Lattanzi: “La speranza, diritto di ogni recluso” di Errico Novi Il Dubbio, 6 novembre 2019 Così il presidente della consulta spiega il suo giudizio sul 4bis. qualsiasi detenuto deve poter contare su un futuro rientro nella società, nota il presidente della consulta, “che non può essere negato a chi non collabora”. C’è altro da dire, dopo aver sentito Giorgio Lattanzi, il giudice delle leggi per definizione, il presidente della Corte costituzionale? Si può ancora equivocare con livore su chi difende il diritto alla speranza degli ergastolani ostativi? No, non è possibile se si ascoltano le parole pronunciate da questo maestro del pensiero giuridico due domeniche fa, lo scorso 27 ottobre, nell’auditorium di Rebibbia, dopo l’ultima proiezione del film “Viaggio in Italia - La Corte costituzionale nelle carceri”, che è quasi il manifesto della sua presidenza. Interviene, Lattanzi, dopo la presentazione di Donatella Stasio e una domanda del professor Marco Ruotolo, ordinario a Roma Tre, che cita la lettera scritta da Filippo Rigano, ergastolano laureatosi in Legge dopo 27 anni in cella: “Esiste, ci chiede Filippo, un diritto alla speranza per qualsiasi detenuto, anche ostativo?”. Rigano ha discusso la sua tesi sul 4bis proprio nel giorno in cui la Corte presieduta da Lattanzi ha sancito che è illegittimo subordinare alla collaborazione l’accesso ai permessi per gli ergastolani ostativi. “Una bella coincidenza”, nota Ruotolo, “in cui torna un quesito: deve esserci per tutti, un diritto alla speranza? Non chiedo a Lattanzi di anticipare le motivazioni della sentenza sul 4bis, ma solo se quel diritto alla speranza caro alla Corte di Strasburgo possa trovare concretezza anche in Italia”. Lattanzi sorride. Davanti a lui ci sono centinaia di reclusi. Che già applaudono alla domanda di Ruotolo. E poi aspettano in silenzio la risposta dal giudice delle leggi. Eccola: “Mi sembra che senza diritto alla speranza non ci sia prospettiva di rieducazione. È chiaro che la rieducazione, la risocializzazione si basano sulla speranza. Se manca, la vita del detenuto resta senza senso”. Arrivano applausi diversi dai precedenti. Perché sono chiaramente confusi con le lacrime. Lattanzi non perde il suo sorriso e continua: “È con la speranza che la vita del detenuto acquista un senso. Ora, ci sono ragioni di carattere giuridico in cui ho creduto, ma sull’ergastolo ostativo la prospettiva su cui riflettere è proprio la risocializzazione. E io in particolare”, aggiunge il presidente della Consulta, “a proposito della collaborazione, ho sostenuto che se anche in Italia, come in tutti gli Stati civili, esiste un diritto al silenzio, vuol dire che dal silenzio non può derivare un aggravarsi del trattamento sanzionatorio. Un simile aggravamento”, ossia l’esclusione dal diritto alla speranza e cioè dalla possibile risocializzazione, “non può essere giustificato neppure da esigenze di politica criminale. Tali esigenze possono sì legare, alla collaborazione con la giustizia, un premio, ma la mancata collaborazione non può implicare una sanzione. E questa è una cosa in cui credo profondamente”. Altri applausi. Che Lattanzi merita per aver descritto con incredibile semplicità il significato che, assai probabilmente, va attribuito alla pronuncia dello scorso 23 ottobre. Una possibilità di riscatto va almeno teoricamente concessa anche al più feroce dei criminali, a condizione che, come dice dal palco di Rebibbia il professor Ruotolo, “recida i rapporti con il crimine e, soprattutto, mostri ravvedimento”. E a nessuno si può negare un simile spiraglio di vita per il semplice fatto di aver esercitato il diritto al silenzio, che altrimenti non sarebbe un diritto. Chiarissimo. Di una chiarezza disarmante. Forse persino per chi vede il veleno della collusione in chiunque osi difendere le ragioni del diritto. Per fortuna c’è Mauro Palma, che ci ricorda la Costituzione di Gennaro Migliore Il Riformista, 6 novembre 2019 La Lectio magistralis del Garante dei detenuti, al quale ieri è stata assegnata la laurea ad honorem. Tre parole hanno segnato la Lectio magistralis di Mauro Palma, in occasione del conferimento della laurea honoris causa in giurisprudenza che gli è stata assegnata ieri: libertà, autonomia e speranza. Una lezione di diritto ascoltata con attenzione e partecipazione dalla platea che affollava l’aula magna del rettorato dell’Università di Roma 3, dove spiccava la presenza del presidente della Consulta, Giorgio Lattanzi, e dove erano risuonate le parole del rettore Pietromarchi e i professori Serges e Ruotolo, che avevano illustrato le ragioni profonde che hanno condotto a questo riconoscimento a un intellettuale, matematico di formazione, che ha poi dedicato tutta la sua vita al diritto vivente, in particolare visto dalla prospettiva delle persone private della libertà. Nella sua attività Mauro Palma ha contribuito fin dagli anni Settanta alla ricerca teorica e, soprattutto, sul campo per trovare gli strumenti che inverassero i principi fondamentali della Costituzione repubblicana relativi ai diritti delle persone e alla loro libertà (in particolare gli articoli 3, 13 e 27). Dalla creazione dell’osservatorio sulle leggi d’emergenza con i compagni del manifesto, negli anni 70, fino alla nomina come primo Garante dei diritti delle persone private della libertà, il percorso di Palma è stato segnato da un impegno incessante per rendere più giusto un diritto penale che, come ha ricordato nella magnifica Lectio magistralis, non può fermarsi alla sola dimensione processuale e punitiva, che rischia di far prevalere l’effetto “teatrale” della giustizia, senza far vivere fino in fondo quella irriducibile singolarità che è la storia di ogni essere umano, privato della libertà perché condannato o magari perché migrante, quindi detenuto senza aver commesso nessun reato che non sia il solo fatto di essere vittima di una distorta visione della sovranità statale. Un vero e proprio monito in questi tempi difficili, assediati come siamo dalla voglia di manette e forca che pervade tanta parte della politica attuale. Ed è in un questo contesto che si iscrive l’esecuzione della pena come affermazione dell’autonomia delle persone, nell’ottica del loro reinserimento e, come scrive la Costituzione, perché la pena sia una rieducazione effettiva e non effimera. Mauro Palma, con il garbo che lo contraddistingue, non ha evitato nessun argomento “scottante”: dalle navi tenute ferme in mezzo al mare con i migranti naufraghi a bordo, al punto che la “nave” diventa essa stessa un luogo della “privazione della libertà”, fino alle recenti sentenze della Cedu e della Corte Costituzionale sull’ergastolo ostativo, che sancisce una verità incontrovertibile, ovvero che senza la speranza non si può immaginare una pena legale, al contrario di chi ha parlato irresponsabilmente della cancellazione dell’ergastolo tout court e di un presunto favore ai mafiosi. E proprio contro quest’ultima sentenza, approfittando di un grave episodio di cronaca che ha visto l’utilizzo fraudolento delle visite in carcere per favorire comunicazioni di mafiosi, si è scatenata una vera e propria campagna d’odio contro i Radicali e più in generale contro le visite in carcere, alimentata dal solito Travaglio e da uomini di legge che forse dimenticano che la legge fondamentale dello Stato rimane la Costituzione e che le migliaia di visite che i parlamentari hanno realizzato sono un dovere del nostro mandato.ù Proprio nella laudatío del professor Marco Ruotolo veniva richiamato l’ammonimento del Garante, nella sua relazione al Parlamento, sull’uso improprio del linguaggio, in particolare per chi ricopre incarichi istituzionali. E invece ci tocca leggere interviste in cui il ministro della Giustizia, incredibilmente assente a questa cerimonia, parla degli autori di reato come di “parassiti”, che invoca le manette a ogni piè sospinto. Così come è inconcepibile che Bonafede possa immaginare una riforma carceraria che parifichi il ruolo dei comandanti della polizia penitenziaria negli istituti a quello dei direttori, di fatto rendendo la parte, sicuramente necessaria, della custodia prevalente rispetto a quella del trattamento. E così, la densità del messaggio di questa giornata, costellata da coltissimi riferimenti alla interpretazione iconografica delle varie rappresentazioni della giustizia, spero possa essere recuperata da quei politici che hanno responsabilità diretta nell’amministrare quel bene prezioso, essenziale e delicatissimo che è la giustizia. L’occasione di oggi l’hanno persa, speriamo che gli echi possano comunque raggiungerli. “I detenuti non pagano il debito con lo Stato, lavoreranno in carcere scalando il dovuto” Corriere della Sera, 6 novembre 2019 Il ministro di Giustizia Bonafede, intervistato da Milena Gabanelli e Simona Ravizza, si impegna a fare una legge che preveda uno stipendio “virtuale” per i detenuti: così si trovano i soldi per farli lavorare tutti. “Assolutamente sì”. Così il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha risposto a Milena Gabanelli che gli chiedeva se ha intenzione di introdurre una legge che permetta ai detenuti di lavorare in carcere in cambio di uno stipendio “virtuale”, da cui scalare le spese di giustizia e mantenimento, come avviene da anni nei paesi del Nord Europa ed in alcuni Stati americani, con ottimi risultati: le recidive sono bassissime, e in cambio i detenuti che accettano il programma hanno più permessi premio e un lavoro in tasca quando escono. Fra l’altro la maggior parte del lavoro avviene dentro le carceri, in modo da renderle quasi completamente autosufficienti. Il tema era stato sollevato dall’inchiesta di Gabanelli e Simona Ravizza “Carceri: perché il 70% dei detenuti torna a delinquere”, pubblicata lunedì sul Corriere della Sera, da cui emergeva che in Italia solo il 30% dei detenuti lavora, ma quasi tutti in rotazione e poche ore al giorno. Il problema è che la legge prevede giustamente una remunerazione, ma i soldi per far lavorare tutti non ci sono. “Il ragionamento che faceva lei porta a una soluzione molto semplice”, ha spiegato il ministro Bonafede, intervenuto in diretta a Dataroom martedì alle 13.30. “Non andiamo a inseguire il detenuto dopo che è uscito dal carcere per avere i soldi che lui deve allo Stato, ma quando il detenuto è in carcere e fa questi lavori decidiamo che una parte di quello che gli viene dato per legge venga compensato con i crediti che ha lo Stato nei suoi confronti e in questo modo alla fine della pena lui avrà pagato il suo debito, si sarà reintegrato e quando esce non sentirà l’esigenza di andare a lavorare a nero perché a quel punto il suo debito con lo Stato sarà completamente estinto”. Per fare ciò, ha aggiunto Bonafede, bisogna fare una legge. “Adesso il sistema legislativo prevede una situazione particolare per cui non si trattiene nulla se non il vitto, 3,60 euro al giorno”, ha affermato. “Se noi consideriamo la sicurezza e tutto il resto - ha proseguito - un detenuto costa fra i 130 e i 150 euro al giorno e quindi circa 4.000 euro al mese. È evidente che attualmente i 3,60 sono veramente le briciole, però adesso la legge è questa. Quindi se lei mi chiede se devo fare una legge per fare il sistema sì, la devo fare e direi che siccome facciamo tante leggi per migliorare il sistema giustizia questa sicuramente è una sfida da raccogliere”. Insomma, Bonafede lo ha promesso: farà una legge per far lavorare in carcere tutti i detenuti e fargli pagare al tempo stesso il debito che hanno con lo Stato. Oltre 100 direttori contro il Decreto legislativo di revisione dei ruoli delle Forze di Polizia penitenziaria.it, 6 novembre 2019 Lettera inviata al Capo del Dap Basentini: “Depotenziare il nostro ruolo significa creare una pericolosa alterazione degli equilibri gestionali e minare la governabilità degli istituti”. Contro la possibile riforma che darebbe più autonomia ai comandanti della Polizia penitenziaria nell’amministrazione degli istituti di pena è in corso una ferma opposizione dei direttori delle carceri italiane. La possibile approvazione definitiva, entro il 30 ottobre, di un decreto legislativo del governo in materia di revisione dei ruoli delle forze di polizia potrebbe mutare in modo radicale i rapporti di potere all’interno delle carceri. “Depotenziare il nostro ruolo - scrivono oltre cento dirigenti penitenziari in una missiva diretta a Franco Basentini, capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria - sottraendogli alcune prerogative fondamentali per governare con i necessari equilibrio e terzietà la difficile e complessa realtà penitenziaria significa creare una pericolosa alterazione degli equilibri gestionali, senza, di contro, lasciarne intravedere i vantaggi; significa minare la governabilità degli istituti, attesa la indefettibile funzione di coordinamento del Direttore rispetto alla coesistenze delle diverse istanze interne al sistema carcere (trattamentali, amministrative, contabili) che devono necessariamente interagire con quelle di sicurezza e i cui operatori non possono, ovviamente, riferirsi al Comandante di Reparto quale loro vertice”. Inoltre, secondo i direttori si metterebbero a rischio quei “principi di equità e umanità” affidati dal legislatore ai vertici degli istituti, sulla base anche di quanto sancito dalla Costituzione. Netta la contrarietà espressa in una nota anche dall’Unione delle Camere Penali secondo la quale “affidare al Corpo di Polizia Penitenziaria il potere disciplinare, della valutazione dirigenziale, della partecipazione alle commissioni selettive del personale e ai consigli di disciplina significa far regredire il sistema penitenziario a un’idea del carcere esclusivamente punitiva, annullando la figura del Direttore che possa mediare tra le esigenze trattamentali e quelle si sicurezza”. Sappe: “È giunto momento che i vertici del Dap provengano dal Corpo di Polizia penitenziaria” agenparl.eu, 6 novembre 2019 “Nelle carceri nessuna deriva securitaria. Negli ultimi giorni abbiano letto articoli e dichiarazioni alla stampa critici verso l’annunciato nuovo riordino delle carriere del Corpo di Polizia Penitenziaria. Quel che si critica è non già l’intero assetto previsto per il Corpo ma un aspetto, in particolare: quello che toglierebbe poteri ai direttori d’istituto per trasferirli al comandante. L’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere Penali, associazione di penalisti, è arrivato a parlare di “disegno (criminoso)”. Cosa lamentino i dirigenti penitenziari - direttori penitenziari che non vestono l’uniforme della Polizia