Un coro di no per lo svilimento del ruolo di garanzia dei direttori di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 novembre 2019 Critiche dalla Conferenza dei Garanti dei detenuti e 100 dirigenti scrivono al Capo del Dap. Divisi i Sindacati degli agenti. Il Sappe: “è giunto il momento che i vertici provengano dal corpo di polizia penitenziaria”. La Uil-Pa invita a un approccio sereno ed equilibrato. A umentano le proteste contro il decreto legislativo, attualmente in esame alle Camere, che depotenzia il ruolo dei direttori degli istituti penitenziari, innalzando quello dei comandanti della polizia penitenziaria. Oltre alle critiche, come già riportato da Il Dubbio, del presidente dell’associazione Antigone Patrizio Gonnella e dell’esponente del Partito Radicale e presidente di Nessuno Tocchi Caino Rita Bernardini, ci sono quelle avanzate dalla conferenza dei garanti territoriali delle persone private della libertà tramite il portavoce Stefano Anastasìa. “Nessuna preclusione al riconoscimento della legittima progressione di carriera dei dirigenti di polizia penitenziaria - dichiara il portavoce dei garanti territoriali - ma lo schema di decreto legislativo all’attenzione delle Camere prefigura una separazione sempre più netta tra il personale di polizia e il restante personale dell’Amministrazione penitenziaria”. In particolare, sottolinea Anastasìa “ne sarebbero svilite le funzioni dei direttori di garanzia dei limiti e dei fini costituzionali della privazione della libertà in carcere e di coordinamento delle diverse aree operative interne agli istituti”. Sempre secondo il portavoce dei garanti “ai direttori sarebbe preclusa la valutazione professionale e disciplinare degli appartenenti al Corpo e sottratta la stessa valutazione di ultima istanza nell’uso delle armi prevista dall’articolo 41 dell’ordinamento penitenziario”. I Garanti territoriali quindi fanno appello a Parlamento e governo affinché “lo schema di decreto legislativo sia modificato in questi punti essenziali prima della sua definitiva adozione”. D’altronde sono oltre 100 i direttori dei penitenziari che hanno inviato una lettera al capo del Dap Franco Basentini, denunciando il pericolo della messa a rischio dei “principi di equità e umanità affidati dal legislatore ai vertici degli istituti, sulla base anche di quanto sancito dalla Costituzione”. Nel frattempo si aggiunge anche una nota dell’Osservatorio carceri delle Camere penali dove si esprime ferma contrarietà a tale riforma secondo la quale “affidare al Corpo di polizia penitenziaria il potere disciplinare, della valutazione dirigenziale, della partecipazione alle commissioni selettive del personale e ai consigli di disciplina significa far regredire il sistema penitenziario a un’idea del carcere esclusivamente punitiva, annullando la figura del direttore che possa mediare tra le esigenze trattamentali e quelle si sicurezza”. Scendono però in campo anche i Sindacati della Polizia penitenziaria che difendono il decreto. Ad esempio c’è il Sappe che, per replicare proprio a un articolo de Il Dubbio, ha espresso critiche nei confronti dei direttori penitenziari. “Vogliono soprattutto continuare ad edificare le loro carriere sulle spalle della Polizia penitenziaria - scrive il segretario del Sappe Donato Capece - agganciandosi però agli istituti normativi della polizia di Stato nelle more dell’adozione del loro primo contratto, senza però richiamare il trattamento giuridico ed economico della Polizia penitenziaria, di cui chiedono di continuare a restare superiori gerarchici”. Per il Sappe è “giunto il momento che i vertici dell’Amministrazione provengano dal Corpo di polizia penitenziaria”. Anche il sindacato Uilpa Polizia Penitenziaria interviene sulle polemiche che stanno imperversando circa la bozza di decreto legislativo. A parlare è il massimo esponente, Gennarino De Fazio, che invita a un approccio sereno ed equilibrato, senza farne una questione ideologica. “Dallo svincolo dalla dipendenza gerarchica - sostiene De Fazio - in realtà, deriveranno per ilcComandante solo poche facoltà gestionali, nell’ambito delle direttive impartite dal direttore, e, si badi bene, qualche libertà in più nel rivolgersi ai superiori, alla magistratura, anche di sorveglianza, e all’esterno”. L’esponente della Uil-Pa sostiene che ci sia “maggiore equilibrio, maggiore trasparenza, se si vuole, un aggiustamento del sistema di “pesi e contrappesi”, che oltretutto, attribuendo finalmente responsabilità dirigenziali al primo dirigente, muove verso il perseguimento compiuto dell’efficienza e dell’efficacia dell’azione amministrativa”. C’è da aggiungere però, che lo stesso De Fazio - intervenuto durante la trasmissione Radio Carcere di Radio Radicale - boccia la riforma nel suo complesso, perché “è scritta malissimo e segue un percorso arzigogolato e non esattamente compatibile con l’ordinamento penitenziario”. Lo scontro sulle carceri: poteri disciplinari agli agenti, la rivolta dei direttori di Emilio Pucci Il Messaggero, 7 novembre 2019 Il Decreto di riforma voluto da Bonafede rende autonoma la Polizia penitenziaria. Il Pd non ci sta e si schiera con i dirigenti: norma irricevibile, rischio militarizzazione. “È una norma irricevibile, così rischiamo di militarizzare le carceri, la cambieremo”. Il Pd si schiera al fianco dei 50 direttori di carceri italiane che, viene spiegato, hanno inviato una protesta formale al ministero della Giustizia. Si sentono esautorati, ritengono - lo hanno scritto in un documento - che trasferire poteri amministrativi alla polizia penitenziaria sia un ritorno al passato che può creare solo confusione. Il tema del contendere è una misura inserita nel decreto legislativo di revisione dei ruoli delle Forze di Polizia e delle Forze armate. Si dà la possibilità agli agenti di custodia di fare carriera e di diventare dirigenti di prima fascia assumendo poteri che ora sono di stretta osservanza dei direttori. Soprattutto alla polizia penitenziaria verrebbe attribuita la facoltà di poter decidere sulle misure disciplinari all’interno delle carceri. Il provvedimento è in discussione nelle Commissioni Affari costituzionali e Bilancio di Camera e Senato che entro fine mese dovranno dare i propri pareri. Entro 90 giorni ci sarà l’approvazione definitiva del Cdm. I dem sono sul piede di guerra. Hanno già fatto sapere al ministro Bonafede che occorre un passo indietro. Nonostante il capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Francesco Basentini, abbia inviato una circolare in cui si spiega quali saranno i cambiamenti che verranno apportati. Tra le norme previste l’aumento della pianta organica di 620 unità per le Forze di polizia, l’attribuzione di un assegno una tantum per i sovrintendenti capo con 10 anni di servizio maturati prima del riordino, per gli ispettori e il personale che “non beneficia di riduzioni di permanenze né delle relative anticipazioni”. Ma il passaggio contestato è “l’inserimento della carriera dei funzionari tra i ruoli del Corpo di polizia penitenziaria”. Il concetto è espresso più volte nel documento: è prevista “una rimodulazione del rapporto di subordinazione del personale del Reparto di Polizia penitenziaria nei confronti del direttore dell’istituto penitenziario che diventa funzionale, quando il comandante del Reparto riveste la qualifica di primo dirigente”. E ancora: “Il comandante del reparto di polizia penitenziaria quando riveste la qualifica di primo dirigente nell’ambito di un rapporto di subordinazione funzionale e non gerarchica con il direttore dell’istituto assicura il mantenimento della sicurezza e del rispetto delle regole”. “Bene valorizzare il ruolo della polizia penitenziaria ma il testo deve essere corretto laddove sembra svuotare di funzione i dirigenti penitenziari che invece oggi debbono conservare il ruolo preminente oggi ad essi riconosciuto”, afferma il deputato dem Bazoli. “È giusto - spiega il senatore Pd Mirabelli - dare alla polizia penitenziaria prospettive di carriere ma non si può interrompere un rapporto gerarchico con i direttori e senza specificare quali sarebbero le nuove funzioni. Così si crea un dualismo inaccettabile”. Il problema riguarderebbe soprattutto i grandi istituti. Le carceri devono essere amministrate da una figura civile, la tesi. La questione è sul tavolo del Guardasigilli. “Non è una operazione parlamentare, è un testo - dice il pentastellato Cottoi che ora esaminerà la norma - uscito dal governo. Sappiamo che ci sono dei problemi, audiremo le associazioni sindacali della polizia penitenziaria, quello sarà un momento chiave del confronto”. Nuova battaglia tra il Pd e i Cinquestelle, questa volta sulle carceri Libero, 7 novembre 2019 Il prossimo terreno di scontro tra Pd e M5S sarà sulle carceri. Al centro, una norma contenuta nel decreto legislativo di revisione dei ruoli di Forze di Polizia e Forze armate e che darebbe la possibilità di fare carriera agli agenti di custodia in modo che possano diventare dirigenti, togliendo così poteri al direttore di carcere per trasferirli al comandante di Polizia penitenziaria. Per il Pd, così “si rischia di militarizzare le carceri” mentre i grillini dicono che ci sarà un confronto con i sindacati. Le commissioni parlamentari, però, dovranno dare parere entro fine mese e lo scontro si avvicina. Il buon vecchio carcere della pena di Patrizio Gonnella comune-info.net, 7 novembre 2019 Il sistema penitenziario italiano sembra avviato a tornare a un modello di pura custodia e di sola polizia. Il nuovo profilo organizzativo proposto dal governo prevede un notevole ridimensionamento del ruolo del direttore carcerario in favore delle pressioni corporative avanzate dal Sindacato autonomo della Polizia penitenziaria. Si suppone che il tema del reinserimento sociale dei detenuti sia oggi poco gradito, nel clima securitario che si alimenta in modo così spasmodico. Non è certo tempo, dunque, di preoccuparsi di ciò che dice la Costituzione o di quel che insegnano le esperienze avanzate degli anni passati. Oggi ciò che conta è mettere in condizioni di non nuocere che delinque, neutralizzarne la potenziale pericolosità. Del resto, magari, ci si potrà occupare in tempi migliori. Togliere poteri al direttore di carcere e trasferirli al comandante di Polizia penitenziaria: è questo il contenuto di un decreto legislativo del governo vicino all’approvazione definitiva. Sembra un testo salviniano ma è invece una proposta di questa maggioranza che potrebbe minare alla radice quel delicato equilibrio tra istanze di risocializzazione e bisogno di sicurezza che vede nel direttore il suo garante. Era il 1990 quando fu smilitarizzato il corpo degli agenti di custodia e istituito quello di Polizia penitenziaria. Fu una decisione politica di grande rilievo che seguì, a soli nove anni distanza, la trasformazione della Polizia in corpo civile e non più militare dello Stato. Erano tempi, quelli, nei quali chi legiferava aveva un’idea chiara di società e di giustizia. Si era a pochi anni, tra l’altro, dall’approvazione della legge Gozzini che aveva fortemente spinto verso una maggior impatto delle misure alternative alla detenzione rispetto alla pena carceraria. Il modello organizzativo penitenziario scelto a cavallo tra gli anni 80 e 90 cercava di evitare scorciatoie securitarie e puntava su una gestione finalizzata al reinserimento sociale dei detenuti. Per questo si previde che a capo di ogni istituto penitenziario ci dovesse essere un direttore sovraordinato gerarchicamente al comandante di Polizia penitenziaria. Il direttore era ed è garanzia del rispetto degli obiettivi costituzionali della pena. Quel modello sottintendeva un’idea di pena che non dovesse essere solo neutralizzazione fisica. Se in un carcere operasse un poliziotto con una qualifica superiore a quella del direttore sarebbe molto difficile imporre l’esecuzione di un ordine, quale ad esempio quello paradigmatico di non usare la forza fisica. Educatori e poliziotti, responsabili gli uni del trattamento rieducativo gli altri della sicurezza, sono ancora oggi parte di un organigramma più complesso che vede nel direttore il punto di riferimento decisivo e finale. Al direttore spetta l’amministrazione contabile, l’ultima parola sulla disciplina, la sicurezza e l’uso delle armi, l’organizzazione della vita interna, la selezione delle opportunità sociali, educative, culturali e sportive. Sono ora all’esame delle commissioni, prima dell’approvazione finale, i decreti che intendono stravolgere tale modello, sottraendo alla direzione del carcere sia la superiorità gerarchica, sia la decisione finale in ambito disciplinare che di uso delle armi. C’è un evidente intento di ritorno a un modello di pura custodia e di sola polizia, esito di una pressione vigorosa da parte delle organizzazioni sindacali autonome della Polizia penitenziaria, nonché del clima cupo in cui siamo immersi. Manca in questa riforma un’idea globale e moderna di gestione e management delle carceri, salvo il puro e semplice accodarsi alle istanze urlate di taluni sindacati. Da circa 25 anni non si assumono giovani direttori mentre ci si affida opportunisticamente a una progressione verticale di carriera a favore di coloro che indossano la divisa. Le seppur legittime aspirazioni professionali di chi è parte del Corpo di Polizia penitenziaria non devono stravolgere il senso costituzionale della pena. Non c’è coraggio in questa riforma di matrice neo-corporativa. C’è un’idea vecchia e rischiosa di pena che è implicitamente riaffermata come mera custodia e dunque pura sofferenza. Non si investe su figure professionali della contemporaneità, su una riforma in senso moderno dello staff. Non è stato finora sentito il parere degli stessi direttori, in gran parte fermamente contrari a tale degradazione del loro ruolo. Nella storia penitenziaria italiana ci sono attualmente, e ci sono stati in passato, direttori eccezionali che in solitudine si sono battuti per assicurare il rispetto della legalità penitenziaria. Direttori che vengono professionalmente bistrattati solo perché non sono numericamente superiori ai poliziotti, i quali nel tempo sono andati a comporre un esercito di quasi 40 mila agenti. Per questo noi di Antigone, insieme a quei direttori che hanno già avviato una protesta, ci appelliamo a quei parlamentari e ministri sensibili a un’idea non custodialistica della pena, affinché dicano un no vigoroso e costituzionale a questo ulteriore scivolamento di tipo securitario. L’ergastolo ai mafiosi: dietro quella scelta di Valerio Onida Il Fatto Quotidiano, 7 novembre 2019 La sentenza contro il “fine pena mai” ha suscitato molte reazioni negative. Ma la Costituzione parte dal presupposto che nessuno è irrecuperabile. Caro direttore, mai mi sarei aspettato che la sentenza della Corte costituzionale (peraltro non ancora conosciuta nella sua motivazione) sull’articolo 4bis del nostro ordinamento penitenziario - là dove vieta in modo assoluto la concessione di permessi premio ai detenuti condannati per reati di criminalità organizzata a meno che non collaborino con la giustizia - suscitasse tante reazioni negative e preoccupate anche in ambienti di giuristi e in settori di opinione