“Il carcere reprime, non rieduca” di Gianni Cardinale Avvenire, 9 novembre 2019 Il Papa: non c’è pena umana senza orizzonte. L’ergastolo? Discutibile e deve avere almeno uno sbocco. “I fratelli che hanno pagato non possono scontare un nuovo castigo sociale con il rifiuto e l’indifferenza”. “Non c’è una pena umana senza orizzonte. Nessuno può cambiare vita se non vede un orizzonte. E tante volte siamo abituati ad accecare gli sguardi dei nostri reclusi”. Quindi “persino un ergastolo, che per me è discutibile, persino un ergastolo dovrebbe avere un orizzonte”. Lo ha sottolineato Papa Francesco nel discorso rivolto ai partecipanti all’incontro internazionale per i responsabili regionali e nazionali della pastorale carceraria, promosso dal Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale, ricevuti in udienza ieri mattina. Nel suo discorso, pronunciato in spagnolo e tradotto in italiano sull’Osservatore Romano, il Pontefice ha innanzitutto ricordato che quando ha incaricato il Dicastero “di rendere manifesta la preoccupazione della Chiesa per le persone in particolari situazioni di sofferenza”, ha voluto “che si tenesse conto della realtà di tanti fratelli e sorelle detenuti”. Poi ha ribadito con particolare forza, concetti già espressi più volte. E cioè che “la situazione delle carceri continua a essere un riflesso della nostra realtà sociale e una conseguenza del nostro egoismo e indifferenza sintetizzati in una cultura dello scarto”. Così “molte volte la società, mediante decisioni legaliste e disumane, giustificate da una presunta ricerca del bene e della sicurezza, cerca nell’isolamento e nella detenzione di chi agisce contro le norme sociali, la soluzione ultima ai problemi della vita di comunità”. Così “si giustifica il fatto che si destinino grandi quantità di risorse pubbliche a reprimere i trasgressori invece di ricercare veramente la promozione di uno sviluppo integrale delle persone che riduca le circostanze che favoriscono il compimento di azioni illecite”. Infatti “è più facile reprimere che educare”, ed “è anche più comodo”. E “non di rado i luoghi di detenzione falliscono nell’obiettivo di promuovere i processi di reinserimento” anche “per il frequente sovrappopolamento delle carceri che le trasforma in veri luoghi di spersonalizzazione”. Mentre invece “un vero reinserimento sociale inizia garantendo opportunità di sviluppo, educazione, lavoro dignitoso, accesso alla salute, come pure generando spazi pubblici di partecipazione civica”. “Oggi, in modo particolare - ha puntualizzato il Papa, - le nostre società sono chiamate a superare la stigmatizzazione di chi ha commesso un errore poiché, invece di offrire l’aiuto e le risorse adeguate per vivere una vita degna, ci siamo abituati a scartare piuttosto che a considerare gli sforzi che la persona compie per ricambiare l’amore di Dio nella sua vita”. Così “molte volte, uscita dal carcere la persona si deve confrontare con un mondo che le è estraneo, e che inoltre non la riconosce degna di fiducia, giungendo persino a escluderla dalla possibilità di lavorare per ottenere un sostentamento dignitoso”. Ma “impedendo alle persone di recuperare il pieno esercizio della loro dignità, queste restano nuovamente esposte ai pericoli che accompagnano la mancanza di opportunità di sviluppo, in mezzo alla violenza e all’insicurezza”. Da qui una domanda che, secondo papa Francesco, le comunità cristiane devono porsi: “Se questi fratelli e sorelle hanno già scontato la pena per il male commesso, perché si pone sulle loro spalle un nuovo castigo sociale con il rifiuto e l’indifferenza?”. Infatti “in molte occasioni, questa avversione sociale è un motivo in più per esporli a ricadere negli stessi errori”. All’udienza di ieri ha partecipato anche don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani delle carceri italiane, che ha consegnato al Pontefice “un messaggio pregnante e unitario”, con cui esorta a pregare per papa Francesco il 17 novembre, indicendo la Giornata di preghiera nelle carceri italiane sul tema “La speranza dei poveri non sarà mai delusa”, in occasione della III Giornata mondiale dei poveri. Una preghiera che verrà recitata, assicura don Grimaldi, “con la speranza che possa essere di aiuto per liberare il Papa da ogni forma di carcerazione che, purtroppo suo malgrado sta subendo a causa delle sue forti scelte pastorali e dei suoi orientamenti dottrinali”. “Sono certo - conclude l’ispettore generale nel messaggio - che la preghiera di questo popolo sofferente, privato della sua libertà personale, sarà accolta dal Signore, perché è il grido del popolo sofferente che sale a Dio”. “Non può esserci una pena senza un orizzonte” L’Osservatore Romano, 9 novembre 2019 Il Papa ai responsabili della pastorale carceraria. “Non c’è una pena umana senza orizzonte: nessuno può cambiare vita se non vede un orizzonte”. Ha scelto di parlare in spagnolo, la sua lingua madre, Papa Francesco per rivolgersi venerdì mattina 8 novembre ai partecipanti all’incontro internazionale dei responsabili della pastorale carceraria, promosso dal Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale. Ricevendoli in Vaticano il Pontefice ha arricchito il testo preparato con numerose aggiunte personali, sottolineando come la situazione delle carceri continui “a essere un riflesso della nostra realtà sociale e una conseguenza del nostro egoismo e indifferenza”. Da qui la denuncia di quelle “decisioni legaliste e disumane, giustificate da una presunta ricerca del bene e della sicurezza”, da parte di chi “cerca nell’isolamento e nella detenzione... la soluzione ultima ai problemi”. Infatti, ha chiarito Francesco, in tal modo “si giustifica il fatto che si destinino grandi quantità di risorse pubbliche a reprimere i trasgressori invece di ricercare veramente la promozione di uno sviluppo integrale delle persone” atto a ridurre “le circostanze che favoriscono” le “azioni illecite”. Insomma, secondo il Papa, “è più facile reprimere che educare” ed “è anche più comodo”: serve a “negare l’ingiustizia presente nella società” rinchiudendo “nell’oblio i trasgressori” piuttosto “che offrire pari opportunità... a tutti i cittadini”. Inoltre, ha proseguito Francesco nella sua disamina, le carceri spesso “falliscono nell’obiettivo del reinserimento” sia “perché non dispongono di risorse sufficienti”, sia “per il frequente sovrappopolamento”. Altro problema affrontato dal Papa è quello dello “stigma sociale” per cui troppe “volte, uscita dal carcere la persona si deve confrontare con un mondo che... non la riconosce degna di fiducia, giungendo persino a escluderla dalla possibilità di lavorare”. Invece il cristiano dovrebbe domandarsi - è stato il suggerimento di Francesco: “Se questi fratelli e sorelle hanno già scontato la pena per il male commesso, perché si pone sulle loro spalle un nuovo castigo sociale con il rifiuto e l’indifferenza?”. Del resto “questa avversione” può “esporli a ricadere negli stessi errori”. Ecco allora la proposta da parte del Papa di due immagini per aiutare nella riflessione sul tema. Nella prima si è riferito al fatto che “non si può parlare di un regolamento del debito con la società in un carcere senza finestre”, mentre “tante volte siamo abituati ad accecare gli sguardi dei nostri reclusi”. Per questo occorrerebbe che “le carceri, abbiano sempre finestra e orizzonte; persino un ergastolo - ha commentato Francesco - che per me è discutibile, persino un ergastolo dovrebbe avere un orizzonte”. La seconda immagine viene dall’esperienza di arcivescovo a Buenos Aires, quando nella zona di Villa Devoto passava davanti al carcere. Papa Bergoglio ha ricordato le madri che “stavano in fila un’ora prima di entrare e poi erano sottoposte ai controlli di sicurezza, molto spesso umilianti. Quelle donne - ha osservato - non avevano vergogna che tutti le vedessero”. Per questo, è stato l’auspicio conclusivo, la Chiesa dovrebbe imparare la maternità da quelle donne e i gesti “che dobbiamo avere verso i fratelli e le sorelle che sono detenuti”. Discorso del Santo Padre Francesco Stimato signor Cardinale, cari fratelli e sorelle, Vi saluto cordialmente tutti voi che partecipate a questo Incontro sullo Sviluppo Umano Integrale e la Pastorale Penitenziaria Cattolica. Quando ho incaricato il Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrare di rendere manifesta la preoccupazione della Chiesa per le persone in particolari situazioni di sofferenza, ho voluto che si tenesse conto della realtà di tanti fratelli e sorelle detenuti. Non è però un compito assegnato solo al Dicastero, ma è tutta la Chiesa in fedeltà alla missione ricevuta da Cristo a essere chiamata a operare permanentemente la misericordia di Dio a favore dei più vulnerabili e indifesi nei quali è presente Gesù stesso (cfr. Mt 25, 40). Saremo giudicati su questo. Come ho già segnalato in altre occasioni, la situazione delle carceri continua a essere un riflesso della nostra realtà sociale e una conseguenza del nostro egoismo e indifferenza sintetizzati in una cultura dello scarto (cfr. Discorso nella visita al centro di Riabilitazione Sociale di Ciudad Juárez, 17 febbraio 2016). Molte volte la società, mediante decisioni legaliste e disumane, giustificate da una presunta ricerca del bene e della sicurezza, cerca nell’isolamento e nella detenzione di chi agisce contro le norme sociali, la soluzione ultima ai problemi della vita di comunità. Così si giustifica il fatto che si destinino grandi quantità di risorse pubbliche a reprimere i trasgressori invece di ricercare veramente la promozione di uno sviluppo integrale delle persone che riduca le circostanze che favoriscono il compimento di azioni illecite. È più facile reprimere che educare e direi che è anche più comodo. Negare l’ingiustizia presente nella società è più facile e creare questi spazi per rinchiudere nell’oblio i trasgressori che offrire pari opportunità di sviluppo a tutti i cittadini. È una forma di scarto, scarto educato, tra virgolette. Inoltre, non di rado i luoghi di detenzione falliscono nell’obiettivo di promuovere i processi di reinserimento, senza dubbio perché non dispongono di risorse sufficienti che permettano di affrontare i problemi sociali, psicologici e familiari sperimentati dalle persone detenute, e anche per il frequente sovrappopolamento delle carceri che le trasforma in veri luoghi di spersonalizzazione. Al contrario, un vero reinserimento sociale inizia garantendo opportunità di sviluppo, educazione, lavoro dignitoso, accesso alla salute, come pure generando spazi pubblici di partecipazione civica. Oggi, in modo particolare, le nostre società sono chiamate a superare la stigmatizzazione di chi ha commesso un errore poiché, invece di offrire l’aiuto e le risorse adeguate per vivere una vita degna, ci siamo abituati a scartare piuttosto che a considerare gli sforzi che la persona compie per ricambiare l’amore di Dio nella sua vita. Molte volte, uscita dal carcere la persona si deve confrontare con un mondo che le è estraneo, e che inoltre non la riconosce degna di fiducia, giungendo persino a escluderla dalla possibilità di lavorare per ottenere un sostentamento dignitoso. Impedendo alle persone di recuperare il pieno esercizio della loro dignità, queste restano nuovamente esposte ai pericoli che accompagnano la mancanza di opportunità di sviluppo, in mezzo alla violenza e all’insicurezza. Come comunità cristiane dobbiamo porci una domanda. Se questi fratelli e sorelle hanno già scontato la pena per il male commesso, perché si pone sulle loro spalle un nuovo castigo sociale con il rifiuto e l’indifferenza? In molte occasioni, questa avversione sociale è un motivo in più per esporli a ricadere negli stessi errori. Fratelli, in questo incontro avete già condiviso alcune delle numerose iniziative con cui le Chiese locali accompagnano pastoralmente i detenuti, quanti hanno concluso la detenzione e le famiglie di molti di loro. Con l’ispirazione di Dio, ogni comunità ecclesiale va assumendo un cammino proprio per rendere presente la misericordia del Padre a tutti questi fratelli e per far risuonare una chiamata permanente affinché ogni uomo e ogni società cerchi di agire in modo fermo e deciso a favore della pace e della giustizia. Siamo certi che le opere che la Misericordia Divina ispira in ognuno di voi e nei numerosi membri della Chiesa dediti a questo servizio sono veramente efficaci. L’amore di Dio che vi sostiene e v’incoraggia nel servizio ai più deboli, rafforzi e accresca questo ministero di speranza che ogni giorno realizzate tra i detenuti. Prego per ogni persona che, dal silenzio generoso, serve questi fratelli, riconoscendo in loro il Signore. Mi congratulo per tutte le iniziative con cui, non senza difficoltà, si assistono pastoralmente anche le famiglie dei detenuti e si accompagnano in questo periodo di grande prova, affinché il Signore benedica tutti. Vorrei concludere con due immagini, due immagini che possono aiutare. Non si può parlare di un regolamento del debito con la società in un carcere senza finestre. Non c’è una pena umana senza orizzonte. Nessuno può cambiare vita se non vede un orizzonte. E tante volte siamo abituati ad accecare gli sguardi dei nostri reclusi. Portate con voi questa immagine delle finestre e dell’orizzonte, e fate sì che nei vostri paesi le prigioni, le carceri, abbiano sempre finestra e orizzonte, persino un ergastolo, che per me è discutibile, persino un ergastolo dovrebbe avere un orizzonte. La seconda immagine è un’immagine che ho visto diverse volte quando a Buenos Aires andavo in autobus a qualche parrocchia della zona di Villa Devoto e passavo davanti al Carcere. La fila della gente che andava a visitare i detenuti. Soprattutto l’immagine delle madri, le madri dei detenuti, le vedevano tutti, perché stavano in fila un’ora prima di entrare e poi erano sottoposte ai controlli di sicurezza, molto spesso umilianti. Quelle donne non avevano