”. Rilanciava un altro, capelli bianchi e due lauree prese ad Opera: “Nel confronto coi volontari che ci sostengono nello studio troviamo il coraggio di ricostruirci. Davanti agli altri capiamo quanto distruttivi siamo stati e quanto invece possiamo ancora sforzarci di crescere e maturare. A volte basta una carezza, un rito, la speranza di potersi presentare un giorno, meritevoli nonostante le colpe, di fronte alla società”. Pareva una preghiera laica. “Potremo mai restituire un po’ di bene? Ci proviamo, con il lavoro in carcere”. Il discorso ci riguarda profondamente: “Siamo chiamati tutti a interrogarci sulla possibilità di sbagliare, sulla nostra condotta”, fa notare il direttore Di Gregorio. Grazie a lui i detenuti hanno potuto mostrarsi in una occasione unica, per ciò che hanno imparato. “Diceva Durrenmatt che la verità delude sempre e resiste in quanto tale solo se non la si tormenta - ha chiuso ancora un detenuto. Qui di verità ne afferriamo una, intanto. Oggi abbiamo potuto sperare di non deludervi”. Monza. Biblioteca Vivente: un po’ letteratura un po’ teatro per superare i pregiudizi di Marco Belli gnewsonline.it, 10 ottobre 2019 Mettersi in gioco per scavare sempre più a fondo in se stessi; per ascoltare ma anche per sollecitare e provocare. Soprattutto, per emozionarsi insieme. È l’ispirazione che ha spinto un gruppo di magistrati e volontari che operano nella Casa circondariale di Monza ad avviare insieme a un gruppo di detenuti una iniziativa unica nel suo genere: la Biblioteca Vivente. L’idea è nata in alcuni Paesi europei per favorire il superamento dei pregiudizi nei confronti di alcune categorie di persone. E sabato 5 ottobre nel carcere lombardo si è svolta la seconda edizione, aperta al pubblico, in cui tutti si sono messi in gioco. Funziona così: ogni detenuto si è proposto al pubblico come libro vivente, cioè attraverso il racconto della sua storia, della sua vita o di parte di essa; il pubblico rappresenta la massa di lettori del libro, che viene vissuto attraverso l’ascolto della storia. L’iniziativa è stata proposta all’esterno per coinvolgere i cittadini: “Se vorrete essere uno di questi lettori dovrete venire in carcere il giorno 5 ottobre 2019 dopo che vi avremo comunicato i titoli dei libri della nostra biblioteca vivente. Insieme ai titoli vi daremo anche la cosiddetta quarta di copertina, cioè una traccia, uno spunto del libro che andrete a leggere se lo sceglierete”, spiegavano gli organizzatori. E chi ha deciso di entrare in carcere quel giorno, ha avuto la possibilità di “leggere” due libri viventi, sedendosi a un tavolo con i detenuti che li rappresentavano. A loro si potevano rivolgere domande ma poteva anche capitare che fossero i libri viventi a fare domande al lettore, che a quel punto decideva se mettersi in gioco. La storia raccontata poteva non essere sempre la stessa, molto dipendeva dall’interlocutore, dalla sua curiosità, dalle emozioni che ogni singola parola poteva suscitare. “Anche noi magistrati ci siamo messi in gioco, perché non si è trattato di semplici incontri, ma di inserirci in una relazione con i detenuti certamente più personale e diretta, senza salire in cattedra e con la voglia di comprendere il loro punto di vista, di aiutarli a superare il rancore verso le istituzioni ed entrare in un rapporto costruttivo che li aiuti a guardare oltre le sbarre, in vista della loro scarcerazione”. Così spiega a Gnews il procuratore aggiunto di Monza Manuela Massenz, uno degli organizzatori dell’iniziativa. “Naturalmente non tutti i percorsi hanno un lieto fine - continua il magistrato - purtroppo ci sono le ricadute, certamente facilitate dalla difficoltà che gli ex detenuti incontrano nel reinserirsi nella società e, soprattutto, nel mondo del lavoro. È sicuramente il tema del lavoro quello che ricorre di più nei dialoghi con i detenuti: la frustrazione di non fare nulla all’interno del carcere e la preoccupazione di rimanere disoccupati una volta fuori”. “Noi comunque proseguiamo - conclude Massenz - nella speranza di riuscire a contaminare positivamente anche quei detenuti che sono maggiormente resistenti