Penitenziaria, non hanno alcuna preparazione e/o attitudine di polizia e né hanno superato alcuna selezione per entrare a farne parte - non è davvero dato comprendere”. Lo dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. “Sulle carceri c’è chi parla di possibile “deriva securitaria” quando nel sistema penitenziario italiano - finora gestito dai direttori penitenziari - oggi si registrano gravi episodi di violenza ed aggressione ai nostri agenti; i detenuti arrivano a chiamare il 112 dalla camera detentiva con telefonini di cui illegittimamente sono in possesso; le situazioni strutturali sono al collasso; la gestione delle relazioni sindacali e del benessere del personale è ai minimi storici con elevatissima conflittualità sindacale; i reclusi saltano i muri di cinta con le lenzuola annodate come nei film, e la lista potrebbe proseguire”, prosegue. “Esaltano la terzietà, l’equilibrio e l’imparzialità dei vertici degli istituti penitenziari a vantaggio di una “conduzione rispondente a princìpi di equità ed umanità”, però al contempo ed incoerentemente i dirigenti penitenziari vogliono continuare a stare a capo di un Corpo di polizia a cui non appartengono e che hanno condotto allo sbando, spesso anche a causa di una fuorviante deriva ideologica. Vogliono soprattutto continuare ad edificare le loro carriere sulle spalle della Polizia Penitenziaria, agganciandosi però agli istituti normativi della Polizia di Stato nelle more dell’adozione del loro primo contratto, senza però richiamare il trattamento giuridico ed economico della Polizia Penitenziaria, di cui chiedono di continuare a restare superiori gerarchici. E molti dei firmatari della missiva sono ex collaboratori dei direttori di istituto, spesso impiegati in mansioni di segreteria, i quali, grazie alla legge Meduri, sono diventati dirigenti e oggi godono dei benefici delle Forze di Polizia, senza essere poliziotti”. Capece ricorda che “l’ordinamento riconosce loro la responsabilità della sicurezza degli istituti, senza possedere alcuna qualifica che ne legittimi l’attribuzione ma, soprattutto, senza alcuna formazione specifica. Non si comprende, dunque, quali siano le peculiarità dei dirigenti penitenziari rispetto ai dirigenti della Polizia penitenziaria, considerato che questi ultimi sono tutti portatori di una elevata cultura giuridica, visto che sono laureati in giurisprudenza e hanno tutti almeno un master, alcuni hanno anche più di una laurea”. Per il Sappe, dunque, “più che essere noi “parte di una deriva securitaria” sono loro parte di una deriva ideologica che vorrebbe eliminare le carceri e la polizia, lasciando i delinquenti in giro per le strade. Noi auspichiamo che il Ministro della Giustizia Bonafede continui a porre attenzione alla crescita del Corpo di Polizia Penitenziaria e condivida con noi l’esigenza, ormai avvertita da tutti, di addivenire al più presto all’unificazione della dirigenza, con possibilità di transito dei dirigenti penitenziari in altre amministrazioni, qualora non volessero entrare a far parte del Corpo; tale modifica ordinamentale dovrebbe prevedere anche l’istituzione dei ruoli tecnici dei medici, degli psicologi, dell’area socio pedagogica e amministrativo contabile. È giunto il momento che i Vertici dell’Amministrazione provengano dal Corpo di Polizia Penitenziaria”. Il Dap: nuovi beni e strumenti per la sicurezza degli Istituti penitenziari di Marco Belli gnewsonline.it, 6 novembre 2019 I numeri sui rinvenimenti di sostanze stupefacenti e telefonini in carcere negli ultimi tre anni parlano chiaro: nei primi nove mesi del 2017 furono 353 gli eventi critici legati al ritrovamento di droga (perquisizioni sui detenuti, rinvenimento in aree comuni o nella fase dei colloqui), 453 nello stesso periodo del 2018 e 587 quest’anno. Relativamente al rinvenimento di telefonini, passiamo dai 355 del 2017, ai 642 dei primi nove mesi del 2018, ai 1.412 di fine settembre 2019. A questo trend in netta salita concorre ovviamente il maggior numero dei detenuti presenti negli istituti penitenziari, ma anche i progressi della tecnologia che, almeno per ciò che riguarda la miniaturizzazione di dispositivi elettronici, permettono oggi di nascondere con facilità un telefono dove prima era assolutamente impensabile. Per questo, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, nella scelta degli investimenti e delle spese da effettuare per il 2019, ha preferito privilegiare l’acquisto di strumenti e tecnologie in grado di migliorare il contrasto all’introduzione di sostanze illecite negli istituti nonché di rilevare, inibire o isolare gli apparati telefonici mobili introdotti abusivamente. Sono stati stanziati circa 3,5 milioni di euro per il 2019 per migliorare la sicurezza dei penitenziari e che hanno permesso l’acquisto di specifiche apparecchiature, per cui è stata avviata - e in qualche caso già ultimata - la distribuzione. Nel dettaglio: - 90 apparecchi per il controllo radiografico dei pacchi, suddivisi in tre lotti da 30, sono in fase di distribuzione ai Provveditorati che poi li assegneranno agli istituti del territorio. La loro installazione sarà ultimata entro la primavera del 2020; - 40 metal detector ‘a portalè già distribuiti a 40 istituti: saranno tutti installati entro fine anno; - 40 jammer per l’inibizione delle frequenze telefoniche, già distribuiti: 3 jammer per ciascuno degli 11 Provveditorati, che decideranno come assegnarli sul territorio; 2 al Nucleo Investigativo Centrale (Nic), 2 al Gruppo Operativo Mobile (Gom) e 3 alla task-force che si occupa dei concorsi; - 2 apparati Imsi per la cattura di frequenze telefoniche, importanti e costosi strumenti che permettono la rilevazione del telefono chiamante e del telefono chiamato: già acquistati e a breve saranno messi a disposizione del Gom; - 200 rilevatori manuali di telefoni cellulari, anche spenti: già acquistati, saranno distribuiti entro fine anno; - 65 apparati rilevatori di traffico di fonia e dati: già acquistati, saranno distribuiti a breve. Inoltre, nella programmazione per il 2020 il Dap ha già previsto, fra gli altri, l’acquisto di metal detector ‘a portalè di nuova generazione, che permettono contemporaneamente il rilevamento di corpi metallici e apparecchi telefonici. Caro Travaglio, sì, il vostro appello sull’ergastolo è eversivo di Gian Domenico Caiazza* Il Riformista, 6 novembre 2019 Il Fatto Quotidiano raccoglie le firme a sostegno di un appello al Legislatore perché intervenga per porre rimedio alla sentenza della Corte Costituzionale sull’ergastolo ostativo. I promotori si dolgono per avere io definito quell’appello “tecnicamente e materialmente eversivo”, e mi spiegano che è semmai la Mafia ad essere eversiva. Dio solo sa cosa avranno voluto dire, parole in libertà e senza costrutto. Io ribadisco che altro è criticare una sentenza della Corte Costituzionale, operazione del tutto legittima ed anzi insindacabile, altro è chiedere che il Legislatore intervenga per sterilizzare (bando alle ipocrisie, suvvia!) i temuti effetti di quella sentenza, che secondo la manipolatoria propaganda dei suoi detrattori sarebbero devastanti per il contrasto dello Stato alla Mafia. Rendersi promotori di una simile iniziativa denunzia un totale disprezzo per il ruolo supremo che la Costituzione ha affidato al magistero della Consulta. Resta da stabilire se questo avvenga per analfabetismo istituzionale e costituzionale, o per consapevole e compiuta cultura antidemocratica, ma il risultato non cambia: tecnicamente e materialmente si tratta di una idea eversiva dell’ordine costituzionale, nel senso che oggettivamente presuppone una sovversione degli equilibri disegnati dalla nostra Carta Costituzionale. La Consulta è il Giudice delle Leggi. Ad essa è attribuito un potere formidabile e senza eguali, è cioè quello di abrogare una legge votata legittimamente dal Parlamento in quanto giudicata non conforme alla nostra Costituzione. È una abrogazione - come si dice tecnicamente - efficace “ex tunc”, cioè da quando la legge è stata promulgata: più che abrogare la legge, la incenerisce, quella legge deve intendersi come se non ci fosse mai stata, si adegui la Giurisdizione, si adegui l’Amministrazione dello Stato, si adegui - figuriamoci - innanzitutto il Legislatore (l’Opinione Pubblica, deo gratias, non entra nemmeno in classifica). Si può rimediare ad una decisione della Corte che non si condivide? Certamente: si promuova una modifica della Costituzione che fissi un principio incompatibile con quello affermato dalla sentenza criticata, ed è presto fatto. Esiste una maggioranza qualificata che abbia questa intenzione? Si accomodi, auguri. Mettete mano, se ne avete il coraggio, all’art. 27 della Costituzione (finalità rieducativa della pena), invocando la cui violazione la Corte ha di fatto abrogato il principio di ostatività predeterminato per legge. Ma fino a quel momento, chiunque istighi il legislatore a rimediare, a porre un freno, ad attutire - e nel non detto, a vanificare - l’impatto del principio solennemente affermato dalla Corte, sta portando - ripeto, inconsapevolmente o intenzionalmente, il risultato non cambia - un attacco velenoso al cuore del nostro sistema istituzionale e democratico. Di fronte ad un principio affermato con tanta nettezza, al Legislatore non resta che starsene zitto e buono, e l’ultima cosa che si possa immaginare che accada (salvo che non sia la stessa Corte a chiederlo, ma questa è altra storia) è che si metta a scarabocchiare - as usual - improbabili nefandezze giuridiche, linguistiche e sintattiche, per “rimediare” alla irresponsabile leggerezza di quegli sprovveduti della Corte Costituzionale, che pontificano ignari della realtà, della trincea, e bla bla bla. Cosa poi dovrebbe mai fare il Legislatore, istigato da questi nuovi sanfedisti? Il Manifesto travagliesco (impreziosito dalle solenni citazioni dei vari Gratteri, Di Matteo eccetera) lo dice a chiare lettere: non lasciare il giudizio sulla concedibilità del permesso “ai semplici Giudici di Sorveglianza”. Non so se qui si sconti la poca padronanza della lingua italiana, o se si intenda alludere ad una supposta semplicità d’animo francescana, ad una certa sprovvedutezza, o a chissà quale altro limite umano e professionale di quei Magistrati, ma la domanda è: cosa c’è che non va nei Magistrati di Sorveglianza, signori promotori del Manifesto? Sono magistrati né più nè meno - anche se a voi suonerà come una bestemmia - di quanto lo siano Gratteri, Di Matteo e gli altri 9000 che hanno vinto lo stesso concorso. Perché mai i “semplici Magistrati di Sorveglianza” sarebbero corruttibili, ricattabili, minacciabili, più di quanto non possano esserlo il Pm che indaga, il Gip che cattura, i giudici del Tribunale e della Corte di Appello chiamati a condannare o ad assolvere il Mafioso? Per non dire che quei “semplici giudici di Sorveglianza” nel dover accertare, secondo quanto sancito con nettezza dalla vituperata sentenza della Corte Costituzionale, il parametro della interruzione dei rapporti dell’ergastolano richiedente il permesso con la cosca di appartenenza, formuleranno quel giudizio sulla base non del comportamento carcerario, che qui non c’entra nulla, né di una loro epidermica sensazione, ma delle informazioni che riceveranno dalla Polizia Giudiziaria, dalla Direzione Nazionale Antimafia, dalla Procura Distrettuale Antimafia territorialmente competente, e chi più ne ha più ne metta. Altro è chiedere - come fa con molto garbo, e con tutt’altro senso delle regole e delle Istituzioni, il (semplice?) Magistrato di Sorveglianza romano Marco Paternello sul Corsera di qualche giorno fa- che si rafforzino le dotazioni strutturali dei Tribunali di Sorveglianza. Questo noi penalisti lo chiediamo da anni a prescindere, e questo dovrebbero limitarsi a chiedere le persone serie, che abbiano a cuore ad un tempo la sicurezza sociale e la tenuta delle nostre istituzioni democratiche: tutto il resto è propaganda di bassa lega. *Presidente Unione Camere Penali Chi difende lo Stato di diritto non sta dalla parte della mafia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 6 novembre 2019 La vicenda Nicosia riaccende la criminalizzazione di chi è contro il carcere duro. Le investigazioni svolte, oltre a rivelare la partecipazione di Antonello Nicosia alla famiglia mafiosa di Sciacca in epoca datatissima, fin dalla fine degli anni 90, nonché l’attuale pianificazione da parte sua di danneggiamenti, estorsioni e altri gravi delitti, ha dimostrato che tale partecipazione si è aggiornata con nuove e pericolose condotte realizzate attraverso incarichi politici e pubblici da lui progressivamente acquisiti nel corso degli ultimi anni. Grazie all’impegno in più associazioni volontaristiche, all’elezione nel movimento dei Radicali italiani e, infine, ai rapporti stretti con l’onorevole Giuseppina Occhionero, Nicosia è infatti riuscito ad accreditarsi presso diverse strutture penitenziarie e a fare visita a mafiosi detenuti, a scopi - come si legge nell’ordinanza - “certamente estranei a quelli, dichiarati, della tutela dei loro diritti”. Anche il giudice ha voluto sottolineare che la condotta di Nicosia non ha nulla a che fare con la tutela dei diritti dei detenuti. Più avanti si legge che, sfruttando il baluardo della militanza politica, “ha portato avanti l’ambizioso progetto di alleggerire il regime detentivo speciale di cui all’art. 41bis Ordinamento penitenziario, da sempre tema oggetto di accesi dibattiti sia all’interno dell’associazione mafiosa che nell’agenda politica nazionale”. Ed è qui che taluni partiti e giornali hanno cercato di eliminare la oggettiva differenza tra chi si batte legittimamente contro il 41bis e la mafia, la quale ovviamente non può che avversare il regime del 41bis. Ogni volta in cui si prova a riaffermare con forza lo Stato di Diritto, è ormai inevitabile che i movimenti politici e giornali più conservatori rispondano con anatemi in nome della sicurezza nazionale e, soprattutto, con la retorica del presunto favore ai terroristi (il caso americano sulla chiusura del carcere di Guantanamo) o ai mafiosi, come nel caso nostrano. Soprattutto nostrano. È il paradosso secondo cui la sacrosanta lotta alla mafia diventa un pretesto per rinunciare, o per sottovalutare, concetti e diritti fondamentali: passa così l’idea che per i mafiosi il diritto non dovrebbe valere, che non dovrebbero essere difesi da un avvocato, che non hanno diritto alla salute e che devono rimanere in carcere anche se gravemente malati. Quindi un avvocato che difende i boss mafiosi viene visto con