Cadono gli automatismi ingiusti, non l’argine alle mafie di Mario Chiavario Avvenire, 5 novembre 2019 Bisogna leggere bene la sentenza della Consulta sull’ergastolo ostativo. Tanti magistrati criticano la Corte costituzionale per la sentenza che ha incrinato il regime dell’ergastolo “ostativo” cominciando ad ammettere che anche chi vi sia sottoposto possa fruire di permessi fuori dal carcere, pur se non abbia prestato una “collaborazione” per far scoprire altri delitti o altri delinquenti. E a mostrarsi preoccupato per la decisione è persino uno che, come don Ciotti, ha speso e rischiato la vita in difesa dei deboli e in operoso contrasto alle varie mafie. Non c’è bisogno d’altro per sentirsi sconcertati, a prescindere dalle pesanti bordate e dagli sguaiati insulti contro la Corte, provenienti da diversi settori del mondo politico e giornalistico. Già in atto, poi, un’iniziativa per una nuova legge o un decreto-legge in argomento, che dovrebbe porre rimedio ai guasti addebitati alla pronuncia dei giudici costituzionali. Inutile, qui, ripetere le ragioni che invece sostengono la soluzione cui la Corte è approdata, simili a quelle avanzate in relazione a un’analoga sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Più opportuno, forse, cercar di sgombrare il terreno da un equivoco che fa pensare a un sicuro e sciagurato lasciapassare per “libere uscite” a frotte di potenti boss e di feroci assassini. È proprio vero, infatti, che per la concessione dei permessi ai mafiosi tutto è ormai rimesso a un’illimitata discrezionalità dei magistrati che hanno il compito di “sorvegliare” l’esecuzione delle pene? A me sembra, al contrario, che quella discrezionalità venga ad essere vincolata da limiti tutt’altro che lievi; e ciò risulta chiaramente dal comunicato-stampa emesso dal Palazzo della Consulta il giorno stesso della pronuncia della sentenza. Si è detto da molti che d’ora in poi si dovrà guardare, unicamente o principalmente, alla “buona condotta” carceraria dell’ergastolano “ostativo” ossia, per usare il linguaggio più tecnico impiegato dalla Corte stessa, al fatto che in carcere “il condannato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo”. Se così fosse, la sentenza lascerebbe davvero perplessi (non a torto, invero, si è osservato che fa parte del codice mafioso l’apparire come modelli di comportamento nel quotidiano della vita penitenziaria). Ma non è così. Il quadro è più complesso, e pur sempre imperniato sul riconoscimento di un’importanza essenziale al rifiuto di collaborazione, che continua a dover essere normalmente impeditivo del permesso. Certo, la presunzione di pericolosità del condannato, desunta da tale rifiuto, non è più “assoluta” (cioè non è più automaticamente e inderogabilmente preclusiva della concessione). Tuttavia, in termini “relativi”, quella presunzione è ancora in vigore: la regola, cioè, quando si siano commessi certi reati e si rifiuti di collaborare con l’autorità, rimane il divieto di permessi; la si potrà sovvertire, ma solo se si portino positivamente “elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata”. Insomma, non basteranno pie intenzioni o benevoli attestati di resipiscenza; e anzi, in senso negativo, potranno avere peso decisivo le informazioni e i pareri di soggetti esterni al carcere e in grado di valutare appieno la corrispondenza tra le apparenze e la realtà, a cominciare dalla Procura antimafia, necessariamente da interpellare. Se il deposito - che si spera rapido - del testo integrale della pronuncia della Corte confermerà questa lettura, tutto ciò che ne discende potrà anche cristallizzarsi in un testo legislativo, eventualmente con più precisi criteri direttivi peri magistrati di sorveglianza, per porre più alti baluardi a minacce e ricatti nei loro confronti. Più ardito, sul piano della correttezza costituzionale, il ricorso a un decreto-legge che preceda addirittura quel deposito. Si potrebbe dire che non mancano del tutto dei precedenti per casi simili. Ne ricordo uno, in particolare, di quasi cinquant’anni fa, quando un provvedimento del genere venne emanato - su iniziativa informale dello stesso Presidente della Corte di allora - per evitare inopinate liberazioni di soggetti pericolosi come conseguenza di una sentenza che aveva esteso anche alle fasi processuali successive all’istruttoria il principio della scarcerazione per decorrenza dei termini massimi della carcerazione preventiva. Ma, in tal caso, appunto, il mutamento legislativo non fu per andare contro ciò che era stato deciso: al contrario, introducendosi da subito l’estensione voluta dalla Corte ma ritoccandosi al rialzo quei termini, si diede invece alla sentenza una sorta di applicazione anticipata ma priva di effetti dirompenti. Neppure quel precedente, dunque, potrebbe essere invocato per reintrodurre oggi, sia pur soltanto per qualche categoria di persone, una norma inequivocabilmente dichiarata incostituzionale. Giustizia autorevole e benefici penitenziari di Fabrizio Vanorio* La Repubblica, 5 novembre 2019 La recente sentenza della Corte costituzionale non ha affatto “abolito” l’ergastolo o “aperto le porte” delle carceri ai boss mafiosi. A distanza di circa una settimana dalla sentenza della Corte costituzionale sul cosiddetto ergastolo ostativo, a sua volta preceduta dalla condanna del nostro Paese in sede europea da parte della Cedu con la sentenza Viola c. Italia del 13 giugno scorso, è forse possibile svolgere un’analisi più pacata sugli effetti concreti della decisione e su alcune questioni di fondo come il contrasto alle organizzazioni mafiose e la funzione della pena detentiva. In primo luogo, va precisato per i non addetti ai lavori che la sentenza non ha affatto “abolito” l’ergastolo o “aperto le porte” delle carceri ai boss mafiosi: la decisione ha semplicemente modificato l’ordinamento penitenziario (dichiarando un articolo parzialmente incostituzionale), nella parte in cui escludeva radicalmente dai permessi premio i condannati per reati di mafia e assimilati, che non avessero intrapreso un percorso di collaborazione con la giustizia e ciò a prescindere dalla verifica, da parte del magistrato di sorveglianza, della rescissione dei collegamenti del detenuto con l’organizzazione di pregressa appartenenza. Si tratta, dunque, di una decisione senza dubbio importante, ma che non avrà ragionevolmente effetti dirompenti, se i controlli della magistratura di sorveglianza, a sua volta confortata da approfonditi pareri degli organi inquirenti, Procure antimafia e forze di polizia giudiziaria, saranno accurati e adeguati ai singoli casi in discussione. Ma è chiaro che si devono affrontare con competenza tutti i problemi che la nuova disciplina inevitabilmente comporterà: vediamo quali. Senza dubbio, come hanno notato tanti miei colleghi, da anni impegnati in indagini e processi a organizzazioni mafiose, la strada principale per verificare la “fuoriuscita dalla struttura e dalla mentalità mafiosa” è e deve restare quella della collaborazione con la giustizia, genuina e utile per lo Stato. Forme alternative e ambigue come quelle della “dissociazione”, più volte promossa dai vertici di varie mafie nazionali per garantire benefici a chi non offre alcun contributo processuale serio, nello stesso tempo non tagliando i legami con i pericolosi gruppi criminali di appartenenza, vanno tuttora respinte con decisione. Inoltre, va sempre salvaguardato il principio anche giuridico della specificità mafiosa, che impone al magistrato in ogni fase del processo di comprendere la dimensione “collettiva e perdurante” delle condotte di questo genere di criminali, per cui il mafioso resta generalmente tale anche in carcere e continua a ricevere vantaggi economici e morali dall’organizzazione. Tuttavia, la tanto criticata sentenza della Consulta, non mette assolutamente in discussione questi principi, anzi, impone giustamente al magistrato di sorveglianza un onere rafforzato, proprio perché si tratta di detenuti mafiosi: quello di verificare persino il pericolo di ripristino di collegamenti con i clan. Dunque, non solo il detenuto deve aver fornito effettiva prova di rieducazione e di reinserimento, ma in sostanza non deve avere più alle spalle un clan attivo, con il quale egli possa ancora avere contatti anche indiretti, grazie ad associati e familiari in libertà e alle imprese o risorse da costoro controllate. In altri termini, il pericolo di liberare anzitempo mafiosi relativamente giovani e appartenenti a clan ancora pericolosi, che per giunta non hanno scelto di collaborare con la giustizia, non esiste, se le norme vengono correttamente e prudentemente - è il caso di dire - interpretate. È chiaro, poi, che possono esservi gli errori, ma nella mia quotidiana esperienza dei processi di mafia constato che ve ne sono altri, più frequenti di quelli dei giudici di sorveglianza - molto severi anche con i collaboratori di giustizia - penso alle pene temporanee a volte ridotte ai camorristi senza giustificazione per la concessione eccessiva della “continuazione” o ad alcune assoluzioni di affiliati o imprenditori concorrenti dei clan, per effetto di valutazioni errate delle prove. Dunque, se un principio è giusto, la marginale possibilità di errori non può condurre alla sua negazione. Nel caso di specie, è inutile aggirare il problema, il principio è che l’ergastolo è conforme alla Costituzione solo se sono previsti istituti per la sua eventuale limitazione, come quello della liberazione condizionale per i detenuti realmente ravvedutisi: lo ha stabilito anche in questo caso la Consulta ben 45 anni fa. E bisogna anche capire che il nostro sistema penale presenta rigidità incomprensibili, che impongono ai giudici, per i delitti più gravi, la difficilissima alternativa tra una condanna massima a 30 anni di reclusione e quella all’ergastolo, senza alcuna possibilità di modulazione. Per questo mi pare necessario abbandonare le polemiche troppo ideologiche tra opposti schieramenti, per comprendere che c’è differenza tra un ergastolano cinquantenne, ai vertici di un clan con rapporti internazionali, e un ergastolano detenuto da trent’anni per un’isolata partecipazione a un omicidio di mafia, deciso da un clan che non esiste più. In definitiva, la attenta salvaguardia della normativa antimafia e dei suoi strumenti applicativi e la doverosa tutela delle vittime con misure di protezione e assistenziali possono ben accompagnarsi a istituti come i benefici penitenziari per i detenuti realmente riabilitati o non più pericolosi in alcun modo. In queste concessioni di diritti a chi è stato sottoposto a lunghi e controllati periodi di recupero e ha mostrato rispetto per le vittime o a chi è ormai molto anziano o persino non più autosufficiente, non si manifesta un cedimento o una sconfitta, bensì una vittoria dello Stato. Del moderno Stato di diritto. *Segretario della sezione di Napoli di Magistratura democratica e componente della Dda della Procura di Napoli Valerio Onida: “Senza benefici l’ergastolo è contro la Carta” di Errico Novi Il Dubbio, 5 novembre 2019 Il costituzionalista. “Se nel nostro ordinamento si può parlare di ergastolo, se ancora una simile pena esiste, è solo ed esclusivamente perché è possibile per il condannato la prospettiva di un ritorno in libertà. Senza l’accesso almeno potenziale a un esito indispensabile per attuare il fine rieducativo della pena, l’ergastolo sarebbe incostituzionale. Ecco perché non ha senso ipotizzare che la sentenza della Consulta sull’articolo 4bis possa essere “rettificata” da una legge che ne limiti l’applicazione. Non si può escludere dal beneficio dei permessi e più in generale dai benefici penitenziari, fino alla liberazione condizionale, alcun detenuto, neppure chi è stato a capo dell’organizzazione criminale”. Vale la pena di riportare subito, parola per parola, la risposta del presidente emerito della Corte costituzionale Valerio Onida a parlamentari e magistrati che nelle ultime ore insistono per circoscrivere la pronuncia sull’ergastolo ostativo. Ne vale la pena perché Onida è tra le figure che personificano più adeguatamente l’Istituzione con la “I” maiuscola. Forse solo lo sconquasso emotivo per una sentenza che ha sconvolto il quadro preesistente, com’è avvenuto con la pronuncia del 23 ottobre, può giustificare alcune prese di posizione. Accolta l’attenuante della novità, è opportuno rimettere in ordine i principi di diritto. È dunque impossibile perimetrare lo spettro di applicazione della sentenza costituzionale sul 4bis, Presidente Onida? Il principio per cui l’ergastolo deve necessariamente essere integrato da una possibilità, anche distante nel tempo, di liberazione è costituzionalmente sancito. Su tale aspetto non c’è alcuna discussione. Come credo sia chiaro a tutti, la Corte costituzionale ha risolto un altro dilemma: se considerare la collaborazione come presupposto irrinunciabile per l’accesso ai benefici soddisfacesse o meno il principio della necessaria prospettiva di libertà. E la Corte ha ritenuto che non fosse possibile subordinare alla collaborazione la prospettiva del ritorno in libertà... Prima d’ora si era ritenuto che fosse possibile perché si riteneva la collaborazione come una scelta pur sempre libera dell’interessato, e dunque tale da consentirgli comunque di ottenere la liberazione. Ma, a rifletterci, non si può davvero ritenere sempre libera una scelta simile. Non può esserlo per chi teme che la sua collaborazione provochi rappresaglie su persone a lui care... Per esempio. Oppure per chi non ha mai ammesso le proprie colpe, e dunque non può essere costretto a confessare, neppure dopo che una sentenza abbia invece affermato la sua responsabilità. La collaborazione non può essere pretesa, appunto. Quale sarà la bussola dei giudici di sorveglianza? Lo prescrive da sempre l’ordinamento penitenziario: accertare la rottura di ogni legame con la criminalità e il sicuro “ravvedimento” della persona. La rottura, per un ergastolano ostativo, può essere accertata anche per via indiretta, con la rottura dei legami criminali da parte dei suoi familiari? È evidente che se i familiari del condannato mantengono relazioni criminali sarà più difficile provare l’insussistenza di relazioni anche indirette fra il condannato e l’organizzazione. Così com’è chiaro che se invece i familiari hanno spezzato quei legami si è di fronte a una prova che può essere significativa anche per il detenuto. D’altronde a me pare che chi muove critiche alla sentenza dimentichi soprattutto un aspetto. Quale? Il carattere individuale di qualsiasi trattamento sanzionatorio e l’obbligo di valutare lo specifico percorso compiuto dal singolo condannato. È scontato che prima o poi si arrivi a giudicare illegittimo il vincolo della collaborazione anche rispetto alla liberazione condizionale? È chiaro che l’ostatività per chi non collabora è destinata a cadere anche rispetto al beneficio della liberazione condizionale. Se la collaborazione non è più vincolante rispetto alla concessione del permesso, che è uno dei primi traguardi del percorso rieducativo, a maggior ragione non può essere vincolante per un istituto quale la liberazione condizionale che è il solo davvero in grado di rendere costituzionalmente legittima la pena dell’ergastolo. Il che non vuol dire che assisteremo a una scarcerazione in massa di boss mafiosi. Perché è stupito delle reazioni alla pronuncia? Perché siamo al cuore dell’idea di pena prevista dalla nostra Carta e dalla Convenzione europea dei diritti umani. La prospettiva di libertà è elemento necessario perché l’ergastolo sia ammissibile, punto. La stessa costituzionalità del fine pena mai, com’è noto, è in discussione. È invece scontato che chi si vede infliggere quella pena debba sapere fin dall’inizio che un giorno potrà tornare libero. Ma ora il Parlamento potrebbe escludere da tale prospettiva chi è stato a capo dell’organizzazione criminale? No. Assolutamente no. La valutazione sulla rottura delle relazioni criminali e sul percorso rieducativo, sul ravvedimento, va compiuta in concreto rispetto alla singola persona. Ripeto e scandisco: per-so-na. Non sul ruolo che quella persona ha rivestito in passato. A proposito di diritti costituzionalmente sanciti: il Cnf ha chiesto di differire l’entrata in vigore del blocca-prescrizione per poter verificare l’efficacia delle riforme sulla velocizzazione dei processi. Condivide? Se si decide di bloccare la prescrizione dopo il primo grado è perché si ritiene che appello e Cassazione possano svolgersi in tempi ragionevoli. Trovo quindi non priva di senso l’idea di rinviare l’efficacia della norma in modo da verificare se i tempi del processo dopo il primo grado sono e possono essere resi ragionevoli davvero, come peraltro prescrive l’articolo 111 della Costituzione. Ciò non toglie che questa norma sul venir meno della prescrizione dopo la condanna in primo grado possa anche essere utile. Da quale punto di vista? Non si può trascurare che talora le impugnazioni possono essere proposte al solo fine di raggiungere la prescrizione, da chi sa di avere in effetti una responsabilità. Se si sgombra il campo da tale uso anomalo dell’istituto, chi è condannato in primo grado e sa di essere colpevole potrà guardare piuttosto a una rapida esecuzione in forma di misure alternative e ad arrivare il prima che può alla riabilitazione. Se invece è convinto di dovere e poter dimostrare la propria innocenza, anche oggi può rinunciare alla prescrizione. Si potrebbe insomma forse attenuare il carico dei processi su Corti d’appello e Cassazione. Ma è altrettanto necessario che chi è condannato in primo grado e sa di essere innocente non debba attendere lustri per vedere accertata la propria estraneità? E infatti la norma che blocca la prescrizione potrebbe essere opportunamente accompagnata dalla previsione di tempi di fase comunque insuperabili per appello e Cassazione. Più in generale, soprattutto riguardo all’ergastolo, non vede un po’ d’insofferenza per i principi costituzionali? Prevale la cultura del buttar via la chiave, evidentemente. A proposito dell’ergastolo, mi pare infondata anche la preoccupazione per il fatto che il giudizio resterà affidato al magistrato di sorveglianza. La valutazione sul percorso rieducativo va necessariamente compiuta in modo non astratto ma individuale, e con la conoscenza della singola situazione. Sono proprio il singolo giudice e Tribunale di sorveglianza che devono decidere. Il consigliere del Csm Di Matteo preferirebbe un Tribunale di sorveglianza unico nazionale... Una soluzione del genere sarebbe priva di coerenza logica con il principio per cui il trattamento e il percorso rieducativo, e quindi anche la valutazione del percorso, devono essere individuali. Un collegio collocato a Roma non può certo decidere su casi in tutta Italia. I magistrati di sorveglianza devono seguire da vicino i detenuti e i loro percorsi, conoscendo le situazioni concrete. Essi devono esercitare le proprie funzioni il più possibile vicino al luogo dove il condannato espia la pena e in