La spinta alla normalizzazione delle carceri. Ora la riforma o il caos di Franco Corleone L’Espresso, 4 novembre 2019 Un silenzio inquietante circonda la vita delle carceri. Il sovraffollamento ha ripreso a mordere e il clima negli istituti penitenziari è peggiorato in maniera preoccupante: aggressioni, suicidi e atti di autolesionismo sono diventati sempre più frequenti. Occorrerebbe una ripresa del processo riformatore dopo la caduta del progetto costruito dagli Stati generali e invece l’amministrazione penitenziaria pensa di risolvere l’insostenibilità di una condizione insopportabile per i detenuti e il personale tutto (direttori, polizia penitenziaria, educatori) dando il via a un riordino dei poteri di gestione esautorando i direttori della responsabilità e del coordinamento. Cento direttori hanno firmato un documento di protesta non per ragioni corporative ma per salvare lo spirito della riforma del 1975. La smilitarizzazione del Corpo degli agenti di custodia si muoveva nella logica di affidare le esigenze della sicurezza a personale qualificato e partecipe ai processi di risocializzazione dei detenuti. Purtroppo quella illusione non si è realizzata per lo scarso numero di educatori confinati nella marginalità e solo la presenza dei volontari ha consentito di praticare attività di studio e di lavoro. La Conferenza dei Garanti il 4 e 5 ottobre a Milano aveva lanciato la proposta di convocare nella prossima primavera una nuova sessione degli Stati generali per riprendere il filo dei principi della Costituzione. Ora è scoppiata una vera emergenza democratica e occorre organizzare in tutte le carceri appuntamenti per una discussione pubblica e collettiva su quale carcere si vuole realizzare. Pietro Nenni in un momento drammatico lanciò la parola d’ordine: La repubblica o il caos. Oggi le associazioni del volontariato, i movimenti che si battono per il diritto e i diritti, i direttori, i detenuti, gli educatori e gli assistenti sociali e gli stessi agenti della polizia penitenziaria devono prendere parola per fermare una deriva irresponsabile e pericolosa. Esecuzione della pena: un ennesimo attacco ai principi costituzionali di Osservatorio Carcere Ucpi camerepenali.it, 4 novembre 2019 Lo schema di Decreto legislativo in materia di revisione dei ruoli delle Forze di Polizia, agli arti. 29 - 35 prevede la riforma anche del Corpo di Polizia Penitenziaria aumentandone i poteri e riducendo, di fatto, quelli della Dirigenza amministrativa. Il virus carcerogeno, che ha invaso il nostro Paese e che ormai senza differenze di colori, sia giallo-verde, che giallo-rosso, stravolge i principi fondamentali del diritto e del processo penale, sta per infliggere il colpo di grazia al principio di rieducazione del condannato e a tutti gli altri che tutelano la dignità dei detenuti. Come per la “vita libera” si ritiene di raggiungere risultati aumentando i minimi e i massimi edittali delle pene ed elaborando nuove fattispecie penalmente rilevanti, ignorando che sarebbe meglio intervenire sulle cause che generano condotte illecite, così per la “ vita detentiva” si vuole esclusivamente una logica securitaria e per raggiungere lo scopo si è previsto di marginalizzare la figura del Direttore dell’istituto, a vantaggio di un maggiore potere riconosciuto al Corpo della Polizia Penitenziaria. Una vera e propria militarizzazione del carcere, dove il personale amministrativo viene considerato “estraneo” e probabilmente inutile e d’intralcio al vero obiettivo che è quello di “buttare la chiave “e far “marcire” i detenuti. Lo dimostra inequivocabilmente il trattamento riservato alla Dirigenza Penitenziaria negli ultimi anni. I posti vacanti non sono stati riempiti e i Direttori sono spesso costretti ad occuparsi di più strutture a volte anche lontane tra loro. Si è ritenuto di riorganizzare la Polizia Penitenziaria, mentre la Dirigenza attende il contratto dal 2006. L’Ordinamento Penitenziario ha affidato al Direttore dell’istituto il ruolo centrale di Garante della legalità, secondo i principi inviolabili di equità ed umanità. La ventilata riforma è destinata, invece, a creare una pericolosa alterazione degli equilibri di gestione dell’istituto a scapito anche della governabilità degli stessi, avuto riguardo non solo alla sicurezza, ma anche al trattamento. Lo schema di decreto prevede l’affidamento al Corpo di Polizia Penitenziaria del potere disciplinare, della valutazione dirigenziale, della partecipazione alle commissioni selettive del personale e ai consigli di disciplina, di posti e funzioni di Dirigenza generale, campi di azione che vengono sottratti alla Dirigenza amministrativa. A tale progetto di revisione del sistema penitenziario, che lo fa regredire agli anni precedenti all’entrata in vigore dell’Ordinamento e quindi ad un’idea del carcere esclusivamente punitiva, si aggiunge che i nuovi e delicati compiti affidati al Corpo di Polizia Penitenziaria prescindono da una pregressa formazione. Circostanza che lascia intendere che vero scopo della riforma è, di fatto, annullare la figura del Direttore quale persona che possa mediare tra le esigenze trattamentali e quelle di sicurezza. Carcere è sicurezza, sicurezza è carcere, questi i temi che la politica sbandiera in ogni occasione. Non esiste una vera opposizione a questo andamento che lentamente sta trascinando il nostro Paese in uno stato di Polizia. Non osiamo immaginare cosa altro possa accadere, ma certo in questo clima la Magistratura di Sorveglianza e i Garanti delle persone ristrette potrebbero essere i prossimi obiettivi. Occorre su questi temi una forte mobilitazione delle forze sane del Paese. L’Unione Camere Penali Italiane, con il proprio Osservatorio Carcere continuerà a lottare per la difesa della Costituzione ed ancora e sempre per un carcere che rispetti la dignità dei detenuti. Perché il 70% dei detenuti torna a commettere reati? di Milena Gabanelli e Simona Ravizza Corriere della Sera, 4 novembre 2019 Cominciamo con una domanda: in Italia, il 70% dei carcerati, una volta scontata la pena, torna a delinquere. Cosa non funziona visto che lo scopo della pena è proprio quello di riabilitare? Nelle 190 carceri italiane ci sono 60.552 detenuti che costano, incluse le spese per la sicurezza, 4.000 euro al mese a testa. Complessivamente il sistema penitenziario pesa sul bilancio dello Stato per 2,9 miliardi l’anno. In Europa solo Russia e Germania spendono più di noi. I condannati in via definitiva sono 41.103, che devono pagare le spese di giustizia e quelle per il loro mantenimento in carcere. Ma solo poco più del 2% salda il conto, gli altri i soldi non li hanno, e le richieste pendenti di carcerati che, una volta fuori, chiedono la cancellazione del debito sono oltre 4.300 l’anno. Cosa dice la legge - L’articolo 15 dell’ordinamento penitenziario, individua nel lavoro uno dei pilastri rieducativi, e stabilisce che deve essere assicurato, incentivato, remunerato. Vuol dire che durante la detenzione i condannati in grado di lavorare, e che lo desiderano, devono seguire corsi di formazione e svolgere con regolarità un mestiere che li aiuti a reinserirsi nella società. Con la retribuzione potranno così rimborsare lo Stato, aiutare un po’ la famiglia, e non trovarsi le tasche vuote a fine pena. La paga è fissata a due terzi di quanto stabilito dai contratti collettivi. Lo stanziamento dello Stato per le retribuzioni dei carcerati nel 2018 ha raggiunto i 110 milioni di euro (erano 60 fino al 2016). Negli ultimi 2 anni sono aumentate anche le paghe, ferme dal 1994: più 80%. Quanti detenuti lavorano mentre scontano la pena - Nel 2018 i detenuti impiegati in un lavoro erano 17.614 (in calo del 4,3% in numeri assoluti rispetto al 2017). Di questi, il 25% lavora fra le 3 o 4 ore al giorno e a rotazione, ovvero un giorno sì e due no. Si tratta di attività alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria: addetti alle pulizie e alla cucina, alla manutenzione ordinaria del fabbricato, lavanderia, spesa, cuochi e aiuto cuochi, oppure piantoni, scopini e scrivani. Anche la remunerazione individuale di conseguenza varia ed è difficilmente quantificabile, se non attraverso i parametri di riferimento: dai 150 euro al mese per uno scopino impiegato 3 ore al giorno, ai 650 euro per il cuoco che ne lavora 6. Dallo stipendio viene trattenuto il vitto: 3,60 euro al giorno. I detenuti che svolgono invece un’attività regolare sono soltanto 2.386 (il 3,9%). Lavorano in carcere per conto di ditte esterne, oppure alle dipendenze di società e cooperative, uscendo la mattina e rientrando la sera. Come avviene in tutta Europa, per chi assume carcerati, la legge prevede sgravi fiscali: i 4 milioni di euro a disposizione nel 2019 sono stati richiesti da 9 società. Risultati - In totale quindi circa il 29% svolge una mansione, il grosso una tantum, e fa mestieri difficilmente spendibili una volta scontata la pena. Gli altri sono tenuti per anni a giocare a carte o a guardare la tv, e non bastano le lodevoli e pur indispensabili attività culturali date in gestione alle cooperative o quelle del volontariato. Se si esclude il modello avanzato del carcere di Bollate, dove su 1.288 detenuti lavorano in 500, e il tasso di recidiva non supera il 18%, il risultato è un costo sociale incalcolabile. Le statistiche sono chiare: il 68,4% di chi non ha svolto nessuna attività torna a delinquere, il tasso si riduce all’1% per chi è stato inserito in un circuito produttivo. Il meccanismo paradossale - Il problema è che i 110 milioni stanziati dallo Stato per le retribuzioni non bastano a far lavorare tutti. E chi, pur di non stare a far niente, è disponibile a lavorare anche gratis, non gli è permesso, proprio perché in assenza di remunerazione, è considerato “lavoro forzato”. Eppure affidare lavori di regolare manutenzione carceraria, per esempio, eviterebbe quel degrado che poi viene tamponato con appalti esterni, e sarebbe utile anche per ridurre il sovraffollamento per cui l’Italia paga multe all’Europa. Nelle nostre carceri ci sono 10.000 detenuti in più rispetto ai posti disponibili, anche a causa di camerate o intere sezioni fuori uso per inagibilità o lavori in corso: al 14 febbraio 2019 quelle inutilizzabili sono pari al 6,5% del totale. I casi limite: ad Arezzo da più anni su 101 posti solo 17 sono disponibili, a Gorizia 24 dei 57 previsti, e in Sardegna il 13% dei posti ufficiali è inutilizzabile. Come funziona nelle carceri avanzate - Le carceri francesi e tedesche non sono messe molto meglio delle nostre, però riescono a far lavorare rispettivamente quasi il 50% e il 65% dei detenuti. Sta di fatto che il tema dei soldi per le retribuzioni è comune in tutti i Paesi occidentali, ma in Olanda, Irlanda, Austria e alcuni Stati americani hanno affrontato la questione con un altro ragionamento: siccome devo far lavorare tutti, ma i soldi per pagarli non li ho, l’Amministrazione penitenziaria calcola uno stipendio virtuale, dal quale trattiene le spese di giustizia e di mantenimento, e dà al detenuto la differenza. Dentro al carcere vengono organizzate attività che rendono la struttura indipendente (muratori, falegnami, sartoria) e stipulati accordi con aziende private. L’amministrazione incassa il dovuto e retribuisce il detenuto applicando lo stesso meccanismo. Quasi tutti accettano il programma e, in cambio, ottengono sconti di pena, più visite, permessi e un mestiere in tasca quando escono. Il risultato: recidive bassissime. In Italia si fa il contrario. I lavori di pubblica utilità - Uno degli obiettivi della riforma dell’ordinamento penitenziario dell’ottobre 2018 è di incentivare i lavori di pubblica utilità presso i Comuni o altri enti pubblici. I detenuti ricevono un corso di formazione qualificante e dopo un primo periodo di attività volontaria e gratuita potranno ottenere un sussidio finanziato dalla Cassa Ammende. Ma i numeri sono ancora bassi: i detenuti coinvolti dai Comuni sono stati 4.500 di cui 1.000 a Roma. La capitale li sta impiegando a rotazione per la manutenzione stradale, la pulizia del verde e il rifacimento delle strisce pedonali. Ma la maggior parte dei sindaci temono le “paure” dei loro cittadini, e così preferiscono lasciare strade, muri e giardini sporchi. La riforma che non parte - Oltre che incentivare il lavoro, per i condannati a pene lievi è considerata necessaria anche la revisione dei criteri per l’accesso alle misure alternative alla detenzione, come l’affidamento in prova ai servizi sociali, la semilibertà e la liberazione anticipata. Sono misure adottate da tempo e con successo, nel Nord Europa. Era quanto previsto sempre nel provvedimento di revisione dell’ordinamento penitenziario, ma il decreto attuativo è stato stoppato a ridosso delle elezioni del 4 marzo 2018 e da allora la riforma langue. In tutto questo, per Strasburgo il nostro problema più urgente è cancellare la legge che vieta i permessi premio agli ergastolani mafiosi. E la Consulta gli ha dato pure ragione. Ergastolo, nuovi spiragli. Permessi premio anche a chi non collabora di Marzia Paolucci Italia Oggi, 4 novembre 2019 La giudice Vertaldi (Tribunale Sorveglianza di Roma): “pronuncia incoraggiante”. Magistratura di Sorveglianza con numeri troppo esigui per una categoria che con 233 unità - dati ministeriali del 2017 - rappresenta appena il 2,6% della magistratura ordinaria e un carico di lavoro crescente per via di un aumento esponenziale delle misure alternative al carcere passate dalle 22.957 del 2011 alle 44.290 del 2017. Questo giudice della pena, che opera in silenzio una volta pronunciata la sentenza, lontano