sospetto, così come vengono viste con sospetto le battaglie contro il regime duro o l’ergastolo ostativo. In Italia, storicamente, sono i movimenti libertari a condurre da sempre queste battaglie impopolari. C’è il Partito radicale, ma ci sono anche una minoranza della sinistra come Rifondazione o Potere al Popolo, così come il movimento anarchico. La battaglia si basa su un principio di fondo: il 41bis è una condizione di spietato isolamento, insostenibile per l’essere umano, specie se protratta per anni; è un sistema che genera una sofferenza aggiuntiva ben al di là di quella fisiologicamente connessa alla condizione di recluso. Una simile denuncia viene sollecitata anche da organismi internazionali come il Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa e il Comitato delle Nazioni unite contro la tortura, che ha di recente sollevato critiche sull’eccessiva durata del regime derogatorio e sulla condizione di isolamento in cui versano tali categorie di detenuti. I mafiosi appoggiano volentieri questa battaglia? Ma è lapalissiano. E allora chi sostiene battaglie di civiltà, ispirate alla Costituzione, sarebbe mafioso per la proprietà transitiva? Un ragionamento del genere presuppone che lo Stato debba applicare le regole mafiose: vendetta, coercizione perpetua per estorcere informazioni, totale mancanza di pietas. Il pericolo, forte, che ogni battaglia per lo Stato di Diritto venga sospettato di favorire la mafia, si fa sempre più concreto. Ha però tutta l’aria del déjà vu. Leonardo Sciascia, per il suo criticatissimo articolo “I professionisti dell’antimafia”, si ispirò allo storico Christopher Duggan che analizzò, prima di tutti, molto bene il fenomeno mafioso italiano, ma anche quello antimafioso qiuale strumento di potere all’epoca del fascismo. Duggan infatti scrisse che “come il fascismo doveva, in Sicilia, liberarsi delle frange “rivoluzionarie” per patteggiare con gli agrari e gli esercenti delle zolfatare, costoro dovevano liberarsi delle frange criminali più inquiete e appariscenti”. La durissima repressione del famoso prefetto Mori, per Duggan non era dunque che “il giuoco di una fazione fascista conservatrice e di un vasto richiamo contro altra, che approssimativamente si può dire progressista, e più debole”. Sicché spiegò che l’antimafia è stata allora strumento di una fazione, interna al fascismo, per il raggiungimento di un potere incontrastato e incontrastabile. Incontrastabile non perché assiomaticamente incontrastabile era il regime - o non solo: ma perché talmente innegabile appariva la restituzione all’ordine pubblico, che il dissenso, per qualsiasi ragione e sotto qualsiasi forma, poteva essere facilmente etichettato come mafioso”, concluse lo storico Duggan. Tale analisi rischia di ritornare di attualità. Dobbiamo stare molto attenti: perché da una battaglia giusta, senza il rispetto del Diritto, può nascere anche una dittatura. La lobby di Travaglio & Company azzanna alla gola i garantisti di Piero Sansonetti Il Riformista, 6 novembre 2019 Scatenata contro garantisti, Consulta e Corte Europea. Chiede più ergastolo. Ama solo tre parole: carcere, carcere, carcere. Di Antonello Nicosia sapiamo ancora pochissimo. Un uomo delle cosche? Beh, aspettiamo a giurare sul Vangelo; non dico aspettiamo una sentenza - che non si usa - ma almeno aspettiamo qualche indizio in più, o magari il rinvio a giudizio, non vi sembra? Dobbiamo accontentarci di un paio di intercettazioni che hanno registrato frasi che più che di un picciotto sembrano pronunciate da un tipo fuori di testa? È logico che i partiti e gli esponenti politici prendano le distanze. Anche un po’ intimoriti, stavolta, non dai magistrati mai dai plotoni di esecuzione schierati dai Cinque Stelle e da Travaglio. Il capo di Leu, Pietro Grasso, costretto a rilasciare un’intervista al Fatto, ha dimostrato fino a che punto si possa intimidire un leader politico. Noi però, che non dobbiamo difendere nessun serbatoio di voti, vorremmo ripetere una frase che ormai, nel senso comune, è quasi una bestemmia: prima di dire che un tale è un orco, è un pedofilo, è un assassino, è un mafioso, è un farabutto, occorre un’indagine, qualche prova, la definizione di un delitto (che per ora, nel caso Nicosia, non è ancora chiarissima) e magari un processo. Sarà una bestemmia, ma talvolta serve che qualcuno si decida a bestemmiare. Dopodiché bisognerà prendere atto della realtà. Il paese, l’opinione pubblica, anche gli intellettuali, tutti si sentono sotto tiro e - come diceva Alessandro Manzoni - il buonsenso fugge via e si nasconde per non farsi acchiappare dal senso comune. Il principale leader di opinione oggi è Marco Travaglio e guida l’opinione pubblica attraverso il suo giornale (e il suo partito, cioè i 5 Stelle). Ieri ha usato il giornale per denunciare i radicali di ogni risma e gli orrori libertari realizzati a suo tempo da Marco Pannella. Ha accusato il garantismo italiano di “celare collusioni” con la mafia. Ha definito scandalose le sentenze della Corte Costituzionale italiana e della Corte dei diritti europea. E poi si è scagliato contro le lobby del garantismo. Le lobby? Esistono lobby del garantismo? E quali sarebbero? Quelle che hanno ottenuto in questi anni l’aumento delle pene per tutti i delitti, le legislazioni speciali, la conferma e un incattivimento del 41bis, la legge spazza corrotti che è la prima legge retroattiva da due o tre secoli a questa parte, l’equiparazione dei reati di corruzione ai delitti di sangue o mafiosi, la riduzione al minimo termini dei benefici carcerari, l’ampliamento della gogna mediatica, l’aumento della carcerazione preventiva, e potrei continuare ancora? Beh, è una lobby di incapaci. Parliamo invece per un momento della lobby delle manette, che vuole cancellare due secoli di cultura giuridica e che propone un modello culturale - lo Stato etico - che in Europa era stato sconfitto dalle armate americane, prima, e poi dalla caduta del muro di Berlino? Parliamone, perché quella è una lobby potente davvero, raggruppa un bel pezzo della magistratura e quasi tutto il giornalismo giudiziario. Vogliamo chiamarli poteri forti? beh, non è che io conosca poteri più forti dei loro. Il problema è esattamente questo. Non è la punta di lancia di questa lobby - cioè i 5 stelle e Travaglio - il problema è il dilagante condizionamento che questa lobby sta realizzando nel paese. Ha conquistato i gruppi dirigenti di quasi tutti i partiti, in particolare dei partiti più forti, ha messo la museruola alle forze liberali nei giornali e nell’intellettualità, ha conquistato gran parte delle trasmissioni televisive, ha preso in mano il parlamento e lo guida a suo piacere. È possibile fermare l’avanzata di questa lobby? Il primo passo da muoveresarebbe quello di non farsi più intimidire. Non è facilissimo, però è ancora possibile. Magari tra due o tre anni non sarà più possibile. “Garantisti, cioè mafiosi” di Valentina Ascione Il Riformista, 6 novembre 2019 L’arresto dell’ex esponente Radicale si è trasformato nel pretesto per sferrare un violento attacco a chi denuncia le drammatiche condizioni del carcere e si batte per i diritti dei detenuti. Se, come sostiene la procura di Palermo, Antonello Nicosia, l’ex collaboratore parlamentare di Sciacca fermato per associazione mafiosa, strumentalizzava la possibilità di accedere agevolmente agli istituti di pena al deguito della deputata Giuseppina Occhionero (sentita ieri dai pm come testimone) per veicolare all’interno e dall’esterno messaggi e ordini dei boss, è forte in queste ore il rischio - per non dire la certezza- che il suo caso venga strumentalizzato a propria volta. Brandito, per meglio dire, contro l’attività di monitoraggio delle carceri finalizzata alla vigilanza e alla tutela dei diritti di chi sta scontando una pena. Tanto per cominciare, le reazioni all’arresto di Nicosia, presentato da più parti sui media come “esponente” o “dirigente radicale”, allungano l’ombra del sospetto sull’iniziativa dei radicali che delle carceri hanno fatto il principale terreno di lotta politica. Denunciare le drammatiche condizioni delle carceri italiane, e battersi per il loro miglioramento, è l’obiettivo delle frequenti visite da loro organizzate ed effettuate negli istituti in tutta Italia. Sono invece ben diversi gli scopi che Nicosia avrebbe perseguito, anche strumentalizzando l’elezione nel 2017 nel comitato di Radicali Italiani per accreditarsi presso le strutture penitenziarie, come precisato dagli stessi pm della dda di Palermo. Ecco perché in questa vicenda, su cui le indagini faranno il proprio corso, i radicali appaiono dunque a tutti gli effetti come una parte lesa. Eppure ieri in prima pagina il Fatto Quotidiano annunciava: “La storia dei garantisti all’italiana”. Il caso di Nicosia “non deve restare confinata nella sua dimensione penale”, si poteva leggere nell’articolo all’interno, “a prescindere dalla conclusione giudiziaria” dovrebbe “accendere un dibattito serio sulla natura di “lobby garantista” usata come ‘bus’ dai criminali di ieri, oggi e domani, assunta dai radicali”. A dimostrazione di tale tesi, seguiva una carrellata di dichiarazioni pubbliche (alcune piuttosto datate), iniziative politiche (come la raccolta firme per i referendum sulla giustizia del 2013 o quello sulla responsabilità civile dei magistrati), e aneddoti degli ultimi 30 anni in cui si facevano incrociare il mondo mafioso con quello radicale. “Nulla di illecito”, precisava tuttavia, a più riprese, l’estensore dell’articolo. tiarsenale probatorio a supporto della tesi della lobby cara ai criminali” veniva ripreso nell’editoriale del direttore. “Nel 2013 Pannella raccolse le firme (compresa quella del neopregiudicato B.) per abolire, fra l’altro, l’ergastolo, rendere ancora più intimidatoria la responsabilità civile delle toghe e limitare vieppiù la custodia cautelare: Giuseppe Graviano. in carcere, esultò per l’ideona e la firma di B. Oggi, crollata FI, i clan si guardano intorno a caccia di chi lanci segnali d’apertura alle loro esigenze. Per esempio - scriveva ieri Marco Travaglio - chi plaude (o tace) alle scandalose sentenze anti-ergastolo della Cedu e della Consulta. Ci mancherebbe - è la premessa - purché chi la tiene apra gli occhi sui voti e gli infiltrati mafiosi in arrivo”. Anche i recenti pronunciamenti della Corte europea dei diritti umani e della Corte Costituzionale sull’ergastolo ostativo, che hanno aperto ai permessi premio anche per chi non collabori con la giustizia, sono quindi finiti nel mirino dopo l’indagine di Palermo che ha portato all’arresto di Antonello Nicosia e di altre 4 persone. E c’è chi come l’ex presidente del Senato ed ex procuratore Pietro Grasso, intervistato ieri dal Fatto, propone lo stop all’ingresso in carcere dei collaboratori dei parlamentari: “anche solo una visita ai detenuti quando non si conoscono i propri collaboratori o i codici mafiosi, può avere grandi conseguenze”, avverte. “I parlamentari devono controllare che vengano rispettati i diritti dei detenuti. Bisogna tutelare questa funzione. Ma i politici devono essere accompagnati dalla Polizia penitenziaria e dal direttore del carcere. Possono parlare solo delle condizioni di vita in cella, se si parla di altro deve essere segnalato. Maggiore attenzione poi quando i contatti sono con chi si trova al 41bis: i detenuti al carcere duro non devono avere alcune possibilità di comunicare su temi al di fuori delle condizioni carcerarie, neanche durante le visite ispettive dei parlamentari”. Ma su questo la norme che regolano le visite in carcere sono estremamente rigide. Solo il Garante nazionale dei diritti delle perone detenute, con membri del suo collegio, isuò richiedere un colloquio riservato anche con detenuti in regime di 41bis. Tutte le altre figure, dai garanti regionali, provinciali e comunali, e i parlamentari nell’esercizio del sindacato ispettivo non hanno questa facoltà. Saranno le indagini quindi a chiarire in che modo Nicosia, pur entrando come collaboratore della deputata Occhionero, abbia potuto comunicare con i boss. “Si tratta di un fatto grave che non deve comportare una generalizzazione”, spiega al Riformista Daniela De Robert, componente del collegio del Garante nazionale dei detenuti, “La vigilanza e la tutela dei diritti è fondamentale, ed è un lavoro di grande responsabilità”. Gli infiltrati nell’onore dei Radicali di Francesco Merlo La Repubblica, 6 novembre 2019 Nella Chiesa in decadenza si rifugiano i più viziosi peccatori perché la crisi dei suoi valori li mimetizza e li rende invisibili. E infatti, tra i tanti delinquenti che in Italia hanno militato nella virtù, tra mafiosi antimafia come Montante, magistrati malandrini e tangentisti antitangente, non c’era mai stato un radicale sradicalizzato. Invece ora si scopre che questo Antonello Nicosia (ma chi lo conosceva?) è riuscito a infiltrarsi nel purissimo garantismo garantito da Pasolini, Tortora, Sciascia, Pannella ed Emma Bonino. Ha indossato il saio radicale non, come hanno scritto, per entrare in carcere e fare il portalettere della mafia di Matteo Messina Denaro, ma per lucrare, una volta in carcere, sulla parola “radicale”. In prigione entrava infatti come assistente - nientemeno - di una deputata (non indagata) della sinistra di Pietro Grasso, ma era iscritto a Radicali italiani nel Comitato nazionale! - perché questa medaglia, che abbaglia più dell’antimafia dello stesso Grasso, lo rendeva sacerdote della libertà, arbitro dei diritti e dei doveri del detenuto. E quando trafficava, anche in piccole tv libertarie, con i valori radicali, nessuno si accorgeva che c’era troppo inferno in quella maschera transgenica. Eppure era doppio come Pantalone e mentiva anche a stesso quando goffamente tra i tanti maestri di valori scomodava Habermas, Voltaire, Brecht, Dostoevskij, Bobbio, Hermann Hesse, i Papi e Manzoni. Era dunque invisibile non solo ai Radicali Italiani e dunque a Emma Bonino, Marco Cappato, Riccardo Magi, Silvio Viale, ma anche a quegli altri del Partito Radicale che nell’ingiusto e nel disumano delle prigioni, nel bugliolo, nella puzza e nelle violenze dell’universo concentrazionario ancora cercano e scoprono l’umanità dell’Italia, e sto parlando di Rita Bernardini, Maurizio Turco, Sergio D’Elia, dei militanti di Antigone e Nessuno tocchi Caino, di Maria Antonietta Farina Coscioni, Elisabetta Zamparutti, Irene Testa. Forse nessuno di loro ha visto e capito Nicosia perché la grande cultura radicale è in crisi? Dolenti e divisi, i radicali si contendono - molto male - eredità morali e materiali, e si espongono sia agli