pubblica lontani dalla visione e dalla retorica del “buttare via le chiavi”. Da tempo è (o dovrebbe essere) acquisita nel nostro ordinamento l’idea che, come dice la Costituzione, “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Dunque l’esecuzione delle pene detentive non può mai prescindere dall’obiettivo della risocializzazione del reo. Questa, certo, è una “scommessa”, e per essere vinta richiede il concorso della libera volontà del condannato, ma richiede necessariamente l’offerta a ogni condannato di un “percorso”, anche progressivo, verso la libertà. Per questo la pena dell’ergastolo può essere ammessa costituzionalmente solo a patto che il condannato possa (e sappia fin dall’inizio di potere) compiere un percorso al termine del quale può riconquistare la libertà. Questo nel nostro ordinamento avviene soprattutto attraverso la “liberazione condizionale”, cui si può accedere dopo un lungo periodo di detenzione (minimo 21 anni per gli ergastolani), e sottomettendosi successivamente a un periodo di libertà vigilata. Nel caso dell’ergastolo “ostativo” l’accesso alla liberazione condizionale è consentito solo in caso di collaborazione con la giustizia, salvo che questa risulti impossibile perché non c’è più nulla da scoprire e da accertare. Fino a ieri la giurisprudenza della Corte costituzionale aveva giustificato questa disciplina, non ritenendola in contrasto con l’esigenza di prevedere una possibilità effettiva di liberazione, osservando che la collaborazione (se non impossibile) costituirebbe pur sempre una scelta libera del condannato, e quindi sarebbe accessibile a tutti. Ma è una scelta “libera” quella del condannato che, ad esempio, non abbia mai ammesso i propri crimini, e dunque per collaborare dovrebbe confessare? Nessuno può essere obbligato, anche dopo un giudicato di condanna, ad accusare se stesso. O, ancora, è una scelta “libera” che si può esigere dal condannato quella di collaborare quando ciò comporti accusare un proprio figlio o altro stretto congiunto, o esporre i propri cari a vendette e ritorsioni da parte delle organizzazioni criminali (e non bastano certo i programmi di protezione eventualmente previsti)? Insomma, altro è richiedere al condannato un effettivo “ravvedimento” e la dimostrazione di un distacco definitivo dalle organizzazioni criminali; altro pretendere che questo distacco possa essere dimostrato esclusivamenteattraverso una attiva collaborazione con la giustizia. Per fare un paragone, è come se da prigionieri di guerra lo Stato che li ha catturati pretendesse non solo la cessazione definitiva di ogni attività ostile nei propri confronti, ma anche l’arruolamento nel proprio esercito per combattere attivamente con le armi i nemici dello Stato cui un tempo si erano associati. Senza dire, poi, che la condizione ineludibile della collaborazione per conquistare la libertà potrebbe indurre qualcuno a “collaborare” anche costruendo accuse false. Il principio per cui non si può ammettere una pena detentiva perpetua, senza una possibilità effettiva di uscita, è sancito non solo dalla Costituzione, ma anche dalle convenzioni internazionali sui diritti, cui l’Italia non può certo sottrarsi, e dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo: la quale infatti, prima dell’ultima pronuncia della Corte costituzionale, ha emesso una sentenza in cui ha condannato l’Italia per avere violato questo principio nel caso di un condannato all’ergastolo cosiddetto “ostativo”. Non ha senso agitare il rischio di “liberazioni” incondizionate di massa dei condannati per mafia. Resta in ogni caso la necessità di valutare - e lo può e lo deve fare la magistratura nei casi concreti, nell’ottica costituzionale della “individualizzazione” della pena e del trattamento - l’effettività del percorso di risocializzazione e del distacco dalla criminalità organizzata, non certo limitandosi a registrare il comportamento “regolare” del detenuto in carcere. Ma - dicono alcuni - la mafia si può combattere efficacemente solo con pene che non possono di fatto venir meno in assenza di collaborazione: chi entra nella mafia fa un giuramento di sangue che potrebbe essere rotto solo passando esplicitamente e attivamente all’”esercito” avversario, quello dello Stato che la persegue. Questa tesi ha due punti deboli. Il primo è che suppone una “forza” dell’affiliazione mafiosa comunque più forte di qualsiasi processo personale di ravvedimento: in sostanza il mafioso sarebbe “irricuperabile” alla società, salvo convincerlo o costringerlo a passare al “nemico”. È un corollario dell’idea per cui l’attitudine a delinquere sarebbe un marchio incancellabile. La Costituzione invece parte dal presupposto che nessuna persona è a priori irrecuperabile. Il secondo punto debole della tesi è che sembra supporre che di fronte a un male come la mafia si debba poter agire anche al di là dei limiti normalmente imposti all’esercizio del potere dello Stato. Con questo tipo di argomenti si potrebbe giungere a giustificare la pena di morte o l’uso della tortura, con la scusa che bisogna combattere mali estremi, come il terrorismo. Ma, come ha ricordato la Corte Suprema dello Stato di Israele in una famosa sentenza, “una democrazia deve talora combattere con un braccio legato dietro alla schiena”, ma questo ne fa la forza. Rispettare sempre la dignità umana e i diritti inviolabili costituisce la sua essenza, ed è un importante aspetto della stessa esigenza di sicurezza. “Noi giudici di sorveglianza da sempre siamo a rischio minaccia come i pm” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 novembre 2019 Intervista a Fabio Gianfilippi, il magistrato che ha portato l’ergastolo ostativo alla Consulta. Diversi magistrati hanno criticato la Corte costituzionale per la sentenza sul regime dell’ergastolo “ostativo”, dichiarando il 4bis incostituzionale, nella parte in cui escludeva radicalmente dai permessi premio i condannati per reati di mafia e assimilati, che non avessero intrapreso un percorso di collaborazione con la giustizia. Per opporsi alla sentenza della Consulta è stato anche detto che ciò comporterebbe la messa in pericolo dei magistrati di sorveglianza che potrebbero essere minacciati dalla mafia per ottenere i benefici. Di questo e altro ancora, ne parliamo con Fabio Gianfilippi, magistrato di sorveglianza di Spoleto e componente del Tribunale di sorveglianza di Perugia. È colui, tra l’altro, che ha sollevato alla Consulta il caso di legittimità costituzionale nei confronti dell’ergastolano ostativo Pietro Pavone. Dopo la sentenza della Corte Costituzionale sull’ergastolo ostativo, ci sono state diverse polemiche. In particolare, tra i detrattori, ha preso il sopravvento il discorso per cui voi come magistrati di sorveglianza potreste essere esposti a minacce mafiose. Lei pensa che sia una osservazione fondata? Io faccio il magistrato, quindi ritengo che il rischio di subire pressioni sia parte di questo mestiere che mi onoro di aver scelto. Credo che queste pressioni possano esserci, così come ci sono per i colleghi pubblici ministeri o i giudici che ogni giorno scrivono sentenze riguardanti anche persone che hanno collegamenti con la criminalità organizzata. Certamente il rischio esiste, ma è un rischio che peraltro non è una novità che deriva da quello che ha detto o dirà la Corte costituzionale: la magistratura di sorveglianza si occupa da molti anni di detenuti per reati gravissimi, e anche di mafia, e già oggi valuta le loro richieste di differimento della pena per motivi di salute, le richieste di permesso per gravi motivi, oppure si occupa anche di valutare la concessione di benefici penitenziari nei confronti di quei detenuti per reati di mafia, che non siano collaboratori, ma che abbiano avuto la valutazione di collaborazione impossibile con la giustizia, cosa quest’ultima che viene stabilita proprio dal Tribunale di Sorveglianza attraverso una valutazione molto rigorosa. Quindi la nostra esposizione non è un elemento di novità. è un dato che fa parte del nostro impegno, a cui si risponde con la professionalità. Mi sento di dire che non vedo delle novità rispetto a questo punto. Nino Di Matteo, in una trasmissione televisiva ha parlato di un unico tribunale di sorveglianza, come quello previsto per il 41bis, a Roma. Pensa che sia utile? Non ho ascoltato la trasmissione televisiva, ma non credo corrisponderebbe al principio costituzionale del giudice naturale l’eventuale previsione di un accentramento, che per altro allontanerebbe il giudice dalla conoscenza della persona, che è invece fondamentale per apprezzarne le evoluzioni nel tempo. Non vedo poi come questo potrebbe ridurre il rischio di esposizione dei magistrati, che anzi si concentrerebbe sulle poche unità di quel Tribunale. In questi giorni ci sono petizioni on line, interventi politici, tutti volti ad avanzare proposte che mirano in qualche modo a reintrodurre l’automatismo reclusivo... Innanzitutto penso che si debbano attendere le motivazioni della Corte che ha solo emesso un comunicato stampa, certamente molto dettagliato, ma che lascia intatta la necessità della doverosa lettura delle motivazioni per capire quale in quali termini la Corte costituzionale sia intervenuta. Dopo di che, il secondo punto del quale sono certo è che qualunque intervento il legislatore intendesse assumere, non potrà che essere un intervento che segua il percorso logico motivazionale deducibile dalla decisione della Corte. Certamente è chiaro che è necessaria una valutazione discrezionale, prudente, informata e che preveda massima attenzione alle questioni di sicurezza, rilasciata alla magistratura di sorveglianza: questo possiamo dire che è un punto fermo. Ci sono state delle osservazioni da parte di alcuni magistrati, come ad esempio Giancarlo Caselli, sempre a proposito della concessione dei permessi premio e dei requisiti per accedervi. In sostanza osservano che non è affidabile il mafioso che rivendica di essere stato un detenuto modello, visto che il rispetto formale dei regolamenti carcerari è una regola del codice della mafia. Ma è così? Ho sentito molte volte queste osservazioni in questi giorni. Intanto diciamo che questa visione sminuisce di molto l’osservazione che negli Istituti penitenziari si fa sui detenuti per mandato della magistratura di sorveglianza. A fondamento della concessione, ad esempio di un permesso premio, non si tratta di valutare solo la semplice buona condotta penitenziaria, visto che si tratta di un prerequisito minimo per ogni detenuto per qualunque reato. Quando parliamo di detenuti conn profili particolarmente impegnativi, come quelli che oggi ci occupano, si effettua una osservazione che deve riguardare invece la riflessione critica sui fatti di reato, il suo atteggiamento verso le vittime e verso lo stile di vita che a suo tempo aveva abbracciato. La stessa nozione di buona condotta deve comprendere un focus sui comportamenti specificamente tenuti: ad esempio l’abbandono nel tempo di atteggiamenti prevaricatori o di pressione su detenuti che abbiano magari un livello criminale più basso. O il mantenimento di uno stile di vita ancora rappresentativo di quegli approcci: ad esempio con rifiuto di lavori semplici e umili, come quelli spesso disponibili in carcere. Diventa inoltre importante valutare le rimesse in denaro che arrivano dai famigliari e gli acquisti che si fanno al sopravvitto, si può verificare cosa succede alle famiglie sui territori, cioè se vi siano ancora degli stili di vita incompatibili con i redditi dichiarati. Non è quindi la buona condotta intesa come mera assenza di rilievi disciplinari ad essere parametro importante per la concessione, ma un complessivo atteggiamento dal quale si possa dedurre l’allontanamento del detenuto dallo stile di vita pregresso. Naturalmente a questo poi si aggiunge una valutazione particolarmente seria, che riguarda i profili di pericolosità sul territorio, attraverso le informazioni che arrivano sull’operatività dei gruppi criminali di riferimento. Quindi l’ottenimento di un beneficio è frutto di un percorso realmente intenso? Certamente. E quando il magistrato di sorveglianza valuta il caso specifico deve avere a disposizione una istruttoria che consideri tutte gli elementi di cui ho parlato. Parlare della sola buona condotta è uno sminuire il lavoro che si fa in carcere. Per esempio limitarsi a segnalare che un detenuto non ha mai avuto un rapporto in carcere, ecco questo non risponde alle esigenze richieste per la valutazione, che sono invece molto più intense. Queste valutazioni valgono anche quando si parla di collaboratori di giustizia: la differenza sta nel fatto che questi ultimi godono di una speciale legislazione premiale che gli consente l’accesso alla valutazione sulle misure in modo molto anticipato, in relazione con il loro contributo che, certamente, è particolarmente significativo della rescissione dei loro legami con la criminalità organizzata. Invece il detenuto per reati di mafia, che non collabori con la giustizia, dovrà attendere i termini di legge (per un permesso premio ad esempio almeno dieci anni di pena, o quindici per i recidivi) e si valuteranno i progressi che ha fatto nel tempo. C’è stata anche la sentenza Cedu sulla concessione della liberazione condizionale agli ergastolani non collaboranti. Se non dovesse intervenire il legislatore, potrebbe esserci una sentenza pilota? La sentenza Viola è stata definita una sentenza quasi-pilota, perché ha dato una chiara indicazione di sistema all’Italia: si può dire che l’indicazione per un intervento preferibilmente del legislatore è sicuramente presente e non si può escludere che, se non interverrà, vi saranno nuovi ricorsi alla Cedu e il tema della liberazione condizionale potrebbe essere portato in Corte costituzionale. Per quanto riguarda il resto occorre leggere le motivazioni della sentenza della Consulta perché quello che la Cassazione e il Tribunale di Perugia remittenti chiedevano, era riferito in particolare al permesso premio con le sue caratteristiche, cioè come misura che serve a costruire i mattoni del percorso di risocializzazione, uno strumento che possa essere sperimentato per qualunque detenuto anche condannato alla pena dell’ergastolo. Ora attendiamo di leggere come la Corte costituzionale declinerà questa apertura sul permesso premio. Dopo la sentenza Consulta i boss della camorra si “dissociano”, così niente ergastolo di Vincenzo Iurillo Il Fatto Quotidiano, 7 novembre 2019 Nove casi. Cambiano gli equilibri camorristi, ma soprattutto pesa la recente sentenza della Consulta contro l’ergastolo ostativo. Secondo un investigatore è il risultato di due fenomeni in corso: lo smottamento degli equilibri camorristi nel rione delle Case Celesti di Secondigliano, e la recente sentenza della Consulta contro l’impianto dell’ergastolo ostativo, che ha aperto nuovi spiragli a futuri permessi carcerari e sconti di pena. Ed ecco, forse, spiegato il boom di dissociazioni nel clan degli Scissionisti di Napoli. Almeno nove casi, secondo quanto risulta al Fatto Quotidiano. Alcune pubbliche, perché avvenute in un’aula di Tribunale, altre coperte dal riserbo della Dda che le sta verificando con le cautele del