Un carcere militarizzato è un carcere meno sicuro di Maria Brucale* Il Riformista, 8 novembre 2019 Togliere poteri ai direttori a favore dei comandanti di Polizia penitenziaria significa svilire il loro ruolo di garanzia e la centralità della funzione rieducativa. Le regole penitenziarie europee - indicate nella raccomandazione dell’11 gennaio 2006 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa agli Stati membri - esprimono con chiarezza un concetto: “Gli istituti penitenziari devono essere posti sotto la responsabilità di autorità pubbliche ed essere separati dall’esercito, dalla polizia e dai servizi di indagine penale”. È un principio guida di assoluta importanza. Le carceri sono luoghi complessi, comunità dolenti animate da persone diversissime per cultura, ceto, provenienza, in coatta convivenza. Per tale ragione, le regole penitenziarie europee prevedono che gli istituti siano gestiti in un contesto in cui sia prioritario l’obbligo di trattare tutti i detenuti con umanità e di rispettare la dignità che è propria di ogni essere umano. Prevedono che il personale penitenziario abbia chiaro il suo scopo, che è non solo di vigilanza ma anche e soprattutto di verifica che il carcere serva alla restituzione dell’individuo in società e sia a ciò orientato; che sia la direzione dell’istituto a indicare le linee guida per assicurarsi che la reclusione miri a tale scopo; che ogni istituto abbia un direttore qualificato per il suo ruolo con riguardo alle sue qualità personali e alle sue competenze amministrative, alla sua formazione e alla sua esperienza professionale; un direttore che sia incaricato a tempo pieno e dedichi tutto il suo tempo ai propri compiti istituzionali. Prevedono, inoltre, che le autorità penitenziarie assicurino che ogni istituto sia costantemente sotto la completa responsabilità del direttore, del vice direttore e di un funzionario incaricato. Il direttore non può indossare una divisa, essere o apparire come il braccio punitivo dello Stato. Deve vestire panni civili e porsi come garante della sicurezza e del rispetto di tutte le regole che proiettano la pena alla sua funzione costituzionale. Deve essere un tutore esterno e terzo rispetto ad una atavica contrapposizione, forse irriverente ma efficace, tra “guardie e ladri”. E ciò nel rispetto di un concetto di sicurezza che mira alla protezione della società attraverso la riabilitazione della persona detenuta e il buon esito del reinserimento sociale, che porta con sé la riduzione del pericolo di condotte recidivanti. Per tali ragioni, è fondamentale respingere con forza il nuovo tentativo di militarizzare gli istituti penitenziari, destituendo il primato gerarchico del direttore, messo in atto nello schema di decreto legislativo Correttivi del riordino dei ruoli e delle carriere del personale delle forze di polizia e delle forze armate. Basti, per comprendere appieno, evocare le norme dell’ordinamento penitenziario in materia di impiego della forza fisica e uso dei mezzi di coercizione: “Il personale che, per qualsiasi motivo, abbia fatto uso della forza fisica nei confronti dei detenuti o degli internati, deve immediatamente riferirne al direttore dell’istituto il quale dispone, senza indugio, accertamenti sanitari e procede alle altre indagini del caso”. E poi: “Gli agenti in servizio nell’interno degli istituti non possono portare armi se non nei casi eccezionali in cui ciò venga ordinato dal direttore”. Eliminare il rapporto di dipendenza gerarchica tra comandanti di reparto e direttori degli istituti penitenziari; sottrarre al direttore il potere disciplinare nei confronti del personale di polizia penitenziaria attribuendolo al comandante di reparto; escludere i dirigenti penitenziari dalla selezione del personale e dai consigli di disciplina del personale; attribuire al comandante di reparto la competenza relativa ad assegnazione, consegna e impiego dell’armamento individuale e di reparto significa, con tutta evidenza, modificare la sostanza del carcere e della sua essenza ordinamentale. Significa svilire, fino a esaurirlo, il ruolo fondamentale assegnato ai direttori di garanzia della legalità negli istituti di pena laddove legalità è, innanzitutto, centralità della tutetutela della persona detenuta nel rispetto dei valori fondanti della nostra Carta costituzionale. A ciò si aggiunga come, mentre da ormai oltre un decennio, il ruolo dei direttori di istituto non viene rinnovato in assenza di concorsi pubblici, i decreti in questione prevedono un aumento esponenziale dei posti di funzione riservati a funzionari e dirigenti del corpo di polizia penitenziaria. La tendenza evidente appare, dunque, un processo di militarizzazione che assegna ai direttori - già numericamente inidonei a coprire le necessità di organico degli istituti di pena - una funzione via via residuale che sembra mirare a cancellarne il ruolo e le prerogative a vantaggio del personale penitenziario. È invece di fondamentale importanza, nel delicato equilibrio di un luogo che deve contemperare l’aspetto coercitivo con l’imperativo costituzionale della pena, che permangano le prerogative di una figura terza, quella del direttore, che concili il bisogno di sicurezza con le tante istanze, di risocializzazione, amministrative, contabili, di un carcere. *Avvocato Il Sindacato Uspp: “Nessuna militarizzazione nelle carceri” corrierepl.it, 8 novembre 2019 “Non esiste alcun pericolo di militarizzazione per le carceri italiane derivante dalle minuscole modificazioni legislative in discussione”, commenta Francesco Laura, Vice Presidente dell’Unione Sindacati Polizia Penitenziaria (U.S.P.P.) e Responsabile degli iscritti dirigenti di Polizia Penitenziaria. Le nuove norme riguardano solo il rapporto organizzativo e i profili gerarchici all’interno del Corpo di polizia penitenziaria e, tra l’altro, in misura parziale” aggiunge Francesco Laura. “In pratica, la Polizia penitenziaria continuerà a svolgere i suoi compiti istituzionali indicati nella legge 395/90, che restano invariati”, prosegue il sindacalista, che afferma, inoltre, “nulla cambierà nella rapporto tra la polizia penitenziaria è la popolazione detenuta, in quanto si prevede solo una subordinazione gerarchica del personale in uniforme ai dirigenti di Polizia penitenziaria, laddove prevista, e resterà la giusta subordinazione funzionale nei confronti dei direttori penitenziari, ossia lo stesso rapporto che oggi esiste con la magistratura”. Per la U.S.P.P. “la campagna di strumentalizzazione avviata è fuorviante e pretestuosa rispetto ad una situazione che non sfocerà in null’altro se non in una migliore e moderna organizzazione del Corpo”. Il paradosso della privazione della libertà. Una lezione di diritto, una lezione di umanità di Mauro Palma Il Riformista, 8 novembre 2019 La lectio magistralis del Garante dei detenuti alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi “Roma Tre” in occasione della laurea honoris causa. Il teatro del supplizio: potere, Stato, violenza, consenso. Giustizia? Con la volontà di comprendere con il proprio sguardo la vulnerabilità intrinseca alla restrizione della libertà, nelle sue diverse forme, chi ha il compito di tutelare e prevenire si rivolge alle tre principali ipotesi che vengono formulate all’origine di un esercizio così violento, quale è quello, appunto, di ridurre o privare della libertà un’altra persona. Una violenza necessaria in determinate situazioni, ma che deve postulare sempre la consapevolezza dell’asimmetria drammatica del suo attuarsi e la considerazione della maggiore necessità di tutela dei diritti della persona che la subisce, richiesta dalla sua contingente situazione. Le aree sono essenzialmente tre: innanzitutto quella della libertà ristretta in conseguenza di ciò che la persona destinataria della misura ha commesso o è supposta di aver commesso, per la necessità di preparare un possibile ritorno che tuteli la collettività e l’autore dal suo ripetersi; in secondo luogo quella della libertà ristretta in funzione di uno scopo di espulsione o di respingimento della persona che una realtà sovrana, per vari e anche legittimi motivi, ritiene non possa essere accolta; infine la libertà ristretta, per la presunta tutela di una persona ritenuta non in grado di tutelarsi da sola e per proteggere gli altri dalle conseguenze di questa sua presunta incapacità di autodeterminarsi. Quest’ultima, forse, la più problematica. Sono tre ipotesi diverse, una di area penale, una di area amministrativa e l’altra di area sanitaria, a cui corrispondono luoghi e strutture del tutto diversi nonché programmi, ipotesi e atteggiamento della collettività esterna, anch’essi del tutto diversi. Luoghi previsti da norme di rango primario e regolati in aspetti di dettaglio, come è ovvio, da norme secondarie e regolamenti che però ne determinano la concretezza, con limitazioni sempre più specifiche che finiscono col restringerne lo spazio dell’autonomia decisionale, in un processo di tipo implosivo, fino a ridurlo quasi al nulla - metaforicamente nel linguaggio della fisica parleremmo dell’evoluzione della massa in buco nero. Per capire quale possa essere la Giustizia agita lungo tali diverse ipotesi, quantunque in via tendenziale, approssimata e sempre mutevole, è forse necessario partire da ciò che accomuna la loro attuazione, in queste tre aree. Non da ciò che le differenzia. Anche in altre occasioni, ho sintetizzato un loro tratto comune nella logica della sottrazione in un contesto che avrebbe invece bisogno di addizione. La logica che spesso sottende gli interventi nell’ambito della progressiva riduzione della libertà, infatti, è quella del togliere: si toglie non solo la libertà stessa, ma anche relazioni, spazio, cose, a volte suppellettili, a volte abiti. Si finisce per togliere diritti e anche soggettività. Spesso ciò è formalmente motivato dalla necessità di avere regole comuni in collettività complesse; altre volte dalla volontà di proteggere la persona da gesti auto o etero-aggressivi. Il risultato è in regole e norme di tipo precettivo, la cui definizione non ha nulla di relazionale e comunicativo - dimensione che invece in una realtà para-comunitaria come è comunque la vita ristretta potrebbe diminuire tensioni e dare luogo a una connotazione discorsiva della produzione di regole o anche autoregolativa, favorendo un sistema di autorganizzazione, pur controllata, capace di responsabilizzare le persone ristrette. Al contrario, si preferisce un sistema regolativo formale, spesso ipertrofico e burocratico, che effettua progressive selezioni nell’attribuzione di responsabilità e richiede soltanto obbedienza. In ciò sottraendo progressivamente autonomia. La logica del normare sottraendo si nutre di pericoli presunti, di imperativi etici, di opportunità utilitaristiche, di ipotizzate necessità e finisce col concretizzarsi, oltre che nella riduzione di contatti e relazioni, anche nello spazio fisico. Così si giunge negli Istituti di detenzione alla collocazione in stanze prive di suppellettili - che non a caso vengono dette nel micro linguaggio interno “celle lisce” - nei Centri per migranti a gabbie non munite di alcuna cosa se non di tavoli in cemento, nei luoghi deputati ad accogliere le difficili vite nelle strutture sanitarie a stanze vuote. Per questo, ho voluto includere nella Relazione al Parlamento di quest’anno il locale vuoto tra gli ambienti della privazione della libertà. Un locale caratterizzato dall’assenza, al contrario di come si caratterizza ogni altro spazio della vita: assenza di oggetti, stimoli; da qui, assenza di sogni. Per questo - abbiamo scritto in quella Relazione che “il locale “vuoto” ci dice molto di quali siano le strategie adottate per risolvere le criticità: da quelle più ordinarie dello spaesamento subìto dopo la privazione della libertà a quelle più eccezionali della crisi. Ci informa della capacità o meno di saper armonizzare le conflittualità che inevitabilmente un microsistema sociale chiuso pone. Certamente il “vuoto”, come nuova collocazione della persona in crisi, sotto lo sguardo preoccupato e smarrito di chi si trova impropriamente affidata la responsabilità di vigilare sulle sue reazioni, è la falsa soluzione”. Invece occorrerebbe agire sull’addizione: maggiori possibilità di relazioni con i propri affetti esterni, più frequenti norme che definiscano in positivo ciò che deve connotare la quotidianità nelle istituzioni chiuse, un maggiore riconoscimento di legittimi interessi, oltre che la scrupolosa effettività dei diritti, una produzione discorsiva delle regole interne. Un secondo tratto, connesso al precedente, è il rapporto tra una globalità affermata e un localismo vissuto: abbiamo ormai tutti uno sguardo globale, che supera non solo muri, ma confini e oceani, percettivamente e materialmente, e la produzione normativa si affanna invece attorno a percorsi limitativi e confinanti quando è chiamata a trattare delle difficoltà sociali. Qui si potrebbe richiamare il rapporto tra la razionalità giuridica e la sua espressione linguistica: la prima governata necessariamente dall’incidenza degli aspetti relazionali, sui quali deve fondarsi, la seconda regolata da aspetti semantici che però determinano in concreto l’azione della norma: la possibile scissione tra questi due ineludibili costruttori di ogni norma è alla base, in particolare quando si tratta di regolare la restrizione della libertà, di un normativismo di dettaglio che spesso incide in negativo sulla ratio che era all’origine della norma stessa, finendo col codificare un localismo che nega quello sguardo globale essenziale alla comprensione del presente. Lo sguardo globale, la mobilità del pensiero verso luoghi lontani, ma virtualmente prossimi, grazie a una tecnologia che si pone come estensione della propria capacità concettuale sono, infatti, la dimensione relazionale del presente e una persona non può perdere tale dimensione, qualsiasi sia la situazione contingente in cui viene a trovarsi, pena il fatto di rimanere esclusa da qualsiasi possibilità di appartenenza al presente stesso e di comprensione delle sue dinamiche e del suo sviluppo: una comprensione senza la quale non potrà esercitare la propria capacità analitica e critica e quindi avere una vita piena quale soggetto portatore di diritti. Eppure le tecnologie informative e comunicative sono precluse quasi sempre laddove la libertà è ristretta, così rendendo volatile ogni riferimento alla ricostruzione possibile di un proprio percorso. Inoltre, proprio la globalizzazione e la mobilità di massa hanno avuto un impatto profondo sulla giustizia penale e sulla dimensione del suo espandersi nella realtà contemporanea nonché sulle sue forme: dalla previsione in molte giurisdizioni di nuovi reati connessi con l’immigrazione e la sua irregolarità all’utilizzo della privazione della libertà come forma di controllo all’accesso ai luoghi e ai territori, dall’enfasi sul rischio di radicalizzazione, rafforzato dalle difficoltà di comprensione linguistica e culturale, allo sviluppo di una penalità sempre più orientata a individuare tipologie di autori. Questa riflessione si amplia a considerare il significato che assegniamo al tempo ristretto, quello, in particolare, che caratterizza l’esecuzione di una pena. Il tempo della privazione della libertà è proposto come tempo vuoto o come tempo “altro” rispetto al suo fluire esterno. Spesso è proposto come tempo dell’afflizione. […] Proprio nello specifico dell’esecuzione penale in carcere, infatti, le considerazioni che ho sommariamente sviluppato per tutte le aree della privazione della libertà diventano ancor più evidenti. Il pendolo dello sguardo oscilla nella nostra attualità penalistica - e nelle politiche messe in campo nell’ambito delle pene e della loro esecuzione - tra il tendere al futuro e il volgersi al passato, tra istanze di prevenzione, tendenze alla rieducazione e riflessi retributivi, senza ritrovare solidamente quel baricentro tra questi tre vertici di un ipotetico triangolo che la Carta ha voluto indicare. Anche perché questo pendolo è fortemente mosso, influenzato, dal vento del desiderio di soddisfare una presunta opinione pubblica. Questa, con l’abbandono dell’esercizio attivo, educante del pensiero politico e il suo retrocedere alla ricerca di consenso immediato, lo muove, spostandolo verso uno o l’altro dei vertici. Il principio legittimante soprattutto l’adozione di misure esecutive alternative alla secca detenzione rischia così di essere di natura consensuale, più che di stretta legittimazione legale e il presunto consenso va sempre nella direzione di proporre una linearità tra il delitto e il castigo. Ma, la complessità del come rispondere al reato è invece tema non lineare; lo era già dall’antichità, in un contesto che ricorreva al castigo come sola risposta possibile e che tuttavia non escludeva gli interrogativi che ritroviamo nelle parole di Protagora, nella elaborata descrizione che Platone riporta di ciò che noi oggi, con qualche forzatura semantica, potremmo leggere come necessità di deterrenza e rieducazione: “Chi cerca di punire- dice il filosofo - ragionevolmente castiga non a causa dell’ingiustizia trascorsa, poiché non potrebbe ristabilire come non avvenuto ciò che è stato fatto, ma in vista del futuro, affinché né il colpevole, né chi lo vede punire commettano più ingiustizia”. Qui si condensa il valore ricompositivo che le pene devono avere. Senza ricomposizione, senza una sua previsione e senza azioni volte alla sua progettazione, la scena penale e il processo restano un teatro dell’esercizio del potere esclusivo di violenza da parte dello Stato e della costruzione di un consenso legittimante sul piano delle politiche della giustizia: un teatro che si realizza attorno alla sofferenza dei suoi attori. Attori sofferenti, tutti: la vittima in primo luogo che affida a quella scena una parte possibilmente lenitiva del proprio dolore o della rabbia per il torto subito e