contatto con quella realtà. Dovrebbero anzi interloquire con gli stessi detenuti e con gli operatori penitenziari. Devo dire che, se trovo spiegabili certe dichiarazioni di esponenti politici, mi lasciano più sorpreso quando queste arrivano da magistrati. È come se si volesse ipotizzare un ordinamento penitenziario diverso per i condannati di mafia. Ma non si può spingere il modello del doppio binario fino a contraddire i principi essenziali della Costituzione. L’ergastolo ostativo e il detenuto sottoposto a 41bis o.p. di Gaetano Esposito* Ristretti Orizzonti, 5 novembre 2019 I motivi per i quali la sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani è tanto discussa e travisata persino dagli addetti ai lavori hanno radici lontane. L’ergastolo non ha avuto la stessa sorte della pena di morte. L’abolizione della capitale è passata per una battaglia che ha visto schierate legioni di giuristi, filosofi, scrittori e intellettuali di varia estrazione. Nulla di tutto questo è avvenuto per l’ergastolo. Abolita la pena di morte l’ergastolo ne prese il posto nella gerarchia delle pene senza alcuna discussione e trovò ospitalità nel Codice Zanardelli, che pure era un codice complessivamente mite nella previsione delle pene. I costituenti, fatta eccezione per l’accorato appello di Togliatti di abolire l’ergastolo, non si soffermarono sul problema lasciandolo alla competenza del legislatore ordinario. La dottrina maggioritaria riteneva che, stante il silenzio della Costituzione, e, ci permettiamo di aggiungere l’ambiguità dei costituenti, la pena perpetua fosse del tutto compatibile con il principio della rieducazione affermato dall’articolo 27. Certo non mancarono giuristi che presero posizione contro la pena perpetua, primo tra tutti Francesco Carnelutti che la definiva plasticamente “pena di morte diluita giorno per giorno”, e che nel 1956, sulle colonne della Rivista di diritto processuale, pubblicava provocatoriamente un articolo dal titolo eloquente: La pena dell’ergastolo è costituzionale? Alla provocazione di Carnelutti seguì il famoso congresso di Perugia del 1956 presieduto da Alfredo De Marsico ma fu un congresso di giuristi, avvocati e magistrati che ebbe poca risonanza nella società civile, inoltre si concluse in larga misura per la legittimità dell’ergastolo. Dunque nel nostro paese non si è mai discusso seriamente dell’ergastolo e della sua compatibilità con il principio rieducativo. Nella stessa manualistica di ieri e di oggi molte pagine sono dedicate alla ormai abolita pena di morte e poche all’ergastolo e comunque senza mai metterne in discussione il fondamento. Quasi nessuno si domanda se la pena perpetua sia legittima eppure nei codici di molti paesi dell’Europa e del mondo non è prevista nel novero delle pene. L’ergastolo non ha mai avuto il suo Beccaria, il suo Victor Hugo, il suo Albert Camus. Da questa breve premessa appare dunque evidente il motivo per cui in Italia ogni tentativo di abolizione dell’ergastolo ha trovato l’opposizione dell’opinione pubblica e di gran parte degli stessi operatori del diritto. Si spiega così il perché la sentenza della Corte europea ha incontrato tanta ostilità, anche da parte della magistratura e dei suoi organi rappresentativi. La sentenza tocca alcuni temi caldi nel nostro paese: l’ergastolo, la lotta alle mafie e al terrorismo, la collaborazione con la giustizia. La sentenza della Corte europea dei diritti umani La tanto discussa sentenza della Corte europea relativa al caso Viola v. Italia afferma in realtà un principio che è in sintonia con i precedenti della stessa Corte (Kafkaris v. Cipro; Vinter v. Regno Unito; Hutchinson v. Regno Unito) ma soprattutto, ci permettiamo di aggiungere, è in sintonia con i principi della nostra Costituzione. Che l’ergastolo incomprimibile, senza alcuna possibilità di sottoporre la pena a riesame, fosse contrario all’art. 3 Cedu, era principio già affermato dalla Corte e del tutto conforme al principio rieducativo sancito dall’articolo 27 della nostra Costituzione. D’altronde per i reati non elencati dall’articolo 4bis O.p. l’ergastolo non si traduce in una pena perpetua stante la possibilità di ottenere permessi premio, liberazione condizionale, semilibertà. Dunque nulla di scandaloso. La novità è che la Corte europea perviene alla illegittimità dell’ergastolo ostativo affermando l’illegittimità della presunzione di pericolosità del detenuto che decida di non collaborare con la giustizia. La collaborazione con la giustizia, secondo la Corte, non può essere indice assoluto del cambiamento del detenuto al punto che la sua assenza possa impedirgli la possibilità di ottenere i benefici penitenziari previsti per gli ergastolani ordinari. La scelta collaborativa infatti può essere, oltre che impossibile e inesigibile, anche dettata da mere strategie calcolanti e dunque inaffidabile indice rivelatore del pentimento morale del detenuto. Inoltre il rifiuto di collaborare può essere dettato dal timore di esporre i propri familiari a pericoli di vendette trasversali e ritorsioni. Dunque viene a cadere la presunzione di pericolosità sociale del detenuto che non collabora con la giustizia; principio questo che non dovrebbe essere estraneo al nostro ordinamento che ha bandito ogni forma di presunzione di pericolosità. Anche sul punto pertanto nulla di nuovo è stato affermato dal giudice sovranazionale. La sentenza in commento stabilisce che non esistono delinquenti incorreggibili, immeritevoli di coltivare la speranza di poter un giorno uscire dal carcere ma esistono solo delinquenti che vogliono rimanere tali e delinquenti che invece vogliono risocializzarsi. Questo vale anche per i mafiosi e i terroristi in quanto la lotta alle mafie e al terrorismo è una necessità dello Stato ma non un principio giuridico idoneo a inficiare principi costituzionali e convenzionali. La rieducazione si pone dunque come un’offerta doverosa da parte dello Stato nei confronti del reo, lasciando alla libertà dello stesso scegliere se accettarla o meno. Tale assunto non ha nulla di rivoluzionario ma discende pacificamente dai nostri principi costituzionali e bastava una lettura onesta e scevra da pregiudizi della Costituzione per accorgersene. Il detenuto sottoposto a regime di cui all’articolo 41bis o.p. Se il principio affermato nella sentenza Viola vale per il detenuto sottoposto a regime ordinario, quale sorte invece attende il detenuto sottoposto a regime di cui all’articolo 41bis dell’Ordinamento penitenziario? Al detenuto Marcello Viola era stato revocato il regime di carcere duro ma il detenuto sottoposto ancora a quel regime quali argomenti potrà addurre per dimostrare la sua rieducazione? Per il detenuto sottoposto a regime differenziato è estremamente difficile dimostrare la sua volontà di rieducarsi dal momento che è escluso da quasi tutte le attività rieducative. Altrettanto difficile è per il giudice valutare i progressi di un detenuto sottoposto a carcere duro. Rebus sic stantibus troverebbero applicazione quei criteri valutativi tanto criticati quanto vaghi che solitamente applica il Tribunale di Sorveglianza in sede di reclamo: la capacità del detenuto di mantenere contatti con l’organizzazione criminale e l’operatività dell’associazione criminale di appartenenza. Entrambi elementi esterni alla vita carceraria e indipendenti dalla volontà del detenuto. Il destino del detenuto a regime differenziato finisce così per dipendere da quanto dichiarano gli organi di polizia operanti sul territorio sui quali si attesta generalmente la magistratura inquirente. Un destino, dunque, sul quale il detenuto non può incidere in nessun modo. Il rischio è quello che la permanenza in regime di 41bis possa, ex se, costituire indizio di pericolosità sociale del detenuto, con il pericolo, ancora più grave, che per una fascia di detenuti l’ergastolo resti, di fatto, ancora ostativo e dunque incomprimibile. Una tale discriminazione tra detenuti è contraria ai principi convenzionali così come affermato dalla sentenza Viola v. Italia. Sul punto non resta che auspicarsi un intervento illuminato della giurisprudenza prima che la Corte europea condanni nuovamente l’Italia. *Avvocato Un grande passo per l’umanità carceraria di Lorena Puccetti cfnews.it, 5 novembre 2019 La mancata collaborazione con la giustizia non impedisce i permessi premio. La Corte costituzionale, il 23 ottobre 2019, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4bis, primo comma, della Legge sull’ordinamento penitenziario (L. 354/1975), nella parte in cui impedisce che siano concessi i permessi premio ai condannati che non collaborino con la giustizia, anche se abbiano fornito prova di partecipazione al percorso rieducativo e siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità della partecipazione all’associazione criminosa. La Corte Europea dei diritti dell’uomo, in data 8 ottobre 2019, aveva già affermato che l’ergastolo, ove non sia contemplata una concreta possibilità di riduzione della pena decorso un certo periodo di detenzione, deve ritenersi contrario al principio della dignità umana. Pertanto, la sentenza aveva espresso perplessità sulla normativa italiana in materia di c.d. ergastolo ostativo, ovvero il particolare regime previsto dalla predetta norma. Tale regime impedisce ai condannati per i gravi delitti indicati all’art. 4bis, co. 1 della L. 354/1975 e che non collaborino con la giustizia, di accedere a una serie di benefici penitenziari quali il lavoro all’esterno, i permessi premio, le misure alternative alla detenzione e la liberazione condizionale. All’esito di tale pronuncia, sembrava quasi scontato che la Corte Costituzionale dichiarasse l’illegittimità di tale normativa ma, in realtà, la pronuncia della Corte non appare del tutto sovrapponibile a quella della Corte europea. I giudici di Strasburgo, infatti, hanno preso in considerazione la norma sotto un profilo specifico, ovvero che l’ergastolo ostativo, precludendo l’accesso alla liberazione condizionale, esclude a priori il detenuto non collaborante dalla possibilità di ottenere la riduzione della pena. In buona sostanza, la Corte europea ha ritenuto che la carcerazione perpetua appare lesiva dei principi sanciti dalla Convenzione europea sui diritti dell’uomo ed in particolare dell’art. 3. La Corte costituzionale si è invece occupata di una questione diversa e, precisamente, la legittimità della normativa nella parte in cui impedisce all’ergastolano non collaborante di ottenere un permesso premio pur avendo egli dato prova di partecipazione al percorso rieducativo. Dal comunicato stampa dell’Ufficio della Corte si apprende che la norma è da ritenersi illegittima perché contempla una presunzione assoluta in base alla quale il detenuto che non collabora con la giustizia deve ritenersi ancora collegato all’associazione criminale. Invece, dice la Corte Costituzionale, deve essere il Magistrato di sorveglianza a valutare se, nel caso concreto, l’assenza di collaborazione sia dovuta a ragioni che non inficiano il giudizio positivo sul percorso penitenziario compiuto da detenuto e sul suo definitivo distacco dalla sfera criminale. In altri termini, la presunzione di pericolosità sociale che sta alla base del regime ostativo di cui all’art. 4bis, co. 1 delle Legge sull’ordinamento penitenziario deve essere intesa come relativa e non assoluta. Dichiarando l’illegittimità di questa disposizione, dunque, la Corte Costituzionale ha sottratto alla generale applicazione del meccanismo “ostativo” soltanto la concessione del permesso premio. È peraltro evidente che le considerazioni sottese a tale decisione mantengono la loro valenza anche riguardo agli benefici penitenziari attualmente preclusi ai detenuti in regime di ergastolo ostativo. È soltanto questione di tempo. Nel futuro, non potranno che essere accolte le questioni di legittimità costituzionale a proposito dei divieti assoluti, per gli ergastolani non collaboranti, di ottenere benefici premiali anche a fronte di una condotta carceraria ineccepibile e di relazioni positive che escludono l’attuale pericolosità sociale del richiedente. Con tale decisione, la Corte Costituzionale ha riconosciuto che ogni pena, anche l’ergastolo per i più gravi reati, deve avere sempre una finalità rieducativa. Al contrario, negare al recluso qualsiasi possibilità di ottenere quei benefici premiali che lo possono ricondurre, anche solo per un giorno, fuori dal carcere, ingenera frustrazione e mortifica ogni volontà di riscatto. In conclusione se davvero esiste un diritto, costituzionalmente garantito, a espiare la pena in vista di una riabilitazione personale e sociale, i benefici premiali non possono essere aprioristicamente esclusi, salvo che il detenuto si mostri ancora concretamente pericoloso. Diversamente opinando si dovrebbe avere il coraggio di ammettere che per gli ergastolani soggetti al regime ostativo ancora risuona, dai tempi medievali, il monito del Poeta: “Lasciate ogni speranza, o voi che entrate”. *Avvocato del Foro di Vicenza Morra: “No ai capimafia in libera uscita, serve una nuova legge sull’ergastolo” di Clemente Pistilli La Notizia, 5 novembre 2019 Parla Nicola Morra, presidente della Commissione Antimafia: “La sentenza della Consulta non può favorire i clan”. Per il senatore 5S il rispetto dei diritti dei detenuti deve essere coniugato con la tutela dei cittadini. Alla luce dell’arresto di Antonello Nicosia, esponente dei Radicali e collaboratore della deputata Pina Occhionero di Italia Viva, torna a farsi ancor più assillante il sospetto che lo stop all’ergastolo ostativo dato dalla Consulta possa spuntare pericolosamente le armi nella lotta alle mafie. Difficile infatti non pensare che se già oggi i boss in carcere riescono addirittura a sfruttare il braccio destro di una parlamentare per mandare messaggi all’esterno e proseguire nei loro affari criminali, sia per loro ancor più semplice gestire il potere una volta che avranno la possibilità di godere di permessi premio e altri benefici anche se decidono di non collaborare con la giustizia. Presidente Nicola Morra, visto anche quanto accaduto in Sicilia, e considerando che ha assicurato come antimafia di essere alla ricerca di una soluzione, cosa intende fare esattamente? Le anticipo che in queste ore, al massimo domani (oggi per chi legge ndr), contatterò i capigruppo della maggioranza e poi, se ci sarà accordo come mi auguro, coinvolgerò anche gli altri in antimafia e non solo, per ragionare della possibilità di avanzare come Parlamento, in maniera compatta e unanime, la proposta di un articolato di legge che dia risposta al problema sollevato dalla Consulta, tenendo conto che noi abbiamo il dovere-diritto di impedire che i sodalizi mafiosi possano usare la teoria dei diritti umani, ineccepibile, a loro esclusivo vantaggio. Dobbiamo avere la capacità di coniugare il rispetto dei diritti della persona, anche se detenuta, con quello dei diritti della comunità e dei cittadini tutti, che debbono avere dallo Stato tutela e non semplicemente promesse. Giacché il mafioso, come ricordava Tommaso Buscetta, è tale fino alla morte, a meno che non decida di collaborare, lo Stato ha la necessità di ricordarci queste parole per tornare sulle premiale, i benefici che la legge Gozzini riconosce dal 1986 a tutti i detenuti purché rispettino il codice di buona condotta. La collaborazione viene intesa come il passaggio dal fronte mafioso a quello dello Stato democratico e di diritto e occorre tenere conto di tutti questi aspetti per elaborare un articolato di legge rispettoso della carta costituzionale ma anche dei diritti della comunità. Mi lasci anche aggiungere che proprio per quanto appreso questa mattina è auspicabile che tutti i parlamentari che effettuano visite negli istituti di pena controllino con molta attenzione chi gli sta intorno, perché voglio sperare e augurarmi che vi sia stata solo inconsapevolezza da parte della deputata in questione. Sull’accaduto farete degli approfondimenti? Se ne ragionerà nel prossimo ufficio di presidenza. Non è certa l’audizione dei soggetti coinvolti, ma di certo rifletteremo e se necessario procederemo a esaminare il materiale della Dda di Palermo e audiremo quantomeno la deputata. Ritiene dunque possibile una soluzione al problema dell’ergastolo ostativo? La dobbiamo trovare. Stiamo già lavorando con esperti di diritto penale e consulenti della commissione antimafia al fine di evitare uno scenario che sarebbe solo e soltanto devastante, perché delle premiali potranno avvalersi tanti soggetti e soggetti con un passato mafioso assai importante. Non si poteva intervenire prima della sentenza della Consulta? Certo che si sarebbe potuto intervenire. Le forze di governo hanno deciso di non farlo, volendo rispettare la Consulta, che al suo interno è risultata divisa. Forse c’era anche la speranza di una determinazione di altro tipo. Ora però occorre pensare al presente e al futuro, non al passato. Pressing dei 5 Stelle per evitare regali alle cosche di Giorgio Iusti La Notizia, 5 novembre 2019 Il capo politico Di Maio e il capogruppo Perilli: subito una soluzione. Per il ministro degli Esteri la lotta è contro “degli animali” che hanno ucciso e sciolto bambini nell’acido. Sulla stessa lunghezza d’onda di Morra, per quanto riguarda una soluzione utile a evitare che i boss mafiosi finiscano per avere un’arma in più nella sentenza contro l’ergastolo ostativo, ci sono da giorni anche il ministro e capo politico pentastellato Luigi Di Maio e il capogruppo al Senato del Movimento 5 Stelle, Gianluca Perilli. “I boss mafiosi che non collaborano con la giustizia non possono avere permessi premio e benefici - ha specificato Perilli - il M5s su questo è categorico. Stiamo già lavorando per arrivare in tempi rapidi a un nuovo testo di legge. Lo strumento fortemente voluto da Giovanni Falcone va rimodulato, ma è impossibile a nostro giudizio farne a meno perché rappresenta un o dei pilastri della legislazione antimafia”. Duro dopo la sentenza della Corte Costituzionale lo stesso Di Maio: “Rispetto la sentenza, ma il Movimento 5 stelle non è d’accordo e faremo il possibile affinché quelli che erano in carcere con regime di ergastolo ostativo ci rimangano finché non si prendono altri mafiosi”. Ancora: “Si dice che quel regime violi alcuni diritti fondamentali della persona, ma quelle non sono persone, sono animali che hanno ucciso e sciolto nell’acido bambini”. Ora, dopo le rassicurazioni, come evidenziato dal presidente della commissione parlamentare antimafia, servono però i fatti. E se il Movimento 5 Stelle vuole realmente evitare che i boss irriducibili tornino facilmente in libertà e portino avanti le loro trame criminali dovranno fare in fretta a varare una nuova norma. È il mafioso che nega i “diritti dell’uomo” di Luca Tescaroli Il Fatto Quotidiano, 5 novembre 2019 La vicenda giudiziaria che ha portato alla dichiarazione di incostituzionalità dell’articolo 4bis comma 1 dell’Ordinamento penitenziario (con conseguente possibilità anche per i mafiosi ergastolani di fruire di