vergogna che tutti le vedessero. Mio figlio è lì, e per il figlio non nascondevamo il loro volto. Che la Chiesa impari maternità da quelle donne e impari i gesti di maternità che dobbiamo avere verso questi fratelli e sorelle che sono detenuti. La finestra e la madre che fa la fila sono le due immagini che vi lascio. Con la testimonianza e il servizio che rendete, mantenete viva la fedeltà a Gesù Cristo. Che al termine della nostra vita possiamo ascoltare la voce di Cristo che ci chiama dicendo: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo… ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25, 34.40). Che Nostra Signore della Mercede accompagni voi, le vostre famiglie e tutti coloro che servono i detenuti. “Visite al 41bis, può esserci qualche falla ma le regole non vanno cambiate” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 novembre 2019 Intervista a Mauro Palma, Garante nazionale dei detenuti. Dopo l’arresto di Antonello Nicosia, ex esponente dei radicali italiani e collaboratore parlamentare fermato per associazione mafiosa continuano le polemiche. Secondo i Pm, tra le varie accuse, Nicosia avrebbe utilizzato la possibilità di accedere agevolmente agli istituti di pena al seguito della deputata Giuseppina Occhionero per veicolare all’interno e dall’esterno messaggi e ordini dei boss. Ma è possibile che ciò sia avvenuto nonostante le rigide regole per quanto riguarda le visite ispettive, soprattutto in ambienti sensibili come il 41bis? Ne parliamo con Mauro Palma, Garante nazionale delle persone private della libertà, che pochi giorni fa ha ricevuto la laurea honoris causa all’università Roma Tre, per la prima volta in Italia, mentre lo stesso riconoscimento gli era stato consegnato dieci anni fa dall’ateneo di Buenos Aires. La laurea è stata consegnata dal Rettore dell’ateneo romano Luca Pietromarchi e dai professori Giovanni Serges e Marco Ruotolo, su proposta del giurista Luigi Ferrajoli, di Guido Raimondi (presidente uscente della Corte europea dei diritti dell’uomo) e di Massimo Bray (direttore editoriale della Treccani). Da sottolineare che nella sua lectio magistralis, ha ripercorso i temi di un diritto penale che deve sempre e costantemente andare a “vedere” la propria applicazione concreta. L’opposto, dunque, della Giustizia come “dea bendata”, in maniera tale che “la bilancia torna così a misurare la nostra capacità di incamminarci in questo percorso”. Come Garante nazionale delle persone private della libertà, che conosce molto bene il funzionamento delle visite ispettive, pensa che sia davvero possibile potersi muovere nelle sezioni del 41bis e parlare con i reclusi con tanta facilità e agibilità in luoghi che dovrebbero essere tenuti sotto strettissima sorveglianza? Premettendo che il sistema non è assolutamente un colabrodo, è chiaro che, teoricamente, può accadere che si possano verificare tentativi di comunicazione senza essere monitorati. Io penso che occorra essere rigorosi. Innanzitutto bisogna distinguere le posizioni. Il Garante nazionale ha colloqui riservati con i detenuti al 41bis, come previsto dalla normativa Onu, ma è una prerogativa solo del Garante Nazionale. Dopo di che, sulle altre situazioni, per i Garanti regionali, bisogna distinguere tra visite e colloqui: le prime sono sostanzialmente come le ha raccontate ad esempio ieri Luigi Manconi su Il Dubbio, mentre il colloquio riservato è cosa diversa e su questo c’è discussione dal punto di vista del monitoraggio, perché alla fine la Cassazione ha chiarito che solo il Garante Nazionale può avere colloqui non monitorati. Poi ci sono le visite dei parlamentari, i quali vengono accompagnati dai propri collaboratori e le persone che accompagnano i parlamentari nella visita devono essere persone con un definito contratto di collaborazione, non casualmente dichiarati collaboratori sul momento. Questo avviene sia per i detenuti comuni che per quelli in 41bis. La questione riguarda un po’ il tema del rapporto di fiducia con il collaboratore. Penso personalmente che per gli ambienti particolarmente sensibili, se fossi parlamentare, valuterei attentamente il curriculum del mio collaboratore. Io sono cauto, per evitare anche che partendo da un singolo caso non si arrivi ad attaccare l’intero sistema. Quindi, possiamo dire che ci sono delle falle in cui uno, come collaboratore in mala fede, potrebbe veramente approfittare della visita per veicolare dei messaggi? Diciamo che ci sono delle falle comunicative: quando passi nei reparti, e parli con l’uno e con l’altro, non si può escludere che dei rischi comunicativi vi possano essere. Però ci dovrebbero essere i Gom a controllare... Certamente. I Gom devono controllare ed è vero, però i detenuti al 41bis si trovano tutti lungo il corridoio in cui si cammina; quindi quando uno cammina e si ferma a parlare, un rischio di comunicazione non monitorata potrebbe esserci. Secondo lei dovrebbero cambiare radicalmente il sistema delle visite attuali? No, il sistema funziona. Ogni organizzazione umana ha sempre qualche rischio. Non è infallibile. Non sappiamo se nel caso specifico (quello di Nicosia, ndr) sia stato sbagliato qualcosa e questo lo appurerà la magistratura, ma secondo me lo sbaglio è criminalizzare il fatto che ci siano le possibilità di visite, come anche lanciare sospetti su chi critica il sistema del 41bis perché troppo afflittivo e che va oltre il suo scopo originario. Al netto del fatto che ci siano tante cose che vanno abolite nel regime del 41bis, questo sistema delle visite io ritengo che funzioni e non vada cambiato. Il senatore di Leu Pietro Grasso ha proposto di togliere ai collaboratori del parlamentare l’autorizzazione alla visita del 41bis. Secondo lei i collaboratori sono indispensabili? Secondo me sono utili soprattutto perché aiutano a ricordare quello che si vede. Anzi, in genere io sono contrario al colloquio da singolo in 41bis: anche io non incontro detenuti al 41bis da solo. C’è sempre qualcun altro, anche se di solito non mi porto collaboratori ma una delle mie due colleghe del collegio del Garante. Per esempio se voglio portare dei collaboratori dell’ufficio, li faccio entrare con me al colloquio riservato uno per volta, cambiandoli ogni 15 minuti: questo perché ritengo utile prendere molte cautele. Ma esiste davvero la “lobby dei garantisti”? Semmai è la lobby di quelli che aderiscono alla Costituzione. L’altro giorno quando ho concluso la mia Lectio magistralis, la prima persona che mi è venuta ad abbracciare è stato il Presidente della Corte costituzionale, Giorgio Lattanzi, poi il secondo l’ex Presidente della Corte Europea dei diritti umani Guido Raimondi. Non possiamo ridurre tutto a screzi tra giustizialisti e garantisti, come non possiamo pensare che vadano riviste le regole, ma neanche non immaginare di mettere mano alle procedure laddove queste possano risultare un po’ lasche. Droghe e cellulari nelle celle, il Dap corre ai ripari con nuove tecnologie Il Riformista, 9 novembre 2019 In tre anni sono quadruplicati i casi di detenuti trovati dentro le Carceri con un telefonino: erano 355 nei primi nove mesi del 2017 e sono diventati 1412 nell’anno corso, sino alla fine di settembre. Balzo in avanti anche per la presenza di stupefacenti negli istituti penitenziari: se nei primi nove mesi del 2017 è stata trovata droga 353 volte - o addosso agli stessi detenuti, o in aree comuni o in occasioni dei colloqui - quest’anno siamo già quota 587. Di fronte a un trend in netta salita che si spiega con il maggior numero dei detenuti presenti negli istituti penitenziari, ma anche, per quanto riguarda i cellulari, con i progressi della tecnologia che ha portato a dispositivi elettronici sempre più piccoli e dunque più facili da nascondere, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria corre ai ripari. E nella scelta degli investimenti e delle spese da effettuare per il 2019, ha preferito privilegiare l’acquisto di strumenti e tecnologie (a partire da jammer e metal detector) in grado di migliorare il contrasto all’introduzione di sostanze illecite negli istituti nonché di rilevare, inibire o isolare gli apparati telefonici mobili introdotti abusivamente. In tutto sono stati stanziati circa 3,5 milioni di euro per il 2019 per migliorare la sicurezza dei penitenziari e che hanno permesso l’acquisto di specifiche apparecchiature, per cui è stata avviata - e in qualche caso già ultimata - la distribuzione. A fornire i numeri del fenomeno e degli strumenti e delle tecnologie acquistati per contrastarlo è lo stesso Ministero della Giustizia, tramite Gnews, il suo notiziario online. Nel dettaglio sono stati acquistati 90 apparecchi per il controllo radiografico dei pacchi: suddivisi in tre lotti da 30, sono in fase di distribuzione ai Provveditorati che poi li assegneranno agli istituti del territorio. La loro installazione sarà ultimata entro la primavera del 2020. Quaranta metal detector ‘a portalè sono già stati distribuiti a altrettanti istituti: saranno tutti installati entro fine anno. E ancora: distribuiti già 40 jammer per l’inibizione delle frequenze telefoniche. La gran parte è andata agli 11 Provveditorati, che decideranno come assegnarli sul territorio; 2 al Nucleo Investigativo Centrale (Nic), 2 al Gruppo Operativo Mobile (Gom) e 3 alla task-force che si occupa dei concorsi. Completano l’elenco 2 apparati Imsi per la cattura di frequenze telefoniche, importanti e costosi strumenti che permettono la rilevazione del telefono chiamante e del telefono chiamato (già acquistati e a breve saranno messi a disposizione del Gom); 200 rilevatori manuali di telefoni cellulari, anche spenti (acquistati, saranno distribuiti entro fine anno); 65 apparati rilevatori di traffico di fonia e dati (distribuiti a breve). Inoltre, nella programmazione per il 2020 il Dap ha già previsto, fra gli altri, l’acquisto di metal detector ‘a portalè di nuova generazione, che permettono contemporaneamente il rilevamento di corpi metallici e apparecchi telefonici. Ardita (Csm): aumentare collaborazione tra Polizia penitenziaria e autorità giudiziaria penitenziaria.it, 9 novembre 2019 La Commissione del Csm sulla magistratura di sorveglianza e l’esecuzione della pena, presieduta dal togato Sebastiano Ardita (A&I), raccoglie il “grido d’allarme” lanciato ieri, nel quadro di una serie di incontri programmati con gli addetti ai lavori, da una qualificata rappresentanza della Polizia Penitenziaria. All’incontro hanno partecipato i rappresentanti delle maggiori organizzazioni rappresentative che hanno rappresentato il “disagio per i rischi” cui vanno incontro i componenti del Corpo nel difficile compito loro affidato all’interno delle carceri. “La situazione è insostenibile - hanno riferito molti degli auditi - siamo chiamati a svolgere turni fino a sedici ore, con un burn-out elevatissimo e in condizioni nelle quali un solo agente deve controllare da solo fino a cento detenuti. I suicidi tra al corpo in 6 anni, dal 2013 dal 2018 sono stati 35, ma solo in questo anno sono già a 10. Vengono riportate sulla stampa solo le notizie negative relative a pochi isolati casi di infedeltà ai doveri, ma nulla viene detto dei sacrifici enormi che compie la quasi totalità degli agenti. Sono centinaia le aggressioni e i ferimenti ai danni di agenti. L’altro giorno uno di noi ha salvato la vita a un detenuto affetto da hiv che stava in una pozza di sangue, noncurante del pericolo”, hanno riferito gli esponenti della penitenziaria chiedendo che anche il Csm si facesse carico della loro tutela giuridica e di immagine. Gli agenti hanno anche lamentato la inadeguatezza dei sistemi di sicurezza, e cioè della disposizione che prevede la indiscriminata apertura delle celle con la conseguente perdita di controllo degli ambienti penitenziari che secondo gli agenti “va a danno dei detenuti più deboli ed è una delle cause dell’aumento dei casi di ferimento ai danni del personale penitenziario”. Il presidente della Commissione Sebastiano Ardita, che insieme al laico Stefano Cavanna (Lega) era presente all’incontro - nel garantire il “massimo dell’attenzione sul delicato tema” - ha affermato che la Polizia Penitenziaria “rappresenta una risorsa di cui essere orgogliosi come italiani, che nessuna riforma che punti alla civiltà della pena può essere attuata senza scommettere sugli uomini e le donne del Corpo” e che si impegnerà affinché sia “aumentata il più possibile la collaborazione con l’autorità giudiziaria”. “Sia lo Stato a pagare le spese legali per chi è assolto” di Errico Novi Il Dubbio, 9 novembre 2019 Il disegno di legge presentato da Costa (Fi) recupera in parte la proposta avanzata dal Cnf. Si tratta di due proposte affini, anche se non perfettamente coincidenti. Da anni il Consiglio nazionale forense propone di rendere detraibili le spese legali, con una specifica rafforzata tutela nel campo penale, in nome della effettività del diritto di difesa. Ora il responsabile Giustizia di Forza Italia Enrico Costa compie un passo importante, che accoglie almeno in parte la prospettiva indicata dall’avvocatura istituzionale. Con una proposta di legge presentata a Montecitorio, il deputato azzurro chiede infatti di delegare il governo a introdurre anche in campo penale il principio della soccombenza previsto nel processo civile. Secondo la logica per cui se è la pretesa punitiva dello Stato a soccombere davanti al giudice, lo Stato stesso deve ristorare l’innocente delle spese legali sostenute. Principio a prima vista incontestabile eppure non ancora tradotto in legge. “Ci aveva provato Gabriele Albertini nella precedente legislatura”, spiega Costa al Dubbio, “adesso ho recuperato lo spirito di quella proposta e siamo riusciti ad abbinarne il testo al ddl sul patrocinio a spese dello Stato in commissione Giustizia”. Il provvedimento che tutela la difesa dei non abbienti è fortemente voluto dal guardasigilli Bonafede. Si tratta di un dossier accompagnato