caso. Altre, infine, rivelate in commissione Antimafia, annunciate da lettere con queste date: l’11 giugno ha scritto alla Procura di Napoli Oreste Sparano, il 21 giugno Carmine Amato, il 25 giugno Carmine Pagano, il 18 luglio Carmine Calzone e Ciro Mauriello, il 23 luglio Ciro Caiazza. L’ultima dissociazione - che si distingue dal pentimento perché non si rendono accuse contro terzi, ma solo contro se stessi - è di pochissimi giorni fa: nel corso del processo con rito abbreviato che lo vede imputato dell’omicidio del 2011 di Ciro Nocerino, Roberto Manganiello ha chiesto scusa ai familiari della vittima e ha affermato di non avere più rapporti con la cosca Marino, di cui era ritenuto il reggente. Manganiello è già stato condannato in secondo grado a 21 anni - in primo grado gli era stato inflitto l’ergastolo - dopo aver confessato, durante le udienze di Appello, il duplice omicidio di Claudio Salierno e del nipote Fulvio Montanino. I killer agirono nell’ottobre 2004, in via Vicinale di Cupa dell’Arco, nei pressi del bunker di Paolo Di Lauro detto Ciruzzo ‘o milionario, il boss che ha ispirato il personaggio di don Pietro Savastano in Gomorra. Fu il delitto che diede il via alla faida tra il clan Di Lauro e gli Scissionisti. Manganiello non è un camorrista di seconda fila: è il nipote di Gennaro Mc Kay Marino, il capo del clan che ha la sua roccaforte nei 144 appartamenti delle Case Celesti. Per i pm Vincenza Marra e MaurizioDe Marco, Montanino ha retto lefiladellacoscaapartire dal 2012, dopo l’omicidio a Terracina del reggente dell’epoca, il fratello di Gennaro, Gaetano Marino. Manganiello avrebbe ereditato il comando dal primo marito di Tina Rispoli, la signora che a marzo, con un matrimonio “Casamonica style”, si è risposata con il famosissimo neomelodico Tony Colombo. La coppia ormai regina del gossip è stata diverse volte ospite del salotto di Barbara D’Urso e nei giorni scorsi Selvaggia Lucarelli sul Fatto ha ric ordato che questo è avvenuto senza ricordare il contesto criminale in cui nacque la relazione tra Marino e la signora Rispoli (che, va ricordato, è incensurata), e le circostanze che fanno sembrare inverosimile che la signora Rispoli non conoscesse il “lavoro” del marito boss. Nelle stesse ore della dissociazione di Manganiello, è arrivata la sentenza grazie alla quale Raffaele Amato, altro esponente di spicco della camorra di Secondigliano, ha evitato l’ergastolo ed è stato condannato a “soli” 20 anni in un processo stralcio per l’omicidio Salierno-Montanino. Sconto di pena ottenuto dopo aver scritto una lettera ai giudici in cui ha ammesso di aver saputo dell’agguato mentre s i trovava in Spagna e di non aver fatto nulla per impedirlo. Non è una dissociazione vera e propria. Non ancora. Qualcosa però bolle da tempo nelle pentole dei piani difensivi di vecchi e nuoviboss di camorra. Da prima della sentenza della Consulta. In un’audizione in Commissione parlamentare antimafia il 24 ottobre, il procuratore capo di Napoli Giovanni Melillo ha fornito dati e circostanze: “C’è una linea di evoluzione della strategia processuale dei gruppi criminali che assume le forme di una simulazione di atteggiamenti collaborativi per contenere le pene”, ha avvertito Melillo. Che ha ricordato di aver ricevuto tra il 21 giugno e il 23 luglio “una serie di lettere dei capi del cartello Amato-Pagano che annunciavano volontà collaborative, che poi si sono espresse solo in affermazioni di tipo dissociativo. È impossibile - è il parere di Melillo - non leggere in questa concentrazione temporale il segno di una strategia di tutto il vertice dell’organizzazione: alcune di queste figure sono oggetto di condanne definitive”. Le direttive della Procura napoletana riflettono un orientamento molto duro verso le dissociazioni: i pm stanno infatti continuando a chiedere gli ergastoli, come nel caso di Manganiello per l’omicidio Nocerino. Vengono ritenute, secondo le nostre informazioni, come un negoziato che ha il solo scopo di abbandonare le falangi militari dei clan per salvaguardarne i vertici, e i loro interessi nella corruzione e nel riciclaggio. Una posizione netta. Che ovviamente si confronta con quelle opposte del mondo forense. L’ex vicepresidente nazionale della Camera Penale, Domenico Ciruzzi, auspica “che le attenuanti previste dalla dissociazione siano normate anche nei casi di mafie, come già lo sono per il terrorismo, per ridurre la discrezionalità dei magistrati e ribadire che la pena deve rieducare”. Per l’avvocato Alfonso Furgiuele, docente di Procedura Penale della Federico II, “sul piano astratto il doppio binario viola la Costituzione e non può condurre a presunzioni assolute contro il detenuto mafioso. Sul piano concreto, è giustificabile la diffidenza verso le scelte collaborative dei mafiosi, che vanno verificate con rigore”. Bonafede: “Csm, riforma urgente”. Ermini: “Ma senza violare la Carta” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 7 novembre 2019 Confronto sulle modifiche “non rinviabili”, secondo il ministro. Anche il vicepresidente del Csm, David Ermini si è dichiarato favorevole ad una riforma dell’organo di autogoverno delle toghe. “Non è più rinviabile il progetto di riforma ordinamentale della magistratura”. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede lo ha detto ieri nel suo intervento al corso straordinario della Scuola superiore della magistratura presso la sede della Banca d’Italia. È tornato così su un tema aperto da tempo, richiamato nel programma di governo anche del primo governo Conte e ora destinato a essere definito con la riforma del processo in via di elaborazione a via Arenula. Quella dell’ordinamento giudiziario, in particolare, è una riforma necessaria “anche alla luce dei gravi fatti emersi la scorsa primavera” ha aggiunto il guardasigilli, a proposito dell’inchiesta di Perugia che ha coinvolto l’ex presidente dell’Ann Luca Palamara e cinque togati del Csm, poi costretti alle dimissioni. “Si è trattato di azioni gravissime - ha detto Bonafede - che hanno danneggiato prima di tutto la stragrande e silenziosa maggioranza dei magistrati. Ora è necessario rafforzare gli strumenti che ne garantiscono l’indipendenza, ostacolando ogni ingerenza della politica: ciò sarà possibile”, secondo il ministro, “soltanto bloccando, una volta per tutte, le cosiddette ‘ porte girevoli’ tra politica e magistratura e individuando sistemi di incompatibilità per i membri del Csm e per i magistrati fuori ruolo”, ha proseguito il guardasigilli, ricordando infine che “il merito deve essere il parametro esclusivo nella crescita professionale del magistrato”. Sul punto va ricordato che ad ogni legislatura vengono presentare riforme in tal senso. Nel 2013, addirittura, venne elaborato al Senato un testo bipartisan, del quale erano firmatari Pierantonio Zanettin (Fi) e Felice Casson (Pd), poi finito alla Camera su un binario morto. Anche il vicepresidente del Csm, David Ermini si è dichiarato favorevole ad una riforma dell’organo di autogoverno delle toghe. “Ma non al sorteggio”, ha puntualizzato. “Il Csm è pronto a interventi di autoriforma che incidano sulla propria organizzazione, evitando comunque, come nel caso del sorteggio, norme di dubbia legittimità costituzionale”, ha ribadito Ermini, auspicando che venga favorito “l’accesso degli esponenti maggiormente dotati, sul piano scientifico e culturale, della magistratura, dell’accademia e del Foro”. Psicologi, legali e toghe insieme per ridurre gli errori giudiziari di Giulia Merlo Il Dubbio, 7 novembre 2019 Il convegno del Cnf sulle linee guida psicoforensi. Il Professor Gulotta: “nel processo si eviti la visione a tunnel: fatta un’ipotesi, la mente va a caccia di tutto ciò che la comprova, mentre tende a giudicare di poco interesse tutto ciò che la smentisce”. “Il garantismo è un principio che esula dalla giurisdizione ed è una cultura”, è stato l’esordio del presidente del Cnf Andrea Mascherin, per spiegare lo spirito del convegno “Gli errori giudiziari e la loro riduzione, le linee guida psicoforensi”, che ha visto la partecipazione non solo di giuristi, ma anche di psicologi forensi, coordinati nei lavori dal consigliere Cnf, Stefano Savi. L’obiettivo, infatti, è stato quello di analizzare le ragioni degli errori giudiziari, a partire dalla valutazione degli errori di valutazione umani. Ad affrontare il tema è intervenuto Guglielmo Gulotta, già professore di psicologia giuridica all’Università di Torino, ma anche avvocato e psicoterapeuta, e ha cominciato mettendo in luce una enorme carenza del nostro sistema: “Nel mondo anglosassone esistono raccolte di dati per analizzare gli errori più comuni commessi nei giudizi, estrapolandoli dalle sentenze di revisione. Noi sappiamo quanti soldi sono stati spesi per ingiuste detenzioni, ma non sappiamo quali errori le hanno provocate”. Proprio perché i giudici siano meno influenzabili da fattori esterni, ma soprattutto che la formazione della prova non sia condizionata da elementi esterni nella valutazione di testimoni, perizie o confessioni, sono state stilate le linee guida psicoforensi. “Servono a evitare la cosiddetta visione a tunnel: fatta un’ipotesi, la mente umana va a caccia di tutto ciò che la comprova, mentre tende a giudicare di poco interesse tutto ciò che la smentisce”, ha spiegato Gulotta. Una di queste regole, per esempio, riguarda il metodo di condurre le identificazioni: “Bisognerebbe usare la tecnica del doppio cieco: l’ufficiale non deve sapere se oltre il vetro c’è o meno il sospettato, altrimenti rischia di condizionare con il suo comportamento la vittima che lo deve identificare. Lo stesso vale per le perizie: al perito non si dovrebbe chiedere se la pistola ha effettivamente sparato quel bossolo, ma gli andrebbero consegnati dieci bossoli, chiedendo se uno di essi sia stato esploso dall’arma ritrovata. Tesi accolta e sostenuta anche dal penalista Antonio Forza: “Gli errori più grossi nel processo penale si fanno nella fase investigativa, dove gli investigatori rischiano di orientarsi in una certa maniera e poi perdono di vista tutti gli elementi dissonanti rispetto a una prima valutazione”. Sulla stessa linea, dal fronte opposto della magistratura, si sono confrontati anche i magistrati Fabrizio Gandini del tribunale di Roma e il consigliere di Cassazione, Angelo Costanzo: “Nel celebrare i processi dobbiamo recuperare una sintassi logica, senza le illusioni del formalismo logico. Nel processo si traducono i fatti della vita in formule linguistiche, poi i giudici valutano se esse siano sussumibili in specifiche fattispecie penali”. Il professore dell’Università di Padova, Giuseppe Sartori, si è occupato invece di come i nuovi studi neuroscientifici possano essere utili strumenti di perizia, per valutare la presenza di malattie psichiatriche. “L’aleatorietà della perizia psichiatrica è dovuta al fatto che le diagnosi sono necessariamente condizionate dall’elemento soggettivo. Dunque, pur essendo prove scientifiche, hanno un tasso di attendibilità molto più basso della prova del Dna”. Sartori ha spiegato la rilevazione delle malattie psichiatriche si basa sulle dichiarazioni del paziente, mentre le neuroscienze permettono “attraverso una risonanza magnetica del cervello che mostra i correlati nervosi, di aggiungere alla valutazione un dato oggettivo non manipolabile, confermando o smentendo la percezione del soggetto in modo non mediato dalla sua percezione”. Sul fronte più processuale, la professoressa Antonietta Curci dell’Università di Bari si è occupata dell’attendibilità della memoria di un testimone e dei pericoli delle domande suggestive nella fase delle indagini preliminari: “Il rischio è quello della suggestionabilità interrogativa: l’accettazione e l’autoconvinzione di ricordi spuri, veicolati all’interrogato da chi conduce l’interrogatorio”. Sul fronte opposto di chi giudica, ha aggiunto la professoressa Patrizia Catellani dell’Università Cattolica di Milano, “il rischio è quello della correlazione illusoria, ovvero che le esperienze precedenti o gli stereotipi possano influenzarne il ragionamento. Un esempio classico: la porabilità che chi è spacciatore possa commettere anche rapina”. Di qui l’importanza delle linee guida, sottolineata anche dall’ex giudice di Cassazione, Rocco Blaiotta, autore della storica sentenza Cozzini, “perché sono il frutto del lavoro di autoregolamentazione dei soggetti più preparati: psicologi, avvocati e magistrati”. L’utilizzo del sapere scientifico nel processo “è intriso di insidie: i giudici non sono preparati ad utilizzarlo, ma anche la scienza è mutabile. Per questo le linee guida prevedono di valutare ogni tecnica scientifica utilizzata con il grado di condivisione che essa ha nella comunità scientifica di riferimento”. Le linee guida psico forensi sono scaricabili dal sito psicologiagiuridica.com. ‘Ndrangheta, ecco l’alternativa per madri e figli dei boss di Alessia Guerrieri Avvenire, 7 novembre 2019 Firmato “Liberi di scegliere”, l’intesa tra Miur, Giustizia, Pari opportunità, Cei e Libera per dare una rete di supporto alle famiglie che decidono di dissociarsi dalla vita criminale. Garantire pari opportunità ai minori provenienti da contesti familiari mafiosi, fornendo loro un’occasione alternativa alla vita criminale; valorizzare le potenzialità dei minori che attuano questa scelta creando una rete che li accompagni nella nuova realtà sociale. E ancora, individuare una rete di famiglie, case famiglia e strutture che diano supporto economico, logistico, psicologoco e lavorativo alle donne e ad interi nuclei familiari che decidono di dissociarsi, a seguito dei loro figli, dai contesti ‘ndranghetisti. Sono questi i punti principali del protocollo d’intesa “Liberi di scegliere” stato siglato dal ministro dell’Istruzione, Lorenzo Fioramonti, con i colleghi della Giustizia, Alfonso Bonafede, e delle Pari Opportunità, Elena Bonetti, il Procuratore Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, Federico Cafiero De Raho, il segretario della Cei, monsignor, Stefano Russo, e don Luigi Ciotti, presiedente di Libera, i capi della procura e della procura per i minorenni di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri e Giuseppina Latella, il presidente del tribunale dei minori della stessa città, Roberto Di Bella. Un progetto, la cui fase sperimentale era già partita nel 2018 con il contributo economico della Cei attraverso i fondi per l’8xmille, che in questa seconda fase vede invece la Conferenza episcopale italiana anche tra i firmatari del protocollo. Un ruolo fondamentale in questo percorso è quello delle madri, delle donne che decidono di dissociarsi dal contesto ‘ndranghetistico. “Sono le mamme che da sole, in modo silenzioso, si avvicinano ai magistrati per trovare per loro e i loro figli un’alternativa”, ha detto Cafiero de Raho, spiegando che “25 donne si sono già fatte avanti e sono state portate fuori dal contesto ‘ndranghetista, mentre altre 25 sono in attesa”. L’intervento dei ministri e della Cei consente di guardare al progetto per il futuro come un grimaldello che cerca di scassinare un sistema chiuso. “La ‘ndrangheta si sgretolerà - ha aggiunto - quando si capirà che al di fuori ci sono prospettive di miglioramento. I