a qualsiasi forma di trattamento. E nella convinzione di poter sensibilizzare anche il personale di Polizia Penitenziaria, sempre molto collaborativo nel favorire l’organizzazione di questa come di altre iniziative”. Napoli. “Regalami un sorriso”, 20 protesi per i detenuti di Poggioreale napolitan.it, 10 ottobre 2019 Si chiama “Regalami un sorriso” ed è un progetto che nasce da un’intesa tra Asl Napoli 1 Centro, Rotary Club Napoli Castel Sant’Elmo, Istituto Statale per odontotecnici Alfonso Casanova di Napoli e Casa Circondariale G. Salvia di Napoli Poggioreale. L’obiettivo è quello di realizzare, e donare, 20 protesi mobili a detenuti della Casa Circondariale di Poggioreale che altrimenti non avrebbero le possibilità economiche di provvedere in autonomia. A mettere a disposizione i fondi necessari è il Rotary Club Napoli Castel Sant’Elmo, dando vita ad un eccellente esempio di collaborazione tra Istituzioni e mondo dell’associazionismo non profit. I volontari rotariani forniranno anche la necessaria assistenza odontoiatrica mentre gli specialisti dell’Asl Napoli 1 Centro provvederanno alla necessaria preparazione di igiene orale dei detenuti. Fondamentale il ruolo dell’Istituto Statale Alfonso Casanova che con docenti e allievi di Odontotecnica realizzerà le protesi in Alternanza scuola lavoro (oggi denominata Percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento). “Siamo felici di poter fare la nostra parte nell’assicurare un sorriso ai detenuti della casa circondariale. Sentiamo forte l’esigenza di sostenere il percorso difficile della detenzione garantendo la salute di quanti devono giustamente scontare la propria pena. Essere in carcere non deve mai significare dover rinunciare alle cure o, come in questo caso al proprio sorriso - questo il commento del direttore generale Verdoliva”. “Fondando sull’esperienza già maturata nei due anni precedenti con le case di pena di Poggioreale e di Secondigliano - ha commentato la Dirigente scolastica del Casanova Mira Masillo - puntiamo da ora a dare vita al vero scopo di questa progettualità, rendere i detenuti autonomi nella costruzione di semplici protesi mobili grazie alla sezione carceraria del Casanova per odontotecnici”. La Direttrice della Casa circondariale di Poggioreale, Maria Luisa Palma, ha sottolineato “la doppia valenza sociale dell’azione che punta sia al valore prioritario della dignità della persona umana, favorendone il recupero anche attraverso un migliore aspetto fisico e migliori condizioni di salute, sia al reinserimento dei detenuti nella società e nel mondo del lavoro”. “È questo un problema sociale e non può gravare esclusivamente su chi si occupa del trattamento penitenziario e dell’esecuzione della pena - hanno precisato il Presidente del Rotary Club Napoli Castel Sant’Elmo Eugenio D’Angelo e la Past President Rosanna Stellato - ecco il perché della rete di azione tra vari Soggetti che, ciascuno secondo le proprie competenze, collabora condividendo la prospettiva finale del processo di integrazione sociale e di profondo cambiamento culturale, necessario per un progetto di società solidale e inclusiva”. Verona. La squadra di calcio dei detenuti ha vinto il Trofeo “Mosconi & Bertoldi” primoweb.it, 10 ottobre 2019 Ieri mattina in sala municipio a Verona si è svolta la premiazione del torneo di calcio, dedicato ai due indimenticati giornalisti sportivi scomparsi qualche anno fa, disputato nei mesi scorsi, a cui hanno partecipano le squadre dei giornalisti, dei Dottori commercialisti, dei geometri, dell’Ordine degli avvocati, dell’Esercito, della Guardia di Finanza e dei detenuti della Casa Circondariale di Montorio. Proprio questi ultimi hanno avuto la meglio sui giornalisti nella partita finale che si è giocata nel campo all’interno del Carcere. A consegnare il trofeo è stato l’assessore allo Sport Filippo Rando, a riceverlo Nereo Spiazzi con il preparatore Simone Viviani in rappresentanza della squadra calcio dei detenuti. Insieme a loro, c’erano anche Raffaele Tommelleri, presidente dell’associazione sportiva dilettantistica “Giornalisti 93 Asd” e anima dell’iniziativa, l’avvocato