dal pieno sostegno della maggioranza, e ha tutta l’aria di essere perciò il treno giusto a cui agganciare una proposta come quella di Costa, di grande rilievo ma pur sempre proveniente da una forza di opposizione. Di fatto la partita potrebbe riservare ulteriori sorprese. Perché in origine l’articolato messo a punto dal parlamentare azzurro proponeva una modifica di natura fiscale: rendere detraibili fino a 10.500 euro le spese legali sostenute nel processo penale da chi è dichiarato innocente, in modo che chi soffre la “pena” di un’ingiusta “pretesa punitiva” esercitata dallo Stato possa vedersi almeno in parte sollevato, se non dai patimenti, quanto meno dai costi. A dare più di una chances all’idea dell’ex viceministro è proprio la sensibilità dimostrata dalla maggioranza in tema di equità sociale, anche nell’ambito della giustizia, con la legge sul patrocinio a spese dello Stato. E, come detto, è il Cnf ad avanzare già da alcuni anni un propria proposta in materia di detraibilità delle spese legali. Nell’ipotesi di emendamento alla legge di Bilancio 2018 veicolata dall’avvocatura, infatti, si prevedeva la detraibilità al 19 per cento delle “spese legali sostenute in un procedimento giudiziale ovvero per l’assistenza stragiudiziale, certificate dalla fattura del difensore”. Si tratterebbe, si legge nella motivazione che accompagna la proposta del Cnf, della risposta a una “esigenza di equità e di giustizia reale e concreta”. Il diritto di difesa, si ricorda, è infatti “garantito a livello costituzionale dall’articolo 24, al pari del diritto alla salute, e ricomprende necessariamente l’assistenza tecnica e professionale prestata dall’Avvocato”. In campo penale la detraibilità sarebbe integrale giacché, ricorda il Cnf, in quell’ambito “l’attività difensiva ha un costo che ricade sempre sull’indagato e/ o imputato, sebbene l’assistenza tecnica sia obbligatoria e non gratuita, salvo l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato”. Costa si richiama al principio del diritto di difesa ma segue una specifica linea di ragionamento: “Nel processo penale”, si legge nella relazione della sua proposta, “al contrario di quanto avviene nel processo civile e in quello amministrativo, il pagamento delle spese legali non segue la regola della soccombenza. Dunque, anche in caso di proscioglimento o assoluzione con le formule ampiamente liberatorie (perché il fatto non sussiste, perché l’imputato non ha commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato) le spese legali restano a carico dell’imputato. A nulla vale”, fa notare Costa, “che questi sia riuscito a dimostrare la propria assoluta estraneità”. In ogni caso Costa converge testualmente sulla proposta dell’avvocatura istituzionale quando prevede la fattura del difensore e la causale come giustificativo. Integra la documentazione richiesta con un “parere di congruità del competente Consiglio dell’Ordine degli avvocati”. Si tratterebbe di un sollievo per chi è sottoposto a un’ingiusta accusa, che risponderebbe almeno in parte alla necessità di assicurare in modo sempre più pieno il diritto di difesa, e che forse potrebbe trovare uno scenario politico più attento, rispetto al passato, a un simile principio. Consulta. Sequestro di persona, no a rigidità sui permessi di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 9 novembre 2019 Illegittimo condizionare i benefici all’espiazione di due terzi della pena. È incostituzionale subordinare i benefici penitenziari all’espiazione di almeno due terzi della pena, in caso di condannati alla detenzione temporanea, per il reato di sequestro di persona a scopo di estorsione, che abbiano provocato la morte dell’ostaggio. La Consulta, con la sentenza 229 di ieri - sempre in linea con il principio della pena come mezzo di rieducazione - smantella un altro pezzo dell’ordinamento penitenziario, per la parte in cui pone una rigida preclusione temporale, anche per i collaboratori di giustizia, per il via libera ai benefici. Un paletto non in linea con il principio di “progressività trattamentale e flessibilità della pena”. I giudici delle leggi, hanno riunito le due questioni di legittimità costituzionale, promosse dai magistrati di sorveglianza di Padova e di Milano che, seguendo alla lettera l’articolo 58-quater, comma 4 dell’ordinamento penitenziario, sul quale sollevano i dubbi di contrasto con la Carta, si trovavano costretti a negare dei permessi a due detenuti. In un caso il permesso premio era stato chiesto da una detenuta - vedere il figlio minorenne - condannata per aver partecipato a un sequestro dal quale era derivata, non per sua volontà, la morte dell’ostaggio. Nel secondo, a chiedere di uscire, era un carcerato responsabile dello stesso reato che aveva però ucciso il sequestrato: il permesso era per andare dalla madre con la quale viveva il figlio gravemente disabile. La Corte non distingue le posizioni e afferma l’incostituzionalità del trattamento addirittura peggiorativo, rispetto ai condannati all’ergastolo per sequestro di persona a scopo di terrorismo, di eversione o estorsione dai quali sia derivata la morte della vittima. Delitti di prima fascia per i quali i benefici erano condizionati all’espiazione di almeno 26 anni di pena. Una preclusione eliminata dalla Consulta con la sentenza 149/2018, in virtù della quale il permesso premio, il lavoro esterno o le misure alternative sono possibili dopo dieci anni di carcere, che possono scendere a otto con la liberazione anticipata. Un trattamento migliore rispetto ai condannati a pena detentiva temporanea che, per lo stesso delitto, hanno accesso al beneficio, a parità di condizioni quanto alla collaborazione con la giustizia, solo dopo aver scontato i due terzi della pena inflitta senza possibilità di alcuna riduzione di questo limite a titolo di liberazione anticipata. E quindi, sottolineano i giudici delle leggi, “dopo aver scontato un periodo di detenzione che - tenuto conto delle elevatissime cornici edittali previste per le ipotesi delittuose in questione - è, nella generalità dei casi ben superiore a otto anni” La Consulta, dopo la sentenza 149, consapevole della disparità di trattamento che si era creata con chi scontava una pena temporanea, aveva chiesto, inutilmente, un intervento del legislatore, che appianasse la discriminazione. Ora la Corte costituzionale ha chiarito che la magistratura di sorveglianza deve poter monitorare gradualmente e con prudenza, attraverso i permessi premio e lavoro esterno, il percorso rieducativo compiuto dal condannato, per ammetterlo poi alla semilibertà e alla liberazione condizionale, in caso di esito positivo delle prime sperimentazioni. Consulta. Benefici penitenziari senza discriminazioni di Francesco Cerisano Italia Oggi, 9 novembre 2019 Anche i condannati a pena detentiva temporanea per il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione da cui derivi la morte della vittima possono accedere ai benefici previsti dall’ordinamento penitenziario. Con la sentenza n. 229 del 9 ottobre 2019, depositata ieri in cancelleria, la Corte costituzionale sana l’ingiustificata discriminazione che fino a oggi colpiva i condannati a pena detentiva temporanea per il delitto di cui all’art. 630 codice penale ai quali venivano preclusi i benefici che invece sono riconosciuti ai condannati all’ergastolo per lo stesso delitto a seguito della sentenza n. 149/2018 della Consulta. In quella sede la Corte era stata chiamata in causa dal tribunale di sorveglianza di Venezia a cui un condannato all’ergastolo per sequestro di persona a scopo di estorsione e omicidio della vittima aveva chiesto di poter accedere al regime di semilibertà avendo trascorso più di 20 anni in carcere dove si era impegnato in attività lavorative e di studio. Nella sentenza del 2018 i giudici delle leggi hanno dato ragione al condannato dichiarando incostituzionale l’articolo 58-quater, comma 4, della legge n. 354/1975 sull’ordinamento penitenziario nella parte in cui si applica ai condannati per i due reati ostativi previsti dagli articoli 630 e 289-bis (sequestro di persona a scopo di estorsione e a scopo di terrorismo e eversione dell’ordine democratico). La ragione dell’illegittimità risiede, aveva detto la Corte nella sentenza di luglio 2018, nel principio stabilito dall’art. 27 terzo comma della Cost. secondo cui le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato”. La sentenza n. 229 di ieri richiama lo stesso apparato argomentativo di quella del 2018 estendendo i benefici penitenziari, funzionali al reinserimento sociale, anche ai condannati a pena detentiva temporanea per il delitto di cui all’articolo 630 del codice penale. “La disposizione censurata”, osserva la Consulta, “opera in senso diatonico rispetto all’obiettivo di consentire alla magistratura di sorveglianza di verificare gradualmente e prudentemente l’effettivo percorso rieducativo compiuto dal soggetto prima di ammetterlo alla semilibertà e poi alla liberazione condizionale”. Corte di Cassazione. Omicidio, la gelosia non è un’attenuante di Michela Allegri Il Messaggero, 9 novembre 2019 La Cassazione boccia la sentenza che riduceva la pena all’uomo perché aveva strangolato la ex “in preda a una tempesta emotiva”. In primo grado la condanna a 30 anni, poi dimezzata dopo una perizia. Pena da ricalcolare, la sorella della vittima: volevo giustizia. La tanto discussa “tempesta emotiva” che lo avrebbe travolto quando strangolò la ex fidanzata, non può essere una giustificazione per un delitto, soprattutto in un caso di omicidio. La Cassazione annulla - con rinvio - la sentenza di appello per Michele Castaldo, che nel 2016 aveva ucciso la compagna, Olga Matei, a Riccione. La pena, che dai 30 anni disposti dal Tribunale era scesa in secondo grado a 16 anni, dovrà essere ricalcolata per quanto riguarda le attenuanti che erano state concesse all’imputato. Le stesse che avevano praticamente dimezzato la condanna: i giudici avevano dato peso a una perizia psichiatrica che aveva stabilito che Castaldo avesse agito, appunto, in preda a una “soverchiante tempesta emotiva e passionale” dovuta al suo vissuto. Una sentenza choc che aveva dato il via a un’onda di manifestazioni e contro la quale ha fatto ricorso la procura generale di Bologna, sostenendo che la “gelosia” non possa essere un’attenuante in un omicidio. Secondo il ricorso presentato dal sostituto procuratore Paolo Giovagnoli, Castaldo uccise Olga perché era geloso e perse il controllo in preda all’alcol: la “tempesta emotiva” che investì l’imputato “altro non è se non la proiezione immediata della gelosia”, un fattore che non può essere considerato nel calibrare la responsabilità penale, scrive il magistrato. Ma ieri, in aula, le richieste del sostituto pg di Cassazione Ettore Pedicini sono state di senso opposto: ha sostenuto che il ricorso fosse “infondato”, perché “gli stati emotivi e passionali possono essere valutati per la concessione delle attenuanti generiche, valutazione rientra nel potere discrezionale del giudice del merito”. Ma la suprema Corte ha annullato la sentenza, disponendo un nuovo appello. I fatti risalgono al 5 ottobre 2016. Olga e Castaldo si frequentavano da un mese. Lei, 46 anni, moldava, da anni a Riccione, aveva deciso di lasciarlo perché era infastidita dai suoi controlli ossessivi. La sera dell’omicidio si erano visti, ma la donna era rimasta sulle sue posizioni. A quel punto, Castaldo la aveva strangolata e aveva tentato il suicidio. In appello, la “tempesta emotiva” evidenziata dalla perizia aveva procurato all’imputato la concessione di attenuanti generiche, ritenute equivalenti alle aggravanti di aver agito per futili motivi e per gelosia. Oltre alla perizia, c’era anche il fatto che Castaldo avesse confessato, che fosse incensurato e che avesse intenzione di risarcire la famiglia della vittima. Le motivazioni della sentenza di secondo grado erano uscite a ridosso dell’8 marzo e avevano fatto scalpore, suscitato proteste e manifestazioni. Ieri, dopo la decisione della Cassazione, sono arrivate le reazioni dei parenti: “Sono soddisfatta, volevo giustizia e speravo di ottenere una pena congrua”, ha detto Nina, sorella di Olga. Con lei ha parlato l’avvocato di parte civile, Lara Cecchini: “Non prova odio nei confronti di Castaldo, ma il suo gesto ha distrutto tante vite. La sua, dei suoi familiari, dell’ex marito e della figlia di Olga”. Sardegna. “Carceri senza direttori e ospedali inadeguati” di Luigi Soriga La Nuova Sardegna, 9 novembre 2019 Il Garante dei nazionale detenuti Mauro Palma a Oristano: “sulle sedi vacanti va trovata una soluzione”. E sul caso dell’ergastolano Trudu: “tardivo il permesso di curarsi fuori dalla prigione”. Il sovraffollamento delle carceri non è un problema solo sardo, ma anche nell’isola le condizioni per i detenuti sono sempre più difficili. Per di più, le carceri sarde devono fare i conti con una carenza di figure apicali che costringe qualche direttore a guidare più di una struttura. Mauro Palma, garante nazionale dei diritti delle persone detenute o provate della libertà personale, nominato dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel 2016, sarà oggi a Oristano come relatore di un convegno organizzato dalla Camera penale. Una breve tappa che difficilmente gli consentirà di visitare qualche istituto penitenziario, ma lui le condizioni delle carceri sarde le conosce bene, e da tempo. Qual è la situazione delle carceri sarde? “Ciò più di tutto mi preoccupa è la carenza di figure apicali. Ci sono alcune sedi vacanti e i direttori sono costretti a dividersi tra più strutture. Il che significa un aggravio di lavoro per loro. Anche perché, non dimentichiamolo, in Sardegna non sono tutti piccoli istituti. Anzi. Pensiamo a Sassari che in questo momento è guidato dalla direttrice del carcere di Nuoro. Eppure si tratta di istituti che richiedono una forte presenza progettuale apicale e di direzione, che invece sono