Riforma delle carceri, l’allarme di Ciambriello: “Sbagliato togliere poteri ai direttori” Corriere del Mezzogiorno, 3 novembre 2019 Il Garante campano dei detenuti commenta l’ipotesi di riforma: poteri accentrati nelle mani della Polizia Penitenziaria. “Schemi di decreti legislativi correttivi del riordino dei ruoli e delle carriere del personale delle Forze di polizia e delle Forze armate”. È una nota del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria n. 0318577 del 22.10.2019 trasmessa all’On. Ministro della Giustizia, alla Segreteria dell’On. Ministro ed alle OO.SS. rappresentative del corpo di Polizia Penitenziaria. La Polizia penitenziaria non deve essere subordinata gerarchicamente al direttore del carcere. E lo stesso comandante di istituto non deve avere un rapporto di subordinazione gerarchica con il direttore, è la sostanza dei decreti. È una ipotesi reale di una riforma che toglie poteri al direttore del carcere per trasferirli al comandante. C’è preoccupazione per la prossima riorganizzazione delle competenze che toglierebbe poteri al direttore di carcere per trasferirli al comandante di Polizia penitenziaria”. Con una dichiarazione scende in campo sull’argomento Samuele Ciambriello, garante campano dei detenuti. “Pur nel rispetto delle legittime aspirazioni a miglioramenti economici e di carriera degli appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria è un tentativo complessivo per creare una pericolosa alterazione degli equilibri gestionali, senza, di contro, lasciarne intravedere i vantaggi. Come Garante campano dei detenuti mi lasciano sbalordito queste inquietanti rivoluzioni interne agli Istituti penitenziari, chiaro ritorno a un’idea di carcere chiuso gestito solo dalla polizia, e dove privazioni e sofferenze fisiche sarebbero gli strumenti per favorire il pentimento e la rieducazione del reo. Basta con il torcicollo nelle riforme della Giustizia e nella organizzazione interna delle carceri che rischia di violare i dettami Costituzionali. Spero che il Ministro della Giustizia ed il Governo siano disponibili a modifiche”. La lettura delle misure correttive proposte suscita forti perplessità nelle Associazione che operano nelle carceri, se non serie preoccupazioni per il complessivo equilibrio, e quindi tenuta, del sistema penitenziario, con riferimento alle previsioni relative alla carriera dei funzionari. Il Garante Ciambriello rispetto a questo nuovo modello securitario per le carceri lancia un allarme e sottolinea: “il ruolo strategico che riveste il governo del personale, specialmente in una amministrazione, come quella penitenziaria, tendenzialmente chiusa e con una spiccata impostazione gerarchica, tanto che solo la diversificazione dei livelli di esercizio del potere gestionale su di esso può contribuire a ridurre il rischio di abusi esercitabili nei confronti dei detenuti, ma anche degli stessi appartenenti al Corpo, laddove vi fosse un unico esclusivo riferimento. Insomma si ritorna ad un modello di pura custodia, vigilare per redimere, altro che incentivare la speranza, promuovere la risocializzazione e il reinserimento dei detenuti”. Yoga in carcere: una grande opportunità di riabilitazione per i detenuti di Mario Tortoriello cinquecolonne.it, 3 novembre 2019 Il percorso che i detenuti devono affrontare per avere nuovi contatti con l’ambiente esterno ed essere reinseriti nella società è alle volte lungo e tortuoso anche per via di numerosi problemi psicologici. Basti pensare che secondo i dati del Ministero della Salute il 40% dei reclusi soffre di disturbi psichici, causati da forme di dipendenza da sostanze, problemi nevrotici e di adattamento. Secondo numerose ricerche scientifiche internazionali una soluzione utile per il loro recupero arriva dallo Yoga: stando a quanto riportato da una ricerca della Oxford University e pubblicata sulla BBC, infatti, sessioni prolungate