che invece è di fatto espropriata di una presenza, il reo che nel momento stesso dell’apparire sulla scena processuale è di per sé soggetto “debole”, delegato ad altri che parlano per lui e che vedono in lui la reificazione del reato e non il soggetto, la collettività esterna a cui è lasciato il ruolo di spettatore o a volte di tifoso, che comunque osserva a distanza. La teatralità è l’opposto della ricomposizione, che ha invece bisogno di capire: forse anche di silenzi. Senza ricomposizione la scena processuale diviene versione aggiornata del vecchio luogo del “supplizio”: certo non più epifania del martirio del corpo a cui dare dolore, così come rappresentato in molti quadri della tradizione moderna, come quello del fiammingo Cornelis de Wael che mostra la misericordia di visitatori impassibili in un ambiente di persone ai ceppi. Ma, pur sempre supplizio implicito nel corpo ristretto e soprattutto nella restrizione dell’estensione possibile del pensiero. Scrisse Gabriel Bonnot De Mably nel periodo dell’Illuminismo e del passaggio dalla pena corporale alla detenzione: “Che il castigo, se così posso dire, colpisca l’anima, non il corpo”. La teatralità concede qualcosa ai residui di vendetta - e il linguaggio corrente sul “gettare le chiavi” o altre espressioni ormai utilizzate liberamente ce lo ricordano - perché una idea corporea della pena permane nella nostra contemporaneità, anche se avvolta dall’incorporeo di una penalità centrata sull’astratta neutralità del tempo sottratto come misura del castigo. L’assenza di prospettiva ricompositiva oltre a dare nuovamente spazio a quella teatralità che Michel Foucault richiama come sistema regolativo che si rivolge al reo e all’esterno con funzione ammonitrice e disciplinante dei comportamenti sociali, apre inoltre alla funzione estensiva dell’uso del diritto penale. Perché il teatro richiede sempre più spettatori: è a loro che si rivolge ciò che avviene sulla scena. Soprattutto quando mancano altre situazioni nel sociale che funzionino come elemento regolativo: che nel regolare e dirimere i conflitti, producano anche coesione. Il sistema penale strettamente punitivo si espande così con consenso laddove altri sistemi regolativi non funzionano: il suo ampliarsi è indice di altre assenze, di mediazione sociale e soprattutto politica e, a sua volta, agisce come base per ulteriori ampliamenti. In questa corporeità residua rimane il nucleo della sanzione punitiva come sofferenza: la pena detentiva può divenire falsamente in discontinuità con l’antica pratica e persistente invece nel desiderio vendicativo: questo si concretizza, per le sue modalità esecutive, per i suoi elementi accessori, per la sua indifferenza al ritorno e all’inclusione. Per questo abbiamo bisogno di ritornare ad alcuni fondamenti: il primo è che la detenzione in carcere, non è lo spazio per la pena possibile, perché è essa stessa il contenuto della pena. Il secondo è che non può esistere pena senza che a essa sia connesso un percorso. La stessa Corte costituzionale lo ha da sempre ricordato nell’aiutare a interpretare quella finalità rieducativa a cui la Carta afferma che le pene debbano tendere. Tale tendenza al reinserimento sociale - racchiuso nel termine “rieducazione” - non è elemento aggiuntivo, secondario rispetto alla struttura delle pene, ma un principio di orientamento delle pene stesse perché, scrive la Corte nella nota sentenza n. 313 del 1990 “se la finalizzazione venisse orientata verso diversi caratteri [affilittività, retributività], anziché al principio rieducativo, si correrebbe il rischio di strumentalizzare l’individuo per fini generali di politica criminale (prevenzione generale) o di privilegiare la soddisfazione di bisogni collettivi di stabilità e sicurezza (difesa sociale), sacrificando il singolo attraverso l’esemplarità della sanzione. È per questo - aggiunge la Corte - che, in uno Stato evoluto, la finalità rieducativa non può essere ritenuta estranea alla legittimazione e alla funzione stesse della pena”. Un principio a cui ritornare e verso cui la nostra Corte costituzionale, recentemente come sempre, ha indicato la direzione. Ma, abbiamo anche bisogno forse di ripensare in sé il paradigma che lega il negativo del reato al negativo della punizione. Rinunciando a quella benda che indica il non voler vedere, abbiamo bisogno di un nuovo umanesimo dell’esercizio di giustizia, in particolare della giustizia penale. La bilancia torna così a misurare la nostra capacità di incamminarci in questo percorso. Vi racconto come funzionano le visite al 41bis di Luigi Manconi* Il Dubbio, 8 novembre 2019 Caro Direttore, ricorro alla sua ospitalità per alcune puntualizzazioni in merito alla “vicenda Nicosia”. Antonello Nicosia è stato arrestato lunedì scorso con l’accusa di associazione mafiosa perché avrebbe recapitato fuori dal carcere i messaggi provenienti da alcuni boss della mafia, con cui aveva parlato durante le visite effettuate insieme a una parlamentare, della quale era assistente. Si tratta di precisazioni doverose, considerati gli attacchi - alcuni brutali, altri sinuosi - indirizzati contro l’attività svolta nelle carceri dai Radicali e dalla cosiddetta “lobby garantista” (alla quale mi onoro di appartenere). Nella scorsa legislatura, come presidente della Commissione per la Tutela dei Diritti umani del Senato, ho visitato numerosi istituti penitenziari in tutta Italia: reparti con detenuti comuni, di alta sicurezza e oltre una decina di sezioni speciali con detenuti reclusi in regime di 41bis. Nel corso di tutte queste visite ispettive, la nostra attività veniva costantemente accompagnata dal direttore dell’istituto e i nostri movimenti venivano seguiti passo passo, attentamente vigilati e tenuti sotto occhiuta sorveglianza da parte di agenti della Polizia penitenziaria e, nel caso dei reparti a regime speciale, dagli agenti del Gom (Gruppo operativo mobile), il corpo ad altissima qualificazione della Polizia penitenziaria che provvede alla custodia dei detenuti sottoposti al massimo controllo. Aggiungo che oggetto dei colloqui avuti con i detenuti - e tra questi anche esponenti di vertice delle organizzazioni criminali mafiose e camorriste reclusi in 41bis - sono sempre state, come la legge e l’ordinamento penitenziario prevedono, informazioni relative allo stato di salute dei detenuti, alla condizione di carcerazione e a eventuali diritti che si ritenevano violati all’interno di quelle celle. Niente di più. Per questi motivi non posso che provare stupore di fronte a quanto emerge dalla vicenda Nicosia: perché sarebbe stato consentito a qualcuno di potersi muovere con tanta facilità e agibilità in luoghi che dovrebbero essere tenuti sotto strettissima sorveglianza? Nel caso fosse confermato quanto emerso nei giorni scorsi, la responsabilità maggiore sarebbe da attribuirsi a chi non ha ottemperato agli obblighi che la legge e il regolamento penitenziario prevedono. Ma tutto ciò come può giustificare la tentazione, così sfacciatamente evidente, di limitare l’attività ispettiva nelle carceri e colpire una prerogativa che per legge appartiene ad alcuni soggetti istituzionali? E, cioè, ai parlamentari, ai consiglieri regionali, al Garante nazionale, a quelli regionali e - ci auguriamo - ai Garanti comunali. Come può la vicenda di un singolo mettere in discussione l’attività pluridecennale radicale - che sia del Partito radicale o di Radicali italiani - all’interno del sistema penitenziario, a difesa dello Stato di diritto e di quella norma che prevede la partecipazione della comunità esterna all’attività di rieducazione? Tutto ciò, com’è evidente, previa autorizzazione e sotto la sorveglianza del personale penitenziario. Grazie dell’attenzione e cordiali saluti. *Professore, già Presidente della Commissione per la Tutela dei Diritti umani del Senato “L’applicazione del 41bis a rischio incostituzionalità” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 novembre 2019 I penalisti in audizione alla Commissione antimafia. “Abbiamo una posizione fortemente critica al 41bis per come si è evoluto. Noi comprendiamo le finalità del regime differenziato nato come misura transitoria ed eccezionale sull’onda delle stragi e che è volto a recidere ai boss mafiosi i contatti con l’organizzazione di appartenenza, ma le misure ulteriormente afflittive e l’illimitata e reiterata applicazione rischiano di mettere in discussione la natura stessa del 41bis”. È ciò che ieri ha sostenuto l’avvocato Gianpaolo Catanzariti, responsabile dell’Osservatorio carcere delle Camere penali, durante l’audizione presso la commissione antimafia presieduta da Nicola Morra e volta ad approfondire i profili applicativi del 41bis. Catanzariti, ringraziando la commissione per averli invitati, ha ricordato l’importanza dell’osservatorio carceri composto dagli avvocati penalisti che svolgono le visite in carcere per monitorarne le condizioni, sottolineando l’importanza delle visite di ferragosto organizzate dal Partito Radicale e dove - grazie alla disponibilità del Dap - gli avvocati stessi hanno potuto visitare ben 60 carceri. L’unica osservazione che ha voluto però sottolineare è la mancata autorizzazione del Dap ai penalisti di poter verificare le condizioni del 41bis. “Tale regime - ha ricordato sempre Catanzariti - fin dal 1995 ad oggi è sotto l’occhio degli organismi internazionali di cui noi come Paese facciamo parte, come ad esempio il comitato europeo per la prevenzione della tortura del consiglio d’Europa che ultimamente ha redatto un rapporto proprio sul regime duro, ma attende ancora l’autorizzazione del governo italiano per renderlo pubblico”. Come detto, il rischio che le corti superiori mettano in discussione il 41bis è davvero concreto. “Questo perché diversi profili di applicazione non rientrano nel perimetro costituzionale e infatti - ha spiegato il presidente dell’osservatorio carcere - molto spesso la Consulta è dovuta intervenire per dichiarare incostituzionale alcune restrizioni del tutto ingiustificate”. In sintesi, si rischia di andare al di fuori dalla finalità del regime del 41bis e quindi, di fatto, travolgendo il senso dell’articolo 27 della costituzione. “C’è il sospetto - sottolinea sempre Catanzariti - che il 41bis venga utilizzato per costringere alla collaborazione il detenuto e quindi va contro la finalità stessa per il quale era stato introdotto”. A proposito della transitorietà, sempre il penalista ha evidenziato decine di casi di detenuti che sono ininterrottamente al 41bis da oltre 20 anni. Infine ha ricordato il problema degli internati, cioè coloro che hanno già finito di scontare la pena ma rimangono al 41bis come misura di sicurezza, oppure le aree riservate del regime duro che sono un doppio isolamento. Un vero e proprio super 41bis. Sulla stessa linea l’avvocata Piera Farina, esponente dello stesso Osservatorio e che conosce molto approfonditamente la questione del 41bis, la quale - sempre in commissione antimafia - ha osservato che con la riforma del 2009 “sono state introdotte restrizioni sulle ore all’aria aperta e sui colloqui con i familiari che nulla hanno a che vedere con le finalità del 41bis. Bisogna intervenire sulle criticità per rendere l’applicazione dello strumento conforme alla Carta costituzionale”. Un boss vuole uscire? Dimostri lui che ha rotto con il suo clan di Vittorio Teresi* Il Fatto Quotidiano, 8 novembre 2019 Dopo le sentenze di Cedu e Consulta i capimafia non collaboranti rischiano di uscire. La nuova legge dovrà invertire l’onere della prova: sta a loro dimostrare che hanno reciso i legami con i clan. I magistrati che celebrano processi di mafia nei territori endemicamente infestati dalle rispettive organizzazioni criminali, sono (o sono stati fino a pochissimo tempo fa) come squadre che giocano in trasferta. Non godono del favore della gente: le realtà territoriali in cui operano Cosa Nostra, ‘ndrangheta, sacra corona unita e camorra sono tendenzialmente più vicine a esse che ai rappresentanti dello Stato. Al contrario, le autorità giudiziarie che si sono trovate a fare indagini e celebrare processi di mafia dove questa si è insediata in epoche recenti e solo per ragioni di sfruttamento delle risorse economiche (Lombardia, Toscana, Piemonte, Liguria) potevano godere dell’appoggio dell’opinione pubblica, quindi giocavamo in casa, in campo amico. E una differenza non di poco conto, che attiene alla natura stessa delle organizzazioni mafiose più antiche. Cosa Nostra siciliana, per esempio, ha da sempre esercitato sul territorio una pretesa di dominio assoluto ed esclusivo, ponendosi (verso le popolazioni residenti) come l’unica autorità legittimata a esercitare il potere, naturalmente con gli strumenti della violenza e della minaccia diffusi, al punto da produrre quell’intimidazione ambientale che ha a sua volta prodotto la sottomissione di larga parte della popolazione. Tutto ciò non emerge, per fortuna, nei territori di “conquista” ove non si riscontrano fenomeni di radicamento territoriale e di dominio in alternativa e in contrasto con la sovranità statale. A causa della straordinaria forza del vincolo associativo e dell’obbligatorietà della fedeltà all’organizzazione soprattutto del favore ambientale di cui, purtroppo, ancora la mafia gode, i capi che soffrono o hanno sofferto lunghi periodi di detenzione vengono attesi nei luoghi di origine con trepidazione, perché sono considerati come i depositari del carisma e del reale potere di dominio e controllo del territorio. Non molto tempo addietro si era diffusa, con qualche anticipo, lanotizia della prossima scarcerazione di un importante elemento di una potente famiglia mafiosa, prima condannato all’ergastolo e poi assolto. Aveva sofferto un lungo periodo di carcerazione, era sempre stato un detenuto modello, aveva seguito con diligenza i programmi di recupero. Purtuttavia dalle intercettazioni che avevamo incorso, nei confronti di altri esponenti della medesima famiglia in attività di servizio, emergeva in maniera inequivocabile che tutti aspettavano il giorno della scarcerazione, per riconoscere al vecchio (ma neanche tanto) boss il ruolo e il posto dicomandochegli spettavano di diritto, peraversopportato il carcere da vero uomo d’onore, senza mai cedere alla tentazione di collaborare per ottenere benefici. Riguardando i numerosi e autorevoli interventi sull’ergastolo ostativo di questi giorni, dopo le due pronunce della Corte europea e della Corte costituzionale, credo che le considerazioni che ho fatto in premessa spieghino perché le maggiori preoccupazioni per le possibili conseguenze dell’allentamento del regime previsto dall’art. 4bis dell’ordinamento penitenziario siano state espresse da colleghi che hanno svolto la loro attività nel Mezzogiorno e si sono occupati, in modo esclusivo o prevalente, di processi di mafia. Le diverse opinioni sul tema sono quindi, a mio avviso, il frutto di differenti sensibilità maturate dalle rispettive esperienze professionali e dalle diversità ambientali e geografiche. Personalmente condivido le preoccupazioni espresse da alcuni soprattutto perché, dopo più di 40 anni di esercizio di funzioni requirenti a Palermo, di cui circa 30 esclusivamente trascorsi a occuparmi di indagini e processi di mafia, mi sono convinto dell’irredimibilità del mafioso non collaborante. Come ho detto, il mafioso non collaborante che esce dal carcere (anche solo per un periodo di permesso in famiglia) è vincolato dall’originario giuramento di fedeltà all’organizzazione che gli impone (pena l’essere considerato un traditore e quindi pena la morte, né più né meno come un collaboratore) di tornare a essere quello che era stato prima della carcerazione: cioè un mafioso in servizio permanente effettivo, senza alcuna possibilità di distacco o di allentamento del vecchio vincolo. Ma credo sia necessario fare un’altra precisazione: la pena dell’ergastolo viene inflitta a fronte di un giudizio di colpevolezza per uno dei delitti ritenuti più gravi dal nostro ordinamento (omicidio, strage) e diventa ergastolo ostativo quando quel delitto è stato commesso nell’ambito di una militanza in un’organizzazione di tipo mafioso. Quindi quando viene riconosciuto come un omicidio o come strage di mafia. Ma quasi tutti i capi delle varie componenti di Cosa Nostra attualmente all’ergastolo ostativo sono stati condannati non per un singolo episodio di omicidio o strage di mafia, ma per numerosissimi episodi. Ci sono mafiosi detenuti che sono stati condannati per due, tre, dieci, venti o anche molti più omicidi di mafia, alcuni anche per molti omicidi e molte stragi di mafia. È chiaro che in sede esecutiva vengono chiamati alla fine a scontare un solo ergastolo, ma è altrettanto chiaro che si sono macchiati di una serie impressionante di quei gravissimi delitti per cui è previsto il massimo della pena. Mi chiedo se sia giusto che chi ha subito numerose condanne da ergastolo possa essere trattato alla stesso modo di chi si è macchiato di un solo episodio. Se si scorrono i certificati del casellario dei più famigerati capi delle più sanguinarie famiglie di mafia ci si imbatte in numerose pagine che evocano tristemente gli omicidi e le stragi che hanno avuto come vittime esponenti delle istituzioni democratiche impegnati, con diversi ruoli, nel contrasto alle mafie. Concepire la concessione di un qualsiasi beneficio a costoro, senza pretendere in cambio la certezza della totale rivisitazione del loro trascorso criminale, significa annullare irrimediabilmente anni di impegno e di sacrifici di tutti coloro che hanno sempre agito per annientare definitivamente le mafie nel nostro Paese. Di fronte a un’istanza di benefici carcerari, avanzata da uno qualsiasi dei più pericolosi detenuti pluriergastolani, si dovrebbe imporre una inversione dell’onere della prova, che imponga all’interessato l’obbligo di dimostrare, con fatti e comportamenti univoci, che non sia più vincolato dal legame genetico con l’associazione e con i suoi