scoperti”. Solo problemi di vertici? “No, assolutamente. Ci sono alcuni elementi su cui voglio vedere quali progressi sono stati fatti. In passato ho sollevato la questione che in Sardegna, pur essendoci carceri con un elevato numero di detenuti in regime di alta sicurezza, mancano strutture ospedaliere adatte. Le camerette degli ospedali non sono idonee, occorrono strutture in grado di poter accogliere l’alta sicurezza”. Dieci giorni fa è morto l’ergastolano Mario Trudu, che si era rivolto anche al Garante per chiedere di poter lasciare il carcere per potersi curare. Un via libera arrivato solo pochi giorni prima della morte… “Purtroppo quel provvedimento è stato molto tardivo. Io capisco che ci siano stati problemi, uffici ingolfati, ma non dovrebbe succedere. Non ne faccio una questione di colpe, anzi non credo ci sia un colpevole, se non il sistema che così non può funzionare. Bisogna riuscire ad avere la capacità di dare dignità alla morte”. Poche ore prima della morte di Trudu la Consulta ha dichiarato incostituzionale l’ergastolo ostativo. Secondo lei il carcere a vita ha ancora un senso? “Io ho una mia idea personale, non istituzionale, secondo cui in un regime di civiltà giuridica vera l’ergastolo non dovrebbe esserci. Sul piano istituzionale, invece, seguo la linea della Corte europea. E cioè: la pena a vita è formalmente prevedibile, ma dopo un tot di anni deve essere prevista la possibilità di rivederla dopo un’attenta valutazione per capire se la persona che ha commesso il reato è cambiata o meno. Senza questa possibilità la persona diventa troppo identificata con il suo reato. Invece, ci deve essere un momento di revisione, non automatico, ma va fatta una valutazione se la pena debba essere confermata o meno. Solo così l’ergastolo potrà essere compatibile con la rieducazione prevista dalla Costituzione”. Quali sono le priorità per tutelare i diritti dei detenuti? “Al di là delle difficili condizioni materiali, quali l’affollamento delle carceri, ci sono due aspetti che mi premono. Innanzitutto, il tempo vuoto: il carcere non può essere solo tempo sottratto alla vita, questo tempo deve avere dentro un investimento. Secondo punto, alle persone non deve essere chiesto solo di eseguire ordini o adeguarsi alle regole. I detenuti vanno responsabilizzati, altrimenti la loro non è vita reale e quando usciranno dal carcere non saranno in grado di riprendere in mano la loro esistenza”. Campania. Alla scuola dell’ascolto: criticità e buone prassi per le carceri linkabile.it, 9 novembre 2019 Il Garante dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello ha chiamato a raccolta associazioni, cooperative, terzo settore e cappellani per ascoltare e le esigenze, prassi, potenzialità e, soprattutto, criticità degli istituti penitenziari della Campania. Tutto in vista della relazione finale del Garante dei Detenuti che diviene “ancor più sintesi della realtà”, come sottolineato da Ciambriello, grazie al contributo di tutti. “Se la recidiva oggi riesce ad essere contenuta è grazie ai Cappellani, alle associazioni ed al terzo settore che aiuta le persone affinché non tornino a sbagliare. Il Garante dei Detenuti possiede una lista di volontari, cooperative, attività di volontariato e trattamentali. E siamo arrivati anche ad una sessantina di sigla con attività integrative e di sostegno al normale decorso della detenzione. Vorrei riflettere un momento sui numeri. Ci sono soltanto 69 educatori col rischio che a Caserta un detenuti veda l’educatore dopo sei mesi: tra psicologi Asl e del ministero in Campania ne sono solamente 45 unità. Da qualche anno - continua Ciambriello - grazie all’assessorato alle politiche sociali della Campania diamo una mano alle esigenze degli istituti ma non basta. Quanti stranieri ci sono? 1004 detenuti immigrati. 195 non sanno una parola di italiano. 7.812 detenuti in Campania. 139 ragazzi sono presenti nelle comunità. Abbiamo soltanto 24 assistenti sociali. Un numero davvero inconsistente per l’esigenza di cui la Campania ha bisogno”. Le parole di Ciambriello sottolineano l’esigenza di dover fare ancora molto guardando alla situazione attuale. Durante l’incontro presso la sede del consiglio regionale della Campania è toccato proprio alle espressioni più autentiche del diretto rapporto con chi è in contatto coi detenuti oppure attua programmi di prevenzione alla devianza. Dalle testimonianze dei cappellani e presidenti di associazioni e cooperative emerge però anche l’enorme lavoro che viene profuso grazie alla spontanea adesione di tantissimi volontari senza dei quali l’azione di prevenzione e attenzione sarebbe davvero quasi inesistente. Significativo il dato che emerge sulla condizione dei ristretti. Mancano gli spazi anche per celebrare la Santa Messa oppure per attuare un progetto che rappresenterebbe un valore aggiunto alla rieducazione dei detenuti. Nonostante ciò non manca l’aiuto dei volontari che comunque rappresentano una piccola oasi nel deserto di un carcere. Intanto a Poggioreale sono arrivati 400 frigoriferi per le celle. Quella del refrigeratore è, forse, l’unica luce in una condizione buia e senza dignità. Piemonte. Il Garante al convegno “Non solo carcere: l’esecuzione penale esterna” torinoggi.it, 9 novembre 2019 Mellano: “Aiutare chi commette reato a rendersi conto del danno inferto è la premessa per attivare percorsi di riabilitazione”. Il Garante regionale delle persone detenute ha moderato stamattina l’incontro “Non solo carcere: l’esecuzione penale esterna in Piemonte”. “La giustizia di comunità e gli Uffici dell’esecuzione penale esterna al carcere (Uepe) rappresentano la vera grande novità di questi anni in campo penale e una scommessa importante per la giustizia e per la società. Una realtà che in Italia coinvolge a diverso titolo oltre 100mila persone e supera il numero dei detenuti ristretti nelle carceri, che sono circa 61mila suddivisi nei 190 istituti di pena italiani”. Lo ha dichiarato il garante regionale delle persone detenute Bruno Mellano, che questa mattina ha moderato l’incontro “Non solo carcere: l’esecuzione penale esterna in Piemonte”, tenutosi a Palazzo Lascaris, sede del Consiglio regionale del Piemonte. “Aiutare chi commette reato a rendersi conto del danno inferto alle vittime e alla collettività costituisce infatti la premessa fondamentale nell’attivazione di percorsi di riabilitazione attraverso lavori di pubblica utilità e attività di volontariato a favore del territorio - ha aggiunto Mellano -. La carenza di risorse e la scarsa conoscenza di tale realtà rappresentano, però, un ostacolo alla messa in atto di tali percorsi”. All’incontro sono intervenuti il direttore e il funzionario di servizio sociale dell’Ufficio interdistrettuale dell’esecuzione penale (Uiepe) di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta Domenico Arena e Tiziana Elia e i funzionari di servizio sociale dell’Uepe di Torino Lucia Elisa Azzarone e Andrea Pavese. Tutti hanno sottolineato, con accenti diversi, l’importanza di tale possibilità per diminuire drasticamente il rischio di recidiva anche grazie alla possibilità di entrare contatto con ambienti e situazioni sani e costruttivi. Ne è una prova il fatto che molti continuano a frequentare le strutture o a fare volontariato anche dopo aver scontato la pena. Tra i progetti più importanti sul territorio piemontese spiccano quelli di Comuni-care, che dal 2018 coinvolge istituzioni pubbliche ed enti del Terzo settore con il coordinamento dell’Uiepe per il Piemonte, la Liguria e la Valle d’Aosta e propone percorsi di reinserimento sociale alle persone sottoposte a misure penali sui territori delle Città di Torino e della Provincia di Cuneo. Siracusa. Denuncia le guardie per violenza, la compagna teme per la sua vita di Rossella Grasso Il Riformista, 9 novembre 2019 “Ho paura per il mio compagno detenuto a Siracusa. So che è in pericolo ma io non riesco ad avere sue notizie”. Sono queste le parole di Paola Amato, 32 anni, che da quattro giorni non riceve notizie del suo compagno, Giosuè Matuozzo. Durante l’ultima telefonata lui le chiedeva aiuto. “Mi ha detto che non poteva camminare e che per potermi chiamare si era dovuto tagliare un braccio perché non volevano consentirgli la telefonata - racconta Paola - Mi ha chiesto di parlare con qualcuno perché ha paura”. Paola teme che suo marito possa essere vittima di violenze all’interno del carcere. Come è già successo circa due anni fa nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Allora Giosuè, riuscì a denunciare alla Polizia le violenze subite tramite la compagna Paola. Da quel momento è diventato un “pacco postale”, come dice Pola, trasferito continuamente da un carcere all’altro, da Poggioreale a Sant’ Angelo dei Lombardi, poi a Santa Maria Capua Vetere, poi Termini Imerese, Ucciardone, Secondigliano e infine Siracusa, lontano dalla famiglia. Paola mostra la denuncia datata 26 settembre 2018 al commissariato di Polizia di Scampia. “Due giorni prima di andare al commissariato ho ricevuto una telefonata da Giosuè che mi chiedeva di mandargli del personale della polizia perché la mattina era stato pestato dalle guardie carcerarie che gli avevano spaccato la testa e non volevano accompagnarlo in ospedale. Lo avevano picchiato perché durante un’ispezione avevano trovato una radio nella sua cella. Lui era in isolamento e non avrebbe potuto averla”. Giosuè raccontò alla moglie delle bastonate e di essere stato medicato nell’infermeria del carcere solo nel pomeriggio, senza essere portato in ospedale al pronto soccorso. “Quando ho potuto vedere il mio compagno ai colloqui due giorni dopo il terribile accaduto - ha continuato Paola - l’ho trovato con più di otto punti in testa, lividi enormi sulle braccia e dietro le spalle. Mi ha raccontato che era stato pestato a colpi di mazza da quattro agenti della polizia penitenziaria e da due lavoranti di colore”. Allarmata dalla vista delle botte sul corpo del suo compagno, Paola chiese di parlare con il responsabile del carcere di Santa Maria Capua Vetere che si negò. Dopo essere uscita dal carcere provò a sporgere denuncia dai Carabinieri che però rifiutarono di verbalizzare la denuncia. “Mi chiesero il referto medico per accettare la mia denuncia, ma Giosuè è detenuto, chi me lo dava a me un referto medico che testimoniasse l’accaduto?”. Paola non si perse d’animo e andò al commissariato di Polizia dove denunciò tutto. “Due ore dopo mi telefonarono dal carcere di Termini Imerese per dirmi che il mio compagno era stato trasferito lì in aereo”. Da quel momento è iniziato il “pellegrinaggio” di Giosuè tra le carceri italiane. Dopo Termini Imerese è finito all’Ucciardone per 7 mesi, poi a Secondigliano un altro mese e mezzo, poi a Siracusa dove è detenuto da una settimana. “Mi ha telefonato da lì e mi ha detto che ha paura perché possono fargli qualcosa, che non può camminare e che gli impedivano di telefonarmi, tanto che si è dovuto tagliare un braccio per riuscirci”. Paola sta cercando di contattare il garante dei detenuti della Sicilia, quello nazionale, per riuscire a fare luce su cosa stia accadendo a Giosuè in carcere. Ha paura che il compagno possa essere vittima di ripercussioni da parte della polizia penitenziaria dopo la denuncia di qualche anno fa. Ne è convinto anche Pietro Ioia, presidente dell’associazione Ex Don, in difesa dei diritti dei detenuti, che su Facebook denuncia l’accaduto e scrive: “Ormai è palese che quando ti pestano e denunci ti allontanano dalla tua regione di provenienza”. Giosuè ha 35 anni, sta scontando una pena di reclusione di 7 anni e 4 mesi per spaccio di sostanze stupefacenti. Ha due figlie avute con Paola di 15 e 12 anni. “Ci hanno mandato lontano Giosuè - conclude Paola - noi non possiamo sapere nulla di lui e non possiamo nemmeno vederlo perché non abbiamo i soldi per arrivare a Siracusa. Lui sta pagando per i reati commessi ma così stanno pagando anche le mie figlie. Chi ha commesso un reato è giusto che paghi ma non così. E io voglio sapere almeno come sta. La paura è grande”. Agrigento. Formazione professionale per i detenuti, l’Ecap potrà avviare i corsi di Gaetano Ravanà La Sicilia, 9 novembre 2019 Il Tar Sicilia ritenendo fondate le censure formulate dall’avvocato Mattina ha accolto l’istanza cautelare contenuta nel ricorso sospendendo per l’effetto i provvedimenti impugnati. L’Assessorato Regionale dell’Istruzione e della Formazione Professionale con due distinti provvedimenti di decadenza dalla riserva finanziaria non aveva ammesso l’Ecap di Agrigento al finanziamento per la realizzazione di due corsi di formazione professionale presso la struttura carceraria di Agrigento di Contrada Petrusa destinati ai detenuti. La P.A. poneva a motivo del provvedimento di decadenza il fatto che la richiesta di autorizzazione all’utilizzo della sede formativa Casa Circondariale era stata presentata oltre il termine decadenziale previsto dal bando. L’Ente di Formazione professionale proponeva ricorso al Tar Sicilia con il patrocinio dell’Avv. Gaetano Mattina, lamentando una serie di vizi di legittimità rinvenibili nell’operato della P.A. tra cui il fatto che trattandosi di progetti riguardanti detenuti, la sede carceraria non poteva considerarsi occasionale, bensì necessitata con conseguente inapplicabilità di quelle norme previste dal bando solo per l’accreditamento delle sedi corsuali occasionali. Il Tar Sicilia, Palermo, Sezione Prima, ritenendo fondate le censure formulate dall’Avvocato Mattina nell’interesse dell’Ecap di Agrigento ha accolto l’istanza cautelare contenuta nel ricorso sospendendo per l’effetto i provvedimenti impugnati. L’Ecap potrà quindi avviare presso la casa Circondariale di Agrigento i corsi “ Addetto di Falegnameria” e “Addetto impianti elettrici civili” destinati ai detenuti. Firenze. Lo Scaffale Circolante, lettura in carcere a Sollicciano e Gozzini di Luca Cellini agenziaimpress.it, 9 novembre 2019 Promuovere la