criminali ci saranno sempre ma non sarà il sistema criminale di oggi”. “La lotta alla criminalità è complessa”, ha detto il ministro Fioramonti, sottolineando l’importanza “della sfida di ricreare un contesto familiare per ragazzi che si trovano a nascere in contesti affettivi che non fanno il loro bene. Ed è compito dello Stato ricreare le condizioni per permettere a tutti i ragazzi e le ragazze di fiorire”. L’iniziativa - ha spiegato poi il ministro Bonafede - “sancisce la dimensione più bella giustizia, quella più alta. Sbagliamo se pensiamo alla giustizia nel perimetro in un’aula di tribunale. Giustizia è legalità, è formare le giovani generazioni a vivere in maniera onesta e libera”. Dobbiamo far capire - ha aggiunto - che “si possono recidere i legami con la ‘ndrangheta. L’ambizione è dare speranza a chi non l’ha mai avuta”. Il fatto che si assicuri un’alternativa ai minori che vivono in contesti di criminalità organizzata o che siano vittime della violenza mafiosa e che “la assicuriamo anche ai familiari che escono dalle logiche criminali - ha sottolineato la ministra Bonetti -, credo ci porti al cuore di ciò che è il senso più alto delle istituzioni che abbiamo l’onore di rappresentare”. Quel che è certo è che “occorre una svolta perché sono 164 anni che noi parliamo di mafia. Nonostante l’impegno di chi ha sacrificato la propria vita, c’è tutta la nostra gratitudine, ma serve una svolta”, ha detto don Luigi Ciotti, presidente di Libera, intervenendo al Miur per la firma del protocollo. “Bisogna cambiare la prospettiva. Perché se è avvenuto ciò forse lo abbiamo anche permesso - ha aggiunto - Uno scatto in più deve essere fatto da tutti. La mafia più pericolosa è la mafia delle parole, parlare e non fare. Ne abbiamo sentite tante nel corso degli anni”. Voglia di mafia. Anche al processo Black Monkey cade l’accusa di “associazione” di Ermes Antonucci Il Foglio, 7 novembre 2019 L’antimafia militante non ci sta. La settimana scorsa, la Corte d’appello di Bologna ha fatto cadere l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso nel processo di secondo grado denominato “Black Monkey”, il primo grande processo per mafia in Emilia Romagna. L’inchiesta, coordinata dalla Dda di Bologna, era esplosa nel 2013 e ipotizzava l’esistenza di un’associazione mafiosa guidata da Nicola Femia (originario di Marina di Gioiosa Ionica e in passato fedelissimo del boss della ‘ndrangheta Vincenzo Mazzaferro) che faceva profitti con il gioco d’azzardo web illegale e slot machine truccate, grazie all’impiego di schede contraffatte (chiamate appunto Black Monkey), che consentivano di dichiarare solo una parte dei soldi giocati ai Monopoli di stato. L’attività illegale messa in piedi da Femia si sarebbe fondata anche su riciclaggio, intestazione fittizia di beni, corruzione, estorsioni e minacce, con il ricorso a esponenti della camorra e della ‘ndrangheta. Nel corso delle indagini, inoltre, era anche stata intercettata una telefonata tra Femia e il suo sodale Guido Torello, in cui quest’ultimo minacciava (“Gli sparo in bocca e la finiamo qua”) il giornalista dell’Espresso Giovanni Tizian, che all’epoca sulla Gazzetta di Modena si era occupato proprio delle attività criminali di Femia. Se in primo grado, nel febbraio 2017, il tribunale di Bologna aveva condannato i 23 imputati a quasi 170 anni di carcere complessivi (26 anni e 10 mesi per Femia), riconoscendo per la prima volta l’esistenza di un’associazione di tipo mafioso, le cose sono cambiate in secondo grado. Per i giudici della Corte d’appello di Bologna, infatti, quella messa in piedi da Femia non è stata un’associazione mafiosa, ma un’associazione a delinquere semplice, che ha adoperato in alcune circostanze il metodo mafioso. Ne è conseguita una diminuzione delle pene inflitte agli imputati, a partire proprio da Femia (16 anni). La pronuncia della Corte d’appello di Bologna, giunta a pochi giorni dalla clamorosa bocciatura del processo Mafia Capitale da parte della Cassazione, ha scatenato una nuova ondata di polemiche del fronte dell’antimafia militante e politico-editoriale. “Come per la sentenza della Corte di Cassazione che ha decretato l’inesistenza del 416 bis per il processo Mafia Capitale, così per il processo d’appello Black Monkey rispetto la sentenza, ma mantengo dubbi e inquietudine”, ha per esempio dichiarato Nicola Morra, presidente della commissione Antimafia. “Non sarebbe mafia, ancora una volta. Semplice associazione a delinquere. Mi auguro che sia così, che le ‘ndrine non abbiamo i loro tentacoli in questo mondo, che non ci sia mafia. Sarebbe solo crimine semplice, ma stento a crederlo”, ha aggiunto l’esponente del M5s. Anche l’Espresso ha criticato la bocciatura dell’ipotesi mafiosa da parte dei giudici: “Una formula tranquillizzante per l’Emilia Romagna, che potrà essere usata dai più scettici per affermare che avevano ragione loro, che qui la mafia non c’è, non è radicata. Che in fondo è solo questione di delinquenza comune”. In realtà, nessuno sta sostenendo che la mafia in Emilia Romagna non esista. La sentenza di primo grado del maxi processo Aemilia ha certificato la presenza della ‘ndrangheta nella regione, con condanne complessive a oltre 1.200 anni di carcere per 118 imputati, e nulla sembra far pensare che l’impianto accusatorio possa cedere nei giudizi successivi. Peraltro, come abbiamo specificato, nella vicenda Black Monkey la Corte d’appello di Bologna ha soltanto negato l’esistenza di un’associazione mafiosa vera e propria, ma ha riconosciuto l’aggravante del metodo mafioso. La stessa valutazione era stata alla base delle condanne per gli imputati che avevano scelto il rito abbreviato (nel disinteresse generale). Il punto è che esiste una netta differenza tra un’associazione mafiosa in senso proprio, che impone in una comunità la sua forza di intimidazione e si avvale dell’assoggettamento e dell’omertà che ne derivano, e un’associazione criminale che invece ricorre occasionalmente a metodi mafiosi per svolgere le sue attività illecite, le sue estorsioni e le sue minacce. In questo secondo ambito ricade, secondo i giudici d’appello, l’associazione al centro del processo Black Monkey (e nulla esclude che in Cassazione il verdetto possa essere ribaltato nuovamente). A qualcuno, però, il riconoscimento dell’aggravante mafiosa non sembra bastare. Occorre necessariamente affibbiare l’etichetta della “associazione mafiosa”. Forse per poter continuare a pubblicare inchieste, libri e film sulla mafiosa Emilia Romagna. E se Nicosia fosse innocente? Non è chiaro quale reato abbia commesso di Tiziana Maiolo Il Riformista, 7 novembre 2019 Un’accusa indimostrabile, un’operazione dal titolo mediatico, qualche manciata di intercettazioni. E un uomo già dichiarato colpevole perché siciliano, dunque mafioso, e perché ha un precedente penale. Poco. Ma quanto basta per scatenare le iene giustizialiste. L’ex assistente parlamentare ha il torto di presentarsi all’opinione pubblica nel peggiore dei modi. Pesano i giudizi su Falcone e Borsellino. Battute orribili. Che però non sono reati. Il reato, “associazione mafiosa”, è indimostrabile. Il nome dell’operazione è molto mediatico, “passepartout”. Il combinato disposto ha portato all’arresto di Antonello Nicosia. Il quale ha già nel suo curriculum due peccati originali il primo è quello di essere siciliano e, sebbene si stia parlando di mafia, non mette conto parlarne, altrimenti ci toccherebbe spiegare al colto e all’inclito le tante facce del razzismo. Ma il secondo, che più che un peccato è un reato (spesso nel nostro Paese si fa confusione), è un precedente serio, perché Antonello Nicosia è stato condannato una quindicina di anni fa a dieci anni di carcere per traffico di sostanze stupefacenti. Di fronte al suo arresto di questi giorni, sarebbe quindi importante sapere se per esempio lui abbia oggi commesso ancora lo stesso reato, se cioè sia un delinquente recidivo, nonostante abbia già avuto un percorso carcerati° e nonostante che, da uomo libero, si sia impegnato a dirigere un Osservatorio internazionale dei diritti umani, e poi a condurre una trasmissione su una tv locale proprio sui temi della riforma carceraria, oltre a un impegno politico a fianco dei Radicali Italiani. Se nonostante questo ricco percorso culturale e di vita Antonello Nicosia fosse stato beccato a spacciare e a trafficare con qualche chilo di cocaina, i presupposti per la custodia cautelare in carcere ci sarebbero tutti: pericolo di reiterazione del reato, quanto meno. Ma non pare sia così. C’è invece il reato indimostrabile: associazione mafiosa. C’è un apposito articolo del codice penale che lo prevede, il 416 bis, che distingue l’attività dei mafiosi da quella della delinquenza ordinaria per la “forza di intimidazione” e la ‘condizione di assoggettamento e di omertà” che i primi sono in grado di esercitare sul territorio in cui agiscono. Sono quelle condizioni che di recente la Corte di cassazione non ha riconosciuto nell’attività, comunque criminosa, dei condannati nel processo romano indebitamente definito “Mafia capitale”. Antonello Nicosia si presenta all’opinione pubblica nel peggiore dei modi, con la solita mandata di intercettazioni depositate non in cancelleria ma direttamente in edicola, nelle tv e sui sociaL I carabinieri e la guardia di finanza lo hanno ascoltato mentre faceva battutacce (serie o facete?), parlando in auto con un amico, su Falcone e Borsellino, che secondo lui non meriterebbero di esser ricordati nell’intestazione dell’aeroporto di Palermo, perché le loro morti sarebbero state una sorta di “incidente sul lavoro”. Un po’ quel che si dice, in certi ambienti, dei poliziotti O anche dei rapinatori, quando qualcuno ritiene legittimo giustiziarli sul posto. Sono battute, o battutacce, orribili. E purtroppo diffuse, in ambienti che preferiamo non conoscere. Ma non sono reato. Fino a questo punto non capiremmo perché Antonello Nicosia si trovi in regime di custodia cautelare. C’è invece un argomento molto serio che lo può spiegare, perché lui è accusato di aver svolto il ruolo di “postino” tra detenuti nel regime previsto dall’articolo 41bis dell’Ordinamento penitenziario (cioè con limitata possibilità di comunicazione con l’esterno) e i complici mafiosi fuori dal carcere. Questo è un passaggio delicato, perché Nicosia ha avuto quattro occasioni di entrare in altrettante carceri, in qualità di assistente parlamentare della deputata Fina Occhionero. Nelle intercettazioni lui fa il fanfarone, e si vanta di cose che, se rispondessero al vero, comporterebbero la commissione di reati da parte di personale carcerario, a partire dai direttori fino al comandante e a qualche agente di penitenziaria. È vero che ogni parlamentare, anche accompagnato dall’assistente regolarmente registrato, ha il diritto/dovere, in qualunque momento, di visitare le strutture carcerarie e verificare le condizioni di vita dei prigionieri. Ma è escluso - lo può testimoniare chiunque abbia vissuto quell’esperienza - che il deputato o senatore possa, come ha detto Nicosia, chiudersi nella cella con il detenuto, in particolare se al regime di 41bis, e avere un colloquio riservato. L’incontro tra parlamentari e carcerati avviene sempre sotto controllo e deve limitare il colloquio alle condizioni di salute e di detenzione. Se questa regola è stata violata, allora non basta arrestare Nicosia e qualche mafioso, ma occorre allargare il campo a qualche rappresentante istituzionale. Bisognerebbe inoltre sapere quale detenuto avrebbe consegnato un pizzino o un messaggio a voce e destinato a chi, per dare concretezza all’accusa. Per esempio: Antonello Nicosia il tal giorno nel tal carcere si è appartato con il tal detenuto, il quale gli ha consegnato il tal messaggio che in seguito lui ha consegnato all’esterno a tal mafioso. Sarebbe importante per l’accusa, ma anche per tutti noi, conoscere le dinamiche delle strategie di Cosa Nostra che passerebbero anche tramite le visite in carcere dei parlamentari. O dobbiamo pensare che qualcuno, come ha fatto la giornalista Milena Gabandii che ha accusato gli avvocati di fare da tramite tra mafiosi carcerati e mafiosi a piede libero, abbia lo stesso sospetto nei confronti dei parlamentati? E magari iniziare una bella campagna stampa, orchestrata dal Fatto, per limitare o annullare ogni ingresso e ogni forma di controllo sulla vita all’interno delle carceri? In nome della lotta non alla mafia ma al passepartout? L’uomo del clan Messina Denaro teneva seminari all’università di Salvo Palazzolo La Repubblica, 7 novembre 2019 La prof: “Chiedo scusa agli studenti”. Nicosia al dipartimento di Scienze Psicologiche di Palermo, nonostante una condanna per traffico di droga. In facoltà: “Amareggiati e offesi, diceva di essere un esperto di diritti dei detenuti”. Lui si difende: “Non sono mafioso, millantavo”. Antonello Nicosia, l’insospettabile del clan Messina Denaro arrestato lunedì, non era soltanto il collaboratore della deputata Giusy Occhioniero, era riuscito a infiltrarsi anche all’università di Palermo, al dipartimento di Scienze Psicologiche. Teneva seminari sul tema dei diritti dei detenuti. E di questo si vantava, ce n’è traccia nelle intercettazioni di Guardia di finanza e Carabinieri: non certo perché fosse interessato per davvero alla situazione dei penitenziari italiani, ma perché puntava ad avere quanto più spazio nel corso delle ispezioni con la parlamentare. L’unico obiettivo di Nicosia era avvicinare i boss più vicini al superlatitante, per veicolare messaggi riservati. “Mi sento offesa - dice Maria Garro, attivissima ricercatrice del Dipartimento - un collega me l’aveva presentato come persona preparata e affidabile, in quanto presidente di un’associazione che si occupa dei diritti dei detenuti. Sapevo che aveva avuto dei guai giudiziari, ma non immaginavo fossero così gravi”. Nicosia ha una condanna a 10 anni e 6 mesi per traffico di droga, ma evidentemente nessuno all’università gli ha chiesto il curriculum. E con grande facilità era salito in cattedra a fare dei seminari. Uno l’aveva organizzato sul caso di Giuseppe Gulotta, rimasto per 22 anni in cella da innocente, accusato della strage della casermetta di Alcamo Marina. “Ma ormai da tempo quella collaborazione si è interrotta”, spiega ancora la docente, che oggi dice di essere “parecchio amareggiata per quanto accaduto”: “Quella persona ha offeso non solo me, ma tutti gli studenti e le persone che invito nella mia aula per rendere testimonianza del loro impegno: esponenti delle forze dell’ordine e familiari delle vittime della mafia. Il mio compito, nell’ambito di Psicologia giuridica, è quello di preparare gli allievi ad operare nelle carceri. Sono arrabbiata, offesa - dice la ricercatrice - e chiedo scusa agli studenti che hanno partecipato a quei seminari, immagino che dopo aver letto la notizia dell’arresto di Nicosia si siano sentiti disorientati. Chiedo scusa anche ai genitori di quei giovani, che hanno affidato i loro figli all’università”. Ma dopo l’amarezza, ci deve essere anche il momento della riflessione. “Siamo di fronte sempre più a una mafia degli insospettabili - prosegue Maria Garro - è una questione che riguarda tutti, un tema