di yoga in carcere aiutano a migliorare lo stato di salute mentale dei detenuti, alleviando i livelli di ansia e depressione, e portano a un calo della recidiva. Pratica che potrebbe tornare utile alle oltre 50mila persone che affollano le carceri italiane, secondo i dati Istat, e al 68% di coloro che tendono nuovamente a finire tra le sbarre ripetendo gli stessi errori. Ma non è tutto, perché da una ricerca della Washington State University e pubblicata su Science Daily praticare yoga in carcere aiuta i detenuti nel creare relazioni più sane con i compagni di cella, aumenta la loro sensazione di autostima e riduce la propensione a comportamenti aggressivi e antisociali. “La pratica dello yoga può essere un valido aiuto per compensare i numerosi problemi psicofisici generati dalla carcerazione. Molto spesso si crea un circolo vizioso che nel tempo può solo aggravarsi ed è per questo che l’apprendimento di una corretta respirazione può mitigare disturbi fisici e stati di tensione crescente - spiega Andrea Di Terlizzi, fondatore di Inner Innovation Project, tra i massimi esperti in Italia di Yoga e scienze antiche - La mia personale esperienza nel carcere di San Vittore a Milano e in quello di Cremona, risalente agli anni 80, ha portato alla luce un fenomeno rilevante, ovvero che i carcerati, così come le persone libere, possono aver sentito parlare di Yoga e Meditazione oppure non saperne nulla. Tendono subito ad accogliere positivamente o respingere colui che potrebbe insegnarli queste discipline e il fattore rapporto è più importante della pratica in sé. Per questo motivo ci tengo a sottolineare che l’azione riabilitativa dello Yoga non dipende unicamente dall’efficacia della disciplina trasmessa ma soprattutto dall’esperienza di chi la comunica e, nel caso dei detenuti, e dalle sue capacità empatiche nello stabilire con loro il giusto rapporto”. Ma non è tutto, perché alcuni esercizi di yoga, armonizzati con tecniche respiratorie e di concentrazione mentale, consentono la sperimentazione di uno stato di equilibrio nervoso che si riflette sulla percezione generale del carcerato, fornendogli una diversa condizione di calma e autocontrollo. Una ricerca compiuta dalla University of Pennsylvania, pubblicata sulla rivista scientifica Journal of Clinical Psychiatry, ha rilevato un miglioramento significativo in un gruppo di pazienti colpiti da gravi stati di ansia e depressione. E ancora, le sessioni di yoga in carcere possono risultare utili anche agli operatori nelle carceri, spesso sottoposti a un grave peso psicologico dovuto al loro lavoro: da un’indagine britannica condotta in un carcere di Manchester e pubblicata su The Telegraph è emerso che oltre 60 addetti dello staff hanno migliorato la propria condizione di salute fisica e mentale grazie a questa disciplina. L’utilizzo positivo dello yoga come strumento di riabilitazione per i detenuti è un pensiero condiviso dalla dottoressa Amy Bilderbeck del dipartimento di psichiatria e psicologia alla Oxford University, che ha dichiarato alla Bbc: “I nostri ricercatori hanno individuato come i detenuti sottoposti a una sessione intensiva di 10 settimane di yoga hanno migliorato notevolmente le loro condizioni di salute mentale, risultando più inclini alla partecipazione di attività educative rispetto a coloro che continuavano la solita routine. Più della metà dei carcerati adulti torna dietro le sbarre dopo un anno ripetendo gli errori del passato. Per questo motivo sensibilizzare le carceri nell’utilizzo di sedute di yoga e meditazione diventa un monito fondamentale per ridurre il tasso di recidiva e aiutare i detenuti nel loro percorso di riabilitazione all’interno della società”. Yoga in carcere: i dieci benefici per la riabilitazione dei detenuti: - Riduce la propensione a comportamenti aggressivi e antisociali - Allevia i livelli di ansia e depressione - Favorisce