dai riflettori di processi mediatici e relative sentenze passate in giudicato, ha il duplice ruolo di magistrato di sorveglianza, organo monocratico per le questioni minori come ricorsi e reclami che quello di membro togato del tribunale di Sorveglianza, organo collegiale di distretto di Corte d’appello, responsabile delle decisioni più importanti a cominciare dalla concessione e revoca delle misure alternative alla detenzione. Troppo lavoro in carceri sovraffollate e troppo pochi i magistrati chiamati a farvi fronte tra scoperture e sedi vacanti strategiche come quella del Tribunale di sorveglianza di Roma senza presidente per oltre un anno prima che l’incarico venisse conferito due anni fa all’attuale presidente Maria Antonia Vertaldi. “Bisogna intervenire sulla pianta organica della nostra magistratura non più rivista dal 1975”, sintetizza il magistrato al vertice dell’ufficio. “Altra emergenza è la mancanza di amministrativi con una scopertura del 37% e 18 magistrati che di volta in volta si avvicendano nella composizione dei collegi giudicanti per la trattazione dei procedimenti camerali”. Al 3 gennaio 2019, in base al XV Rapporto sulle condizioni di detenzione di Antigone, i detenuti al 41bis erano 748, al 31 ottobre 2019 il Tribunale di Sorveglianza di Roma registra per i condannati al carcere duro, l’aumento a 757 e un totale di 1225 ergastolani di cui non si sa quanti siano quelli in regime di “41bis”. Ed è proprio sul “carcere duro” di questi detenuti che siano usciti da percorso del “41bis” dell’Ordinamento penitenziario (Op) per crimini particolarmente efferati come quello di terrorismo, eversione dell’ordine democratico e associazione mafiosa, che la categoria dei magistrati di sorveglianza si è ritrovata ultimamente coinvolta in un acceso dibattito. La Consulta che nel 2003 aveva difeso l’ergastolo ostativo sostenendo che la mancata collaborazione con la giustizia fosse una scelta del condannato, il 23 ottobre scorso, cambiando idea, ha bollato il 41bis dell’Op come “incostituzionale” affermando il principio secondo cui vanno concessi permessi premio anche ai mafiosi che abbiano scelto di non collaborare con la giustizia ma che partecipino al percorso rieducativo della pena restando estranei all’associazione criminale e senza più collegamenti con la criminalità organizzata. Una decisione che ha spaccato ìl collegio giudicante vista la contrarietà di 7 giudici contro gli otto favorevoli. “In virtù della pronuncia della Corte - si legge in una nota stampa del 23 ottobre -la presunzione di pericolosità sociale del detenuto non collaborante non è più assoluta ma diventa relativa e quindi può essere superata dal magistrato di sorveglianza, la cui valutazione caso per caso deve basarsi sulle relazioni del carcere e sulle informazioni e i pareri di varie autorità dalla Procura antimafia o antiterrorismo al competente Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica”. Per Vertaldi “si tratta di una pronuncia che restituisce alla nostra magistratura quell’attività di giurisdizione che la preclusione dell’articolo 4bis Op aveva congelato. L’ergastolo che senza collaborazione, impedisce la possibilità di vivere un momento di sperimentazione di sé in temporanei spazi di libertà come nel caso dei permessi premio trattati dalla sentenza della Consulta, va in contrasto con l’articolo 27 della Costituzione. Norma che prevede il concetto di rieducazione della pena, concetto da conquistarsi sul campo grazie al trattamento a cui il detenuto decide volontariamente di sottoporsi”. Di Matteo (Csm): “Solo l’ergastolo spaventa i mafiosi” Il Fatto Quotidiano, 4 novembre 2019 “La politica intervenga dopo la sentenza della Consulta: non può bastare buona condotta per i permessi ai boss”. Il magistrato membro del Csm ed ex pm del processo sulla trattativa Stato-mafia intervistato su Rai3: “La nostra è una situazione eccezionale. Abbiamo mafie che hanno raggiunto una potenza unica e che hanno avuto rapporti di collusione con esponenti della politica”. “L’ergastolo è l’unica pena detentiva a spaventare i capi della mafia”. Nino Di Matteo, il magistrato membro del Consiglio superiore della magistratura ed ex pm del processo Stato-mafia, intervistato su Rai 3 da Lucia Annunziata, ha ribadito la sua preoccupazione per il “varco” che si è aperto dopo le sentenze della Cedu e della Consulta contro l’ergastolo ostativo. “Auspico che il legislatore metta dei paletti”, ha detto, “e stabilisca che tipo di prova ci vuole per far accedere gli ergastolani ai permessi” perché “non può bastare la buona condotta carceraria”. Inoltre ha proposto un tribunale di sorveglianza nazionale che si occupi solo di questo “per evitare che i giudici sul territorio siano sottoposti a minacce e pressioni”. Il magistrato, che già aveva preso posizione dopo le storiche sentenze che hanno dato un duro colpo alla lotta antimafia in Italia, è partito da tre premesse per argomentare il suo discorso. Intanto ha appunto dichiarato che “l’ergastolo è l’unica vera pena detentiva a spaventare i capi della mafia”: “Ricordo sempre che Riina diceva ai suoi più stretti collaboratori: ‘Noi quindici anni di galera possiamo farli anche legati a una branda, ma dobbiamo batterci a tutti i costi contro l’ergastolo’”. La seconda considerazione invece è nata dal fatto che proprio “il tentativo di far attenuare l’ergastolo spinse Cosa Nostra a ricattare a suon di bombe lo Stato. Sono state commesse delle stragi proprio per quel risultato”, ha detto. E, come terzo punto, Di Matteo ha ricordato: “Fino a poco tempo fa dei capi mafia avevano iniziato a collaborare con la giustizia e poi non lo hanno fatto perché si attendevano l’apertura di un varco che evitasse l’ergastolo a vita”. Quindi ha concluso: “Massimo rispetto per la sentenza della Corte costituzionale che muove dall’esigenza di equiparare diritti costituzionalmente garantiti. Detto questo, io credo che sulla scia della sentenza dovremmo cercare di evitare che questo varco diventi molto più largo e che tutti i benefici possano essere concessi indiscriminatamente”. Perché, è la sua tesi, “abbiamo delle mafie che hanno raggiunto una potenza che non hanno raggiunto in altre parti. E abbiamo una mafia che ha avuto rapporti di collusione con esponenti della politica. La nostra è una situazione eccezionale che la Cedu non ha colto nelle sue sfaccettature”. Ergastolo ostativo. Di Matteo in tv rilancia la linea dura di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 4 novembre 2019 Nella prima apparizione televisiva dopo l’elezione (meno trionfale del previsto) al Consiglio superiore della magistratura, Nino Di Matteo ha parlato dei rapporti di Berlusconi e Dell’Utri con la mafia, in relazione “alla possibilità che ci sia la responsabilità di ambienti e persone non mafiosi nelle stragi del 92-93”. Il che ha fatto insorgere Forza Italia contro la Rai per la “vergognosa propaganda” (Gasparri) “senza contraddittorio” (Schifani”). Nulla di nuovo, se non che Di Matteo non parla più come pm antimafia titolare di indagini, ma come membro dell’organo di governo autonomo della magistratura. Unico a godere di una ribalta televisiva, con Piercamillo Davigo (al quale, però, anche gli avversari nel Csm riconoscono più prudenza). La prevedibile polemica con i berlusconiani rischia di mettere in secondo piano i tre messaggi di politica giudiziaria che Di Matteo ha lanciato. Destinatario, in primis, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, impegnato in una trattativa con gli altri partiti della maggioranza sulla riforma della giustizia. Avviata con segnali di disponibilità reciproca, ma ancora al palo. Sui benefici ai detenuti mafiosi, Di Matteo ha tracciato la via per attenuare gli effetti della recente sentenza della Corte costituzionale, in modo da mantenere per i boss un regime differenziato. Sulla riforma che interrompe la prescrizione dopo la sentenza di primo grado, Di Matteo ha detto che è d’accordo. Il che rafforza la bandiera di Bonafede (piantata ai tempi del governo gialloverde) contro la richiesta di Pd e Italia Viva di rinviarne l’entrata in vigore, prevista il 1° gennaio 2020, o almeno di limitarla in caso di processi troppo lunghi. Sulle intercettazioni Di Matteo boccia la riforma Orlando, che intendeva limitarne l’uso e la pubblicazione. Riforma che Bonafede aveva più volte rinviato. Anch’essa dovrebbe entrare in vigore il 1° gennaio 2020. Prescrizione e intercettazioni saranno sul tavolo del vertice di maggioranza, nei prossimi giorni. Di Matteo dà a Bonafede un assist per irrigidirsi su entrambi i temi. Finora il Pd ha tenuto un profilo basso. Ma a fronte di un irrigidimento, è pronto a fare asse con Italia Viva. E a bloccare anche il resto della riforma. Ergastolo ostativo per i boss: va bene eliminarlo? di Vincenzo Musacchio Gazzetta del Mezzogiorno, 4 novembre 2019 L’arresto di uno dei figli di “El Chapo Guzman” genera un violentissimo conflitto a fuoco tra le truppe dei trafficanti, la polizia e i militari a Culiacan, una delle roccaforti dell’ex re della droga detenuto attualmente negli Stati Uniti. Tutte le attività a Sinaloa sono state sospese con uffici pubblici chiusi e scuole evacuate. Un esercito di mercenari con centinaia di uomini pesantemente armati sono arrivati da ogni angolo dello Stato, pagati per liberare il figlio del Chapo. Ovidio Guzman è considerato l’erede al trono del Cartello di Sinaloa dopo l’uscita di scena del padre. Il conflitto a fuoco è durato per ore e i sicari giravano per la città sparando contro la popolazione che cercava riparo dall’enorme potenza di fuoco dei mercenari. Ovidio Guzman è stato rilasciato. Lo Stato non ha la forza per reagire. Che cosa potrebbe succedere se, nonostante il loro non pentimento e la loro non collaborazione, dal carcere a vita uscissero: Raffaele Cutolo, fondatore e capo della Nuova camorra organizzata, condannato a quattro ergastoli da scontare dal 1995 in regime di 41bis. Leoluca Bagarella legato a Cosa Nostra, affiliato al clan dei Corleonesi di Riina, killer spietato, “don Luchino” è stato autore di svariati omicidi e responsabile di alcuni tra i più gravi fatti di sangue, tra cui la Strage di Capaci e il sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo, è all’ergastolo in regime di carcere duro (41bis). Nitto Santapaola è considerato tra i più potenti e sanguinari boss mafiosi di Cosa Nostra. Francesco Schiavone il boss più importante del clan dei Casalesi, condannato definitivamente alla pena dell’ergastolo. Francesco Bidognetti, braccio destro di Schiavone e killer spietato autore di numerose esecuzioni. Giovanni Strangio, ‘ndranghetista, è tra gli ideatori e gli autori della strage di Duisburg. Giuseppe Rogoli boss di alto rango della ‘ndrangheta, affiliato ai Bellocco, è considerato uno dei fondatori della Sacra corona unita pugliese. Questi sono solo alcuni dei nomi tra i più pericolosi criminali nel panorama europeo, non solo italiano, che potrebbero uscire dal carcere. Ma davvero pensiamo che per queste persone che non hanno mai collaborato e rinnegato la loro vita e le loro condotte criminali possa esserci rieducazione e risocializzazione? Non si sceglie di diventare mafioso, si nasce. Lo è tuo padre, lo è stato probabilmente anche tuo nonno. Perché capo mafia si cresce e si viene formati per diventare un perfetto generale di un’armata criminale. Questo ruolo è assoluto e non abdicatile. Esistono solo due vie di fuga: la morte o la collaborazione con la giustizia. Per questi ferocissimi boss mafiosi si dovrebbe dimostrare che dopo una lunga carcerazione non sono più pericolosi e che possono beneficiare di permessi e magari arresti domiciliari. Questo dovrebbe valutarlo e deciderlo un giudice. Io sono convinto che qualsiasi boss di quelli appena citati se uscisse dal regime carcerario duro tornerebbe l’istante dopo a esercitare il suo vecchio potere e a riorganizzare il suo vecchio clan. “La sentenza della Consulta potrebbe riportare la lotta alle mafie indietro di 40 anni” di Nicola Cundò infooggi.it, 4 novembre 2019 Intervista a Vincenzo Musacchio, giurista, già docente di Diritto penale in varie Università italiane e presidente dell’Osservatorio Antimafia del Molise, studioso del fenomeno mafioso e delle strategie di lotta da circa venticinque anni. E’ tra quelli che non condividono la sentenza sull’ergastolo ostativo di pochi giorni fa. I giudici della Consulta invitano a rivedere l’ergastolo ostativo per concedere benefici penitenziari ai condannati non pentiti, che ne pensa lei da esperto della materia? I boss, purtroppo per noi, torneranno a brindare così come fecero quando hanno fatto saltare in aria Falcone, sua moglie e gli uomini della sua scorta! Era ciò che si aspettavano dallo Stato italiano da molto tempo. Passa il concetto che anche il più feroce assassino alla fine esce dalla galera. Un segnale di nuova sconfitta delle istituzioni. Si rischia di cancellare tutti i successi ottenuti proprio grazie alla nostra legislazione antimafia. Ci spiega meglio? Certamente. E lo faccio con gli insegnamenti di Giovanni Falcone. Il mafioso che ha giurato fedeltà all’organizzazione criminale di appartenenza, una volta uscito dal carcere, non potrà non tornare a servirla fino alla morte. Non dobbiamo mai dimenticarci che i mafiosi di cui parliamo sono stragisti o persone che ne hanno seguito le strategie senza batter ciglio. Personalmente credo che la necessità di evitare rapporti tra gli esponenti carcerati e quelli a piede libero sia irrinunciabile. Ricordiamoci bene che riscontri oggettivi e probatori nei vari processi per mafia