infiltrati e sia agli sciacalli che arrivano quando si alza il tanfo del disfacimento. Sono gli stessi sciacalli che già volevano chiudere Radio Radicale, e si spingono sino all’orrore di dire che questo Nicosia è il degno erede del Pannella che digiunava per la giustizia e per l’amnistia, contro l’ergastolo e le leggi speciali, per la mancata riforma penitenziaria, e contro lo Stato italiano che, secondo la Corte Europea, non custodisce ma tortura. Si sa che la fiducia regge il mondo. E i radicali sono sempre stati affidabili. Lo spread, a cui siamo appesi, è un indicatore di fiducia. E sulla fiducia si basano i mutui bancari. Scegliamo salumieri, pescivendoli e panettieri di fiducia, appunto. Così per i giornali dove una testata non vale un’altra. Persino i libri si comprano per l’affidabilità del nome: di Gallimard, Suhrkamp Verlag, Penguin e Adelphi ci si può fidare. Ebbene i radicali che entrano in carcere sono ancora la giustizia giusta e la verità scomoda di un mondo volutamente dimenticato. I radicali sono Cesare Beccaria, i soldati del diritto che ci distingue dai califfati, dai turchi di Erdogan, dall’Egitto di al-Sisi. Dei radicali hanno fiducia sia i carcerati e sia i carcerieri. Quando dunque dalla fiducia emerge l’empietà, lo scandalo è più grave perché sporca il mondo dei valori, ne mostra la fragilità e la possibile corruzione. Ma al tempo stesso dovrebbe rafforzarli perché li mette in guardia. Da più di dieci anni il trafficante di valori è una nuova maschera italiana, un unico carattere che contiene mille identità. E però i magistrati malandrini come Silvana Saguto non hanno distrutto la magistratura. E gli antipizzo beccati con il pizzo in tasca hanno migliorato la battaglia contro il pizzo. Ci ha reso meno creduloni la vicenda del giornalista Pino Maniaci che aveva la schiena dritta in pubblico ma, di nascosto, la piegava. E siamo diventati diffidenti vedendo che i corrotti venivano arrestati mentre aprivano convegni contro la corruzione, come l’ex vicepresidente della Regione Lombardia Mario Mantovani condannato a 5 anni e 6 mesi. Ricordate Totò Cuffaro? Fu lui a introdurre la novità epocale del mafioso che si sputava addosso, si sfregiava, si oltraggiava. Quand’era presidente della Regione siciliana inventò infatti lo slogan: “la mafia fa schifo”. Poi fu condannato per mafia. Inaudito? Oggi questo Nicosia che trafficava in pizzini per conto della mafia è l’inaudito radicale. E gli eredi della grande tradizione garantista italiana male fanno ad accusarsi reciprocamente di non essere abbastanza radicali invece di addossarsi tutti insieme, non certo le colpe del farabutto Nicosia che non hanno, ma la responsabilità della decadenza di cui Nicosia è la spia, l’indicatore, il segnale, il cattivo odore. Lo sciacallaggio in Italia è ormai una banalità ma, se i radicali non fossero ridotti così male nessuno si permetterebbe di volare tanto basso, con l’idea che gratta gratta, dietro Nicosia c’era la banda Bassotti dei garantisti, e che in fondo anche Pannella era solo un complice di Al Capone. Pietro Grasso: “Stop visite nelle carceri ai collaboratori dei parlamentari” Askanews, 6 novembre 2019 Nessun imbarazzo per la vicenda di Antonino Nicosia, l’ex collaboratore arrestato per mafia della senatrice eletta con LeU (oggi in Italia viva) Giuseppina Occhionero. Pietro Grasso, che di LeU è stato il leader fino alla divisione, dopo le elezioni, del listone di sinistra nelle varie componenti, ha commentato così la notizia del blitz della Dda di Palermo in una intervista al Fatto quotidiano. “Assolutamente no, Nicosia era collaboratore, peraltro allontanato, della Occhionero, non mio. E poi ci sono le intercettazioni in cui si evince che era lui ad essere in difficoltà: si preoccupava del fatto che avrei potuto scoprire i suoi precedenti penali”. “Questa inchiesta però - ha sottolineato l’ex procuratore antimafia - dimostra anche altro: ossia che Cosa Nostra cerca ancora i rapporti con la politica, continua ad infiltrarsi nelle istituzioni”. Quanto all’uso improprio che Nicosia, secondo l’accusa, faceva del suo ruolo accompagnando Occhionero nelle visite ai detenuti, Grasso ha aggiunto: “I parlamentari devono controllare che vengano rispettati i diritti dei detenuti. Bisogna tutelare questa funzione. Ma i politici devono essere accompagnati dalla polizia penitenziaria e dal direttore del carcere. ùPossono parlare solo delle condizioni di vita in cella, se si parla di altro deve essere segnalato. Io però sono dell’idea di evitare l’ingresso dei collaboratori. Maggiore attenzione poi - ha concluso il senatore di LeU - quando i contatti sono con chi si trova al 41bis: i detenuti al carcere duro non devono avere alcune possibilità di comunicare su temi al di fuori delle condizioni carcerarie, neanche durante le visite ispettive dei parlamentari”. “Ecco perché aderisco alla vostra petizione sull’ergastolo” Il Fatto Quotidiano, 6 novembre 2019 L’intervento di Maria Falcone, sorella di Giovanni, a sostegno della petizione per una legge che limiti i permessi agli ergastolani ostativi: “Continuità nella lotta alla mafia”. Gentile direttore, non posso nascondere la mia preoccupazione per i potenziali effetti della sentenza della Consulta che ha dichiarato incostituzionale la norma dell’ordinamento penitenziario che negava i benefici carcerari agli ergastolani per reati di mafia che non avessero avviato una collaborazione con la giustizia. Non dimentichiamo che si tratta di una disposizione legislativa introdotta dopo le stragi di Capaci e via D’Amelia, un momento tragico per l’Italia, un Paese che ha dovuto fare i conti con una mafia del tutto peculiare rispetto alle altre organizzazioni criminali. Non dimentichiamo che in nessun altro Stato tanti uomini delle istituzioni hanno pagato con la vita il loro impegno contro le mafie. Faccio questa premessa per ricordare la ratio e la storia di una norma che, come tutta la legislazione premiale per i cosiddetti pentiti, è servita a scardinare una organizzazione considerata granitica. Perciò il legislatore aveva dato a chi passava dalla parte dello Stato, ed era realmente intenzionato a recidere i legami con il clan, una chance che potesse garantirgli quella rieducazione prevista dalla Costituzione come doverosa per chiunque. E ciò a differenza del trattamento stabilito per chi ha scelto di rimanere fedele al giuramento prestato per diventare uomo d’onore. La sentenza della Consulta impone ora una “rivisitazione” normativa. Efondamentale che la Corte costituzionale abbia con la sua pronuncia escluso che si passasse a una sorta di automatismo al contrario, optando invece per l’attribuzione al giudice terzo della valutazione della concessione dei benefici agli ergastolani mafiosi. lo ho piena fiducia nel giudizio dei magistrati che sapranno valutare e scegliere. Pongo però due temi: quello della possibilità di pensare a concentrare la competenza sulla materia a una sola autorità giudiziaria, come accade già per le questioni relative all’applicazione del 41bis (affidate a un solo organo, il Tribunale di sorveglianza di Roma). Questo consentirebbe di avere un indirizzo giurisprudenziale unitario su argomenti tanto delicati. Inoltre sarebbe auspicabile che a occuparsi di queste questioni sia un organo collegiale e non un giudice monocratico, per evitare sovraesposizioni e possibili pressioni sul singolo. L’auspicio è che la risposta legislativa, che la decisione della Consulta impone, garantisca una continuità della azione antimafia per scongiurare un pericoloso ritorno al passato. Gran parte della politica, cito per tutti il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, ha manifestato preoccupazione per il dopo sentenza e ha sottolineato la necessità di arrivare a una soluzione legislativa che salvaguardi quanto con fatica si èfatto nella lotta alla mafia, che deve restare una priorità per tutti. Maria Falcone Dal carcere duro a Mafia Capitale, sentenze che fanno discutere di Bruno Ferraro* Libero, 6 novembre 2019 Tre pronunzie, di tre diversi organi giudiziari, hanno messo in allarme l’opinione pubblica e in discussione l’efficacia della lotta alla criminalità organizzata, anche perché, intervenendo a pochi giorni l’una dall’altra, segnalano implicitamente un abbassamento del rigore dell’azione di giudici e forze dell’ordine nella repressione di crimini molto efferati. Ha cominciato la Corte di Giustizia di Strasburgo, chiamata a pronunziarsi sulla legittimità dell’art. 41bis, ovvero il carcere duro, uno strumento irrinunziabile nella lotta alla mafia ed al crimine organizzato perché impedisce ai boss di continuare a comandare anche dal carcere e spezza il legame dei capi con il territorio. C’è stato tempo fa l’episodio della condanna dell’Italia da parte della Corte Europea dei diritti dell’uomo per la decisione di rinnovare il 41bis a Bernardo Provenzano per il periodo dal 23 marzo al 13 luglio 2016, giorno della sua morte. Se 20 ergastoli, un elenco impressionante di omicidi efferati ed una decisione favorevole della Cassazione non sono sufficienti a giustificare l’adozione di tale misura, allora è giusto che l’Italia se ne dolga, sia a livello di opinione pubblica sia a livello politico, anche perché il sistema penitenziario italiano è stato più volte definito equo e razionale dalla Corte Costituzionale. Quindi, non v’e spazio per ritenere “inumana e degradante” la detenzione in carcere di Provenzano e di chi per lui. È grave che non se ne renda conto la Corte di Strasburgo che, sentenziando nell’ottobre 2019 nel caso Viola (ergastolo per mafia, sequestro di persona ed omicidio), ha ritenuto il 41bis incompatibile con il fine rieducativo della pena in carcere. Ha proseguito la Corte di Cassazione che, con sentenza del 22 ottobre 2019, ha escluso l’esistenza di “mafia capitale” bocciando l’apparato accusatorio messo in piedi dalla Procura di Roma a seguito di due maxi retate che portarono (dicembre 2014 e giugno 2015), all’arresto rispettivamente di 37 e 44 persone. Per la Procura, allora guidata da Giuseppe Pignatone, opererebbe nella Capitale un’associazione di stampo mafioso originale, capace, con la complicità di politici e funzionari, di impadronirsi degli appalti pubblici (campi nomadi, accoglienza per migranti, verde, rifiuti): piccole mafie che (parole di Pignatone) “operano in una sostanziale pax, sulla base di un sistematico accordo tra i diversi responsabili e dell’uso di un comune metodo mafioso fatto di violenza e intimidazione, volto a favorire atteggiamenti omertosi e con l’obiettivo di reinvestire i soldi guadagnati mediante la collaborazione di esperti professionisti”. Sulla fondatezza probatoria di tale impianto ebbi ad esprimere a suo tempo seri dubbi giuridici sulle colonne di questo giornale, per cui mi sembrò conseguenziale la pronunzia del Tribunale di Roma del luglio 2017 che escluse l’esistenza dell’associazione mafiosa ex art. 416 bis. I dubbi mi rimasero anche dopo la sentenza di appello basati sul fatto che il 416 bis richiede un insieme di elementi, non emersi dall’inchiesta penale, che vanno provati dalla pubblica accusa. La decisione della Cassazione riporta il discorso sul piano giuridico. Di essa beneficeranno gli imputati che in appello chiederanno una riduzione della pena. Ma tant’è, la giustizia non va confusa con il giustizialismo e le supposizioni non assurgono al rango di prova. Terza decisione quella emessa dalla Corte Costituzionale (non si conoscono ancora le motivazioni) che esclude che i benefici penitenziari possano essere negati per la mancata collaborazione del condannato. Se così fosse, il fine rieducativo della pena non avrebbe ragion d’essere. Il condannato non pentito e non collaborante non mi pare meritevole di mano tesa. Se mai è vero il contrario. *Presidente Aggiunto Onorario Corte di Cassazione “Sarà una riforma epocale”. Già, ma nessuno l’ha ancora scritta di Giovanni Altoprati Il Riformista, 6 novembre 2019 “Sarà una riforma epocale”, dichiarò euforico, lo scorso luglio, il Guardasigilli Alfonso Bonafede, illustrando ai giornalisti il suo maxi piano sulla giustizia. “Porterò il testo al primo Consiglio dei ministri”, aggiunse con il tono di voce di chi è consapevole che quell’annuncio sarebbe stato ricordato come uno dei momenti più solenni per il mondo del diritto dopo anni. Nel 2019, per il ministro grillino, finiva un’epoca, quella delle leggi “ad personam” e delle riforme fatte per favorire solo i “delinquenti” e non i cittadini onesti. Riformare la giustizia non è un’impresa facile per nessuno. Ma Bonafede era convinto di portare a casa il risultato e di passare alla storia, dopo Cesare Beccaria, Piero Calamandrei, Giuliano Vassalli, solo per citare qualche illustre giurista italiano del passato, come colui che fece funzionare l’infernale macchina giudiziaria. Il disegno di legge in questione di epocale aveva pure il titolo: “Ddl recante deleghe al governo per l’efficienza del processo civile e del processo penale, per la riforma complessiva dell’ordinamento giudiziario e della disciplina sulla eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati, nonché disposizioni sulla costituzione e funzionamento del Consiglio superiore della magistratura e sulla flessibilità dell’organico di magistratura”. Una riforma a 360 gradi, dunque, che avrebbe rivoluzionato i tribunali, garantendo processi rapidi e pene certe. E mettendo finalmente in riga anche i magistrati, usciti a pezzi dopo lo scandalo emerso proprio in quel periodo con le intercettazioni effettuate a carico del pm Luca Palamara che avevano disvelato le torbide manovre dei togati per nominare i capi di alcune importanti Procure. Bonafede si era calato nei panni del riformatore esattamente a gennaio. Per incassare il blocco della prescrizione dei reati dopo la sentenza di primo grado, uno dei cavalli di battaglia dei grillini da sempre, inserita nel famigerato “spazzacorrotti”, aveva accettato che tale norma entrasse in vigore dopo un anno, a partire dunque dal 2020. Durante quest’anno, per evitare lo scoppio della “bomba nucleare” sui processi, come disse l’allora ministro leghista Giulia Bongiorno prevedendo gli effetti del processo eterno, si sarebbero dovuti modificare i codici di rito. Una riforma organica che, nelle intenzioni della maggioranza giallo-verde, avrebbe reso digeribile lo stop della prescrizione, norma palesemente in contrasto con quanto disposto dalla Costituzione a proposito della ragionevole durata dei processi. Bene, cosa è successo da allora? Assolutamente nulla. In Consiglio dei ministri non è stata presentata