su cui riflettere”. Mentre Nicosia, davanti al giudice, prova a sminuire: “Ero solo un provocatore, millantavo - sostiene - Non sono un mafioso”. Ma resta in carcere. Allarmi bomba nei tribunali, in Italia è una piaga: 26 casi da inizio anno di Alessandro Fulloni Corriere della Sera, 7 novembre 2019 Ecco chi c’è dietro. L’ultimo episodio a Genova. Nessuna minaccia finora si è rivelata concreta, ma intanto, per colpa di mitomani, criminali o truffatori, saltano centinaia di udienze. Maglia nera Nocera: quattro casi in pochi mesi. La nostra mappa interattiva (clicca sui segnaposti per scoprire cosa è successo). “C’è una bomba in tribunale”. Clic. Succede sempre più spesso nelle aule giudiziarie italiane. Per stare al 2019, sono 26 le volte in cui la telefonata anonima è arrivata a un presidio giudiziario. Stesse scene, tanto a Roma quanto a Milano. Stessi allarmi in cittadelle giudiziarie grandi e sorvegliatissime come Torino e Locri e in piccole, tipo Nocera - che detiene il record: addirittura quattro allarmi da febbraio; l’ultimo a luglio - Bitonto, Asti, Matera e Lanciano. Talvolta sono chiamate in prossimità di udienze di processi importati, che magari saltano o vengono ritardate. Altre volte si tratta di semplici scherzi, sia pure inquietanti. L’ultimo lunedì 4 novembre, a Genova. Una voce chiama verso le 8 e 30 e avverte: “Salterà tutto alle 11”. Scattano ovviamente le procedure di emergenza: polizia e vigili del fuoco avviano ricerche e verifiche, mentre il palazzo viene fatto evacuare; i cani delle unità cinofile annusano ovunque, angoli e sottoscala. Ma non viene trovato nulla. E si rientra in aula verso le 11 e 30. “Tre ore buttate - allarga le braccia un uditore giudiziario - in una giornata che a Genova, per via del maltempo, è stata tra l’altro assai complicata”. I casi - Il più delle volte durante i controlli non viene trovato niente. Ma sono comunque numerosi i casi in cui l’avvertimento minatorio è piuttosto circostanziato. Per esempio a Cagliari il 15 ottobre è arrivata una telefonata al mattino presto. E alle 7 una guardia giurata ha trovato un pacco sospetto rivestito di nastro isolante nero a cu era stato agganciato una tastierina alfanumerica. Accanto un biglietto con scritto “seconda bomba”. Il finto ordigno è stato fatto brillare con dell’acqua dagli artificieri. Subito dopo è arrivata un’altra telefonata, ma dai controlli in questo caso non è emerso nulla. Sta di fatto che il personale è potuto rientrare dall’evacuazione soltanto dopo le 11. Ad Avellino, il 21 settembre, un testo dattiloscritto lasciato nella toilette informava che un ordigno sarebbe esploso il 25 settembre. Uno scherzo? Chi lo sa, quel volantino ora è nelle mani della Digos chiamata agli accertamenti. Chi c’è dietro - A Bari l’avvertimento è arrivato via mail. Un messaggino trovato all’account postale di giudici, avvocati, magistrati, cancellieri e poliziotti recitava: “Cristo vi purificherà, l’aula bunker non esisterà più”. Ad Asti una bomba carta è effettivamente esplosa, ma fuori dalle mura della cittadella giudiziaria. Talvolta gli allarmi sono davvero seri, intimidazioni vere e proprie. Come lo scorso anno, quando due buste esplosive vennero inviate per posta a due pm della procura di Torino che da anni indagano i vari segmenti del movimento anarchico che ha scelto in modo esplicito la strada del terrorismo. Spesso si tratta di mitomani (e sorprende, guardando la cartina che qui pubblichiamo, la frequenza di episodi a Nordovest...). Ma non è sempre così. A Palermo, a maggio di quest’anno, si è scoperto che l’allarme bomba - con relativa sospensione dell’attività giudiziaria - avvenuto nel 2017 era stato architettato da alcuni indagati in una vicenda di truffe assicurative (“Con quel giudice possiamo perdere..”). E stessa cosa si è scoperta relativamente ad un episodio avvenuto a Benevento nel 2016: in quel caso venne trovato un finto candelotto. Era stato piazzato per evitare che quel giorno si celebrasse la prevista udienza dibattimentale che vedeva indagato tale Paolo Messina per omicidio. Il magistrato - E ancora, una telefonata a Brescia, quest’estate: “A mezzogiorno esploderà una bomba al Palazzo di giustizia per vendicare il compagno Battisti”. Parte immediata la segnalazione alla Questura e partono anche gli accertamenti, anche se la telefonata non sembra particolarmente attendibile. Il protocollo prevede un’azione “soft”. Gli uomini della Digos in borghese si mescolano all’andirivieni di aule e uffici. Non viene trovato nulla. “Sarebbe bene ricordare che anche che questi scherzi da prete possono valere una denuncia per procurato allarme”, osserva un investigatore della Digos. Ed Eugenio Albamonte, presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati nel biennio 2017- 2018, scuote la testa: “26 procurati allarmi in un anno sono davvero tanti”. Se manca l’avvertimento del giudice l’assenza al dibattimento non è remissione di querela di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 7 novembre 2019 Corte di cassazione - Sezione V - Sentenza 6 novembre 2019 n. 45152. L’assenza del querelante in dibattimento non può essere interpretata come una volontà di fare marcia indietro rispetto alla “denuncia”, se questo non è stato prima avvertito dal giudice che l’eventuale mancata comparizione sarebbe stata considerata incompatibile con la volontà di persistere nella querela. La Corte di cassazione, con la sentenza 45152, accoglie il ricorso del pubblico ministero contro la decisione del Giudice di pace di dichiarare il non doversi procedere, perché il reato di lesioni contestato all’imputato era estinto per remissione di querela. La pubblica accusa aveva chiesto l’annullamento della sentenza per la violazione dell’articolo 152, secondo comma del Codice penale, che regola appunto la remissione di querela extraprocessuale, che può essere espressa o tacita, quando il querelante compie atti non coerenti con la volontà di proseguire nell’azione giudiziaria intrapresa. Nello specifico il giudice di pace nell’assenza aveva letto una volontà in questo senso. Il Pm aveva però attirato l’attenzione sul fatto che il soggetto che aveva “denunciato”, di nazionalità cingalese, si era trasferito in una destinazione ignota, e che per questo non aveva ricevuto nelle sue mani la notifica, che era stata depositata in cancelleria. Un allontanamento che poteva dipendere dalle ragioni più diverse e che non poteva essere inteso come un ripensamento senza la notifica del verbale di udienza e l’espresso avvertimento del significato dell’assenza. Il “sì” della moglie convivente maltrattata non fa venir meno il reato di violenza sessuale di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 7 novembre 2019 Avere rapporti sessuali con la propria moglie può costituire violenza, anche se all’atto del congiungimento carnale la donna non oppone un dissenso esplicito, ma nella relazione subisce violenze fisiche o psicologiche che ne riducono l’autodeterminazione. Così la Corte di cassazione, con la sentenza n. 44956 depositata ieri, ha confermato la configurabilità del reato previsto dall’articolo 609 del Codice penale ogniqualvolta sia lesa la libertà di autodeterminazione in materia sessuale. La condanna era stata di 6 anni e 6 mesi di reclusione per il ricorrente riconosciuto responsabile anche del reato di maltrattamenti in famiglia verso la moglie e violazione degli obblighi di assistenza, in particolare verso i figli minori. Il ricorso - Il ricorrente sosteneva fondamentalmente l’illegittimità della condanna - confermata in entrambi i giudizi di merito - perché fondata solo su testimonianze dirette della parte offesa e di testimoni “parziali” in quanto parenti di lei. Ovviamente il giudice è chiamato a un accertamento più rigoroso della veridicità delle dichiarazioni se sussistono motivi di astio o risentimento. Comunque nulla esclude, in via di principio, l’accertamento della responsabilità penale solo sulla base delle affermazioni della vittima di un delitto. Inoltre, il ricorso contestava l’attendibilità della moglie proprio perché da lei stessa era stato affermato che mai il marito era stato violento o maltrattante nei confronti delle figlie. Ciò al contrario, dice la Cassazione, depone a favore dell’assenza di un generale malanimo della moglie denunciante nei confronti del coniuge. La conferma - Confermati quindi tutti e tre i reati contestati. I maltrattamenti non si potevano infatti escludere - come pretendeva il ricorrente - sulla base del fatto che la donna indicasse solo se stessa come vittima del reato e attraverso atti non reiterati perché spesso diversi per modalità e finalità. Infatti, l’abituale tendenza ad annichilire la donna-moglie può ben essersi manifestata con condotte diverse che oscillino tra violenze fisiche e affermazioni svilenti o anche attraverso un forte controllo dei suoi movimenti. E a nulla rileva che vi siano stati momenti “pacifici” tra i due se di fatto negli anni sono stati reiterati atti che hanno determinato la sopraffazione. La Cassazione ha rigettato anche la contestazione del ricorrente contro il cumulo tra i reati di violenza sessuale e maltrattamenti. E, ha infatti chiarito che l’abuso sessuale non può essere annoverato come uno degli atteggiamenti maltrattanti se mira non solo allo svilimento dell’altro coniuge, ma ne coarta la libertà sessuale. Caltanissetta. Mori suicida in carcere, i familiari si oppongono all’archiviazione nuovosud.it, 7 novembre 2019 La famiglia di Giuseppe Di Blasi, morto suicida in carcere nel 2011, si è opposta, assistita dall’avvocato Massimiliano Bellini, a una nuova richiesta di archiviazione del caso da parte del pm di Caltanissetta Dario Bonanno. Per i familiari le responsabilità da parte dell’istituzione carceraria ci furono, visto che l’uomo aveva già tentato il suicidio quattro volte e in un solo anno aveva perso 34 chili. “Come scritto dal gip di Messina - dice il legale della famiglia, Massimiliano Bellini - la Procura di Caltanissetta deve indagare su tutta la gestione del detenuto e per questo ci opponiamo alla richiesta di archiviazione e andremo avanti”. I fatti risalgono a otto anni fa. Di Blasi, che si era sempre dichiarato innocente, decise di farla finita poco dopo Natale. Erano le 16 del 27 dicembre 2011. “Se il personale medico delle strutture carcerarie avesse ben compreso la gravità dei sintomi di lampante malessere di nostro fratello - scrivono i familiari - con molta probabilità, si sarebbe salvato. Vane e inutili sono state le innumerevoli istanze di scarcerazione presentate dal nostro legale, le perizie mediche redatte dai nostri consulenti medici di parte volte a segnalare all’attenzione delle autorità giudicanti la palese incompatibilità dello stato di salute di nostro fratello con il regime carcerario”. Per la famiglia Di Blasi deve ancora essere accertato se siano state violate o disattese le norme che garantiscono diritti fondamentali ed inviolabili ad ogni persona privata della libertà personale e se tutti i soggetti tenuti per legge a vigilare sulle condizioni psico-fisiche del detenuto abbiano fatto il proprio dovere. Secondo la ricostruzione dei familiari e del loro legale infatti, nonostante i quattro tentativi di suicidio, l’uomo non veniva sorvegliato a vista. Palermo. Detenuto suicida al Pagliarelli, indagati la direttrice e il capo degli agenti La Repubblica, 7 novembre 2019 Indagati per omicidio colposo la Direttrice del carcere Pagliarelli e il Comandante della Polizia penitenziaria dopo la morte di Samuele Bua, un detenuto con una grave patologia psichiatrica che si impiccò con i lacci delle scarpe nella sua cella il 4 novembre 2018. Secondo il sostituto procuratore Renza Cescon non venne disposta la sorveglianza a vista 24 ore su 24 del detenuto come prescritto dai medici che lo avevano in cura e non venne rinchiuso in una cella “sicura”, privato di lacci e di tutti gli oggetti con cui poter compiere atti di autolesionismo. I familiari di Bua, assistiti dall’avvocato Giorgio Bisagna, a distanza di un anno chiedono che vengano accertate le responsabilità sulla mancanza di controllo e sui ritardi nel trasferimento ad un ospedale psichiatrico. Ancona. Detenuto si cuce bocca e occhi per protestare contro il decreto d’espulsione Corriere Adriatico, 7 novembre 2019 Riceve la notifica dell’ordine di espulsione dall’Italia e inizia la sua personale protesta nel carcere di Montacuto. Prima con lo sciopero della fame, poi si cuce labbra e palpebre, riuscendo anche ad ingerire due piccole pile. L’atto di ribellione è portato avanti dallo scorso sabato da un 34enne tunisino, condannato in via definita a otto anni di reclusione per spaccio di droga. A fine ottobre, il detenuto - da tempo domiciliato in Italia - ha ricevuto la notifica dell’ordine di espulsione dal territorio italiano da eseguire al termine dalla pena, la cui fine è prevista per febbraio 2020. L’uomo ha impugnato il provvedimento perché non vuole tornare nel suo paese d’origine, ma rimanere in Italia. Nel frattempo che il tribunale competente prenda una decisione sulla sua istanza, ha iniziato lo sciopero della fame. Ieri, era il quarto giorno che non toccava cibo. Con ago e filo si è anche cucito parte delle labbra e palpebre. Martedì mattina è stato portato al pronto soccorso di Torrette perché ha ingerito due piccole batterie. Dopo i dovuti accertamenti, è tornato regolarmente in cella con i suoi compagni. Sassari. Antonello Unida è il nuovo Garante dei diritti delle persone private della libertà di Laura Agus sardegnagol.eu, 7 novembre 2019 Con 25 voti su 31 e alla prima votazione, il Consiglio comunale di Sassari ha nominato Giuseppe Antonello Unida come nuovo Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, all’interno di una rosa di 3 candidature, rappresentate da Tiziana Satta, Francesco Mariano Dore e lo stesso Unida. Classe 1962, impiegato con una laurea in Scienze e Tecnologie psicologiche, Unida, da oltre 15 anni, si è interessato alle problematiche dei detenuti e del mondo penitenziario. Dal 2000 al 2005 è stato consigliere provinciale, proponendo, durante il mandato, sia a livello comunale sia provinciale, l’istituzione della figura del Garante dei detenuti, recentemente introdotta a Roma. Nella sua funzione istituzionale, ha svolto anche un ruolo ispettivo nelle carceri e di impulso per l’organizzazione di iniziative all’interno degli istituti di pena, per favorire un rapporto di dialogo tra detenuti e la collettività. Terni. Lettera del viceprefetto al Dap: “Sospendere l’invio di nuovi detenuti” umbria24.it, 7 novembre 2019 Il viceprefetto di Terni, Andrea Gambassi, scriverà una lettera al Dipartimento di amministrazione penitenziaria per chiedere la sospensione dell’assegnazione di altri detenuti fino al ripianamento delle carenze della pianta organica del carcere di Sabbione. Rimane altissima la tensione nel Carcere di Terni dopo gli ultimi episodi di violenza denunciati dalla segreteria provinciale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe) che si sono verificati martedì, proprio durante l’incontro in prefettura. L’ennesima denuncia del Sappe “Ancora una volta - denuncia il Sappe - il personale di polizia penitenziaria è stato trattenuto