Augusto De Beni per l’ordine forense e i giornalisti Matteo Scolari e Luca Corradi. Il trofeo, giunto alla settima edizione, è dedicato alla memoria di Germano Mosconi e Luigi Bertoldi, che sono stati per lunghi anni tra le voci più conosciute e apprezzate dell’informazione sportiva veronese. Oltre a promuovere il calcio e i valori dello sport, il trofeo si pone anche un obiettivo sociale. Attraverso il progetto Madagascar, infatti, da sei anni la squadra ha adottato una classe intera di bambini della missione dove opera suor Anselmina, religiosa veronese da moltissimi anni ad Antananarivo, capitale malgascia. Grazie al sostegno di alcune aziende locali, la squadra copre le spese di tutti i bambini, compreso lo stipendio annuale delle insegnanti. Il progetto, che ha permesso ai bambini di concludere tutti i cinque anni di scuola primaria, prosegue quest’anno con una nuova classe prima. Un altro evento benefico attende i giornalisti calciatori questo week end a Lazise. L’appuntamento è per la terza edizione del memorial Andrea Mantovani, dedicato al giovane giornalista scomparso nel 2015 proprio durante una partita di calcio. “Colpire per primi. La lotta alla mafia spiegata ai giovani”, di Luciano Violante linkiesta.it, 10 ottobre 2019 La ‘ndrangheta si eredita: così si spezza il legame mafioso che si tramanda in famiglia. Nel suo ultimo libro l’ex presidente della Commissione parlamentare antimafia Luciano Violante sceglie di raccontare, in modo semplice ma preciso, il fenomeno della criminalità organizzata ai ragazzi. Solo coinvolgendo anche loro la battaglia potrà continuare anche in futuro. Presentiamo qui un estratto dal libro. “La forza della mafia è determinata dai suoi legami interni e dai suoi rapporti con il mondo esterno. I primi sono determinati dall’omertà e dalla convenienza; gli altri dalla fragilità morale di uomini delle istituzioni, di imprenditori, di cittadini comuni. L’omertà assicura la copertura reciproca tra i componenti del gruppo mafioso; la convenienza è determinata dai benefici economici e dal senso di potere che conferisce la soggezione ai mafiosi di settori della società civile. I rapporti con il mondo esterno riguardano lo scambio con la politica (voti contro favori), i patti con le imprese (appalti e spartizione degli utili), le intimidazioni o le corruzioni per chi opera nelle istituzioni, il potere esercitabile dalle carceri, l’imposizione dell’omertà ai cittadini, attraverso minacce qualora intendessero testimoniare contro l’organizzazione, l’indifferenza della gente comune. In questo capitolo indicherò sinteticamente alcune misure di lotta alla mafia volte a spezzare i vincoli interni e quelli esterni: la tutela dei cosiddetti pentiti e dei testimoni di giustizia, il carcere di massima sicurezza, lo scioglimento per mafia dei consigli comunali, la selezione delle candidature per le varie elezioni, il cosiddetto voto di scambio, le interdittive antimafia (che sono provvedimenti amministrativi diretti a impedire a determinati soggetti di prendere parte a gare pubbliche). Prima però voglio parlarvi di una questione meno nota. Nel 1996, ero vicepresidente della Camera, avevo tenuto a Reggio Calabria un’iniziativa per i licei della città proprio sui temi della lotta alla mafia. Un giovane funzionario di polizia venne a trovarmi in albergo. La moglie di un potente capomafia della zona, in carcere con più ergastoli, voleva parlarmi, ma in un’altra zona della città, meno esposta. Ci vedemmo l’indomani mattina verso mezzogiorno quasi in campagna, in un casolare che stava in piedi per miracolo. La donna era venuta con sua cognata, sorella del marito, a sua volta moglie di un capomafia, anch’egli all’ergastolo. Aveva tre figli e la cognata due: cinque maschi e nessuna delle due voleva che i figli prendessero la strada dei padri. “Fate qualcosa, portateli via; qui finiscono o al cimitero o al 41bis”. Ne parlai a don Luigi Ciotti, presidente di Libera. Qualche settimana dopo venni eletto alla presidenza della Camera e non potei più occuparmi personalmente della faccenda. Ma ero tranquillo perché don Luigi se ne stava già