lo sviluppo di autodisciplina e concentrazione - Aiuta i detenuti a essere meno impulsivi e a intraprendere attività educative - Aumenta la sensazione di autostima - Porta i detenuti a essere meno inclini all’abuso di sostanze stupefacenti - Aiuta a dormire meglio - Fa calare il tasso di recidiva - Favorisce la socializzazione e permette di creare relazioni più sane con i compagni di cella - Potenzia la consapevolezza di sé e aiuta a prendere coscienza del crimine commesso La Consulta sbaglia a concedere permessi a mafiosi irriducibili? di Gian Carlo Caselli Gente, 3 novembre 2019 Secondo la Suprema Corte, l’ergastolo “ostativo” per chi non collabora “è incostituzionale”. I detenuti non pentiti vanno trattati come gli altri. È corretto? I mafiosi si autoproclamano uomini d’onore perché convinti di essere gli unici veri uomini. Gli esterni sono persone senza identità, da assoggettare e al limite uccidere. L’essere uomo d’onore cessa solo con la morte e anche se il mafioso si trasferisce in luoghi lontani, e non è più impiegato negli affari della famiglia, deve sempre essere disponibile. Peraltro, lo status perpetuo di mafioso cessa, per forza di cose, in caso di pentimento, cioè di collaborazione con lo Stato. Di qui occorre partire per riflettere sulla sentenza della Consulta. La pena deve tendere alla rieducazione del condannato. In linea di principio, all’ergastolano si possono concedere alcuni benefici. Ma se il condannato non vuol saperne di rieducarsi perché l’identità mafiosa è incompatibile, allora (è il caso dei mafiosi irriducibili) il discorso è più complesso. Infatti la Consulta, nell’ammettere gli ergastolani mafiosi non pentiti ai permessi premio, si è spaccata: 8 a 7. La sentenza non introduce alcun automatismo: sarà un giudice a decidere secondo alcuni paletti fissati dalla Consulta. Ma si tratta di relazioni e pareri formali, se non di facciata. In particolare (senza offesa...) non c’è da scomodare Alice nel paese delle meraviglie per osservare che non è affidabile il mafioso che rivendica di essere stato un detenuto modello: il rispetto formale dei regolamenti carcerari è una regola del codice della mafia. In ogni caso, è purtroppo facile prevedere che il mafioso non pentito, ammesso ai permessi premio, potrà sfruttare le porte che gli saranno aperte per rientrare nell’organizzazione. Un segnale leggibile come rallentamento dell’antimafia che non ci possiamo permettere: se non peccando di astrattezza. *Magistrato Ergastolo. Per i penalisti il nostro appello è “eversivo” Il Fatto Quotidiano, 3 novembre 2019 L’appello su Change.org “No ai permessi premio per i boss stragisti che non collaborino”, firmato da 53.520 persone, sarebbe una “pretesa materialmente e tecnicamente eversiva”. Ha lanciato macigni Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione delle Camere penali, ieri su Radio Radicale. “Basta leggere l’appello del Fatto Quotidiano contro la sentenza della Corte Costituzionale sull’ergastolo ostativo per comprendere che qualcosa di molto grave sta davvero accadendo nel nostro Paese”. Prosegue: “Sollecitare il Parlamento a una ribellione contro una sentenza del giudice delle leggi e che ciò avvenga nel nome e con le parole di magistrati della Repubblica è qualcosa di semplicemente inaudito”, dice Caiazza. In realtà nessuna ribellione è stata sollecitata, ma semmai un’iniziativa legislativa per disciplinare efficacemente, nei limiti fissati dalla Consulta, la materia dei benefici carcerari per i boss e per i mafiosi che non collaborano con la giustizia. Caiazza però chiede se Presidente della Repubblica e Anm non abbiano qualcosa da dire. E definisce Nicola Gratteri il “vate” per il Fatto Quotidiano e Marco Travaglio “corifeo”. L’insano e contagioso desiderio di cambiare la Costituzione di Michele Ainis L’Espresso, 3 novembre 2019 Hanno cominciato giocando con i numeri; finiranno, prima o