in servizio continuativo per l’intera giornata. Tre detenuti si sono resi protagonisti, per futili motivi, di episodi di autolesionismo. Due di loro, mentre venivano accompagnati presso la locale infermeria per le cure mediche, hanno posto resistenza passiva ed hanno tentato di aggredire il personale in servizio. Uno dei due ha simulato il suicidio ed ha di nuovo dato in escandescenze dopo la visita del medico di guardia, minacciando pesantemente i colleghi”. Gli ultimi episodi al carcere di Terni Ristabilita la calma, ricostruisce il Sappe, il personale veniva dirottato verso le due sezioni detentive più calde per l’immissione alla socialità dei detenuti: “A quel punto uno di loro - prosegue la nota - armato di lametta, minacciava il personale presente. Sono giorni che questo detenuto impunemente detta le condizioni di vivibilità all’interno della sezione detentiva. Riportata la sezione in sicurezza, dopo circa dodici ore di servizio il personale poteva finalmente tornare dalle proprie famiglie”. Eventi critici che sembrano non avere fine e per questo il Sappe ha deciso di non revocare lo stato di agitazione del personale aderente. L’incontro con il vice Prefetto vicario Il vice prefetto Gambassi aveva incontrato le rappresentanze sindacali proprio su richiesta delle stesse organizzazioni sindacali, insieme al direttore ed il comandante della Casa circondariale di Terni ed un rappresentante delegato del Provveditorato Toscana e Umbria. L’incontro era stato chiesto, come spiega il Sappe, “allo scopo di avere un supporto per bloccare l’arrivo di ulteriori 60 detenuti presso il carcere di Sabbione”. Non sono mancati toni accesi durante l’incontro quando il rappresentante del Provveditorato Umbria-Toscana ha sottolineato che carenze simili si registrano in tutti gli istituti d’Italia. Al termine dell’incontro, il “vice prefetto vicario si è impegnato ad inviare una nota al Dap per richiedere la sospensione dell’assegnazione di altri detenuti fino al ripianamento delle carenze della pianta organica del carcere di Sabbione”. Dove solo 203 poliziotti sono attualmente in servizio dei 241 previsti dopo il taglio degli organici dovuti alla legge Madia. Potenza. “A scuola di libertà”, con l’Aics le scuole incontrano il carcere aics.it, 7 novembre 2019 La studentessa lucana Debora Fortunato vince il premio nazionale del concorso di scrittura: premiata a Milano nell’ambito del Festival della Comunicazione organizzato dalla Conferenza nazionale volontariato e giustizia, di cui Aics fa parte Debora Fortunato, alunna della 5a del Liceo “Peano” di Marsico Nuovo (Potenza) - accompagnata dal docente Antonio Ramagnano in rappresentanza dell’Istituto e dalla vice presidente della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia in quota Aics, Vincenza Ruggiero - si è aggiudicata il primo premio del concorso di scrittura di “A scuola di libertà” con il testo “Caro detenuto”, lettera delicata che “esprime con rara sensibilità il senso del percorso fatto durante l’anno scolastico” mostrando “sintonia empatica con le vicende conosciute e ferma determinazione di volgere in orizzonte positivo le esperienze, individuando vie di riconciliazione e di futuro possibile”, come espresso nella motivazione della giuria. A consegnarle il premio il giornalista e scrittore Pino Roveredo, autore di numerosi romanzi quali “Ferro contro ferro” e “Mandami a dire”, premio Campiello 2005. Il premio le è stato conferito a Milano a fine ottobre, nell’ambito del Festival della Comunicazione e dell’Assemblea Generale della Conferenza Nazionale del Volontariato della Giustizia, dedicati al tema dell’informazione legata alla cronaca giudiziaria e all’esecuzione della pena. Presenti alla cerimonia di premiazione tra i numerosi relatori intervenuti alla due giorni e coordinati dalla giornalista Ornella Favero di Ristretti Orizzonti, lo scrittore Edoardo Albinati, vincitore del premio Strega 2016, Luigi Ferrarella giornalista e inviato del Corriere della Sera, Davide Galliani, docente Universitario di diritto pubblico, il Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria per la Lombardia e il Piemonte Pietro Buffa, Francesco Maisto Garante per i detenuti del Comune di Milano, già Presidente del Tribunale di Sorveglianza, Fiammetta Borsellino, figlia minore del magistrato Paolo, ucciso dalla mafia nella strage di via D’Amelio a Palermo. Presenti anche la stessa Ruggiero, vice presidente nazionale della Conferenza, e Francesco Cafarelli, presidente di Aics Basilicta e della Conferenza regionale Basilicata di volontariato e giustizia. Il premio giunge a conclusione del percorso sui temi della giustizia, della legalità e dell’ inclusione, intrapreso nello scorso anno scolastico dalle classi 4 D di Marsico Nuovo ad indirizzo linguistico e 4 B di Viggiano di scienze umane, del liceo “Peano” che con il Comitato Provinciale Aics di Potenza ha siglato l’accordo per la realizzazione di tale percorso previsto dal progetto d’Istituto per l’Alternanza Scuola Lavoro. L’Aics di Basilicata, che da anni collabora con i Servizi lucani della Giustizia, ha attivato i laboratori di scrittura creativa e di ceramica artistica all’interno della Casa Circondariale di Potenza e dell’Istituto Penale per i minori, nei quali sono ospitati numerosi detenuti stranieri, collegando le attività al Progetto “Cultura dell’accoglienza e comunità inclusiva”. Venezia. Carcere di Santa Maria Maggiore, su un palco per ricominciare a sentirsi padre di Teresa Valiani Redattore Sociale, 7 novembre 2019 È partito ieri nella Casa circondariale maschile di Santa Maria Maggiore, a Venezia, il progetto “Teatro e genitorialità” promosso dall’associazione La Gabbianella con il regista Michalis Traitsis. Rinsaldare il delicato rapporto tra padre e figlio attraverso il teatro. Sollecitare, con la complicità del palcoscenico e facendo leva su tutta la forza introspettiva che arriva dall’attività teatrale, quella consapevolezza che è venuta a mancare prima con la commissione del reato e poi con la lontananza forzata causata dalla detenzione. Sono questi gli obiettivi del progetto sulla genitorialità in carcere partito oggi nella casa circondariale maschile di Santa Maria Maggiore di Venezia grazie all’associazione di promozione sociale La Gabbianella: una realtà che ha appena festeggiato i primi 20 anni di attività e che lavora sulla prevenzione del distacco tra i bambini e i loro genitori attraverso diverse forme di solidarietà familiare. Gli operatori dell’associazione si occupano anche dei minori presenti nel carcere femminile della Giudecca accompagnandoli ogni giorno all’asilo comunale, portandoli a giocare fuori dalla casa di reclusione nelle festività e al mare d’estate. “Teatro e genitorialità” è il titolo del percorso che intreccia il lavoro sui palcoscenici rinchiusi, ha preso il via questa mattina e coinvolge i detenuti papà. L’attività teatrale sarà gestita in itinere con psicologi che aiuteranno le persone ristrette ad avvicinarsi a una genitorialità più responsabile, condividendo riflessioni ed esperienze. Il progetto si concluderà con uno studio teatrale sul tema del rapporto padri - figli che sarà presentato nell’istituto penitenziario di Santa Maria Maggiore di Venezia e che è diretto da Michalis Traitsis, regista e pedagogo teatrale, coordinatore dell’associazione Balamòs Teatro che opera sul territorio nazionale e internazionale con progetti specifici dedicati anche all’ambiente penitenziario. Ogni fase delle attività sarà documentata da Marco Valentini (operatore video) e Andrea Casari (fotografo). “Il progetto appena partito - spiega il regista Michalis Traitsis all’uscita dal carcere - ha dato il via a un percorso che terminerà intorno al mese di giugno con l’allestimento di uno spettacolo teatrale che avrà come tema la genitorialità. All’incontro di oggi hanno partecipato 17 detenuti scelti dall’amministrazione penitenziaria sulla base della loro condizione di genitori e tra quelli che hanno una pena abbastanza lunga da riuscire a concludere il percorso. I nostri incontri avranno cadenza settimanale, tranne che per l’ultimo periodo in cui il lavoro si intensificherà in vista dell’allestimento. Saranno due le fasi del progetto: una prima di improvvisazione, sperimentazione, ricerca e formazione che mi permetterà di capire le qualità di ognuno e mi aiuterà nella scelta del linguaggio e del testo. E una seconda con l’allestimento vero e proprio dello spettacolo, in cui condensare tutti gli elementi raccolti”. I 17 detenuti-papà hanno un’età media vicina ai 30 anni e sono per più della metà stranieri. Bologna. “Non solo mimosa”, mostra documenta progetto dedicato alle donne detenute iperbole.bologna.it, 7 novembre 2019 Non solo Mimosa compie 5 anni e si racconta alla città attraverso una mostra fotografica Da dentro a fuori: sguardi di futuro, allestita nella Manica lunga di Palazzo d’Accursio dal 5 al 17 novembre. L’esposizione è una selezione di 100 scatti realizzati all’interno della Casa circondariale “Rocco d’Amato” da 6 fotografe volontarie, Noella Bardolesi, Alessandra Bettini, Sara Colombazzi, Elena Facchini, Emanuela Sforza, Giuseppina Martelli. Grazie al contributo dell’ufficio Pari Opportunità e del Consiglio comunale di Bologna è stata realizzata una piccola pubblicazione che illustra le attività portate avanti dal progetto “Non solo Mimosa” dalla sua nascita ad oggi. In programma anche, nella sala Renzo Imbeni di Palazzo d’Accursio, una serie di appuntamenti a cura delle associazioni che hanno aderito al progetto, per far conoscere le attività svolte in carcere e sensibilizzare sul tema della detenzione femminile. Per tre lunedì consecutivi, il 4, l’11 e il 18 novembre, alle 19.30 “Arteterapia: esperienze rivitalizzanti fra materiali e colori”, a cura di Art Therapy Italiana. Partecipano: Tiziana Massa, Francesca Rippa, Rebecca Hetherington. Sabato 9 novembre alle 10 sarà presentato il volume “Le Parole per dirlo”, frutto dei laboratori di lettura e scrittura della Sezione Femminile, a cura di Udi Bologna. Partecipano: Alba Piolanti, Giuseppina Martelli, Anna Vinci, Katia Graziosi, Grazia Verasani. Giovedì 14 novembre alle 20 “5 minutos’. Io Medito: i benefici della meditazioni” un momento di stimolazione neurale con trattamenti energetici per il benessere psico-fisico, a cura di Manos sin fronteras. Partecipano: Maria Grazia Scampini, Stefania Capatti. Venerdì 15 novembre alle 18 si parlerà del film “Sezione Femminile. L’immaginario dietro le sbarre”, a cura di MEG Medicina Europea di Genere - APS. Partecipano: Tiziana Gentili, Adina Sgrignuoli, Valeria Ribani, il regista Eugenio Melloni. Sabato 16 novembre alle 10 shiatsu al femminile, a cura di Fisieo (Federazione Italiana Shiatsu insegnanti e operatori). Partecipano: Stefania Ferri, Pierpaola Pierucci, Patrizia Sartori, Renato Zaffina. Non solo Mimosa, il progetto muove i suoi primi passi nel 2014 con delle semplici visite istituzionali alla Casa circondariale Rocco D’Amato, spesso in occasione dell’8 marzo, Giornata internazionale della Donna, e del 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Da queste visite matura la necessità di dare qualche risposta concreta ai bisogni che le detenute in quegli incontri esprimono. “Non solo Mimosa”, quindi, si muove con una proposta progettuale che va in questa direzione, all’insegna della solidarietà femminile e dell’impegno civico. L’invito a promuovere un’azione collettiva dedicata alla salute e al benessere delle donne detenute viene generosamente raccolto da associazioni e singole cittadine che, da cinque anni, mettono a disposizione il proprio tempo, professionalità e lavoro in maniera completamente gratuita. Ne nascono quindi qualificate attività culturali e di formazione che migliorano in parte la qualità della vita e il benessere psicofisico delle partecipanti e le supportano nel percorso rieducativo e di successivo reinserimento nella società. Il coordinamento del progetto è curato dalla consigliera Mariaraffaella Ferri, la programmazione e il monitoraggio delle attività si svolgono in raccordo con la Direzione generale e dell’Area Educativa della Casa circondariale e con l’Ufficio del Garante comunale per i diritti delle persone private della libertà. Milano. “Valelapena”, scatti dal carcere di Alba dove i detenuti fanno vino di chiara baldi La Stampa, 7 novembre 2019 La mostra aperta a Palazzo Lombardia fino al 15 novembre, racconta il recupero dei detenuti attraverso la viticultura. Una mostra gratuita sul tema dell’agricoltura sociale. Si chiama “Valelapena. Storie di riscatto dal carcere d’Alba” e la si potrà visitare dal 7 al 15 novembre a Palazzo Lombardia. “L’agricoltura ha uno straordinario ruolo sociale e questo progetto lo testimonia. A livello regionale abbiamo 24 fattorie sociali iscritte al nostro registro. Sono aziende agricole che offrono forme alternative di welfare partecipativo. Abbiamo recentemente stanziato 50 mila euro per organizzare percorsi formativi e aumentare il livello delle competenze degli operatori. Sono fondi utili a sviluppare modelli aziendali in linea con le finalità dell’agricoltura sociale e ad attuare iniziative di comunicazione e promozione esterna come motore di socialità”, ha spiegato l’assessore all’Agricoltura, Alimentazione e Sistemi Verdi Fabio Rolfi, presente all’inaugurazione della mostra. Il progetto, in vita dal 2006, fino a oggi ha prodotto, con le uve coltivate nel carcere di Alba, quasi 22 mila litri di vino per un totale di 29 mila bottiglie di vino. Il Carcere di Alba ha ospitato tra i 150 e i 50 attuali detenuti, in questi 13 anni e ha formato attraverso il progetto Valelapena quasi 200 persone. Di queste, 30 detenuti scontata la pena hanno trovato un impiego in campo agricolo mentre 20 sono tornati al loro precedente lavoro senza reiterare il reato. “Dare una seconda occasione a persone svantaggiate comporta benefici per i singoli e per tutta la comunità. “Valelapena” non solo permette ai detenuti di riscattare il proprio vissuto, ma può contribuire significativamente alla creazione di quella manodopera qualificata che è un tassello fondamentale per rafforzare il ruolo del Made in Italy come un’eccellenza nel mondo”, hanno commentato Riccardo Vanelli, Amministratore Delegato Syngenta Italia, e Sergio Pasquali, responsabile del progetto sin dalla sua nascita. Ogni anno “Valelapena” coinvolge circa 15 detenuti in via di scarcerazione a cui vengono insegnate le tecniche di coltivazione della vite e di produzione del vino. Un modo concreto per ripartire, una volta usciti dal carcere, con una professionalità spendibile nel mondo. Mamone (Nu). Parco giochi per i figli dei detenuti grazie al Lions Club Goceano di Elena Corveddu La Nuova Sardegna, 7 novembre 2019 Un parco giochi per i figli dei detenuti di Mamone. Per un carcere senza barriere. Questa l’idea del Lions Club Goceano, della Circoscrizione VII, zona VII C. Il “Giardino dei giochi”, così è stato ribattezzato, è stato inaugurato sabato scorso nella casa di reclusione di Mamone (Nuoro), nell’area antistante la Centrale dell’istituto. Il parco giochi nasce dalla collaborazione tra il Lions Club Goceano e l’area giuridico-pedagogica del carcere. La proposta