prendendo cura, probabilmente meglio di quanto non avessi saputo fare io. Il problema dei “figli della mafia” è sempre più rilevante. Un numero crescente di madri chiede segretamente a magistrati, poliziotti, carabinieri, che i figli vengano sottratti a un destino di mafia perché, nella realtà in cui sono immersi, i condizionamenti sono fortissimi. Un ragazzino, per dare prova di coraggio ‘ndranghetista, ha rifiutato l’anestesia nel corso della estrazione di un dente. Un altro si è fatto tatuare sulla pianta del piede l’immagine di un carabiniere per calpestarla quando cammina. Altre madri chiedono di essere obbligate ad andar via per stare vicino ai figli, e liberarsi così dalla trappola famigliare, ma con un provvedimento giudiziario che dia a quella loro scelta le sembianze di un obbligo imposto. Nel settembre del 2011 alla presidenza del Tribunale dei minori di Reggio Calabria è arrivato un magistrato, Roberto Di Bella, che si è posto il problema e lo sta affrontando efficacemente, come egli stesso ha spiegato ai componenti della Commissione parlamentare antimafia, nel corso di un’audizione del 29 aprile 2014: “La conseguenza immediatamente tangibile della mia lunga esperienza professionale nel settore è che la ‘ndrangheta si eredita. Le famiglie di ‘ndrangheta si assicurano il controllo del territorio attraverso la continuità generazionale. [...] Da circa due anni, al di là dei provvedimenti penali che adottiamo nei confronti di minori che commettono reati, abbiamo mutato orientamento giurisprudenziale provando a interrompere questa spirale perversa di trasmissione di valori negativi da padre in figlio, adottando dei provvedimenti di limitazione della potestà, ora responsabilità genitoriale, dei boss con contestuale allontanamento dei minori dalle famiglie nei soli casi di concreto pregiudizio, cioè di indottrinamento malavitoso, rischi per faide, pregiudizi molto forti... L’obbiettivo non è la punizione delle famiglie; ma prestare aiuto a questi ragazzi, allontanarli per fornire delle alternative culturali, parametri valoriali educativi diversi da quelli deteriori del contesto di provenienza nella speranza di sottrarli alla definitiva strutturazione criminale. Se si nasce a San Luca, a Bovalino, a Rosarno, a Locri, se si ha un nonno ‘ndranghetista, un padre ‘ndranghetista, fratelli ‘ndranghetisti in carcere, una madre intrisa di cultura mafiosa, la possibilità di uscire, di affrancarsi dalle norme parentali sono quasi nulle” (Commissione antimafia, relazione finale, p. 234). Lasciare nella famiglia ragazzini che possono soltanto nutrirsi di cultura mafiosa significa segnare il loro destino, o in carcere o al cimitero, come i nonni, i padri, i fratelli. E quindi, in applicazione di leggi nazionali e di convenzioni internazionali, che impongono di salvaguardare soprattutto il futuro del minore, quando la famiglia lungi dall’essere un luogo educativo è un luogo di formazione al crimine, il ragazzo o la ragazza sono allontanati dalla famiglia e aiutati a costruirsi un percorso di vita nella legalità, grazie al lavoro dei servizi sociali o di associazioni di volontariato, come Libera o Addiopizzo, con la guida del Tribunale dei minori. Questo orientamento è condiviso da altri importanti tribunali per i minorenni del Sud, come Napoli, Catania e Catanzaro. A Reggio Calabria il provvedimento è stato adottato nei confronti di trenta minori: i ragazzi hanno ripreso a frequentare la scuola, svolgono attività socialmente utili, seguono percorsi di educazione alla legalità. “Spesso” ha spiegato Roberto Di Bella in una intervista a “L’Espresso” dell’11 agosto 2019 “sono le stesse madri che ci pregano di mandare fuori i loro figli e di poterli seguire. Se siamo noi a decidere, loro non saranno colpite”. Due bravi giornalisti, Carlo Bonini e Giuliano Foschini, hanno scritto un bel libro sulla mafia foggiana, Ti mangio il cuore, nel quale raccontano un episodio agghiacciante. Nella provincia di Foggia una giovane bellissima ragazza sposa un capomafia locale e ha da lui due figli. Alcuni anni dopo, il marito viene condannato a più ergastoli. La donna, rimasta sola, cede