poi, per dare i numeri. È la sindrome del riformatore, che ha già dannato Berlusconi e Renzi. L’ambizione di scrivere daccapo tutte le regole del gioco, di meritare un posto fra i padri della patria, consegnando ai posteri una Costituzione tutta nuova. Il primo ci provò nel 2005, inoculando 55 articoli nel vecchio corpo della nostra Carta. Il secondo ci riprovò nel 2016, con un’iniezione di 47 articoli. Poi l’uno e l’altro affogarono sotto una marea di “no”, espressi dagli italiani nei successivi referendum. Ora la nuova maggioranza sta per ricadere nella stessa tentazione. Senza dirlo, anzi facendo mostra del contrario. Senza un progetto napoleonico, piuttosto con una pioggerella di piccoli interventi, di micro-riforme che parrebbero slegate l’una dall’altra, una virgola di qua, un comma di là. Ma è la somma che fa il totale, diceva il buon Totò. Se scrivo una legge costituzionale di 30 articoli, o se ne scrivo 30 d’un articolo ciascuno, avrò raggiunto lo stesso risultato. Probabilmente pessimo, come insegna l’esperienza. Questione di numeri, di cifre. Come nell’unica riforma fin qui timbrata dalle Camere nella XVIII legislatura: il taglio dei parlamentari. Da 945 a 600, 345 in meno. Ma è un numero anche l’età per deporre una scheda nell’urna elettorale: 18 anni alla Camera, 25 al Senato. Enrico Letta ha proposto d’estendere il diritto di voto ai sedicenni, Beppe Grillo vorrebbe privarne gli ottantenni. Nel dubbio, s’avanza una legge di revisione costituzionale per consentire il voto in Senato ai diciottenni: nel luglio scorso prima approvazione a Montecitorio (tutti d’accordo, con appena 5 contrari e 7 astenuti), da ottobre se ne occupa palazzo Madama. E perché non abbassare pure l’età per diventare senatori? Adesso servono 40 anni suonati, potrebbero bastarne 25. D’accordo anche su questo numero, e infatti la riforma sta per decollare dai banchi del Senato: tombola! Ma il gioco, in realtà, non è affatto concluso. Perché il taglio dei parlamentari si tira dietro altre riforme “di cornice”, già concordate dalla maggioranza giallorossa durante il battesimo del governo Conte 2. In primo luogo una modifica all’articolo 83 della Costituzione, abbassando da 3 a 2 i delegati regionali che concorrono ad eleggere il capo dello Stato; altrimenti le Regioni peserebbero troppo, con un terzo di parlamentari in meno rispetto al passato. In secondo luogo, una modifica all’articolo 57, rendendo pluriregionale - anziché regionale - la base elettiva del Senato. Anche in questo caso, lo scopo è di evitare distorsioni, giacché nelle Regioni più piccole le minoranze non riuscirebbero a esprimere alcun senatore. Dopo di che s’aggiungono le riforme più formose. Il referendum propositivo, per esempio: già licenziato in prima battuta dalla Camera a febbraio, è una bandiera del Movimento 5 Stelle. O la sfiducia costruttiva, cara al Partito democratico; se ne discuterà a dicembre. Senza dire della giustizia, dove bolle in pentola l’idea di separare le carriere di giudici e pm, nonché di sorteggiare i membri del Csm: altre due revisioni costituzionali, e non di poco conto. Come la riforma della riforma del Titolo V (che elenca le competenze regionali), annunciata dai 5 Stelle a settembre, durante la convention di Napoli. O come l’idea d’includere l’ambiente nella Costituzione, avanzata da Conte a New York, in settembre. Anche se la nostra Carta cita già l’ambiente, nell’articolo 117 e nell’articolo 9. Sarebbe meglio leggerla, prima di smontarla come un Lego. Insomma, c’è il rischio di fare indigestione. Va bene che l’appetito vien mangiando, ma in questo caso converrebbe mettersi un po’ a dieta. A contare i progetti di revisione costituzionale fin qui depositati in Parlamento, s’arriva a un numero a tre cifre: 173. ra questi, s’incontrano interventi poderosi, dal presidenzialismo al superamento del bicameralismo paritario. Ma anche proposte più