lettura in carcere come opportunità di crescita sociale e civile, come possibilità per i detenuti di potenziare le proprie abilità di lettura e scrittura, di sviluppare i propri interessi personali e culturali, oltre che la propria formazione continua, anche in vista di una futuro reinserimento nella società esterna. Il tutto promuovendo la biblioteca, oltre alla classica attività del prestito, come luogo di lettura, informazione, aggregazione, confronto di idee, sviluppo di attività creative. Questi gli obiettivi del progetto “Biblioteca sociale in carcere” finalizzato al potenziamento delle biblioteche esistenti presso i carceri Gozzini e Sollicciano, sezioni maschile e femminile, e presentato a Sollicciano. Lo Scaffale Circolante - Il Comune di Firenze ha presentato il progetto alla Regione in partenariato con l’Università di Firenze, Dipartimento di Formazione, Lingue, Intercultura, Letterature e Psicologia, che garantisce il coordinamento scientifico e attività formative, e in collaborazione con il Polo Regionale di Documentazione Interculturale della Biblioteca Comunale Lazzerini di Prato. Il progetto è coordinato dal Servizio Biblioteche e conta sul fondamentale supporto e la collaborazione di Biblioteca Nova Isolotto, che da anni svolge attività di promozione della lettura con i carceri di Sollicciano e Gozzini. Fra le altre cose, Biblioteca Nova ha attivato una collaborazione con il Polo Regionale di Documentazione Interculturale, istituito presso la Biblioteca Comunale Lazzerini di Prato, che ha permesso di portare in carcere lo Scaffale Circolante, che garantisce la disponibilità di libri in lingua ai numerosi detenuti stranieri. Il progetto ha un valore di 46.500 euro di cui 37.250 euro finanziati dalla Regione Toscana, 5.313 dal Comune di Firenze e 4.000 dall’Università di Firenze che mettono a disposizione il loro personale per il coordinamento tecnico e scientifico del progetto. Il progetto ha la durata di 6 mesi, ma l’obiettivo è portarlo almeno a tre anni. L’assessore Sacchi: “Progetto che diffonde cultura e amore per i libri” “Facciamo crescere, grazie alla Regione, un progetto esemplare - ha sottolineato l’assessore alla cultura del Comune di Firenze Tommaso Sacchi - che diffonde cultura e amore per i libri tra i detenuti. Le biblioteche sono case del sapere democratico per eccellenza e devono diventare sempre più efficienti, accessibili, digitali. A Firenze ospiteremo in primavere gli Stati generali delle biblioteche e sarà l’occasione per confrontarsi, per scambiarsi buone pratiche e per far diventare protagoniste culturali le nostre biblioteche. La lettura chiama lettura e quindi cultura, fuori come in carcere. Per questo ogni attacco a luoghi di lettura, come accaduto alla libreria indipendente Pecora Elettrica a Roma, è da condannare in maniera inequivocabile”. La vicepresidente Barni: “Costruire strumenti di democrazia partecipata” Questo progetto - ha detto la vicepresidente della Regione Toscana Monica Barni - rientra a pieno nelle politiche che la Regione Toscana porta avanti sui temi della cultura che in questi anni hanno avuto come obiettivo quello di costruire strumenti di democrazia partecipata. La cultura è un diritto dovere di tutti i cittadini, anche per questo come Regione abbiamo siglato un “Patto per la lettura” che ha il compito di promuovere la lettura, fondamentale per l’esercizio di cittadinanza, attraverso uno sforzo coordinato di tutte le istituzioni ed i soggetti che fanno parte a vari livelli della filiera del libro. Una rete appunto, perché solo grazie alle reti possiamo raggiungere traguardi anche ambiziosi. La biblioteca sociale, che reputo un altro dei nostri traguardi, dovrà essere un luogo di diversità intesa come “patrimonio comune del genere umano” e di accessibilità, un luogo dove i libri non fanno paura e permette di esercitare il proprio diritto alla cultura. Anche per questo sono felice che il progetto di Biblioteca sociale nasca a Firenze, in Toscana, storicamente la regione dei diritti e della civiltà”. Il progetto garantisce la disponibilità di un bibliotecario presso ciascuna delle tre biblioteche esistenti (Gozzini, Sollicciano sezione maschile e Sollicciano sezione femminile). L’operatore gestirà l’organizzazione del patrimonio librario, il prestito e attività di consulenza e promozione della lettura. La presenza dell’operatore è organizzata in orari fissi settimanali in modo da garantire continuità ai servizi offerti e un supporto effettivo ai detenuti scrivani incaricati di operare nelle biblioteche, il cui ruolo può essere potenziato e valorizzato. Il progetto si rivolge anche ai genitori detenuti e ai bambini, con letture ad alta voce e promozione della lettura nella relazione genitore-figlio. Saranno poi organizzati corsi di scrittura creativa e corsi di lingua italiana. Roma. Vic festeggia i 15 anni, il 16 convegno con testimonianze di detenuti e volontari ansa.it, 9 novembre 2019 Il Vic - Volontari in Carcere, associazione che rappresenta la Caritas di Roma presso gli istituti penitenziari di Rebibbia, compie 25 anni. In occasione di questo importante anniversario, è in programma - per il prossimo 16 novembre - un convegno dal titolo “1994-2019: 25 anni di Volontari in Carcere sotto il segno dell’accoglienza”. Il Vic-Volontari in Carcere vuole così celebrare la ricorrenza insieme alle istituzioni, agli enti, alle associazioni, ai volontari che hanno accompagnato, dal 1994 ad oggi, la sua crescita e il suo affermarsi tra le realtà più attive dentro e fuori gli istituti penitenziari della città. Sarà l’occasione per raccontare le tante storie e testimonianze di detenuti, ex detenuti e volontari che gli uni accanto agli altri hanno percorso, o stanno percorrendo, una strada di recupero e spesso di reinserimento nella società. L’evento si terrà, alle ore 10,30, presso la Sala Congressi dell’Ospedale Pediatrico Bambin Gesù - Roma, Via F. Baldelli, 34. Fra i relatori al convegno, sono previsti gli interventi di Mariella Enoc, Presidente dell’Ospedale, e del Cardinale Vicario di Roma, Angelo De Donatis. Per informazioni, per organizzare interviste o ricevere materiale online, contattare la Segreteria (vic_segreteria@yahoo.it - Tel. 06.4062508). Firenze. “Meriti e limiti della pena carceraria”, convegno con il presidente della Consulta met.provincia.fi.it, 9 novembre 2019 Lunedì 11 novembre al Campus delle Scienze sociali dell’Università di Firenze. La spersonalizzazione e l’alienazione nella condizione detentiva, la rieducazione del condannato, il reinserimento nella società una volta che è stata scontata la pena. Sono questi i temi che saranno affrontati lunedì 11 novembre, presso il Campus delle Scienze sociali dell’Università di Firenze nell’ambito di un convegno dal titolo “Meriti e limiti della pena carceraria” (Edificio D6, Aula 018 - Via delle Pandette, 9 - ore 10.30). Dopo il saluto del rettore Luigi Dei, terranno una relazione Emilio Dolcini, professore emerito di Diritto penale dell’Università di Milano, Mauro Palma, garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Francesco Palazzo, professore emerito di Diritto penale dell’Università di Firenze. A seguire interverranno il presidente della Camera penale di Firenze Luca Bisori e il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze Marcello Bortolato. I lavori saranno presieduti dal presidente della Corte costituzionale Giorgio Lattanzi a cui sono affidate anche le conclusioni. L’appuntamento si inserisce nell’ambito di un’iniziativa dell’Ateneo fiorentino dal titolo “Bisogna aver visto” che si è aperta lo scorso 22 ottobre con la proiezione del film documentario “Viaggio in Italia: la Corte costituzionale nelle carceri” presso il Cinema La Compagnia. “Bisogna aver visto” è la citazione del titolo di un articolo di Pietro Calamandrei che, nel 1948, sulla rivista Il Ponte denunciò con forza la condizione disumana delle carceri. In questo senso, i due appuntamenti fiorentini definiscono l’Università come luogo non solo della formazione e della ricerca, ma anche dell’impegno civile. Hanno dato il patrocinio all’iniziativa la Regione Toscana, il Comune di Firenze, la Corte d’Appello di Firenze, l’Ordine degli Avvocati di Firenze, la Scuola Superiore della Magistratura (struttura territoriale di Firenze). Hanno collaborato la Fondazione per la formazione forense dell’Ordine degli avvocati di Firenze - Scuola forense, la Camera penale di Firenze. Milano. Il carcere, la sua umanità, il teatro e la misura bookcitymilano.it, 9 novembre 2019 Incontro-dibattito con Pietro Buffa, Silvio Di Gregorio, Filippo Giordano, Delia Langer, Francesco Perrini e Ivana Trettel. È possibile l’umanità all’interno delle carceri? Qual è il vero impatto delle attività di rieducazione delle persone detenute? Se ne parlerà venerdì 15 novembre, alle ore 18, presso la Casa di Reclusione di Milano Opera, che aprirà per la prima volta le proprie porte a un’iniziativa organizzata insieme a BookCity Milano per offrire alla città un’esperienza speciale, quella di potersi confrontare con un pubblico e una compagnia teatrale composti dagli stessi detenuti ed ex detenuti di media sicurezza. Sul palcoscenico del grande teatro che ospita il lavoro della compagnia Opera Liquida, insieme al direttore della Casa di Reclusione Silvio Di Gregorio, interverranno gli autori di due libri che ben indagano la nostra realtà penitenziaria. La galera ha i confini dei vostri cervelli, (Itaca ed.), scritto da Pietro Buffa, Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per la Regione Lombardia, è dedicato “a chiunque dia importanza alle emozioni che la sofferenza e la costrizione penale, con tutte le sue contraddizioni, comportano per tutti coloro che vivono o lavorano in un carcere”. Misurare l’impatto sociale. SROI e altri metodi per il carcere, (Egea ed.), nato da un lungo e approfondito studio dell’Università Bocconi, di Filippo Giordano, Francesco Perrini e Delia Langer, è invece il primo manuale realizzato per valutare il reale impatto delle attività volte alla rieducazione e al reinserimento delle persone detenute, in cui Opera Liquida è stata caso di studio. Nell’incontro “Il carcere, la sua umanità, il teatro e la misura” è prevista la dimostrazione di lavoro della compagnia teatrale guidata da Ivana Trettel, con gli attori detenuti ed ex detenuti della Casa di Reclusione di Milano Opera, sezione media sicurezza: l’impianto drammaturgico, il montaggio e la formalizzazione. Per accedere al carcere in occasione dell’evento è necessario compilare entro le ore 8 del 12 novembre il modulo sul sito: https://www.operaliquida.org/prenotazioni-spettacoli. Per info: properaliquida@gmail.com Facebook Opera Liquida. Razzismo. La via interrotta della riconciliazione di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 9 novembre 2019 I recenti rigurgiti di intolleranza, ormai esplicitamente rivendicati nei comportamenti pubblici in una misura impensabile fino a dieci anni or sono, non si esauriscono affatto nel caso Segre (la comunità ebraica ricorda peraltro che tutti i suoi vertici sono costretti a vivere sotto protezione). Solo in Italia, tra le grandi democrazie occidentali, una destra repubblicana ed esplicitamente antifascista può apparire un ossimoro. Meglio: solo in questa Italia, così slabbrata nei valori della nostra convivenza. Il caso della senatrice a vita Liliana Segre ne è certo la manifestazione più vistosa: una sopravvissuta ad Auschwitz costretta a girare con la scorta, e destinataria di una solidarietà che soltanto per carità di patria definiremmo blanda da parte della destra qui da noi egemone, ha attirato sul nostro Paese un’ondata di sdegno internazionale. Ma segnala, purtroppo, un più grave cedimento collettivo delle coscienze civili. Uno smottamento visibile soprattutto dentro un’area politica e di opinione che pure s’era messa in marcia con coraggio, negli anni Novanta del secolo scorso, per superare infine il guado assegnatole dalla storia. È vero, la traversata era assai lunga e irta di scogli aguzzi. Non abbiamo avuto un eroe della lotta contro Hitler del calibro di Winston Churchill. Né un generale indomito che guidasse le truppe di liberazione dopo aver intessuto dall’esilio i fili della Resistenza come Charles de Gaulle. Il fantasma della scelta aventiniana ha perseguitato la nostra destra liberale ben oltre la caduta del fascismo, riducendola nella prima Italia repubblicana a testimonianza nobile ma poco incisiva e consegnando il vessillo della Resistenza italiana a un partito che, sia pure nella sua assoluta originalità, ripeteva allora la propria ragione sociale da un altro totalitarismo, addirittura ostile alle nostre alleanze internazionali. Le cause profonde di un liberalismo debole affondano nell’origine della nostra vicenda unitaria e in buona parte la precedono, attengono al timbro flebile della nostra borghesia, al persistente arroccamento feudale dei latifondisti al Sud, al plebeismo dei ceti più fragili e a motivi che la storiografia ha lungamente investigato e che hanno congiurato nel consegnare la destra all’avventurismo demagogico poi inveratosi appieno nel dramma del Ventennio. In un bell’articolo su queste colonne, Antonio Macaluso ha da poco ricordato il travaglio, assai più recente, della destra “postfascista” italiana nello strapparsi dalle viscere quelle origini illiberali, la nascita del partito nuovo di Gianfranco Fini che voleva “imparare ad aprirsi al centro”. Si trattò di un percorso di crescita, del quale sarebbe ingiusto non attribuire a Silvio Berlusconi meriti da istintivo mallevadore. Una traiettoria di revisione storica e ideologica, che condusse infine al viaggio del leader di Alleanza nazionale in Israele, al riconoscimento del fascismo quale “male assoluto”, a un dialogo sempre più fertile con eredi del vecchio Pci come Luciano Violante ed esponenti del miglior laicismo come Carlo Azeglio Ciampi, nel tentativo di costruire