alle avances di un altro giovane boss, capo di un gruppo mafioso ferocemente rivale di quello capeggiato dal marito, dal quale ha altri due figli. Anche il suo nuovo compagno finisce in carcere con gravi condanne. Man mano che i figli crescono, i primi affidati alle cure della nonna, gli altri rimasti con lei, la donna si rende conto che i ragazzi, figli di padri diversi e tra loro ferocemente nemici, avrebbero finito per considerarsi a loro volta nemici e destinati a uccidersi l’uno l’altro. Decide quindi di parlare con i magistrati rivelando tutto ciò che sa sulle imprese dei due clan e salvare quindi tutti e quattro i suoi figli”. “Colpire per primi. La lotta alla mafia spiegata ai giovani”, di Luciano Violante, pubblicato da Solferino Libri (2019) Siria. Erdogan lancia l’attacco, bombe e cannonate sulle città curde di Michele Giorgio Il Manifesto, 10 ottobre 2019 Ieri appena i soldati statunitensi hanno evacuato le due postazioni frontaliere di Ras al Ayn e Tal Abyad, la Turchia ha dato inizio alla “Operazione fonte di pace” - così l’ha chiamata il Erdogan - contro il popolo curdo nel Rojava. Approvata da Donald Trump la massiccia offensiva militare turca contro il popolo curdo scattata ieri pomeriggio nel nord-est della Siria, è stata benedetta anche da Jens Stoltenberg. “Spero che qualsiasi iniziativa intrapresa dalla Turchia sia proporzionata e misurata”, ha detto il segretario generale della Nato al termine dell’incontro con Giuseppe Conte, a Palazzo Chigi. Come dire: andate avanti senza problemi ma non ammazzatene tanti. Fanno perciò tenerezza gli appelli alla Nato “a fermare la Turchia” lanciati da deputati e dirigenti del M5S, del Pd, della Lega e di tutti gli altri amici fedeli del Patto Atlantico, di cui Ankara è un membro di grande importanza. I curdi si sono scoperti ancora più soli, abbandonati dagli Usa e dall’Europa che li hanno usati come carne da macello in Siria nelle battaglie contro l’Isis, per poi scaricarli una volta giunti sulle rovine del Califfato. Vittime delle bombe sganciate degli aerei del “sultano” Recep Tayyib Erdogan - atteso tra qualche settimana a Washington - i curdi hanno compreso, si spera definitivamente, che gli Usa agiscono non a favore ma contro i diritti dei popoli oppressi. La vicenda palestinese avrebbe dovuto insegnarlo anche a loro. E non possono passare inosservate in queste difficili ore le a dir poco caute dichiarazioni di Mosca e di Tehran, alleate di Damasco e del presidente Bashar Assad ma anche partner di Ankara nel processo di Astana “per una soluzione politica in Siria”. Ieri appena i soldati statunitensi hanno evacuato le due postazioni frontaliere di Ras al Ayn e Tal Abyad, la Turchia ha dato inizio alla “Operazione fonte di pace” - così l’ha chiamata Erdogan dandone l’annuncio ufficiale con un tweet: è la terza in Siria dal 2016 dopo “Scudo dell’Eufrate” e “Ramoscello d’ulivo”, quest’ultima è scattata nel gennaio 2018 nell’enclave di Afrin - contro il popolo curdo nel Rojava, nel nord est della Siria. Raid aerei e colpi di artiglieria si sono abbattuti nei pressi della diga di Bouzra (Derek), su Qamishlo, Ain Issa, Mishrefa, Tal Abyad, Ras al Ayn (Sere Kaniye) e altri centri abitati. Ci sarebbero state subito almeno 8 vittime civili anche se i turchi affermano di aver preso di mira basi e depositi di munizioni. Un bambino di sei anni è stato ferito gravemente da un bombardamento a Se Girka. “Chiediamo a gran voce a tutte le parti coinvolte di fermare l’escalation delle violenze - ha esortato Filippo Ungaro, un portavoce di Save the Children - e di assicurare in ogni modo possibile la protezione e la sicurezza delle migliaia di bambini, e delle loro famiglie, già sfiniti da una guerra che dura ormai da più di otto anni e la cui vita da oggi è ulteriormente a rischio”. Nella zona teatro dell’offensiva, oltre un milione e mezzo di persone hanno già bisogno di assistenza umanitaria, tra cui più di 650.000 sfollati. Prima e durante l’attacco turco migliaia di civili si sono messi in fuga dirigendosi verso Hasake e l’area territoriale della Amministrazione Autonoma curda nel nord della Siria che