permessi premio), a seguito della sentenza Cedu che ha ritenuto detta disposizione incompatibile con l’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti umani, pur nell’imprescindibile rispetto delle decisioni assunte, impone alcune riflessioni sulle ricadute al contrasto alla criminalità organizzata in modo da poterla colpire nei suoi aspetti vitali. Il mafioso ha avuto una certezza antica, sino alla sentenza della corte di Cassazione de130 gennaio 1992, che ha reso definitive le condanne inflitte in esito al primo maxi-processo palermitano, e all’inizio della stagione repressiva caratterizzata da numerose collaborazioni con la giustizia, iniziata dopo le stragi di Capaci e di via Mariano d’Amelio. Il carcere bisogna farlo, senza lamentarsene e con dignità. Il carcere è provvisorio. Il mafioso non era abituato e non subiva condanne all’ergastolo. E, dunque, un dato obiettivo che la possibilità di uscire dal carcere per il mafioso rappresenta una flessione dell’azione di contrasto. La condanna all’ergastolo rappresenta un mezzo per tentare di recidere i legami criminali tra il detenuto e il territorio di riferimento e, al contempo, un incentivo alle collaborazioni con la giustizia, che rappresentano la sola prova di un autentico percorso rieducativo del sodale. Il mafioso può recidere i propri legami con l’organizzazione solo in un altro modo, con la morte. Rammento che, intorno al 2000, quando ancora lavoravo alla Procura della Repubblica di Caltanissetta, esponenti della commissione provinciale di Palermo, come Pietro Aglieri, Carlo Greco e altri tentarono di avviare un dialogo con le istituzioni, manifestando la disponibilità a dissociarsi, a fronte della concessione di benefici penitenziari, fra i quali i permessi premio. Fu una contromisura per arginare il profluvio di collaborazioni che stava scompaginando Cosa Nostra. Quell’operazione fu giustamente respinta. Occorre chiedersi quale significato assume per un cittadino vedere il mafioso condannato all’ergastolo che ritorna nel suo paese o nella sua abitazione, dopo essere stato condannato all’ergastolo e aver espiato 7,5 anni di detenzione (si può essere ammessi dopo dieci anni decurtabili di un quarto con l’applicazione della liberazione anticipata), per fruire di un permesso premio, ove ha sempre esercitato l’attività di organizzazione e direzione del sodalizio a lui facente capo e il proprio potere criminale, attraverso periodiche intimidazioni ai danni di imprenditori, commercianti, onesti lavoratori, e assassini di rivali o di uomini, donne e bambini inermi? La fruizione del permesso premio consente ai consociati e, soprattutto, alle vittime di percepire un messaggio rafforzativo del potere di quel mafioso che lo vedono e un senso di smarrimento per chi è stato vittima di sopruso. Il mafioso viene lasciato libero di dialogare senza che venga disposto alcun controllo o presenza di appartenenti delle forze dell’ordine per evitare contatti con sodali o terze persone, il detenuto potrebbe impartire ordini o far giungere messaggi ad altri sodali o soggetti collegati, anche per il tramite di familiari conviventi. Se poi il permesso fosse accordato con la fruizione del servizio di scorta per essere trasportato ove ha esercitato il suo incontrastato potere mafioso, il cittadino è indotto a ritenere che il mafioso agisca con la palese patente da parte dello Stato, che gli mette a disposizione i propri mezzi. Credo che sia giunto il momento di avviare una riflessione culturale sul significato della giurisdizione e degli strumenti repressivi, che abbandoni l’angusto limite del solo principio di rieducazione della pena, senza mai considerare la valenza retributiva-punitiva che la stessa deve avere, nella prospettiva di valutare globalmente tutti i valori di rango costituzionali che ruotano attorno alla specificità del contrasto al crimine mafioso con la possibilità di usufruire di benefici, bilanciando le garanzie del reo, con le contrapposte preminenti esigenze di tutela, riconducibili alla salvaguardia delle garanzie collettive e individuali delle vittime e della collettività che dia centralità al problema della criminalità mafiosa, che compromette i diritti inviolabili dell’uomo come singolo e come collettività, nei diritti alla vita, di iniziativa economica, di proprietà e di libertà personale. E in questa prospettiva perché accordare al mafioso la liberazione anticipata, che offre la possibilità di detrarre 45 giorni per ogni singolo semestre di pena espiata, sulla mera base della partecipazione all’opera di rieducazione, quando lo stesso mantiene sempre una condotta carceraria ineccepibile? Il garantismo tradito e la giusta attenzione ai diritti dei detenuti di Claudio Cerasa Il Foglio, 5 novembre 2019 Cosa indica l’arresto di Nicosia, mafioso e finto attivista pro detenuti. L’arresto di Antonello Nicosia, sedicente alfiere dei diritti dei detenuti ora accusato di associazione mafiosa, oltre che l’esito di un’eccellente operazione investigativa segnala un problema proprio nelle fila del movimento garantista. Naturalmente non si può chiedere a chi si batte per un principio di selezionare aderenti e collaboratori con gli strumenti di un’indagine giudiziaria. Tuttavia proprio chi condivide l’appello garantista deve rendersi conto che è possibile che si verifichino episodi di infiltrazione di soggetti animati, invece, dalla volontà di favorire delinquenti con i quali intrattengono rapporti occulti. Anche nelle esternazioni pubbliche di Nicosia si potevano notare eccessi inaccettabili, come la demonizzazione del maxi processo, che non è emersa dalle intercettazioni, ma era apertamente rivendicata nel corso di una trasmissione televisiva. La parlamentare di cui Nicosia era portavoce, Giuseppina Occhionero, è stata ingannata dal suo curriculum, la radicale Rita Bernardini lo considerava un fanatico. È naturale che non abbiano sospettato il suo doppio gioco, ma la vicenda deve indurre chi ha rapporti con le carceri per nobili ragioni a vigilare. Naturalmente le battaglie garantiste non sono offuscate da una vicenda torbida come quella di Nicosia, ma sicuramente ora c’è un nuovo argomento propagandistico per i manettari. Sul piano politico questo è l’esito immediato di una vicenda che, naturalmente, sarà chiarita solo nel dibattimento in tribunale. Distinguere sempre e con la massima nettezza tra la difesa dei diritti dei detenuti e il diritto dello stato a condannare i colpevoli, che poi deve trattare con umanità secondo il dettato costituzionale, ma senza dimenticare che sono stati giudicati e debbono scontare la pena inflitta: questa è la condizione elementare per rendere credibile la battaglia garantista, già tanto difficile. Le infiltrazioni mafiose sono sempre possibili, se ne sono riscontrate anche tra magistrati, poliziotti e esponenti politici, proprio per questo chi conduce battaglie difficili sul delicato problema carcerario, deve esercitare il massimo della vigilanza. Per non averne un danno politico. L’arresto di Nicosia sarà la scusa per una ulteriore “stretta” sul regime carcerario? di Valentina Ascione Il Riformista, 5 novembre 2019 Associazione mafiosa: è la pesante accusa con cui ieri la procura di Palermo ha disposto il fermo di Antonello Nicosia, assistente parlamentare di 48 anni originario di Sciacca. Secondo i pm, Nicosia avrebbe approfittato della collaborazione con la deputata Giuseppina Occhionero (estranea alle indagini) per entrare nelle carceri e incontrare i capimafia anche in regime di 41bis per poi veicolare i loro messaggi all’esterno. Passepartout è infatti il nome del blitz, eseguito dai militari della Guardia di Finanza e dai carabinieri del Ros, che ha portato all’arresto di altre quattro persone. Tra queste il 61 enne Accursio Dimino, boss di Sciacca ritenuto legato alla famiglia di Matteo Messina Denaro. Ed è proprio al superlatitante di Castelvetrano che Nicosia, intercettato, si riferisce chiamandolo “fi primo ministro”. E poi. sempre senza sapere di essere ascoltato, definisce i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino “vittime di un incidente sul lavoro”. Parole che hanno suscitato l’indignazione trasversale del mondo politico. L’indagine, coordinata dal procuratore di Palermo Francesco Lo Voi, descrive Antonello Nicosia come un uomo dalla “doppia vita”. Pubblicamente è impegnato a favore della legalità e dei diritti dei detenuti. Dopo essersi lasciato alle spalle una condanna a 10 anni per traffico di droga, si dedica molto al tema delle carceri, è direttore dell’Osservatorio Internazionale dei diritti umani. Nel 2017 viene eletto nel comitato nazionale di Radicali Italiani. poi la collaborazione con la parlamentare Occhionero, ex LeU oggi in Italia Viva, per entrare più agevolmente negli istituti di pena: “Se ci vado come Radicale devo chiedere l’autorizzazione al Dap, con un deputato invece ci vado all’improvviso”, spiega Nicosia in una intercettazione, “ho trovato questo escamotage”. Nel provvedimento di fermo, infatti, i pm della Dda di Palermo scrivono che “Sia gli incarichi assunti a diverso titolo in più associazioni volontaristiche, sia l’elezione nel movimento dei Radicali Italiani, sia ancora i rapporti stretti con Giuseppina Occhionero sono stati tutti da lui strumentalizzati per accreditarsi presso diverse strutture penitenziarie e per fare visita a mafiosi detenuti, a scopi estranei a quelli. proclamati, della tutela dei loro diritti”. Antonello Nicosia “non ricopre attualmente alcuna carica in Radicali Italiani”, precisano i dirigenti, ribadendo però che “la presunzione di innocenza vale per tutti e i processi si celebrano nei tribunali. non sui media. Se i contorni della vicenda fossero confermati ci troveremmo di fronte non soltanto alla strumentalizzazione di un istituto preziosissimo come le visite ispettive nelle carceri, ma anche a un danno enorme nei confronti di noi radicali. che lottiamo da decenni per garantire lo stato di diritto e la giustizia”. C’è intanto chi coglie l’occasione dell’inchiesta di Palermo per riaprire la discussione sul “carcere duro” e sull’ergastolo ostativo: secondo il presidente della Commissione parlamentare Antimafia Nicola Morra del M5S il 41bis, “non è assolutamente un regime carcerario duro inteso come disumano. Il regime prevede isolamento nel senso di impossibilità di comunicazione all’interno e all’esterno dell’istituto di pena. Se a infrangere questa regola interviene un assistente parlamentare che accompagna il parlamentare in una visita ispettiva la situazione è molto, molto grave ed impone un ripensamento complessivo non solo sulle proposte avanzate da più e tempo e da più parti di modificare il regime 41bis ma anche di intervenire sul 4bis (ergastolo ostativo ndr)”. Insomma, il caso Nicosia potrebbe diventare una scusa per una ulteriore stretta? Carcere, brava Gabanelli peccato la scivolata sulla Corte europea di Iuri Maria Prado Il Riformista, 5 novembre 2019 Come rovinare un bel lavoro. L’altro giorno, sul Corriere della Sera. la rubrica “Data-room” di Milena Gabanelli si occupava di detenzione carceraria, spiegando con una ottima teoria di documentazione statistica che l’Italia è tra i Paesi peggio messi nell’assicurare un lavoro ai prigionieri. E che per effetto di questa arretratezza si registrano qui da noi alti livelli di recidiva mentre altrove, nei sistemi in cui si ha cura di indurre i detenuti al lavoro, quelli che tornano a delinquere sono pochi. Si tratta di una verità spesso trascurata. La dedizione a un mestiere, la possibilità di impararlo per metterlo a frutto durante e dopo la detenzione costituiscono un bene non solo per i condannati, che in tal modo possono affrontare con minor pena la desolazione quotidiana e sperare concretamente in un futuro fattivo e non abbandonato: ma rappresentano un’acquisizione certa anche per la società, ripagata così dalla garanzia che i pericoli di recidiva, grazie a quella diversa politica carceraria, diminuirebbero assai. E ancora puntualmente il Corriere spiegava come tanti propositi di riforma rivolti ad attuare quella diversa politica non abbiano potuto prendere corso a causa delle resistenze di politici e amministratori timorosi di perdere consenso. Verissimo anche questo, e giustissimo denunciarlo. Ma allora perché rovinare questo bel servizio concludendolo con la considerazione aberrante che “in tutto questo, per Strasburgo il nostro problema più urgente è cancellare la legge che vieta i permessi premio agli ergastolani mafiosi”? E infatti: che c’entra una cosa con l’altra? Ma poi: rimproveriamo alla Corte di aver denunciato una sola e non altre tra le tante ingiustizie che ci caratterizzano? E il rimedio migliore quale sarebbe: tenercele tutte? Non si limita l’ingiustizia lasciando che persista quella che non fa comodo eliminare (i giornali non meno dei politici sono cauti quando si tratta di consenso?. Peccato, dunque, per il Corriere. Speriamo di poter dire che sarà per un’altra volta. Anastasìa: “Riordino carriere delle forze di Polizia può creare squilibri nel sistema” agensir.it, 5 novembre 2019 Dichiarazione del Portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, Stefano Anastasìa: “La Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà condivide le preoccupazioni espresse da più parti, nei giorni scorsi, per gli effetti che il progetto di riordino delle carriere delle forze di polizia potrà avere sui delicati equilibri del sistema penitenziario e dei singoli istituti di pena. Nessuna preclusione al riconoscimento della legittima progressione di carriera dei dirigenti di polizia penitenziaria, ma lo schema di decreto legislativo all’attenzione delle Camere prefigura una separazione sempre più netta tra il personale di polizia e il restante personale dell’Amministrazione penitenziaria. In particolare, ne sarebbero svilite le funzioni dei direttori di garanzia dei limiti e dei fini costituzionali della privazione della libertà in carcere e di coordinamento delle diverse aree operative interne agli istituti. Ai direttori sarebbe preclusa la valutazione professionale e disciplinare degli appartenenti al Corpo e sottratta la stessa valutazione di ultima istanza nell’uso delle armi prevista dall’articolo 41 dell’ordinamento penitenziario. Facciamo appello a Parlamento e Governo perché lo schema di decreto legislativo sia modificato in questi punti essenziali prima della sua definitiva adozione”. Un ulteriore giro di vite nelle carceri. Nuova catena di comando di Michele Franco contropiano.org, 5 novembre 2019 La gestione del sistema carcerario italiano è sempre più imperniata da una governance che espunge, continuamente, ciò che residua di quelle norme e principi costituzionali che, almeno sulla carta, garantivano la prevalenza degli “elementi umanitari” e di “reinserimento nella società civile” a scapito delle concezioni penali e punitive tipiche dell’universo concentrazionario. Le cronache di questi ultimi anni, lungo tutto l’arco dei temi e questioni, che afferiscono al “pianeta giustizia” indicano una linea di condotta tutta esposta verso l’accentuazione dei caratteri della blindatura e della trasformazione autoritaria. I ripetuti scandali che, periodicamente, si consumano in questi ambienti e - soprattutto - la recrudescenza di episodi di accertate violenze psichiche e fisiche ai danni di detenuti sono lo specchio fedele di questa generalizzata condizione. È di questi giorni una Nota, trasmessa dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (numero 0318577 del 22.10.2019) al Ministero della Giustizia e alle sigle sindacali del corpo di Polizia Penitenziaria, denominata “Schemi di decreti legislativi correttivi del riordino dei ruoli e delle carriere del personale delle forze di polizia”, in cui viene ribadita la nuova collocazione della Polizia Penitenziaria all’interno della catena di comando e controllo degli istituti carcerari. Nella sostanza, in tale Nota, viene ribadita che la Polizia Penitenziaria non deve essere subordinata gerarchicamente al direttore del carcere. Inoltre, sempre a detta di questa Nota, il comandante d’istituto (ossia il capo delle guardie) non deve rispondere, automaticamente, alla direzione amministrativa del carcere ma può e deve avere una propria autonomia di decisione e di azione. Tale modalità - come evidente - toglie potere reale ai direttori per trasferirli ai comandanti della Polizia Penitenziaria con tutte le conseguenze che derivano da una scelta di questo tipo sia dal punto di vista della “filosofia di gestione” ma anche delle modalità attuative che scaturiscono da simili mutamenti di indirizzo e di pianificazione del lavoro di polizia. Tra le rarissime voci che si sono espresse contro questo ulteriore atto di “militarizzazione della giustizia” c’è quella del Garante Campano dei Detenuti, Samuele Ciambriello, il quale ha denunciato “il preoccupante ritorno ad una idea di carcere chiuso gestito solo dalla polizia”. Inoltre Ciambriello ha palesato: “Il ripresentarsi di un modello di pura custodia, vigilare per redimere, altro che incentivare la speranza, promuovere la risocializzazione e il reinserimento dei detenuti”. Una denuncia, questa del Garante dei Detenuti della Campania, che non ha trovato eco adeguato nel panorama dell’informazione vigente il quale assorbe - sempre più - gli istinti all’odio, alla diffusione della paura e del linciaggio verso quelle variegate figure sociali, particolarmente nelle grandi aree metropolitane, vittime della marginalità e dell’esclusione sociale. Ben venga - dunque - la Manifestazione Nazionale del prossimo 9 novembre, a Roma, dove la sacrosanta richiesta di Abolire la vergogna dei Decreti Sicurezza deve essere accompagnata da una campagna culturale, politica e sociale contro la crescente militarizzazione della società ed il complesso delle misure che limitano le libertà ed il loro esercizio. Figli di detenuti, le visite in carcere non contano come assenze a scuola Vita, 5 novembre 2019 Fino ad oggi un ragazzo con un genitore in carcere era messo dinanzi a una scelta obbligata: far visita al genitore significava essere segnato assente a scuola. Ora una circolare del MIUR riconosce la possibilità alle scuole di considerare quelle assenze come deroghe giustificate rispetto alla frequenza obbligata per non perdere l’anno Assente da scuola per poter far visita a un genitore o a un parente in carcere. La nuova circolare emanata dal Miur sulle assenze scolastiche dei figli delle persone detenute introduce questo motivo fra quelli per cui i Collegi docenti posso disporre motivate deroghe alla frequenza di almeno tre quarti dell’orario annuale necessaria per l’ammissione alla classe successiva. Tra i motivi precedentemente previsti c’erano ad esempio i gravi motivi di salute adeguatamente documentati, donazioni di sangue, terapie e/o cure programmate, partecipazione ad attività sportive e agonistiche organizzate da federazioni riconosciute dal Coni, motivi religiosi. “Con la circolare appena emanata si guarda, finalmente - sottolinea la Sottosegretaria all’Istruzione, Università