finalmente un’Italia dai valori condivisi. Il fallimento non solo politico di Fini, il declino di Berlusconi e soprattutto la crisi economica che, incrociata a quella migratoria, ha spaventato le classi più disagiate del Paese facendole regredire verso una nuova proletarizzazione inattesa e dentro una dimensione di nostalgia del passato ben descritta da Zygmunt Bauman nel suo “Retrotopia”, hanno mandato in archivio (per ora) il sogno di quella destra repubblicana e laica (che non poteva risolvere se stessa nel trasversalismo cattolico della vecchia Dc o nel trasformismo dei suoi esangui eredi nella Seconda repubblica). I recenti rigurgiti di intolleranza, ormai esplicitamente rivendicati nei comportamenti pubblici in una misura impensabile fino a dieci anni or sono, non si esauriscono affatto nel caso Segre (la comunità ebraica ricorda peraltro che tutti i suoi vertici sono costretti a vivere sotto protezione). Pur senza voler rivangare retroterra e affiliazioni del razzista Luca Traini di Macerata, le cronache quotidiane ci consegnano ogni giorno esempi di quanto sia pericoloso, nelle menti più deboli e nei quadri politici più sgangherati, un segnale di “tana libera tutti” sul repertorio mussoliniano codificato tra le righe di dichiarazioni ambigue e antiche parole d’ordine provenienti dalla leadership attuale della destra, così lontana dall’utopia della rivoluzione liberale del primo Berlusconi e dalla svolta di Fini. Non si tratta soltanto del recupero di un generico moderatismo, la politica non è bon ton (con buona pace di chi tenta di derubricare in “politicamente corretto” ogni tentativo di civilizzare il discorso pubblico). Si tratta di attingere ai valori storici della destra europea ed europeista, garantista nel diritto, liberale in economia, rigorosa nella gestione dell’accoglienza senza tuttavia concedere un millimetro alla xenofobia e al razzismo. Non basta un’intervista rassicurante di Matteo Salvini sull’Europa e sull’euro per rovesciare un percorso di euroscetticismo e di avvicinamento alle democrature dell’Est europeo, specie se si tengono ai vertici di commissioni parlamentari teorici dell’Italexit e dei minibond. Finché si liquida ogni 25 aprile come un “derby tra fascisti e antifascisti” si mostra solo di voler scantonare dall’argomento come uno studente poco preparato. Senza capire di star recando offesa tanto a chi visse quel giorno lontano del 1945 come una festa quanto a chi lo visse come un lutto, e soprattutto danno a un Paese che, oggi persino più di vent’anni fa, avrebbe bisogno di una destra davvero devota alla Costituzione per riprendere il percorso interrotto della riconciliazione nazionale. Dietro l’antisemitismo contro la Segre la rimozione collettiva sulle leggi razziali di Guido Neppi Modona Il Dubbio, 9 novembre 2019 Negli ultimi anni ho condotto alcune ricerche sulle leggi razziali del 1938 contro gli ebrei, ma le sempre più frequenti, diffuse e inquietanti manifestazioni di antisemitismo che inquinano la società italiana mi hanno convinto che avrei piuttosto dovuto dedicare maggiore spazio al presente. Valga per tutte la situazione della senatrice Liliana Segre, quotidianamente destinataria di centinaia di messaggi ingiuriosi e di minacce per il solo fatto di essere ebrea, di essere miracolosamente sopravvissuta alla deportazione nel campo di sterminio di Auschwitz e di avere dedicato la sua vita alla testimonianza e alla memoria della shoah. Minacce talmente gravi e concrete da indurre il prefetto di Milano a disporre una scorta per proteggerne l’incolumità. Le attuali manifestazioni di antisemitismo non sono in alcun modo assimilabili al razzismo dell’Italia fascista, per la ragione di fondo che allora si trattò di antisemitismo di stato programmato dall’alto e la svolta razzista fu accuratamente e spregiudicatamente preparata da Mussolini sin dai primi mesi del 1938 per sollecitare il consenso di una popolazione sostanzialmente immune dai veleni dell’antisemitismo. La fase preparatoria trovò sbocco nei provvedimenti legislativi e amministrativi che diedero vita tra il 1938 e il 1943 alla efficacissima e spietata persecuzione dei diritti, volta a precludere agli ebrei lo svolgimento di qualsiasi attività lavorativa, a isolarli dai rapporti civili e sociali, ad esempio la cancellazione dagli ordini professionali e l’espulsione degli insegnanti e degli studenti dalle scuole pubbliche di qualsiasi ordine e grado. A fronte di una politica razziale che praticamente sanciva la morte civile degli ebrei gli italiani non manifestarono alcuna riserva, semplicemente voltarono la testa dall’altra parte. Solo quando, a seguito dell’occupazione tedesca e della nascita della Repubblica sociale italiana, ebbe inizio la caccia agli ebrei e la deportazione nei campi di sterminio, passando alla persecuzione delle vite, molti italiani si adoperarono per proteggerli, nasconderli e salvarli dalla deportazione. Ma nell’Italia repubblicana il periodo precedente della persecuzione dei diritti - dal 1938 al 1943 - venne completamente rimosso dalla memoria collettiva: grazie al mito del “buon italiano”, degli “italiani brava gente”, tutto il male dell’infamia razzista venne proiettato sul periodo della Repubblica sociale italiana, sulla ferocia delle SS naziste, sulla deportazione e lo sterminio nei campi di concentramento. Ebbene, le radici delle attuali manifestazioni di antisemitismo “dal basso” - soprattutto, ma non solo, attraverso i social - vanno ricercate anche nel velo di oblio e nella rimozione che ha coperto e cancellato sino a pochi anni orsono la vergogna delle italianissime leggi razziali del 1938, i conti con quelle leggi non sono mai stati fatti. Nel periodo repubblicano è mancata, a partire dalla scuola, una cultura e una educazione contro il razzismo, malgrado l’art. 3 della Costituzione affermi solennemente il principio di eguaglianza senza distinzione di razza. E così, in un periodo di particolare rabbia e frustrazione per la grave crisi politica, economica e sociale del nostro Paese, si sta riproducendo ancora una volta il meccanismo del capro espiatorio, di cui gli ebrei sono stati nel corso della storia il ricorrente simbolo su cui scaricare rabbia, frustrazioni e disagio sociale. Le nostre istituzioni - a partire dal Presidente della Repubblica - stanno reagendo con forza e determinazione per contrastare questi nefasti segnali, ma sarà soprattutto compito della scuola iniettare nei giovani una solida cultura contro il razzismo, così da isolare le generazioni che quella cultura non hanno avuto e che sono facile preda di chi fa leva sui veleni mai rimossi dell’antisemitismo e sulla paura del diverso e dell’immigrato per raccogliere consensi tra gli strati che più stanno soffrendo per la crisi della società italiana. Migranti. In 13 anni oltre 2 milioni di italiani si sono trasferiti all’estero di Antonio Lamorte Il Riformista, 9 novembre 2019 Negli ultimi 13 anni oltre due milioni di italiani si sono trasferiti all’estero. È quanto emerge dalla 14esima edizione del rapporto Italiani nel Mondo della Fondazione Migrantes. Dal 2006 al 2019 il numero di chi è emigrato dall’Italia è cresciuto di oltre il 70% e l’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (Aire) ha visto un incremento di iscritti dagli oltre tre milioni a 5,3 milioni. Quasi la metà degli iscritti, circa il 48%, è partito dal Sud. Per il suo dossier sugli italiani all’estero la Fondazione ha fatto ampiamente ricorso ai dati dell’Aire. Gli iscritti all’uno gennaio 2019 sono 5.288.281, il 48,9% del quale parte dal Meridione; il 35,5& dal Nord e il 15,6% dal centro. Le italiane iscritte sono 2.544.260, oltre il 48% del totale. La fascia di età più rappresentata è quella che va dai 35 ai 49 anni, oltre un milione di persone; i minori sono quasi 800mila. Altro aspetto importante è l’aumento continuo degli iscritti all’Aire per nascita, segno che molti italiani che si trasferiscono all’estero trovano le condizioni per formare una famiglia. Il Paese di destinazione preferito dagli italiani è il Regno Unito, motivo anche di tensione per l’esito incerto della trattativa sulla Brexit. Il 54,3%, degli italiani all’estero risiedono in Europa, il 40% in America. Le aree maggiormente interessate sono l’Unione Europea e i Paesi dell’America Centro-Meridionale. Le comunità più consistenti si trovano in Argentina, quasi 843mila persone, Germania, oltre 764mila, e Svizzera, 623 mila. La maggioranza degli emigranti parte senza un progetto ben definito, con situazioni che possono implicare anche diversi tipi di carriera o altri spostamenti in altri Paesi. A uscire fortemente danneggiato dal rapporto è il Sud Italia: il Meridione continua a perdere risorse umane importanti, spesso con un livello di istruzione medio-alta. È lo stesso tipo di migrazione, circa il 70% dalle regioni meridionali e insulari, che nell’ultimo decennio si è mossa verso il nord del Paese. Sugli stranieri il rapporto analizza che tra il 2012 al 2017, degli oltre 744mila stranieri divenuti italiani quasi 43mila hanno trasferito la residenza all’estero. Nuovo tema del dossier è la sezione speciale “Quando brutti, sporchi e cattivi erano gli italiani: dai pregiudizi all’amore per il made in Italy” per illustrare stereotipi e pregiudizi che hanno accompagnato il migrante italiano nel tempo, come si spiega nel testo, “non per avere una rivalsa sui migranti di oggi che abitano strutturalmente i nostri territori o arrivano sulle nostre coste, ma per ravvivare la responsabilità di essere sempre dalla parte giusta come uomini donne innanzitutto, nel rispetto di quel diritto alla vita (e, aggiungiamo, a una vita felice) che è intrinsecamente, profondamente, indubbiamente laico”. Migranti. Di Maio: “In Libia 700mila pronti a partire” di Daniela Fassini Avvenire, 9 novembre 2019 L’allarme (politico) del ministro degli Esteri Di Maio, che ha sostenuto il rinnovo con modifiche dell’intesa. L’Oim: la metà di loro non vuole venire in Europa. Solo chi è nei centri di detenzione prende i barconi. “In Libia ci sono 700.000 migranti a piede libero che non sono nei centri. Se si pensa di far saltare la missione della Guardia costiera libica togliamo un potenziale tappo a quei 700mi1a migranti”. Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, torna nuovamente a difendere l’accordo con la Libia. E lo fa snocciolando, in modo allarmistico, i numeri del Paese sull’altra sponda del Mediterraneo. Ma c’è anche chi conferma che non è proprio così. Se infatti, da una parte è vero che in Libia attualmente si trovano dalle 650mila alle 700mila persone (fra emigrati e profughi) non tutte sono però intenzionate a lasciare il Paese. Per Flavio Di Giacomo, portavoce Oim il numero indicato da Di Maio è “un numero che in realtà da anni viene citato da varie fonti”. “Anche con Gheddafi si parlava di due milioni di persone pronte a partire, ma abbiamo poi visto in realtà che non è così. Oggi, le stime in nostro possesso parlano di 650-700mila persone emigrate in Libia, di cui una buona metà di questi, circa 350mila, provengono da Niger, Egitto e Ciad, ovvero i tre Paesi confinanti e che sono le tre nazionalità che storicamente non arrivano in Italia via mare”. In realtà, prosegue, il portavoce dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, “solo quelli attualmente presenti nei centri di detenzione o che vengono discriminati solo per il colore della pelle, potrebbero voler salire su un barcone per fuggire dalle violenze”. Ma si tratta comunque, prosegue Di Giacomo, “di una situazione mutevole e troppo dinamica, per cui è impossibile fare qualsiasi previsione su quante persone abbiano intenzione di partire dalla Libia, considerando, appunto, che la Libia è sempre stata per molti un Paese di destinazione”. La prima cosa che l’Italia dovrebbe fare “è aiutare questo Paese ad avere una stabilità politica e solo dopo si riuscirà ad aiutare i migranti che sono nel Paese”. L’esponente di Oim ha ricordato che “in questo momento abbiamo 5mila migranti in centri detenzioni, e di questi 3mila sono in centri chiusi in zone di conflitto e rischiano la vita ogni giorno. Non sarei preoccupato sul numero di arrivi che adesso è molto, molto basso - ha concluso - quanto alla protezione dei migranti che purtroppo in Libia sono vittime di violazioni di diritti umani molto serie”. Anche il portavoce di Unicef Italia, parlando di Libia, ha confermato la necessità di affrontare la questione dei diritti umani, ipotizzando una Conferenza internazionale per affrontare una situazione che “rischia di diventare come quella siriana, cioè senza una via d’uscita”. “Non c’è dubbio che la questione libica sia una vicenda di carattere internazionale e credo che ci voglia di più di una soluzione tra paese e paese - ha detto il portavoce di Unicef Italia, Andrea Iacomini - Ma dobbiamo essere onesti: la Libia non è un porto sicuro, lo hanno detto le Nazioni Unite e lo ribadiamo. Di conseguenza qualsiasi soluzione si possa trovare per impedire che madri e figli vengano sistematicamente abusati e violentati dentro i centri di detenzione di questo paese, è la benvenuta”. La Libia, ha concluso, “è un Paese che vive una grande crisi umanitaria ma che riguarda tutti, quindi credo che in sede di Nazioni Unite si debba trovare una soluzione”. E sul tema migrazioni, affrontando però la questione in ambito economico - demografico, è ritornato anche il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, che inaugurando l’anno accademico dell’Università di Cagliari ha lanciato l’allarme sull’invecchiamento della popolazione e il crollo demografico. “Tra il 2020 e il 2030 il flusso di nuovi migranti (principalmente da Africa e Asia, ndr) potrebbe raggiungere la cifra record di circa 230 milioni di persone, quasi quanto la loro attuale consistenza” ha evidenziato Visco nella sua prolusione. “In Europa, tuttavia, gli arrivi previsti non basterebbero più a impedire una sensibile diminuzione del numero di persone in età attiva”. Droghe. 