Erdogan e i suoi generali vogliono disintegrare. I comandi militari delle Fds e Ypg curde ribadiscono che resisteranno con ogni mezzo possibile a chi vuole allontanarle dal confine, distruggere qualsiasi idea di sovranità curda e mettere fine all’ eccezionale progetto politico, il Confederalismo Democratico, che raccoglie consensi ovunque del mondo. I combattenti delle Ypg ieri hanno lanciato sei razzi verso postazioni militari alla periferia della città turca di Nusaybin, senza fare vittime. Sempre le Ypg hanno respinto a Manbij un violento attacco dei mercenari, in gran parte islamisti, dell’Esercito libero siriano - l’Els, ora chiamato “Esercito nazionale”, per anni esaltato da Usa e Europa come una forza “ribelle” impegnata a “portare la democrazia in Siria” - addestrati da Erdogan e pagati, pare, dal ricco Qatar stretto alleato della Turchia. Il Centro di informazione del Rojava ieri ha diffuso un’indagine sulla composizione dell’Els, evidenziando che diversi dei gruppi armati che ne fanno parte sono vicini al jihadismo. Ad anticipare l’inizio dell’attacco turco era stato ieri mattina Abdel Rahman Ghazi Dadeh, portavoce di Anwar al Haq, una delle milizie armate locali cooptate da Ankara nell’Els. Dadeh ha confermato che almeno 18 mila mercenari prenderanno parte all’operazione militare e ha precisato che 10 mila saranno impiegati a Ras al Ayn, gli altri a Tal Abyad. L’Els avrà un ruolo di primo piano nel controllo della “zona di sicurezza”, lungo il confine, che Erdogan intende costituire in territorio siriano. Terminata la prima fase di “Fonte della pace” dovranno prendere il posto dei militari turchi e presidiare una striscia lunga 120 km e profonda 30 tra Tal Abyad e Ras al-Ayn che farà naufragare, nei desideri di Erdogan, il sogno curdo del Rojava (quasi un terzo della Siria). Questo futuro protettorato turco spezzerà il territorio controllato dalle Ypg. Resterebbe isolata Kobane (Ayn al Arab), simbolo della resistenza curda contro l’Isis, già stretta tra le aree prese dai turchi con le due precedenti operazioni in Siria. Ankara avrebbe promesso a Trump di non attaccarla ma i mercenari filo-turchi premono per occuparla. In una seconda fase Erdogan vuole prendere il controllo di tutta la frontiera e inondare la “zona di sicurezza”, ossia la zona curda, di almeno due milioni di rifugiati siriani attualmente in Turchia. Una regione-cuscinetto che spingerà di fatto il confine fino a Raqqa, la “capitale” del Califfato liberata dai curdi, e a Deir ez-Zor. Un piano di ingegneria etnica - dal costo stimato da Ankara in oltre 26 miliardi - che dopo l’uscita di scena di Trump solo i partner di Astana, Russia e Iran, possono ostacolare. Resta indecifrabile, al momento, l’atteggiamento di Damasco. La Siria è determinata a fronteggiare l’aggressione turca con “tutti i mezzi legittimi”, ha fatto sapere una fonte del ministero degli esteri. Ma che Damasco sia pronta ad andare in guerra con Ankara è da escludere, pur manifestando sostegno ai cittadini curdi sotto attacco. La strada che preferisce è quella di un futuro intervento su Erdogan della Russia che si proclama garante della “integrità territoriale della Siria”. In ogni caso l’eventuale soluzione diplomatica non andrà certo nella direzione di una sovranità curda. Siria. Che fine faranno i foreign fighters? Così l’Isis adesso proverà a rilanciarsi di Guido Olimpio La Stampa, 10 ottobre 2019 Nella matassa Usa-Turchia-curdi c’è un filo robusto, quello dello Stato Islamico, avvolto oggi attorno a tre piloni. Il primo è quello della “frattura”. Sin dall’epoca della crisi somala negli anni Novanta i movimenti jihadisti hanno dimostrato la loro abilità nello sfruttare le fasi di crisi, anche a livello locale. L’invasione turca aprirà spazi e lo Stato Islamico cercherà di infilarsi. La fazione non è mai morta e neppure scomparsa, ha solo mutato tattiche e pelle per superare il momento complicato. Infatti ha continuato a colpire, usando spesso elementi piazzati dietro le linee avversarie. Il secondo perno è quello dei prigionieri. Dopo il collasso territoriale del Califfato i guerriglieri hanno catturato circa