comprovano chiaramente che la detenzione dell’imputato di delitti di mafia non interrompe né sospende il vincolo associativo né sostanzialmente impedisce al detenuto di concorrere alla consumazione di gravi reati all’esterno degli stabilimenti carcerari con istigazioni, sollecitazioni, ordini e altre similari attività. Quello che questi giudici non hanno valutato congruamente è che un capomafia resta tale per tutta la vita. La Corte Costituzionale in parole povere cosa ha sancito? La Consulta fa cadere il divieto per i condannati che abbiano fornito piena prova di partecipazione al percorso rieducativo e se l’autorità ha acquisito prove che non c’è più partecipazione all’attività criminale. Stabilisce, inoltre, che si valuti caso per caso. La sentenza ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4bis, comma 1, dell’ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. Sempre che, ovviamente, il condannato abbia fornito piena prova di partecipazione al percorso rieducativo. In virtù di questa pronuncia, la presunzione di “pericolosità sociale” del detenuto non collaborante non è più assoluta ma diventa relativa e quindi può essere superata dal magistrato di sorveglianza, la cui valutazione caso per caso deve basarsi sulle relazioni degli operatori penitenziari e sulle informazioni e i pareri di varie autorità, dalla Procura antimafia e antiterrorismo al competente Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica. In sostanza si è rivista la normativa antimafia voluta da Falcone? Esatto. Siamo di fronte al depotenziamento di una delle norme per il contrasto alla mafia proposte da Giovanni Falcone quando era direttore generale degli affari penali al Ministero di Grazia e Giustizia. Abbiamo toccato una norma che prevede la preclusione all’accesso dei benefici per i detenuti che si trovano all’ergastolo ostativo, cioè per chi non ha mai collaborato con la giustizia, né hanno avuto il benché minimo barlume di pentimento. Nel dibattito, pertanto, dovremmo includere anche il fatto che queste persone non solo non hanno mai espresso la volontà di collaborare ma non hanno mai rinnegato la loro vita e le loro condotte criminali. Questi criminali sono rieducabili secondo lei? Ritengo di no! Mi chiedo: in tali circostanze possono esserci rieducazione e risocializzazione? L’esperienza e lo studio di questi temi mi hanno insegnato che non si sceglie di diventare mafioso, si nasce. Lo è tuo padre, lo è stato probabilmente anche tuo nonno. Perché “capo mafia” si cresce e si è formati per diventare un perfetto generale di un’armata criminale che ha due scopi ben precisi: il potere e il denaro. Questo ruolo è assoluto e non abdicabile. Esistono solo due vie di fuga: la morte o la collaborazione con la giustizia. Per questi ferocissimi boss mafiosi si dovrebbe dimostrare che dopo una lunga carcerazione non sono più pericolosi e che possono beneficiare di permessi e magari arresti domiciliari. Questo dovrebbe valutarlo e deciderlo un giudice. Rischiamo di rivedere in permesso premio boss di alto calibro? Mi auguro di no. In caso contrario potremmo rischiare di rivedere in libertà, Raffaele Cutolo, fondatore e capo della Nuova Camorra Organizzata, condannato a quattro ergastoli da scontare dal 1995 in regime di 41bis, gli sono imputati numerosi omicidi ed esecuzioni. Leoluca Bagarella legato a Cosa Nostra, affiliato al clan dei Corleonesi di Riina, killer spietato, “don Luchino” è stato autore di svariati omicidi e responsabile di alcuni tra i più gravi fatti di sangue, tra cui la Strage di Capaci e il sequestro del piccolo Giuseppe Di Matteo, è all’ergastolo in regime di carcere duro (41bis). Nitto Santapaola è considerato tra i più potenti e sanguinari boss mafiosi di Cosa Nostra. A lui sono imputati la strage della Circonvallazione; la strage di Capaci; l’omicidio di Pippo Fava e la strage di via D’Amelio. Francesco Schiavone il boss più importante del clan dei Casalesi, condannato definitivamente alla pena dell’ergastolo, insieme con altri componenti del clan coinvolto in alcune guerre fra diversi clan camorristici, nelle quali hanno perso la vita centinaia di persone. Francesco Bidognetti braccio destro di Schiavone e killer spietato autore di numerose esecuzioni. Giovanni Strangio ndranghetista, è tra gli ideatori e gli autori della strage di Duisburg ed era nell’elenco dei trenta latitanti più pericolosi d’Italia. Giuseppe Rogoli boss di alto rango della ‘ndrangheta, affiliato ai Bellocco, è considerato uno dei fondatori della Sacra corona unita pugliese. Sono tuttavia fermamente convinto che ogni singolo boss tra quelli appena citati se uscisse dal regime carcerario duro, tornerebbe l’istante dopo a esercitare il suo vecchio potere e a riorganizzare il suo clan più forte e potente di prima. Questi sono criminali che non si sono mai pentiti e non hanno mai collaborato con la giustizia perché dovrebbero beneficiare di un trattamento di favore? Ho sempre ritenuto che il mafioso che non mostra alcun segnale di pentimento e permane in perpetuo all’interno del sodalizio, deve avvertire il peso dell’afflizione e la forza dello Stato poiché la scopo della pena è anche la difesa della società dalla delinquenza e altresì la repressione dei reati in chiave retributiva. La criminalità organizzata va contrastata con strumenti repressivi drastici e il più possibile funzionali alla prevenzione generale e alla difesa sociale. Siamo concordi nel ritenere che il delinquente (a prescindere dal tipo di reato commesso e dal livello di pericolosità) sia titolare di una dignità umana inalienabile e convinti che nessun uomo sia definitivamente irrecuperabile e di conseguenza ogni delinquente, è potenzialmente capace di miglioramento grazie a interventi di tipo rieducativo. Il punto in tal contesto è un altro. E’ ovvio che quando si palesassero segnali di eventuale redenzione, l’ordinamento penitenziario preveda la possibilità di attenuare il rigore della pena. Meccanismo, peraltro, già esistente nel nostro ordinamento penitenziario. Pertanto, il proposito di abolire l’ergastolo in questo specifico contesto trova in sé ben poche ragioni d’essere, visti gli istituti premiali già esistenti nella vigente legislazione. Chi si rifiuta di essere rieducato deve essere trattato al pari di chi invece accetta la rieducazione e lo fa con atti concreti? Che senso ha rieducare chi non vuol essere per nulla rieducato tantomeno risocializzato? Vorrei che mi si spiegasse come si può rieducare uno che non vuol essere rieducato! Se esiste il diritto alla libertà morale (inviolabile in base all’art. 2 Cost.) la persona può decidere di non volersi rieducare e risocializzare? Se esiste l’uguaglianza tra i cittadini (anch’essa inviolabile ai sensi dell’art. 3 Cost.) si possono applicare trattamenti simili quando sarebbe la loro applicazione a determinare delle discriminazioni? Saremmo capaci di rieducare uno che ordina di sciogliere il figlio di un pentito di mafia nell’acido per punire la sua decisione e per dare un monito a tutti gli altri associati? Chi ordina delitti efferati come l’uccisione di un bambino senza essersene mai pentito può godere del principio di rieducazione se non rinnega minimamente il suo passato, anzi ne va orgoglioso? Non basta il pentimento e il perdono, il reo deve risarcire concretamente le vittime, i familiari e la società con la propria opera sia da carcerato sia da uomo libero. Come mai lei a differenza di molti altri giuristi è contro questa sentenza? Non sono contro, semplicemente ne analizzo gli effetti deflagranti per cui, pur rispettandola, non ne condivido la sostanza. Falcone e Borsellino che conoscevano i mezzi per combattere la mafia avevano capito l’importanza di tali strumenti e pagarono con la vita la loro forte azione repressiva. A chi è nemico dello Stato, non devono concedersi attenuanti e sconti di pena. La lotta alle mafie deve i suoi notevoli successi proprio ai mafiosi ergastolani che per vedersi aprire le porte del carcere non hanno potuto limitarsi a una dissociazione psicologica dalla mafia, ma hanno collaborato con lo Stato rendendo dichiarazioni utili alla conoscenza e alla sconfitta delle mafie. Si dovrebbe invece dare un segnale forte: ergastolo, 41bis effettivo ed efficace e confisca dei beni. Secondo lei vi è contrasto tra l’ergastolo ostativo e art. 27 della Costituzione? La rieducazione di un mafioso è impossibile poiché dovrebbe implicare perlomeno un mutamento profondo e sensibile della personalità, una sorta di “pentimento civile” inclusivo di momenti di riconciliazione e soprattutto riparazione nei confronti delle vittime e delle rispettive famiglie. Un concetto così impegnativo di rieducazione, denso d’implicazioni anche etiche, va ben di là dalla nozione più laica finora adottata dalla Consulta: la quale identifica il ravvedimento con l’acquisita capacità, da parte del condannato che interrompe lo stato detentivo, di rispettare le regole della convivenza sociale. La sentenza della Consulta, di fatto, ha rimesso tutto nelle mani del singolo giudice di sorveglianza che dovrà valutare ai fini del trattamento di reclusione se accordare o no il permesso o la libertà condizionale. In questo modo purtroppo si scarica sugli operatori penitenziari e sociali che redigono le relazioni trattamentali in cui descrivono il comportamento del detenuto e sul singolo giudice di sorveglianza la responsabilità della decisione finale. In tal modo chi dovrà decidere sarà inevitabilmente sottoposto alle eventuali “pressioni” dei mafiosi condannati al carcere a vita. In questo modo, a mio giudizio, si ritorna al regime che vigeva prima delle stragi del 1992, quando il carcere per i mafiosi era una villeggiatura dalla quale si continuavano a esercitare a pieno i poteri propri di un capo mafia. Potrebbe essere molto rischioso confondere questo delicatissimo tema con quello della rieducazione di condannati, anche a pene severe, che però non operano all’interno della criminalità organizzata. Se malauguratamente dovessero uscire dal carcere mafiosi del calibro di Cutolo, Bagarella o Santapaola dovremmo realmente cominciare a preoccuparci e non poco! L’insicurezza urbana non è irrisolvibile di Gerardo Villanacci Corriere della Sera, 4 novembre 2019 Gli ultimi episodi di violenza urbana, tra i quali in primo piano l’uccisione del giovane romano avvenuta il 25 ottobre scorso, un episodio le cui indagini per giungere alla verità dei fatti si profilano lunghe e complesse, hanno riaperto il dibattito, in verità mai sopito, sulla sicurezza urbana. Prima di altro, è opportuno valutare se i numerosi interventi legislativi, a partire dal decreto sicurezza del 2008 (D.L. n. 92/2008) fino all’ultima legge di dicembre 2018 (L. n. 132/2018), hanno effettivamente conseguito lo scopo per il quale sono stati promulgati, ovvero quello di creare un nuovo e più efficace modello di sicurezza urbana, al fine di contrastare il sempre più crescente senso di inquietudine. E indubbio che, anche attraverso il graduale sviluppo culturale della popolazione, dei passi in avanti sono stati fatti. Oggi, diversamente dal passato, è opinione condivisa che la gestione della sicurezza oltre ad essere attribuita allo Stato centrale, soprattutto al fine di preservare condizioni di uniformità di prestazioni e tutele su tutto il territorio nazionale, debba essere sempre più affidata anche alle amministrazioni locali le quali, più di ogni altra istituzione pubblica, sono vicine ai cittadini e al contempo hanno maggiore conoscenza delle criticità ed esigenze della loro giurisdizione. Certo, non possiamo fingere di ignorare che la coesione sociale, ovvero la condivisione di valori culturali, di solidarietà e fiducia, che caratterizza una comunità e che rappresenta, come sostenuto da Emile Durkheim, uno dei presupposti essenziali della sicurezza urbana, nel nostro Paese risulti essere più elevato nelle regioni del nord e centro-nord rispetto a quelle del sud e centro-sud. Una stortura che si incunea nella più ampia tematica delle disuguaglianze e che potrà essere risolta soprattutto rafforzando il sentimento di unità nazionale. Per altri versi, è anche evidente che a partire dalle intuizioni di Philip Zimbardo, risalenti alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, passando dal noto saggio di George L. Kelling e James Q Wilson sulla teoria delle “Broken Windows”, si è giunti al convincimento che sussiste una stretta correlazione tra la sicurezza urbana ed il degrado sociale. Da qui la necessità di una maggiore attenzione verso le politiche abitative che devono essere volte a rimuovere i quartieri segregati, frutto di una edilizia pubblica errata, per eliminare l’emarginazione che affligge coloro che vi abitano. Un problema che non si risolve con il loro isolamento, come purtroppo è avvenuto. Non sono neanche più proponibili politiche di “tolleranza zero”, basate per lo più sull’inasprimento delle sanzioni. Una tecnica amministrativa che ha funzionato negli anni dal 1994 al 1996, nella New York violenta del Sindaco Rudolph Giuliani, determinando un calo del 40% di omicidi e una riduzione di reati del 30%, ma che sarebbe anacronistica nell’età presente, dove l’elemento centrale di contrasto alla violenza urbana è rappresentato dalla prevenzione. Ovviamente ciò non significa che il profilo sanzionatorio debba essere abbandonato, ma che lo stesso deve essere incentrato non sull’aumento delle pene bensì sulla effettiva esecuzione delle stesse. Semmai, da un punto di vista più tecnico-giuridico, rivisitando i minimi edittali e introducendo rigorosi criteri che impediscano di