nal”, come il riconoscimento delle radici giudaico-cristiane o una specifica garanzia costituzionale per gli avvocati. E queste eccentriche proposte vengono, in molti casi, dai parlamentari della nuova maggioranza. Si è aperto, dunque, il vaso di Pandora. E a difenderci non basterà un ombrello. Donne vittime di violenza, un’altra beffa. “Mai ripartiti i fondi del 2019” di Viviana Daloiso Avvenire, 3 novembre 2019 Non basta l’umiliazione dei 12 milioni di euro stanziati ai Centri antiviolenza nel 2017 (che divisi per il numero di donne accolte e sostenute in un percorso di recupero, come ha denunciato Avvenire, fanno poco più di 70 centesimi a vittima). C’è anche la vergogna dei fondi stanziati per l’anno in corso, il 2019, “fondi per cui non è ancora nemmeno iniziato il riparto tra le Regioni” spiega Valeria Valente, senatrice del Pd e da febbraio presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio. Un ritardo di 10 mesi, “a cui si deve sommare quello medio di altri 8 o 9 delle Regioni per la procedura di effettiva assegnazione”. Concretamente questo cosa significa, onorevole? Che da un anno gli stessi Centri antiviolenza - l’unico baluardo di difesa delle donne vittime di abusi e maltrattamenti nel nostro Paese - non solo non hanno fondi per procedere con le proprie attività, ma non sanno nemmeno se li riceveranno. Un’incertezza che di fatto impedisce la programmazione degli interventi e la stesura di nuovi progetti, oltre che penalizzare (quando non azzerare del tutto) quelli già in corso. A cosa si deve questo ritardo? Banalmente, ai tempi della burocrazia. Nonostante più volte, come Commissione, ci siamo mossi per sollecitare il governo precedente sul Piano di riparto, nulla è stato fatto. E siamo a novembre, quando negli anni precedenti - pur già con un enorme ritardo - si procedeva appena dopo l’estate. E il nuovo governo? Si sta muovendo. Proprio questa settimana abbiamo incontrato il premier Conte, che ci ha rassicurati sulla priorità di questo punto. E il ministro per le Pari opportunità e la Famiglia, Elena Bonetti, che ha insediato mercoledì a Palazzo Chigi la cabina di regia interministeriale sulla violenza contro le donne, ha promesso che in tempi brevi arriveranno i 30 milioni di euro da destinare alla Regioni per finanziare i centri. Sono segnali di un impegno che ci rincuora, ma che va mantenuto. I reati contro le donne sono gli unici che continuano a non diminuire, nonostante l’Italia negli ultimi anni si sia dotata di norme fortemente punitive nei confronti di chi li commette. Perché? È vero, il quadro normativo italiano si è arricchito di interventi volti a un inasprimento delle pene sul fronte delle violenze di genere. Dalla legge contro lo stalking fino al recente Codice rosso, abbiamo assistito al tentativo “aggredire” il fenomeno dal punto di vista del diritto penale, coi risultati positivi di un aumento degli arresti e delle denunce. La tutela delle donne, però, non è aumentata. Troppi i casi di violenza, troppi i femminicidi a cui quotidianamente assistiamo quasi inermi. Questo ci dice che pene più aspre non bastano. Serve un cambio di passo, a cominciare da una presa di coscienza culturale di quello che sta accadendo. Da dove si comincia? Dalle università, tanto per fare un esempio. Chi si occupa di violenza sulle donne, nel nostro Paese, ancora non ha la formazione e la specializzazione necessarie per farlo. Penso agli avvocati, ai medici di base, agli psicologi, agli ufficiali di polizia: quando, in un percorso di studi standard, si incontrano moduli specifici pensati perché questi professionisti sappiano trattare il caso di una donna vittima di violenza? Chi si sta occupando di arricchire i percorsi curriculari in tal senso? Scopriamo, anzi, che sono sempre gli stessi Centri antiviolenza nella maggior parte dei casi a offrire questo tipo di formazione. Come Commissione d’inchiesta