diecimila militanti, compresi duemila volontari stranieri e molte loro famiglie. Più volte hanno chiesto una mano ai governi occidentali affinché si facessero carico di questa polveriera. I Paesi europei hanno preferito lasciare gli estremisti nelle precarie prigioni del Kurdistan siriano e hanno rimpatriato solo piccoli numeri di arrestati, donne e bambini. Una politica dello struzzo condizionata anche dall’umore dell’opinione pubblica, che non vuole farsi carico di chi ha fatto una scelta violenta e radicale. Abbia sperato che fossero altri a occuparsi di tagliagole e killer. Un rifiuto a volte rinforzato da evidenti problemi di natura legale: non tutti coloro che si sono uniti alle “brigate nere” di Al Baghdadi hanno compiuto eccidi e non è sempre facile provare le loro responsabilità dirette. Dunque una volta riportati in patria si poneva - e si pone - il problema delle prove da presentare davanti ad un magistrato. Su alcuni dirigenti - che si sono esposti in audio e video o sui quali esistono testimonianze precise - il dossier è “carico”, denso, pieno di indizi e riferimenti. Per altri, all’opposto, è debole. E in altre situazioni la mano è passata a forze speciali e intelligente che, insieme ai curdi, hanno liquidato i “volontari” sul campo. Molti sono stati uccisi dai droni e dai commandos, compresi alcuni ispiratori di attentati in Europa. Il Califfo, invece, non si è mai dimenticato dei suoi uomini. In un recente audio Al Baghdadi ha lanciato un appello vigoroso perché i seguaci si mobilitino per liberare i prigionieri. Una ripetizione della strategia condotta dall’Isis prima della sua grande vittoria quando ci furono attacchi in serie ai centri di detenzione in Iraq. Per farlo può affidarsi alle “colonne” operative ma anche alla corruzione. E siamo al terzo pilone: soldi e traffici. Da mesi girano informazioni su estremisti che sono stati in grado di muoversi pagando una tangente. Se hai dei contanti riesci a trovare una strada. Per scappare, ma anche riunirti ai fratelli di lotta. Lo Stato Islamico, da oltre un anno, ha trasferito ingenti somme di denaro in Turchia utilizzando cambiavalute di fiducia, persone che garantiscono l’arrivo di soldi sulla base di un impegno e di una stretta di mano. Un bottino con il quale alimentare la sua spinta locale e magari rimettere in moto la filiera che ha portato piccoli nuclei ad agire nelle nostre città. Malesia. Abolire la pena di morte per tutti i reati amnesty.it, 10 ottobre 2019 Un anno fa, l’annuncio di abolire la pena di morte per tutti i reati, poi nel marzo scorso la parziale retromarcia del governo con la decisione di andare avanti solo per i reati capitali con mandato obbligatorio. Accade in Malesia, scelto per la Giornata mondiale contro la pena di morte come paese-modello per le azioni di tutti gli attivisti e gli abolizionisti. Non a caso. La Giornata mondiale si celebra il 10 ottobre e quel giorno, un anno fa, il ministro malese Liew Vui Keong dichiarò che il governo avrebbe abolito la pena capitale. Una notizia che acquistò una valenza ancor più significativa e simbolica. Un anno dopo, Amnesty mette la Malesia al centro delle proprie azioni per chiedere al governo di sostenere progetti di legge che mettano la parola fine almeno alla pena capitale con mandato obbligatorio. Nel Paese, sono oltre 30 i reati che possono portare alla condanna a morte, in dodici casi è imposta con mandato obbligatorio. Secondo Amnesty, gran parte delle sentenze capitali riguardano per lo più i reati di omicidio e di traffico di droga. L’abolizione della pena capitale con mandato obbligatorio, per Amnesty, potrebbe portare alla commutazione di molte condanne e a una significativa riduzione di quelle future. Come nel caso di Hoo Yew Wah, arrestato oltre 20 anni fa quando era poco più che undicenne, per possesso di 188 grammi di metamfetamine. Ora si trova nel carcere di Bentong ed è uno degli oltre 1290 detenuti nei bracci della morte malesi. Gli appelli lanciati per la Giornata mondiale vogliono salvare Hoo Yew Wah e sollecitare le autorità per mettere la parola fine alla pena capitale con mandato obbligatorio.