avanzata dal socio Pino Mellino nell’annata lionistica 2018/2019 durante la presidenza di Salvatore Sanna, ha avuto da subito l’approvazione dei soci. L’iniziativa ha avuto inizio nell’annata 2018/2019 con il Governatore Lions Leda Puppa Rettighieri e si è concluso in quest’annata con il Governatore Massimo Paggi. “Lo scopo - ha spiegato il Lions Goceano - è stato quello di realizzare un’area attrezzata da adibire a parco giochi per poter essere utilizzata dai figli di detenuti nei momenti destinati alle visite da parte dei loro familiari, in modo che quei momenti possano essere trascorsi in serenità e non come un momento di sofferenza”. Tutto questo a coronamento anche dello scopo cui si basa l’ordinamento penitenziario italiano il cui principio fondamentale è il recupero della persona che ha commesso un reato. Il socio Lions Angelo Crabolu, ingegnere, ha realizzato il progetto, ha seguito i lavori nella fase esecutiva fino al completamento dell’opera. Nel parco sono stati installati dondoli, altalene e panchine, tutti realizzati con materiali di recupero come ferro, tronchi di albero e pedane in legno per imballaggi. Tutte le lavorazioni sono state eseguite da alcuni detenuti del carcere, che si sono proposti volontariamente per costruire e assemblare i giochi e le altre strutture necessarie al completamento dell’opera. Il Lions Club Goceano, oltre alla progettazione, ha contributo finanziariamente per la realizzazione dell’opera. Alla cerimonia di inaugurazione erano presenti l’ispettore Cosimo Ortu, Comandante di reparto facente funzioni, Alessandra Onnis, capo area giuridico-pedagogico, Maria Grasso, Maria Marcenò, Lina Sale Cadonedda, Anna Di Tommaso, dell’area giuridico-pedagogico, Laura Viscosi, psicologa, e il cappellano del carcere don Alessandro Muggianu. Per il Lions club del Goceano erano presenti il presidente Lorenzo Furriolu e altri otto soci. Furriolu, nel suo intervento, ha ribadito che lo scopo del Lionismo è rivolto soprattutto al mettersi al servizio di chi ha bisogno e, terminando, ha consegnato alle tre cariche più rappresentative del penitenziario tre guidoncini, le bandierine rappresentanti il Lions Club Goceano, in ricordo dell’iniziativa. La dottoressa Onnis e di seguito l’Ispettore Ortu, hanno evidenziato il lavoro svolto dai detenuti, con l’augurio che nel futuro sempre meno bambini vivano l’esperienza dell’ingresso in un istituto di detenzione per far visita al proprio genitore. A suggello della partecipazione del Club alla realizzazione dell’opera, su un masso di pietra all’ingresso del parco giochi, è stata apposta una targa rappresentante lo stemma del Lions Club Goceano con la descrizione dell’opera e dell’annata della sua realizzazione. Roma. Detenuti in un’altra dimensione con il cortometraggio “Prendi fiato” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 novembre 2019 Giocano in un campo di calcio in un istituto penitenziario, dove sembrano però immersi sott’acqua, come se fossero in apnea. in anteprima assoluta il 14 novembre a Roma al cinema Savoy. Il carcere, per eccellenza è luogo di emarginazione. È un mondo fatto di liturgie ferree. Prima i controlli, poi i cancelli da attraversare, i lunghi corridoi da percorrere, l’aria stagnante, l’architettura severa, i pensieri che si alternano alle paure, dove i detenuti vivono soprattutto del loro passato. Chi vi entra, anche per far visita ai reclusi, può avere la sensazione di rimanere senza fiato. Non è un caso, d’altronde, che esiste “l’ora d’aria”: esattamente per riprendere fiato. C’è un cortometraggio dal titolo “Prendi fiato” che sarà trasmesso in anteprima assoluta il 14 novembre a Roma alle ore 17, al cinema Savoy in via Bergamo 25. Dal teaser si vedono dei detenuti che giocano in un campo di calcio all’interno di un istituto penitenziario, dove sembrano però immersi sott’acqua, come se fossero in apnea. “L’idea centrale del cortometraggio è quella di porre l’attenzione sui detenuti in uno spazio altro, un altrove”, afferma la regista Lucilla Miarelli. “Prendi fiato” racconta la storia di un uomo in crisi che nuotando sott’acqua perde i sensi e si ritrova in una dimensione senza tempo. “Abbiamo scelto di raccontare una storia con un linguaggio simbolico, nella quale i detenuti giocassero un ruolo chiave nello svolgimento del racconto”, affermano la regista ed il direttore della fotografia Raffaele Mariniello, che hanno firmato insieme la sceneggiatura. Lucilla Miarelli nasce a Roma e si è formata come attrice studiando con Alessandro Fersen, Beatrice Bracco, Natalia Zvereva in Italia, Eugenio Barba in Danimarca e Susan Batson negli Stati Uniti. Si è laureata in lettere all’università “La Sapienza” di Roma con la professoressa Clelia Falletti. Come attrice ha lavorato in diverse produzioni teatrali tra le quali “Sacco e Vanzetti” diretto da Beatrice Bracco, ha debuttato al cinema con Pupi Avati nel film “Una sconfinata giovinezza”. È stata assistente di diversi insegnanti di recitazione, tra i quali Susan Batson e negli ultimi anni si è dedicata all’attività di acting coach. “Prendi fiato” è il suo primo cortometraggio come regista. Il cortometraggio è stato realizzato all’interno della Casa Circondariale di Velletri ed è il risultato finale del modulo “Il teatro Dentro” del Pon - Percorsi per adulti - “Insieme si può” attivato dall’Istituto Cesare Battisti di Velletri e supervisionato dalla tutor, Brunella Libutti. Il progetto è stato possibile grazie alla sensibilità della Direttrice della Casa Circondariale di Velletri, Maria Donata Iannantuno e del preside dell’Istituto Cesare Battisti di Velletri, Eugenio Dibennardo che hanno fortemente sostenuto il progetto. Ancora una volta, nasce un film o un cortometraggio grazie all’esperienza di un teatro in carcere. Basti pensare alla storica Compagnia della Fortezza a Volterra diretta da Armando Punzo o all’intensissimo film dei fratelli Taviani “Cesare deve morire” su un “Giulio Cesare” di Shakespeare diretto da Fabio Cavalli con i detenuti. Non resta che vedere “Prendi fiato”, dove i detenuti hanno un ruolo chiave. Liliana Segre da oggi avrà la scorta: troppi messaggi di insulti e minacce di Andrea Galli e Gianni Santucci Corriere della Sera, 7 novembre 2019 I carabinieri garantiranno la scorta alla senatrice a vita, che attraverso i canali dei social network riceve in media ogni giorno 200 messaggi di odio. Da oggi, i carabinieri del Comando provinciale di Milano garantiranno la scorta alla senatrice a vita Liliana Segre, deportata nel gennaio del 1944 dal binario 21 della stazione Centrale al campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, e sopravvissuta all’Olocausto. La misura di protezione, da tempo sotto esame, è stata disposta nel pomeriggio di mercoledì, durante il Comitato per la sicurezza e l’ordine pubblico presieduto dal prefetto Renato Saccone e con al tavolo i vertici cittadini delle forze dell’ordine. Tecnicamente, il livello di difesa è una tutela, che prevede la presenza dei carabinieri in ogni spostamento e uscita pubblica della senatrice, contro la quale martedì Forza Nuova ha esposto uno striscione, nei dintorni del teatro di via Fezzan, a Milano, dove Liliana Segre incontrava assieme a don Gino Rigoldi cinquecento studenti. Proprio l’aumento esponenziale delle minacce, unitamente all’elevato numero di eventi con protagonista la senatrice, che a 89 anni, instancabile, mai si sottrae agli inviti a dibattiti e convegni, ha accelerato la decisione della scorta. Una misura necessaria nei confronti di una donna che, per sua stessa ammissione, attraverso i canali dei social network riceve in media ogni giorno duecento messaggi incitanti all’odio razziale. L’origine della campagna di violenza non è di queste ore: risale (almeno) al 2018, quando era stato aperto un fascicolo in Procura sotto il coordinamento del pool antiterrorismo del magistrato Alberto Nobili, ma è stato l’attuale ministro dell’Interno Luciana Lamorgese a inserire il provvedimento di tutela nelle priorità. Nel corso di un recente seminario alla Iulm, la senatrice, parlando proprio degli haters, aveva detto che “sono persone per cui avere pena e che vanno curate”. Del resto, aveva aggiunto, “ogni minuto della nostra vita va goduto e sofferto. Bisogna studiare, vedere le cose belle che abbiamo intorno, combattere quelle brutte e non perdere tempo a scrivere a una 90enne per augurarle la morte. Tanto c’è già la natura che ci pensa”. In uno dei suoi ritorni lì dov’era il Binario 21, nel Memoriale della Shoah, Liliana Segre aveva ricordato la cattura, il trasferimento nel carcere di San Vittore, gli ultimi gesti di umanità dal prossimo - poche mele e una piccola sciarpa donate dai detenuti che altro non avevano -, infine la partenza verso la stazione e una lancinante presa di coscienza: quella dei genitori di non poter più proteggere i propri bambini, vista l’impossibilità di fuggire. “Io ero una figlia, e sarò per sempre convinta che non avrei potuto farlo da madre. Mai”. Ogni istante trascorso con Liliana Segre, racconta chi le sta vicino, rimane un privilegio raro. Croce Rossa. “Aumentano i territori in crisi umanitaria, ma l’Europa può avere un impatto” di Gabriella Colarusso La Repubblica, 7 novembre 2019 A Roma per celebrare i 70 anni della convenzione di Ginevra, che ha introdotto il diritto internazionale umanitario e le regole per la protezione dei civili in situazioni di crisi e di conflitto, il presidente della Croce Rossa non si sbilancia sul rinnovo degli accordi con la Libia, “non facciamo politica”. “Come operatori umanitari non possiamo certo dirci soddisfatti di cosa accade dentro e intorno alla Libia: nel Mediterraneo muoiono più persone, sempre di più vengono uccise nel Sahara, e le condizioni in alcuni dei campi di detenzione dei migranti sono inaccettabili”, dice a Repubblica Peter Maurer, l’uomo che da sette anni, dopo una lunga carriera nella diplomazia svizzera e internazionale, guida il comitato internazionale della Croce Rossa, una delle più grandi e autorevoli organizzazioni umanitarie del mondo. Il Comitato “finora non ha ottenuto dai diversi attori sul terreno in Libia le condizioni che chiediamo sempre per accedere ai campi dove sono detenuti i migranti”, spiega: accessi regolari ripetuti e non annunciati e colloqui individuali con i detenuti. A Roma per celebrare i 70 anni della convenzione di Ginevra, che ha introdotto il diritto internazionale umanitario e le regole per la protezione dei civili in situazioni di crisi e di conflitto, Maurer non si sbilancia sul rinnovo degli accordi con la Libia, “non facciamo politica”, sottolinea, ma è in contatto costante con il governo italiano e “i governi europei per mostrare loro l’impatto che le scelte politiche possono avere sul terreno”. Alla commissione Esteri della Camera deve affrontare agromenti come Libia, certo, ma anche Yemen, Ucraina, Siria, dove l’invasione turca nel nord est ha reso ancora più difficile il lavoro degli operatori umanitari. “Questa nuova crisi ha sfollato altre decine di migliaia di persone, la nostra capacità di risposta è massima e attivata in pieno, ma parliamo di un paese che vive in guerra da 8 anni, dove la metà della popolazione è sfollata, decine, centinaia di migliaia di persone sono state uccise”. L’azione militare turca “è una nuova faccia del conflitto e una sfida per noi perché il nord est della Siria è difficile da raggiungere”. La Siria è forse il teatro di guerra che più di altri ha messo le organizzazioni umanitarie di fronte alle difficoltà di operare nei “nuovi conflitti”. Intanto per l’impatto devastante delle cosiddette “urban wars”, il trasferimento della guerra nelle aree urbane. “L’ho visto ad Aleppo, Homs, a Mosul”, racconta Maurer, “è scioccante la devastazione delle infrastrutture, delle scuole e degli ospedali, e il fatto che le popolazioni colpite sono riportate indietro di decenni”. Le difficoltà di chi lavora sul campo sono aumentate anche dall’alta frammentazione dei conflitti e dalla necessità di interagire con numerosi attori su diversi fronti, molti di questi non statali, un fenomeno che non riguarda solo la Siria. Negli ultimi otto anni, il numero di gruppo di armati non statali nel mondo è cresciuto più che nei tre decenni precedenti. “Aumentano i conflitti asimmetrici, abbiamo avuto contatti e censito 420 gruppi armati non statali”, dice Maurer, che a Roma ha incontrato anche la vice ministra degli Esteri, Emanuela Del Re, per inaugurare la mostra fotografica per i 70 anni della Convenzione di Ginevra che raccoglie gli scatti che hanno vinto dal 2014 al 2018 il premio internazionale Humanitarian Visa d’or Award. All’evento ha partecipato anche il segretario generale della Croce Rossa italiana, Flavio Ronzi, che ha messo l’accento non solo sulla situazione in Libia ma anche nella più ampia regione del Sahel, dove i conflitti non sono noti e il controllo del territorio è sempre più in discussione. “Noi vediamo chi riesce a superare la Libia, ma la grande preoccupazione internazionale sono le persone che non riescono a finire il viaggio o quelle che dai centri di detenzione non escono più”. Migranti. Lamorgese chiede alla Libia centri gestiti dall’Onu. La sinistra: “Non basta” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 7 novembre 2019 La Libia è pronta a rivedere gli accordi con l’Italia per la gestione dei flussi migratori e il governo ha pronto un “piano operativo umanitario” in quattro punti. Alla commissione italo-libica il governo Conte proporrà innanzitutto un percorso che arrivi alla chiusura dei centri di detenzione per favorire l’apertura di strutture gestite direttamente dall’Onu. Ma, chiamata a riferire alla Camera sulle modifiche al contestatissimo Memorandum siglato con un Paese dove le violazioni dei diritti umani dei migranti sono quotidiane, il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese ha usato parole che hanno chiarito, una volta per tutte, come il governo giallo-rosso non intenda fare alcun passo indietro sui suoi rapporti con la Libia: “I flussi dalla Libia si sono ridotti del 97 per cento e anche le morti sono diminuite. E il Memorandum ha contribuito a questo risultato. L’Italia è il principale partner della Libia nel processo di stabilizzazione e condizioni di insicurezza possono aumentare il rischio di infiltrazioni jihadiste tra i migranti in partenza”. Parole che non esprimono certo la tanto reclamata discontinuità con il governo precedente. E a sinistra riesplode la polemica. Nel Pd, va giù pesante Matteo Orfini che cita il discorso del ministro: “Intervento imbarazzante e ipocrita. I lager sono “centri di migranti”. Il memorandum “una cornice da difendere”. I libici “partner affidabili’. Davvero vogliamo continuare a far finta di non sapere?”