neppure mezza pagina di questa “riforma epocale” della giustizia. Neppure il “frontespizio”. E, verosimilmente, nulla accadrà da qui alla fine dell’anno. Anche se il Ddl Bonafede venisse approvato in Cdm, infatti, non ci sarebbe poi il tempo tecnico per il suo passaggio alle Camere entro il prossimo 31 dicembre. Difficile, poi, che il Pd tenti un colpo di coda per salvare la riforma Orlando sulla prescrizione, annichilita dal testo Bonafede. I dem sulla giustizia sono ormai appiattiti sui diktat grillini e, lacerati al proprio interno, non hanno la forza politica di ricordare all’alleato di governo l’impegno preso. Vale la pena di ricordare che la riforma Bonafede è stata osteggiata dall’intera comunità dei giuristi. Tranne qualche noto magistrato legato a doppio filo al M5s, tutta l’accademia, il mondo forense e ampi settori della magistratura non ideologizzata, hanno manifestato assoluta contrarietà al riguardo. Lo stesso vice presidente del Csm, il dem David Ermini, non perde occasione per ricordare che non è possibile tenere una persona sotto processo per tutta la vita. Le Camere penali hanno, il mese scorso, indetto una settimana di astensione dalle udienze in segno di protesta. Tutto inutile. Il ministro della Giustizia non vuole fare un passo indietro: troppo importante questa legge manifesto per la narrazione grillina sull’onestà. Quindi, dal prossimo primo gennaio, via libera, senza troppi pensieri, allo scoppio della bomba nucleare sui processi. Corte costituzionale permettendo. Rirorma della prescrizione. L’Ucpi non si rassegna a un’idea violenta del diritto penale di Eriberto Rosso* Il Sole 24 Ore, 6 novembre 2019 Giornate di astensione appena concluse, programmazione di prossimi scioperi, richieste esplicite al mondo politico. Sono le misure messe in campo dall’Unione delle Camere Penali insieme a oltre centocinquanta professori in materie di diritto delle Università italiane contro la nuova legge che di fatto abroga la prescrizione. Dai profili di illegittimità costituzionale alla presunzione di innocenza, dal ruolo della difesa alla funzione rieducativa della pena. I principi giuridici “sotto attacco” sono molti e delicatissimi. Il contrasto a un’idea violenta del diritto penale, come ci spiega Eriberto Rosso segretario dell’Ucpi, non si fermerà fino a che il Parlamento non decida di introdurre meccanismi per ridurre il numero dei processi al dibattimento, garantendo allo stesso tempo effettività del contraddittorio. La previsione dell’estinzione del reato dopo un periodo determinato di tempo caratterizza tutti gli ordinamenti penali moderni. Laddove l’istituto non abbia natura sostanziale, con buona pace dei detrattori nostrani, alle decadenze che determinano l’improcedibilità dell’azione penale è riservato il compito di calmierare la potestà punitiva dello Stato, che altrimenti si protrarrebbe all’infinito facendo gravare sul cittadino sottoposto a processo le inefficienze della macchina giudiziaria e le scelte (arbitrarie) degli Organi di accusa. Eppure il nostro Parlamento ha inteso approvare una legge che in poche righe abroga una disciplina complessa, di fatto abolendo la prescrizione, ancorché per il tramite di un improvvido richiamo al meccanismo di una sospensione infinita dopo la sentenza di primo grado. L’indignazione contro tale legge è di tutta la comunità dei giuristi. Con la Unione delle Camere Penali l’hanno manifestata oltre centocinquanta professori in materie di diritto delle Università italiane segnalandone al Presidente della Repubblica i profili di illegittimità costituzionale e ricordando che la nuova disciplina è destinata a travolgere il principio di presunzione di innocenza, a grandemente ridurre gli spazi della difesa allontanando le scansioni temporali dedicate alla ricostruzione dei fatti, a mortificare il principio costituzionale della funzione rieducativa della pena chiamando ai rigori dell’esecuzione persone ben diverse da quelle ritenute autori del fatto reato a lunghissima distanza dal fatto. Con argomentatissimo parere, a esso richiesto, il Consiglio superiore della magistratura ha spiegato le ragioni della propria contrarietà e tale posizione è stata, in buona sostanza, fatta propria dalla stragrande maggioranza dei magistrati. Noi avvocati, sotto le insegne della Unione delle Camere Penali italiane, abbiamo dato conto in documenti e delibere della nostra avversione, e abbiamo indetto più giornate di astensione, l’ultima serie delle quali appena conclusa, e altre iniziative sono in programmazione. Le rassegne stampa consegnano le manifestazioni delle giornate di astensione davvero aperte alla cittadinanza e alla società civile. In un tempo buio nel quale la legislazione è informata da una idea violenta del diritto penale (più fattispecie, più pene, più carcere, meno diritti), esiste una cultura che si fa propugnatrice di un diritto penale liberale e della necessità del rafforzamento delle garanzie difensive nel processo. I trentacinque canoni che compongono il nostro Manifesto del diritto penale liberale e del giusto processo rappresentano la summa di questa cultura e anche uno strumento per spiegare che cosa significhi il diritto all’oblio, il diritto a non essere per sempre in balia della macchina giudiziaria, anche nell’interesse delle persone offese che pure hanno la legittima aspettativa di una risposta di giustizia in tempi ragionevoli, spiegando loro che è proprio delle culture autoritarie consegnare esclusivamente a un arcigno processo penale la risposta al torto subito, così rinunciando a costruire risposte istituzionali alle complessità del nostro tempo e affrontando i problemi sociali. Temi complessi che non sempre è possibile tradurre in modo semplice ma che diventano immediatamente comprensibili quando il riferimento è ai principi generali consacrati nella nostra Costituzione. Per questo nelle prossime settimane ci recheremo davanti ai luoghi della Politica a chiedere a chi ha il potere di iniziativa di cancellare quella legge, poiché sui principi non sono ammesse mediazioni. Per resistere una rozza vulgata, praticata anche da qualche pulpito qualificato, su una sorta di abuso del diritto che spingerebbe la difesa tecnica, soprattutto nei processi dei colletti bianchi, a iniziative processuali lecite nella forma ma infondate nella sostanza per perdere tempo ai fini della prescrizione, noi delle camere penali abbiamo appena concluso, in collaborazione scientifica con l’istituto di ricerca Eurispes, un importante monitoraggio nei Tribunali italiani, su un esteso campione di processi, per documentare le vere ragioni della irragionevole durata dei processi; esse sono da attribuirsi praticamente in via esclusiva alla macchina giudiziaria, all’Ufficio del pubblico ministero e all’Ufficio del giudice. Abbiamo presentato i dati al nostro congresso di Taormina, non a caso intitolato “Imputato per sempre” e ne affineremo l’analisi nei prossimi giorni con una pubblicazione ragionata; intanto vale la pena ricordare che il numero più significativo delle prescrizioni si consuma nella fase delle indagini preliminari, che l’incredibile durata della fase dibattimentale è data dalla cattiva organizzazione della macchina giudiziaria e ribadire che ogni esigenza difensiva diversa dalla pratica del ruolo processuale, importa la sospensione del tempo di prescrizione. La ragionevole durata del processo che indirettamente è garantita anche dalla prescrizione, è un diritto dell’imputato che deve sapere entro tempi ragionevoli se lo Stato lo ritenga colpevole o innocente di una accusa contro di lui mossa in termini chiari e precisi, la risposta deve avvenire da parte di un giudice terzo dinanzi al quale, in oralità e immediatezza, è raccolta la prova in contraddittorio tra le parti. Per rendere effettivo tutto questo, l’avvocatura penale ha avanzato alcune proposte, condivise dalla magistratura associata: rafforzamento della funzione di filtro dell’udienza preliminare attraverso la ridefinizione della regola di giudizio dell’articolo 425 del Cpp, l’estensione dei casi per i quali è possibile il ricorso ai riti alternativi con la previsione di ulteriori riduzioni di pena a seconda della fase nella quale interviene la richiesta, nuovi parametri per la prova condizionata nel giudizio abbreviato, con riferimento ai concetti di rilevanza e specificità della prova o del tema di prova proposto, una nuova depenalizzazione in materia contravvenzionale. Abbiamo poi sottolineato la necessità di un intervento che renda certo il tempo delle indagini e il tempo per l’esercizio dell’azione penale prevedendo un controllo di giurisdizione sulla data di iscrizione nel registro notizie di reato; una organizzazione degli uffici giudiziari che garantisca l’immutabilità del giudice della prova con quello della decisione. Il Governo espressione della precedente maggioranza ha approvato, salvo intese, un disegno di legge che sulla giustizia penale ha richiamato solo alcune di tali proposte, immaginando un intervento così limitato e per alcuni aspetti contraddittorio con le sue stesse premesse, sostanzialmente un pannicello caldo. Ora, essendo intervenuta una nuova maggioranza, che almeno in una delle sue componenti dovrebbe avere idee diverse su prescrizione, riforma del processo, modalità di esecuzione della pena, pare si intenda proporre una nuova sintesi. Se il Parlamento rinuncerà all’idea “dell’imputato per sempre”, e si vorranno introdurre meccanismi per ridurre il numero dei processi al dibattimento, al contempo garantendo effettività del contraddittorio, noi saremo interlocutori attenti e propositivi. *Segretario dell’Unione camere penali italiane Il crimine organizzato non ha più confini. Inevitabile una Procura europea antimafia di Vincenzo Musacchio Il Dubbio, 6 novembre 2019 Negli ultimi trent’anni le organizzazioni criminali hanno progressivamente ampliato il proprio raggio d’azione su scala internazionale, sfruttando le opportunità offerte dall’apertura delle frontiere interne dell’Unione europea, oltre che dalla globalizzazione economica e dalle nuove tecnologie informatiche e stringendo alleanze con gruppi criminali di altri Paesi per dividersi mercati e zone d’influenza. Le nuove mafie variano sempre più le loro attività e instaurano legami tra il traffico di stupefacenti e di organi umani, la tratta degli esseri umani, il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, il traffico di armi e il riciclaggio di denaro. La corruzione tra i nuovi strumenti di cui si serve la criminalità organizzata rappresenta una minaccia notevole per l’Europa. La creazione di un’area di giustizia penale, oggi, si pone quale supremo imperativo dinanzi a crimini che, per l’appunto, sforano ormai i confini nazionali e impongono una cooperazione tra Stati, sia con riguardo all’esigenza di accertare l’effettiva responsabilità degli autori delle condotte illecite, sia con riferimento alla necessità di operare in una fase antecedente alla commissione del reato. Al fine di creare uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia occorre, dunque, sviluppare una più profonda cooperazione giudiziaria in materia penale, allo scopo di contrastare i fenomeni criminali a carattere transfrontaliero e di garantire una piena tutela dei diritti sia per le vittime, sia per gli indagati e gli imputati nel corso del procedimento, sia per i detenuti nella fase di esecuzione della pena. Personalmente riteniamo che la criminalità organizzata e il terrorismo meritino una normativa rafforzata mediante l’istituzione una procura europea ad hoc. La nuova Procura europea antimafia potrebbe essere composta dal Procuratore europeo antimafia e da ventotto magistrati denominati vice procuratori e rappresenteranno ciascuno Stato membro. La struttura potrà essere composta altresì da altri ventotto membri scelti tra gli esperti della materia di ciascun Stato membro. Il Procuratore europeo antimafia eserciterà le funzioni di coordinamento delle indagini condotte dalle singole unità antimafia (Ua) nei reati commessi dalla criminalità organizzata e dai terroristi. Le materie d’interesse sono quelle che rivestono una particolare importanza nel contrasto alla criminalità organizzata e del terrorismo e che quindi sono seguite e studiate su tutto il territorio europeo al fine di individuare nuovi filoni investigativi. Le principali sono: a) mafia; b) narcotraffico; c) tratta di organi ed esseri umani; d) riciclaggio; e) appalti pubblici nazionali ed europei; f) misure di prevenzione patrimoniali, g) ecomafie; h) contraffazione di marchi; i) operazioni finanziarie sospette; l) crimini informatici; m) organizzazioni criminali straniere internazionali; n) terrorismo. I vice procuratori europei antimafia potranno lavorare in più direzioni: esercitando l’attività di coordinamento presso ciascun’unità per seguire le indagini e riportare le informazioni al procuratore europeo. L’istituzione della Procura europea antimafia si dovrà fondare sull’operatività del principio del mutuo riconoscimento, che dovrà essere sostenuto dalla condivisione di ogni singolo Stato membro e dovrà essere agevolato dalla stipulazione di accordi tra essi e il nuovo organo giudiziario. Sarebbe, dunque, necessario contemplare tali situazioni negli accordi tra la Procura europea antimafia e gli Stati membri partecipanti alla cooperazione rafforzata. Sarà necessario che simili ipotesi trovino puntualmente regolamentazione negli accordi tra tutti gli Stati membri e la Procura europea antimafia, questo per non creare disparità di trattamento. In conclusione chi scrive, ritiene che l’Europa e le sue istituzioni debbano attivarsi nel più breve termine possibile accompagnando le nuove misure, in parallelo con una radicale revisione della materia della lotta alla criminalità organizzata, per adeguare l’istituenda Procura europea antimafia alla nuova realtà e con l’adozione di normativa ad hoc che preveda l’estensione della competenza del nuovo organo anche ai reati di terrorismo. La Procura europea antimafia, frutto di un vero e proprio lavoro diplomatico tra tutti gli Stati membri, seppur con limiti e possibili difetti, rappresenta per chi scrive un punto di partenza, non certo di arrivo, verso risultati più ambiziosi nella lotta al crimine organizzato transfrontaliero. La tutela penale dell’Unione europea dalla criminalità organizzata e dal terrorismo non può più essere affidata ai soli strumenti sanzionatori degli Stati membri anche perché ciò produrrebbe risultati assolutamente insoddisfacenti, in specie sotto il profilo dell’armonizzazione e prassi