esponenti e che abbia definitivamente reciso tutti i rapporti personali con costoro. Solo così si potrà evitare che il singolo giudice di sorveglianza possa, con un certo margine di serenità, decidere sull’istanza senza essere costretto a basarsi, per la propria decisione, soltanto sulle relazioni degli operatori dell’Uiepe o delle forze dell’ordine o degli uffici giudiziari competenti, che troppo spesso contengono notizie e considerazioni generiche e datate e raramente offrono la reale condizione del detenuto e dell’ambiente in cui ha operato da libero. Sono convinto che imponendo al detenuto l’obbligo di documentare il proprio definitivo distacco dall’organizzazione mafiosa d’origine, ci si muoverebbe nel solco delle decisioni assunte dalle due Corti e al contempo si acquisirebbero concreti elementi di giudizio per evitare di rimettere in circolazione pericolosissimi criminali nemici giurati dello Stato. Se dunque la questione dovrà essere risolta con un disegno di legge (come il Fatto Quotidiano attivamente sollecita), l’idea dell’inversione dell’onere della prova in capo al detenuto che chiede di accedere ai benefici carcerari possa essere presa in considerazione per trovare un equilibrio tra gli opposti interessi in gioco. *Sostituto procuratore della Repubblica a Palermo Rita Bernardini: “I Radicali non sono certo tutti come Antonino Nicosia” di Marco Lillo Il Fatto Quotidiano, 8 novembre 2019 “Sulle intercettazioni, sono contraria al taglia e cuci dei giornali, io non faccio il processo”. “Non si conoscono le leggi: ho fatto le visite nel regime di carcere duro e le guardie sono sempre presenti”. Rita Bernardini, ex segretario di Radicali Italiani, (quelli di Emma Bonino) è attualmente consigliere nazionale dell’altro partito, Radicale Transnazionale. Le abbiamo chiesto una valutazione politica dopo il fermo per mafia di Antonino Nicosia, membro del Comitato di Radicali Italiani fino a una settimana fa. Antonino Nicosia ha visitato le carceri quando lei era nel partito con lui? Due volte ma sempre in mia presenza. Mi sembrava un esaltato e quando lui mi chiese di essere accreditato come il referente locale per poter fare le visite, gli ho detto no dopo una valutazione politica sul modo con il quale si poneva. Michele Capano era il tesoriere di Radicali Italiani, una carica importante, fino al 2017. Oggi è nel Consiglio Generale del Partito Radicale, come lei, ed è avvocato del boss Filippo Guttadauro, cognato del boss Messina Denaro attualmente internato a Tolmezzo. Non è in conflitto di interessi un politico che fa una campagna sotto le bandiere radicali in favore anche di un suo cliente? E perché scusi? Allora le Camere Penali? Rappresentano gli avvocati ma sono persino audite in Commissione Giustizia quando si fanno le leggi. Dove è lo scandalo? Le Camere Penali rappresentano una parte. Il legislatore infatti sente loro ma pure i magistrati. Un partito dovrebbe mirare all’interesse generale quando si candida, o no? Noi per statuto ci possiamo candidare come individui non come partito. L’importante è la trasparenza. Tutti sanno che Michele Capano è avvocato di Filippo Guttadauro. Se rilascia dichiarazioni a favore dei detenuti all’ergastolo bianco a Tolmezzo lo sanno tutti che sta parlando anche del suo cliente. Capano non è mai entrato a Tolmezzo con noi ma se ci andasse e poi facesse un’intervista in favore degli internati come il suo cliente non ci vedo nessun conflitto di interessi. Sa qual è il problema? Lei non considera minimamente che quella battaglia è giusta. Gli internati al 41bis sono quelli che hanno già espiato la pena ma poiché sono ritenuti socialmente pericolosi restano isolati in carcere. Per legge dovrebbero stare in una casa di lavoro o in una colonia agricola, a Tolmezzo solo grazie alle battaglie del Partito Radicale per un periodo almeno gli facevano coltivare l’orto. Se scoprisse che, a combattere con lei questa battaglia ci fosse un iscritto e dirigente di Radicali Italiani,che mira non a favorire la rieducazione bensì il passaggio dei messaggi dei boss, il senso della battaglia cambierebbe, o no? La battaglia per legalizzare la presenza degli internati al 41bis resta giusta poi gli investigatori hanno tutti gli strumenti per accertare che i messaggi non passino. E ovviamente questa strumentalizzazione va combattuta. Per i pm, il consigliere del suo partito, Michele Capano, che non è indagato, ascolta senza stigmatizzarle le parole di Nicosia che gli propone di andare a trovare il mafioso Rallo in carcere con la deputata Occhionero per poter parlare senza che le guardie ascoltino. Lei cosa ne pensa? Penso che ambedue ignorino le leggi. Io ho fatto le visite al 41bis quando ero parlamentare e le guardie erano sempre presenti. Inoltre Capano con la deputata Occhionero non sarebbe entrato comunque perché avrebbe dovuto sottoscrivere un foglio nel quale dichiarava di essere un collaboratore con contratto continuativo. Per me Nicosia millantava. In percentuale sono molti i detenuti e avvocati iscritti che versano la quota al vostro partito? Non rischiate di essere condizionati nella vostra linea politica? Sono stati 3 mila e 300 gli iscritti al Partito Radicale nel 2018. Poi essendo davvero Transnazionale però 740 provenivano da altri paesi. I detenuti erano 115. Gli italiani hanno versato e versano quasi tutti la quota di iscrizione minima di 200 euro. Il totale dell’autofinanziamento è stato 580 mila euro. I conti sono facili. Quindi i detenuti sono il 5 per cento del totale dei nostri iscritti. Gli avvocati sono 273. Anche sommando tutti gli avvocati e tutti i detenuti non si arriva al 15 per cento. Comunque i detenuti, se non ottengono un apposito permesso di tre giorni dal magistrato di sorveglianza per venire al congresso, non possono partecipare e votare. Non mi risulta sia stato dato mai questo permesso. Il Fatto ha pubblicato spezzoni di tre audio di Antonino Nicosia, trascritti nel decreto di fermo. Per i pm direbbe “verosimilmente” alla deputata Occhionero di farsi pagare per moderare le sue critiche sulla struttura del carcere della Giudecca e poi, sempre secondoo i pm, in un’altra comunicazione intercettata, “l’iniziativa criminosa veniva illustrata dal Nicosia anche all’avv. Capano”. Cosa ne pensa? Sono contraria al taglia e cuci delle intercettazioni quindi non faccio il processo a nessuno sulla base di queste pubblicazioni. Nei primi messaggi, che lei mi dice essere diretti alla deputata Occhionero, Nicosia effettivamente sembra che parli di un progetto di estorsione. Mentre nella comunicazione con Capano mi pare che stia facendo un discorso molto meno chiaro, non penso che gli abbia comunicato il suo progetto. Il boss Giuseppe Graviano simpatizzava nel 2016 per i radicali ma il segretario di allora, Maurizio Turco, disse che gli impedivano di versare la quota perché era recluso al 41bis… Giuseppe Graviano non è iscritto al Partito Radicale. Non ci sarebbe nulla di male se lo fosse. Le posso dire però che a un altro recluso al 41bis, hanno sequestrato durante una perquisizione la tessera del Partito Radicale. C’era anche un foglio con il preambolo dello Statuto ispirato alla non violenza. A me sembrava educativo lasciarlo al detenuto e non toglierlo. Mafia, il Gip ha convalidato il fermo di Antonello Nicosia Il Fatto Quotidiano, 8 novembre 2019 “Gravi infiltrazioni di Cosa nostra negli apparati dello Stato”. L’indagine, coordinata dal procuratore aggiunto Paolo Guido e dai pm Francesca Dessì e Geri Ferrara, ruota attorno a Nicosia, per anni impegnato nelle battaglie per i diritti dei detenuti e collaboratore parlamentare della deputata di Italia Viva, Giusy Occhionero. Per il giudice: “Gravemente inconsapevole” o “connivente” È stato convalidato il fermo di Antonello Nicosia, ex collaboratore di una deputata e attivista radicale, e il boss di Sciacca Accursio Dimino, accusati di associazione mafiosa dalla Dda di Palermo. Il gip ha convalidato il provvedimento e accolto la richiesta di custodia cautelare in carcere avanzata dai pm. Stessa decisione per Luigi e Paolo Ciaccio e Massimo Mandracchi, gli altri tre indagati per favoreggiamento. Il giudice parla di “infiltrazioni gravissime di Cosa nostra negli apparati dello Stato strumentalizzati per fini apparentemente nobili, in realtà volte ad alleggerire il rigore della detenzione dei mafiosi”. Il riferimento è ai rapporti di Nicosia con la deputata Giusy Occhionero di cui l’uomo era collaboratore parlamentare. Ed è pesantissima la valutazione sull’esponente politica. Secondo il gip, l’avvocatessa entrata in Parlamento nelle file di Leu, facendosi accompagnare nelle visite in carcere ai boss da Nicosia, senza aver fatto alcun controllo sul suo passato (il Radicale aveva una precedente condanna per traffico di droga a 10 anni e sei mesi) dimostra o “un grave difetto di consapevolezza” oppure “una connivenza”. Sospendendo il giudizio sulla posizione della Occhionero, al momento non indagata, il gip sottolinea però che “tramite un messaggio proveniente dalle carceri può essere ben ordinato un omicidio e garantita l’operatività di Cosa nostra. con permanente giustificazione obiettiva del regime di carcere duro denominato 41bis”. Il gip di Sciacca si è dichiarato incompetente per materia (l’associazione è di competenza distrettuale) e ha restituito gli atti alla procura di Palermo. L’indagine, coordinata dal procuratore aggiunto Paolo Guido e dai pm Francesca Dessì e Geri Ferrara, ruota attorno a Nicosia, per anni impegnato nelle battaglie per i diritti dei detenuti e collaboratore parlamentare della deputata di Italia Viva, Occhionero. Oltre a progettare omicidi ed estorsioni insieme al boss di Sciacca Dimino, tornato al vertice del clan dopo la scarcerazione, Nicosia entrava nelle carceri di massima sicurezza con la Occhionero e, utilizzando il suo ruolo di collaboratore della deputata, secondo la Dda, incontrava boss detenuti, portava all’esterno informazioni riservate e sollecitava interventi della donna nell’interesse di capomafia del calibro di Filippo Guttadauro, cognato del latitante Matteo Messina Denaro. Ieri Nicosia, rispondendo al gip, ha sostenuto di aver millantato un potere che non aveva. L’indagato ha poi definito “inopportune” le parole offensive usate verso il giudice Falcone e le espressioni di stima riservate al boss latitante Matteo Messina Denaro. Al Gip ha risposto anche il boss Dimino che pur ammettendo i suoi rapporti con Cosa nostra - è già stato condannato due volte per mafia - ha detto di aver cessato il suo legame con l’associazione criminale dopo il 2016, data della sua ultima scarcerazione. Blocca-prescrizione, Carta violata 3 volte e un’altra condanna della Cedu in arrivo di Antonella Zoni* Il Dubbio, 8 novembre 2019 È fin troppo chiara la non osservanza del precetto relativo alla ragionevole durata del processo e lo stop in caso di assoluzione crea la “presunzione di colpevolezza”. L’entrata in vigore, il 1 gennaio 2020, delle modifiche in tema di prescrizione del reato di cui alla legge 9 gennaio 2019, n. 3 (c. d. spazza- corrotti) costituirà - è facile previsione - il preludio a processi infiniti, con un impatto che l’allora ministro Giulia Bongiorno non esitò a definire esplosivo quanto una bomba atomica. Il fulcro della riforma è rappresentato dalla modifica dell’art. 159, co. 2, c. p., secondo cui “Il corso della prescrizione rimane altresì sospeso dalla pronunzia della sentenza di primo grado o del decreto di condanna fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o dell’irrevocabilità del decreto di condanna”. Il termine “sospensione” è improprio tecnicamente: la nuova disciplina determinerà un vero e proprio arresto - non una parentesi - al decorso del termine prescrizionale dopo la sentenza di primo grado, di condanna o di assoluzione, tanto che la prescrizione del reato non potrà più maturare in appello o in cassazione. Più razionale era la c. d. Riforma Orlando, che aveva introdotto - nel solo caso di condanna - due periodi di sospensione non superiori a un anno e sei mesi, l’uno dopo la sentenza di primo grado, l’altro dopo quella d’appello, consentendo una maggiore durata del processo di tre anni per giungere alla sentenza definitiva. La nuova normativa è inefficace e incostituzionale. Inefficace perché la sospensione opera dopo la sentenza di primo grado, mentre secondo dati ufficiali circa il 50% dei processi si prescrive prima: in fase di indagini o entro la fine del giudizio di primo grado. Incostituzionale perché viola norme fondamentali. Anzitutto, urta con il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., equiparando situazioni tra loro diverse, ovvero la sentenza di condanna e quella di assoluzione. La scelta di bloccare la prescrizione dopo la sentenza di primo grado, seppur assolutoria, è incompatibile anche con l’art. 27 Cost.: la presunzione di innocenza, ivi prevista, è sostituita incredibilmente dalla presunzione di colpevolezza. Nel Paese di Cesare Beccaria… Infine, la modifica è incompatibile con le garanzie dell’art. 111 Cost. sulla ragionevole durata del processo: imputato e persona offesa rimarranno in una situazione di “pendenza” del processo a tempo indefinito. Per l’imputato assolto sarà vieppiù vessatoria e iniqua la presenza di un carico pendente: si pensi al pregiudizio nella partecipazione a gare di appalto, concorsi pubblici e simili. Propagandata come riforma che avrebbe consentito una giustizia più celere, quasi che i ritardi nella fissazione dei processi siano esclusivamente imputabili a manovre difensive dilatorie, essa elude il vero tema del funzionamento della giustizia penale e inficia la ratio dell’istituto della prescrizione. È irreale pensare a un tempo accettabile di definizione dei gradi di impugnazione in assenza del “pungolo” della prescrizione per gli organi giudicanti. Urge un capovolgimento totale di prospettive: attuare interventi legislativi e organizzativi al fine della celebrazione dei processi in tempi brevi, con la costante salvaguardia dei diritti di difesa. Fermo il fatto che, se lo Stato non riesce a definire i giudizi nei termini di prescrizione stabiliti, la rinuncia al giudizio e alla pretesa punitiva risponde a un principio di civiltà giuridica. Un cittadino, assolto o dichiarato colpevole in primo grado, non può essere sottoposto a un giudizio per un tempo indefinito: è irragionevole che solo a molti anni di distanza l’assoluzione diventi definitiva o la pena sia irrogata. Molti e autorevoli sono i rilievi contro tale riforma, ma il ministro della Giustizia Bonafede, con le sue dichiarazioni, pare escludere in assoluto modifiche e aggiustamenti. In tale malaugurato caso, corriamo il rischio che la Corte Edu, dopo la recente condanna contro l’ergastolo ostativo, possa pronunciarsi sul processo illimitato. *Avvocato Stanco di fare il pm? Ma sì, ti faccio giudice: al Csm tutti promossi di Giovanni Altoprati Il Riformista, 8 novembre 2019 L’organo di autogoverno ha accolto le istanze di pubblici ministeri vogliosi di passare dall’accusa al giudizio. Così. In un batter d’occhio. Nonostante l’Italia sia l’unico Paese al mondo dove possa accadere una cosa del genere. Avanti, senza il minimo indugio, con le “porte girevoli” fra pm e giudici. Se qualcuno nutrisse ancora dei dubbi su quale sia l’opinione dei magistrati a proposito della separazione delle loro carriere, sarebbe sufficiente leggere la delibera approvata questa settimana del Plenum del Consiglio superiore della magistratura sul passaggio di funzioni. Il voto compatto dei consiglieri togati al cambio di posto nell’aula del dibattimento è la migliore risposta a chi, come l’Unione delle camere penali che ha al riguardo depositato pure una proposta di legge d’iniziativa popolare, ancora pensa sia possibile uscire da questa anomalia tutta italiana. Il Belpaese, infatti, è l’unico Stato al mondo dove il pubblico ministero ha un potere senza responsabilità. Ciò va avanti ininterrottamente dal 1989, anno in cui venne introdotto il codice di procedura penale di tipo accusatorio, mutuato dagli Stati uniti dove il pm è il capo della polizia giudiziaria. Con una “piccola” differenza. Negli Stati Uniti è elettivo e quindi se non funziona va a casa. In Italia, invece, si sono volute mantenere le garanzie giurisdizionali che esistevano nel processo inquisitorio. Il risultato è noto: indipendenza del giudice con i poteri politici del pm americano. E, soprattutto, con la possibilità di cambiare a piacimento il molo nel processo. Alla faccia dell’avvocato dell’accusa. Il Csm, perfettamente allineato con questa scuola di pensiero, ha accolto l’altro giorno, senza batter ciglio, le istanze di diversi pm che, evidentemente stanchi di chiedere solo le condanne per i loro imputati, avevano pensato che fosse giunto il momento di irrogarle direttamente. Come se si trattasse di una pratica improcrastinabile, Palazzo dei Marescialli ha dato dunque il via libera ai desiderata degli ormai ex pm, senza alcuna discussione. A dire il vero, solo i consiglieri laici, capitanati da Alessio Lanzi, hanno tentato una minima resistenza. Respinta immediatamente dalla casta togata. “Un cittadino oggi può essere accusato da un pm e domani, magari, vedersi giudicato dallo stesso magistrato diventato giudice”, ha esordito Lanzi, eletto in quota Forza Italia. “Il Csm ha deciso di farla passare come pratica “urgente” quando invece è una questione che interessa enormemente, a differenza dei flussi tabellari, della pratiche a tutela, del conferimento degli incarichi, l’opinione pubblica”, ha sottolineato il professore e avvocato milanese, secondo cui “non si può lasciare tanto automatismo in questi passaggi di funzioni, non essendo pratiche di routine”. Eppure il Parlamento per il cambio di funzione aveva previsto tassativamente che servisse “la partecipazione a un corso di qualificazione professionale ed un parere di idoneità da parte del Csm, previo parere del Consiglio giudiziario, acquisite le osservazioni