30 anni dopo si riparte dal basso di Sergio Segio Vita, 9 novembre 2019 La legge sulle droghe compie 30 anni e presenta un bilancio fallimentare. Il governo latita e da un decennio non svolge la Conferenza di indirizzo prevista per legge. Le associazioni e comunità si autoconvocano il 31 gennaio a Milano. Si è ricominciato a parlare di droghe. Per lo più - e al solito - in chiave di cronaca nera. Subito dopo torna invece il silenzio, specie da parte delle competenti istituzioni, riguardo le politiche in materia. La legge che la regola sta per compiere trent’anni, il suo bilancio naturalmente è complesso e va articolato, ma reca un segno di fondo innegabilmente negativo, tanto che molti parlano di un generale fallimento. Se in questi tre decenni il fenomeno è certo mutato sotto molti aspetti, compresi quelli delle sostanze utilizzate e delle forme di loro consumo, altrettanto sicuramente non ha visto un declino e neppure una contrazione dei numeri. Le modalità di assunzione sono divenute meno vistose e rischiose (banalmente, non si trovano più per le strade tappeti di siringhe come un tempo), però le sostanze si sono moltiplicate e divenute ancor più facilmente reperibili. Si è molto ridimensionata la microcriminalità collegata alla necessità di soldi per comprare la dose, poiché questa è divenuta assai meno costosa e, anche perciò, più accessibile. Trent’anni di guerra a chi consuma droghe - La legge in vigore, n. 162, cosiddetta Iervolino-Vassalli (dai nomi della democristiana Rosa Russo Iervolino e del socialista Giuliano Vassalli, rispettivamente ex ministro degli Affari sociali e della Giustizia, allora ancora contemperata dalla Grazia), era stata varata il 26 giugno del 1990, dopo circa due anni di acceso dibattito in Parlamento, tra i partiti, nella società civile e anche tra gli “addetti ai lavori” direttamente coinvolti: operatori per le tossicodipendenze, comunità terapeutiche, famiglie. Le norme così approvate erano poi confluite nel DPR n. 309 del 9 ottobre dello stesso anno, ovvero nel Testo unico in materia di disciplina degli stupefacenti. Si trattò di una svolta marcatamente punitiva, che aveva trovato impulso e radici nella fascinazione del leader socialista Bettino Craxi per la filosofia della “tolleranza zero” di Rudy Giuliani, al tempo procuratore federale e in seguito sindaco repubblicano di New York, e che può a ragione essere considerata la clonazione italiana del piano antidroga voluto e introdotto dall’allora presidente statunitense George Bush senior, in continuità con la linea del suo predecessore, Ronald Reagan, di cui era stato vice. La dichiarata intenzione del nuovo approccio repressivo statunitense, che era arrivato persino a prevedere la pena di morte per gli spacciatori, era quella di colpire duramente anche i semplici consumatori. Lo aveva affermato a chiare lettere la first lady Nancy Reagan in un’assise delle Nazioni Unite: “È più facile prendere i grandi trafficanti che punire due avvocati di Wall Street che sniffano cocaina durante la pausa del pranzo”. I consumatori di droga erano invece da considerarsi a tutti gli effetti complici di ogni atto e ogni omicidio compiuto dai narcos e dai cartelli criminali, allora particolarmente virulenti e potenti, specie quelli colombiani. Naturalmente, la war on drugs da allora ha portato nelle carceri ben pochi traders e professionisti del Foro, mentre le ha riempite di milioni di normali cittadini, di preferenza di basso ceto sociale. Tanto che oggi gli Stati Uniti sono il primo paese al mondo per numero di reclusi: circa 2 milioni e 300 mila distribuiti in ben 4.500 prigioni; sono in larga parte ispanici e neri, laddove è stato calcolato che questi ultimi hanno sei volte più possibilità di essere imprigionati per reati connessi alla droga. Punirne mille per dissuaderne uno - Sulla stessa scia si è mossa la legge italiana, che aveva posto come fondamento ideologico e programmatico quello di punire chiunque consumasse droghe. Analoghi sono stati i risultati. Da subito la Iervolino-Vassalli aveva cominciato a riempire le celle di malcapitati, per lo più giovani delle periferie, ma talvolta anche di buona famiglia, compresi personaggi noti del mondo dello spettacolo, arrestati o sottoposti a giudizio magari solo per un paio di spinelli. Nel luglio 1991, nel giro di pochi giorni, tre persone arrestate per droga si suicidarono in carcere. Tra di esse Stefano Ghirelli, 18 anni appena compiuti, incensurato, condotto nel carcere di Ivrea poiché trovato con 25 grammi di hashish; si impiccò dopo il rifiuto del giudice di concedergli la libertà provvisoria per “pericolosità sociale”. Se l’obiettivo dichiarato era quello di colpire i consumatori, equiparandoli agli spacciatori, va detto che venne in effetti presto raggiunto: al 31 dicembre 1990 i tossicodipendenti in carcere erano 7.299, soli due anni dopo erano esattamente raddoppiati, 14.818. Crescita immediata anche delle morti per droga: nel 1990 superarono per la prima volta le mille unità, arrivando a 1.161; l’anno dopo salirono ancora a 1.382, nel 1992 furono 1.217, per arrivare al picco di 1. 566 nel 1996 e poi gradualmente decrescere. Nel 2018 le vittime sono state 251, con un’età media di 38 anni e mezzo. Nel 2019, secondo il sito geoverdose.it, al 7 novembre sono 208, di cui 128 per eroina, con 39 anni e mezzo di età media. Guardando le cifre dall’inizio delle rilevazioni, il 1973, a oggi i numeri sono effettivamente quelli di una guerra: 25.528, laddove il nemico e le vittime non sono però le droghe bensì chi le consuma, spinto dalla legge a una maggior clandestinità e distanza dai servizi terapeutici, obbligati dalle norme alla denuncia, accrescendo così i rischi sanitari e quello stesso della vita. Una legge micidiale - Quelle evidenze e i dati sul crescere della letalità, peraltro, non misero in crisi le convinzioni dei sostenitori della legislazione repressiva, tanto che il ministro Rosa Russo Iervolino rivendicò: “L’aumento dei decessi non rappresenta certo una smentita della validità della legge, anzi secondo me ha il valore di una conferma” (“la Repubblica”, 8 febbraio 1991). Quella funesta legge è stata poi addirittura peggiorata dalla successiva modifica Fini-Giovanardi, intervenuta nel 2006, che oltre a inasprire le sanzioni aveva abolito ogni distinzione tra droghe “leggere” e “pesanti”, venendo poi bocciata per illegittimità costituzionale solamente nel 2014. Sono dunque dovuti intervenire i giudici per correggere le forzature ideologiche e propagandistiche e le storture legislative, per supplire a errori e inerzie della politica. Del resto, ciò è spesso avvenuto anche su altre materie: si veda, ad esempio, la recente sentenza della Consulta sull’ergastolo cosiddetto ostativo, tesa a ribadire le finalità rieducative della pena e la sua umanizzazione. Interventi comunque non sufficienti né risolutivi. Basti dire che oggi in carcere vi sono quasi 20mila tossicodipendenti, ma ancora maggiore è il numero di quanti sono comunque imprigionati per violazioni delle diverse norme sulle droghe: circa la metà del 60mila reclusi attualmente presenti. Ancora più eloquente è il numero delle persone sottoposte a procedimenti penali in virtù di quella legge: nel 2018 hanno superato le 178mila unità; nello stesso 2018, quasi 40mila persone sono state segnalate ai prefetti per uso di sostanze stupefacenti illegali, e tra queste l’80% per consumo di cannabinoidi. Dal 1990 al 2018 le segnalazioni ai prefetti per consumo di sostanze stupefacenti sono state un milione e 267mila persone, in gran parte a carico di giovani, molti dei quali colpiti dal ritiro del passaporto e della patente o da sanzioni di altro genere. Anche queste, dunque, sono cifre di una guerra cominciata 30 anni fa e che ha prodotto, a vari livelli, centinaia di migliaia di vittime. Una Conferenza sulle droghe autoconvocata - Come ha detto Vasco Rossi, che proprio per questi motivi ha provato sulla propria pelle lo stigma e la perdita della libertà, “punire il drogato con il carcere è come schiaffeggiare un bambino caduto dalla bicicletta per fargli capire che non doveva salirci”. I “bambini” continuano a cadere dalla bicicletta e lo Stato persevera nel rifilare loro sonori e ripetuti ceffoni e talvolta anche calci, mentre i governi succedutisi si sono ben guardati non solo da un ripensamento reso necessario dalle evidenze, ma anche da una verifica e da riflessione aperta e seria. Il che, peraltro, sarebbe un obbligo di quella stessa legge, la quale dispone che ogni tre anni il Presidente del Consiglio convochi una Conferenza nazionale governativa sulle droghe, le cui conclusioni “sono comunicate al Parlamento anche al fine di individuare eventuali correzioni alla legislazione antidroga dettate dall’esperienza applicativa”. Ebbene, tale obbligo normativo viene eluso ormai da dieci anni. Per questo motivo associazioni, comunità terapeutiche, sindacati e operatori stanno organizzando una Conferenza autopromossa e autoconvocata (cfr. https://www.conferenzadroghe.it). Si terrà a Milano, ospitata dalla Camera del Lavoro, dal 31 gennaio al 1° febbraio 2020 e ha un obiettivo assai ambizioso: costruire la pace, dopo i trent’anni di guerra voluta da governi miopi e da partiti politici pusillanimi o, peggio, votati al populismo penale e alla criminalizzazione dei più deboli. Si tratta ora di innescare un cambio di rotta radicale per, finalmente, pensare e attivare strategie di regolazione sociale e culturale alternative a quelle penali. Un confronto tra operatori e istituzioni, capace di valorizzare le esperienze sul campo e di dialogare con gli scenari e le politiche globali poiché, dice il documento di convocazione “è improrogabile una riforma della legge antidroga che preveda la completa depenalizzazione e decriminalizzazione di tutte le condotte legate al consumo personale e la ridefinizione e riscrittura del sistema dei servizi e degli interventi capace di integrare definitivamente il modello della Riduzione dei Danni e dei Rischi, superando i modelli patologici e colpevolizzanti, e stabilendo gli standard nazionali, qualitativi e organizzativi, per rendere uniformi i sistemi regionali e stabili i vincoli di spesa”. Alla legge Iervolino-Vassalli che voleva sorvegliare e punire i suoi critici opponevano la parola d’ordine “educare, non punire”. Trent’anni dopo si riparte dallo stesso punto. Con nel mezzo tante e tante sofferenze, morti, carcerazioni ingiuste che reclamano finalmente di cambiare. Diritti umani: com’è facile violarli di Emanuele Giordana Il Manifesto, 9 novembre 2019 Dall’Afghanistan alla Libia. Due conflitti in piena salute sono forse i modelli attraverso cui i diritti umani sono stati utilizzati meglio per farne carta straccia. Un convegno alla camera fa il punto sulla Dichiarazione universale. La bandiera dei diritti umani, la cui la Dichiarazione universale compie in dicembre 71 anni, troppo spesso è stata utilizzata per violarli. E per violarne il primo: vivere. Se la guerra è lo strumento per eccellenza della violazione dei diritti individuali e collettivi, due conflitti in piena salute sono forse i modelli attraverso cui i diritti umani sono stati utilizzati meglio per farne carta straccia. Il primo è il conflitto afgano, che compie quest’anno 40 anni, iniziato con l’invasione sovietica del ‘79 per proseguire con quella post 11 settembre: entrambe sotto l’ombrello dei diritti. Per Mosca erano quelli della proprietà terriera diffusa, del diritto ad avere acqua potabile e servizi sanitari e, per le donne, di essere direttrici di giornali o ministre. L’invasione Nato-americana iniziò anch’essa con la bandiera dei diritti: delle donne, all’istruzione, alla democrazia. Ma l’imposizione armata dei relativi modelli di governance ha prodotto quello che abbiamo sotto gli occhi: nell’89 l’Urss si ritirò lasciando un Paese distrutto. Quanto a “noi”, nel 2019 i bombardamenti arei sono triplicati, negli ultimi mesi le vittime sono quasi duplicate e infine sappiamo che squadroni della morte addestrati dalla Cia fanno il lavoro sporco. Di che diritti parliamo? La Libia è un altro manifesto del fallimento della Carta perché la guerra dilagata in quel Paese in mano a milizie e bande armate e dove si violano costantemente i diritti dei migranti, nacque dalla risoluzione 1973 del 2011 che, se giustamente poneva il problema della difesa dei civili allora accerchiati a Bengasi, fu il via libera all’uso della forza e, di fatto, all’intromissione nel Paese di appetiti più diffusi che stavano aspettando il momento giusto non certo per salvaguardare diritti quanto per appropriarsi di pozzi e giacimenti. Sarebbe dunque il caso, per onorare quella Carta, di ripensare agli strumenti da usare perché la bandiera dei diritti non sia la strada migliore per violarli col suo brando più violento: la guerra. L’occasione di questa riflessione personale è stata il convegno organizzato da PeaceGeneration e introdotto dalla sua presidente Marcella Foscarini mercoledì alla Camera e il cui titolo invitava a riflettere sullo stato della Dichiarazione dei diritti dell’uomo approvata dall’Onu nel 1948: A che punto siamo? I Diritti umani sono ancora diritti, e sono ancora universali? Tra le molte risposte e i molti interventi dei relatori, Fabio Mini ha proposto quella dell’ossimoro della “Guerra per i diritti umani”: ossimoro degli ultimi 30 anni che ha il suo apice nella “guerra umanitaria” del Kosovo. Del resto - dice Mini - la Carta “svolge un ruolo morale ma non è giuridicamente vincolante” e “in caso di emergenza o pericolo per lo Stato, il diritto dei conflitti armati (Diritto internazionale bellico poi diventato Diritto internazionale… umanitario) diventa prevalente con le violazioni che ne conseguono”. Non solo con le armi: “le sanzioni economiche possono far peggio”. Comunque, “se la difesa dei diritti non è il primo pretesto per fare la guerra lo diventa