siamo impegnati su questo punto costantemente: proprio con gli atenei stiamo approntando piani di collaborazione e sensibilizzazione in tal senso. E poi siamo al lavoro coi tribunali. Come? Stiamo svolgendo una prima indagine, attraverso la distribuzione capillare di questionari, su come vengono affrontate le separazioni civili. Ci siamo resi conto, infatti, che l’area al di fuori del penale resta del tutto scoperta a livello di controlli e attenzioni, quando invece moltissime vittime di violenza continuata in famiglia, per paura di denunciare, intraprendono proprio la via della separazione civile per mettere al sicuro se stesse e i propri figli. Ecco, a quel livello le situazioni a rischio dovrebbero essere intercettate e accompagnate con molta più frequenza di quel che avviene. Sempre coi tribunali, poi, abbiamo avviato una serie di verifiche su alcuni casi di denunce archiviate, e poi sfociate in femminicidi. Serve che certi segnali vadano intercettati prima che le donne muoiano. Sicurezza, il Pd vuole riscrivere i decreti: protezione umanitaria e assistenza Sprar di Cristiana Mangani Il Messaggero, 3 novembre 2019 Il Partito democratico torna alla carica sul Decreto sicurezza e annuncia che nei prossimi giorni ne chiederà la modifica. Qualcosa, però, che vada oltre i rilievi rappresentati dal Quirinale nei mesi scorsi e che preveda il ripristino di alcune garanzie, soprattutto nei confronti di chi ha diritto alla protezione umanitaria. Che si tratti di un argomento che sta a cuore a una parte del governo è chiaro da tempo. È stato lo stesso ministro dell’Interno Luciana Lamorgese a spiegare in più occasioni che, a breve, si interverrà “per rendere conformi i testi (dei Decreti Salvini, ndr) in base a tutte le osservazioni che sono arrivate dal presidente della Repubblica”. Da quando si è insediata al Viminale, lei non ne ha mai applicato le regole. E lo ha potuto fare proprio sulla base di quanto previsto da quelle stesse norme. Nonostante questo, però, i Dem fanno pressioni sui grillini, ed è facile che da qui alla fine dell’anno qualcosa dovrà cambiare. Ieri il segretario Nicola Zingaretti è tornato sull’argomento con un post su Facebook: “Dopo mesi di chiacchiere e bugie sono state rimesse al centro le politiche per la sicurezza - ha scritto. Ci sono le risorse per il riordino delle carriere, 48 milioni annui per gli straordinari delle forze di polizia, risorse per il rinnovo del contratto. Dopo le bugie di Salvini sui flussi migratori svelate dal ministro Lamorgese, quello di oggi è l’inizio di un nuovo tormentone. La sicurezza la pretendiamo noi del Pd e per fortuna in Italia c’è un nuovo ministro degli Interni”. Le basi per la riscrittura del Decreto sicurezza bis partono dai rilievi fatti dal Colle 1’8 agosto scorso, che ha anche ricordato l’obbligo di salvare vite in mare. Tre le modifiche alle quali i tecnici del Viminale e di Palazzo Chigi lavoreranno: sparirà la sanzione da un milione per i comandanti che violano il divieto d’ingresso - introdotta con un emendamento - e si tornerà all’iniziale previsione contenuta nel decreto, con sanzioni da 10 mila a 50 mila euro. Verrà, inoltre, reintrodotta la recidiva per poter confiscare le navi che non rispettano le indicazioni delle autorità e dovranno essere individuati dei criteri per l’applicazione delle sanzioni stesse: tipologia delle navi, condotte poste in essere, presenza o meno di naufraghi a bordo. Ma non è tutto, perché il Pd intende andare oltre, proprio partendo dagli effetti che il decreto sembra aver prodotto sull’immigrazione. Il provvedimento ha sostanzialmente abolito la protezione umanitaria che è una delle tre forme riconosciute in Italia per le persone straniere in difficoltà. Uno strumento legislativo nazionale che si affianca alle due forme di protezione riconosciute a livello internazionale: lo status di rifugiato e la protezione