del procuratore generale o del presidente della Corte d’Appello”, tutti elementi che, ha aggiunto Lanzi, “non sono stati contemplati in questa delibera”. Fra i pm che si sono stancati di fare il pm ci sono anche casi “curiosi”. Tipo quello di un pm attualmente in forza alla Procura di Milano. Dove ha chiesto di andare a fare il giudice? Al tribunale di Torino. Qual è la Procura competente per legge ad indagarlo nella, per lui, sciagurata ipotesi dovesse commettere qualche reato? Quella di Milano. Quindi i suoi ex colleghi d’ufficio con i quali, verosimilmente, avrà condiviso, oltre il caffè, anche i fascicoli. La domanda del pm milanese non ha suscitato alcun imbarazzo a piazza Indipendenza. Anzi. “Si deve per le toghe progressiste di Area, compatte nel tacitare le perplessità di Lanzi - favorire il passaggio di funzioni da giudicanti a requirenti e viceversa. In tale modo infatti si migliora la qualità complessiva della giurisdizione”. Fra i favorevoli al cambio di funzioni, Piercamillo Davigo. Lui, infatti, da pm di Mani pulite approdò in Cassazione come presidente di sezione. Fine delle trasmissioni. Nuovi reati tributari con prescrizione fino a 11 anni di Marco Mobili Il Sole 24 Ore, 8 novembre 2019 Con la stretta sui reati tributari la prescrizione arriva a 11 anni. Il che vorrà dire che tutti avranno più tempo per stanare l’evasore. A partire dalla Guardia di Finanza nella sua attività di investigazione sui reati tributari per condotte fraudolente più gravi come l’emissione e l’utilizzo di fatture false. A ricordarlo è stato il colonnello Luigi Vinciguerra del terzo reparto operazioni del Comando generale della Guardia di Finanza nel corso dell’audizione alla Camera sul decreto fiscale collegato alla manovra. La norma introdotta con l’articolo 39, ha sottolineato Vinciguerra, “è particolarmente significativa nel suo impatto sia per la riduzione delle soglie che per l’inasprimento delle pene principali, e soprattutto per le condotte fraudolente, dove la pena massima passa da 6 a 8 anni”. Un inasprimento della pena massima che ridurrà sensibilmente la possibilità che le investigazioni della Guardia di Finanza siano vanificate dal decorso del tempo in quanto la prescrizione avrà una durata più lunga: “Il termine di prescrizione - aggiunge il colonnello della Gdf - come causa dell’estinzione del reato, decorre da quando il fatto viene commesso ed è calibrato in ragione della pena massima stabilita. E visto che per i reati fiscali è previsto un aumento di un terzo della prescrizione, sono circa altri 2 anni e mezzo. Il che vuol dire che per perseguire questi reati la giustizia avrà 10 anni e mezzo-11 anni per contrastare questo reati rispetto agli 8 anni fino ad oggi previsti”. Il tutto senza considerare eventuali cause di interruzione della prescrizione. Per migliorare il decreto in materia penal-tributaria la Gdf, oltre ad accogliere con favore l’estensione della responsabilità degli amministratori ai reati tributari, invita il legislatore ad estendere l’applicazione della 231 non solo al delitto di dichiarazione fraudolenza ma anche da altri reati di frode fiscale per i quali sono previste pene detentive altrettanto gravi come possono essere l’emissione di fatture per operazioni inesistenti e la dichiarazione fraudolenta mediante artifici. La Guardia di Finanza promuove il pacchetto di misure di contrasto alle indebite compensazioni. A parlare sono i numeri. “Nel 2018, ha detto Vinciguerra, a conclusione di indagini scaturite da analisi di rischio congiunta con l’agenzia delle Entrate, limitatamente solo ad alcune province della Lombardia e dell’Emilia-Romagna, sono stati individuati 186 milioni di euro di illecite compensazioni, constatati 800 milioni di euro di imponibile sottratto a tassazione ai fini imposte dirette e un’Iva evasa per oltre 155 milioni di euro. Sono stati 1.730 i lavoratori irregolari emersi, con 135 soggetti denunciati e sequestri di beni per oltre 200 milioni di euro. Oltre 30 i soggetti arrestati, tra cui alcuni professionisti”. Un fenomeno, quello delle indebite compensazione “ancora attuale”. Nel difendere la ratio che ha ispirato la norma Vinciguerra ricorda ai deputati nel corso dell’attività di questi ultimi anni sono stati diversi i casi smascherati di affidamento di lavoro alle imprese, spesso costituite sotto forme di cooperative o comunque di società a responsabilità limitata, poco patrimonializzate e rappresentate da prestanome. Nel rispondere alle sollecitazioni dei deputati sull’importanza o meno della fatturazione elettronica come strumento di contrasto all’evasione Vinciguerra ha sottolineato che si tratta di un’innovazione del sistema tributario “molto importante perché consente di avere informazioni in tempo reale. La tempestività dell’informazione è un valore aggiunto soprattutto nel contrasto alle condotte fraudolente”. Non solo. L’utilizzo dei file delle fatture elettroniche da parte della Guardia di finanza anche per finalità extrafiscali, quindi di polizia economico-finanziaria, “consente alle Fiamme Gialle di contrastare tutti gli illeciti in materia di spesa pubblica, e dunque anche gli abusi in materia di Reddito di cittadinanza ad esempio, piuttosto che nel settore del mercato dei capitali o della contraffazione”, ha precisato ancora il colonnello. In fondo con la fatturazione elettronica la Gdf ora può avere informazioni che prima “recuperava con spesometro in almeno 5/6 mesi. Il valore aggiunto è doppio e sta nei riscontri immediati e nella bontà del dato. “Lo spesometro era compilato dall’operatore economico-commerciale che poteva compiere degli errori e creare cosiddetti “falsi positivi”. I dati ora sono estrapolati direttamente dalla fatturazione elettronica e ci consentono di calibrare sempre meglio l’attività di controllo, evitando di indirizzarla a soggetti che sono privi di rischio di pericolosità fiscale. Sono almeno due le correzioni che la Guardia di Finanza Vinciguerra chiede di apportare al decreto legge in fase di conversione. La prima riguarda La norma sulla lotteria degli scontrini che prevede la sanzione amministrativa all’esercente che si rifiuti di annotare al momento dell’acquisto il codice fiscale del cliente ovvero non comunichi i dati entro il termine stabilito, che è di 12 giorni dal momento dell’operazione, all’Agenzia delle entrate. Con il provvedimento attuativo dell’Agenzia del 31 ottobre scorso, infatti, su input del Garante della privacy, è stato modificato il richiamo al codice fiscale facendolo diventare “codice lotteria”. Per questo, spiega il rappresentante della Gdf, andrebbe ora modificata la norma del Dl richiamando il codice lotteria, “altrimenti non sarebbe applicabile la sanzione”. A rischio, infine, l’attività dell’agente sotto copertura nel contrasto al gioco illegale. Secondo Vinciguerra senza un correttivo al Dl che preveda una scriminante per l’operatore di Polizia, “questo potrebbe essere indagato per aver partecipato ad attività di gioco d’azzardo o di raccolta delle scommesse”. Diritto di cronaca assicurato sugli atti della Procura di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 8 novembre 2019 Procura di Napoli, Ordine di servizio n. 118/2019. Sarà pur vero come affermato solo pochi giorni fa dall’ex Procuratore di Roma Giuseppe Pignatone che la cronaca giudiziaria è ormai mezzo di lotta politica. Ma se proprio lotta deve essere, che sia almeno ad armi pari. Con un passo a suo modo storico, per la prima volta una grande Procura disciplina l’accesso agli atti da parte dei giornalisti. Lo fa la Procura di Napoli con una decisione interna che, oltre a contribuire a disinnescare cortocircuiti sempre censurabili tra informazione e soggetti “a conoscenza dei fatti” (giudici, Pm, forze dell’ordine, avvocati), va nelle direzione di quelle prassi virtuose di cui gli uffici del pubblico ministero sono stati di recente protagonisti, basti pensare alla circolare di autoregolamentazione interna sulle intercettazioni e sui contenuti estranei al procedimento penale. La leva giuridica utilizzata è quella dell’articolo 116 del Codice di procedura penale, in base al quale “durante il procedimento e dopo la sua definizione, chiunque vi abbia interesse può ottenere il rilascio a proprie spese di copie, estratti o certificati di singoli atti”, nel perimetro del quale vengono riconosciti anche i giornalisti. Con particolare riferimento agli atti compiuti nella fase delle indagini preliminari per quali è cessato l’obbligo di segretezza e, in particolare, i provvedimenti cautelari. L’ordine di servizio, firmato dal Procuratore Giovanni Melillo, sottolinea di volere considerare il rilascio della copia funzionale al corretto esercizio del diritto di cronaca e all’interesse della pubblica opinione a essere correttamente informata. Nello stesso tempo, richiamando la necessità della valutazione del Procuratore sulla richiesta di accesso, ne fissa le condizioni. Il rilascio della copia, innanzitutto, non deve interferire con le indagini in corso e deve avvenire nel rispetto del principio di riservatezza; non deve danneggiare i diritti dei soggetti coinvolti nel procedimento o di persone estranee; deve avvenire, evitando la comunicazione di dati sensibili e la diffusione di notizie e immagini che possono colpire la dignità delle vittime. Saranno comunque i Procuratori aggiunti a dovere segnalare, su indicazione dei titolari dei fascicoli, i provvedimenti giudiziari, non coperti da segreto, suscettibili di diffusione e relativi a casi di particolare gravità, delicatezza e rilevanza, insomma quelli di maggior interesse per l’informazione. Un riconoscimento pieno del ruolo dell’informazione di Caterina Malavenda Il Sole 24 Ore, 8 novembre 2019 Se ci fosse un premio speciale per i fautori della buona informazione, bisognerebbe quest’anno darlo a Giovanni Melillo, Procuratore della Repubblica di Napoli, una piazza tutt’altro che facile, che ha incluso i giornalisti fra i soggetti cui l’articolo 116 del Codice di procedura penale riconosce la facoltà di avere copia di atti del procedimento, siccome titolari del diritto- dovere di informare e di farlo nel migliore dei modi. Dopo le necessarie consultazioni e con il prezioso contributo degli avvocati, si è assunta, perciò, la diretta responsabilità di decidere, caso per caso, se e a quali provvedimenti giudiziari gli organi di informazione potranno avere accesso, pagando il dovuto. Certo la circolare, il cui oggetto non lascia adito a dubbi, contiene numerosi distinguo e tiene debito conto degli interessi, spesso confliggenti, di parti processuali, terzi estranei e operatori del diritto, oltre che della superiore tutela delle investigazioni in corso, ma individua e tenta di risolvere i due problemi che, più di altri, in questi anni, hanno alimentato un dibattito acceso fra sordi. Innanzi tutto, le modalità di redazione degli atti processuali, a volte scritti con il malcelato intento di far “uscire” dal fascicolo profili, estranei alle indagini, privi di reale interesse pubblico, ma che fanno audience, ben sapendo che attireranno l’attenzione, a tratti morbosa, dei mass media, incentivando dibattiti e serate televisive, spesso a scapito del vero oggetto delle indagini. La circolare richiama, perciò, impersonalmente il pubblico ministero ad aver cura, nello scrivere gli atti, di evitare i riferimenti a fatti e circostanze irrilevanti ai fini processuali, “vieppiù” -avverbio insolito, ma appropriato- se riferiti a dati personali. I terzi estranei e i profili più delicati della vita degli stessi indagati, così, potranno esser sottratti, a patto che non assumano autonomo interesse pubblico, alle luci della ribalta, riservata a temi più pertinenti alla cronaca giudiziaria. Subito dopo, il “mercato” degli atti, presso le parti processuali che ne hanno il legittimo possesso, descritto con una perifrasi fulminante, se pure fra parentesi - “(sottraendo il giornalista alla evidente necessità di adoperarsi per ottenere, in via indiretta e informale, i documenti in possesso del giudice e delle parti..)” - del quale non sfugge all’estensore lo scopo, siccome “necessari alla responsabile e completa informazione del pubblico”. Ed è proprio questo il fine cui tende l’impianto esplicativo, “la libertà e la correttezza dell’informazione”, che può perseguire i suoi scopi più alti solo se è completa; e la completezza, in questo caso, passa per la possibilità di esaminare tutti gli atti importanti e non solo quelli che parti, legittimamente interessate all’esito del processo, ma anche al palcoscenico mediatico, sono disponibili a passare sottobanco per avere “buona stampa”. Certo non è la panacea di tutti i mali, perché poi è l’uso che degli atti a far la differenza e perché il rilascio delle copie è soggetto pur sempre ad una decisione discrezionale e non impugnabile, come tale non immune da influenze esterne e da errori di valutazione. Ma è una vera apertura e soprattutto un prezioso riconoscimento concreto del ruolo che l’informazione gioca in una società democratica, in cui l’andamento di un’indagine e il controllo sociale, cui deve essere soggetta, debbono camminare di pari passo, aiutandosi l’un l’altro. Torino. “Siamo sicuri che il nostro Amir non si è suicidato” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 novembre 2019 Detenuto tunisino trovato morto nella sua cella il 26 ottobre scorso. Il racconto dei parenti: “non aveva problemi, né psicologici né fisici. sapeva, da musulmano, che la religione vieta di togliersi la vita”. Soprattutto se stranieri, i detenuti che muoiono in carcere rimangono senza nome. Dei perfetti sconosciuti, con i familiari che vengono a sapere della morte del loro caro dopo giorni e senza la possibilità di capire il motivo della morte, con la difficoltà oggettiva - soprattutto economica - di poter affidarsi ad un avvocato. Il 26 ottobre scorso, un detenuto tunisino è stato trovato morto nella sua cella poco prima delle 13 nel padiglione B del carcere Lorusso e Cutugno di Torino. Secondo la notizia data dal sindacato della polizia penitenziaria si sarebbe impiccato. L’ennesimo suicidio che avviene nelle patrie galere. L’ennesimo senza nome e senza capire effettivamente cosa sia accaduto davvero. In questo caso, però, Il Dubbio ha avuto la possibilità di conoscere il suo nome grazie a una segnalazione ricevuta da Rita Bernardini del Partito Radicale. A segnalare la tragica vicenda è stata la scrittrice pugliese Maria Miraglia che, grazie alla sua associazione World Foundation for Peace la quale conta, con i due rami nazionali in Kenia e Nigeria oltre 10.000 membri, ha ricevuto una telefonata dai parenti del ragazzo ritrovato impiccato nel carcere. Il ragazzo si chiamava Amir, aveva 33 anni, ed era stato tratto in arresto il 27 agosto scorso: condannato a un anno di reclusione per un reato che avrebbe commesso anni prima. A raccontare a Maria Miraglia la storia del ragazzo è lo zio da parte materna. “Amir ha avuto una lite con alcuni ragazzi nel luogo in cui viveva a causa di attacchi razzisti contro di lui”, ha riferito. “Non ha partecipato al processo perché a quel tempo era in Tunisia, dove trascorse quattro anni - ha continuato a spiegare lo zio - successivamente è tornato in Francia per lavoro, ma sfortunatamente non lo trovò e decise di tornare in Tunisia. Fu allora che uno dei suoi parenti in Italia gli disse di tornare in Italia promettendogli di trovare un lavoro per lui”. Arriviamo quindi al 27 agosto, quando “è stato arrestato mentre era su un autobus per recarsi in Italia”, ha detto sempre lo zio. Maria Miraglia racconta a Il Dubbio che lo zio le ha riferito di aver appreso della morte di Amir solo dopo cinque giorni, il 31 ottobre, tramite la polizia tunisina. Subentra anche il discorso religioso. Alla madre di Samir è stato detto che è morto a causa di un infarto. “Non possiamo dire alla madre che si è impiccato - ha spiegato sempre lo zio di Amir - visto che per la nostra religione è proibito essendo considerato un crimine”. Ma credono al suicidio? Miraglia spiega a Il Dubbio che per i parenti non è possibile che sia andata così. “Siamo abbastanza sicuri che non avrebbe commesso un simile crimine”, ha detto ancora lo zio. Secondo i parenti, ci potrebbero essere stati altri motivi come la tortura o le molestie sessuali. “Amir era una persona amante della vita, era gentile, non ha mai fatto del male a nessuno, sorrideva sempre e tutte le persone qui lo adoravano”, ha sempre spiegato il parente. “Non soffriva di alcun problema, né psicologico né fisico. Era anche musulmano e sapeva benissimo che il suicidio è proibito dalla religione”, ha aggiunto. Amir risulta essere il maggiore di tre fratelli (Mohammed è un ingegnere e Iheb ha un Master in inglese). Sua madre è insegnante in una scuola elementare e suo padre è un pensionato dal ministero degli Interni dove ha lavorato come governatore della polizia. “Amir era il più grande dei suoi fratelli e il più caro per sua madre - ha spiegato a Miraglia sempre lo zio. Ha vissuto in ottime condizioni e non ha mai accettato umiliazioni o che qualcuno mortificasse la sua dignità. Era anche una persona molto rispettosa, educata e gentile”. I familiari non vogliono credere alla versione ufficiale data dalle autorità. “Vogliamo che si apra un’indagine seria e chiedere agli italiani di supportarci in questo dramma. Non abbiamo i mezzi per permetterci un avvocato, ma crediamo che il popolo italiano rifiuti tali crimini terribili. Confidiamo nella giustizia e crediamo che la verità verrà rivelata”, chiede a gran voce lo zio di Amir. I familiari, dalla Tunisia, facendo ricerche su internet avevano anche appreso la notizia dell’arresto con l’accusa di tortura di 6 agenti penitenziari del carcere di Torino. Ovviamente gli arresti si riferiscono a eventi che sarebbero accaduti dall’agosto al novembre del 2018, ma inevitabilmente per i familiari di Amir stesso è comunque un segnale che fa capire che qualcosa sicuramente non va. Cosa è accaduto