poi a guerra in corso”. E gli strumenti di tutela (come la Corte penale internazionale) “intervengono solo dopo, mai preventivamente. A forza di violare le regole - mette in guardia Mini - la violazione diventa norma”. Franco Ippolito (Fondazione Basso) riprende la relazione tra diritti effettivi e retorica politica sottolineando - a una platea di giovani studenti - un fallimento: “Abbiamo ereditato grandi conquiste con al centro la dignità dell’uomo ma la nostra generazione non ha saputo rendere effettivi quei diritti”. È un invito a chi adesso si ribella alla negazione anche dei diritti ambientali, nodo affrontato da più di un relatore. L’accademico Gianfranco Amendola vi affianca il tema del lavoro (l’Ilva ad esempio) e sottolinea come il diritto all’ambiente sia sancito da ben quattro articoli della nostra Costituzione (4, 9, 32, 41). In proposito Rosario Lembo, del Contratto Mondiale sull’Acqua, ricorda l’importanza di una risorsa per la quale non esiste un accordo internazionale che possa regolare (e sanzionare) la gestione di quello che oggi è “merce e bene economico più che un diritto”. Turchia. Erdogan: “Lunedì mi libero dell’Isis”. Ma spara sul Pkk di Chiara Cruciati Il Manifesto, 9 novembre 2019 Il governo turco annuncia le estradizioni a senso unico di foreign fighters in Europa a partire dall’11 novembre. E lancia la quinta fase dell’operazione militare contro il sud-est curdo. Intanto nel Rojava la guerra continua. Ha una data la minaccia del presidente turco Erdogan all’Europa: da lunedì 11 novembre Ankara inizierà a estradare i miliziani stranieri dell’Isis catturati. A dirlo, ieri, il ministro degli Interni, Suleyman Soylu, a quattro giorni dal primo annuncio: “Avvertiamo l’Europa che li manderemo indietro a partire, speriamo, dal prossimo lunedì”. Niente di più: nessun dettaglio sui numeri o le mete, né tanto meno sulle modalità di un’estradizione a senso unico. Secondo il governo turco, il totale di foreign fighters nelle sue prigioni ammonterebbe a 1.200 unità. Nelle stesse ore Ankara lanciava una nuova operazione nel sud-est turco, a maggioranza curda, stavolta contro il vero nemico, il Partito curdo dei Lavoratori (Pkk). Ribattezzata Kiran-5 perché ne segue altre quattro partite a fine agosto, la campagna - fanno sapere dagli Interni - coinvolgerà 2.625 uomini e 179 unità dell’esercito nelle province di Diyarbakir, Bingol e Mus. Anche qui pochi dettagli, ma basta osservare le precedenti per farsi un’idea: militarizzazione del sud-est curdo ed eliminazione delle amministrazioni locali. L’ultima vittima è il sindaco di Ipekyolu, nella provincia di Van: Azim Yacan, del partito di sinistra Hdp, è stato arrestato ieri con il suo vice con l’accusa di appartenenza a organizzazione terroristica (il Pkk). Sarebbe stato anche rimosso, identica sorte di 15 sindaci Hdp prima di lui. I commissari governativi sono già operativi da Diyarbakir a Mardin fino a Van da fine agosto, proprio in contemporanea con l’avvio delle operazioni nel sud-est. Una campagna che fa il paio (politico) con quella in corso dal 9 ottobre contro il Rojava, il nord-est siriano a maggioranza curda, e la sua amministrazione autonoma. Si combatte, nonostante le dichiarazioni di tregua, con le Forze democratiche siriane guidate dai curdi impegnate a difendere comunità e progetto politico. Continuano i raid turchi su Ayn Issa e Tel Temer, mentre Manbij è colpita dall’artiglieria delle milizie jihadiste filo-turche. A rispondere non sono solo le Sdf: la gente protesta da giorni contro i pattugliamenti congiunti russo-turchi a Qamishlo. Ieri, riporta l’agenzia Anf, le pattuglie sono state prese a sassate nei villaggi in cui sono passate. I soldati turchi hanno risposto sparando sulla folla, per poi investire e uccidere un giovane, Serxwebûn Ali. Egitto. Esperti Onu: “Morsi ucciso dal carcere duro, migliaia di detenuti in pericolo” agenzianova.com, 9 novembre 2019 Il regime carcerario in Egitto potrebbe aver portato direttamente alla morte dell’ex presidente Mohamed Morsi e potrebbe mettere a repentaglio la salute e la vita di altre migliaia di detenuti. È quanto emerge da un rapporto redatto dagli esperti indipendenti delle Nazioni Unite, tra cui Agnes Callamard, relatrice speciale per esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie. Morsi è deceduto lo scorso 17 giugno all’età di 67 anni dopo essere stato colto da malore durante un’udienza in tribunale. L’ex capo dello Stato egiziano ed esponente dei Fratelli musulmani, gruppo oggi considerato fuorilegge dalle autorità dell’Egitto, era stato sottoposto a un duro regime carcerario di isolamento nonostante soffrisse di diabete, ipertensione e altri problemi collegati al malfunzionamento del fegato. “Morsi è stato tenuto in condizioni che possono essere descritte solamente come brutali durante i cinque anni passati nel complesso carcerario di Tora”, si legge nel rapporto degli esperti Onu, citato in un comunicato dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (Ohchr) con sede a Ginevra. In particolare, spiega il rapporto, l’ex presidente egiziano in carica dal 30 giugno 2012 al 3 luglio 2013 veniva tenuto in isolamento per 23 ore al giorno; non gli era permesso di intrattenere rapporti con altri prigionieri, nemmeno durante l’ora fuori dalla cella; dormiva su un pavimento di cemento con una o due coperte come protezione; non gli era concesso di avere libri, riviste, radio, televisione o di avere materiale per scrivere; non ha ricevuto cure per il diabete e l’alta pressione; ha perso progressivamente la vista dell’occhio sinistro, ha avuto ricorrenti coma diabetici e ripetuti svenimenti, soffrendo peraltro di significative carie e infezioni gengivali. “Le autorità erano state avvertite ripetutamente che le condizioni carcerarie di Morsi avrebbero gradualmente minato la sua salute fino ad ucciderlo”, aggiunge il rapporto, concludendo che “la morte di Morsi potrebbe equivalere a un omicidio arbitrario perpetrato dallo Stato”. Il rapporto chiede “un’indagine indipendente e imparziale” non solo sulla morte di Morsi, ma di tutti gli altri prigionieri deceduti in custodia cautelare dal 2012, anno del golpe che ha portato al potere l’attuale leadership egiziana. “Abbiamo ricevuto prove credibili da varie fonti - spiegano gli esperti - secondo cui migliaia di altri detenuti in tutto l’Egitto potrebbero subire gravi violazioni dei loro diritti umani e potrebbero essere ad alto rischio di morte”. Il rapporto degli esperti Onu avanza l’ipotesi che il carcere duro possa essere “una pratica intenzionale dell’attuale governo del presidente Abdel Fatah al Sisi per mettere a tacere i dissidenti”. La relazione invita il governo del Caro ad “invertire quelle che sembrano essere pratiche profondamente radicate che violano gravemente il diritto alla vita delle persone, il diritto a non essere sottoposti a detenzione arbitraria, il diritto a non essere sottoposti a tortura o maltrattamenti, il diritto a un giusto processo, un processo equo e un’adeguata assistenza medica”. Tra le migliaia di altri detenuti in condizioni di isolamento ci sono l’ex consigliere per gli affari esteri di Morsi, Essam el Haddad, e suo figlio, Gehad El-Haddad, ex portavoce dei Fratelli musulmani al momento dell’arresto. “Questi due uomini vengono effettivamente uccisi dalle condizioni in cui sono detenuti e dalla privazione delle cure mediche. Sembra che questo avvenga intenzionalmente o perlomeno viene permesso che accada”, conclude il rapporto. Gran Bretagna. Julian Assange rischia di morire in prigione: l’accusa del padre di Silvia Morosi Corriere della Sera, 9 novembre 2019 Il fondatore di WikiLeaks rischia fino a 175 anni di reclusione. “È molto magro e decisamente depresso”, ha dichiarato John Shipton, parlando con i giornalisti a Ginevra. John Shipton, padre di Julian Assange, accusato di spionaggio da Washington e minacciato di estradizione negli Stati Uniti, ha dichiarato da Ginevra che il figlio “potrebbe morire in prigione”. Come riporta France24, infatti, Shipton ha raccontato ai giornalisti di aver visto suo figlio “molto magro e depresso”. Il fondatore di WikiLeaks rischia fino a 175 anni di reclusione negli Usa (“Sono in gioco 175 anni della mia vita”, aveva commentato Assange, ndr.), accusato da Washington di aver messo in pericolo alcune fonti quando nel 2010 furono pubblicati 250mila cablogrammi diplomatici e circa 500mila documenti riservati sulle attività dell’esercito americano in Iraq e in Afghanistan. Si deciderà in 5 udienze a partire dal 25 febbraio 2020 il verdetto di primo grado sulla contestata richiesta di estradizione dalla Gran Bretagna agli Usa. “Morirà in prigione dopo nove anni di “persecuzione” per aver osato rivelare “crimini di guerra” negli Stati Uniti”, ha aggiunto Shipton, sottolineando: “Questa non è l’amara delusione di un padre, questo è semplicemente un fatto”. Il padre: “Uno scandalo” - Il fondatore australiano di Wikileaks è detenuto in una prigione di Londra da quando ad aprile è stato arrestato dalla polizia britannica all’ambasciata dell’Ecuador, dove si era rifugiato nel 2012. Shipton ha detto che non è giusto condannare qualcuno per aver rivelato dei crimini: “In tutti i Paesi che conosco, in Svezia, nel Regno Unito, in Australia e negli Stati Uniti, è un crimine nascondere dei crimini. Non puoi essere gettato in prigione per averli denunciati. È uno scandalo”. Onu: “Torture psicologiche su Assange” - Già una settimana fa Nils Melzer - relatore dell’Onu sulla tortura - aveva espresso preoccupazione per lo stato di salute di Assange: “La sua vita è in pericolo. Continua ad essere detenuto in un carcere di massima sicurezza, in condizioni di sorveglianza e isolamento estreme e non giustificate, mostra tutti i sintomi tipici di un’esposizione prolungata alla tortura psicologica. È necessario, dunque, che il governo britannico lo liberi immediatamente per proteggere la sua salute e la sua dignità. È inoltre da escludere la sua estradizione negli Usa”. Attaccando: “È recluso dall’11 aprile scorso, mentre i responsabili dei crimini da lui denunciati continuano a beneficiare dell’impunità”. Brasile. Lula è libero, il giudice accetta la richiesta della difesa La Repubblica, 9 novembre 2019 Autorizzata la scarcerazione dell’ex presidente brasiliano che scontava, dall’aprile del 2018, una condanna di 8 anni e 10 mesi per corruzione. Gentiloni: “Un grande presidente”. In Brasile, la giustizia federale di Paranà ha autorizzato la scarcerazione dell’ex presidente brasiliano, Inacio Lula da Silva, che scontava, dall’aprile del 2018, una condanna di 8 anni e 10 mesi per corruzione. La sentenza segue la decisione della Corte Suprema, che ha deciso di eliminare la norma che impone il carcere ai condannati se questi perdono il primo ricorso in appello, stabilendo che le manette non possono scattare prima che siano stati espressi tutti i gradi di giudizio. “Lula torna in libertà. Un grande presidente che ha combattuto contro la povertà e per il riscatto del popolo brasiliano” ha scritto su Twitter Paolo Gentiloni. All’uscita dal carcere ha avuto anche qualche parola nei confronti del suo grande avversario, Sergio Moro, il giudice che lo ha spedito in carcere e adesso è il ministro della Giustizia del governo Bolsonaro. “Moro non ha voluto arrestare un uomo. Volevano incarcerare una idea e le idee non si bloccano, non si uccidono”. “Cari compagni e care compagne, non sapete che cosa significhi che io adesso mi trovi qui con voi. Tutta la mia vita ho parlato con il popolo brasiliano e non avrei immaginato che accadesse quello che è accaduto oggi”. In un messaggio su twitter ha poi aggiunto: “Il popolo brasiliano è l’unico che può salvare questo paese. Abbiamo bisogno di un governante serio”. La festa per la liberazione ha avuto anche un momento romantico. Attorniato dalla folla di simpatizzanti e militanti e anche dagli avvocati della difesa, dai dirigenti del Pt e dalla figlia, Lula ha voluto presentare ufficialmente la sua nuova fidanzata. Un amore scoppiato in carcere ma che risale probabilmente a prima che venisse arrestato. “Ci tengo a presentarvi la donna di cui sono innamorato”, ha detto prendendo la mano di Rosângela da Silva, sociologa di Curitiba che conobbe il leader del Pt a Itaipú, la società dove la donna lavorava, tra il 2003 e il 2010 quando Lula era presidente. Fonti interne al partito sostengono che il capo della sinistra brasiliana aveva già fatto sapere a giugno la sua intenzione di sposarla quando sarebbe uscito di prigione. Ancora amatissimo dai brasiliani, Lula, 74 anni, lo aveva fatto sapere a maggio scorso, quando era ancora lontana la sentenza della Corte Suprema che stabilisce l’indispensabilità di tutti i gradi di giudizio per poter tenere un uomo in prigione. “È innamorato, e la prima cosa che ha intenzione di fare è sposarsi”, aveva scritto su Facebook Luiz Carlos Bresser-Pereira, suo ex ministro, che lo andò a trovare nel penitenziario di Curitiba. L’ex presidente brasiliano è oggi una icona della sinistra nel Paese guidato da Jair Bolsonaro, e forse l’uomo più temuto dall’attuale capo dello Stato. Le due condanne per corruzione e riciclaggio, una a 8 anni e l’altra a 12, non sono bastate a far dimenticare ai brasiliani gli anni in cui “Lula” (nomignolo che utilizzava fin da quando era sindacalista dei metallurgici: dal 1975 e per quasi tutti gli anni Ottanta, in piena dittatura, sfidò da capo del sindacato i militari al potere organizzando scioperi poderosi) ha guidato la più grande potenza dell’America Latina dal 2003 al 2010. Leader indiscusso del Partito dei lavoratori, da lui co-fondato, Lula conquista la presidenza con un programma di economia sociale che, secondo le stime ufficiali, ha sottratto 29 milioni di persone alla povertà. Quando lascia il potere ha un tasso di popolarità superiore all’80%, del quale beneficerà Dilma Roussef, la compagna di partito che a lui successe alla carica di presidente.