sussidiaria. Viene concessa quando non ci sono le condizioni per dare la protezione internazionale, ma ci sono comunque “seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello stato italiano” per offrire protezione. Ridurne le possibilità di accesso, secondo il Pd, ha generato un maggior numero di clandestini e ha fatto trovare senza più un lavoro chi ieri ne aveva diritto in base allo status ottenuto. Altro aspetto sul quale insisteranno i Dem, è il ripristino del sistema di accoglienza Sprar che - “pur con tutti i limiti di alcune gestioni - spiegano - è un sistema che funziona”. Inoltre si chiederà di rivedere nel Decreto sicurezza bis quella parte di norma che consente al ministro dell’Interno - di concerto con i ministri dei Trasporti e della Difesa - la chiusura dei porti e il divieto di ingresso alle navi delle Ong, in base a una presunta possibilità che abbiano commesso un reato. Qualcosa che non spetta a un ministro dell’Interno - viene evidenziato - ma a un magistrato. Calabria. La Commissione regionale Pari Opportunità entrerà nelle carceri di Danilo Loria strettoweb.com, 3 novembre 2019 Lo farà il 25 novembre in occasione della giornata internazionale contro la violenza di genere. “La Crpo Calabria, in occasione della giornata internazionale contro la violenza di genere che si celebra il 25 novembre, entrerà nelle carceri”. Lo annuncia la presidente della Commissione Cinzia Nava che aggiunge: “Daremo seguito al protocollo che abbiamo sottoscritto l’anno scorso con il Provveditore delle carceri della Calabria che ha improntato le proprie azioni di sensibilizzazione al rispetto verso la donna e al valore della non violenza all’interno delle carceri. Infatti, molti direttori degli istituti penitenziari hanno voluto la presenza della Crpo Calabria per il mese di novembre nell’Istituto penitenziario di Cosenza, Rossano, Catanzaro e Castrovillari. Altri, ancora, a breve, indicheranno la data. Questa iniziativa continuerà anche dopo, nella consapevolezza di non dovere mai abbassare la guardia rispetto a queste tematiche di grande valore sociale e culturale. Intanto, c’è una prima data: il prossimo diciotto novembre, alle ore 16 - annuncia Cinzia Nava - nella sala Commissioni di Palazzo Campanella, alla presenza del vicario alle carceri Tortorella Rosario, presenteremo la programmazione che attiene a questa sinergia molto significativa”. Nuoro. Don Salvatore Bussu, il piccolo grande prete che cambiò le carceri di Silvia Sanna La Nuova Sardegna, 3 novembre 2019 Era un rumore cupo e lontano. Cadenzato, monotono. A Nuoro, tutti quelli che abitavano nelle basse case di via Roma, via Ferracciu e via Brofferio lo conoscevano molto bene. Lo si sentiva soprattutto nei giorni più freddi. Arrivava da dietro le mura grigie del vecchio carcere ottocentesco e, anche se nessuno lo diceva, tutti sapevano che quello era il rumore dell’inverno e della sofferenza. A produrlo erano infatti i detenuti che correvano in tondo nel cortile della prigione, come dei dannati in un infernale girone dantesco. Fino a sfinirsi. Perché quello era l’unico modo per scaldarsi in un luogo di pena che rappresentava un’offesa alla dignità dell’uomo. Così, quando alla fine degli anni Sessanta, nelle campagne di “Sa Terra Mala” fu costruito il nuovo carcere, tutti in città pensarono che quell’opera in qualche modo avrebbe saldato un debito di dolore col passato, facendo riconciliare Nuoro con la civiltà. Il penitenziario di Badu e carros era stato infatti progettato e costruito per essere un reclusorio modello, seguendo i criteri di umanizzazione e di socializzazione che ispiravano la tanto attesa riforma carceraria, che in quegli anni difficili si stava faticosamente costruendo in Parlamento. Era un modello architettonico moderno, innovativo, modellato sulle esigenze del rispetto del detenuto e, quindi, dell’uomo. Tanto che perfino uno dei più grandi