al ragazzo tunisino? Non avendo un avvocato, il rischio che la vicenda finisca nel dimenticatoio e archiviata come suicidio, è più che concreto. Milano. La mia prigione di Claudia Arletti Venerdì di Repubblica, 8 novembre 2019 Nel carcere di Bollate, considerato all’avanguardia, Cosima Buccoliero lavora da diciotto anni. Oggi lo dirige e pensa che “guardare cose belle ci aiuta a essere migliori”. Si potrebbe dire che infondo è una questione di sliding doors, porte girevoli. O che è tutta colpa del “cigno nero”: un evento imprevedibile cambia per sempre il corso della vita. Prendete queste due giovani donne, una che dice: “Da bambina sognavo di lasciare il mio paesino e di vivere in città, mi immaginavo all’università, mi vedevo bene come topo di biblioteca”. E l’altra: “Da bambina volevo fare il soldato. Ero attratta dall’esercito e dalle missioni all’estero, ma volevo anche laurearmi in legge”. Ora indovinate: chi è la guardia e chi la ladra? Dante per tutti - Il paesotto di Bollate - consueta scenografia di svincoli - dà il suo nome ai carcere più innovativo d’Italia, che poi è anch’esso una piccola città: 1.204 detenuti, 149 detenute, e poi gli agenti e gli altri dipendenti, un via vai continuo di insegnanti, bibliotecari, volontari, registi, scrittori, scienziati che spiegano qualsiasi cosa, dalla Divina Commedia alle neuroscienze. Nonostante l’ingresso squallido non lasci presagire niente di buono, ci sono un ristorante famoso (InGalera,prenotazione obbligatoria), tappeti colorati per i bebè, la biblioteca, le aule per il corso di ragioneria e per l’alberghiero, la scuola d’informatica, le serre, il cinema (inaugurato da Gabriele Salvatores), la falegnameria, celle aperte quasi tutto il giorno, detenuti che escono regolarmente per lavorare. Con il fotorepoter Giampiero Corelli, che gira l’Italia per realizzare un libro fotografico sulla detenzione femminile, ci siamo concentrati sul mondo bollatese delle donne, quello minoritario e più trascurato. Perché sono finite qui? Che cosa pensano del penitenziario? Come immaginano il futuro? Domande che sono state rivolte a un gran numero di loro, inclusa la direttrice, Cosima Buccoliero, una signora “paziente e un po’ nevrotica” (parole sue), arrivata qui giovanissima, nel 2001: “Ho studiato a Bologna e uno degli esami complementari era Diritto penitenziario. Il carcere della Dozza mi aveva colpito... Ma quando ho partecipato al concorso non avevo idea del lavoro che avrei fatto. Oggi non cambierei”. Vive a Milano, con il marito e i due figli. SuYouTube c’è un suo intervento quasi ispirato: “Immaginate di trovarvi in una cella così affollata che le brande arrivano al soffitto e la luce naturale non passa, e i rumori vi stordiscono”; ma parlava in generale, non certo di Bollate, dove il sovraffollamento è niente e agli ergastolani è concessa la cella singola. A proposito, perché questo lusso? “Perché così stanno meglio”. E cosa pensa delle novità sull’ergastolo ostativo? giusto che anche chi non collabora con la giustizia acceda ai permessi ecc.? “Ogni vicenda è a sé, ed è sempre complessa. Mi sembra giusto che il magistrato decida caso per caso”. Un dato eccezionale - Bollate ha il tasso di recidiva più basso d’Italia: il 18 per cento contro la media del 70. Meraviglia. Ma perché, allora, non trasformare in tanti Bollate le altre carceri italiane? Cosa ci vorrà mai? “Non è un modello facilmente esportabile” dice Buccoliero. “Intanto la struttura: è già nata così, pensata con gli spazi per i laboratori, lo studio. Anche la tipologia dei detenuti è particolare, devono avere certi requisiti, per esempio una condotta non troppo irregolare. Altre volte è un tentativo: si vede se questo contesto particolare innesca un cambiamento in positivo. E cerchiamo di farli uscire prima della scadenza della pena, gradualmente, perché prendano contatto con l’esterno in modo non improvvisato”. Una via è lo studio (ci sono anche 30 studenti universitari). L’ altra, dare a tutti qualcosa da fare, cioè una speranza. Ma su 1.353 detenuti, lavora la metà. E tra gli universitari c’è una sola donna. La ladra di libri - Racconta Buccoliero che “gli uomini trovano risorse di cui a volte sono i primi a meravigliarsi”, ma per le detenute il pensiero di casa è lancinante. “Soffrono di più e rifiutano questo posto. Spesso la famiglia le abbandona”. Non è stato così per Claudia S., una signora di mezza età con i capelli in piega e lo scialle accomodato sulle spalle. Legge i gialli di Loriano Macchiavelli e la Ladra di libri, lei che è stata condannata a più di quattro anni “per avere taciuto le irregolarità” della sua azienda. Piange parlando di casa, “anche se è giusto pagare”, e spera nell’affidamento ai servizi sociali. Alla domanda “cosa trovate insopportabile qui dentro?” spesso rispondono: la mancanza di solitudine. “Però a Bergamo è peggio, hanno i fornelli attaccati al water. Fai i bisogni alla mercè di tutti”. “A Como c’erano soli divieti. Non erano ammesse neanche le cerette”. Adriana B. è (era) una promoter finanziaria. “Ho partecipato a una truffa. Sono qui da quasi un anno e tra poco uscirò. In cosa credo? Nella mia famiglia, nella preghiera”. Si dedica ai laboratori di cucito: “Sono sempre stata creativa, occupo il tempo con qualcosa che mi piace e che è anche costruttivo”. Riunite nella stessa sala, si parla del fatale fallimento al quale vanno incontro molti corsi, che sono di ogni tipo, dall’informatica alla pittura. “Ma ammettiamolo che è colpa nostra. Alla prima lezione, siamo in 50. La volta dopo, ci presentiamo in tre”. Simona T. conferma: “Ti passa la voglia di fare tutto”. Con i soldi delle rapine, lei si comprava le magliette firmate. “Ero capace di bruciare tremila euro in un giorno... Mi hanno preso dopo otto anni che ero in Germania. Facevo una vita regolare, ero una postina. Un reato del 2011, chi ci pensava più”. Dice che avrebbe voluto fare la veterinaria. “La bellezza? Per me è semplicità. Se sei semplice, sei tutto”. Il lavoro - anzi la sua mancanza - è l’ossessione delle detenute, e il cruccio della direttrice: “Se non riusciamo a risvegliare interesse nel mondo dell’imprenditoria, vuol dire che sbagliamo qualcosa”. Il lavoro - magari nel cali center diWind- è ambito, conteso, oggetto di invidie e liti. “Lo danno sempre alle stesse” ripetono tante. Le camere hanno i disegni dei bambini alle pareti. Ninnoli. Poster. Calendari. Ritratti di persone care. Una signora con la maglietta di Super Nonna dice che “la libertà è vedere il mare e stare con mio nipote”. Una ragazza di 27 anni, condannata per rapina ed estorsione, racconta che da ragazzina lavorava nei bar, “ma a 18 anni mi è successa una cosa e ho cominciato con le rapine. Ho perso la casa, i miei genitori sono morti mentre ero qui dentro. Cosa farò dopo? Bella domanda. Spero di lavorare”. È lei la bambina che si immaginava nell’esercito e con la laurea in legge. A vedersi come topo di biblioteca invece era la direttrice. Il suo ufficio è modesto, ma pieno di colori. “Guardare cose belle” dice, “ci aiuta a essere migliori”. Napoli. Gli affari dei clan sulla pelle degli anziani di Antonio Mattone Il Mattino, 8 novembre 2019 Miniappartamenti comunali destinati agli anziani occupati abusivamente da esponenti dei clan che, contemporaneamente, imponevano il racket ai pizzaioli e ai negozianti del Centro storico. Il blitz che polizia e carabinieri hanno portato a termine nel ritiro di San Nicola al Nilo per cominciare a liberare gli alloggi, fa emergere due aspetti, entrambi decisivi per la vita e il futuro della città: la camorra che si infiltra nel tessuto abitativo della Napoli storica e turistica in una struttura che l’amministrazione comunale avrebbe dovuto gestire e proteggere e il grande disinteresse per la vita degli anziani. È sotto gli occhi di tutti la pressione esercitata dalla malavita nella tanto decantata e visitata città d’arte, a cominciare dalle piazze controllate dai parcheggiatori abusivi, fino ai cantieri dove si fermano i lavori se non si paga il pizzo, come è accaduto a via Marina. Tuttavia,c’è una questione che sta diventando epocale e di cui si parla troppo poco, la condizione di isolamento e povertà degli anziani. Stanno diventando sempre più irrilevanti, destinati ad un futuro incerto e difficile. Contano ogni giorno dimeno pur essendo in continuo aumento. Anche a Napoli, dove hanno sempre goduto del massimo rispetto e sono stati tenuti in grandeconsiderazione. Ma oggi il clima sta cambiando, tanto che Beppe Grillo aveva proposto di togliergli persino il diritto al voto. La struttura di San Nicola al Nilo fu aperta negli anni della giunta Bassolino. Trenta miniappartamenti destinati a vecchi che sono ancora autosufficienti e che avrebbero potuto continuare la loro esistenza in modo sereno, senza l’angoscia di finire in un ospizio o peggio per strada. Al di là del numero che può sembrare esiguo, si tratta di una buona pratica, un modello che si poteva replicare altrove e che metteva al centro la condizione degli anziani. L’incuria e la mancanza di controlli hanno fatto si che sedici di queste abitazioni fossero occupate da persone che non ne avevano diritto. C’è da chiedersi: dov’erano i funzionari e gli assistenti sociali che avrebbero dovuto vigilare su una struttura protetta, abitata da persone fragili? Perché nel momento del decesso di un occupante legittimo, il miniappartamento non veniva assegnato ad un altro anziano seconda la graduatoria prevista dal regolamento comunale? E come si intende gestire per il futuro questo complesso? Nella città svilita c’è un decadimento anche delle persone, che riguarda la vita di chi è vecchio, che invece andrebbe sostenuta ed incoraggiata nel momento di maggior debolezza e fragilità. Oggi gli anziani sembrano essere un peso qualcosa di cui non parlare, persone scartate direbbe papa Francesco, sparite dal dibattito pubblico e con gli aiuti del welfare che sicuramente sono diminuiti, ma che forse potrebbero essere impiegati in modo più efficace. Al di là della riduzione di budget, bisognerebbe andare a vedere le singole voci con cui sono impegnate le risorse per capire l’andamento dei servizi per la terza età. Ma quello che più colpisce è la mancanza di attenzione e di iniziative pubbliche a favore di chi è avanti negli anni. C’erano una volta le minicrociere, i pony della solidarietà, i soggiorni estivi, i nonni civici, fino alla busta di latte portata a domicilio. Iniziative di poco costo a cui se ne sarebbero potute aggiungere altre, utilizzando le nuove tecnologie. Uno dei pochi eventi messi in campo dal welfare comunale nei mesi scorsi”Nonno ascoltami”,prevedeva che gli anziani si potevano recare in piazza del Plebiscito per misurare l’udito. Una lodevole iniziativa limitata a chi poteva camminare o aveva qualcuno che lo potesse accompagnare. Per il resto il vuoto. Ma chi ascolta oggi il grido di tanti anziani soli, poveri e malati nella nostra città? Perché toglierli anche la speranza di vivere gli ultimi anni della propria esistenza in una casa? Eppure più volte su questo giornale abbiamo segnalato lo scempio del ritiro di San Nicola al Nilo, ma come dice il vecchio detto: “non c’è peggior sordo di chi non vuole sentire”. Firenze. Inaugurata la biblioteca, ma il carcere di Sollicciano è sott’acqua di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 8 novembre 2019 Ieri è stata presentata la nuova biblioteca di Sollicciano, ma le forti piogge di questi giorni hanno fatto riemergere i soliti problemi del carcere fiorentino: corridoi e locali allagati. Sollicciano allagato. Le forti piogge di questi giorni hanno fatto riemergere i soliti problemi del carcere fiorentino. Infiltrazioni sui muri, pozze d’acqua nelle celle, allagamenti nei corridoi, difficoltà a muoversi da uno spazio all’altro. Acqua anche negli uffici, agli ingressi, in portineria. A denunciare la situazione sono gli agenti penitenziari, esausti quanto i reclusi di vivere in una struttura obsoleta che necessita urgenti ristrutturazioni. “In molte celle ci sono cinque centimetri d’acqua - spiega Eleuterio Grieco, segretario generale regionale della Uil Polizia Penitenziaria - Dopo i recenti temporali alla portineria d’ingresso c’era quasi un metro d’acqua. Alcuni reclusi sono prigionieri nelle loro celle a causa degli allagamenti dei corridoi. Questo carcere è un colabrodo, va ricostruito”. A sollevare il problema delle infiltrazioni, sono stati proprio gli agenti penitenziari durante la conferenza stampa di presentazione, ieri mattina, della nuova biblioteca sociale del carcere. A confermare le criticità, il direttore Fabio Prestopino. “Ci sono allagamenti nelle zone dei passeggi. Arrivano da infiltrazioni che derivano dagli scarichi dell’acqua dentro le murature che sono rotti”. Quanto alla risoluzione dei problemi, anche in vista dell’inverno e di ulteriori piogge alle porte, “sono in corso ricognizioni per individuare le reali cause e trovare i rimedi tecnici, alcuni lavori sono già stati appaltati”. La buona notizia per Sollicciano è invece la nuova biblioteca sociale con 10mila libri (3mila nel carcere adiacente di Solliccianino) per i detenuti. La biblioteca sarà aperta dalle 8.30 fino alle 16.30. I libri che riempiono gli scaffali arrivano dalla biblioteca CaNova dell’Isolotto. I reclusi potranno prendere in prestito tutti i libri che vorranno. La biblioteca sociale, fortemente voluta dal garante dei detenuti Eros Cruccolini, è un progetto finanziato da Comune di Firenze e Regione Toscana. “L’accesso alla lettura è un diritto e un dovere per tutti” ha detto l’assessore regionale alla cultura Monica Barni. Presente anche l’assessore comunale alla cultura Tommaso Sacchi che annuncia gli stati generali delle biblioteche italiane a Firenze, il prossimo anno. Critici nei confronti della biblioteca alcuni agenti: “È inutile portare i libri se prima non si risolvono gli allagamenti”. Sembra non conoscere pace il carcere di Sollicciano. Due anni fa, il ministero aveva stanziato 3 milioni, poi i 4 milioni della Regione lo scorso luglio. Cosa è stato fatto e cosa no? Tra le buone notizie, le docce sono state installate al reparto femminile e in alcune celle del reparto maschile. Quasi pronta la seconda cucina, mentre sono ancora irrisolti i problemi della copertura termica del tetto e delle infiltrazioni sui muri. Non sono mai stati incrementati i passeggi, così come non sono iniziati i lavori per il fotovoltaico. Torino. Carceri, un incontro per far luce sui percorsi di riabilitazione torinoggi.it, 8 novembre 2019 Oggii a Palazzo Lascaris, dalle 11, “Non solo carcere, l’esecuzione penale esterna in Piemonte”. La giustizia di comunità e gli Uffici dell’esecuzione penale esterna al carcere (Uepe) sono una scommessa importante per la giustizia e per la società. Aiutare chi commette reato a rendersi conto del danno inferto alle vittime e alla collettività costituisce infatti la premessa fondamentale nell’attivazione di percorsi di riabilitazione attraverso lavori di pubblica utilità e attività di volontariato a favore del territorio. La carenza di risorse e la scarsa conoscenza di tale realtà rappresentano, però, un ostacolo alla messa in atto di tali percorsi. “Non solo carcere: l’esecuzione penale esterna in Piemonte”, l’incontro che si svolge domani - venerdì 8 novembre - alle 11 nella Sala delle Bandiere di Palazzo Lascaris, sede del Consiglio regionale del Piemonte, è l’occasione ideale per far luce su tale realtà in ambito regionale. All’incontro - promosso, introdotto e moderato dal garante regionale delle persone detenute Bruno Mellano - intervengono il direttore e il funzionario di servizio sociale dell’Ufficio interdistrettuale dell’esecuzione penale (Uiepe) di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta Domenico Arena e Tiziana Elia e i funzionari di servizio sociale dell’Uepe di Torino Lucia Elisa Azzarone e Andrea Pavese. Nel corso dei lavori verranno illustrati i dati di una recente ricerca sull’attività dell’Uepe di Torino e di Asti che fa luce su una situazione per molti versi allarmante. Milano. “Il Decameron delle donne”: recitano detenute ed ex detenute di Cinzia Valente gnewsonline.it, 8 novembre 2019 Domenica 10 e lunedì 11 novembre andrà in scena al Piccolo Teatro Grassi di Milano lo spettacolo Il Decameron delle donne liberamente ispirato al romanzo della scrittrice russa Julia Voznesenskaja. Nella prima rappresentazione, che risale a trent’anni fa, sono protagoniste alcune donne rinchiuse in un reparto maternità, allontanate dai loro bambini a causa di un’infezione, che raccontano storie di vita ispirandosi a Boccaccio. La cornice è quella di un ospedale di Leningrado. Una metafora della dura realtà del gulag vissuta dalla scrittrice prima dell’esilio in Germania. Quest’opera ha segnato l’inizio del percorso di Donatella Massimilla regista e drammaturga, nel coinvolgimento delle detenute di San Vittore nell’attività teatrale. Un lungo viaggio artistico ‘al femminilè in cui Donatella rivela il significato della prigionia e dell’isolamento, il senso dell’attesa e della speranza che determina la creazione del Cetec (Centro Europeo Teatro e Carcere) e della compagnia teatrale Dentro/Fuori San Vittore. Sul palco lo spettacolo è riproposto in una nuova veste con interpreti “storiche”, come Olga Vinyals Martori, Gilberta Crispino e la stessa Donatella Massimilla, affiancate da giovani attrici detenute ed ex detenute. La regista adatta i testi originari per la compagnia di San Vittore, includendo nuove storie delle attrici del Cetec e dando corpo così a esperienze, sogni e desideri. “È dentro e fuori il carcere milanese - afferma Massimilla - che si svolgono da anni incontri ravvicinati con l’arte scenica, in modo continuativo, sia nella sezione maschile che in particolare nella sezione femminile, progetti artistici ospitati negli ultimi anni con grande attenzione dal Piccolo Teatro di Milano”. Roma. Un concerto al carcere di Rebibbia per essere “Liberi così…” Ristretti