e Ricerca, Lucia Azzolina - anche alle esigenze degli alunni e degli studenti figli, o parenti entro il secondo grado, di persone detenute e alle assenze che sono costretti a fare per andare in visita dai loro cari. Normalmente queste assenze vengono comprese nel monte ore annuale complessivo e spesso concorrono al raggiungimento della soglia massima consentita, mettendo a rischio l’anno scolastico di questi ragazzi. Una beffa. Soprattutto se si considera il fatto che in molti istituti di pena il giorno del ricevimento è stabilito in modo rigido, non cade necessariamente nel fine settimana e si può determinare, di conseguenza, una reiterazione delle assenze”. La circolare invita le scuole a porre particolare attenzione alla condizione di questi alunni e a inserire fra le possibili deroghe relative alle assenze anche queste visite, qualificandole come “ricongiungimento temporaneo e documentato al genitore sottoposto a misure di privazione della libertà personale”. La circolare è stata sollecitata dalla sottosegretaria, anche su segnalazione del collega parlamentare Raffaele Bruno (entrambi M5S), impegnato in un tour nelle carceri alla scoperta delle buone pratiche e dei laboratori teatrali che - ha annunciato Azzolina - “saranno oggetto di una specifica mozione di cui sarà primo firmatario”. Mauro Palma insignito della laura honoris causa in Giurisprudenza garantenazionaleprivatiliberta.it, 5 novembre 2019 Oggi, martedì 5 novembre, l’Università degli Studi Roma Tre nel corso di una cerimonia pubblica conferirà la laurea honoris causa in Giurisprudenza a Mauro Palma, attuale Presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, la più giovane Autorità indipendente del Paese, operativa dal 2016, e l’unica alla quale sia stata affidata una competenza in materia di tutela dei diritti umani. Palma è uno dei maggiori esperti a livello internazionale in tema di lotta alla tortura e delle diverse forme di privazione della libertà, in ambito non solo penale. Fondatore dell’Associazione Antigone; componente, e poi Presidente, del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti o pene inumani o degradanti (Cpt), organo del Consiglio d’Europa, è di formazione matematico, un campo nel quale ha prodotto numerose pubblicazioni, fra le quali nel 2013, con Valter Maraschini, la Garzantina della Matematica. Le altre componenti del Collegio del Garante, Daniela de Robert ed Emilia Rossi, unitamente a tutto l’Ufficio del Garante, esprimono le proprie sincere felicitazioni al Presidente Palma per il prestigioso e meritato riconoscimento. Il carisma di Pignatone e Di Matteo che si abbatte sulla giustizia già indebolita di Errico Novi Il Dubbio, 5 novembre 2019 L’ex procuratore di Roma torna a far valere la sua visione su Mafia Capitale, il togato Csm chiede limiti alla sentenza della Consulta sul 4bis: valutazioni che incidono sulla già scarsa fiducia nel sistema. Non è un bel momento per la giurisdizione. In particolare non lo è per la magistratura, scossa con violenza dal caso Palamara, ma ancor più dall’effetto boomerang del processo mediatico: è tale la supremazia della giustizia virtuale rispetto a quella reale che quando le sentenze (o le mere ordinanze cautelari) non corrispondono alle aspettative del “pubblico”, i giudici rischiano il linciaggio. È avvenuto per esempio in processi per reati di violenza sessuale (a Roma) come per controverse vicende qual è stata la strage del Bus sul viadotto della Napoli-Bari. Adesso, se in un momento del genere magistrati della straordinaria levatura di Giuseppe Pignatone e Nino Di Matteo avanzano pur misuratissimi (almeno nel primo caso) distinguo su pronunce altrui, si rischia di veder ancor più compromessa la fiducia dell’opinione pubblica. L’ex procuratore di Roma è tornato ieri dalle colonne della Stampa a rivendicare la propria visione su Mafia Capitale, con un non del tutto diradato margine di pur legittima divergenza dialettica dalla sentenza della Cassazione e da quella del Tribunale. Il togato del Csm Di Matteo avanza forti riserve, neanche tanto implicite, sulla decisione della più alta delle Corti che il nostro sistema giuridico conosca, ossia la Consulta: nel suo intervento di domenica a “Mezz’ora in più”, intervistato da Lucia Annunziata, ha espresso il suo favore per una legge che limiti la decisione sull’ergastolo ostativo, quanto meno per i capimafia. Non solo, perché il pm che ha sostenuto in primo grado l’accusa al processo sulla “trattativa” è arrivato a esprimersi su una vicenda tutt’altro che ininfluente rispetto al giudizio d’appello, ossia la condanna inflitta a Marcello Dell’Utri per aver mediato fra i boss e Berlusconi. Farlo proprio mentre il giudice di secondo grado deve valutare se Berlusconi sia stato vittima consapevole di un “ricatto mafioso” persino nella veste di Capo del governo non è il massimo del distacco, per un magistrato. Pignatone e Di Matteo sono due grandi inquirenti. Hanno tratti diversi, ma lo stesso enorme peso. Sanno che le loro parole hanno un rilievo non comune. Le loro valutazioni dubitative (dialettiche, è meglio dire per Pignatone, ma a volte addirittura assertive nel caso di Di Matteo) sono tutt’altro che irrilevanti rispetto alla fiducia nella giurisdizione. Il consigliere Di Matteo, in particolare, è davvero sicuro che, se un magistrato esprime “massimo rispetto” per una pronuncia della Consulta ma auspica comunque che il Parlamento la integri in modo da scongiurane effetti devastanti, non si accresca nell’opinione pubblica una pericolosa sfiducia nei confronti dell’intero sistema? Il punto è che è proprio lo squilibrio fra la giustizia mediatica e l’assai più indebolita giustizia dei Tribunali ad alimentare la diffidenza dei cittadini. Non si può ignorare il problema, anche perché la tenuta della giurisdizione quale sistema per definire, in diritto, ogni possibile contrasto è una delle architravi che reggono l’intera democrazia. Se s’incrina quel contrafforte, rischia di franare l’intera architettura civile che ci siamo dati. E a picconare provvedono populismi di ogni genere. Il cuore del pericolo è nella possibilità che tra i cittadini cresca l’idea di un allarme permanente. L’incubo per una giustizia - sociale, penale - troppo debole per fronteggiare il nemico. Sia quando quest’ultimo ha le fattezze della corruzione sia se si tratta di mafia. E invece lo scatto che può ravvivare la coscienza civile contro ogni deriva e ogni qualunquismo è la serena fiducia nella giustizia come baluardo che respinge ogni minaccia. E ancora, è essenziale che si diffonda un’altra consapevolezza: ossia che lo Stato, come dicono i radicali, non ha alcun bisogno di emulare la “terribilità” dei più feroci criminali. Ma che può garantire persino a loro una prospettiva di recupero, persino a chi è stato condannato all’ergastolo ostativo per mafia o terrorismo. Così come è giusto considerare prezioso un sistema composto da tre gradi di giudizio, a volte estenuante nel sottoporre la verità processuale a una verifica così lunga, eppure capace di distinguere l’Italia come cattedrale del diritto. Come il luogo in cui a costo anche di percorsi più faticosi l’accertamento giudiziario è accompagnato da ogni possibile garanzia, e lo Stato attende con tenacia di poter dare giustizia, senza mai ricorrere a binari alternativi neppure per il più tremendo dei nemici, perché se ne considera in ogni caso incomparabilmente più forte. La sentenza della Cassazione che riallontana i giudici dal contesto mafioso di Francesco La Licata La Stampa, 5 novembre 2019 Il dibattito innescato dalla sentenza della Cassazione sulla cosiddetta “mafia a Roma” - che nega al consorzio criminale di Buzzi e Carminati i requisiti di una vera e propria Cosa nostra - sembra aver riaperto una di quelle “annose questioni” che credevamo archiviate dopo il maxiprocesso di Palermo e dopo le numerose inchieste seguite alle stragi in Sicilia (1992) e nel Continente (1993). L’apporto tecnico-giudiziario fornito alla cultura dell’Antimafia da Falcone, da Borsellino e dal pool antimafia, infatti, sembrava aver colmato quel gap secolare della magistratura, che aveva contribuito a rendere la mafia una organizzazione potente e impunita. Sembrava tramontato il tempo in cui i magistrati, specialmente quelli della Corte Suprema, esercitavano il loro giudizio basandosi esclusivamente sulle carte asettiche, tenendosi a debita distanza dal “contesto” (soprattutto sociale e ambientale) che caratterizzava le vicende mafiose. Quasi scontato, dunque, che risultassero meno comprensibili a Roma, comportamenti e fatti che ai magistrati impegnati nel territorio dove avvenivano sembravano chiari e persino provati. Consequenziali, perciò, le numerose assoluzioni in Cassazione che stravolgevano i primi gradi di giudizio. Insomma, la mafia è un fenomeno difficile da capire per chi non l’ha affrontata e studiata, fino ad assimilarne le misure di contrasto più idonee quasi come un vaccino. E a Roma, prima del processo a Buzzi e Carminati, la mafia veniva vissuta come un fenomeno lontano e irripetibile fuori dal suo territorio. Ieri, sulla Stampa, il presidente del Tribunale della Città del Vaticano, Giuseppe Pignatone (fino a poco tempo fa capo della Procura di Roma e titolare del processo sul “mondo di mezzo”), ha provato a chiarire proprio questo semplice concetto: Roma non è mafiosa ma è un territorio dove agiscono più consorterie mafiose, ciascuna con le proprie attitudini e caratteristiche. Quella di Buzzi e Carminati è una mafia invasiva nei confronti della pubblica amministrazione e quindi tendente ad affermare una supremazia della corruzione. Certo, non è la Cosa nostra siciliana, col suo preponderante controllo capillare del territorio, ma è un sistema, come altri nella Capitale, che si afferma col metodo della violenza e della intimidazione. “Basta chiedere - ha scritto Pignatone - agli abitanti di Ostia o delle altre zone della Capitale o del Lazio che ne subiscono la forza intimidatrice”. Proprio la capacità di determinare assoggettamento e omertà con l’intimidazione e la violenza è una delle “qualità” proprie del sistema mafioso. E il non frequentissimo ricorso alla violenza (pochi omicidi, poco rumore di armi da fuoco) non sempre è sintomo di assenza mafiosa: una telefonata di Carminati che dice “ti conosco e so dove abiti” può aver l’effetto di una pistola puntata alla testa. Persino in Sicilia il ricorso alla violenza veniva accettato come “estrema ratio” e non come abitudine naturale. I siciliani sono stati spesso tacciati di omertà per aver taciuto perché intimiditi da minacce o solamente da uno sguardo eloquente. Ma questo è il potere del mafioso. C’è un aneddoto, raccontato da Andrea Camilleri, che spiega bene cos’è un uomo d’onore. Lo scrittore incontra casualmente un boss italo-americano e gli chiede di spiegargli cosa fosse mai un mafioso. Il boss gli risponde con un esempio: “Se ora entra uno armato di pistola e ci impone di inginocchiarci, noi non abbiamo scelta e dobbiamo ubbidire. Ma quello non è un mafioso è solo un delinquente. Se, invece, entra un tranquillo signore disarmato e noi due ci inginocchiamo e gli baciamo la mano, abbiamo incontrato un vero mafioso”. Esattamente come spiegava Michele Greco al maxiprocesso: “Signor presidente, la violenza non fa parte della mia tradizione”. Essere protetti dalla criminalità è un diritto reale di Pietro Dubolino* La Verità, 5 novembre 2019 Un’insistente propaganda riconduce la richiesta di essere tutelati dalla criminalità a un timore irrazionale. Ma per lo Stato garantire l’incolumità dei cittadini è un dovere. Ogni qual volta si levi, dall’area di centrodestra, qualche voce che, a torto o a ragione, faccia carico al governo o ad altre pubbliche autorità di non tutelare abbastanza la sicurezza dei cittadini, specie quando questa appaia minacciata dall’afflusso, in qualche luogo, di immigrati irregolari odi nomadi, scatta immancabilmente, oltre alla solita accusa di “razzismo”, anche quella di bieca speculazione politica sulla diffusa paura della gente nei confronti dell’“altro” o del “diverso”. Della prima di tali accuse non vale più nemmeno la pena di parlare, tanto essa è ormai logora e spuntata. Mette conto parlare invece della seconda, dietro la quale si cela una subdola astuzia che la rende assai pericolosa. La paura, infatti, è un sentimento del quale, in genere, non si va orgogliosi, per cui, pur di non ammetterlo, neppure di fronte a sé stessi, si può essere facilmente indotti a prestare e a mostrare adesione a quella che vien presentata come la condotta più coraggiosa, consistente nel negare o minimizzare l’esistenza del pericolo; esattamente quello che si vuole da parte di chi, pur disponendo del potere, quel pericolo, in omaggio alle proprie visioni ideologiche, non vuole né riconoscerlo né, tanto meno, fronteggiarlo, evitando però, nel contempo, il rischio di una perdita di consenso politico o di prestigio sociale. Ciò detto, sarebbe illusorio pensare che la posizione di vantaggio che tale meccanismo consente di ottenere possa essere significativamente scalfita, nel confronto dialettico, cercando di dimostrare, come pure avviene di frequente, che la paura, di fatto, esiste ed è giustificata. In tal modo, infatti, non solo si lascia all’avversario la scelta del campo, ma, soprattutto, si finisce per avallare implicitamente il presupposto sul quale la sua tesi si fonda: quello, cioè, secondo il quale soltanto la paura costituisce il criterio per la misurazione del livello di sicurezza che lo Stato è tenuto a fornire ai propri cittadini. È proprio questo falso presupposto, invece, quello che va scovato e radicalmente contestato. Lo Stato, infatti, trova il suo originario fondamento e la sua essenziale ragion d’essere nell’esigenza di garantire ai propri cittadini il maggior grado di sicurezza dalle offese interne ed esterne che sia oggettivamente possibile, indipendentemente dalle paure che essi, individualmente o collettivamente, possano nutrire per la loro vita, la loro incolumità ed i propri beni. Questa garanzia forma quindi oggetto di un vero e proprio obbligo, da parte dello Stato, sia nei confronti della collettività dei cittadini che nei confronti di ciascuno di essi; obbligo a fronte del quale, secondo la più elementare logica giuridica, si configura poi, necessariamente, il corrispondente diritto di ciascun cittadino di pretenderne, in linea di principio, l’adempimento; e ciò pur mancando, nell’ordinamento, uno specifico strumento giuridico posto a tutela di tale diritto, salvo, naturalmente, lo strumento indiretto costituito, nei regimi democratici, dal voto mediante il quale il cittadino può “punire” la forza politica da lui ritenuta responsabile dell’eventuale, mancato adempimento di cui si senta vittima. Il livello di sicurezza, poi, che lo Stato è tenuto ad assicurare può variare soltanto in funzione delle limitazioni alle libertà individuali e collettive che la società civile, di volta in volta, è disposta a tollerare. Non c’è dubbio, infatti, che la sicurezza è un bene che, realizzandosi necessariamente mediante l’imposizione di controlli, prescrizioni e divieti, si paga con la rinuncia ad una parte, più o meno consistente, di libertà; così come, alla reciproca, la libertà è un bene per mantenere o estendere il quale è necessario ridurre l’incidenza di controlli, prescrizioni e divieti e quindi rinunciare, in misura più o meno rilevante, alla sicurezza di cui essi sono strumento. Il punto di equilibrio fra le due contrapposte esigenze è, per forza di cosa, perennemente instabile e dev’essere quindi individuato di volta in volta dal legislatore, sulla base di valutazioni essenzialmente politiche e, come tali, largamente opinabili. Non opinabile, però, è che entrambe le esigenze in questione hanno piena legittimità, per cui non può mai ritenersi giustificato che vengano demonizzati o ridicolizzati quanti, nell’ambito di una normale dialettica democratica e nella infinita varietà delle situazioni storiche, ritengano che debba attribuirsi prevalenza all’una o all’altra di esse. D’altra parte, essendo tanto la sicurezza quanto la libertà due beni di pari valore, neppure può mai dirsi, in linea di principio, che uno di essi sia, in sé e per sé, eccessivo rispetto all’altro, potendo in realtà essere ritenuta eccessiva soltanto la misura nella quale, di volta in volta, viene richiesto il sacrificio di uno di essi in favore dell’altro. Libertà e sicurezza, poi, oltre a collocarsi su di un piano di reciproca parità, occupano anche, esse sole, il più alto grado nella gerarchia dei beni che l’autorità pubblica è tenuta a salvaguardare e promuovere; ragion per cui ciascuna delle due può essere compressa e limitata solo in funzione dell’ampliamento dell’altra e non per finalità di altra natura, quali che esse siano. E ciò tanto più in quanto tali diverse finalità non rientrino neppure tra quelle che lo Stato possa legittimamente perseguire, non rispondendo esse, neppure nelle intenzioni, ad un riconoscibile interesse dell’intera collettività nazionale. Il che (venendo all’attualità) è quanto si verifica, ad esempio, proprio con riguardo alla politica dell’accoglienza pressoché indiscriminata dei “migranti”, proposta ed imposta alla collettività dei cittadini, i quali sono in tal modo costretti a subire una innegabile riduzione del livello di sicurezza al quale essi avrebbero diritto, senza che da tale riduzione possa loro derivare alcun corrispondente vantaggio in termini di maggiore libertà e senza che nessuno si dia neppure la briga di spiegare (per quanto poco possa valere) quale altro ipotetico vantaggio di altra natura detta politica possa produrre. *Già Presidente di Sezione della Corte di cassazione Il portaborse al servizio dei boss. “Falcone e Borsellino? Morti sul lavoro” di Salvo Palazzolo La Repubblica, 5 novembre 2019 “Con lei mi giro le carceri, vado pure al 41bis - si vantava -. Ho trovato questo escamotage. Le ho detto: “Mi fai un contratto da assistente parlamentare”. Antonello Nicosia, alle spalle una condanna a 10 anni per traffico di droga e oggi tante frequentazioni tra i fedelissimi del superlatitante Messina Denaro, era diventato uno dei principali collaboratori della deputata Pina Occhionero, e pure componente del comitato nazionale dei Radicali Italiani: le intercettazioni che lo hanno portato in carcere per associazione mafiosa raccontano che orientava tante scelte della parlamentare di Liberi e Uguali, di recente passata a Italia Viva. Che oggi ringraziai magistrati per l’arresto: “La collaborazione è durata solo quattro mesi - dice - mi resi conto che mentiva sul suo curriculum di docente universitario”. In realtà, le parole di Nicosia, erano sempre molto chiare. Si atteggiava a paladino dei diritti dei detenuti, ma solo alcuni. Qualche mese fa, sollecitò l’onorevole Occhionero a spostare dal carcere di Nuoro a Roma uno dei fidati di Messina Denaro, Santo Sacco: “Sta cosa la devi sistemare”, insisteva. “Onorè non parlare a matula (a vanvera - ndr) - diceva in un messaggio