sanzionatoria. Sarà dunque necessario, in una cornice di contestualità temporale, che la tutela penale si attui mediante norme incriminatrici comuni e sanzioni omogenee, soprattutto, per un efficace funzionamento della Procura europea antimafia nella lotta alla criminalità organizzata e al terrorismo. Perché non possiamo dimenticare il rischio-mafie al Nord di Piero Colaprico La Repubblica, 6 novembre 2019 Milano e la Lombardia sono una locomotiva, anzi “la” locomotiva del Paese, ma qual è la qualità del carbone che riscalda la caldaia? Lo diciamo non solo come necessario controcanto di queste pagine che mostrano molte bellezze e saggezze lombarde, ma perché da anni assistiamo a tre “fatti” che vanno presi tutti insieme in considerazione. Uno, Assolombarda chiede da tempo un fisco equo e aiuta l’imprenditore che denuncia soprusi e infiltrazioni. Si rivolge alla magistratura e collabora. Due, le inchieste della procura distrettuale Antimafia hanno mostrato, grazie al lavoro di Ilda Boccassini e dei suoi detective, un assoluto inedito: i giuramenti di affiliazione della `ndrangheta al Nord e le votazioni deì rappresentanti delle cosche per eleggere chi può “parlare” con Crimine, e cioè la casa madre calabrese. Quel lavoro, proseguito sotto la guida di Alessandra Dolci, ha mostrato quante “locali” (quante cosche di mafiosi) calabresi sono in mezzo a noi. Tre, periodicamente alcune inchieste della magistratura “portano via” esponenti politici di grande e piccolo livello: alcuni di loro arrivano alla condanna in Cassazione e al carcere vero, dietro le sbarre, prima dei domiciliari. Questo trinomio, pur dentro la grande pancia della balena, con i numeri positivi dell’esportazione, della produzione, del commercio, dei locali pubblici, della ricchezza delle stelle dei ristoranti, delle spiagge blu dei laghi meta del turismo milionario, deve obbligarci - esatto: obbligarci - a riflettere sul tema delle infiltrazioni. Infiltrazioni del crimine organizzato e del denaro sporco nell’economia sana, neì valori della concorrenza leale, nel concetto di “stretta di mano” che un tempo era sufficiente a sancire contratti ed era il vanto della Lombardia. C’è chi dice che ormai, più che di infiltrazioni, bisognerebbe parlare di “tracimazioni”. Non chiediamo soluzioni che al momento non esistono, se non nella retorica poco utile alle imprese e ai cittadini: ma, ripetiamo pensiamoci. E sul serio. Rimini. Papa Giovanni XXIII, la Comunità che riabilita i detenuti di Erika Nanni Corriere della Romagna, 6 novembre 2019 “Il lavoro di per sé non è sufficiente a riabilitare un uomo. Per non tornare a delinquere, il detenuto deve guardare e curare le sue ferite”. Secondo Giorgio Pieri, il 54enne coordinatore internazionale del progetto “Comunità educante con i carcerati” della Papa Giovanni XXIII, per salvare un uomo dalla reiterazione del reato non è sufficiente dargli un lavoro. “Alcuni dei detenuti, al tempo della commissione del crimine, un lavoro ce l’avevano. Quello che non avevano era la speranza nel domani”. Alle persone in esecuzione della pena che vengono affidate alle case di accoglienza della comunità fondata da don Oreste Benzi si richiede volontà e impegno. “Se vediamo che qualcuno non è disposto a mettersi in discussione, lo rispediamo in carcere. Non facciamo alcun tipo di buonismo”. Don Oreste diceva che “l’uomo non è il suo errore”. Cosa significa per lei questa frase? “Sì, don Oreste diceva che l’uomo non è il suo errore e che dobbiamo passare dalla certezza della pena a quella del recupero. Perché un uomo recuperato non è più pericoloso. Ciò in cui credo, è che bisogna sforzarsi di vedere oltre il crimine che l’uomo ha commesso. Bisogna sforzarsi di conoscere le persone che sono in carcere, scoprire la loro storia, il loro vissuto, cosa li ha portati a delinquere. Solo per dare alcuni numeri, il 25% dei detenuti sono tossici, il 13 - 14% ha una diagnosi di disturbo borderline, e il 75% prende psicofarmaci in carcere per dormire e per stare sereno. Spesso, infatti, dietro a un “carnefice” si cela una storia di dolore e di violenza. Quello che facciamo noi con le persone affidate alla nostra struttura, è ripartire da quel dolore, rivivendo quel trauma, e a quel punto gettare la basi per la costruzione di un futuro diverso”. Perché il tasso di recidiva di chi è stato in carcere è così alto, secondo lei? “Il tasso calcolato scientificamente è del 70%, ma è una previsione “ottimistica”. Se risulta che 7 persone su 10 tornano a delinquere è perché i numeri si riferiscono a chi viene effettivamente riarrestato. In realtà, a ricadere nel crimine sono almeno il 20% degli ex detenuti in più. Sono dati allarmanti, e sono dovuti in larga parte alle condizioni e al sistema carcerario. Il carcere, infatti, ti “educa” all’ozio. Alla brandina. E in carcere si parla solo di carcere. C’è un detto che dice “entri in carcere che sai fare un furto ed esci che sai fare una rapina”. Non avendo altro da fare, i detenuti parlano tra di loro di come poter fare il “colpo” migliore la volta successiva, si confrontano sulle tecniche di scasso e prendono contatti che poi riutilizzano appena escono. Anche perché il “fuori” può essere davvero un nulla. Se quando esci il lavoro che magari avevi l’hai perso, la casa non ce l’hai più e la tua famiglia ti ha abbandonato, quello che ti viene in mente di fare è chiamare il tuo “amico” che hai conosciuto in cella, e ti ritrovi nello stesso ambiente che hai lasciato. Il carcere, così com’è oggi, è un luogo senza speranza”. Come sono organizzati i percorsi di rieducazione all’interno della vostra casa di accoglienza? “La vita in comunità è dura. È più dura del carcere. In primis, perché sei obbligato a fare. Non solo a lavorare, ma a renderti utile nella vita quotidiana della comunità. E inoltre abbiamo incontri settimanali di confronto e di analisi, cui le persone in affidamento da noi sono obbligate a partecipare. Ad esempio, il lunedì pomeriggio facciamo un incontro con i recuperandi, poi una volta alla settimana ci si confronta sulla dinamica del perdono, e a turno un uomo viene allontanato dal gruppo per far analizzare il suo caso e i suoi progressi agli altri. E poi, tutte le sere alle 20.30 si scrivono le emozioni provate durante la giornata in un quaderno”. Circa un anno fa avevate presentato la vostra proposta di superamento del carcere in un servizio del programma Le Iene. Avete avuto risposte? “L’avevamo sottoposta anche all’ex ministro dell’Interno Salvini ma per ora nessuna novità. Eppure, è stimato che aprendo comunità diffuse sul territorio si otterrebbe un risparmio di 220 milioni di euro all’anno e un abbassamento della recidiva al 15%”. Rimini. Al via “Piantare la speranza”, progetto per i detenuti di Milena Castigli interris.it, 6 novembre 2019 In collaborazione tra il Comune di Coriano e Casa Betania dell’Associazione Papa Giovanni XXIII. “Il momento migliore per piantare un albero era venti anni fa. Altrimenti è adesso”, recita un proverbio africano. Proverbio preso alla lettera dagli ex detenuti accolti a casa Betania di Coriano (a Rimini) dove oggi, martedì 5 novembre, a partire dalle ore 12:00 viene inaugurato il progetto “Piantiamo la Speranza”. Nato in collaborazione tra il Comune di Coriano e Casa Betania dell’Associazione Papa Giovanni XXIII, all’evento presenziano Mons. Francesco Lambiasi Vescovo di Rimini e la dott.ssa Alessandra Camporota, Prefetto di Rimini, Domenica Spinelli Sindaco di Coriano. La Comunità Papa Giovanni XXIII è fertile e piena di speranza nell’attenzione ai poveri, in particolare ai carcerati secondo il modello CEC, Comunità Educante con i carcerati, tale attenzione e speranza incontra il parere delle amministrazioni comunali e tale collaborazione si integra con la scelta di piantare piante per ogni detenuto accolto a simboleggiare la speranza che con il recupero di una persona si contribuisce alla crescita di tutta la comunità e come gesto concreto di aiuto al pianeta. “Piantare la speranza” è dunque il titolo di una iniziativa locale, partita da un piccolo comune come quello di Coriano, ma con alto significato simbolico. “In questo tempo dove la desertificazione aumenta, l’innalzamento dei livelli di anidride carbonica crea effetti devastanti sul clima e tanti poveri sono schiacciati da una economia che in nome del profitto crea catastrofi ambientali e umane…piantiamo piante che assorbono Anidride carbonica e restituiscono ossigeno utile alla vita. Le piante hanno vita lunga come lunga e alta è la visione di quei politici, amministratori, donne e uomini che sanno investire nel futuro”, si legge sulla presentazione del progetto. Investire nell’ambiente ed investire negli uomini, dunque, a partire da quelli che sono stati “cattivi”. Casa Betania è stata aperta 46 anni fa per dare risposta a Marino, psichiatrico dimesso dal carcere. “Marino è ancora con noi, a deliziarci con il suo sorriso - sottoliea Giorgio Pieri, responsabile della Comunità Educante con i Carcerati Cec dell’Apg23. Questa è stata la prima casa d’accoglienza della comunità Papa Giovanni XXIII, è stata modello e stimolo per altre 600 realtà d’accoglienza sparse in tutti i continenti, in 40 stati nel mondo. Dal 30 novembre 2017 è iniziata l’esperienza d’accoglienza detenuti secondo il modello Cec. È la casa di prima accoglienza per quei detenuti che poi saranno destinati in altre realtà. Sono già passate 54 persone, potremmo già piantare 54 alberi. Un grande grazie a tutti i cittadini di Coriano che hanno sostenuto questa casa da sempre! Dal 2008 nella provincia di Rimini sono state accolte oltre 500 persone. Chissà che anche l’amministrazione riminese non prenda spunto da questa iniziativa. A livello nazionale sono oltre 3500 i detenuti accolti, potremmo piantare un bel bosco! È proprio vero, fa più rumore un albero che cade di 3500 che crescono”. Reggio Calabria. “Per prevenire i femminicidi bisogna intervenire anche sugli uomini” ildispaccio.it, 6 novembre 2019 All’Università Mediterranea di Reggio Calabria il seminario dell’Osservatorio regionale sulla violenza di genere. “Per contrastare la violenza sulle donne di bisogna intervenire anche sugli uomini”. Lo affermano Mario Nasone e Giovanna Cusumano, rispettivamente coordinatore e vice coordinatore dell’Osservatorio regionale sulla violenza di genere. Nasone e Cusumano sottolineano l’importanza di centri specializzati che prendano in carico il maltrattante, subito dopo la prima denuncia della vittima, perché “intervenire tempestivamente sulla persona adusa a perpetrare violenza, potrebbe evitare le conseguenze estreme del femminicidio”. “Le statistiche, infatti, ci raccontano che prima dell’episodio mortale, la vittima aveva sporto varie denunce. Al femminicidio si arriva dopo un certo numero di denunce, ecco perché per prevenirlo è necessario che i violenti intraprendano un percorso di consapevolezza ed assunzione di responsabilità. È, pertanto, auspicabile la presenza sui territori dei cosiddetti Cam, centri specializzati al recupero degli uomini maltrattanti che, anche alla luce della recente normativa, non è infrequente vengono colpiti da misure cautelari. Ricordiamo, peraltro, che anche il periodo della reclusione deve servire al detenuto per riflettere sul comportamento deviante assunto e deve risultare un’occasione per sviluppare il senso di responsabilità dei danni provocati non solo alla vittima degli abusi, ma all’intero nucleo familiare, al fine di conseguire un adeguato reinserimento nella società. Questa esigenza si rende oltremodo necessaria, soprattutto in presenza di reati di pedofilia e violenza di genere. In questi casi, infatti, i dati di cronaca ci dicono che se l’autore di questi reati, non viene adeguatamente seguito e trattato, le probabilità di reiterare i reati sono altissime. Ma cosa si fa concretamente, oggi, nel nostro Paese per prendere in carico e curare i soggetti maltrattanti? Quali “rimedi” e strumenti prevede la normativa vigente? La recentissima legge detta “ Codice Rosso” prevede certamente interventi sul piano repressivo, ma siamo sicuri che basta la risposta repressiva? In Calabria allo stato esiste un solo centro per l’assistenza e la cura dei maltrattanti che si trova a Catanzaro. Poi abbiamo alcune carceri in cui si sperimentano programmi per i cosiddetti sex offenders, per i quali sono previste apposite sezioni detentive. Purtroppo, però, possiamo affermare ragionevolmente che ancora mancano interventi organici e continuativi, soprattutto per coloro i quali hanno scontato la pena detentiva. Questi ultimi, infatti, una volta usciti dal carcere senza aver seguito dei corsi di recupero e per i quali non è prevista alcuna presa in carico da parte di servizi specializzati, tornano a rappresentare un vero pericolo per la loro famiglia e per se stessi. Per questo motivo, per contribuire ad aprire una riflessione su questo tema l’Osservatorio regionale sulla violenza di genere in collaborazione con l’Università Mediterranea, ha voluto programmare per il prossimo 8 novembre un evento formativo che vedrà confrontarsi esperti nazionali, referenti di centri specializzati calabresi e della amministrazione penitenziaria. Sarà una occasione per tutti gli attori istituzionali e dei servizi coinvolti per affrontare e lavorare anche su questo versante che richiede particolare competenze e sinergie”. L’evento si terrà venerdì 8 novembre con inizio alle ore 15.00 C/o l’Aula Quistelli dell’Università Mediterranea. La relazione di base sarà tenuta da Rossano Bisciglia - Psicologo Psicoterapeuta Psichiatra del centro assistenza maltrattanti di Firenze. Il programma prevede: l’introduzione di Mario Nasone, coordinatore osservatorio Regionale sulla violenza di genere; i saluti di Nicola Irto, presidente del Consiglio regionale, di Massimiliano Ferrara, Direttore Digies Università Mediterranea, Dipartimento Giurisprudenza, Rosario Tortorella, provveditore vicario amministrazione penitenziaria. Interverranno: Giuseppina Maria Irrera dell’amministrazione Penitenziaria della Calabria, di Isolina Mantelli di Mondo Rosa, Giovanni Lopez della Casa di Nilla. Modera Laura Amodeo, psicologa. Le conclusioni saranno di Giovanna Cusumano, vice coordinatore Osservatorio regionale violenza di genere. Napoli. Il Garante Ciambriello: “A detenuto vietato di fare visita al padre in fin di vita” Il Mattino, 6 novembre 2019 Negata la possibilità, a un detenuto 35enne, di recarsi dal padre in fin di vita. È quanto denunciano Samuele Ciambriello, garante regionale dei diritti dei detenuti della Campania, ed Emilio Enzo Quintieri, già consigliere