Orizzonti, 8 novembre 2019 Nell’ambito delle iniziative culturali promosse dall’Ufficio per le Politiche Sociali della Casa Circondariale di Rebibbia, il Teatro del carcere ospiterà il prossimo 15 novembre “Liberi così…”, uno spettacolo di musica originale del cantautore Marco Stazi messo in scena con la collaborazione artistica dei detenuti e la partecipazione di volti noti del mondo dello spettacolo. Il tema portante della serata sarà la libertà osservata nei suoi diversi aspetti e la relativa privazione della stessa a causa degli innumerevoli vincoli che condizionano la nostra esistenza. La musica diventa così un percorso prezioso per i detenuti per visitare quel mondo interiore che rischia di annichilirsi per l’isolamento e la mancanza di stimoli. In particolare, l’iniziativa vuole aiutare i giovani detenuti a valorizzare il tempo trascorso in carcere attraverso la musica e lo spettacolo, dando voce a tutte le persone che vivono l’esperienza della reclusione. L’obiettivo è sostenere per mezzo dell’espressione artistica il recupero sociale e la rivalutazione della dignità di coloro che vivono l’esperienza carceraria. L’appuntamento è al Teatro del Carcere di Rebibbia alle ore 16:00 del 15 novembre (ingresso alle ore 15:00). Contatti: concerto.stazi.rebibbia@gmail.com. Cell. 347.3140100. Cremona. “Il Chiaroscuro del carcere”: 28 scatti che raccontano il mondo dietro le sbarre di Sara Pizzorni cremonaoggi.it, 8 novembre 2019 Questa mattina, nel teatro del carcere di via Cà del Ferro, è stata inaugurata la mostra “Il Chiaroscuro del carcere”, esposizione fotografica che racconta il percorso del detenuto. La mostra, realizzata dall’avvocato milanese Alessandro Bastianello, è organizzata dalla Camera Penale di Milano, dall’Associazione Nazionale Magistrati di Milano e dalla direzione del carcere di San Vittore, e arriva a Cremona grazie alla Camera Penale di Cremona e Crema. A fare gli onori di casa, la direttrice Rossella Padula, il presidente della Camera Penale di Cremona e Crema Alessio Romanelli e il segretario Laura Negri. Presenti anche Maria Luisa Crotti, vice presidente della Camera penale della Lombardia Orientale, educatori, operatori della casa circondariale cremonese e agenti della polizia penitenziaria. In apertura è stato proiettato il video “Al di là della sala colloqui”, dell’avvocato Tomaso Pisapia, realizzato all’interno del carcere di San Vittore che ben dà l’idea di quale sia la realtà carceraria. Nel video e nei 28 scatti dell’avvocato Bastianello il visitatore è accompagnato in un immaginario viaggio attraverso i luoghi e le emozioni di chi viene messo in prigione e il percorso del detenuto dal momento del suo ingresso in carcere fino alla collocazione in cella, per mostrare e condividere le emozioni che la dura realtà carceraria suscita in chi è estraneo a questo mondo. “Il carcere è morte e resurrezione”, scrivono gli autori. “Un uomo, una persona varca quelle mura, attraversa quei cancelli compiendo una serie di tappe che paiono una discesa agli inferi. Entra in un mondo nascosto all’universo dei vivi fatto di tenebra e di luce artificiale”. “Ci fa piacere che la prima tappa di questa mostra, dopo Milano, sia stata a Cremona”, ha detto la direttrice Rossella Padula, “non c’è luogo più evocativo del carcere”. “È stata una fortuna poter inaugurare la mostra qui proprio per il significato che ha”, ha detto a sua volta il presidente Romanelli, che ha ringraziato la Camera Penale di Milano. “L’obiettivo è quello di creare un dialogo tra chi è dentro e chi è fuori. Il carcere è diventato ormai un dimenticatorio, mentre noi vogliamo che torni al centro delle riflessioni di tutti i cittadini”. “Ho voluto rappresentare un pò la storia del carcere”, ha poi spiegato l’autore della mostra, l’avvocato Bastianello. “In questo San Vittore, un tempo collocato ai confini della città e che invece ora è in pieno centro storico. Ho avuto la possibilità di vederlo crescere, modificarsi e trasformarsi. Anche a Milano le foto sono state esposte e vendute a offerta libera, e con il ricavato è stato possibile comprare dei computer per poter organizzare un corso di fotografia digitale per i detenuti”. “La genesi di questi scatti è significativa”, ha detto a sua volta l’avvocato Laura Negri, che ha chiuso gli interventi. “I cittadini non sanno veramente cos’è il carcere: con questa iniziativa vogliamo portare fuori il dentro e favorire la conoscenza di quella che è la realtà della vita carceraria, permettendo di avere una visione più critica della realtà, perché per condividere bisogna prima conoscere”. Scopo del progettto è anche quello di raccogliere fondi, tramite la vendita delle fotografie esposte (e stampate eventualmente in copie ulteriori, su richiesta), destinati a finanziare progetti della locale casa circondariale volti alla risocializzazione e al reinserimento dei detenuti nella società. Dal 14 novembre la mostra si sposterà in tribunale dove resterà fino a dicembre. Le foto potranno essere prenotate inviando una mail all’indirizzo camerapenalecr@gmail.com Firenze. Carceri e carcerati, successo per la serata del Rotary gonews.it, 8 novembre 2019 È stata una serata ricca di umanità quella che ci ha regalato ieri sera il Dott. Matteo Lex, già dirigente sanitario fino al 2015 del Carcere di Sollicciano. Il Club Michelangelo e Bisenzio Le Signe hanno inteso promuovere un incontro su un tema di cui poco conosciamo ma che spesso balza alle cronache e nel dibattito dei media: quello del sovraffollamento delle carceri, delle violenze, ma anche dei percorsi rieducativi. Vite di carcerati che si intrecciano con quelle degli agenti di custodia, degli educatori e dei dirigenti carcerari. Temi che spesso tornano anche nel dibattito politico ma che sempre finiscono per insabbiarsi nei meandri della burocrazia. “Il Carcere come microcosmo rispetto al macrocosmo della Società civile in cui viviamo” come queste parole la Presidente del Rc Bisenzio Le Signe ha introdotto il richiamato relatore Dott. Matteo Lex laureato in medicina e chirurgia e specializzato in psichiatria e sessuologia medica. Il carcere come un mondo parallelo e chiuso che, però, come ha detto il relatore “anticipa i fenomeni sociali ed è un importante contenitore degli stessi”. Chi ci ha parlato ci ha raccontato anche delle difficoltà operative e burocratiche a mantenere una costante attenzione, da parte della Direzione carceraria e della polizia penitenziaria, alla rieducazione dei reclusi, rieducazione che dovrebbe passare poi attraverso il lavoro e l’impegno ad un successivo reintegro nella società. Purtroppo si assiste invece alla presenza di molti detenuti in attesa di giudizio, talvolta anche innocenti, a cui la carcerazione fa perdere l’identità sociale oltre alla libertà. Molte sono state le domande dell’attenta platea che hanno cercato risposte anche all’inevitabile intreccio che vi è fra gli arresti da parte delle Forze dell’Ordine e le decisioni dei Giudici e dei Tribunali, domande a cui il bravo relatore ha risposto con competenza. Una serata dalla quale siamo usciti tutti più informati ma soprattutto più arricchiti perché abbiamo capito che vi è tanta umanità anche laddove si suppone che vi sia solo dolore e pena. I Presidenti dei due Club Franco Pagani e Chiara Pagni ringraziano il Dott. Matteo Lex per la partecipazione alla serata. Liliana Segre. La forza di una donna capace di non odiare di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 8 novembre 2019 Dobbiamo esigere che la battaglia contro l’antisemitismo sia un valore non negoziabile. È impossibile dominare lo sgomento, il senso di scoramento e anche di disgusto, di fronte alla notizia che Liliana Segre, scampata alla Shoah, sia costretta a girare con la scorta per difendersi dalle minacce di un gruppo di mascalzoni antisemiti. A Milano l’hanno accolta con striscioni ostili. Sui social la insultano, nascondendosi dietro profili falsi perché gli antisemiti, oltre a essere dei cialtroni, sono anche vigliacchi. Liliana Segre è una donna determinata e forte. Nonostante le angherie subite, nonostante il dolore e il lutto atroce che i nazisti le hanno inflitto durante lo sterminio del popolo ebraico, lei non ha mai pronunciato parole violente verso chi minimizza o nega le gesta degli aguzzini, come pure sarebbe comprensibile. La minacciano e la insultano, e addirittura le augurano la morte, proprio per questa sua forza. Non è solo una testimone degli orrori del passato, è una donna che sa spiegare i motivi che hanno portato alla tragedia dell’Olocausto, illustrare i pericoli che la società moderna corre ignorando il passato, o dimenticandolo, o giustificandolo, o ridimensionandolo. I sopravvissuti stanno scomparendo, uno a uno. La crudeltà dell’anagrafe cancella la testimonianza di chi ha vissuto come vittima quel vortice di orrore, di chi, come Primo Levi, è tra i pochi che sono usciti vivi dai campi, mentre il resto delle loro famiglie veniva sterminato. Liliana Segre, con la calma dei forti, racconta ciò che è avvenuto perché non se ne perda traccia. È questa calma, questa forza, questa determinazione a far impazzire di rabbia gli intolleranti e i fanatici, chi ha in corpo il veleno dell’antisemitismo. Un antisemitismo che non muore mai, e che in Europa ha preso forme nuove e ancora più pericolose, dove con l’antico odio antiebraico di matrice nazista si mescola e si salda un’avversione assoluta per la presenza storica degli ebrei, a cominciare dalla voglia di annientamento di Israele, lo Stato degli ebrei. Qualche mese fa, a Parigi, un manipolo di gilet gialli stava per linciare il filosofo Alain Finkielkraut apostrofandolo con urla che dicevano “sporco ebreo” e “sionista”. “Sionista” usato come arma contundente dai nuovi antisemiti. Recentemente a Roma, un gruppo di fanatici ha auspicato che il Caffè Greco, uno storico ed elegante caffè della Capitale, non finisse nelle mani dei “sionisti”, che poi sarebbero gli amministratori dell’Ospedale Israelitico, proprietario del locale. Anche qui: “sionisti” come sinonimo di “ebrei”. Ecco come si alimenta l’odio per Liliana Segre e per ciò che lei rappresenta. L’Italia deve difendere in modo compatto e unito Liliana Segre. Non è solo la scorta che deve difenderla. Gli esponenti della destra italiana che in Parlamento non si sono alzati in piedi come omaggio collettivo alla figura della senatrice a vita dovrebbero chiedere loro alla presidenza di riconvocare il Senato per applaudire Liliana Segre. Non è in discussione la legittima contrarietà alla Commissione parlamentare proposta dalla Segre e da lei presieduta. È in discussione la mancanza di rispetto verso una donna scampata alla Shoah, è in discussione la devastante prova di debolezza messa in mostra da chi non considera l’elementare solidarietà con una sopravvissuta all’orrore dello sterminio come un dovere primario, al di là di ogni dissenso, sempre possibile in una democrazia, ci mancherebbe. Oggi invece non dobbiamo esigere soltanto che Liliana Segre possa girare tranquilla per strada e non essere minacciata da chicchessia. Ma dobbiamo esigere che la battaglia contro l’antisemitismo sia un valore non negoziabile e che il conflitto politico anche duro, necessario in una democrazia liberale che non ha paura della diversità radicale delle opinioni e delle idee, si fermi di fronte al rispetto che è dovuto a una figura come Liliana Segre. Associare, come ha fatto Matteo Salvini (che poi in qualche modo ha cercato di recuperare), l’orrore per le minacce di morte a Liliana Segre alle parole d’odio che subisce il leader della Lega, significa non capire che non tutto è uguale ed equiparabile, che la Shoah non è un qualunque delitto politico, che Liliana Segre non è il bersaglio dei mascalzoni per ciò che dice o predica, ma per ciò che è: perché è ebrea, e gli ebrei sono ancora, nell’Italia del 2019, l’obiettivo di un odio incommensurabile e tenace. Ed è una vergogna infinita che Liliana Segre sia costretta a muoversi protetta da una scorta. Migranti. Lamorgese: “Entro gennaio il governo modificherà il decreto sicurezza bis” di Leo Lancari Il Manifesto, 8 novembre 2019 Il governo si prepara a mettere mano al decreto sicurezza bis, uno dei cavalli di battaglia di Matteo Salvini. Ad annunciarlo è stato ieri il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese indicando l’inizio del 2020 come data di inizio dei lavori. “Sulla nuova legge sicurezza ci sono state segnalazioni da parte della presidenza della Repubblica, bisogna procedere in questi termini e stiamo lavorando su questo”, ha spiegato la titolare del Viminale. Che poi ha aggiunto: “Entro la fine dell’anno o al massimo l’inizio del prossimo riusciremo a portarlo in consiglio dei ministri”. La modifica dei decreti sicurezza fa parte del programma del governo giallorosso ed era una delle condizioni poste dal Pd agli alleati del M5S. Nei giorni scorsi è stato lo stesso Luigi Di Maio a parlarne a patto però, aveva specificato, che si tenga conto solo dei rilievi fatti dal presidente Mattarella in una lettera inviata al parlamento lo scorso mese di agosto. Ed è proprio sulla linea tracciata dal Colle, e niente di più, che il governo intende muoversi. Ad essere riviste saranno le mega multe (fino a un milione di euro) per chi salva i migranti in mare e non rispetta il divieto di ingresso nelle acque territoriali italiane. Sanzioni giudicate “sproporzionate” rispetto ai comportamenti contestati. Il presidente aveva poi ricordato i trattai internazionali che prevedono l’obbligo di salvare chiunque si trovi in mare in condizioni di difficoltà. Altra modifica riguarda la parte del decreto sulle manifestazioni e l’ordine pubblico e in particolare una eccessiva estensione dell’oltraggio a pubblico ufficiale che impedirebbe al giudice di valutare la cosiddetta “lieve entità” che potrebbe portare a un non luogo a procedere. Con la Lega che si è già detta pronta a scendere in piazza se il decreto verrà modificato, c’è da scommettere che il successivo passaggio parlamentare sarà a dir poco tormentato. Intanto il governo si prepara a intensificare i rimpatri de migranti irregolari aprendo nuovi Cpr (Centri di permanenza per i rimpatri) aggiungendo così 460 posti a quelli già esistenti (300 dei quali nei prossimi mesi). Ad annunciarlo è stata sempre la titolare del Viminale intervenendo ieri in commissione Schengen. Attualmente, ha spiegato il ministro sono 708 i migranti che si trovano dei sette centri attualmente in funzione (Bari, Brindisi, Caltanissetta, Roma, Torino, Potenza e Trapani). 96 mila sono invece i migranti in accoglienza al 30 ottobre, la maggior parte dei quali (69.827) si trova nei Cas (centri di accoglienza straordinaria). In calo anche le richieste di asilo. Al 31 ottobre risultano essere state presentate 30.468 domande, il 35% in meno rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. 81.162 sono invece le domande esaminate dalla commissioni territoriali del ministero dell’Interno, che hanno riconosciuto la protezione internazionale nel 18% dei casi, di cui l’11% per status di rifugiato e il 7% per protezione sussidiaria. I dinieghi hanno riguardato il 66% delle domande. Come effetto delle modifiche introdotte dal primo decreto sicurezza, la protezione umanitaria è stata invece riconosciuta all’1% delle posizioni esaminate. In calo, infine, anche gli arrivi che hanno fatto registrare una flessione del 55,2% rispetto al 2018: 9.944 i migranti sbarcati dall’inizio dell’anno. Intanto potrebbe prepararsi un nuovo giro di vite per le ong. Lamorgese ha infatti annunciato che il Viminale sta valutando integrazioni al codice di regolamentazione voluto nel 2017 dall’allora ministro Minniti. Lamorgese ha infine annunciato che quando l’accordo siglato a Malta per la divisione in Europa dei migranti sarà diventato definitivo, le quote per i Paesi che vi avranno aderito diventeranno obbligatorie. Migranti. Il Memorandum Italia-Libia firmato con i criminali di Emma Bonino* Il Riformista, 8 novembre 2019 Mercoledì scorso, la ministra degli Interni, Luciana Lamorgese, ha riferito alla Camera dei deputati in merito al rinnovo del memorandum Italia-Libia, certificando sostanzialmente il successo degli accordi chiusi all’epoca del Governo Gentiloni, dal suo predecessore Marco. Ciò che non abbiamo sentito dire in Aula dalla ministra, invece, è che quel memorandum è una pura maschera, che non tiene minimamente conto del fatto che i centri gestiti dai libici chiamati “campi di accoglienza” sono veri e propri lager dove i migranti vengono torturati, violentati, venduti, ricattati da parte di milizie che in quel Paese rappresentano sia le istituzioni che le organizzazioni criminali. Abbiamo persino recentemente scoperto che Bija, il guardiacoste per cui Tripoli ha appena chiesto l’arresto - oggetto di numerose inchieste da parte di coraggiosi giornalisti italiani - è venuto in Italia in missione con tanto di visto da noi concesso, mentre faceva il doppio lavoro: il trafficante di uomini e l’ufficiale della guardia costiera. E ci sarebbero molte cose da chiarire circa la sua visita in Italia, compresi gli incontri avuti a livello istituzionale, mentre mi pare evidente che non ci sia nulla da chiarire sul significato della sua presenza in Italia, che è purtroppo chiarissimo. I cosiddetti accordi con la Libia sono questa cosa qui. Penso che invece di rivendicare questo memorandum, occorrerebbe dismettere qualunque ipocrisia. I nostri interlocutori non sono delle presunte “autorità libiche”, ma poteri e personaggi di provato rango criminale. La ministra ha riportato i dati relativi al minor afflusso di migranti sulle nostre coste, ma non vedo alcun riferimento all’innalzamento del tasso di mortalità in mare. Così come non viene prestata alcuna attenzione - come emerge da una recente inchiesta di Euronews, - a come sono state usate le risorse italiane ed europee, a partire al monitoraggio dei soldi pubblici, oltre 90 milioni, spesi dall’Unione europea per