vocale - Sacco è il braccio destro del primo ministro, non sbagliare a parlare”. Il primo ministro di Cosa nostra, Matteo Messina Denaro, imprendibile dal 1993. “San Matteo - diceva in un altro vocale alla deputata - mai si deve dire che siamo stati contro San Matteo, non si può sapere mai. Per ora c’è San Matteo che comanda... preghiamo San Matteo. Grazie San Matteo”. Non erano solo battute. Nel provvedimento di fermo disposto dal procuratore aggiunto di Palermo Paolo Guido e dai sostituti Geri Ferrara e Francesca Dessì si racconta di un messaggio riservato di Nicosia a Sacco: “Su carta intestata - spiegava alla deputata - mi sono fatto dare un blocchetto di carta intestata Camera dei deputati”. E la deputata non ebbe nulla da ridire. Anzi commentò: “Bravo”. Chissà cosa c’era scritto in quel “pizzino”. Gli investigatori del nucleo di polizia economico finanziaria di Palermo e i carabinieri del Ros hanno provato a trovare una traccia per rilanciare l’indagine sull’imprendibile Messina Denaro, che sembra diventato un fantasma. Gli insulti ai magistrati eroi Nicosia era personaggio davvero istrionico: al servizio del clan trapanese, ma intanto direttore dell’Osservatorio internazionale dei diritti umani, conduttore di un programma Tv sui problemi delle carceri (“Mezz’ora d’aria”), si vantava pure di insegnare storia della mafia all’Università della California, ma sul sito non c’è traccia delle sue lezioni. Piuttosto, frequentava Accursio Dimino, storico boss della sua città, Sciacca, anche lui arrestato insieme ad altre tre persone. Pianificavano l’omicidio di un imprenditore e tanti affari con i “cugini” di Cosa nostra americana nel settore delle slot machine. Istrionico Nicosia: in Tv pronto a parlare di legalità, in auto si sfogava con un collega dei Radicali Italiani, Alessio Di Carlo: “All’aeroporto Falcone Borsellino dobbiamo cambiare nome”. Di Carlo ascoltava sorpreso. “Perché dobbiamo sempre mescolare la stessa merda - insisteva Nicosia - non è detto che sono vittime. Fu incidente sul lavoro... Ma poi Falcone non era manco magistrato quando fu ammazzato, aveva un incarico politico”. Interrogazione pilotata Aveva anche convinto l’onorevole Occhionero a fare un’ispezione nel carcere di Tolmezzo (Udine) dove è detenuto il cognato di Messina Denaro, Filippo Guttadauro. Qualche giorno dopo, partì un’interrogazione della parlamentare sul penitenziario dove sono ospitati i boss in “casa di lavoro”, una misura di sicurezza dopo l’espiazione della condanna. Nicosia brigava per un’altra interrogazione, “per fare la mappatura del 41bis... e a Trapani, per la riapertura... Visto che non c’è la socialità nei reparti di alta sicurezza”. Parlava di un “progetto” che a suo dire stava a cuore a Messina Denaro: “Finanzia il progetto, manda un milione di euro... il contributo della famiglia”. I pm hanno convocato la deputata, vogliono capire come abbia fatto a non accorgersi di nulla. Cambio di casacca Ma lui puntava ormai su nuovi referenti politici. Troppo rischioso con Pina Occhionero, del partito guidato dall’ex procuratore Piero Grasso (“Quello rompe i coglioni”). “Io vorrei fare con questi di Forza Italia”. Il boss Dimino annuiva: “Sarebbe meglio, sono più garantisti”. Antonello Nicosia ebbe colloqui riservati al 41bis? La legge non lo permette di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 novembre 2019 Una vicenda tutta ancora da chiarire, ma che ha creato numerose indignazioni a partire dagli esponenti di governo e le vittime della mafia come la sorella di Giovanni Falcone. Ma nel contempo aumenta la preoccupazione degli attivisti per i diritti umani circa una ulteriore restrizione per chi visita il carcere per denunciare eventuali abusi o condizioni afflittive come il 41bis. Ieri mattina è stato tratto in arresto, insieme con altre 4 persone, con l’accusa di “associazione mafiosa”, Antonello Nicosia, membro del Comitato nazionale dei Radicali italiani ed è stato collaboratore per circa quattro mesi della deputata di Italia Viva Pina Occhionero. In virtù di tale rapporto, infatti, Nicosia ha partecipato ad alcune ispezioni carcerarie parlamentari, potendo accedere all’interno delle carceri di Sciacca (Ag), Agrigento, Trapani e Tolmezzo (Ud) senza la preventiva autorizzazione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e ciò sfruttando le prerogative riconosciute dalle norme sull’ordinamento carcerario ai membri del Parlamento e a coloro che li accompagnano. Una collaborazione volta alle visite in carcere. Tra le varie accuse mosse dalla procura di Palermo c’è quella di aver recapitato fuori dal carcere dei messaggi provenienti da alcuni boss mafiosi con cui aveva parlato durante le visite effettuate assieme a Occhionero. La deputata, ex esponente di Liberi e Uguali, non è indagata perché, secondo la procura, non sapeva niente delle presunte attività mafiose di Nicosia. Quest’ultimo ha 48 anni ed è originario di Sciacca, in provincia di Agrigento. Conduceva un programma intitolato Mezz’ora d’aria sulla tv locale AracneTV dove approfondiva temi inerenti soprattutto alle condizioni carcerarie. Ultimamente si era occupato della situazione degli internati al carcere di Tolmezzo, tema più volte approfondito da questo giornale, riportando le interrogazioni parlamentari effettuate proprio dalla deputata Occhionero e, ultimamente, la relazione del Garante nazionale delle persone private della libertà che ne evidenziava le numerose criticità. Non per ultimo, sempre su Il Dubbio è stata riportata la vicenda - denunciata dal suo avvocato Michele Capano - dell’internato Filippo Guttadauro, cognato del super latinante Mattea Messina Denaro, il quale ha denunciato alla magistratura di sorveglianza di aver ricevuto la proposta, da taluni soggetti istituzionali, dei soldi in cambio delle informazioni per la cattura del latitante. Ma ritorniamo ad Antonello Nicosia. Dall’ordinanza di custodia cautelare, emerge che Nicosia ha fatto battute infelici su Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. In una intercettazione si lamenta del nome dell’aeroporto di Palermo, intitolato ai magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e definisce le loro morti “incidenti sul lavoro”. Avrebbe fatto un riferimento al latitante Matteo Messina Denaro, definendolo “primo ministro”. La procura, in pratica, accusa Nicosia di essersi costruito un’immagine pubblica di attivista per i diritti dei detenuti con lo scopo di mascherare le sue attività che favorivano diversi boss mafiosi. Oltre alla trasmissione dei messaggi, Nicosia è accusato di aver “portato avanti l’ambizioso progetto di alleggerire il regime detentivo speciale di cui all’art. 41bis o di favorire la chiusura di determinati istituti penitenziari”. Secondo la procura, dalla realizzazione di questo progetto Nicosia si aspettava un compenso economico addirittura da Matteo Messina Denaro. Questa specifica accusa, però, appare fumosa. La battaglia contro il 41bis è legittima ed è portata avanti in maniera trasparente da alcuni movimenti politici e associazioni che si occupano dei diritti umani. Difficile credere che Nicosia, abbia così tanto potere, da dover condizionare le scelte governative sul 41bis. Le accuse comunque sono gravissime. Secondo la Procura, Nicosia apparterrebbe a pieno titolo al clan mafioso e si sarebbe impegnato per la realizzazione di un non meglio delineato progetto che interessava direttamente da Messina Denaro, dal quale, per l’opera svolta, si aspettava di ricevere un ingente finanziamento non ritenendo sufficienti i ringraziamenti che asseriva di avere ricevuto dallo stesso latitante. Oltre a lui è finito in cella anche il boss Accursio Dimino. Secondo i magistrati, Nicosia non si sarebbe limitato a fare da tramite tra i detenuti e le cosche, ma avrebbe gestito business in società proprio con il boss Dimino, con cui si incontrava abitualmente, il quale ha fatto affari coi clan americani, in particolare i Gambino, e riciclato denaro sporco. Da alcune intercettazioni emergerebbero anche progetti di omicidi e Nicosia stesso era in procinto di raggiungere gli Usa. Resta però l’interrogativo sulle visite e colloqui riservati con i boss. È possibile? Tecnicamente, il fatto che Nicosia potesse svolgere visite e colloqui riservati con i boss negli Istituti penitenziari, appare però di difficile comprensione poiché le visite e le interlocuzioni con i detenuti, a qualunque regime o circuito penitenziario essi appartengano, non sono riservate ma debbono essere effettuate alla costante presenza del personale di Polizia penitenziaria delegato dall’Autorità dirigente. Possibile che abbia avuto la possibilità di svolgere i colloqui riservati? E se sì, chi gliel’avrebbe permesso? Radicali Italiani: “Colpiti, ma più attivi nel lavoro sulla giustizia” di Eleonora Martini Il Manifesto, 5 novembre 2019 “Proseguiremo con maggiore convinzione nella lotta alla criminalità attraverso le nostre proposte, come ad esempio la legalizzazione delle sostanze stupefacenti”. “Quando entri con un deputato, non è come quando entri con i Radicali: chiudono la porta…”. In una delle intercettazioni, Antonello Nicosia, l’assistente parlamentare dell’onorevole Giuseppina Occhionero (Italia Viva) e membro del Comitato nazionale di Radicali italiani fino a domenica pomeriggio, arrestato ieri con l’accusa di avere fatto da messaggero di alcuni boss mafiosi, lo dice chiaramente: le visite ispettive in carcere che sono da anni una costante della militanza radicale - sia del Partito nonviolento transnazionale e transpartito che del suo parente “italiano” - sono assai poco adatte a scopi illegali. E altrettanto chiaramente scrivono i pm della Dda di Palermo nel decreto di fermo: il 48enne palermitano già condannato per traffico di stupefacenti avrebbe strumentalizzato “un impegno politico e sociale sicuramente ispirato a nobili e lodevoli principi”, adoperandosi parallelamente “al fine di favorire, a vario titolo, più associati mafiosi”. Eppure la notizia rischia di gettare un’ombra sul lavoro di chi si batte per i diritti dei detenuti ed è calata perciò come una doccia gelata sulla neo eletta dirigenza dei Radicali italiani votata a Torino nel Congresso che si è concluso domenica sera. Nicosia non vi ha partecipato e non è stato rieletto nel Comitato nazionale, organismo che conta una cinquantina di persone e del quale l’assistente parlamentare ha fatto parte per due anni (occorrono pochi voti per essere eletti). Ma lo sconcerto c’è. “Ribadiamo anzitutto che la presunzione di innocenza vale per tutti e che i processi si celebrano nei tribunali, non sui media attraverso le intercettazioni, anche quando hanno un contenuto gravissimo come quelle che sono state diffuse”, commentano in una nota il nuovo segretario, Massimiliano Iervolino, la tesoriera, Giulia Crivellini, e il presidente Igor Boni. È “un danno enorme nei confronti di noi radicali che lottiamo da decenni per garantire lo stato di diritto”, prosegue il direttivo di RI. Nessuna “battuta d’arresto”, però: “La tutela della Costituzione e dei diritti non solo non fa gioco a chi si è macchiato di crimini inenarrabili - aggiunge Giulia Crivellini - ma contribuisce a creare più sicurezza per tutti, all’interno e soprattutto all’esterno del carcere”. L’auspicio è che l’episodio diventi invece “uno stimolo a proseguire con convinzione ancora maggiore non soltanto il lavoro nelle carceri, ma anche a rilanciare la lotta alla criminalità attraverso le nostre proposte, ad esempio, di legalizzazione e di decriminalizzazione delle sostanze stupefacenti, così come abbiamo ribadito nella mozione del congresso”. Nicosia non era molto attivo nel partito, negli ultimi tempi, ma la notizia brucia perché, raccontano alcuni iscritti, sembrava “molto professionale, preparato”. Invece Rita Bernardini, dirigente del Prntt ed ex segretaria di RI, ricorda: “Mi sembrava più un esaltato, non mi piaceva, e avevamo avuto delle divergenza proprio su come devono essere effettuate le visite in carcere”. In quel periodo, quando i due partiti erano parte della stessa “galassia”, Nicosia era iscritto ad entrambi, come ricorda Marco Taradash, oggi nella segreteria di +Europa. Emma Bonino però non demorde e insiste sulla “presunzione di innocenza fino a sentenza definitiva”. E rilancia: “L’attività di Radicali a tutela delle guardie penitenziarie, dei detenuti e nelle carceri continuerà con rinnovato vigore”. Lei che domenica mattina, a Torino, aveva sferzato i militanti: “Diecimila iscritti o ci sciogliamo, questo deve essere il nostro obiettivo. Dobbiamo impegnarci tutti di più - aveva aggiunto - siamo in grado di coltivare in casa cinque piantine di marijuana ciascuno e poi autodenunciarci tutti?”. Come a voler dare un senso a quel titolo del Congresso: “Radicali, nel buio li riconosci”. “Legami tra alcuni quotidiani e camorra: Saviano non diffamò” di Conchita Sannino La Repubblica, 5 novembre 2019 I giornali casertani “contigui”: arriva l’archiviazione per lo scrittore. La “contiguità ad ambienti camorristici” di alcuni giornali, come l’ex Corriere di Caserta, non era un’invenzione diffamatoria di Roberto Saviano, ma un’osservazione connotata da “intrinseca obiettività e veridicità”. Così la giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma, Paola Di Nicola, accogliendo la richiesta del pubblico ministero Eugenio Albamonte, archivia l’ipotesi di diffamazione nei confronti dello scrittore di Gomorra e dell’allora direttore di Repubblica, Ezio Mauro. La partita si era chiusa ad aprile, ma l’ordinanza è stata acquisita nelle ultime ore. Saviano e Mauro erano finiti sotto accusa della società Libra Editrice che, ritenutasi al centro di “campagne diffamatorie a mezzo stampa”, aveva spinto l’amministratore unico Pellegrino Notte, nel novembre del 2015, a presentare querela. Il servizio di Repubblica incriminato (pubblicato sul giornale in edicola e sul web) era uscito il 25 settembre, due mesi prima: Saviano, affermava nell’articolo che quelle testate, allora edite da Libra, erano “contigue alle organizzazioni criminali, fungono da loro uffici stampa, sono organo di propaganda dei messaggi tra clan”. L’ordinanza del gip smonta l’accusa di diffamazione, fa sua questa ricostruzione, e quindi respinge l’opposizione degli avvocati di Notte alla richiesta del pm. Per la prima volta il giudice assume la fondatezza di tali dichiarazioni citando due fatti concreti. Da un lato la vicenda Palmesano, il cronista di fatto licenziato dal giornale perché i suoi servizi disturbavano il boss Lubrano; dall’altro, la relazione della commissione antimafia del 2015, in cui si dà conto del divieto di diffondere in carcere “alcuni quotidiani, tra cui il Corriere di Caserta”, per evitare che i detenuti per camorra “potessero ricevere messaggi dall’esterno”. In particolare, la gip Di Nicola cita la sentenza, già ricordata anche da Saviano nel suo servizio, “emessa dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere nei confronti di Francesco Cascella- è scritto nell’ordinanza - per il reato di violenza privata (aggravata dalla modalità mafiosa) per avere questi, in concorso con Vincenzo Lubrano, capo dell’omonimo clan, costretto Gianluigi Guarino, (all’epoca dei fatti direttore del Corriere di Caserta, oggi Cronache di Caserta) ad omettere di pubblicare gli articoli di Palmesano : in quanto sgraditi al clan”. Un risultato ottenuto - aggiunge ancora il Gip - “con la progressiva emarginazione e poi con il definitivo esautoramento del Palmesano, di fatto avvenuto per volontà del capo clan Lubrano”. La conseguenza, chiosa il Gip, è chiara: “aver fatto dipendere la linea editoriale del giornale dai desiderata di un clan camorristico”. Commenta l’avvocato Antonio Nobile, che ha assistito lo scrittore : “Difendo Saviano da molti anni, ma mai mi era capitato di leggere tanto espressamente in un provvedimento giudiziario di una contiguità dei sopracitati quotidiani ad ambienti camorristici. Mi pare un fatto davvero rilevante che interroga l’intera categoria dei giornalisti, non solo campani. Molti dei quali impegnati silenziosamente e quotidianamente in prima linea”. Per l’assistenza legale gratuita una rete di 500 avvocati ed enti di Valentina Maglione Il Sole 24 Ore, 5 novembre 2019 Cresce la rete degli avvocati che mettono il loro lavoro a disposizione della società. Si tratta delle attività “pro bono”, vale a dire prestazioni professionali volontarie rese gratuitamente a favore di soggetti svantaggiati o di associazioni senza scopo di lucro. Un ambito in cui gli studi legali da sempre si muovono: in modo strutturato nel mondo anglosassone e più occasionale da noi. Proprio con l’obiettivo di diffondere l’attenzione per le attività legali prestate gratuitamente gli avvocati si sono riuniti nell’associazione Pro Bono Italia: attiva dal 2014, è stata ufficialmente costituita nel maggio 2017. E adesso si prepara a celebrare la seconda edizione del Pro Bono Day, che si terrà a Milano dopodomani, mercoledì 6 novembre, presso lo studio Ashurst. L’attività - “In due anni e mezzo - afferma il presidente di Pro Bono Italia, Giovanni Carotenuto - siamo passati da 13 a 29 associati ma possiamo contare su una rete di oltre 500 partecipanti. Registriamo un’attenzione crescente da parte dei giovani professionisti, inclusi i millennials”. Nella rete di Pro Bono Italia ci sono 140 tra studi legali associati, associazioni forensi e singoli avvocati, 75 Ong, 13 grandi aziende, 9 cliniche legali (laboratori creati dalle università in cui gli studenti di diritto prestano assistenza e consulenza legale gratuite) e due clearing house. Le due clearing house svolgono una funzione chiave per attivare il meccanismo di aiuto messo in campo dall’associazione. Istituite presso gli enti Cild (Coalizione italiana libertà e diritti civili) e Csvnet (Coordinamento nazionale dei centri di servizio per il volontariato), le clearing house hanno il compito di ricevere le richieste di assistenza legale, rifinirle e poi inoltrarle alla rete degli avvocati pro bono, per individuare chi assumerà l’incarico. Dall’inizio dell’attività a oggi l’associazione ha preso in carico e soddisfatto 215 richieste di assistenza legale. “Per ora - spiega Carotenuto - gli avvocati della rete si occupano delle domande che arrivano da associazioni, Onlus e, in generale, enti del Terzo settore. Stiamo anche lavorando per mettere a punto le linee guida per occuparci delle richieste pro bono che arrivano da singoli individui. Si tratta infatti di una possibilità prevista nello statuto dell’associazione, ma non ancora attuata: le richieste delle persone in difficoltà vengono comunque già oggi inoltrate dalle clearing house agli enti del Terzo settore con cui sono in contatto che si occupano di quelle problematiche”. I settori di intervento - La stragrande maggioranza delle richieste di assistenza legale (più del 40%) ha riguardato l’assistenza agli enti e alle associazioni per redigere o aggiornare gli statuti oppure mettere a punto i contratti. Una quota più contenuta delle domande (l’8%) si è concentrata