accedere con facilità ai numerosi benefici previsti dal nostro sistema giuridico. Non è possibile arrendersi all’idea che l’insicurezza urbana sia un problema irrisolvibile poiché endemico delle società moderne. Ancora meno deve essere sottovalutato il condizionamento negativo della sua percezione, sul presupposto che i dati reali documentano un calo dei reati. La sicurezza è un bene pubblico, che incide direttamente su tutti i diritti dei cittadini, compreso quello di libertà, per i quali lo Stato deve garantirne il godimento. Contrariamente da quanto accade per altri deplorevoli fenomeni, ad esempio per la corruzione, la percezione di insicurezza quand’anche non fondata su riscontri effettivi, degrada comunque la qualità della vita sociale. Per abbatterla bisogna intervenire sulle cause che la producono quindi, in primo luogo, sul carente sistema valoriale e legislativo ormai inadeguato a mantenere il passo con il progresso scientifico ed ambientale. Con la riforma della prescrizione sarà impossibile avere giustizia di Emilio Krogh ytali.com, 4 novembre 2019 Il giustizialismo sfrenato di una parte di politica in questi tempi buissimi riuscirà finalmente a soddisfare la voglia irrefrenabile di abolire diritti fondamentali e primo fra tutti quello a un giusto processo. Pochissimo tempo manca ormai all’entrata in vigore dell’interruzione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado e alla simultanea e definitiva dipartita del processo penale. Il giustizialismo sfrenato di una parte di politica in questi tempi buissimi riuscirà finalmente a soddisfare la voglia irrefrenabile di abolire diritti fondamentali e primo fra tutti quello a un giusto processo. E sì perché un procedimento penale durerà tali di quegli anni che sarà impossibile avere giustizia, nella sostanza sarà come morto per sempre. Ancora una volta attraverso una campagna mediatica e populista portata avanti a suon di tweet e di video su Facebook si è giocato su buonafede e ignoranza della popolazione volendo far credere che il decorso della prescrizione nel processo penale fosse non solo negativo ma addirittura una delle cause del non funzionamento della giustizia. Nulla di più falso e intellettualmente disonesto: qualunque addetto ai lavori sa bene che i processi durano troppo e in alcuni casi i reati si prescrivono solo ed esclusivamente per disfunzioni statali mai risolte che poi sono le stesse che ci consegnano una sanità disastrosa o una scuola piena di disfunzioni. I problemi sono a monte e probabilmente non c’è mai stata né c’è tutt’ora la volontà di risolverli mentre è molto più semplice “spararla” grossa con argomentazioni populiste che mirano alla pancia e portano manciate di voti in un’epoca in cui nessuno approfondisce nulla oltre un tweet, un video di Facebook o ancora peggio una fake news. L’interruzione del termine di prescrizione farà sì che i giudici, pur nelle disfunzioni esistenti destinate solo ad aumentare, non avranno più neanche quel limite temporale nella fissazione dei processi e dei successivi rinvii che oggi l’istituto della prescrizione impone loro di rispettare facendo salti mortali e gimcane in un sistema letteralmente allo sfascio. Sarà brevissimo il tempo che trascorrerà per renderci tutti conto del disastro partorito da questa riforma, compresi i suoi stessi sostenitori, molti dei quali direttamente o indirettamente cadranno nelle maglie di un procedimento penale per restarne invischiati per sempre. Perché nella vita nessuno è immune e al riparo da nulla, ricordiamocelo ogni giorno. La riforma della prescrizione condanna vittime e innocenti all’ergastolo processuale di Davide Bianchini reggionline.com, 4 novembre 2019 Colpi di piccone al giusto processo e al diritto di imputati e vittime di reati ad avere giustizia in tempi ragionevoli. E’ davvero giusto un processo che può non finire mai? Rispetta il principio della presunzione di innocenza? E rispetta il diritto della vittima di un reato ad avere giustizia in tempi ragionevoli? No. E non è una solo una questione di carte (costituzionale in primis) o di filosofia tra togati e giuristi. Dall’1 gennaio 2020 entrerà in vigore la riforma della prescrizione. Cosa prevede? Spiegato a pane e salame, dopo la sentenza di primo grado - anche di assoluzione - la prescrizione non ci sarà più. Il processo potrà durare in eterno. L’imputato, anche quando assolto in primo grado, sarà ostaggio della giustizia. Per dirla invece come quelli che parlano bene, la riforma prevede l’interruzione dei termini di prescrizione. Insomma, si va verso l’ergastolo processuale. Il testo è contenuto nella cosiddetta legge spazza-corrotti, di anima e impronta grillina, colpevolmente tollerata dalla Lega in tempi di matrimonio ancora felice. A onor del vero, il Carroccio fece pressioni per rinviare di un anno l’entrata in vigore del provvedimento, ma nulla più. Questa riforma è uno dei “regali” del primo Governo Conte. La speranza è che il Conte bis possa porvi rimedio, magari su impulso democratico, anche se al momento il tema è lontano dal dibattito dell’attualità politica romana. I rapporti tra le due anime dell’attuale esecutivo viaggiano su equilibri instabili, anche alla luce del verdetto elettorale in Umbria. Nel Movimento 5 Stelle la leadership di Luigi Di Maio è sempre meno salda. In casa Pd il consumato abbandono del tetto coniugale da parte di Renzi non ha ancora presentato il conto definitivo. Insomma, difficilmente gli alleati cercheranno nuovi motivi di scontro. Di certo la legge, almeno per quanto riguarda la prescrizione, fallirà i suoi obiettivi. Studiata per inchiodare i criminali più scaltri, che sono abituati a surfare tra rinvii e burocrazia per allungare i tempi dei processi e farla franca, la riforma finirà per colpire la maggioranza degli indagati e degli imputati, e in una certa misura anche le vittime. Era davvero necessario intervenire sulla prescrizione? Codice alla mano, la legge offre già a magistratura inquirente e giudicante tempi ampissimi per lavorare, soprattutto per quanto riguarda i reati gravi. Un Paese civile si dimostra tale quando riesce ad affrontare i problemi e a risolverli. Se parliamo di giustizia, quando riesce a punire i colpevoli, e quando riesce a farlo in tempi rapidi. La riforma terrà ostaggio i cittadini perbene, che siano imputati o vittime in attesa di vedere riconosciute le loro ragioni, e consentirà comunque ai professionisti del rinvio di rimandare all’infinito l’appuntamento con la cella. La giustizia è un malato grave. E’ davvero questa la medicina? Omicidi stradali, la stretta non abbatte gli incidenti di Maurizio Caprino e Valentina Maglione Il Sole 24 Ore, 4 novembre 2019 Ormai si può dire senza paura di sbagliare: la legge sull’omicidio stradale (la 41/2016) non ha contribuito a ridurre la mortalità. Lo dicono i dati sui primi tre anni di applicazione (da marzo 2016): lo scorso anno gli incidenti con lesioni a persone sulle strade italiane sono stati 172.553, appena l’1% in meno del 2015 e quelli mortali sono calati solo del 4,6%, passando da 3.236 a 3.086. Numeri che hanno a che fare anche con l’andamento fisiologico degli eventi: nel 2017 gli incidenti erano aumentati rispetto al 2015. Che gli effetti della legge sulla mortalità sarebbero stati scarsi lo dicevano anche le previsioni: se già gli inasprimenti sulle normali sanzioni (quelle per chi commette un’infrazione) lasciano il tempo che trovano perché non ci sono alte probabilità di incappare in controlli, a maggior ragione non si può pretendere deterrenza da pene anche severissime che scattano solo per chi causa un evento perlopiù inatteso come un incidente mortale o con feriti. Dunque, non si potevano pretendere miracoli dalla legge 41. Che va considerata per quello che è: un modo per punire in modo effettivo chi causa incidenti, rispondendo al bisogno di giustizia dei parenti delle vittime, spesso umiliati dall’atteggiamento di pirati della strada che, pur processati, evitano il carcere. Problema non solo italiano - D’altra parte, il problema dell’insufficiente riduzione della mortalità su strada non è solo italiano. È da vent’anni che la Ue fissa obiettivi di dimezzamento di decennio in decennio ma, dopo una “fiammata” iniziale, i miglioramenti sono calati un po’ ovunque e i target restano lontani. L’Italia, con il calo dei morti del 42% nel periodo 2001-2010 e del 19% tra il 2011 e il 2018 è in linea con le medie europee. I buoni risultati di inizio secolo corrispondono al diffondersi di auto e mezzi pesanti sempre più sicuri: negli anni 90 airbag e Abs sono divenuti di serie e vi si stava aggiungendo anche il sistema anti-sbandata Esp. Il resto lo hanno fatto soprattutto l’estensione dei controlli di velocità con apparecchi più performanti, un maggior contrasto ad alcol e droga e innovazioni normative come la patente a punti. Più o meno gli stessi strumenti a disposizione oggi. E già dieci anni fa la Ue aveva capito che non bastavano per ottenere altri progressi significativi. Tanto che, nel fissare il dimezzamento per il decennio in corso, ha evocato interventi anche esterni al classico triangolo uomo-veicolo-strada. Per esempio, invitava a migliorare rapidità e qualità dei soccorsi. Assistenza alla guida e scatola nera - Una controprova della difficoltà di migliorare i risultati con gli strumenti tradizionali viene dal fatto che gli Stati virtuosi già da prima che la Ue fissasse obiettivi (Europa nord-occidentale e Scandinavia) non sono tra quelli che hanno ottenuto i risultati più eclatanti dopo i target europei. Miglioramenti potrebbero arrivare solo quando si diffonderanno Adas (sistemi di assistenza alla guida) e scatola nera, che la Ue ha reso obbligatori dal 2022. Ma gli Adas, se usati credendo che consentano di stare meno attenti alla guida, potrebbero addirittura causare incidenti. Nel frattempo si sono aggiunti fattori in grado di peggiorare i risultati. Primo fra tutti la distrazione favorita da smartphone, impianti multimediali di bordo, congestione del traffico e abbassamento delle velocità. In Italia, si aggiunge il degrado delle infrastrutture (dalla segnaletica ai cedimenti delle barriere, fino ai crolli di ponti). Ci si chiede dunque come si farà a centrare l’obiettivo finale fissato dalla Ue: l’azzeramento del numero di morti, nel 2050. Il target è stato deciso pensando che per quell’anno potrebbe diffondersi la guida autonoma, che dovrebbe eliminare l’errore umano. Ma questo è un futuro ancora non del tutto delineato: ci sono tante incertezze tecniche, etiche e, di conseguenza, normative. Senza contare che, nella fase transitoria, la convivenza tra guida umana e guida autonoma potrà creare nuovi pericoli. Omicidi stradali, più conflittualità nei processi di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 4 novembre 2019 La legge 41 del 2016, in materia di omicidio e lesioni personali stradali gravi e gravissime, ha comportato un fisiologico aumento della conflittualità processuale. Era una variante prevedibile sin dal momento in cui il legislatore aveva deciso di investire quasi solo sulla repressione penale, piuttosto che sulla prevenzione e la rieducazione, per combattere il drammatico fenomeno degli incidenti stradali con morti o feriti gravi. Eccezionali aumenti di pena per reati colposi, dimezzati solo in presenza di concause o colpe concorrenti; incentivi all’adozione di misure coercitive personali; divieto di prevalenza o equivalenza delle attenuanti, anche se consistenti nel risarcimento integrale dei danni prima del processo; procedibilità d’ufficio per ogni tipo di lesione colposa stradale con prognosi superiore a 40 giorni (basta una banale violazione del Codice della strada); revoca della patente automatica per tutti i casi di omicidio stradale e lesioni stradali gravi e gravissime, con divieto di riaverla per lunghissimi periodi; prelievo coattivo di campioni biologici per provare lo stato di ebbrezza o alterazione da sostanze psicotrope o stupefacenti; raddoppio dei termini di prescrizione. Queste sono state le novità principali introdotte dalla legge 41: anche i non addetti ai lavori potevano capire che, con questo scenario, sarebbero aumentati sia i tempi e i costi processuali, sia il numero dei giudizi ordinari. I punti che hanno più inciso sulla litigiosità processuale sono tre. Il primo è la procedibilità d’ufficio per le lesioni con prognosi superiore a 40 giorni causate da una violazione “generica” del Codice della strada. La persona offesa - soprattutto quando la lesione subita e il comportamento del conducente non sono così gravi - è più interessata ad avere un rapido e integrale risarcimento dei danni, piuttosto che la condanna dell’imputato alla revoca della patente e a una pena magari coperta dalla sospensione condizionale. La procedibilità a querela, unita a incentivi per il risarcimento dei danni, come l’estinzione del reato per condotte riparatorie (articolo 162-ter del Codice penale), sono strumenti più efficaci della procedibilità d’ufficio, misura destinata a rimanere più simbolica che utile. Il Parlamento sembrava volere reintrodurre la procedibilità a querela con la delega contenuta nella legge 103/2017. Ma il decreto legislativo 39/2018 ha conservato la procedibilità d’ufficio e la Consulta (sentenza 223/2019) ha statuito che il Governo non ha ecceduto i limiti della delega. Il secondo: anche le pene più severe, mitigate solo dalla diminuente del concorso di cause, hanno inciso sulla conflittualità processuale. L’attenuante speciale “ricorre nel caso in cui sia stato accertato un comportamento colposo, anche di minima rilevanza, della vittima o di terzi, o qualunque concorrente causa esterna, anche non costituita da condotta umana” (Cassazione, sentenza 54576/2018): ciò significa che un processo per omicidio stradale aggravato, di fronte a una pena che da 12 anni può scendere a 6 grazie al concorso di cause, diventa inevitabilmente più lungo e combattuto. Sono scoraggiati i riti alternativi, perché lo sconto di pena che li caratterizza è vanificato dalla difficoltà di individuare una concausa: nel giudizio ordinario c’è più spazio per la difesa, soprattutto tecnica. Il terzo aspetto è la revoca della patente, originariamente automatica per tutti i reati introdotti dalla legge 41, anche nei casi di patteggiamento. La Consulta (sentenza 88/2019) ha stabilito che, fuori dai casi di incidenti con morti o feriti causati da abuso di alcol o droghe, la revoca può essere sostituita dalla sospensione, fino a 2 anni per lesioni gravi e gravissime, aumentati a4 anni per omicidio. La scelta non può essere rimessa all’accordo delle parti in sede di patteggiamento, ma compete solo al giudice: è dunque incentivata, ancora una volta, la celebrazione del processo ordinario, che è l’unica chance per non rimanere a piedi per lungo tempo. I chiarimenti dei giudici in tema di trattamento illecito di dati personali Il Sole 24 Ore, 4 novembre 2019 Privacy - Tutela della - Art. 167, d.lgs. 196/2003 - Testo novellato dal d.lgs. 101/2018 - Nocumento - Elemento costitutivo del reato. In tema di trattamento illecito di dati personali, nella norma incriminatrice di cui all’art. 167, d.lgs. 196/2003, anche dopo le modifiche introdotte dal d.lgs. n. 101/2018, il richiamo alla necessità del verificarsi di un nocumento è rimasto immutato, sebbene nell’attuale versione normativa la determinazione del nocumento si configura come un elemento costitutivo della fattispecie penale e non più come condizione obiettiva di punibilità, idonea cioè ad attualizzare. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 10 ottobre 2019 n. 41604. Reato - Concorso di reati - In genere - Reato di trattamento illecito di dati personali - Reato di diffamazione - Concorso di reati - Configurabilità - Ragioni. È configurabile il concorso tra il delitto di trattamento illecito di dati personali e quello di diffamazione, poiché la clausola di riserva di cui all’art. 167, comma 1, d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (“salvo che il fatto costituisca più grave reato”) presuppone l’identità dei beni giuridici tutelati dai diversi reati, identità che non ricorre nel caso di specie, poiché il delitto di diffamazione tutela la reputazione, attinente all’aspetto esteriore della tutela dell’individuo e al suo diritto di godere di un certo riconoscimento sociale, mentre il delitto di trattamento illecito di dati personali è posto a tutela della riservatezza che ha riguardo all’aspetto interiore dell’individuo e al suo diritto a preservare la propria sfera personale da ingerenze indebite e ricorrendo, altresì, tra le due fattispecie, un rapporto di eterogeneità strutturale, sotto il profilo dell’oggetto materiale (che, nel delitto di cui all’art. 167, d.lgs. n. 196 del 2003, può essere costituito dai soli dati sensibili) e del dolo (configurato nel solo delitto di trattamento illecito come dolo specifico orientato al profitto dell’agente o al danno del soggetto passivo) che esclude la configurazione di un rapporto di specialità ai sensi dell’art. 15 cod. pen. • Corte di cassazione, sezione V penale, sentenza 10 luglio 2019 n. 30455. Reati contro la persona - In genere - Trattamento illecito dei dati personali - Elementi costitutivi - Nocumento - Nozione - Fattispecie. In tema di trattamento illecito dei dati personali, l’art. 167 del D.Lgs. 30 giugno 2003 n. 196 ha tipizzato, quale elemento costitutivo del reato, il nocumento, da intendersi come un pregiudizio giuridicamente rilevante di qualsiasi natura, patrimoniale e non, cagionato sia alla persona alla quale i dati illecitamente trattati si riferiscono sia a terzi quale conseguenza della condotta illecita. (In applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto immune da censure la sentenza di merito che aveva configurato il reato in questione nei confronti dell’imputato che aveva inviato ai condomini missive e volantini, che rivelavano informazioni relative a un procedimento penale nei confronti del portiere dello stabile per lesioni gravissime ai danni dello scrivente). • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 28 marzo 2017 n. 15221. Reati contro la persona - In genere - Trattamento illecito dei dati personali - Reato introdotto dall’art. 167 D.Lgs. n. 196 del 2003 - Nocumento - Elemento costitutivo del reato - Sussistenza. In tema di trattamento illecito dei dati personali, il nocumento per la persona alla quale i dati illecitamente trattati si riferiscono, previsto dall’art. 167 del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, costituisce - per la sua omogeneità rispetto all’interesse leso, e la sua diretta derivazione causale dalla condotta tipica - un elemento costitutivo del reato, e non una condizione oggettiva di punibilità; ne consegue che esso deve essere previsto e voluto o comunque accettato dall’agente come conseguenza della propria azione, indipendentemente dal fatto che costituisca o si identifichi con il fine dell’azione stessa. • Corte di cassazione, sezione III penale, sentenza 6 ottobre 2015 n. 40103. Reati contro la persona - In genere - Trattamento illecito di dati - Nocumento cagionato a terzi - Rilevanza. Il nocumento previsto dall’art. 167, D.Lgs. n. 196 del 2003 quale condizione obiettiva di punibilità del reato di trattamento illecito di dati personali, non è soltanto quello derivato alla persona fisica o giuridica cui si riferiscono i dati, ma anche quello causato a soggetti terzi quale conseguenza dell’illecito trattamento (nella specie, i congiunti di minore vittima di incidente stradale, la cui fotografia, unitamente ad altri dati identificativi, era stata pubblicata a mezzo stampa). • Corte di cassazione, sezione III penale, ordinanza 18 febbraio 2014 n. 7504. Terni. Detenuto tenta il suicidio in cella: salvato, ma è in gravissime condizioni umbriaindiretta.it, 4 novembre 2019 Un detenuto di etnia marocchina ha tentato di impiccarsi nella sua cella nel carcere di Terni. Il fatto è accaduto sabato. La notizia arriva dal segretario del Sappe Umbria, Fabrizio Bonino. “Non appena se ne sono accorti, è stato rianimato nella Sezione detentiva e trasportato in ospedale. Ha 35 anni ed ristretto per reati di droga. Attualmente si trova in coma farmacologico presso l’ospedale. Il pur tempestivo intervento del personale di polizia penitenziaria ha sì evitato la morte dell’uomo, ma le sue condizioni sono comunque gravissime”. Bonino sottolinea come “ogni anno l’esperienza e la scrupolosità della Polizia penitenziaria cura il mal di vivere di migliaia di persone malgrado le note problematiche del sistema e, in particolare, della carenza d’organico”. Per Donato Capece, segretario generale del Sappe: “Questo nuovo drammatico evento critico commesso da un detenuto evidenzia come i problemi sociali e umani permangono, eccome!, nei penitenziari, lasciando isolato il personale di Polizia Penitenziaria a gestire queste situazioni di emergenza. Gli istituti penitenziari hanno l’obbligo di preservare la salute e la sicurezza dei detenuti, e l’Italia è certamente all’avanguardia per quanto concerne la normativa finalizzata a prevenire questi gravi eventi critici. Ma essi rappresentano un forte agente stressogeno per il personale di polizia e per gli altri detenuti”. “Per fortuna delle Istituzioni, gli uomini della Polizia Penitenziaria svolgono quotidianamente il servizio in carcere - come a Terni - con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità, pur in un contesto assai complicato per il ripetersi di eventi critici - conclude Capece. Ma non si può e non si deve ritardare ulteriormente la necessità di adottare urgenti provvedimenti: non si può pensare che la gestione quotidiana delle costanti criticità delle carceri”. Milano. Il nuovo progetto di don Gino Rigoldi: “Aiutiamo chi esce dal carcere minorile” iene.mediaset.it, 4 novembre 2019 Si chiama “Credito al futuro”, è l’ultimo progetto di don Gino Rigoldi per aiutare chi esce dal carcere minorile Beccaria di Milano. Gaetano Pecoraro ha incontrato il sacerdote che festeggia 80 anni che gli parla di politica, fede e Chiesa togliendosi anche qualche sassolino dalle scarpe Dal 1972 è al fianco degli ultimi. In particolare di quelli del carcere minorile Beccaria di Milano. Lui è Virginio Rigoldi, per tutti don Gino, un prete di strada. E ancora prima di essere sacerdote è un padre. Papà di 4 figli adottati, ma anche di tanti altri strappati dalla criminalità. In questi giorni don Gino compie 80 anni. Gaetano Pecoraro l’ha incontrato per fare un bilancio della sua vita. Finiti gli studi in seminario non viene ordinato sacerdote perché ritenuto non pronto. Solo diversi anni dopo, la Curia si accorge delle sue doti nel trattare con i giovani e ci ripensa. “Io non ho paura di mescolarmi nelle vicende, anche le più atroci”, ci dice don Gino. “La situazione più dolorosa? Ritrovarsi a piangere con il primario di un ospedale per la morte di un ragazzo tossicodipendente”. In questi casi il dolore è tanto ma forse la gioia di vederli salvi è ancora più grande. “Ci vuole pazienza. Bisogna saperli cazziare duramente, ma anche esserci nel momento del bisogno”, dice don Gino che abita con 8 ragazzi strappati dalla strada. Uno di loro è Azim, un ragazzo siriano scappato dalla guerra 6 anni fa. Suo fratello era un combattente dell’Isis e anche lui è stato accusato di questo. “Mi hanno trovato foto e video sul cellulare. Pensavano che io fossi venuto qui per quello. A 17 anni mi ha condannato a 3 di carcere”, racconta Azim. “Conoscendo don Gino ho trovato lavoro e tante cose. E qualche mese fa mi ha adottato a tutti gli effetti andando in Tribunale”. Come lui, un altro ragazzo è stato strappato dalla strada. In passato ha avuto problemi per furti a Rozzano, ma un giorno ha conosciuto don Gino: “Con lui ho smesso di rubare perché ha fatto il contrario di tutto quello che gli altri facevano con me”. Il suo segreto è proprio quello di riuscire a fidarsi, anche del ladro, del bugiardo e del criminale. “Loro sono ragazzi che hanno poca fiducia in sé stessi e negli altri. E hanno una mancanza di paternità e della vita”. Con il sacerdote parliamo anche di com’è la Chiesa oggi: “È molto clericale. Il parroco è quello che decide, quindi non è aperta nei fatti. Magari neanche nella liturgia, basti guardare che ha un linguaggio assolutamente incomprensibile. Signore pietà di qui, Signore pietà di là. Oppure: mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa”. Per lui la Chiesa dovrebbe dire altro. “Gesù Cristo era un rivoluzionario pericoloso che ha irritato la classe dirigente dei suoi tempi. Parlava di uguaglianza, condivisione dei beni. L’hanno accoppato perché era un rivoluzionario. Per lui erano tutti uguali: le donne, i ricchi che hanno il compito di condividere con i loro fratelli. Tutto questo lo ritroviamo nelle parole di Papa Francesco”. Ci parla anche di com’è cambiata la politica in questi anni: “Una tragedia. È più saggio non fidarsi, guardarsi alle spalle. Se poi sono stranieri ci dicono che sono qua a mangiare la nostra minestra. Oggi dicono il contrario di quello che c’è scritto nel Vangelo. È difficile fidarsi degli altri, ma se non si sorride mai, nessuno ti sorriderà”. A 80 anni don Gino ancora non molla. Oggi si è messo in testa un nuovo progetto. “In uscita dal Beccaria incontro ragazzi che non hanno neanche i soldi per il biglietto del tram. Per la prima settimana, ce la fanno. La seconda, così così. E la terza li trovano da qualche parte”. Per farli ripartire il sacerdote ha avviato un progetto il cui obiettivo è tutto nel nome: “Credito al futuro”. Agrigento. Interrogazione parlamentare sulle condizioni del carcere agrigentonotizie.it, 4 novembre 2019 Il caso del carcere “Di Lorenzo” arriva in Parlamento. A chiedere chiarimenti al Ministero è il deputato di Fratelli d’Italia Carolina Varchi. “La situazione del carcere, rispetto alla quale la procura di Agrigento, dopo varie denunce, ha aperto un fascicolo a carico di ignoti sulle condizioni di vita all’interno della struttura carceraria - dice - necessita di interventi immediati”. Il deputato parla di una “una vicenda costellata da una serie di denunce sulla situazione sconfortante della casa circondariale agrigentina, dove ai problemi di organizzazione, si aggiungono anche quelli strutturali che si ripercuotono direttamente sulla qualità di vita dei detenuti e degli agenti penitenziari” con criticità, come “le finestre delle camere detentive, oltre alle sbarre, alle quali sono applicate reti a maglia stretta che limitano l’ingresso di aria e luce. I sei piccoli cortili passeggio di cui dispone il reparto sono spazi squallidi, con il wc alla turca, sprovvisti di panchine. Tale situazione - continua il deputato - era già stata segnalata dal Sappe, secondo il quale l’insufficiente organico stabilito dalla legge Madia porta il personale a effettuare turni massacranti. Ad aggravare la pesantissima condizione lavorativa dei poliziotti del Petrusa il dovere gestire senza alcuna formazione specifica, dopo la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, i criminali folli che continuano a delinquere anche dentro le galere. Forse è l’unico penitenziario in Italia dove i riscaldamenti non