addestrare la Guardia costiera libica. La ministra Lamorgese ha affermato in Aula che “l’esperienza maturata in questi tre anni ci ha convinto della necessità di proporre iniziative volte a meglio indirizzare energie e risorse […] promuovendo un maggior ruolo di coordinamento e di intervento delle agenzie delle Nazioni Unite e il coinvolgimento di un ampio numero di Paesi e organizzazioni non governative”. Ma non posso che chiedermi chi si farà carico della protezione del personale delle agenzie delle Nazioni Unite o delle Ong se si propone una maggiore centralità del loro ruolo, in una situazione oramai da tempo totalmente fuori controllo. Evidentemente per fermare la collaborazione tra milizie libiche, più o meno ufficiali, e i tre diversi governi italiani che si sono avvicendati, da Gentiloni in poi, non sono bastati i ripetuti rapporti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, le denunce di organizzazioni internazionali e Ong impegnate sul campo e le testimonianze drammatiche dei sopravvissuti a torture e violenze di ogni genere. Mi chiedo a cos’altro dobbiamo assistere e se possiamo continuare a mettere da parte principi e norme di diritto internazionale, affidando a milizie spietate il controllo di una parte del Mediterraneo e chiudendo gli occhi davanti all’orrore dei campi libici. E non si adducano motivazioni, come quelle avanzate dall’ex responsabile del Viminale Minniti, che disdire le intese con la situazione di guerra in Siria e l’attacco turco al popolo curdo significa mettere a rischio la sicurezza dell’Italia. Ho già sentito usare argomentazioni di questo tipo dall’ex ministro in altre circostanze - in particolare di fronte all’alto numero di arrivi sulle nostre coste, mentre si mettevano a punto gli accordi sulla Libia nell’estate del 2017. Pur credendo nella necessità di leggere gli eventi a livello internazionale nella loro complessità, non sono convinta che creare allarme per giustificare scelte discutibili - come gli accordi con la Libia - sia un atteggiamento responsabile da parte di chi ha un ruolo pubblico. Ovviamente ci si deve interessare del processo di stabilizzazione della Libia, ma non si può non tener conto, ad esempio, del coinvolgimento della Corte Penale Internazionale nel Paese per appurare eventuali crimini di guerra operati da esponenti partitici e di governo, come emerge dalle parole del Procuratore della Corte Penale Internazionale Fatou Bensouda, nella Dichiarazione al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite dello scorso mercoledì. Vogliamo veramente chiudere gli occhi di fronte a tutto ciò e pensare che basti il rinnovo del Memorandum per risolvere la questione dei flussi migratori verso l’Italia e l’Europa? Aver subappaltato alla Turchia il controllo delle nostre frontiere esterne a Oriente dopo quanto sta succedendo ai confini con la Siria non ci è bastato per capire che non si può sbrigativamente appaltare a terzi la gestione di tale complesso ed epocale fenomeno? *Senatrice +Europa Migranti. Crimini nei centri di detenzione in Libia, la Corte dell’Aja accusa i boss di Nello Scavo Avvenire, 8 novembre 2019 Pronti i mandati d’arresto contro i trafficanti. Contestati i reati di tortura e violenza. La procuratrice Bensouda: raccolte prove anche nei campi di detenzione dei migranti. “Nuovi mandati d’arresto” contro esponenti libici, coinvolti anche nel traffico di esseri umani. Li sta per trasmettere la Corte penale dell’Aja, ormai agli ultimi passi di una maxi-inchiesta che per la prima volta porterà davanti alla giustizia internazionale alcuni boss del traffico di esseri umani. La montagna di prove raccolte conferma le violenze sia nei “nei centri di detenzione ufficiali che in quelli non ufficiali”. Un atto d’accusa che avrà pesanti ripercussioni su Tripoli e su quei governi che foraggiano l’intero sistema, nel quale si intrecciano interessi politici e criminali. “Il mio team - assicura la procuratrice Fatou Bensouda - continua a raccogliere e analizzare prove documentali, digitali e testimonianze relative a presunti crimini commessi nei centri di detenzione”. Le parole del capo della Procura penale internazionale accompagnano il nuovo report sulla Libia, trasmesso al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Gli investigatori hanno raccolto materiale sul campo e centinaia di denunce da funzionari Onu, da avvocati e dagli stessi migranti sopravvissuti alle camere della tortura. Abbastanza perché possa essere presa in esame, per la prima volta, la possibilità di “presentare casi dinanzi alla Corte penale internazionale in relazione ai crimini legati ai migranti in Libia”. Alla sbarra potrebbero finire personaggi con cui le autorità europee ed italiane continuano a trattare, senza mai riuscire a ottenere il minimo incremento nel rispetto dei diritti umani di base. Sotto processo viene messa l’intera impalcatura negoziale che in questi anni, pur di salvaguardare interessi politici, economici e militari ha finito per lasciare mano libera agli aguzzini, al solo scopo di poter celebrare successi nel contenimento dei flussi migratori. Le accuse contenute nel rapporto numero 18 della Procura dell’Aja sono rivolte indistintamente ai campi di prigionia (sotto il controllo del Dipartimento contro l’immigrazione illegale di Tripoli) e alle prigioni clandestine (molte delle quali conosciute dalle autorità). “Nel 2019 oltre 4.800 rifugiati e migranti - denuncia l’Aja - sono stati arrestati arbitrariamente in Libia. Molti sono vulnerabili a causa della loro vicinanza nelle aree di combattimento a Tripoli e dintorni”. Non bastasse rischiare la vita sotto le bombe, “migranti e rifugiati - si legge nel dossier - continuano a essere a rischio di tortura, violenza sessuale, rapimento per riscatto, estorsione, lavoro forzato, uccisioni illegali e detenzione in condizioni inumane”. Gli investigatori ricordano alcuni episodi recenti che mettono in stato d’accusa anche le parti in conflitto dal 4 aprile, quando il generale Haftar ha avviato l’offensiva su Tripoli, contro il governo riconosciuto dalla comunità internazionale. “Il 2 luglio 2019, attacchi aerei sul centro di detenzione per migranti di Tajoura, a est di Tripoli, secondo quanto riferito hanno ucciso 53 persone e ferito altri 130, tra cui donne e bambini”. Una strage deliberata, insiste la Cpi, perché “prima di questo incidente le Nazioni Unite avevano fornito alle parti in conflitto le coordinate esatte di questo centro di detenzione”, che dunque doveva essere tenuto fuori dagli scontri. I funzionari del Palazzo di Vetro già nel 2018 avevano ricevuto un paper dall’Aja nel quale veniva documentato “l’uso di forza eccessiva e illegale da parte dei funzionari del Dipartimento per la lotta alla migrazione illegale”. E nel maggio 2017 la procuratrice, intervenendo davanti al Consiglio di sicurezza, disse che “secondo fonti credibili, gli stupri, gli omicidi e gli atti di tortura sarebbero all’ordine del giorno e sono rimasta scioccata da queste informazioni che assicurano che la Libia è diventato un mercato per la tratta di esseri umani”. Due anni dopo manca solo l’ultimo passaggio: l’emanazione dei mandati d’arresto in campo internazionale. Intanto gli investigatori hanno cooperato, si apprende adesso, con la magistratura di alcuni dei Paesi che hanno aderito alla Corte penale (la Libia non è fra questi) “fornendo prove e informazioni-chiave alle autorità nazionali, e facilitando i progressi in numerose indagini e azioni penali relative ai crimini contro i migranti in Libia”. Il report non indica di quali Paesi si tratta, ma non è difficile immaginare che alcune delle indagini recenti soprattutto in Italia sui trafficanti di esseri umani possano avere beneficiato di questa collaborazione. Non sarà facile trascinare davanti ai giudici i sospettati di crimini contro l’umanità. La Corte penale ha emesso negli anni scorsi diversi mandati di cattura destinati a esponenti del deposto clan Gheddafi, tra cui il figlio Saif al-Islam e militari fedelissimi al generale Haftar. Eppure né l’esecutivo al-Sarraj né il suo nemico Haftar hanno mai voluto consegnare gli imputati all’Aja, anche se “riteniamo di sapere dove si trovano”, dice Bensouda alludendo a complicità di Paesi esteri, fra cui l’Egitto, dove risiede almeno uno dei tre ricercati. Coperture che nel caso dei boss del traffico di esseri umani potrebbero allungare ombre sui loro interlocutori in Europa. Quei nuovi muri contro i migranti, in nome della patria di Lanfranco Caminiti Il Dubbio, 8 novembre 2019 Da Israele al Messico, dallo Yemen all’Ungheria. Il muro più famoso al mondo - a parte quello dei Pink Floyd - non si vede. E non si vede non per una qualche diavoleria ipertecnologica ma perché non c’è più, e da mo’. Però, ne è rimasta l’evocazione, anche se sovrappensiero. Stiamo parlando di Wall Street, la strada del muro - centro della finanza mondiale, dove si giocano spesso i destini del mondo. Che si chiama così, perché un tempo c’era un muro, appunto. In realtà, era poco più che una palizzata, fatta erigere e poi rinforzare nel 1640 da Peter Stuyvesant, governatore dei Nuovi Paesi Bassi il cui gioiello era New Amsterdam, per tenere lontani i pellerossa - gli altri, i diversi, i nemici. Quando scoppiò la guerra fra inglesi e olandesi la palizzata divenne un vero e proprio muro di terra e legname alto 3,5 metri e fortificato. Ma non resse alla storia. E quando gli inglesi nel 1664 rinominarono la città in New York il muro scomparve. Ma non la strada - dove fino al secolo successivo commercianti e broker avevano l’abitudine di stipulare i loro patti di transazione. Così, un giorno del 1792 decisero di stilare un accordo e lo chiamarono Buttonwood Agreement, perché Buttonwood è il nome in inglese del platano sotto cui erano soliti fare i loro scambi. E questo è l’inizio del New York Stock Exchange. Forse è vero che gli uomini hanno da sempre costruito muri mentre edificavano ponti o luoghi di culto, acquedotti e arene, piazze di mercato e accampamenti. Il Vallo di Adriano, limen dell’impero romano che divideva la Britannia, provincia conquistata, dai barbari che abitavano oltre, è del II secolo dopo Cristo - e è ancora in piedi. E la Grande Muraglia Cinese (una serie di muri, in realtà, e di difese naturali, costruiti in epoche e dinastie successive), lunga 8.852 chilometri, iniziò nel 215 avanti Cristo. E sta ancora in piedi. Mentre le mura di Gerico non ressero alle trombe dei sacerdoti guidati da Giosuè, milleduecento anni prima di Cristo. Senza bisogno di ricorrere all’aiuto divino, Janet Napolitano, che è stata Segretario alla Sicurezza interna dal 2009 al 2013, presidente Obama, disse una volta: “You show me a 50 foot wall, and I’ll show you a 51 foot ladder / tu mostrami un muro alto 50 piedi e io ti farò vedere una scala alta 51”. Non credeva, Janet Napolitano, che pure si era battuta già da governatore dell’Arizona contro il traffico dell’immigrazione clandestina, che i muri fossero “la risposta” - un muro si può sempre scavalcare, per quanto alto tu possa farlo. Eppure, non solo al confine tra gli Stati uniti e il Messico il muro sembra essere “la risposta” dell’amministrazione Trump di fronte a un esodo di massa, dal Guatemala, dall’Honduras, dal San Salvador, che ha aspetti e proporzioni bibliche. Trump ha deciso di fare fuoco e fiamme per “onorare” la proposta di campagna elettorale di allungare e rafforzare un muro che già il presidente Clinton, e dopo di lui sia Bush che Obama, hanno esteso. Solo negli ultimi dieci anni sono diecimila i chilometri di muro costruiti nel mondo. E perciò, non stiamo parlando di muri “storici” - come quelli di Belfast, iniziati nel 1969 dopo i Troubles, che sono 99 come i nomi di Allah, e dividono protestanti e cattolici, passando per vie e vicoli e dividendo caseggiato da caseggiato, quartiere da quartiere e che, per cinismo della storia, si chiamano Peace- walls, e oggi, colorati di murales che celebrano un qualche caduto dell’Ira o delle milizie orange a seconda di dove li si guardi, sono diventati meta turistica, e speriamo che tali restino. O quello che spacca Cipro, lungo 184 chilometri, separando turco- ciprioti e greco- ciprioti, che si chiama linea verde perché Peter Young, il generale inglese che nel 1963 provò a mettere un freno al massacro fra etnie, aveva sottomano solo una matita verde per tracciare la divisione dell’isola in due metà. O quello che divide le due Coree. Ci sono i 1.800 chilometri di muro che dividono l’Arabia Saudita dallo Yemen; i 700 chilometri che separano l’Iran dal Pakistan; i 230 chilometri tra Israele e Egitto (oltre quelli in Cisgiordania); i 482 chilometri tra lo Zimbabwe e il Botswana; i 2720 chilometri (il record!) tra il Marocco e il Sahara occidentale. L’Europa d’altronde non fa che costruire muri: c’è il muro che ci divide dall’Africa e che sta nelle enclavi spagnole di Ceuta e Melilla e fanno da confine con il Marocco, una barriera lunga venti chilometri, alta sei metri, che è costata decine di milioni dell’Unione europea, nell’ambito del programma Frontex. C’è il muro che ci divide dall’Asia, dalla Turchia, e che in realtà è un fiume, quindi è una barriera naturale, il fiume Evros, e avrebbe dovuto comprendere anche un fossato, ma a causa dei costi molto elevati la Grecia ha deciso di mantenere soltanto una doppia barriera di reticolato e filo spinato alta quattro metri. Da qui arrivano immigranti da Afghanistan, Pakistan, Armenia, Kurdistan, Iraq, Siria. E poi ci sono i muri - anche qui barriere di reticolati, spesso elettrificati - che dividono l’Ungheria dalla Serbia ma Orbàn vuole costruirne un altro per separarsi dalla Croazia. E quello che divide la Bulgaria dalla Turchia, un vero e proprio muro lungo i trenta chilometri di frontiera. Insomma, caduta the iron curtain, la cortina materiale e ideologica che spaccava l’Europa a metà, dal mar Baltico al mar Nero e che teneva lontano i temibili cosacchi dalle fontane di San Pietro e il corrotto capitalismo dalla pura anima slava, l’Europa continua a frammentarsi e a rinchiudersi. Come a Alphaville, la gate community di San Paolo, Brasile, dove i ricchi hanno deciso di rinchiudersi - e fare le proprie scuole, le proprie palestre, i propri centri commerciali - per stare lontani dal mondo sporco e cattivo delle favelas e mettere più di mille guardie a vigilanza e protezione: come dice un giardiniere che ci va tutte le mattine a pulire le aiuole e poi la sera orna a casa, di qua Alphaville di là Alfavela. In Brasile, Alphaville - nata proprio seguendo le indicazioni architettoniche per la città ideale di Le Corbusier - si va riproducendo e in America le gate community sono ormai realtà stabili. E sembra l’incubo rovesciato di 1997: Fuga da New York, il film dove nell’isola di Manhattan chiusa da alti muri impossibili a valicare sono stati rinchiusi i reietti. Che stiano lì nel ghetto, e non ci contaminino. Finché. Un’utopia che si trasforma in distopia. I muri sono il paradosso dei nostri tempi: tempi che si presupponevano fatti di scambi e movimenti liberi di uomini, capitali e merci e che invece si vanno distorcendo in una frammentazione sempre più ristretta di comunità. Forse un giorno i muri diventeranno il contrario - punti di sutura tra popoli e terre. E forse faremo pellegrinaggi per ricordare quanti provarono a scavalcarli, e vi lasciarono la vita. Un po’ come accadde per tutto il Novecento con il “muro dei federati” di Parigi, al cimitero del Père Lachaise, contro il quale il 28 maggio del 1871 vennero fucilati 147 Comunardi i cui corpi furono gettati nelle fosse comuni con altre migliaia di insorti e che divenne meta di cortei pavesati di bandiere rosse, “il nostro lutto e il nostro orgoglio”. Guantànamo è un club di costituzionalisti… di Daniele Raineri Il Foglio, 8 novembre 2019 … in confronto alla soluzione dei governi europei per liquidare i detenuti dell’Isis. In Olanda il partito Vvd del premier Mark Rutte che fa parte della maggioranza discute la questione dei combattenti europei che sono andati in Siria e Iraq per arruolarsi nello Stato islamico e arriva a questa conclusione: non c’è problema se saranno giudicati in un tribunale in Iraq e condannati a morte. L’opposizione inorridisce, se accettassimo allora l’Olanda dovrebbe rivedere tutti i suoi trattati europei e internazionali, ma gli eventi sul campo incalzano. Per molti mesi i governi europei hanno fatto finta di nulla, come se i grandi campi curdi nel nord della Siria in cui i detenuti dello Stato islamico sono rinchiusi a migliaia non esistessero. Ora gli scontri fra curdi e milizie filoturche mettono in pericolo la tenuta di questo arrangiamento, ci sono state già evasioni e almeno un centinaio di combattenti dello Stato islamico è fuggito, una donna belga è stata appena trovata in Turchia (quindi è riuscita a superare il confine militarizzato) e c’è da trovare una soluzione (a Trump non potrebbe importare di meno la faccenda, come ha già detto). I governi europei sono costretti a uscire dal bozzolo dell’ipocrisia, devono prendere una decisione. L’aria di superiorità giuridica e morale dell’Europa, che da decenni critica con forza la pena di morte, sostiene il diritto al giusto processo di ciascun condannato, critica Guantanamo - su questo torniamo più avanti - e rifiuta l’estradizione in caso di possibile pena capitale, è in crisi. Sette paesi starebbero già trattando con l’Iraq perché smaltisca come scorie radioattive i combattenti dello Stato islamico con passaporto europeo. Francia, Gran Bretagna, Belgio, Svezia, Danimarca e appunto l’Olanda di Mark Rutte. Come si sa, i processi ai membri dello Stato islamico in Iraq durano dieci minuti, offrono zero garanzie giuridiche e finiscono nella maggioranza dei casi con una condanna a morte - come è già successo a undici francesi ma la pena non è stata ancora eseguita. L’Iraq vorrebbe per ogni combattente europeo che accetta di giudicare un prezzo di alcuni milioni di dollari. In pratica, i governi