sul tema del trattamento dei dati e sulla revisione delle policy richiesta dal regolamento Ue Gdpr (2016/679) e un altro 4% ha interessato il diritto della proprietà intellettuale e il copyright. Il 15% circa delle domande ricevute dalle clearing house ha invece riguardato i diritti dei detenuti, il 5% l’applicazione della legge sulle unioni civili (76/2016) e il 3% quella della legislazione sulle droghe. Ancora: un 5% delle domande puntava a ottenere una consulenza che consentisse di evitare il contenzioso e l’1% ha riguardato i diritti religiosi. Gli incontri - Oltre agli interventi diretti a favore degli enti del Terzo settore, l’associazione lavora in modo attivo per diffondere la cultura del pro bono organizzando periodicamente Roundtable. Si tratta di incontri tra avvocati, rappresentanti di Ong ed enti del Terzo settore, clearing house, accademici e legali d’impresa. Ogni roundtable è l’occasione per la presentazione di nuovi enti, l’aggiornamento sui progetti in corso e l’organizzazione degli eventi in agenda. Il nucleo dell’associazione è nato proprio dall’Italian Pro Bono Roundtable, una rete informale di avvocati e associazioni lanciata nell’aprile del 2014 con l’obiettivo di incrementare la consapevolezza in materia di pro bono in Italia. Finora si sono tenute 31 roundtable e l’associazione continua a organizzarle ogni anno a Milano e a Roma. Lezioni legali e un tutor per rifugiati e profughi Un ciclo di lezioni che spaziano dalle norme che regolano l’immigrazione al diritto al lavoro e alla costruzione di un curriculum, da come muoversi per riprendere gli studi fino alla scrittura formale e alle tecniche di negoziazione. Sono i contenuti delle sessioni di formazione proposte ai rifugiati e ai richiedenti asilo che partecipano al progetto “Know your rights”. Ideato dallo studio legale Dla Piper e realizzato insieme con l’ente Cild e con l’associazione Pro bono Italia, il progetto è arrivato alla terza edizione, avviata mercoledì scorso a Milano e articolata in sette incontri. “Si tratta di un programma di empowerment legale totalmente gratuito che finora ha coinvolto 50 rifugiati o richiedenti asilo”, spiega Claudia Barbarano, Community partnerships manager di Dla Piper. “L’obiettivo è fornire agli stranieri che arrivano in Italia le conoscenze legali di base e così renderli più consapevoli dei loro diritti”. Oltre agli incontri in aula, “Know your rights” offre ai rifugiati che lo chiedono l’affiancamento di un mentore individuale (avvocato o praticante di Pro Bono Italia) che li aiuti a elaborare e a realizzare un progetto per il loro percorso di vita: “Alcuni rifugiati - spiega Barbarano - hanno sostenuto l’esame di terza media, che è il primo passo per proseguire gli studi in Italia, altri sono riusciti a convertire il loro titolo di studio”. “Know your rights” si è rivelato un’occasione non solo per i partecipanti ma anche per chi ci lavora: “Per l’organizzazione - precisa Barbarano - ci siamo fatti aiutare da rifugiati: una delle ragazze che l’ha fatto è stata ammessa all’Università di Cambridge”. Lesioni stradali. Procedibilità d’ufficio confermata dalla Consulta di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 5 novembre 2019 Respinta la questione sollevata a La Spezia ma ne arriva una da Milano. Il reato di lesioni stradali colpose gravi e gravissime, nell’ipotesi “base” dell’articolo 590-bis, comma del Codice penale, rimane procedibile d’ufficio. Lo ha stabilito la Consulta, con la sentenza 223 del 24 ottobre, respingendo la questione sollevata dal Tribunale di La Spezia. Ma non finisce qui: analoga questione è stata sollevata dal Tribunale di Milano, su ulteriori elementi di potenziale irragionevolezza che derivano dalla mancata previsione della procedibilità a querela per i casi in cui l’incidente derivi da una violazione del Codice della strada “semplice”, e non da una di quelle più gravi previste dai commi 2, 3,4 e 5 dell’articolo 590 bis (abuso di alcol o droghe, velocità eccessiva, inversione di marcia e sorpassi azzardati, attraversamento di intersezioni stradali con semaforo rosso). La Consulta ha deciso sul caso di un automobilista accusato di lesioni stradali colpose gravi per mancata precedenza a un motociclista, che non aveva sporto querela. La procedibilità di ufficio aveva tuttavia reso inevitabile il processo: il giudice aveva allora sollevato l’incostituzionalità del Dlgs 36/2018, sostenendo che il Governo avesse violato la delega dell’articolo i, comma i6, lettera a) della legge 103/2017, che aveva previsto la procedibilità a querela per i reati contro la persona puniti con pena inferiore a quattro anni, esclusi i casi in cui la persona offesa sia incapace per età o infermità. Il Tribunale aveva richiamato il parere della commissione Giustizia della Camera sul primo schema del Dlgs, che sollecitava il Governo ad adottare la procedibilità a querela, perché la condizione di incapacità della vittima, in cui conservare la procedibilità d’ufficio, era riferita solo ai casi di vulnerabilità antecedente al comportamento dell’imputato, da questi sfruttata per commettere il reato. Per la Consulta, il Governo ha adottato “una interpretazione non implausibile”: il ritorno alla procedibilità a querela si sarebbe posto “in aperta contraddizione con la scelta, compiuta appena due anni prima, dal Parlamento (...) di prevedere la procedibilità di ufficio di tutte le fattispecie di lesioni stradali”. Ma i giudici delle leggi riconoscono come “la formula normativa utilizzata dal legislatore delegante sia in radice ambigua”: non è chiaro se l’incapacità debba essere antecedenti al delitto o possa anche esserne conseguenza. Si attende ora la decisione sulla questione milanese, che evidenzia altri profili: ipotesi di colpa lieve (una banale distrazione) e danno non grave (una lesione guaribile in meno di due mesi) sono trattate come una lesione gravissima (la perdita di un arto) causata da chi guida sotto l’effetto di droghe. A ciò si aggiunga che “nella normalità le lesioni riportate a seguito di un impatto tra (o con) veicoli in nulla compromettono la capacità di autodeterminazione della vittima”. Quindi, se c’è colpa generica, “subordinare le esigenze risarcitorie della vittima alla celebrazione del procedimento penale non frustra solo” i suoi interessi, “ma si risolve altresì in un irragionevole dispendio di risorse processuali”. E sono stati depositati, a Camera e Senato, disegni di legge per ripristinare la procedibilità a querela per l’ipotesi “base”: anche ciò pare un segnale di volontà del legislatore da non sottovalutare. Torino. Il carcere: un castello di cristallo? Ristretti Orizzonti, 5 novembre 2019 I fatti riportati negli ultimi giorni dai principali organi di informazione nazionale, relativi alle presunte violenze consumate ai danni di alcune persone detenute presso la Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino, impongono delle riflessioni al corpo docente che da anni svolge parte della propria attività nell’ambito del penitenziario torinese. Come noto, per diverse ragioni l’istituzione penitenziaria è un luogo di particolare interesse per il mondo accademico. In primo luogo, perché il carcere è tradizionalmente un terreno di ricerca dove negli anni si sono cimentate svariate discipline, dalle scienze sociali e umanistiche, sino ad arrivare a quelle economiche, urbanistiche e dell’architettura. Il nostro territorio, da questo punto di vista, ha contribuito a tale tradizione di studi con ricerche che hanno indagato, per fare alcuni esempi, i campi del lavoro penitenziario, delle carriere criminali e della recidiva, della tutela dei diritti e del reingresso in società a seguito del fine pena. Non meno rilevante è la prospettiva della didattica universitaria. L’esperienza dei Poli Universitari all’interno degli istituti penitenziari, vede proprio Torino tra i precursori di un movimento secondo il quale il riconoscimento dei diritti - e quindi anche di quello allo studio - costituisce uno dei pilastri per la riacquisizione di forme di cittadinanza attiva fra soggetti provenienti da un percorso di esecuzione penale. Accanto all’esperienza del Polo Universitario, le pratiche delle cliniche legali hanno contribuito ad avvicinare gli studenti universitari con la realtà del carcere, adottando un modello di didattica esperienziale di cui hanno beneficiato studenti, docenti e, crediamo, anche la comunità penitenziaria. Infine, l’istituzione penitenziaria è un terreno dove l’Università sperimenta interventi di “terza missione”, finalizzati alla diffusione dei risultati delle ricerche accademiche, nell’ottica di un significativo impatto pubblico degli studi condotti in ambito accademico. Anche da questo punto di vista il caso torinese è stato in questi anni tra i più significativi, là dove il rapporto fra istituto penitenziario e Università si è concretizzato in iniziative quali rassegne cinematografiche, dibattiti, interventi di supporto ai familiari delle persone detenute, ecc. Le aree di intervento appena menzionate si fondano sulla convinzione che una delle modalità più efficaci per superare gli aspetti più de-umanizzanti delle istituzioni totali sia favorirne una minore opacità. Da questo punto di vista, il modello del “carcere trasparente”, che proprio a Torino ha avuto un’ispiratrice come Bianca Guidetti Serra, è ciò che ha mosso molti docenti, ricercatori e altro personale universitario a confrontarsi con il carcere. La convinzione di molti di noi è sempre stata quella secondo la quale l’ingresso della società civile avrebbe potuto contribuire a rendere tale istituzione meno oppressiva e favorire una maggiore coerenza con i principi e i valori che hanno ispirato i padri costituenti al momento della redazione dell’art. 27 della Costituzione Repubblicana. I fatti emersi in questi giorni appaiono come sconfortanti da diversi punti di vista, ma possono anche essere occasione per un rinnovato impegno di tutti nella direzione appena richiamata. Sappiamo che l’indagine giudiziaria nasce a seguito di un esposto della Garante dei diritti delle persone private della libertà della Città di Torino e del ruolo svolto, a seguito delle visite ispettive, dal Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. L’operato di tali figure di garanzia si rivela, a nostro parere, come un baluardo fondamentale, sia nella promozione e tutela dei diritti, sia nella prospettiva di una sempre maggiore “trasparenza” delle pratiche penitenziarie e dell’esecuzione delle pene. Nessuna vicenda e nessuna reazione che - su piani diversi - essa può suscitare, può metterne in discussione la presenza e l’agire all’interno della istituzione interessata. Per tali motivi in quanto docenti universitari impegnati in carcere o comunque interessati alla sua vita come istituzione della società in cui tutti viviamo, intendiamo esprimere il nostro apprezzamento e la piena solidarietà nei confronti di Monica Cristina Gallo, e di tutte le figure di garanzia nazionali e locali operanti nel sistema penitenziario. Per parte nostra rinnoviamo l’impegno e la disponibilità della comunità accademica a operare per un futuro nel quale le pratiche dell’istituzione penitenziaria siano pienamente conoscibili alla comunità esterna e i diritti fondamentali di chi è privato della libertà siano sempre nei fatti garantiti, conformemente allo spirito e alla lettera della Costituzione e delle leggi che regolano questo delicato settore. Insieme assicuriamo l’impegno e la disponibilità a sostenere - con le diverse competenze che possiamo mettere a disposizione - quanti nelle istituzioni operano, affinché sappiano affrontare al meglio le molte difficoltà che incontrano quotidianamente nello svolgimento dei loro compiti. Sottoscrivono: Davide Petrini, Professore Ordinario di Diritto penale, Università di Torino Franco Prina, Professore Ordinario di Sociologia del diritto e della devianza, Università di Torino Claudio Sarzotti, Professore Ordinario di Filosofia e Sociologia del diritto, Università di Torino Laura Scomparin, Professoressa Ordinaria di Diritto processuale penale, Università di Torino Giovanni Torrente, Ricercatore in Filosofia e Sociologia del diritto, Università di Torino Daniela Adorni, Ricercatrice in Storia contemporanea, Università di Torino Costanza Agnella, Dottoranda in Diritti e Istituzioni, Università di Torino Alessandra Algostino, Professoressa Associata di Diritto costituzionale, Università di Torino Perla Arianna Allegri, Assegnista di ricerca in Filosofia e Sociologia del diritto, Università di Torino Filippo Barbera, Professore Ordinario di Sociologia dei processi economici, Università di Torino Marinella Beluati, Professoressa Associata di Sociologia dei processi culturali, Università di Torino Cecilia Blengino, Ricercatrice in Filosofia e Sociologia del diritto, Università di Torino Gian Mario Bravo, Professore Emerito di Storia delle dottrine politiche, Università di Torino Sandro Busso, Ricercatore in Sociologia politica, Università di Torino Maddalena Cannito, Assegnista di ricerca, Università di Torino Francesco Caprioli, Professore Ordinario di Diritto processuale penale, Università di Torino Mario Cardano, Professore Ordinario di Sociologia della salute, Università di Torino Renzo Carriero, Professore Associato di Sociologia, Università di Torino Francesco Costamagna, Professore Associato di Diritto dell’Unione europea, Università di Torino Amedeo Cottino, Professore di Sociologia del diritto, Università di Torino Massimo Cuono, Ricercatore in Filosofia politica, Università di Torino Roberto Di Monaco, Ricercatore in Sociologia, Università di Torino Alessandra Durio, Ricercatrice in Statistica, Università di Torino Valeria Ferraris, Ricercatrice in Sociologia del diritto e della devianza, Università di Torino Luigi Gariglio, Ricercatore in Sociologia, Università di Torino Michele Graziadei, Professore Ordinario di Diritto privato comparato, Università di Torino Enrico Grosso, Professore Ordinario di Diritto costituzionale, Università di Torino Daniela Izzi, Professoressa Associata di Diritto del lavoro, Università di Torino Gabrielle Laffaille, Lettrice di lingua francese, Università di Torino Fabio Longo, Ricercatore in Diritto pubblico comparato, Università di Torino Matteo Lupano, Professore Associato di Diritto processuale civile, Università di Torino Giulia Mantovani, Professoressa Associata di Diritto processuale penale, Università di Torino Valeria Marcenò, Professoressa Associato di Diritto costituzionale, Università di Torino Dora Marucco, Professoressa di Storia delle istituzioni politiche, Università di Torino Alfio Mastropaolo, Professore Emerito di Scienza politica, Università di Torino Michele Miravalle, Assegnista di ricerca in Filosofia e Sociologia del diritto, Università di Torino Manuela Naldini, Professoressa Associata di Sociologia della famiglia, Università di Torino Tiziana Nazio, Ricercatrice in Sociologia generale, Università di Torino Guido Neppi Modona, Professore Emerito di Istituzioni di diritto e procedura penale, Università di Torino Elisabetta Palici di Suni, Professoressa Ordinaria di Diritto pubblico comparato, Università di Torino Valentina Pazè, Professoressa Associata di Filosofia politica, Università di Torino Marco Pelissero, Professore Ordinario di Diritto penale, Università di Torino Maria Teresa Pichetto, Professoressa di Storia del pensiero politico, Università di Torino Francesco Ramella, Professore Ordinario di Sociologia dei processi economici, Università di Torino Franca Roncarolo, Professoressa Ordinaria di Scienza Politica, Università di Torino Daniela Ronco, Assegnista di ricerca in Filosofia e Sociologia del diritto, Università di Torino Rocco Sciarrone, Professore Ordinario di Sociologia economica, Università di Torino Cristina Solera, Ricercatrice in Sociologia, Università di Torino Andrea Sormano, Professore di Sociologia dei processi culturali e comunicativi, Università di Torino Lorenzo Todesco, Ricercatore in Sociologia generale, Università di Torino Palermo. Suicidi in carcere, un anno dalla morte di Samuele Bua di Katya Maugeri sicilianetwork.info, 5 novembre 2019 “Misteri e ombre in quella cella di isolamento”. Gli istituti penitenziari hanno l’obbligo di preservare la salute e la sicurezza dei detenuti. Sono necessarie misure utili e un servizio d’intervento efficace per prevenire un fenomeno in crescita: il suicidio nelle carceri. “A distanza di un anno dalla morte del giovane Samuele Bua al carcere a Pagliarelli, poco o nulla è cambiato”, spiega Pino Apprendi presidente di Antigone Sicilia, “la famiglia ha dovuto aspettare un anno per avere l’esito dell’autopsia, un tempo incredibile, una burocrazia che uccide una seconda volta e che ferisce, ancora di più, i familiari che non trovano la rassegnazione”. Il giovane palermitano che si sarebbe suicidato in una cella d’isolamento, dopo dieci giorni, soffriva di gravi disturbi psichiatrici e avrebbe dovuto avere la sorveglianza a vista, come prevista in questi casi e non era certamente il carcere il luogo dove poteva trovare guarigione. “Qualche mese fa un altro giovanissimo, a Barcellona Pozzo di Gotto, ha deciso di togliersi la vita - continua Apprendi - con la stessa modalità: l’impiccagione, anche lui con gli stessi problemi di salute mentale, rinchiuso in cella d’isolamento e anche lui avrebbe dovuto essere sorvegliato a vista in quanto aveva già tentato il suicidio”. I due ragazzi, e tanti altri, hanno scelto la libertà attraverso il suicidio. “Anche in questo momento, nelle carceri, sono rinchiuse persone che gli stessi giudici del Tribunale dichiarano che dovrebbero risiedere nelle Rems, ma come è noto in Sicilia ce ne sono soltanto due: una a Caltagirone e una a Naso. Al momento in Sicilia ci sono oltre 100 persone che dovrebbero usufruirne. Si aspetta da anni che ne nasca una a Caltanissetta e non si capisce il motivo per cui Palermo ne sia sprovvista visto che c’è la maggiore concentrazione di detenuti, con ben tre carceri per uomini e donne e circa 1/3 dell’intera popolazione carceraria siciliana. Aspettiamo con fiducia che si accertino le responsabilità sulla morte di questi ragazzi. Le famiglie hanno diritto di conoscere la verità. Lo Stato non può tradirti”. Sono trascorsi dodici mesi da quel giorno e Lucia Agnello - madre di Samuele - non si rassegna, non riesce a comprendere come un istituto penitenziario possa accogliere un ragazzo con disturbi mentali anziché destinarlo a strutture adeguate, utili per una guarigione o un’accoglienza idonea. Oggi mamma Lucia manda questa lettera in redazione: un urlo di dolore. Sono parole che la donna rivolge agli indifferenti, alla gente che dinanzi a queste terribili notizie, risponde: “morto un detenuto? Uno meno!”, senza preoccuparsi di conoscerne la storia. Samuele non aveva colpa se non quella di essere malato. “Sono la madre di Samuele Bua un ragazzo come tanti di oggi: voglia di vivere, di divertirsi. Alto, bello, biondo e con un carattere dolce come pochi hanno. Generoso, semplice e spontaneo: amico di tutti e amante del calcio, giocava al pallone sin da piccolo e non si faceva una partita se non c’era Samuele. Poi, per la sua semplicità è caduto nella trappola della droga. La famiglia e soprattutto io, mamma, non ho capito il cambiamento di mio figlio e quando ha cominciato a dare segni di squilibrio non credevamo che potesse arrivare dove è arrivato. Cominciò così il suo calvario: un giorno tentò di tagliarsi le vene e fu ricoverato in psichiatria, da cui poi seguito per 6 anni al Csm 2 (per chi non lo sa si tratta di un centro di salute mentale) non era costante nella terapia e sicuramente questo non l’ha aiutato. È stato sottoposto a diversi Tso, bombardato obbligatoriamente di farmaci, e quando tornava a casa non sopportava di essere assillato dalla terapia: era sempre più nervoso, gli amici che aveva non c’erano più. Io credo che si sentisse solo. Da madre, ho cercato tantissime volte di capire come poter agire, mi avevano parlato di numerose comunità, ma occorreva il consenso volontario per il ricovero di Samuele. Lui aveva paura e non voleva andare, gli psichiatri con cui parlavo non mi fornivano mai le spiegazioni che volevo, quelle necessarie per aiutarlo davvero. Sembrava che aspettassero l’evolversi del disagio, poi fu dichiarato schizofrenico e per tale fu trattato. Non mi spiego come si possa pretendere da una persona malata e che ha perso fiducia in tutto e tutti, di avere consapevolezza del proprio stato. Ma per portarlo in comunità serviva il suo consenso. E lui non voleva. Chissà quante famiglie, come la nostra, hanno vissuto queste tragedie e magari non hanno il coraggio e la forza di parlarne. L’anno determinate è stato il 2017: Samuele era peggiorato tanto al punto che ho dovuto rivolgermi alle forze dell’ordine. Il vicinato si lamentava del volume troppo alto dello stereo, a casa cominciò a rompere oggetti e io stessa cominciai ad avere timore di lui, ma non mi metteva le mani addosso, i suoi occhi dilatati e le sgrida mi impaurivano. Poi purtroppo il 2 maggio 2018 le forze dell’ordine per fermarlo lo arrestarono e il brigadiere Piccolo mi disse che per fermarlo era l unico modo e così per sei mesi ho conosciuto la triste realtà del carcere. Quando mio figlio fu arrestato il fascicolo della sua malattia era con lui perché non ne hanno tenuto conto? Perché è stato trattato come un detenuto normale? Perché hanno lasciato trascorrere sei mesi prima di chiedere un trasferimento in una struttura adeguata per lui? Quando è morto si trovava nella cella di isolamento punitivo. Perché? Per concludere, Samuele - mi è stato detto - che si è suicidato con delle stringhe di scarpe. Se quella è detta la cella liscia come li ha avuti? Aspetto delle risposte, spero che qualcuno possa riflettere perché non è il carcere ad aiutare queste persone, servirebbe intervenire con un inserimento in comunità adeguate con personale preparato e provvedere al loro recupero nella vita sociale e familiare”. Palermo. Suicidi in carcere, Apprendi (Antigone): “servono più Rems” ilsicilia.it, 5 novembre 2019 “A distanza di un anno dalla morte del giovane Samuele Bua, al Pagliarelli, poco o nulla é cambiato”, afferma Pino Apprendi, presidente di Antigone Sicilia. “Intanto, la famiglia ha dovuto aspettare un anno per avere l’esito dell’autopsia, un tempo incredibile, una burocrazia che ferisce, ancora di più, i familiari. Il giovane che si sarebbe suicidato in una cella dopo 10 giorni d’isolamento, soffriva di gravi disturbi psichiatrici e avrebbe dovuto avere la sorveglianza a vista, certamente non era il carcere il luogo dove poteva trovare guarigione”, ha aggiunto Apprendi. “Qualche mese fa un altro giovanissimo, a Barcellona Pozzo di Gotto, ha deciso di togliersi la vita con la stessa modalità, l’impiccagione, anche lui con gli stessi problemi di salute mentale, rinchiuso in cella d’isolamento. Anche in questo momento, nelle carceri, sono rinchiuse persone che gli stessi giudici del Tribunale dichiarano che dovrebbero risiedere nelle Rems, ma come è noto in Sicilia ce ne sono soltanto due, una a Caltagirone e una a Naso. Al momento in Sicilia ci sono oltre 100 persone che dovrebbero usufruirne”, ha detto il presidente di Antigone Sicilia. “Si aspetta da anni che ne nasca una a Caltanissetta e non capiamo il motivo per cui Palermo ne sia sprovvista dove, forse, c’è la maggiore concentrazione di detenuti, con ben 3 carceri per uomini e donne e 1 carcere per minori. Aspettiamo con fiducia che si accertino le responsabilità sulla morte di questi ragazzi. Le famiglie hanno diritto di conoscere la verità. Lo Stato non può tradirti”, conclude Pino Apprendi. Napoli. La Croce Rossa a Poggioreale per ripristinare i contatti familiari dei detenuti cri.it, 5 novembre 2019 Partirà a novembre il nuovo servizio della Cri dove operatori specializzati entreranno nel carcere di Poggioreale per aiutare le persone detenute a rintracciare i propri cari. È il frutto di un protocollo d’intesa (primo accordo di questa natura in Campania), firmato dal Comitato Regionale Cri, Comitato di Napoli e direzione della Casa Circondariale, che conferma la crescita e il rafforzamento della rete Rfl (Restoring Family Links) della Croce Rossa, grazie alla capillare presenza sul territorio di volontari formati. Nell’Istituto Penitenziario di Napoli Poggioreale “G.Salvia”, il più grande d’Italia, con oltre 2200 detenuti, i volontari specializzati della Croce Rossa assisteranno le persone richiedenti nella compilazione di moduli predisposti per la raccolta di informazioni utili a rintracciare i loro congiunti. Non solo: la CRI faciliterà anche le comunicazioni tramite messaggi scritti o verbali recapitati in tutto il mondo, grazie alla rete del Movimento (i cosiddetti “messaggi di Croce Rossa”) e attraverso chiamate telefoniche ai familiari dei detenuti. “In una condizione come quella carceraria, il ripristino dei legami familiari rappresenta un’ancora di salvezza e di speranza”, ha spiegato il presidente regionale della Croce Rossa, Giovanni Addis. “Questo protocollo conferma quanto sia preziosa la collaborazione tra le Istituzioni e la Croce Rossa per la tutela dei diritti umani costituzionalmente garantiti e per il raggiungimento di una risocializzazione e recupero della persona detenuta”, ha aggiunto Addis. “La Croce Rossa Italiana, il Comitato internazionale e le altre Società Nazionali di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa lavorano insieme in tutto il mondo per prevenire le separazioni familiari, ripristinare e mantenere i contatti delle famiglie nel caso in cui la separazione sia dovuta a conflitti armati, situazioni di violenza, disastri, migrazioni e ad altre situazioni che richiedono una risposta umanitaria. I volontari del Comitato di Napoli, espressione della cultura dell’accoglienza e della multietnicità di una città punto di snodo del Mediterraneo, sono gli attori diretti di questo impegno sul campo” ha spiegato il Presidente del Comitato di Napoli, Paolo Monorchio, che aggiunge “ringrazio anche il Segretario Regionale Manuela Zambrano per il coordinamento delle attività che hanno consentito la stipula del protocollo di intesa”. Piacenza. “La galera ha i confini dei vostri cervelli”, Pietro Buffa a palazzo Galli piacenza24.eu, 5 novembre 2019 Mercoledì 6 novembre alle ore 18,00 presso la Sala Panini a Palazzo Galli in via Mazzini 14 a Piacenza l’associazione “Verso Itaca Onlus” invita alla presentazione del libro “La galera ha i confini dei vostri cervelli” di Pietro Buffa. L’Autore dialogherà con Brunello Buonocore. Non è cosa semplice narrare di carcere. Non lo è perché spesso chi se ne occupa tende ad assumere un solo punto di vista: quello del detenuto, delle sue debolezze e del suo desiderio di riscatto, oppure quello dell’organizzazione del sistema detentivo. Pietro Buffa con questo libro fa sì che questi due mondi si incontrino, e lo fa narrando storie di vita vissuta, di volti incontrati e rimasti impressi nella memoria nel corso degli anni trascorsi a dirigere istituti penitenziari. Il titolo del libro trae origine da una frase contenuta nella lettera di un detenuto psicotico. È un’espressione emblematica del contenuto del libro, poiché apre alla speranza di poter modificare la vita carceraria intesa come vuoto disperante della quotidianità coatta, ripetitiva e castrante: “la galera ha i confini dei vostri cervelli” rimanda alla possibilità di un cambiamento facendo appello alla responsabilità e all’umanità di ogni persona. Quel cambiamento che, attraverso le piccole e grandi cose quotidiane, l’Autore ha sempre cercato di mettere in atto, da direttore, per rendere più umana la vita di coloro che popolano il carcere, siano essi detenuti, agenti penitenziari, operatori sociali o volontari. Pietro Buffa è infatti uno dei maggiori conoscitori del sistema carcerario, ne conosce i meccanismi gestionali, li governa e li dirige, e questo libro è proprio il frutto del suo percorso professionale, costellato di episodi significativi che ci ha voluto raccontare e che ci invitano a guardare oltre le sbarre, per provare a scavare un po’ di più nell’animo di chi vive in un contesto di reclusione. Storie diverse tra loro, ambientate in varie strutture penitenziarie, come istantanee di una lunga vita passata a prendersi cura di un mondo recluso, che si susseguono nelle centoquaranta pagine di questo bel libro che si legge d’un fiato. Storie che ci raccontano percorsi umani tortuosi e complicati, ma anche significativi spaccati di umanità e solidarietà fra le quattro mura della prigione, con un filo rosso che lega l’intera opera: l’esigenza di contribuire a migliorare la realtà carceraria. Un libro dove il tutto è molto più della semplice somma delle parti. Urbino. Rassegna “Teatri delle diversità”: letteratura, teatro e sport in carcere di Antonella Barone gnewsonline.it, 5 novembre 2019 Tre giorni di spettacoli, proiezioni e incontri con relatori da tutto il mondo: l’offerta artistica e culturale della XX edizione della rassegna Teatri delle diversità si è svolta a Urbino da venerdì fino a ieri ed è stata densa di iniziative e proposte sempre più aperte alla scena internazionale. Il titolo di quest’anno, Emanciparsi dalla subalternità: teatro, sport e letteratura in carcere, ribadisce il legame con il pensiero di Antonio Gramsci a cui dal 2016 la manifestazione ha dedicato il premio omonimo per il Teatro in Carcere. Il riconoscimento è stato quest’anno assegnato a Michelina Capato Sartore, artista, attrice, regista, pedagoga a lungo attiva nel carcere di Bollate. Vito Minoia, direttore del Convegno, parlando di Michelina afferma: “È stata animatrice infaticabile di una stagione straordinaria che ricorderemo coi tanti nomi che la Capato dava ai suoi molteplici progetti: Teatro Galeotto, Teatrodentro, Teatro in Stabile e che non è possibile ricondurre alla sola produzione e rappresentazione di opere teatrali entro i confini di una casa di reclusione” Tra le proiezioni anche quella di Fortezza, presentato proprio in questi giorni alla Festa del Cinema di Roma, realizzato con gli attori della Compagnia AdDentro, della Casa di reclusione di Civitavecchia, è ispirato a Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati da Ludovica Andò ed Emiliano Aiello (prossimi anche a ritirare, il 16 novembre a Prato, anche il premio della Rivista Catarsi, uno dei prestigiosi riconoscimenti dell’Associazione Nazionale Critici Teatro). Nel corso della manifestazione è stato presentato il Network internazionale di teatro in carcere (International Network theatre in prison), promosso da Catarsi teatri delle diversità in partnership con l’International Theatre Institute (Iti) - Unesco. Comunicato, infine, il programma ufficiale della sesta edizione della rassegna nazionale di teatro in carcere Destini incrociati promossa dal Coordinamento nazionale Teatro in carcere in collaborazione con il Ministero della Giustizia e il Ministero per i Beni e le attività culturali, in programma quest’anno a Saluzzo (Cuneo) il 12, 13 e 14 dicembre 2019. Carugate (Mi). Una cella in oratorio per far vivere l’esperienza del carcere lamartesana.it, 5 novembre 2019 Progetto curato dalla Caritas e dai detenuti della casa circondariale di Bollate. Si chiama “Extrema Ratio” l’iniziativa educativa che verrà inaugurata mercoledì 6 novembre all’oratorio San Giovanni Bosco di Carugate e che proseguirà fino al 13 novembre. Per sette minuti (dopo essere stati sottoposti alla fase dell’identificazione con tanto di impronte digitali) si potrà vivere l’esperienza da carcerato, chiusi per 7 minuti dentro una riproduzione in dimensioni reali di una cella (allestita proprio dentro l’oratorio) del tutto simile per arredi e oggettistica a quelle di molte carceri italiane. “L’esperienza di detenzione temporanea è sufficiente per poter vivere sulla propria pelle la condizione di sovraffollamento dei nostri penitenziari - spiegano gli organizzatori del progetto - Sarà occasione per interrogarsi sull’efficacia della pena carceraria e per chiedersi se può essere strumento educativo e di integrazione sociale o se non sia da considerarsi come extrema ratio”. L’installazione sarà presente nell’oratorio di Carugate da mercoledì 6 a mercoledì 13 novembre. Da lunedì a venerdì sarà aperta dalle 17.30 alle 22.30, nei weekend dalle 15.30 alle 22.30. È necessario iscriversi sul sito Internet della parrocchia (www.parrocchiacarugate.it) o presso la segreteria dell’oratorio. Per informazioni: salgio.carugate@gmail.com. La partecipazione al percorso (dai 16 anni in poi) è gratuita e avrà una durata complessiva di circa 50 minuti, compresa di percorso di preparazione e di rilettura e analisi dell’esperienza assieme ad alcuni operatori. “Frammenti autobiografici dal carcere”, di Carla Chiappini e Marco Baglio francoangeli.it, 5 novembre 2019 Laboratori di scrittura sulla paternità tra uomini detenuti e uomini liberi. Il volume raccoglie i racconti di padri detenuti e padri liberi, che hanno voluto condividere la propria esperienza di padri e al contempo di figli, offrendoci un viaggio tra memoria, emozioni e brevi stralci di storie personali. Queste scritture, raccolte con il metodo autobiografico studiato e diffuso dalla Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari, hanno offerto lo spunto per pensieri, riflessioni e approfondimenti ad alcuni docenti, ricercatori ed esperti che hanno arricchito il testo con i loro contributi. Presentazione del volume - L’essere padri, l’essere figli e le scritture brevi di più di un centinaio di uomini raccolte in cinque istituti di pena del nostro Paese: Verona, Milano San Vittore, Parma, Milano Opera e Modena. Papà detenuti e papà liberi, con una biro in mano, riuniti intorno a un tavolo per raccontare a se stessi e agli altri “il primo ricordo del proprio padre”, “quel giorno in cui sono diventato papà”, “dire o non dire la verità”, “da bambino ero...”, “due foto che raccontano di me”. Un viaggio tra memoria, emozioni e brevi stralci di storie personali. Uomini giovani e meno giovani, italiani e stranieri, condannati a pene brevi o molto lunghe, cittadini regolari impegnati in differenti professioni - avvocati, sindacalisti, impiegati, professori, operatori sociali e manager - hanno condiviso parole semplici, toccanti, imprecise, ruvide. Non sono mancate le lacrime. Queste scritture, raccolte con il metodo autobiografico studiato e diffuso dalla Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari, hanno offerto lo spunto per pensieri, riflessioni e approfondimenti ad alcuni docenti, ricercatori ed esperti -Antonella Arioli, Alessandra Augelli, Daniele Bruzzone, Brunello Buonocore, don Claudio Burgio, Laura Gaggini, Alberto Gromi, Ivo Lizzola, Elisabetta Musi, Elena Rausa, Nicolò Terminio, Antonio Zulato - che hanno arricchito il testo con i loro contributi; chiude il volume un breve testo di Alessandro Bergonzoni. Carla Chiappini, giornalista, esperta in scrittura di sé e docente della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari, da vent’anni raccoglie testi autobiografici in svariati istituti di pena. A Piacenza dirige il foglio “Sosta Forzata. Itinerari della giustizia”, a Parma in Alta Sicurezza coordina la redazione di “Ristretti Orizzonti”. Marco Baglio, docente di lettere nei licei milanesi e counsellor di base (Scuola Atc di Milano), si è formato al metodo autobiografico della LUA. Da anni coordina laboratori di lettura e scrittura negli istituti penitenziari di Milano Armando Punzo: da Napoli alla mia Fortezza di Stefano de Stefano Corriere del Mezzogiorno, 5 novembre 2019 Il regista che ha portato il teatro nel carcere di Volterra si racconta. C’è sempre un cortile nel destino di Armando Punzo: quello della casa natìa nella palazzina di via de Meis che segna il confine fra il quartiere Ponticelli e il comune di Cercola, e quello del carcere di Volterra, dove a partire dal 1988 il regista napoletano ha vissuto la gran parte della sua esperienza artistica. Nel primo ha trascorso l’infanzia sotto gli occhi di mamma Lucia, “la Carabbiniera”, “un rettangolo in cui ogni giorno fare e disfare il mondo”. Nel secondo, quello di un campetto di calcio all’aperto, dove nell’ora d’aria fare scrittura scenica, da 30 anni, con la Compagnia della Fortezza. Un filo rosso che lega la storia di un uomo di teatro che ha scelto un luogo non teatrale per portare avanti il suo progetto artistico ed esistenziale, descritto con pulsante vitalità in un libro-testimonianza, Un’idea più grande di me, edito da Luca Sossella, presentato recentemente al Madre, e frutto delle conversazioni tenute con la studiosa Rossella Menna. E al centro dei dialoghi queste due polarità, la terra d’origine da cui andare via per disegnare una sorta di ciclico ritorno e “per sfuggire a una vita decisa per me dal destino”, e quella di adozione, in cui “l’essere eternamente straniero ti permette di tagliare i ponti con la vita. Perché il distacco è una condizione auspicabile, mentre il radicamento è un freno”. E in mezzo “il teatro dei miracoli”, nato forse con quel pezzo di vetro affumicato e incantatore trovato nella chiesa in ristrutturazione di Cercola e poi elaborato nella ricerca ossessiva di spazi di libertà in tutti in luoghi di reclusione. Origine di un’esperienza senza pari, quella della più longeva avventura artistica in un istituto penitenziario, trasformato da luogo di pena in centro di ricerca teatrale e di sperimentazione permanente. Ma senza intenti forzatamente pedagogici e sociali. La Fortezza è sempre stato soprattutto un luogo di illimitata espressività che ha generato spettacoli memorabili, vincitori fra gli altri di ben sette premi Ubu, dal “Marat Sade” di Weiss ai “Pescecani” tratto da Brecht, dal “Pinocchio. Lo Spettacolo della Ragione”, ammirato anche all’auditorium di Scampia nel 2009, ad “Alice nel paese delle meraviglie - Saggio sulla fine di una civiltà”, per citare solo degli esempi. Un’avventura iniziata alzando lo sguardo verso quella rocca appena giunti nel borgo toscano, uno dei tanti toccati in un continuo girovagare “quando si hanno 30 anni e si è in cerca del luogo, quello giusto dove dare una direzione alla propria vita”. E quella fortezza, che si era rivelata poi il famigerato carcere di Volterra, squarciò tutti i veli di incertezza che circondavano Punzo: “Pensavo - scrive - che i detenuti non avevano niente da fare, avevano tantissimo tempo libero e nessun pensiero pregresso del teatro, nessuna eredità. Insieme avremmo potuto fare tutto da capo”. E così fu, complice la lungimiranza della giunta volterrana di allora, che iniziò offrendo al regista napoletano un laboratorio di 200 ore, “che presto sarebbero diventate 1500”. Ma ancora una volta riecco Napoli, terra di provenienza anche di molti detenuti, che diventavano baricentro di ogni sud: calabresi, siciliani, marocchini e così via. E non fu un caso quindi che il primo spettacolo della Fortezza sia stata “La Gatta di Roberto De Simone. “I ragazzi volevano qualcosa di allegro, cantato”, e possibilmente in napoletano, lingua a loro più familiare. “Così il maestro mi diede i diritti, vista la particolarità dell’allestimento e il 15 luglio del 1989 andammo in scena inaugurando la nostra attività”. Un cerchio che si chiudeva per poi tornare ad aprirsi, quindi, in un movimento continuo e rotatorio. Che non manca di momenti di sconforto, di ripensamento, ma che alla fine resiste e continua a girare. “Perché - afferma ancora Punzo - non c’è luogo migliore al mondo. Perché gli spazi si affezionano a te e ti chiedono di restare, di amarli, di resistere”. Il partito dell’odio e delle “buone” intenzioni di Moni Ovadia Il Manifesto, 5 novembre 2019 Commissione Segre (e non solo). La destra italiana non è antifascista, non lo è mai stata, quella degli altri Paesi europei sì. Sono antifascisti i cristiano-democratici tedeschi, i gollisti francesi, i conservatori inglesi. La nostra destra no. La lettera al Corriere della Sera scritta dal primogenito di Liliana Segre, Alberto Bellipaci, “non vi meritate mia madre”, è la pietra tombale sulle buone intenzioni della destra italiana. Le parole ferme e amare del figlio della senatrice non stigmatizzano tanto un’ideologia, che non c’è. Rendono evidente una conferma: la destra italiana non è antifascista, non lo è mai stata, quella degli altri Paesi europei sì. Sono antifascisti i cristiano-democratici tedeschi, i gollisti francesi, i conservatori inglesi. La nostra destra no, non ha mai voluto fare i conti con il Ventennio e ha cercato sempre di eludere la questione con artifici retorici o attaccando i comunisti reali o presunti ovvero tutti coloro che li contrastavano, rivendicando il carattere ineludibilmente antifascista della democrazia costituzionale. Lo ha fatto per non assumersi responsabilità o per rifarsi una verginità senza pagare mai il dazio. Questa verità si è stavolta scontrata con la figura della senatrice a vita Liliana Segre. Conosco la Senatrice da molti anni, ho avuto il grande privilegio di essere con lei a condividere e soprattutto ad ascoltare le sue testimonianze. Liliana Segre è prima di tutto un essere umano di eccezionale caratura, che ha affrontato a soli tredici anni e mezzo la più terrificante e disperante delle esperienze che in assoluto possano toccare a una persona. Il magistero della sua testimonianza è una delle narrazioni più importanti e significative del nostro tempo. Questa donna, la cui dignità è esemplare, rappresenta in se stessa e per il pensiero di cui è portatrice un patrimonio dell’umanità. La campagna di odio antisemita scatenata contro di lei è un atto di odio contro la forza della vita e a favore della pulsione di morte. Il comportamento della destra nell’aula del Senato, la sua astensione compatta di fronte alla proposta della senatrice Segre di istituire una commissione con il compito di monitorare le forme del razzismo e dell’antisemitismo, è un fatto gravissimo perché mostra connivenza e indulgenza nei confronti delle manifestazioni del razzismo, della xenofobia e delle effrazioni del senso della democrazia che può vivere solo laddove tutti gli uomini godano di eguali diritti e dignità e non siano accettabili primazie sulla base del criminogeno jus sanguinis che di fatto è anticostituzionale. L’assoluta gravità è rappresentata soprattutto dalla negazione dei principi dei diritti universali dell’uomo. Perché la destra non si è peritata di fare una così miserabile figura? In parte per ragioni strumentali, ma in parte perché il fascismo come retroterra culturale e sentimentale non è mai uscito dalla sua identità. Se non bastasse, i rappresentanti di questa destra si vantano di essere gli amici più sinceri del governo di Israele che li accoglie con tutti gli onori e li porta a visitare il memoriale della Shoà, Yad Vashem, con tanto di zucchetto in testa. Colpisce l’estrema mediocrità delle giustificazioni addotte e l’infimo livello di questa destra da strapaese fatta di personcine e “personaggetti”, per i quali c’è a quanto pare sempre qualcuno pronto alla difesa d’ufficio. Giorgia Meloni che ormai è “tecnicamente” considerata come una “politica capace”, sostiene che il suo voto di astensione è motivato dalla preoccupazione di “difendere la famiglia”. Si sa che Fratelli d’Italia ha innalzato lo stendardo della triade “Dio, Patria, Famiglia” tanto cara alla più vieta retorica clerico-fascista. Ma quale famiglia? Quella che santifica le feste nei centri commerciali, o si rincitrullisce davanti alle tv del sodale Berlusconi? Ma che bel talento, pensare che i nemici del suo modello di famiglia siano le unioni arcobaleno, i migranti inesorabilmente musulmani et similia. E non la società basata sulla metastasi iperliberista. Quanto alla patria, quale? Quella di Mussolini che la consegnò ai nazisti di cui - secondo ciò che scriveva lui stesso alla Petacci - fu “il fantoccio”? Salvini, dal canto suo, cambia le patrie per intonarle alle mutande, verdi finché vanno di moda, tricolori se la moda cambia e nere nelle riunioni private con gli squadristi dalle varie sigle. Le famiglie le cambia anche quelle e bacia il rosario prova provata che così crede in dio, ma preferirebbe buttare da un ponte papa Francesco che annuncia il “dio dell’accoglienza”. Intanto, a dimostrare la sua pericolosità, salta sul carro della classe operaia dell’Ilva massacrata e ricattata tra lavoro e morte ambientale, non perdendo l’ occasione di partecipare al linciaggio del “nero” Balotelli, gridando pericolosamente: “Un operaio dell’Ilva vale dieci Balotelli”. Razzista di classe, dunque. Quanto a Berlusconi adora le famiglie aperte, aperte alle escort, per patria ha le sue aziende, nazionali e offshore; e per dio se stesso, nient’altro che se stesso e non vuole nessuno a sua immagine e somiglianza. Questa, più o meno, è la destra che si candida a governarci nel terzo millennio. Sovranisti, populisti, antisemiti, islamofobi, nostalgici del nazismo della peggior risma. Marine Le Pen, Alternative fur Deutschland, i buontemponi del gruppo di Visegrad, con in testa l’antisemita e ziganofobo Orbán. Buontemponi perché tettano con voracità il buon latte dei soldi europei - dall’Ue del tacito consenso al respingimento dei diversi, dei migranti, dei richiedenti asilo, dei nuovi Muri eretti - e se ne servono per alimentare il nazionalismo isterico al fine di far fuori la vacca da cui mungono le loro risorse. Con questa bella compagnia, Berlusconi farà la sua agognata rivoluzione liberale del leben und leben lassen, vivi e lascia vivere. Il faro di questa bella banda di pallonari reazionari è mr. “America first”, Trump, quello che vuole massacrare le economie europee con i dazi e contribuire alla disgregazione dell’Unione europea incitando i singoli membri alla …exit, per farne dei satelliti sottomessi. È in questo brodo di coltura che risorge l’antisemitismo, anche nelle sue forme classiche. Commissione Segre, le strumentali critiche a mezzo stampa di Fabio Vander Il Manifesto, 5 novembre 2019 Le polemiche seguite all’approvazione da parte del Senato della “Commissione Segre” di controllo dei discorsi d’odio o hate speech dà la misura del degrado del dibattito pubblico nel nostro paese. Il centro-destra non l’ha votata, si è astenuto, con decisione che ha suscitato sconcerto in tanta parte dell’opinione pubblica, della comunità ebraica e anche in alcuni settori di Forza Italia. Gli argomenti di alcuni opinionisti di centro-destra meritano una riflessione. La mozione Segre parte da una novità, quella rappresentata dall’aumento esponenziale, favorito dalla diffusione dei social, delle opportunità di denigrazione, di istigazione al razzismo e direttamente alla violenza. Il dato crea allarme ovunque nel mondo e la Commissione intende affrontare precisamente i termini nuovi e più urgenti del problema. Ora c’è stato chi, con lo pseudonimo di “Passator cortese”, sul Dubbio ha tacciato di “ignoranza” la redattrice della mozione per aver messo sotto osservazione, insieme a razzismo ed antisemitismo, anche nazionalismo ed etnocentrismo. La mozione invece, ben scritta ed equilibrata, ricca di riferimenti normativi italiani e internazionali, tratta effettivamente di tutti quei fenomeni che possono portare a discorsi d’odio o a comportamenti discriminatori e violenti, secondo quanto acquisito dalla migliore pubblicistica giuridica e scientifica in materia. E il passator invece definisce una “schifezza” la mozione. Questo è il livello. Anche Luca Ricolfi sul Messaggero lamenta che nella mozione si proponga di mettere in evidenza fra gli altri il “nazionalismo aggressivo”, chiedendosi retoricamente chi mai stabilisce il livello di aggressività. Ora a parte che questo vale per qualsiasi fattispecie giuridica e che la migliore definizione di hate speech è precisamente uno dei compiti della mozione, ma soprattutto Ricolfi dimentica (o forse ignora), come il passatore, che è l’articolo 604bis del nostro Codice penale a prevedere sanzioni penali per “chi istiga a commettere o commette atti discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”. Come si vede l’accostamento tra hate speech e reati violenti è previsto dai codici, non frutto delle “ideologie” degli estensori della mozione. E invece c’è stato chi sul Tempo scrive che per aver messo insieme nazionalismo ed etnocentrismo la Commissione potrebbe addirittura avere “effetti liberticidi”. C’è poco da aggiungere. Basti solo ricordare, ai commentatori di centro-destra, che l’attuale presidente del Senato Elisabetta Alberti Casellati, da senatrice di Forza Italia, presentò nel 2001 una mozione in cui già allora si considerava “sempre più urgente e avvertita l’esigenza di un contributo di tutti i popoli per l’affermazione di questi diritti primari e fondamentali” cioè appunto i “diritti umani”. Di qui l’”esigenza di provvedere all’immediata istituzione di un organismo ad hoc”, individuato in “una Commissione speciale per la tutela e promozione dei diritti umani”. Esattamente quello che propone oggi la senatrice Segre. Oggi che l’urgenza è tanto maggiore dato lo sviluppo generalizzato e massivo dei social. Dunque nessuna strumentalizzazione né potenziale caccia alle streghe. A chi vaneggia di possibili bavagli vanno opposte le sagge parole di un editoriale dell’Avvenire, che auspica invece “ben calibrate sanzioni civili e penali verso chi scambia la libertà di espressione con il diritto di propagare intolleranza e discriminazione”. Stati Uniti. Detenuto ucciso con un’iniezione di Pentobarbital, riesplode la polemica Avvenire, 5 novembre 2019 I legali del condannato in South Dakota si erano rivolti alla Corte Suprema, giudicando inumano l’utilizzo del farmaco già al centro delle proteste. Ma i giudici hanno rigettato il ricorso. Un detenuto condannato per avere pugnalato a morte un ex collega di lavoro nel 1992 è stato ucciso con un’iniezione letale in South Dakota dopo che la Corte Suprema degli Stati Uniti ha rifiutato di interrompere l’esecuzione in seguito a un appello in extremis dei legali dell’uomo. Charles Rhines, 63 anni, è apparso calmo durante l’esecuzione e secondo i testimoni c’è voluto solo un minuto perché il Pentobarbital usato nello Stato avesse effetto. L’uomo è stato dichiarato morto cinque minuti dopo. Rhines si era opposto all’uso del farmaco, sostenendo che non si tratta della sostanza ad azione ultra rapida cui a suo parere aveva diritto. La Corte Suprema degli Stati Uniti ha respinto tuttavia tale appello. Il Pentobarbital è usato da diversi Stati Usa nelle esecuzioni, tra cui Georgia, Missouri e Texas. L’esecuzione riapre la polemica sull’uso del farmaco, ormai difficilmente reperibile negli Usa dopo il boicottaggio imposto dalle principali ditte produttrici europee. e soprattutto dopo le proteste di molte Ong che giudicano inumano il trattamento riservato ai condannati. Medio Oriente. Erdogan: “Vi mando i foreign fighters Isis”. Quelli non reclutati di Chiara Cruciati Il Manifesto, 5 novembre 2019 Il governo di Ankara minaccia il rimpatrio di 1.200 miliziani stranieri. Ma in Siria a decine sarebbero entrati nei gruppi jihadisti filo-turchi: almeno 50 i casi documentati. Oltre 700 gli affiliati di Daesh fuggiti dalle carceri curde, mentre nel Rojava si continua a combattere. Si combatte ancora nel nord est della Siria, nonostante il proclamato cessate il fuoco siglato da Russia e Turchia a Sochi lo scorso 22 ottobre. Eppure l’attenzione globale (eccezion fatta per movimenti e società civili, nel fine settimana scesi in piazza in tante capitali europee) è calata. A risvegliarla ci pensa il presidente turco Erdogan, non ancora soddisfatto dal riconoscimento dell’occupazione turca di un corridoio di 120 km dentro il Rojava, da Tal Abyad a Ras al Ain. Ieri ha mandato avanti il suo ministro degli Interni, il falco Suleiman Soylu, a minacciare di nuovo l’Europa: “Rimanderemo i membri dell’Isis nei loro paesi, anche se gli è stata revocata la cittadinanza”. Si parlerebbe, secondo Ankara di circa 1.200 foreign fighters dello Stato Islamico detenuti nelle prigioni turche, di cui 287 (45 turchi e 242 di 19 diverse nazionalità) catturati durante l’operazione “Fonte di pace” con cui la Turchia ha invaso il nord est della Siria il 9 ottobre scorso. Di per sé non è un’affermazione campata in aria, rimpatriare i miliziani stranieri dell’Isis. Iraq docet, verrebbe da dire, visto che Baghdad da mesi porta avanti processi affatto equi contro miliziani e loro familiari, soprattutto donne, condannati in cinque minuti alla pena capitale. Alle autorità irachene alcuni governo, in primis quello francese, hanno promesso denaro sonante pur di tenerseli. Ma Erdogan omette una serie di elementi. In primo luogo il ruolo di facilitatore che Ankara ha avuto per anni nel far transitare e nell’armare Daesh, come dimostrato da reportage giornalisti che sono costati all’ex direttore del quotidiano Cumhuriyet Can Dundar mesi di prigione e l’esilio. In secondo luogo non si capisce bene chi siano: secondo Soylu si tratta di 1.200 miliziani entrati in Turchia, lì catturati e poi spediti in centri per il rimpatrio (di cui buona parte turchi e non stranieri). Trattamento diverso da quello che sembrerebbe riservato ai miliziani ancora in Siria: i bombardamenti turchi hanno provocato l’evasione di centinaia di miliziani e loro familiari dal centro di detenzione di Ain Issa, gestito dalle Forze democratiche siriane (Sdf), guidate dai curdi, mentre - secondo fonti dell’amministrazione Usa a Foreign Policy - le milizie islamiste alleate della Turchia avrebbero deliberatamente liberato prigionieri dell’Isis dalle carceri curde. “Secondo l’Amministrazione autonoma del Rojava 785 affiliati all’Isis sono scappati - ci spiega il Rojava Information Center - Tra questi belgi e francesi. Alcuni si sono uniti alle milizie islamiste: sono di più quelli passati con altre milizie che quelli ricatturati. Abbiamo un database di oltre 40 individui basato su ricerche locali e fonti di intelligence che lo dimostrano. A questi potremmo aggiungerne altri cinque”. Un database in cui sono raccolti nomi, luoghi di provenienza, fonti che attestano il loro passaggio ad altre milizie, il luogo attuale di “attività” e il ruolo. Molti sono stati reclutati durante l’offensiva e la successiva occupazione del cantone curdo di Afrin, tra gennaio e aprile 2018. Altri in questo periodo, sotto “Fonte di pace”. Questi quelli identificati, ma probabilmente si tratta di una stima per difetto (l’Osservatorio siriano per i diritti umani, ong basata a Londra e parte del fronte di opposizione al presidente siriano Assad, parla di almeno 150 “migrazioni”). In ogni caso a oggi sono le Sdf che controllano i campi di detenzione di miliziani dell’Isis nel nord est siriano, ad eccezione di Ain Issa, in mano turca, dove sono però detenuti soprattutto familiari tra cui le note “spose” Lisa Smith, irlandese, e Tooba Gondal, britannica. Intanto, tra una minaccia di Erdogan e l’altra, nel Rojava la guerra prosegue. Domenica un medico birmano dell’ong Free Burma Rangers, Zau Seng, è stato ucciso a Tel Temer dall’artiglieria turca che ha colpito un’ambulanza. Le Sdf hanno respinto attacchi a est di Ain Issa. Turchia. Torna libero Altan, dopo 3 anni di carcere per il tentato golpe di Marco Ansaldo La Repubblica, 5 novembre 2019 Lo scrittore Ahmet Altan, 69 anni, uno degli intellettuali più celebri in Turchia, ex direttore di giornale e autore di libri noti in Italia, torna in libertà dopo più di 3 anni di carcere. Il tribunale d’appello di Istanbul ne ha disposto ieri sera la scarcerazione. Grande la felicità, ma anche la cautela nella famiglia: lo scorso anno era stato già rilasciato, ma una corte ne aveva disposto il nuovo arresto nemmeno 24 ore dopo. Ieri mattina, difatti, il pubblico ministero aveva chiesto per lui e per la giornalista tv ed ex deputata Nazli Ilicak, 75 anni, una condanna a 10 anni di carcere. Ma la richiesta, formulata in un nuovo processo dopo che era stata emessa per entrambi la pena dell’ergastolo, era stata rovesciata dalla Suprema Corte d’appello a luglio, benché non ratificata. Nella serata di ieri nuovo colpo di scena, con l’annuncio dell’imminente scarcerazione. Tutti e due i giornalisti erano stati accusati di avere favorito il golpe, poi fallito, del 15 luglio 2016 contro il presidente Recep Tayyip Erdogan per averne parlato in tv due giorni prima che avvenisse. Erano stati fermati nelle ore successive al mancato colpo di Stato. Assieme a loro era stato imprigionato anche il fratello di Ahmet, Mehmet Altan, noto economista di tendenze marxiste, rilasciato solo nei mesi scorsi. Per Altan e Ilicak è stata ora disposta la libertà vigilata. Ahmet Altan in Turchia è considerato un campione degli intellettuali liberal. Fondatore del quotidiano Taraf durissimo con la casta militare, era stato poi accusato di ricevere fondi dal predicatore Fethullah Gulen considerato da Ankara come la mente del golpe, e il quotidiano era stato così chiuso pur costituendo una vera novità nel panorama editoriale turco. Altan è autore di romanzi e saggi, tra cui una surreale descrizione del proprio processo nel diario “Non rivedrò più il mondo”.