. Ma la premessa di Luciana Lamorgese è inequivocabile: “Nonostante la diminuzione dei flussi sarebbe ingiustificabile un calo di attenzione sulle dinamiche migratorie che continuano a interessare il nostro Paese”. E allora ecco i quattro punti che l’Italia vuole inserire negli accordi: innanzitutto i centri di detenzione. Alla Libia verrà chiesto di consentire subito una maggiore libertà a Unhcr e Oim nei centri detenzione a garanzia dei diritti dei migranti ma l’obiettivo è arrivare alla chiusura e alla trasformazione in strutture gestite dalle agenzie dell’Onu. Secondo punto: i corridoi umanitari. Ancora una goccia nel mare per mancanza di disponibilità di posti in Europa. L’Italia intende coinvolgere gli altri Stati membri in questo “strumento ordinario”. C’è poi da blindare il confine sud della Libia per fermare l’ingresso nel Paese dei migranti subsahariani e da riproporre il piano di sostegno alle municipalità libiche, con la distribuzione di apparecchiature mediche, materiale sanitario, materiale per scuole e farmaci. Troppo poco per alcuni parlamentari di sinistra: “Se parti dall’idea che nei campi libici ci siano ospiti e non prigionieri, hai mancato del tutto il punto del rispetto dei diritti umani”, dice il dem Fausto Raciti. Erasmo Palazzotto (Leu) e Riccardo Magi (+Europa) chiedono l’immediata chiusura dei centri di detenzione. Durissimo il cartello di associazioni: “Il Memorandum - dice Filippo Miraglia dell’Arci - è uno strumento per bloccare le persone nell’inferno libico e un’arma per le milizie che controllano i traffici”. Migranti. Memorandum, Lamorgese difende l’accordo con i libici di Carlo Lania Il Manifesto, 7 novembre 2019 La ministra: “Tripoli disponibile a rivedere le norme. E l’Onu nei centri”. Le condizioni di vita disumane dei migranti rinchiusi nei centri di detenzione in Libia sono destinate a non cambiare, almeno per i prossimi mesi e probabilmente non grazie a questo governo. È quanto si deduce dall’informativa resa ieri alla Camera dal ministro dell’Interno Luciana Lamorgese che ha confermato l’importanza per l’Italia del Memorandum con la Libia siglato a febbraio del 2017 dall’allora governo Gentiloni per mettere un argine alle partenze dei barconi dal Paese nordafricano. Da allora a oggi gli arrivi “sono diminuiti del 97,2%”, ha spiegato la titolare del Viminale annunciando comunque la disponibilità di Tripoli a rivedere alcuni punti dell’accordo. Chi si aspettava un vero segno di discontinuità con le politiche non solo salviniane, ma anche del precedente governo, quando al Viminale sedeva Marco Minniti, è rimasto deluso. Non a caso ascoltando l’intervento della Lamorgese l’ex ministro dell’Interno ha più volte annuito con la testa in segno di approvazione, tanto più che almeno due dei quattro punti che formano il nuovo “Piano operativo umanitario” che l’Italia si prepara a discutere nella futura commissione italo-libica sembrano ricalcare le iniziative intraprese a suo tempo proprio da Minniti, quando convocava al Viminale i “sindaci” delle città libiche. Ecco quindi il sostegno alle municipalità attraverso la fornitura di apparecchiature mediche, mezzi di soccorso e materiale sanitario per gli ospedali e materiale per le scuole. Ma anche un rafforzamento delle frontiere meridionali della Libia attraverso le quali passano i migranti che sperano di arrivare in Europa. Un rafforzamento che, ha proseguito la ministra, va accompagnato dal lavoro fatto dall’Oim sui rimpatri: “Dal 2016 a oggi - ha spiegato Lamorgese - l’Organizzazione internazionale per le migrazioni ha svolto 45 mila rimpatri volontari assistiti di migranti non aventi titolo ad avere la protezione internazionale, di cui oltre ottomila nei primi mesi 10 mesi del 2019”. Gli altri due punti del Piano riguardano i centri di detenzione e i corridoi umanitari. Sui primi, luoghi dove violenze e torture su uomini, donne bambini oggi sono all’ordine del giorno, il governo punta ad arrivare a un “miglioramento” delle condizioni di vita “con l’obiettivo di una loro graduale chiusura per giungere a centri gestiti dalle agenzie dell’Onu”. Nel frattempo restano i finanziamenti alla cosiddetta Guardia costiera libica. Per quanto riguarda i corridoi umanitari dalla Libia, l’Italia spera di riuscire a coinvolgere anche altri Stati membri dell’Unione europea, visto che finora i numeri sono ancora bassi: 496 persone arrivate in Italia grazie al protocollo firmato con Cei e comunità di sant’Egidio e altre 859 evacuate attraverso il Niger. Critiche alla ministra sono arrivate da Matteo Orfini che su twitter ha parlato di un intervento “imbarazzante e ipocrita”. “I lager sono ‘centri’ di migranti. Il memorandum una cornice da difendere. I libici partner affidabili - ha scritto il deputato Pd -. Davvero vogliamo continuare e far finta di non sapere?”. Duro anche Riccardo Magi, di +Europa: “Quello che abbiamo garantito è la stabilizzazione di poteri paramilitari e mafiosi”, ha spiegato riferendosi al Memorandum. “Quello che noi dobbiamo chiedere oggi è una missione internazionale per un piano di evacuazione e una nuova missione di salvataggio nel Mediterraneo”. Due condizioni necessarie anche per il deputato di Leu Erasmo Palazzotto. Egitto. La repressione di al Sisi si accanisce su Metwally e la blogger Esra Abdel Fattah di Pino Dragoni Il Manifesto, 7 novembre 2019 Ondata di arresti e torture in Egitto. Di nuovo in manette l’avvocato dei desaparecidos, consulente anche della famiglia Regeni. Ma non era mai stato liberato. Sciopero della fame a oltranza, la protesta radicale in carcere dell’attivista Esra Abdel Fattah. Ibrahim Metwally torna agli arresti. Ma in realtà l’avvocato e difensore dei diritti umani non era mai mai stato liberato, nonostante l’ordine di scarcerazione arrivato lo scorso 14 ottobre. L’avviso di custodia lo ha raggiunto infatti due giorni fa mentre era ancora trattenuto senza alcuna motivazione in una stazione di polizia. Fondatore dell’associazione delle famiglie degli scomparsi e consulente per la Commissione egiziana diritti e libertà (che collabora con i legali della famiglia Regeni), Metwally ora si trova nuovamente sotto accusa in un’inchiesta per adesione a un’organizzazione terroristica e finanziamenti al terrorismo, lui che senza alcuna pena da scontare ha passato gli ultimi due anni in detenzione preventiva nel carcere di Tora. Metwally era stato arrestato il 10 settembre 2017 all’aeroporto del Cairo, mentre era in partenza per partecipare a Ginevra a una conferenza Onu sui diritti umani, proprio nei giorni in cui l’ambasciatore italiano tornava a insediarsi in Egitto. Sottoposto a torture e vittima di negligenza sanitaria, ha pagato e continua a pagare l’impegno per la ricerca della verità su suo figlio scomparso da sei anni e su tutti i desaparecidos egiziani. Tra le vittime di repressione di queste settimane c’è anche Esraa Abdel Fattah, giornalista, blogger e fondatrice del movimento 6 Aprile, che ormai da 26 giorni prosegue il suo sciopero della fame in carcere. L’attivista, candidata al premio Nobel per la pace nel 2011, pochi giorni fa si è vista rinnovare per l’ennesima volta i termini della detenzione. Dopo aver denunciato torture e pestaggi al momento del suo arresto, Esraa insiste che proseguirà il suo sciopero finché non verrà aperta un’inchiesta sui maltrattamenti subiti e dichiara che inizierà anche lo sciopero della sete se non ci saranno sviluppi in questo senso. Le sue condizioni fisiche e psicologiche sono bruscamente peggiorate rispetto all’ultima visita, secondo quanto riferiscono i solidali dalla pagina Free Esraa che porta avanti la campagna per il suo rilascio. Lei ha fatto sapere che ringrazia tutti per la solidarietà ricevuta e chiede di continuare a sostenerla. “A volte la prigione spaventa le persone e le annienta - scrive Khaled Ali, parte del team di legali che assiste Esraa -. Altre volte tira fuori l’energia per combattere e resistere”. E a conferma che ormai neppure gli esponenti più in vista dell’attivismo civico e politico sono risparmiati dal pugno duro del regime è di pochi giorni fa la notizia dei ripetuti attacchi subiti da Gamal Eid, direttore dell’Arabic Center for Human Rights Information, una delle più importanti e storiche organizzazioni egiziane per i diritti. Vittima di un pesante pestaggio da parte di uomini armati avvenuto il 10 ottobre, che lo ha lasciato con diverse costole rotte e numerose ferite, Eid ha denunciato a fine ottobre di aver ricevuto una raffica di telefonate minatorie, alle quali è seguito un devastante atto vandalico contro la sua auto. “Questo è un atto da criminali - ha dichiarato - Non fermeremo il nostro lavoro umanitario e legale, e non rimarremo in silenzio davanti ai vostri crimini”. Il recente accanimento nei confronti dei dissidenti rientra nella campagna repressiva in atto nel paese dal 20 settembre, quando una serie di proteste popolari senza alcuna direzione politica hanno invaso le strade di diverse città. Da allora oltre 4000 persone sono state arrestate. Nella rete sono finiti giornalisti, avvocati, esponenti politici di primo piano, ma anche gente comune prelevata arbitrariamente per strada, compresi circa un centinaio di minorenni. È la più vasta ondata di arresti da quando al-Sisi è al potere. In molti sono stati liberati, ma la maggior parte delle persone resta indagata con accuse pesanti in un’unica maxi-inchiesta. Diverse decine di persone inoltre risultano ancora scomparse. Haiti da otto settimane dietro le barricate: “Moïse vattene” di Claudia Fanti Il Manifesto, 7 novembre 2019 Mobilitazione permanente. Dilaga la protesta, insieme alla povertà e alle violenze, ma il presidente non ha intenzione di dimettersi e gli Usa non lo scaricano per mancanza di sostituti affidabili. Nelle strade già 42 i morti, secondo l’Onu. Le sinistre sul piede di guerra. E gli Usa che faranno? Nel silenzio pressoché completo della comunità internazionale, la rivolta del popolo haitiano è entrata lunedì nell’ottava settimana consecutiva di proteste contro il governo di Jovenel Moïse, durante le quali hanno già perso la vita, secondo le stime dell’Onu, 42 persone, benché fonti locali parlino in realtà di decine di morti al giorno e di una violenza divenuta incontrollabile. Ma è addirittura dall’estate del 2018 che, tra interruzioni e riprese, i discendenti degli schiavi neri a cui si deve la creazione della prima Repubblica libera del continente sono sul piede di guerra. Allora, nel luglio del 2018, la popolazione era insorta contro l’aumento del 50% del prezzo dei carburanti richiesto dal Fondo monetario internazionale, provocando la rinuncia del primo ministro Jack Guy Lafontant e il ritiro del provvedimento. Quindi, nell’autunno del 2018, il popolo era tornato in piazza in tutto il paese contro la distrazione operata dalla classe politica di oltre tre miliardi di dollari dal fondo Petrocaribe (il programma solidale lanciato nel 2005 dal governo Chávez per distribuire petrolio all’area caraibica): un affronto per un paese in cui, secondo la Fao, il 49% della popolazione non riesce a nutrirsi ogni giorno. E la ribellione era di nuovo esplosa il 7 febbraio scorso, nel secondo anniversario dell’insediamento presidenziale di Moïse (il quale peraltro era stato eletto con appena il 7% dei voti), e poi ancora a giugno, trasformandosi da una protesta anti-corruzione in una rivolta mirata esplicitamente alla rinuncia del presidente. L’ultimo round, forse quello decisivo, è iniziato appunto 8 settimane fa, in seguito alla crisi del combustibile, che, pur riconducibile in parte all’embargo imposto dagli Stati uniti al Venezuela (che ha ostacolato l’arrivo ad Haiti di combustibile a condizioni agevolate) rispondeva a un disegno dello stesso governo Moïse, in cerca di una nuova giustificazione per l’eliminazione dei sussidi statali e l’aumento del prezzo dei combustibili, come aveva tentato invano di fare già nel 2018. Da allora, come riferisce Camille Chalmers, forse il leader popolare più importante del paese, la protesta non ha fatto che intensificarsi, “con milioni di persone per le strade” e barricate in tutto il paese. Mentre, nel frattempo, la povertà e la violenza dilagano, i rifiuti si accumulano per le strade, il cibo scarseggia, la benzina è arrivata a 11 dollari al litro e la gente - che sopravvive, con estrema fatica, solo grazie alle rimesse degli immigrati negli Stati uniti - evita di uscire in strada per sfuggire alla repressione della polizia, diretta soprattutto contro i quartieri popolari, o alla violenza delle gang. E con un paese totalmente paralizzato, un’attività economica praticamente ferma e un governo che ha smesso di governare già da tempo, il presidente Moïse si rifiuta ostinatamente di dimettersi, affidandosi, secondo quanto rivelano fonti locali, alla protezione di 12 mercenari Usa pagati ciascuno 3.200 dollari al giorno. Ma né il sostegno della maggioranza di un parlamento parimenti screditato, né, soprattutto, l’appoggio degli Stati uniti, della Francia e del Canada basteranno ad assicurargli ancora a lungo la permanenza al potere, soprattutto considerando che, di fronte alla paralisi dell’economia, persino gli imprenditori gli hanno voltato le spalle. Se gli Usa non l’hanno ancora scaricato, del resto, è solo perché, come spiega ancora Chalmers, non sanno con chi sostituirlo, essendo tutti gli esponenti di destra papabili implicati nello scandalo di Petrocaribe. E di certo gli Stati Uniti non possono rischiare che a guidare la transizione siano le forze popolari e di sinistra, le quali, riunite nel Foro Patriottico, in questo arco di tempo sono andate organizzandosi e consolidandosi attorno a un programma che prevede, tra l’altro, le dimissioni del presidente e dei parlamentari, il processo ai corrotti, un governo di transizione, un piano d’emergenza contro la crisi e una riforma politica ed elettorale, con l’obiettivo di ripristinare il controllo del territorio, restaurare l’ordine e la pace e recuperare la stabilità economica. Un programma a cui è chiamato a dare continuità un comitato più ristretto costituito da due rappresentanti del movimento sindacale, una dei movimenti femministi, una del movimento dei giovani delle periferie e quattro esponenti dei partiti politici, due della sinistra rivoluzionaria e due socialdemocratici. “Vogliamo che questa transizione non sia controllata dagli Stati uniti - dichiara Chalmers - ma che esprima una rottura, aprendo realmente una prospettiva di cambiamenti radicali a livello dell’economia e del sistema politico”. Giappone. Detenuti di un Centro per l’immigrazione in sciopero della fame agenzianova.com, 7 novembre 2019 Una decina di cittadini stranieri detenuti presso un centro per l’immigrazione a Osaka, in Giappone, hanno intrapreso uno sciopero della fame per protestare contro il protrarsi del loro confinamento nella struttura. Lo riferisce l’agenzia di stampa “Kyodo”, secondo cui la maggior parte di quanti prendono parte allo sciopero della fame sono rinchiusi nel centro da oltre due anni. L’Ufficio per l’immigrazione giapponese non ha fornito commenti ufficiali, limitandosi ad affermare che “non esistono situazioni che necessitino di essere resi pubblici. I detenuti chiedono un miglioramento dei servizi medici e una maggior selezione di beni acquistabili all’interno della struttura, oltre alla fine delle detenzioni di lungo termine e ai respingimenti ingiustificati delle richieste di rilascio. Ad aprile dello scorso anno 40 cittadini stranieri detenuti in un centro per l’immigrazione a Ushiku, nella provincia di Ibaraki, avevano intrapreso uno sciopero della fame dopo il suicidio di un uomo di nazionalità indiana nella struttura.