funzionano e le camere detentive sono prive di doccia e l’illuminazione all’interno delle camere è comandata manualmente ancora dall’operatore della Polizia penitenziaria, rendono di fatto questa una realtà da terzo mondo, denunciando, peraltro, come l’unica risposta ricevuta dalle istituzioni sia stato il trasferimento di ben otto agenti dal reparto al nucleo traduzioni e piantonamenti nonostante a breve verrà avviato il servizio delle videoconferenze con una riduzione del lavoro di oltre il 30% a favore del nucleo, depauperando ulteriormente l’organico. Per questo il deputato chiede al Ministro della Giustizia se era a conoscenza dell’attuale situazione vissuta nella struttura agrigentina e quali misure si intendano adottare. Palermo. Arrestato assistente parlamentare, era “messaggero” dei detenuti di Filomena Fotia strettoweb.com, 4 novembre 2019 E’ stato arrestato all’alba di oggi, insieme ad altre 4 persone, un assistente parlamentare, Antonello Nicosia, membro del Comitato nazionale dei Radicali italiani, con l’accusa di avere veicolato messaggi fuori dalle carceri. Secondo la Procura avrebbe fatto da tramite tra capimafia, alcuni dei quali al 41bis, e i clan, portando all’esterno messaggi e anche ordini. Nicosia ha accompagnato la deputata Pina Occhionero in alcune ispezioni all’interno delle carceri siciliane: durante quelle visite i boss avrebbero affidato all’assistente della parlamentare dei messaggi da recapitare all’esterno. Sono in corso decine di perquisizioni su tutto il territorio di Sciacca (Agrigento), che vedono impiegati oltre 100 finanzieri e Carabinieri, supportati da mezzi aerei e unità cinofile, e che riguardano abitazioni, uffici, aziende e negozi nella disponibilità degli indagati coinvolti nell’operazione. Gli inquirenti definiscono Antonello Nicosia “organico alla famiglia mafiosa saccense”, già noto in quanto, tra le altre cose, condannato in via definitiva alla pena di 10 anni e 6 mesi di reclusione per partecipazione ad associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, scarcerato da ormai oltre dieci anni. Gli approfondimenti investigativi hanno consentito di documentare, spiegano “il pieno inserimento di Nicosia nel contesto mafioso saccense”. “Sfruttando il baluardo dell’appartenenza politica, il Nicosia ha addirittura portato avanti l’ambizioso progetto di alleggerire il regime detentivo speciale di cui all’art. 41bis o di favorire la chiusura di determinati istituti penitenziari giudicati inidonei a garantire un trattamento dignitoso ai reclusi”: lo scrivono i pm della Dda di Palermo. “Bisogna cambiare nome a questo aeroporto, perché i nomi Falcone e Borsellino evocano la mafia. Perché dobbiamo sempre ‘arriminare’ (rimestare ndr) la stessa merda?”: a parlare, senza sapere di essere intercettato nella sua auto, è Antonello Nicosia. “Ma poi sono vittime di che cosa? Di un incidente sul lavoro, no?”, dice Nicosia al suo interlocutore. “Ma poi quello là (Falcone) non era manco magistrato quando è morto, non esercitava dice ancora Nicosia - perché l’aeroporto non bisogna chiamarlo Luigi Pirandello? O Leonardo Sciascia? E che cazzo, va. O Marco Polo?”, conclude ridendo. Milano. Joel, un anno in carcere da innocente: “Ho perso tutto, il lavoro e mio figlio” di Valentina Stella Il Dubbio, 4 novembre 2019 Arrestato per violenza sessuale e rapina, resta in cella per dodici mesi, poi al processo: la donna che lo ha accusato ritratta. Joel è un ragazzo peruviano di trent’anni; ne aveva undici quando è arrivato in Italia per costruirsi una vita migliore. Ma un anno fa il destino lo mette duramente alla prova: viene arrestato per violenza sessuale e rapina. Resta in cella per dodici mesi nel carcere milanese di San Vittore. Poi il colpo di scena al processo: la donna che lo ha accusato ritratta. ‘ Mi sono inventata tutto’ dirà, e per Joel sarà di nuovo libertà. Ma quanto gli è costato tutto questo? Ha deciso di raccontarlo in esclusiva al Dubbio a pochi giorni dalla sentenza di assoluzione. Nel racconto ci accompagna anche il suo legale di fiducia, l’avvocato Paolo Pappalardo. Partiamo dai fatti: il 9 ottobre 2018 una donna peruviana di circa quarant’anni si presenta in un commissariato milanese per esporre denuncia per stupro e rapina. Racconterà di essere stata violata nelle parti intime, presa a pugni e calci e derubata della borsa in un parco del capoluogo milanese. Ad aggredirla sarebbero stati due semisconosciuti per lei, ossia Joel e un suo amico. A condurre le indagini il pm Monia Di Marco che con ordinanza di custodia cautelare del 17 ottobre porta in carcere Joel accusato di stupro di gruppo (la posizione di un altro peruviano è stata stralciata perché mai trovato). ‘ Quando sono entrato in carcere per la prima volta ero incredulo, non capivo cosa stesse succedendo. Io sapevo di essere innocente ma nessuno mi credeva. Col passare dei giorni ha preso il sopravvento un forte pessimismo per la mia sorte. A sostenermi c’era però il mio avvocato ma per me era tutto assurdo, mi vedevo come al mattatoio circondato da altri detenuti sofferenti per la loro situazione. Oggi giorno lì pensi che la tua vita sia finita’. E una vita serena Joel l’aveva prima di quel tragico episodio: ‘avevo un lavoro da quasi dieci anni e l’ho perso; quando sono entrato in carcere mio figlio aveva pochi mesi, ora ha oltre un anno e io non ho potuto vivere le fasi della sua prima crescita. Ho perso anche la sua custodia. Mia madre e i mie fratelli erano da poco venuti in Italia e dipendevano da me. L’ultima legnata è stata persino la perdita del miei documenti per il soggiorno’. Ma Joel non si è perso d’animo e in carcere, pur stando nel reparto dei protetti essendo accusato di un crimine a sfondo sessuale, si è dato da fare: ‘ lì dentro o ti riempi di pasticche per dormire per evitare gli attacchi di panico o cerchi qualcosa per far passare il tempo, per voler bene al posto in cui ti trovi; io ho imparato a cucinare, cosa che prima non mi piaceva affatto, e ho lavorato in biblioteca’. Intanto le investigazioni si concludono e ci sia avvia al processo come ci racconta l’avvocato Pappalardo: ‘durante le indagini preliminari e nell’interrogatorio di convalida abbiamo portato a conoscenza della Procura fatti che almeno avrebbero potuto mettere in dubbio la versione della querelante, come una passata denuncia fatta dal mio assistito nei confronti della donna per tentato omicidio, precedenti conversazioni su Facebook tra i due proprio su questo, e l’impossibilità della presenza del co-indagato in Italia la notte dell’aggressione perché espulso già due anni fa, come confermato da sua madre. Purtroppo nulla è stato preso in considerazione e il mio assistito è finito in carcere e tutte le istanze di revoca del carcere sono state rigettate’. Durante la fase dibattimentale la versione della donna comincia a vacillare, grazie proprio alla prove documentali presentate dalla difesa. Poi il colpo di scena. Siccome il quadro di quanto accaduto non era chiaro, il presidente del collegio, il giudice Ambrogio Moccia, chiama, anche su richiesta della difesa, a testimoniare l’amica della querelante che era con lei quella notte al parco e che stranamente non era stata inserita nella lista dei testimoni della presunta vittima. E proprio quella testimone ha raccontato tutta un’altra storia, ossia la stessa versione da sempre ribadita dall’imputato, già dopo l’arresto, e dai testi della difesa. Davanti ai giudici, poi, è stata chiamata di nuovo la presunta vittima dello stupro che alla fine è crollata a seguito delle domande insistenti del presidente Moccia, che ha messo in evidenza le contraddizioni del suo racconto. Alla fine la donna ha ritrattato tutto. Dalla nuova testimonianza è emersa dunque la verità su quella notte: la donna è sì stata aggredita in quel parco ma non dai due uomini, bensì da un’altra donna, per contrasti precedenti. Le parti in aula hanno preso di nuovo la parola per le repliche ma altro colpo di scena la Procura (non c’era il pm titolare del fascicolo) ribadisce la richiesta di condanna per il peruviano. I giudici, invece, sulla base dei nuovi sviluppi nel dibattimento, hanno assolto Joel, disponendone l’immediata scarcerazione. ‘In quel momento ho pianto - ci racconta Joel - e ho pensato subito a cosa avrei fatto appena uscito. In realtà ancora adesso mi sento spaesato, svuotato. Mi viene voglia di stare a casa da solo, mi è rimasta addosso la sensazione di chiuso della cella. La cosa certa è che dovrò trovare un nuovo lavoro ma qui in Italia, la mia vita è sempre qui, nonostante quanto mi sia successo’. L’avvocato ci spiega quali saranno i prossimi passi: ‘siamo in attesa delle motivazioni. Il pm nella propria richiesta ha determinato anche la trasmissione degli atti alla Procura per falsa testimonianza della accusatrice. Valuteremo se procedere con una denuncia di calunnia nei suoi confronti. Ma sicuramente intraprenderemo la strada per il risarcimento per ingiusta detenzione. E poi dovremmo far riavere la custodia del figlio a Joel e rifare i suoi documenti’. In ultimo chiediamo all’avvocato se non abbia percepito un pregiudizio nei confronti dell’indagato, considerato il clima che stiamo vivendo in questo momento, quello per cui la donna è sempre vittima e la sua parola non va messa in discussione? ‘Credo che ci sia stato del pregiudizio nel modo di trattare la vicenda da parte degli inquirenti. È stata data subito piena credibilità alla donna, mentre al mio assistito non è mai stato concesso il beneficio del dubbio, nonostante la prova documentale da noi fornita. Si sarebbero dovute approfondire le indagini e invece nulla è stato fatto’. Joel ci saluta rivolgendo un pensiero al giudice Moccia: ‘voglio ringraziarlo per quello che ha fatto, avevo fede in lui perché il mio avvocato mi aveva detto che è una persona molto scrupolosa e intuitiva. Ero nella sue mani e mi ha salvato. Tutti mi avevano già condannato ma lui ha sollevato il dubbio’. Questa storia ci ricorda qualcosa, se per un momento abbiamo smarrito la via del dubbio appunto e del buon senso: in questo momento in carcere ci sono circa 10000 detenuti in attesa di primo giudizio, molti di loro, forse la maggioranza, saranno poi assolti. Non è vero dunque, come la vulgata pensa, che se vai in carcere sei per forza colpevole. E non è vero che la vittima donna ha sempre ragione mentre l’accusato uomo è sempre un predatore. Volterra (Pi). Compagnia della Fortezza, tra ricerca artistica e promozione umana di Gianni Amodeo bassairpinia.it, 4 novembre 2019 Sui percorsi della drammaturgia Armando Punzo e Rossella Menna, in conversazione al Proteatro di Baiano. Proficua e stimolante, la rivisitazione condotta a tutt’arco sul caleidoscopio delle molteplici ed eccellenti esperienze di narrazione scenica che il Teatro in carcere viene sviluppando con costante tensione innovativa ed effetti speciali da trent’anni ormai, tanto da catalizzare meritate attenzioni e crescenti consensi di critica nel segno delle degli spettacoli della Compagnia della Fortezza, il cui logo identificativo è strettamente correlato con l’omonima ed imponente struttura architettonica d’impronta medicea che ospita il penitenziario, a Volterra. Una rivisitazione - ambientata nell’ovattata e raccolta atmosfera dei locali del Laboratorio Proteatro, in via Roma, ed animata da proiezioni filmiche con pervasive sonorità in tema - scandita dai fraseggi del puntuale e acuto dialogo, cui davano impulso con ariosità di idee Armando Punzo, napoletano d’origine e formazione, nato a Cercola, attore, drammaturgo e regista, ma soprattutto versatile ispiratore e fondatore della Compagnia, e la saggista Rossella Menna, originaria di Sperone, giovane drammaturga e studiosa di teatro, laureata nel prestigioso Dipartimento delle arti, musica e spettacolo dell’Università di Bologna, la città dove lavora, con attivo impegno sia quale redattrice di riviste e webzine di settore, oltre che “firma” di “Doppiozero”, noto periodico di critica teatrale, sia quale docente di Corsi di alfabetizzazione teatrale. L’ampio respiro e la lunga linea d’orizzonte del dialogo esplicativo - con l’efficace contrappunto della lettura di brani estratti proprio dal testo della conversazione di Armando Punzo con Rossella Menna, pubblicato da Luca Sossella editore ed intitolato “Un’idea più grande di me”- facevano risaltare i punti focali del progetto della Compagnia della Fortezza, la cui stella polare coniuga i valori della promozione e del riscatto civile con quel vigore intellettivo che riesce a trasfondere da sempre il teatro raccontando il mondo, gli uomini e le donne nei loro sogni e nelle loro inquietudini, veicolandone la conoscenza ch’è anche e soprattutto riscoperta di sé. E’ un vero e autentico work in progress, quello che la Compagnia con bello spirito di coesione vive e attua nel Laboratorio della Fortezza, per preparare e allestire gli spettacoli che reca in tournée e rassegne nei più svariati contesti d’ambientazione e pubblico nelle città del Centro come del Nord e del Sud. E siamo di fronte ad una meticolosa filiera di produzioni artistiche ch’è anche una complessa macchina di lavoro, resa concreta e realizzabile, grazie ai supporti istituzionali della Regione-Toscana, della Provincia di Pisa, dell’amministrazione comunale di Volterra, nel quadro delle sinergie con il Ministero di Giustizia. All’articolato progetto fanno da lievito e anima i linguaggi e i temi che rendono viva e palpitante la narrazione dell’umano e del reale mai identici con se stessi né scontati nella loro incalzante mutevolezza, attingendo in larga misura al