nazionale dei Radicali Italiani, che riferiscono del caso di un detenuto campano, C.B., 35 anni, ristretto nel carcere di Cosenza. L’uomo, ricevuta la notizia che il padre versava in imminente pericolo di vita a causa di un incidente, aveva ricevuto un permesso di necessità dal magistrato di sorveglianza di Cosenza, Silvana Ferriero, per recarsi dal proprio genitore, scortato dalla Polizia penitenziaria. Ciambriello e Quintieri spiegano che “non appena l’ok del giudice è arrivato alla Casa Circondariale di Cosenza, il personale del Nucleo Traduzioni della Polizia penitenziaria ha provveduto a dare esecuzione immediata al provvedimento, traducendo in data 23 ottobre 2019 il detenuto presso la Casa Circondariale di Napoli Secondigliano, dopo aver ricevuto disposizioni in tal senso dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia. Inspiegabilmente, su ordine del Dap, il detenuto veniva fermato a Secondigliano e non condotto immediatamente al capezzale del padre morente”. Giunto al carcere di Secondigliano, C.B. avrebbe dovuto essere accompagnato all’abitazione del padre, ma, raccontano Ciambriello e Quintieri, “la traduzione non è stata effettuata né lo stesso giorno né nei giorni successivi, nonostante le numerose sollecitazioni effettuate sia dai familiari che dai difensori. Qualche giorno dopo, mentre stava ancora sperando di essere accompagnato a casa, il suo difensore, evidentemente credendo che fosse già a conoscenza della triste notizia, si è recato in carcere a fargli le condoglianze ma nessuno, sino a quel momento, gli aveva comunicato alcunché. Soltanto dopo il decesso, lunedì 28 ottobre, C.B. ha avuto la possibilità di recarsi al funerale del padre”. Il garante dei detenuti della Campania riferisce che “stando a quanto riferito al detenuto, ai suoi familiari e ai difensori, l’amministrazione penitenziaria, nei diversi giorni trascorsi presso la Casa Circondariale di Napoli Secondigliano, non avrebbe potuto effettuare la traduzione adducendo, come per altri casi analoghi, la mancanza di personale e di mezzi”. Ciambriello e Quintieri ricordano che “le regole penitenziarie europee emanate dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa stabiliscono che ‘le condizioni detentive che violano i diritti umani del detenuto non possono essere giustificate dalla mancanza di risorsè. La violazione per difetto di risorse economiche, di personale o di mezzi dei diritti fondamentali dei detenuti e degli internati non può essere addotta quale valida giustificazione alla elusione degli stessi. Le giustificazioni fornite non possono essere tollerate, non è possibile che nel 2019 l’amministrazione penitenziaria non riesca a dare immediata esecuzione ai provvedimenti della Magistratura di sorveglianza per mancanza di fondi”, concludono. Bologna. “Sguardi di futuro”, dalla Dozza la vita e le speranze delle donne Corriere di Bologna, 6 novembre 2019 Le detenute in cento scatti: a Palazzo d’Accursio una mostra e incontri fino al 17. Sei fotografe volontarie hanno ritratto le donne e la loro vita in carcere nell’ambito del progetto “Non solo mimosa”. Non solo Mimosa compie cinque anni e si racconta alla città attraverso la mostra fotografica “Da dentro a fuori: sguardi di futuro”, allestita nella Manica lunga di Palazzo d’Accursio fino al 17 novembre e affiancata ad un opuscolo che porta lo stesso titolo. L’esposizione è la selezione di un centinaio di scatti realizzati all’interno della Casa circondariale Rocco D’Amato da sei fotografe volontarie, Noella Bardolesi, Alessandra Bettini, Sara Colombazzi, Elena Facchini, Emanuela Sforza e Giuseppina Martelli. Un progetto che ha mosso i suoi primi passi nel 2014 con semplici visite istituzionali alla Casa circondariale, spesso in occasione dell’8 marzo, Giornata della donna, e del 25 novembre, Giornata per l’eliminazione della violenza contro le donne. Da queste visite si è sviluppata la necessità di dare qualche risposta concreta ai bisogni espressi dalle detenute durante gli incontri. L’invito a promuovere un’azione collettiva dedicata alla salute e al benessere delle donne detenute in seguito è stato raccolto da associazioni e singole cittadine che, da cinque anni, hanno messo a disposizione tempo e lavoro in maniera gratuita. Ne sono scaturite attività culturali e di formazione tese a migliorare la qualità della vita e il benessere psicofisico delle partecipanti. “Le immagini di questo racconto - sottolinea Mariaraffaella Ferri, consigliera comunale e coordinatrice del progetto Non solo Mimosa sono state scattate da alcune fotografe amatoriali che durante le attività si sono affiancate alle volontarie per documentare il lavoro svolto. E se è vero che un’immagine talvolta dice più di molte parole, gli sguardi, i volti, i gesti che la loro sensibilità espressiva ha colto, ci comunicano in modo diretto e subito comprensibile l’intensità degli incontri e la bellezza delle interazioni che si sono create in quel contesto. I cinque anni di Non solo Mimosa sono stati lunghi e brevissimi al contempo, noi li raccontiamo presentando in ordine cronologico i laboratori che abbiamo realizzato, insieme a piccoli commenti che le volontarie hanno scritto sull’esperienza vissuta in carcere. La speranza è che questo abbia contribuito al futuro fuori perché tutte loro avranno da ricostruire un percorso di vita, finito il periodo detentivo”. In contemporanea con la mostra, nella sala Renzo Imbeni di Palazzo d’Accursio sono stati approntati una serie di appuntamenti a cura delle associazioni che hanno aderito al progetto, per far conoscere le attività svolte in carcere e sensibilizzare sul tema della detenzione femminile. Nei prossimi lunedì, per esempio, alle 19.30 è in programma “Arteterapia: esperienze rivitalizzanti fra materiali e colori”, mentre sabato alle 10 sarà presentato il volume Le Parole per dirlo, frutto dei laboratori di lettura e scrittura della Sezione Femminile, a cura di Udi Bologna. Con la partecipazione di Alba Piolanti, Giuseppina Martelli, Anna Vinci, Katia Graziosi e Grazia Verasani. Inoltre, venerdì 15 alle 18 si parlerà del film Sezione Femminile. L’immaginario dietro le sbarre con Tiziana Gentili, Adina Sgrignuoli, Valeria Ribani e il regista Eugenio Melloni. Prima e dopo, giovedì e sabato, momenti dedicati alla meditazione e allo shiatsu al femminile. Bari. Convegno sul tema: “Il carcere non arresta la vita” citta-nostra.it, 6 novembre 2019 Sabato 9 Novembre 2019 alle ore 10,00 presso il Castello Angioino di Mola di Bari, il Comune di Mola di Bari in collaborazione con U.E.P.E. Ufficio esecuzione penale esterna e le associazioni Rinnovamento per la vita e Liberi Avvocati ha organizzato un convegno sul tema “Il carcere non arresta la vita”. Al convegno interverranno l’avv. Giuseppe Colonna, Sindaco del Comune di Mola di Bari, la dottoressa Lea Vergatti Assessore al ai servizi sociali, il dottor Pietro Guastamacchia Direttore dell’U.E.P.E di Bari, dottor Piero Rossi Garante dei Detenuti della Regione Puglia; a seguire ci sarà la testimonianza del sig. Michele Guzzardi ex detenuto. I lavori saranno introdotti dal dottor Filippo Lorusso capo settore servizi socio-culturali del Comune di Mola di Bari e moderati dall’avvocato Donato Sciannameo, Presidente A.L.A. e RpV. Durante il convegno inoltre, sarà sottoscritto un protocollo d’intesa tra il Comune di Mola di Bari e U.E.P.E., per avviare sul territorio percorsi di giustizia riparativa. Il convegno è ad ingresso gratuito. Grave errore astenersi sull’odio: Forza Italia si è inginocchiata a Salvini di Fabrizio Cicchitto Il Riformista, 6 novembre 2019 Dopo quello che il nazionalismo ha provocato dopo la Prima guerra mondiale, con alcuni milioni di morti, e dopo quello che le sue versioni più estreme (cioè il nazismo, il fascismo, l’antisemitismo portato alle sue estreme conseguenze, cioè fino ad Auschwitz), con molti milioni di morti, sembrava che il mondo e in esso l’Europa avessero trovato un equilibrio che escludeva la riproposizione di quelle aberrazioni. L’istituzione dell’Onu, il piano Marshall, il Patto Atlantico, la stessa divisione del mondo in due blocchi che avevano entrambi il deterrente costituito dalla bomba atomica, l’istituzione dell’Unione europea, il G8-G7, il G20, il Wto, hanno costituito un’intelaiatura fondata su una rete di ammortizzatori destinati ad attutire, ovviamente non a eliminare, le tensioni. Uno degli elementi fondamentali è stato rappresentato dal fatto che le potenze vincitrici, pur dividendosi l’Europa sulla base delle conquiste fatte dai rispettivi eserciti, tuttavia non hanno seguito la linea sciagurata messa in atto a Versailles nel 1919 dalla Francia, dall’Inghilterra, dagli stessi Stati Uniti nei confronti di chi era stato sconfitto, in primo luogo la Germania. Anzi la Germania occidentale è stata aiutata in tutti i modi dall’Occidente. Per parte sua il totalitarismo comunista ha continuato a sviluppare una politica di potenza, ma essa è stata comunque tamponata dagli Usa e dalla Nato. In seguito a tutto ciò, da un certo momento in poi, abbiamo avuto l’illusione che nazismo, fascismo e, dopo il 1989, anche il comunismo fossero delle aberrazioni, in un certo senso momentanee ed episodiche, che negli anni 30 avevano fatto impazzire la Germania e l’Italia, ma che non erano più ripetibili. La forza di dissuasione costituita dall’evocazione di ciò che era stata la Shoah con 6 milioni di morti sembrava avesse ridotto ai minimi termini i nostalgici dell’antisionismo, del nazismo, del fascismo. Orbene, purtroppo non è più così. È in atto una rottura nella continuità della memoria storica. Forse la recessione, l’immigrazione incontrollata, il terrorismo islamico, l’uso di internet stanno provocando una reviviscenza dei mostri che ritenevamo fossero scomparsi. Emerge in alcune aree dell’Europa, dai paesi nordici alla Germania alla Francia e anche in Italia, una reviviscenza di nazismo, antisionismo e di nostalgia per le lugubri simbologie di quegli anni. A sua volta Putin, che non ha più nulla a che fare con il comunismo, ma che sostiene con tutti i mezzi il progetto imperiale della grande Russia per ottenere questo risultato lavora per destabilizzare l’Europa sostenendo l’estrema destra ovunque emerga, dall’Afd in Germania alla Le Pen a Salvini. A nostro avviso la discussione sull’istituzione della Commissione sull’antisemitismo proposto dalla senatrice Segre al Senato va collocata in questo contesto più generale. Sia per l’esistenza di questo contesto sia perché proposta dalla senatrice Segre noi l’avremmo firmata e votata senza se e senza ma, indipendentemente dal testo che l’accompagna. Dopodiché una volta votata avremmo anche detto sommessamente che chi ha scritto il testo che l’accompagna lo ha inutilmente appesantito: il riferimento “all’odio” in generale rischia di fuorviare l’attenzione in mille rivoli mentre invece essa va concentrata su una sola questione, l’antisemitismo nelle sue varianti, di destra, di sinistra estrema e di un pezzo dell’islamismo. Ciò detto l’errore commesso da Forza Italia a non votare quella proposta è stato molto grave. Parigi non vale sempre una messa, specie su temi di questo tipo e invece Forza Italia si è sottomessa a un inaccettabile diktat di Salvini, ma anche su questo nodo va fatta chiarezza. Infatti per quello che riguarda le forze sovraniste a nostro avviso va fatta una distinzione fra Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Chi è ambiguo nella condanna dell’antisemitismo è proprio Salvini, che non vuole perdere collegamenti, relazioni, complicità, omertà con gli ambienti filonazisti che hanno come punti di riferimento Borghezio, Savoini, D’Amico (che lavorano anche in Russia nel modo che abbiamo visto) più Casapound, più i nostalgici di quegli anti-valori sparsi per l’Italia e che magari si coprono citando Céline. Proprio per questo dissentiamo in modo profondo dall’intervista del cardinal Ruini. Anche su questo nodo decisivo Salvini ha operato una netta discontinuità rispetto al limpido e forse un po’ rozzo antifascismo di Umberto Bossi. Per molti aspetti invece Giorgia Meloni su questo nodo è più cristallina di Salvini: non c’è dubbio che essa ha fatto il pieno anche di ciò che rimane in piedi del mondo ex An dopo la catastrofe avvenuta con la vicenda Fini, ma, posso dirlo anche per testimonianza diretta avendo fatto parte del Pdl, quel mondo di destra ha rotto in modo profondo e sentito rispetto all’antisemitismo e alle leggi del 1938. Di conseguenza non votando la proposta della senatrice Segre Berlusconi si è piegato alla peggiore delle tante ambiguità che caratterizzano Salvini e i tanti mondi che si intrecciano intorno a lui. In questo modo non votando quel testo Forza Italia è entrata in contraddizione proprio con quello che costituisce una delle pagine più belle scritte da questo movimento: Berlusconi è stato sempre in difesa di Israele, anche correggendo alcune ambiguità filoarabe della Farnesina. Ma proprio per questo non doveva esporsi a questo opportunismo. Ciò detto, è auspicabile che l’Italia nel suo complesso non paghi, per l’ambiguità pelosa di Salvini, il fatto molto negativo che una parte cospicua del Senato non ha votato un testo sull’antisemitismo presentato da una persona che sul suo braccio porta il numero che veniva impresso dai nazisti a chi entrava nei campi della Shoah. È quindi auspicabile che alla Camera si faccia di tutto per correggere un vulnus che colpisce la coscienza profonda del nostro paese. Amazon e la nuova servitù della gleba di Vincenzo Vita Il Manifesto, 6 novembre 2019 La tanto mitizzata “rivoluzione digitale” campeggia da tempo -a proposito o a sproposito- nel dibattito pubblico. Intendiamoci. È un tema di primissima grandezza, che si sostanzia nella nuova stagione del capitalismo delle piattaforme. Tuttavia, è bene sempre ricordare che sotto l’enfasi euforica si cela un vasto territorio di conflitti, spesso invisibili perché lontani dalla ribalta o dai consueti schemi interpretativi della vecchia politica. Le lotte dei riders hanno rotto il velo di silenzio, ma l’incipiente controinformazione è stata rapidamente frenata dall’omologazione culturale dominante. A proposito di piattaforme, spicca il caso di Amazon, in mano al potentissimo Jeff Bezos ed esempio di scuola di come sia mutato il volto dell’accumulazione: da un lato livelli sempre più alti di innovazione tecnologica, dall’altro uno sfruttamento brutale della forza-lavoro che permette a basso costo la diffusione capillare dei prodotti. La società statunitense è finalmente entrata nei radar dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, che ha competenza di vigilanza anche sul settore postale. Oggi il business sta nella consegna dei pacchi (nel 2018 sono stati consegnati 569 milioni di esemplari con un fatturato di circa 4,4 miliardi di euro), mentre sono in crisi le lettere di corrispondenza ampiamente soppiantate da mail e quant’altro.L’e-commerce sale di peso, via via pure in Italia. E Amazon è l’unica struttura on-line verticalmente integrata nel comparto. In odore, in base alle regole europee, di posizione dominante. L’Agcom ha, infatti, pubblicato, con la delibera n. 350/19/Cons del 20 settembre scorso, il documento di consultazione pubblica, teso proprio ad indagare sullo stato delle cose. Il bel documento passa in rassegna i problemi e, soprattutto, pone i quesiti essenziali. Amazon è il riferimento dialettico dichiarato o meno delle condizioni cui l’Autorità si riferisce come tasselli preliminari di ogni discorso. “…gli Uffici osservano che un fattore che può comportare l’alterazione del gioco concorrenziale è rappresentato dall’applicazione da parte di alcuni operatori di contrattazioni differenziate e non omogenee rispetto a quelle ordinariamente e storicamente applicate nel settore…”. Così recita un passo importante del testo, cui seguono altri spunti significativi, che riprendono aspetti già trattati nella direttiva 2008/6. Il cuore dell’attenzione è costituito giustamente dal rispetto delle normative contrattuali e dalla cura della sicurezza sul lavoro. Insomma, il titolo abilitativo concesso ad Amazon non giustifica la concorrenza sleale verso Poste italiane, che ha l’obbligo del servizio universale, e verso gli altri operatori. E tantomeno lo sfruttamento schiavistico della nuova servitù della gleba, senza orari e senza tutele. Il documento dell’Agcom, dalla gestazione sofferta e si capisce perché, non è ancora definito, in attesa dei contributi. C’è da augurarsi che la ormai vicina scadenza della consiliatura già prorogata non rimandi tutto alle calende greche. La delibera in materia postale, chiara e ben curata, è un esempio di come - se vuole - la sfera pubblica è in grado di incidere sulle magnifiche sorti dei Grandi Fratelli, degli Over The Top. È doveroso uscire dalla sudditanza culturale e psicologica nei riguardi di gruppi grandi ma non infallibili. Sono in gioco diritti fondamentali ed è ora che si immagini un corpo normativo moderno e di sistema, senza disperdersi in rivoli secondari. Ne ha parlato il sottosegretario con delega all’editoria Andrea Martella. Chissà mai che ci riesca. Droghe. Cannabis legale in Canada, un primo bilancio di Leonardo Fiorentini Il Manifesto, 6 novembre 2019 È passato un anno dalla legalizzazione della cannabis in Canada e sono possibili delle prime valutazioni, che Transform, nota Ong inglese, presenta in un briefing paper che si può leggere su Fuoriluogo.it. Dopo un aumento dei consumi nei primi mesi di legalizzazione, l’uso di cannabis si è poi assestato sostanzialmente ai livelli precedenti. Aumenta l’uso frequente, ma i nuovi consumatori - pur raddoppiati - sono per oltre la metà ultra 45enni e il consumo degli adolescenti pare diminuire. Questi dati scontano l’effetto novità, e un effetto di maggiore veridicità nelle rilevazioni. La prevalenza d’uso resta comunque un indicatore inadeguato per gli impatti sulla salute (positivi o negativi), anche perché non indica le modalità ed i contesti del consumo. Appaiono ancora scarsamente applicate le misure di giustizia sociale. La “sospensione” delle condanne per cannabis, pur richiedibile on line, non cancella il precedente dalla fedina penale. Mancano ad oggi programmi di “risarcimento” nei confronti delle persone e le comunità colpite in modo sproporzionato dal proibizionismo. Quanto del mercato esistente si è trasferito nei canali legali? Su questo punto i dati sono contraddittori anche per il modello adottato, con la delega alle singole province della definizione del sistema di distribuzione e vendita al dettaglio. Secondo il National Cannabis Survey le persone che si riforniscono al mercato illegale sarebbero scese dal 51% al 38% (compresi i minori che non potrebbero acquistare legalmente), mentre un altro studio stima in circa il 33% la quota di mercato erosa all’illegalità. New Frontier Data conferma quest’ultima stima mentre le previsioni per il 2024 vedono un netto capovolgimento dei rapporti. Se l’uso medico della cannabis rimarrebbe più o meno stabile, l’uso ricreativo legale arriverebbe a intercettare 7,3 milioni persone, contro 0,9 milioni del residuo illegale. Il valore del mercato legale è destinato ad arrivare a circa 1,7 mld di euro quest’anno, e crescere a quasi 4 entro il 2024, con un aumento di 7 punti del consumo. Oltre alle difficoltà di approvvigionamento dei primi mesi, alla diversa flessibilità dei modelli di distribuzione locale (in Ontario e Quebec ci sono complessivamente meno di 50 negozi), ed alla interferenza del cosiddetto mercato grigio (i dispensari informali ancora presenti in alcune province) un grosso problema è il prezzo. Secondo Statistics Canada il costo medio di un grammo di cannabis legale è di 10,23 CAD contro 5,59 CAD per quella illegale. Solo in questi giorni sono arrivate sul mercato legale offerte che arrivano a 4,49 CAD al grammo (per confezione da 28gr). “Questi fattori hanno scoraggiato molte persone con fonti di approvvigionamento stabili a passare al mercato legale” dice Transform nel suo rapporto. Il dato canadese si pone a metà strada fra quello uruguaiano (20% dei consumi intercettati, dopo 2 anni di “rigida” legalizzazione) e quello di mercati relativamente più maturi, come il Colorado, in cui 2/3 del mercato è legale. Transform mette infine in guardia sulla sostenibilità di un impianto pensato anche per includere produttori di piccole dimensioni, ma di fatto eliminati nella realizzazione. La crescita di società multimiliardarie ha portato ad accuse di attività “predatorie” nei mercati emergenti della cannabis nei paesi a basso e medio reddito. In Colombia come in Messico, Giamaica, Lesotho e altrove, le imprese canadesi hanno assunto posizioni dominanti, sollevando importanti domande su “come le comunità tradizionali che coltivano cannabis possano essere protette e come garantire il commercio equo e lo sviluppo sostenibile”. Problemi etici, ma anche finanziari: dopo crescite a 3 cifre, la bolla è scoppiata e nel primo anno di legalizzazione le 30 principali aziende hanno perso il 28,2% alla borsa di Toronto. Israele. Il Tribunale supremo conferma l’espulsione del direttore di Hrw La Repubblica, 6 novembre 2019 Israele espelle il direttore di Human Rights Watch. La conferma è arrivata con la decisione inappellabile della Corte Suprema che ha respinto il ricorso presentato da Omar Shakir, direttore dell’ufficio israeliano dell’Ong. La radio pubblica israeliana ha annunciato che Shakir, che è un cittadino degli Stati Uniti, ha 20 giorni di tempo per lasciare il Paese. Secondo uno dei giudici, Neal Hendel, esistono prove sufficienti per confermare che Shakir ha sostenuto il movimento Bds di boicottaggio di Israele, malgrado egli abbia affermato il contrario. Dunque, ha aggiunto Hendel, il ministero degli Interni era autorizzato a ordinare la sua espulsione. Respinta la tesi della difesa secondo cui la sua espulsione suonerebbe come un avvertimento agli attivisti delle organizzazioni di difesa dei diritti civili. Maldive. Chiusa l’Ong che aveva denunciato la radicalizzazione islamista di Riccardo Noury Corriere della Sera, 6 novembre 2019 Ci sono voluti quasi quattro anni ed è persino cambiato il governo. Ma alla fine la Rete maldiviana per la democrazia, la più importante Ong del paese nota per le sue denunce di violazioni dei diritti umani, è stata costretta a chiudere. Nel 2015 la Rete aveva pubblicato un rapporto intitolato “Prima valutazione sulla radicalizzazione nelle Maldive”, nel quale si dava conto della crescente influenza del radicalismo islamista nelle leggi e nella cultura del paese: un fenomeno che ha causato gravi violazioni dei diritti umani a livello nazionale e che ha fatto delle Maldive, sul piano globale, il più grande esportatore - in rapporto alla popolazione - di foreign fighters nel conflitto siriano. Un mese fa, il 10 ottobre, il ministero degli Affari esteri ha annunciato la temporanea sospensione delle attività della Rete, a causa dei contenuti del rapporto del 2015, risultati “diffamanti nei confronti dell’Islam e del profeta Maometto”. Gli ultimi aggiornamenti del sito risalgono proprio al giorno precedente il provvedimento. Ne è seguita una campagna di minacce e insulti nei confronti della Rete e in particolare del suo direttore, Shahinda Ismail. Ieri, infine il ministero della Gioventù, dello sport e della comunità - che si occupa anche del riconoscimento delle Ong - ha annunciato la chiusura della Rete. Ironia della sorte: del nuovo governo diretto dal presidente Ibrahim Solih fanno parte ex prigionieri di coscienza in favore dei quali, oltre ad Amnesty International, la stessa Rete si era mobilitata per chiedere la scarcerazione. Filippine. La Chiesa accanto a carcerati e vittime della violenza L’Osservatore Romano, 6 novembre 2019 Pace e giustizia per le vittime degli omicidi extragiudiziali. E più dignità per i detenuti. E quanto torna a chiedere con forza la Chiesa cattolica nelle Filippine che tenacemente interviene in difesa di chi non ha voce. Ai ripetuti appelli dell’episcopato si è aggiunto nelle ultime ore quello lanciato da alcuni sacerdoti, che hanno guidato una manifestazione e celebrato una messa a Manila. Il gesuita Albert Alejo, padre Flavie Villanueva e padre Robert Reyes - riferisce l’agenzia Fides - hanno organizzato una veglia di preghiera in ricordo delle persone innocenti uccise durante la “guerra contro la droga” lanciata dal governo, che avrebbe fatto circa 30.000 vittime in due anni. Padre Alejo ha esortato i filippini a “parlare delle ingiustizie che si verificano nel paese”. Infatti, “se i vivi sono silenziosi, come possono essere i morti a parlare?”. Le vittime delle esecuzioni, ha rilevato, “non sono solo numeri o statistiche, perché l’ingiustizia sta uccidendo anche la verità, la fede e la speranza dei filippini”. E ha invocato “il rispetto dello stato di diritto nel paese”. Un appello dei vescovi al rispetto della dignità dei detenuti nel paese - dove le condizioni all’interno delle carceri sovraffollate vanno peggiorando - è contenuto in un messaggio diffuso in occasione della recente giornata nazionale dedicata alla sensibilizzazione sulla situazione dei carcerati. Un testo attraverso il quale l’episcopato ribadisce che “l’amore di Dio è incondizionato e radicale e si estende anche a coloro che hanno commesso il più atroce dei crimini”. Nel documento, a firma di monsignor Joel Z. Baylon, presidente della commissione per la pastorale carceraria e vescovo di Legazpi, la Conferenza episcopale delle Filippine si augura che la popolazione sia consapevole “della difficile situazione dei membri della comunità carceraria, in particolare le persone private delle loro libertà e delle loro famiglie”. “Una persona non perde la sua dignità avendo compiuto un atto peccaminoso, e i carcerati hanno la capacità di migliorare, specialmente in un ambiente in cui sono aiutati a crescere”, sottolinea il presule, sperando che questa dimensione venga maggiormente presa in considerazione dal sistema carcerario. “Ed è così che tutti noi nella Chiesa dobbiamo agire - aggiunge monsignor Baylon - guidati dai nostri cappellani e volontari nel servizio penitenziario, in collaborazione con le guardie carcerarie”. “Solo l’amore trasformerà i nostri fratelli che hanno sbagliato - insiste il vescovo di Lezgapi - non è con la paura o il terrore che si riuscirà a riabilitarli”. Il messaggio si conclude con un invito a essere “consapevoli della situazione difficile delle persone che sono ignorate o che sono state a lungo considerate morte dalla nostra società, persone che sono state condannate a causa dei peccati che hanno commesso”. E a seguire l’esempio di Papa Francesco che “ci implora di ricordare i prigionieri come parte della nostra missione di cura dei poveri, dimenticati e trascurati”. Le parole del vescovo di Legazpi fanno eco all’appello a “trattare i detenuti con dignità” che il vicepresidente della Conferenza episcopale filippina, monsignor Pablo Virgilio S. David, ha rivolto nei giorni precedenti al governo e ai funzionari delle prigioni dell’arcipelago. “Questa non è un’affermazione dei diritti, è un grido di misericordia - ha lanciato il vescovo di Kalookan - i detenuti non chiedono un trattamento speciale: chiedono solo di essere trattati come esseri umani”. In un testo diffuso dall’agenzia Fides, il presule nota che molti prigionieri hanno commesso reati relativamente minori, spesso in circostanze di grave povertà e disperazione, e “languiscono in prigione a causa della mancanza di istruzione, dell’assenza di assistenza legale, della povertà, a causa di un sistema giudiziario scadente” che va riformato con urgenza “per far sì che sia fondato sulla giustizia riparatoria, come nella maggior parte delle società civili”. “Se i leader politici dichiarano apertamente che “i criminali non possono essere recuperati” e che “i tossicodipendenti non sono umani” o se i funzionari governativi incoraggiano apertamente la polizia a uccidere - aggiunge il vescovo - non ci si può aspettare che le forze dell’ordine abbiano comportamenti rispettosi della dignità umana”. Secondo il rapporto di una commissione governativa, le condizioni all’interno delle carceri sono in netto peggioramento: il sovraffollamento delle strutture carcerarie ha raggiunto il 612 per cento, con una popolazione totale di 146 mila detenuti, rispetto a una capacità di circa 21 mila. Negli ultimi anni la popolazione carceraria è aumentata a seguito della politica antidroga lanciata dal presidente filippino Rodrigo Duterte. Alcune ong fanno pressione sul governo chiedendo un’indagine approfondita sulle operazioni intraprese che avrebbero portato alla morte di almeno 30.00o persone. Nel giugno scorso, per il tredicesimo anniversario dell’abolizione della pena di morte nelle Filippine, la Chiesa ha ribadito la responsabilità dei legislatori a favore della vita e della dignità umana. I vescovi cattolici hanno protestato contro ogni tentativo di ripristinare la pena di morte. “I legislatori hanno l’obbligo di opporsi a qualsiasi legge che attacca la vita umana”, ha dichiarato Rodolfo Diamante, segretario generale della commissione per la pastorale carceraria.