europei potrebbero trasferire dalle prigioni siriane a quelle dell’Iraq i combattenti con passaporto europeo, che poi sarebbero giudicati secondo una legge irachena che punisce la mera appartenenza allo Stato islamico e quindi non richiede molte prove a carico (i giudici europei dovrebbero invece individuare un reato, per esempio un’uccisione, e poi trovare prove a carico). Nel 2003 in Europa c’erano voci molto critiche contro l’Amministrazione americana per la questione di Guantanamo, il carcere dove erano rinchiusi circa settecento prigionieri catturati in Afghanistan e Pakistan con l’accusa di fare parte di al Qaida - e venti avevano passaporto europeo. Erano considerati troppo pericolosi per essere lasciati in libertà ma allo stesso tempo non si potevano applicare le regole di guerra o della lotta al crimine e si era deciso che fossero giudicati da tribunali militari. La base militare a Cuba era stata scelta perché dal punto di vista legale non è suolo americano e quindi secondo l’Amministrazione Bush il corso ordinario delle cose dopo gli attacchi traumatici dell’11 settembre poteva essere sospeso. Europarlamentari, governi, stampa e ong in Europa consideravano la situazione una sospensione inaccettabile della legalità. Sono passati diciassette anni. Il numero di prigionieri a Guantanamo è sceso a circa quaranta. Rispetto agli europei catturati nel 2002, il numero di europei catturati con lo Stato islamico è di cinquecento volte più alto. E i loro governi hanno abbandonato le critiche del passato e vogliono liquidare la questione con una scelta che fa sembrare Guantanamo un club di costituzionalisti. Arrestato pure chi non protesta. Così l’Egitto affronta il dissenso di Antonella Napoli Avvenire, 8 novembre 2019 La crisi economica e íl regime di austerità alimentano íl malcontento delle piazze. Le luci dell’alba spengono il canto del Muezzin, la preghiera è finita al primo barbaglio di sole all’orizzonte. La centralissima al Bustan street si anima lentamente, con il vociare dei commercianti e il traffico impazzito che al Cairo non allenta mai. Spuntano i banchetti colorati che dai negozi si estendono sui marciapiedi, pendolari e studenti affollano la metropolitana che già dalle 6 è gremita e chiassosa. La capitale egiziana è caotica e operosa come ogni giorno, ma l’instabilità delle ultime settimane è palpabile. La calma apparente può solo minimizzarla. Come testimonia il voto alla Camera dei rappresentanti lo scorso 4 novembre che proroga lo stato di emergenza di tre mesi, per la decima volta. L’Egitto è un Paese in sospeso, la tensione crescente condiziona la vita degli oltre cento milioni di abitanti. Anche per gli occidentali, persino i turisti, il clima di restrizioni è tangibile, a cominciare dal divieto di passeggiare e fotografare luoghi sensibili come piazza Tahrir. utto è iniziato venerdì 20 settembre. Migliaia di persone sono scese in strada nelle città più importanti, da Suez a Luxor, chiedendo le dimissioni del presidente Abdel Fattah al-Sisi. Un evento che ha sorpreso il regime che dal 2016 vieta le manifestazioni pubbliche in tutto il Paese. Le ultime proteste di massa in Egitto si erano avute nel 2013, dopo la caduta del presidente democraticamente eletto Mohamed Morsi. A deporlo un golpe guidato dallo stesso al-Sisi. L’approccio di “tolleranza zero” verso ogni forma di dissenso è degenerato in sparizioni forzate, torture e pene detentive sempre più lunghe per coloro che sfidano il divieto di manifestare. Dall’inizio della rivolta sono quasi 4.500 gli arrestati, tra cui decine di minori tra i 10 e i 16 anni. Oltre ai manifestanti, in cella finiscono attivisti e avvocati, come Ibrahim Metwaly, fondatore dell’Associazione dei familiari degli scomparsi e difensore dei diritti umani. Doveva essere rilasciato il 5 novembre e invece è stato accusato di un nuovo capo di accusa, “finanziamento del terrorismo”, e trasferito in un carcere di massima sicurezza. Il tutto nel silenzio pressoché totale dei media egiziani. Da metà settembre centinaia di siti web sono stati bloccati e la stampa interna è quasi totalmente controllata dal governo. Ogni organo di informazione è “imbavagliato” per impedire che si racconti la più vasta repressione dall’ascesa al potere dell’ex generale, oggi accusato di corruzione. Ma il malcontento ha radici ben più profonde. La frustrazione del popolo egiziano si è accumulata negli ultimi anni, soprattutto per le severe misure di austerità assunte dal governo. L’Egitto sta uscendo da un programma di riforma triennale imposto dal Fondo monetario internazionale a fronte di un prestito di 12 miliardi di dollari. Nell’ambito dell’azione di risanamento dei conti pubblici, il governo di al-Sisi ha svalutato la sterlina egiziana e aumentato i prezzi dei beni e dei servizi di base, riducendo al contempo i sussidi per il carburante, l’elettricità e alcuni generi alimentari. Nonostante gli economisti e gli investitori abbiano certificato la crescita nel Paese, l’inflazione si sia ridotta e il calo del debito e del deficit sia in progressione, gli indicatori positivi macroeconomici non si sono tradotti in un aumento del reddito e un migliore standard di sussistenza per i cittadini. Il deprezzamento della valuta e i tagli alle sovvenzioni hanno fatto salire il costo della vita, facendo precipitare allo stato di miseria un terzo della popolazione. Le statistiche ufficiali pubblicate lo scorso luglio attestano che il 33% degli egiziani vive al di sotto della soglia di povertà, rispetto al 28% nel 2015. La Banca mondiale rileva che il numero di indigenti in Egitto è quasi il 60%. Sotto l’aspetto occupazionale e salariale non va meglio, anche se il dato generale registrato nel secondo quadrimestre de12019 risulta il più basso degli ultimi 30 anni. Quella preoccupante è la percentuale della disoccupazione giovanile, che nella fascia tra i 18 e i 24 anni sfiora 1’80%. Il tutto, a fronte delle accuse di corruzione rivolte al presidente al-Sisi e al suo entourage, con capitali pubblici dirottati per interessi personali su commesse e opere non necessarie, ha fatto deflagrare la rivolta che ha determinato un ulteriore giro di vite da parte delle forze di sicurezza. Quello egiziano è tra i sistemi autoritari più spietati al mondo: non risparmia nessuno, si abbatte anche su donne, anziani e bambini. Neanche gli stranieri sono “risparmiati”, come da italiani abbiamo sperimentato con l’uccisione del ricercatore friulano Giulio Regeni. Per Amnesty International, che monitora da tempo la situazione, la maggior parte dei fermati rischia di essere accusata di “appartenenza a un gruppo terrorista” e di “uso improprio dei social media”. Secondo l’organizzazione internazionale la pressoché totalità degli arresti è irregolare in quanto basata solo sulla partecipazione, o presunta, a dimostrazioni pacifiche. A diffondere i dati più aggiornati sulle ultime repressioni, la Commissione egiziana per i diritti e la libertà: 4.427 arrestati in 24 Governatorati, 3.864 comparsi davanti ai pubblici ministeri, 1.056 rilasciati su cauzione, 500 scomparsi, 326 “riapparsi” dopo giorni. “La gente protestava per strada, solo per questo è stata ritenuta pericolosa. Sono stati trattati come terroristi - racconta Mohamed Lofty, direttore di Ecrf e consulente della famiglia Regeni come Metwaly. Sono stati arrestati tutti. Solo perché protestavano o si trovavano nei pressi di un corteo. Funziona così. Emblematica la storia di Yassin Abdallah, uno studente di Suez. Finiti i corsi all’università fa ripetizioni in centro a ragazzi più piccoli. Siccome non ha molti soldi e non può pagare il biglietto dell’autobus torna a casa a piedi. Un giorno vede passare un corteo. Resta lì, fermo a guardare. Arriva la polizia che rincorre i manifestanti. Lui non sa che cosa fare. Se corre i poliziotti penseranno che sia uno di loro, ma se sta fermo la polizia lo arresta. Quindi decide di camminare. “Cammino così non pensano che faccio parte della manifestazione”, si illude. Lo arrestano comunque e viene accusato di terrorismo”. ncor più paradossale la sorte toccata alla ventenne Sanaa Abdel Fattah. La ragazza stava passeggiando lungo Piazza Tahrir in una giornata tranquilla. La polizia l’ha fermata e le ha chiesto di vedere il suo telefonino, le sue foto. Lei ha rifiutato. L’hanno prelevata e portata in un commissariato dove l’hanno trattenuta per giorni. “Sua sorella, Mona, è andata al posto di polizia dove era stata portata per avere sue notizie, ma le hanno detto che non era lì. Solo quando Sanaa ha potuto chiamare a casa per chiedere che andassero a riprenderla, i suoi familiari hanno potuto tirare un sospiro di sollievo. Ma ad altri è andata molto peggio” è l’amara conclusione di Lofty. Sanaa è la sorella minore di Alaa Abdel Fattah, attivista e blogger protagonista della rivoluzione del 2011 che ha trascorso cinque anni in carcere. È stato rilasciato nel 2018 con l’obbligo di trascorrere 12 ore nel posto di polizia vicino casa. Ogni notte, dalle 18 di sera alle 6 di mattina. Due settimane fa si è presentato in commissariato ma non ne è più uscito. Lo hanno arrestato con nuove accuse: appartenenza a un gruppo terroristico, istigazione alle manifestazioni e finanziamento al terrorismo. Dal 29 settembre è in carcere senza essere mai comparso davanti a un giudice. Fattah è tra le migliaia di detenuti rinchiusi nella prigione di massima sicurezza di Tora, famigerata la sezione conosciuta come “Lo scorpione” dove le condizioni detentive sono aberranti e decine di prigionieri hanno avviato scioperi della fame. Lì nessun diritto è garantito. Come agli egiziani che provano a protestare chiedendo un futuro migliore. Stati Uniti. La clemenza dell’Oklahoma Internazionale, 8 novembre 2019 Il 4 novembre 462 persone detenute nelle carceri dell’Oklahoma per reati non violenti sono state scarcerate dopo che il governatore Kevin Scott, repubblicano, ha commutato la loro pena. Altri 56 detenuti torneranno in libertà nei prossimi mesi. “Si tratta del più importante provvedimento di clemenza nella storia degli Stati Uniti”, scrive Vox, “ed è una delle tante misure adottate negli ultimi anni dall’Oklahoma per ridurre la popolazione carceraria e fare in modo che le persone condannate per reati non violenti riescano a rifarsi una vita e a reinserirsi nella società”. La decisione rivela un cambio di approccio sul tema dell’incarcerazione di massa, che non riguarda solo l’Oklahoma. In tutto il paese molti politici, sia democratici sia repubblicani, cominciano a dare retta agli studi secondo cui sentenze lunghe per reati non violenti non riducono il crimine e non rendono la società più sicura, e che dimostrano come l’attuale sistema sia discriminatorio nei confronti delle minoranze. Cile. Brucia la gabbia di Pinochet di Angela Nocioni Il Riformista, 8 novembre 2019 Non è autocombustione. Se “la ricca oasi felice dell’America latina” brucia perché le danno fuoco, se da settimane migliaia di persone ogni notte scendono in strada e incendiano tutto ciò che incontrano, se i primi cinque giorni l’hanno fatto sfidando il coprifuoco e novemila militari in strada, il dubbio che l’oasi non fosse felice potrebbe pure venire. Invece no. Venti morti, migliaia di arresti e una manifestazione di un milione di persone contro il governo di centrodestra di Sebastian Piñera non sono sufficienti a rompere il cliché dell’eccezione cilena, l’illusorietà del modello del paese ricco del Cono sur cresciuto negli ultimi dieci anni a grandi balzi, il 2,5% anche quest’anno. Nessuno si chiede sulle spalle di chi. Undici milioni dei 18 milioni di cittadini cileni risultano titolari di debiti. Dato pubblico e stranoto. Il costo di un appartamento a Santiago è salito fino al 150% negli ultimi dieci anni, i salari invece del 25%, dato dell’Università cattolica. Le entrate del 10% più ricco della popolazione sono di 40 volte più alte di quelle del 10% più povero (fonte: ministero per lo sviluppo sociale). Eppure “misterioso y sorprendente” è il caos di Santiago anche allo sguardo acuto di Mario Vargas Llosa che spiega, insieme ad altre decine di analisti, come l’esplosione cilena sia di tipo europeo, una protesta borghese più simile ai gilet gialli francesi che a quella contro il caro prezzi che spesso infiammano le grandi città latinoamericane. Una rivolta, dato altrettanto stranoto, nata però contro il caro biglietti della metropolitana. Forse una rivolta finanziata da provocatori chavisti venezuelani, insinuano alcuni. Perché “misteriosa e sorprendente”? Per una ragione obiettiva, dicono. “Perché il Cile è l’unico paese latinoamericano che ha dato battaglia con efficacia al sottosviluppo ed è cresciuto in questi anni in modo stupefacente. Potere d’acquisto di 23 mila dollari a testa, secondo la Banca mondiale” (Vargas Llosa). Eppure sarebbe bastato seguire una qualsiasi delle interminabili assemblee universitarie delle proteste che negli ultimi anni puntualmente hanno alzato barricate in Cile per sentire, a ogni capannello, ragazzi non ricchi, furiosi, chissà se tutti pagati dai chavisti venezuelani (che non hanno soldi ormai nemmeno per gli antibiotici e curano le infezioni con il paracetamolo, figurarsi per fare gli agit prop fasciati di dollari) dire: “Non è vero che siamo un paese ricco. Siamo un paese con alcuni ricchi e moltissimi poveri”. Vanno all’università, ma sono poveri figli di poveri che studiano e lavorano rimanendo poveri. Alcuni fanno letteralmente la fame. E il futuro non gli si prospetta migliore di quello dei loro genitori. Quei 23 mila dollari non entrano nelle loro tasche. Il modello economico adottato a Santiago ha enormi costi sociali. Ed è quello, spietato, voluto da Pinochet. La scuola è quella di Pinochet, la sanità è quella di Pinochet, le pensioni sono quelle di Pinochet. Il grande problema cileno è da decenni la grande forbice tra ricchi e poveri. La fine della dittatura non solo non l’ha risolto: non l’ha proprio affrontato. Perché in Cile nel 1990 è finita la dittatura, non il pinochettismo. Pinochet ha vinto nella società, nell’economia, nella testa della gente. Non è un problema della destra soltanto, né di quella presentabile dell’imprenditore Piñera né di quella cavernicola (così l’ha chiamata tempo fa Vargas Llosa) dei neonazi che banchettano in Cile. Perché 24 dei 29 anni post dittatura sono stati governati da un centrosinistra civile e per bene che non ha potuto scalfire la gabbia atroce nella quale la rivoluzione capitalista di Pinochet ha imprigionato il Cile. I risultati di quel laboratorio economico e sociale che fu il regime di Pinochet - quell’alleanza tra militari, imprenditori locali e grandi capitali esteri, quella singolare convergenza che usò (o fu usata da) i militari cileni per realizzare una rivoluzione capitalista, di puro modello liberista, che nemmeno nelle lavagnette dei Chicago boys avrebbe potuto essere meno sfumata - paiono godere tuttora dello sguardo benevolo di intellettuali indubbiamente liberali. È quasi incredibile la cecità di fronte alla spietatezza del modello e alle ferite che provoca. La differenza sociale mostruosa in Cile è perpetuata dal funzionamento perverso del modello di studi universitari adottato finora. Un laureato entra nel mercato del lavoro con 30 o 40 mila dollari di debito da restituire alle banche che gli hanno erogato il prestito scolastico per accedere alle prestigiose università di Santiago. Altrettanto discriminatorio è il sistema di previdenza sociale. Il mito dei fondi pensione cileni, osannato in mezzo mondo negli anni Novanta come modello da imitare, si è sgretolato per fattori demografici ed economici. Il modello dei fondi pensione si è rivelato nel tempo una trappola. L’errore consiste nella sovrastima della capacità di contribuzione: le pensioni pagate dal sistema Afp (quello dei fondi pensioni) sono state in media di 100 dollari al mese e il 50% di chi ha aderito non arriva neppure alla pensione minima costringendo lo Stato a integrarle. Da qui la necessità di intervenire con fondi pubblici che mitigassero i disastri sociali ed economici dell’esperimento. Anche perché il sistema Afp prevedeva 20 anni di contribuzione che nessuno è riuscito ad ottenere. Solo il 10% di chi ha aderito ai fondi è stato in grado, negli ultimi due decenni, di effettuare versamenti regolari dodici mesi all’anno. Il Cile è un Paese abituato ad avere una delle economie più dinamiche della regione e durante il primo governo di Piñera (2010-2014), poi rielletto nel 2018, è cresciuto in media del 5,3% l’anno, rispetto alla media del 3,3% del primo mandato presidenziale (2006-2009) della socialista Michelle Bachelet. Ai ricchi imprenditori cileni, nonostante la poca belligeranza nei loro confronti del centrosinistra dal 1990 in poi, non sono piaciute molte cose della Bachelet. Soprattutto non è piaciuta la riforma fiscale che ha aumentato l’aliquota dell’imposta sul reddito delle società dal 24% al 27% e ha reso, dicono loro, “più complicato il sistema tributario”. La loro insofferenza s’è sommata al malcontento tra i poveri (quelli che vanno all’università indebitandosi per una vita e quelli che all’università hanno rinunciato in partenza). È stato così che le ultime presidenziali hanno riaperto le porte del palazzo della Moneda a Piñera e a parte di quella destra cavernicola che Piñera sa blandire all’ora di dover raccogliere voti per vincere. La stessa che ha voluto lusingare dichiarando il coprifuoco all’inizio della rivolta. Mai, nessun governo dopo la fine del regime aveva osato pronunciare la parola coprifuoco. È come far aleggiare il fantasma del defunto dittatore sulla testa di chi protesta. Un ricatto, una minaccia considerati finora una via impraticabile, intollerabile per la società cilena. Piñera l’ha fatto. La scelta gli si è rivoltata contro. La folla inferocita ha continuato a scendere in strada, incappucciata, nonostante il coprifuoco finché il coprifuoco è stato ritirato. La gabbia non s’è rotta, ma è stata incendiata.