teatro di Genet, Brown, Becket, Shakespeare, Wiess, Rabelais, Pessoa, Brecht e via seguendo sulle tracce delle più espressive e pregnanti testimonianze della drammaturgia moderna e contemporanea, ma anche con incursioni nell’Eneide di Virgilio e nell’ Orlando furioso di Ariosto. E’ un’originale e straordinaria realtà, il Teatro nel carcere, che la Compagnia costruisce nel proprio Laboratorio di formazione culturale con applicazione appassionata e impegno metodico; un’azione, per la quale si genera la trasformazione dei detenuti in attori o, meglio ancora, diventano detenuti-attori., tout court. E proprio per evidenziare il processo di trasformazione che viene dispiegato nella rappresentazione sul palcoscenico, la dizione detenuti-attori è la più congrua di significato sia nella visione del drammaturgo napoletano che nelle dinamiche della Compagnia; è la dizione che serve a sottolineare come nell’assumere e far propria la connotazione attoriale i detenuti si proiettino simbolicamente al di là del recinto-cella, del recinto-carcere, per dare vita e forme alle identità delle persone-personaggi da interpretare. E’ il meccanismo della trasformabilità - particolarmente marcato da Punzo - che incide sulle persone, come sulle cose e sul mondo, dandone “altre” letture da distinti e nuove angolature di vista; trasformabilità che dà il senso della libertà e delle tante opzioni praticabili per la dignità del vivere. E’ del tutto convincente la concezione dell’arte teatrale che Armando Punzo è venuto maturando in tutti questi anni di esperienza con la Compagnia della Fortezza e che la conversazione con Rossella Menna ha fatto emergere; concezione di cui una compiuta testimonianza si ritrova negli spettacoli allestiti dalla Compagnia, per rappresentare opere, di cui il drammaturgo napoletano-toscano è autore, tra cui spiccano “I Pescecani ovvero quello che resta di Bertolt Brecht”, “Romeo e Giulietta. Mercuzio non vuole morire”, “Santo Genet, commediante e martire”, “Pinocchio. Lo spettacolo della ragione”, “P.P. Pasolini ovvero elogio al disimpegno”, “Budini, capretti, capponi e grassi signori ovvero la scuola dei buffoni”. Caltanissetta. Giustizia e migranti, due giorni convegno a Lampedusa canicattiweb.com, 4 novembre 2019 Si terrà a Lampedusa, sabato 9 e domenica 10 novembre - presso l’Aeroporto - Salone Congressi - il convegno “La frontiera del diritto e il diritto della frontiera. Dieci anni dopo di nuovo insieme a Lampedusa”. L’appuntamento è promosso da Area democratica per la giustizia e dall’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione. “Questo confronto - spiegano i promotori - nasce da un’idea maturata a luglio, quando è stato bloccato l’accesso ai porti italiani alle navi delle Ong, e perfino della Guardia Costiera, che avevano effettuato salvataggi dei naufraghi. Proprio in quei giorni, si è deciso dunque di promuovere una nuova edizione, sempre a Lampedusa, del convegno che Magistratura democratica, Medel e Movimento per la giustizia -art.3 organizzarono l’11 e il 12 settembre 2009, intitolato appunto “La frontiera del diritto e il diritto della frontiera”. Introdurranno i lavori, sabato 9 novembre alle ore 15, Maria Cristina Ornano, presidente di AreaDG, e Lorenzo Trucco, presidente dell’Asgi. Seguiranno i saluti del Card. Francesco Montenegro, vescovo di Agrigento, e del sindaco di Lampedusa, Salvatore Martello. La prima sessione dedicata al tema “Le migrazioni e l’Europa” sarà presieduta da Giuseppe Salmè, già presidente di sezione della Corte di Cassazione. Seguiranno le relazioni di Valerio Onida, presidente emerito della Corte Costituzionale; Guido Raimondi, già presidente Cedu-consigliere di Corte di Cassazione; Riccardo Clerici, responsabile ufficio legale dell’Alto Commissariato per i rifugiati dell’Onu. La seconda sessione, ‘Per una legislazione dell’immigrazione giusta ed efficace’, sara’ invece presieduta da Lorenzo Trucco, con le relazioni di Alessandro Triulzi, professore di storia dell’Africa presso l’Universita’ degli Studi di Napoli ‘L’Orientale’, Silvia Albano, giudice della sezione immigrazione del Tribunale di Roma, Nazzarena Zorzella, avvocato - componente del comitato di redazione della rivista ‘Diritto, Immigrazione e Cittadinanza’, Fulvio Vassallo Paleologo, Universita’ di Palermo - clinica legale per i diritti umani e Riccardo De Vito, presidente di Magistratura democratica. Domenica 10 novembre, alle ore 9, si svolgerà la terza sessione dal titolo ‘L’attuazione del diritto dell’immigrazione’ presieduta da Armando Spataro, ex procuratore della Repubblica di Torino. Sono previste le relazioni di Pietro Bartolo, vice presidente della commissione Liberta’ civili, Giustizia e Affari interni del Parlamento europeo, Giovanni Pettorino, ammiraglio-comandante della Guardia Costiera, Luigi Patronaggio, procuratore della Repubblica di Agrigento, Luciana Breggia, presidente della sezione immigrazione del Tribunale di Firenze; Giulio Veltri, consigliere della terza sezione del Consiglio di Stato, e Carmine Castaldo, segretario generale di Movimento per la Giustizia-Art.3. La quarta sessione dal titolo ‘L’immigrazione nella cultura, nella storia e nell’informazione’, presieduta da Domenico Gallo, presidente di sezione della Corte di Cassazione, vedra’ le relazioni di Simona Fraudatario, segreteria del Tribunale permanente dei popoli, i giornalisti Gad Lerner e Alessandra Ziniti, Paola Barretta, ricercatrice dell’Osservatorio di Pavia, portavoce di Carta di Roma. Le conclusioni sono infine affidate ad Eugenio Albamonte, segretario generale di AreaDG, e Luca Masera, professore associato di diritto penale presso l’Universita’ degli studi di Brescia. Da Matteo Salvini a Donald Trump, la nuova lingua del potere di Pier Aldo Rovatti L’Espresso, 4 novembre 2019 Violenta, volgare, elementare. Con toni autoritari e frasi semplificate. Ecco perché la comunicazione cambia codici. Non c’è bisogno di chiamare in causa la filosofia per rendersi conto che si sta diffondendo una lingua del potere la cui caratteristica è quella di mescolare realtà e verità. Una miscela abbastanza inedita, dove certo la parola “menzogna” è di casa, ma non è sufficiente per farci capire quali siano il luogo e il senso della “verità”. Occorre innanzi tutto osservare come questa lingua funzioni sulla bocca dei grandi “ego” che oggi impersonano il potere politico. Prendiamo i due esempi che ciascuno di noi ormai conosce bene: Donald Trump come esempio globale e Matteo Salvini come caso locale. Su Trump abbiamo ora a disposizione anche l’acuta cronaca di una traduttrice professionale (Bérengère Viennot, “La lingua di Trump”, Einaudi), dalla quale possiamo ricavare molte informazioni, e cioè che il potente (l’”egosauro”, come potremmo chiamarlo) costruisce un “sistema di verità parallele” e riesce a imporlo a chi l’ascolta. C’è chi si è preso la briga di contare quante volte Trump ha concluso con un “Credetemi” affermazioni pubbliche in cui enunciava cose palesemente contrastanti con le idee a lui del tutto abituali tipo “Non sono sessista” o “Non sono mai stato razzista”. Quel “Credetemi” avrebbe dunque il potere di istituire una verità parallela rispetto alla verità comunemente circolante sulla base dei fatti. Un’”altra verità” e al tempo stesso un’”altra realtà” che essa rispecchierebbe. La questione è più complicata di quanto sembri, se non altro perché questa verità parallela viene decisamente presa sul serio. La Viennot ricorda che il “Washington Post” ha assegnato a Trump quattro “Pinocchi”, cioè il massimo tasso di menzogna disponibile, ma sanzionare di essere di fronte a una specie di re dei bugiardi non ci tranquillizza, lasciandoci molti dubbi. L’ipotesi di natura psicologica, cioè che Trump non si renda conto di mentire mentre una menzogna per essere tale chiede un minimo di consapevolezza, può valere forse come primo indizio. Per andare oltre, occorre arrivare a pensare che siamo culturalmente all’interno di un “regime di verità” (uso l’espressione di Michel Foucault) in cui il potere sta trasformando il gioco normale tra vero e falso che tutti abbiamo presente e attraverso il quale organizziamo la nostra vita quotidiana sotto lo sguardo benevolo del sapere scientifico. Si parva licet componere magnis, come dicevano i latini, Trump e Salvini appartengono alla medesima lunghezza d’onda, basti pensare al modo con cui Salvini risponde di solito alle domande più dirette e critiche con uno spiazzamento del discorso: “Ma lei pensa che se avessi intascato quei soldi sarei qui?”, “Lo chieda a quel terzo degli italiani che mi vota”, oppure sterzando su un altro argomento come se non avesse sentito. Con Salvini forse solo per la prossimità materiale, ci sembrerebbe più difficile chiamare in causa l’ipotesi delle menzogne inconsapevoli, tuttavia il risultato non cambia. Nel senso che il suo “Credetemi” può restare sottinteso, visto che il patto di fiducia veritativa è comunque già stabilito senza bisogno di essere manifestato ogni volta. L’interlocutore sparisce, c’è soltanto un soggetto che ascolta se stesso e legittima così l’assenso di coloro che vivono già insieme a lui un ambito di “verità parallela”. Sono ben visibili nella lingua di Trump e in quella di Salvini delle specificità che le accomunano in quanto produttrici di una verità parallela. La loro esplicita “violenza” e la loro ricorrente “volgarità” saltano agli occhi. Violenza nel senso di una eccessiva tonalità autoritaria: parole molto dure nei confronti di chi viene di volta in volta preso di mira, soprattutto parole caratterizzate dall’imposizione di un “È così” valido sia per i nemici che per gli amici. Una violenza del linguaggio che consiste meno negli epiteti utilizzati che in una perentorietà inderogabile dell’eloquio. Fin qui restiamo nel registro ben noto della lingua dei capi assoluti che hanno sempre dettato la loro verità in maniera perentoria, acritica, priva di ogni possibile dubbio. Lo slittamento nella volgarità è un tratto già meno ovvio: non abbassa il credito, anzi riesce a fortificarlo allestendo uno scenario iperpopulistico nel quale il capo (pensiamo soprattutto a Salvini) scende dal piedistallo e si mescola al suo “popolo” per condividerne la trivialità verbale. In un tweet finale, lui e quelli che l’hanno ascoltato si rappresentano nella rozza banalità dei tratti, unificati dalle parole pesanti in cui si sono appena riconosciuti, godendone. Ancora più significativa è, però, una terza caratteristica che comprende violenza e volgarità identificando la lingua dei potenti nella “semplificazione”. Infatti la comunicazione, al fine di ottenere lo scopo di una verità parallela, deve essere la più rapida e stringata possibile, il contrario di una persuasione che si produce attraverso giri retorici e lunghi discorsi che addormentano la gente. Questo aspetto la allontana decisamente da ogni civiltà del dire che appartenga alla tradizione oratoria di tipo democratico, con un cambio di passo astuto e insieme inquietante. Poche cose, ripetute con poca attenzione alla sintassi e perfino qualche sgarbo alla grammatica della lingua. Un esempio recente: in rete si può leggere il messaggio che Trump aveva inviato a Erdogan per chiedergli di non esagerare nel suo intervento militare contro i curdi. Senza entrare in valutazioni politiche di queste dieci righe, restiamo colpiti proprio dal linguaggio elementare, spezzato, tutto pervaso di rozzezza autoritaria: senza una subordinata, sembra quasi messo insieme da un analfabeta. Ecco come questi potenti egosauri esprimono e fanno valere la loro “verità”. E noi? Quella parte di noi, di fatto la maggioranza, che non si riconosce nella neolingua dei potenti e vuole starne al di fuori, come si comporta? Non possiamo presumere di esserne completamente immuni se pure riuscissimo a rivolgere uno sguardo critico anche all’interno delle nostre vite quotidiane. Dovremmo chiederci, innanzi tutto, a che titolo e con quali garanzie riteniamo di essere fuori dal “regime di verità” che connota la lingua e i relativi comportamenti di chi detiene il potere della comunicazione. Siamo sicuri di non esserne impigliati e di avere la volontà culturale e gli strumenti capaci di snodarci? Non è facile rispondere di sì se consideriamo i dispositivi sociali e microsociali nei quali prende forma l’esperienza quotidiana. Il dispositivo “scuola”, come funziona attualmente, non garantisce alcuna sicurezza: dalle primarie fino alle aule dell’università il nodo che stringe potere e sapere sembra solo eccezionalmente intravisto e di solito viene evitato a vantaggio di un sapere appreso acriticamente. Il risultato è un’idea standard di competenza che non si cura del linguaggio (scritto e parlato) quasi fosse una questione secondaria. I ragazzi e i giovani traggono dall’universo informatico a loro disposizione impulsi verso una scrittura contratta e una lingua parlata ibrida e assai poco personalizzata, il che non fornisce loro né una difesa nei confronti delle parole dei potenti né un qualche strumento critico efficace per riuscire a parlare un’altra lingua. Ancor più, negli ambiti familiari non si producono antidoti; anzi, a tutti i livelli della formazione viene premiata proprio la pratica della “verità parallela” da contrapporre alla verità spicciola e deludente dei fatti. Cosa hanno da insegnare, in senso critico e autocritico, i genitori ai figli e quale altro “gioco di verità” viene appreso dai nostri figli quando la famiglia si allarga alle amicizie e a ulteriori contatti? È un interrogativo che ci invita almeno alla perplessità, poiché sappiamo bene che la strada verso la relazione e lo scambio sociale è diventata molto stretta, mentre quella che porta a un’idea egoistica di sé, e a un linguaggio conseguente, è un’autostrada con molte corsie. E così, purtroppo, piccoli egosauri crescono. Migranti. Divine, il bimbo nigeriano col mappamondo sulle spalle di Eraldo Affinati Il Riformista, 4 novembre 2019 Guardo incantato Divine, il bambino nigeriano che afferra il mappamondo di plastica quasi più grande di lui e se lo mette sulle spalle andando in giro fra i banchi mentre la madre resta seduta al tavolino impegnata a studiare i tempi verbali. L’infante africano regge il peso del mondo. Di fronte al suo gesto di straordinaria evocazione simbolica, trattengo a stento la commozione. Nel piccolo allievo decifro una speciale udienza impossibile da disertare. Oggi infatti, nel giorno dei morti, non riesco a togliermi dalla mente un’altra madre e un altro bambino, i cui corpi sono stati ritrovati, poche settimane fa, abbracciati in fondo al mare al largo di Lampedusa. Erano quasi arrivati a destinazione ma, come tanti loro compagni sventurati, non ce l’hanno fatta. Ora vorrei che giocassero insieme: i sommersi e i salvati. “In due nuotano i morti, / in due, e intorno gli scorre vino” scrisse Paul Celan, nella lingua del nemico, (“Zu zweien schwimmen die Toten, / zu zwein, umflossen von Wein”), pensando ai cadaveri dei deportati nei lager nazisti, gli unici, secondo Primo Levi, che avrebbero potuto raccontare l’abominio, se la Medusa non li avesse impietriti. Un giorno forse un ragazzo studioso, appassionato della storia italiana del Terzo Millennio, chiederà, in buona fede, senza acrimonia, né secondi fini, ai nostri nipoti, o pronipoti, o chi per loro, insomma quando non ci saremo più, dov’eravamo al tempo in cui uomini e donne affogavano a decine, a centinaia, a migliaia, nel Mediterraneo, alle porte di casa, allo stesso modo in cui abbiamo fatto noi con gli abitanti dei paesi intorno a Buchenwald, ad Auschwitz, a Bergen-Belsen, a Sobibor, a Treblinka, a Mathausen. Dov’erano quei cittadini tedeschi, schiacciati dal totalitarismo, quando vedevano le ceneri dei morti posarsi leggere sui rami degli alberi dei giardini davanti all’ingresso delle loro abitazioni. Come organizzavano le risposte autodifensive da formulare a se stessi, in quale maniera edificavano gli alibi interiori dietro i quali ripararsi, mettersi al sicuro, proteggersi. E dove siamo noi adesso, cittadini italiani, che godiamo della democrazia, come facciamo a districarci nella ridda di ipotesi e discussioni per interpretare il massacro quotidiano a cui assistiamo. In quale maniera riusciamo a muoverci nei meandri dei codici insanguinati che legittimano questo scempio a cielo aperto. Che notti, le nostre! E quali antiche perfette, fantastiche, burocratiche ipocrisie. Parole false pronunciate nei consessi più autorevoli di un’Europa di cartapesta che lascia illanguidire le sue migliori stelle. Ammettiamolo: sono domande fastidiose, come potrebbe essere il gesto di raschiare la crosta cresciuta sulla ferita appena rimarginata. Meglio non rispondere, restando in sospensione, alla maniera di retorici equilibristi abituati ad accettare la convenzione giuridica del male minore, quei miserabili scampoli di giustizia terrena costruiti apposta per noi, che siamo in grado di pagare la polizza annuale del premio assicurativo per evitare ogni rischio. Forse è questa la ragione per cui non stacco gli occhi dal piccolo nigeriano. Lo osservo mentre sembra ridere da solo, quasi a testimoniare una sopravvivenza che, a ben riflettere, non è soltanto sua. È come se il bambino e la madre ventenne mi prendessero per mano. Loro conoscono il sentiero. Giocando col mappamondo, indicano la strada da percorrere. Dovrò seguirli, nel tentativo di trovare il disincanto e la determinazione che consentì a un altro grande poeta, Philip Larkin, di formulare, nella sua piena maturità espressiva, in Tristi passi, una consapevolezza nuova: si era alzato durante il sonno per andare al bagno e nell’oscurità aveva osservato la luna che fuggiva tra le nuvole sfilacciate come “fumo di cannone”, (cito da Enrico Testa, il traduttore), emozionandosi al ricordo di quando lo faceva tanti anni prima. Un brivido lo aveva attraversato. Di cosa si trattava? “La forza e il dolore / della gioventù non potrà tornare, / ma in qualche parte resta, per gli altri, intatta”. Migranti. Monsignor Mogavero: “Salvini? Non è in linea con il Vangelo” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 4 novembre 2019 Il vescovo di Mazara (già nella commissione migrazioni della Cei): “Lì si parla di accoglienza non c’è scritto “rimandiamoli a casa”“. Le parole di Ruini: “Ha fatto bene ad aprire il dibattito, dobbiamo uscire tutti allo scoperto” Monsignor Domenico Mogavero, il cardinale Camillo Ruini, sul Corriere invita a dialogare con il leader della Lega. Lei che è stato con lui alla Cei e che da vescovo di Mazara ha criticato le posizioni contro gli sbarchi, cosa ne pensa? “Non credo sia facile dialogare con lui”. Non lo incontrerebbe? “Lo incontrerei volentieri. Figurarsi, volevo incontrare Gheddafi, lui è meno impegnativo. Ma con lui si può al massimo parlare. Non credo lasci aperti margini di confronto”. In che senso? “O sei con lui o contro”. E con lui non c’è anche il popolo cattolico? “Non penso che il popolo di Salvini sia il popolo cattolico. Anche se è fatto di cattolici”. Che differenza c’è? “Si professa tale, ma non lo è. Sia per il rapporto con i migranti, sia nel dialogo con le altre religioni. Non basta brandire rosari e croci per definirsi cattolici”. Salvini lo fa. Non può essere, come dice Ruini, una “maniera sia pure poco felice di affermare il ruolo della fede nello spazi pubblico”? “Credo che la sua sia piuttosto una scelta strategica. Fatta a tavolino. Per portare avanti la sua ideologia che non è che sia tanto in linea”. Con la Chiesa? “Con il Vangelo che parla di accoglienza e di porte aperte”. Salvini dice di portarlo in tasca. Non ci crede? “Vorrei sapere quale Vangelo usa. Dove trova scritto: “rimandiamoli a casa loro”, “aiutiamoli là”, prima gli italiani. Io non le trovo queste cose. Trovo sempre la difesa degli ultimi”. Secondo lei allora il cardinal Ruini sbaglia? “No, ha fatto bene ad aprire il dibattito. Ha gettato il sasso nello stagno. Ho riconosciuto l’innegabile intelligenza superiore e la immutata lucidità che gli conosco da qualche decennio: ho lavorato con lui a lungo e nutro per lui un grande affetto”. Perché ha fatto bene? “Perché di queste cose tra di noi non se ne parla. E spero che ora si abbandoni il silenzio pudico di chi non sa che pesci prendere. Dobbiamo uscire tutti allo scoperto”. Ruini non auspica un nuovo partito cattolico. Lei? “Per l’amor di Dio, nemmeno io. Portiamo addosso i segni di quando dovevamo essere un unico partito”. La Dc? “Il periodo dei padri fondatori è fuori discussione. Ma i figli e i nipoti non è che siano stati di così specchiata coerenza. Col rischio che ciò che di male faceva il partito veniva addebitato alla Chiesa”. Quindi i cattolici non devono impegnarsi in politica? “Secondo me sì. Ma portando la testimonianza della coerenza dei valori evangelici nella propria vita”. Questo Papa è di sinistra? “Il Papa non fa politica, predica il Vangelo. E se fa questa scelta assoluta per i poveri non dice nulla di nuovo. È stata in qualche modo l’ideologia comunista a copiare”. Ma Ruini ha detto che la scelta di influenzare gli schieramenti di centrodestra è stata positiva. È così? “Forse. Ognuno cerca di dare al Vangelo il coinvolgimento personale più congeniale. E quello era congeniale a chi ama una visione delle cose più tranquilla, dove c’è spazio per tutti, soprattutto per quelli che sanno gestirsi bene. Oggi poi la situazione è diversa. Appena c’è una dialettica interna si dice: basta, me ne vado, faccio da me. Ma in queste liste Salvini, Berlusconi, Berlinguer o che so io, tutto si identifica con una persona. E questo è rischioso. L’esaltazione del singolo può anche creare problemi al sistema”. Gran Bretagna. “La riabilitazione dei detenuti non funziona” europa.today.it, 4 novembre 2019 La delusione dell’ex-direttore delle carceri. Dopo un’intera carriera dedicata al reinserimento dei condannati britannici, l’ex-numero uno delle prigioni del Regno Unito esprime la sua amarezza per il mancato recupero di chi ha avuto un’infanzia segnata da violenza, alcol e sostanze stupefacenti. Meno corsi di formazione professionale e più rispetto per la dignità dei detenuti. Sir Martin Narey, già direttore generale delle carceri britanniche, ha confidato la sua amarezza per gli scarsi risultati del reinserimento sociale dei condannati, coinvolti in attività benefiche e di formazione lavorativa che, secondo Narey, “fanno poca, se non nessuna, differenza”. L’alto funzionario ed ex-consigliere speciale del Governo di Londra ritiene invece che il meglio che la prigione può offrire ai suoi detenuti sia un ambiente in cui ciascuno di loro viene trattato con “rispetto e dignità”. La recidiva e il reinserimento - In un discorso tenuto durante la conferenza dell’Associazione internazionale dei centri di correzione e delle prigioni, Sir Narey ha apertamente sostenuto che i programmi di riabilitazione dei condannati a pene carcerarie dovrebbero essere aboliti. L’ex-direttore ritiene infatti non vi sia alcun nesso causale tra i percorsi di reinserimento e la riduzione del tasso di recidiva, che in Regno Unito coinvolge ancora un ex-condannato su due. Trattare bene i detenuti - “Bisogna contrastare, con educazione, chi dice che un corso da sei settimane a sei mesi possa annullare i danni di una vita”, sostiene Narey, facendo riferimento alle storie dei detenuti segnate da infanzie difficili, abuso di alcol e di sostanze stupefacenti, scarse opportunità e disoccupazione. “Le carceri dignitose in cui i detenuti sono rispettati - sottolinea Narey - forniscono invece una base per la loro crescita personale”. “Le prigioni indecenti e insicure - conclude - non consentono tale crescita e danneggiano ulteriormente coloro che vi devono sopravvivere”. Siria. Impossibile tacere sui crimini anti-curdi delle milizie siriane di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 4 novembre 2019 E’ dal brutale assassinio dell’attivista curda Hevrin Khalaf, il 12 ottobre, che gli abusi delle milizie jihadiste sono all’ordine del giorno. I centri d’informazione curdi diffondono i video dell’odio da parte dei loro persecutori. Sino a che punto la Nato e la comunità internazionale sono disposte a tollerare che uno Stato importante come la Turchia utilizzi individui e gruppi armati sospettati di commettere sistematicamente crimini di guerra? Guardare per credere. Sono gli stessi uomini delle milizie siriane, che dall’attacco del 9 ottobre sono utilizzate come teste di ponte dell’esercito turco contro i curdi in Siria, a diffondere via smartphone le loro efferatezze. Alcuni video riprendono il cadavere della giovane Amara Renas preso a calci. Con slogan che ricordano quelli di Isis, i jihadisti deridono il povero corpo, parlano di “puttana curda”, inneggiano alla guerra santa in nome di Allah. E’ in effetti dal brutale assassinio dell’attivista curda Hevrin Khalaf, il 12 ottobre, che gli abusi delle milizie jihadiste sono all’ordine del giorno. I centri d’informazione curdi diffondono i video dell’odio da parte dei loro persecutori. Vi sono le immagini dettagliate di attacchi contro civili, ambulanze, centri medici. Alcuni giorni fa erano rilanciate quelle di un’altra combattente ferita alle gambe e umiliata. Abbondano i comunicati jihadisti nelle moschee, gli appelli alla lotta contro gli “infedeli”, le minacce. A onore del vero, va anche ricordato che questa stessa soldataglia fanatica è stata a sua volta vittima della durissima repressione voluta dal regime di Damasco, e garantita dalla sua alleanza con Mosca e Teheran, contro tutti gli oppositori a partire dallo scoppio delle rivolte nel 2011. Ciò non giustifica però questi crimini protetti dallo stesso presidente turco Erdogan. L’Onu avvisa Ankara che potrebbe essere considerata responsabile. Ma sembra ancora troppo poco e l’Europa perché tace? Afghanistan. Il progetto che aiuta le bambine in carcere per “reati morali” Il Fatto Quotidiano, 4 novembre 2019 Detenute per essersi ribellate a nozze forzate e convenzioni sociali. Nawal ha 16 anni e vive a Kabul, in Afghanistan. A maggio è stata arrestata e portata in carcere con l’accusa di adulterio. La sua famiglia l’ha data in sposa quando aveva solo 10 anni e l’ha costretta a vivere con un uomo molto più vecchio di lei, più anziano del padre. Il marito l’ha poi accusata ingiustamente di adulterio, dopo che aveva perso il loro bambino. Quella di Nawal non è una storia isolata. Accade tutti i giorni in Afghanistan. Amina, Nur, Samia sono solo alcuni dei nomi delle bambine ingiustamente detenute in carcere. Per questo la ong italiana Ciai, che si occupa di sostegno all’infanzia e adozioni internazionali, grazie al supporto di Only The Brave Foundation, ha avviato un progetto a Kabul e a Herat che si chiama Bambine senza paura. “Bambine - spiega la ong in un comunicato - che vengono private della loro libertà per avere avuto il coraggio di ribellarsi d un matrimonio forzato e prematuro, a convenzioni sociali che le costringevano a una vita senza speranza, privandole della possibilità di andare a scuola, vivere in autonomia, fare delle scelte indipendenti e realizzare le loro aspirazioni. Quello che per noi appare come legittimo, in Afghanistan è reato morale”.