urbanisti del mondo, Bruno Zevi, nel 1966 lo definì nella sua rivista “Architettura”, un “modello straordinario da seguire ed imitare”. Ma la storia, a volte, riserva un’ironia crudele. E così, infatti, quel modello che avrebbe dovuto cancellare la vergognosa memoria della “Rotonda” di via Roma, si trasformò in pochi anni in un nuovo inferno. Diventò addirittura uno dei simboli degli anni dell’emergenza, quando molti diritti e libertà personali furono sospesi, in nome della sicurezza sociale. Badu e carros diventò uno dei centri strategici nella geografia della lotta dello Stato contro l’eversione. Negli anni Settanta, infatti, cominciò la lunga stagione della paura, nata dai sogni violenti di una generazione che voleva cambiare il mondo con le armi. Allora nessuno lo poteva immaginare, ma quella guerra tra le istituzioni repubblicane e il terrorismo era alimentata, e forse addirittura ispirata, da oscure trame atlantiche che solo oggi stanno emergendo, grazie al lavoro degli storici e delle commissioni parlamentari d’inchiesta. Il massimo stratega dello Stato in questa guerra contro un nemico invisibile e sfuggente era il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa. Due erano i cardini sui quali il generale aveva impostato la propria azione: infiltrare i suoi uomini nella complessa e turbolenta galassia della sinistra extraparlamentare per arrivare fino al cuore delle Br e avere il controllo assoluto dei penitenziari. Con il decreto ministeriale del 4 marzo 1977, che istituiva nella casa circondariale nuorese un braccio speciale, Badu e carros diventò così un carcere di massima sicurezza. Fu una sorta di colpo di mano: nessuna autorità locale, politica o giudiziaria, era stata consultata o semplicemente informata. La magistratura nuorese manifestò apertamente il proprio dissenso. Le alchimie estreme che si potevano formare con la convivenza dei detenuti comuni e dei detenuti politici erano infatti considerate potenzialmente distruttive. Il procuratore della Repubblica Francesco Marcello lo disse esplicitamente nel convegno organizzato dalla Provincia subito dopo la rivolta avvenuta a Badu e carros alla fine del 1980. La ribellione era stata guidata dai brigatisti Valerio Morucci, Alberto Franceschini, Mario Rossi e Roberto Ognibene. All’origine della clamorosa protesta, il rifiuto da parte dell’amministrazione penitenziaria di trasferire una cinquantina di detenuti, per avvicinarli alle loro famiglie. Approfittando di quelle ore confuse di rabbia e di tensione, all’interno del carcere si consumò un feroce regolamento di conti tra gruppi criminali e furono assassinati i camorristi Biagio Iaquinta e Francesco Zarrillo. Lo Stato sembrò allora cedere e molti detenuti “politici” furono trasferiti. In realtà si trattò di un espediente, quasi di un inganno, per ristrutturare il braccio speciale e renderlo ancora più sicuro, più blindato. Dopo pochi mesi, i detenuti condannati per terrorismo furono tutti riportati a Nuoro. E con loro questa volta arrivarono anche molti “pezzi da 90” della criminalità. Badu e carros non era più “un braciere acceso”, come aveva denunciato il procuratore Francesco Marcello, ma una polveriera pronta ad esplodere. In quel clima rovente il cappellano don Farris si arrese e rassegnò le dimissioni al vescovo. Monsignor Giovanni Melis era un uomo di straordinario vigore. Da anni era in prima linea contro la violenza. Le sue armi erano la parola e la speranza, il suo campo di battaglia era la Barbagia, insanguinata dalle faide e dai regolamenti di conti, e umiliata e ferita dalla maledizione del sequestro di persona. Davanti alle bare dei morti ammazzati il vescovo non lanciava anatemi e non si perdeva in duri sermoni, ma seminava parole di pace e di riconciliazione. Testardo. Instancabile. Era il simbolo di una Chiesa che era capace di vivere dentro la società barbaricina e le sue contraddizioni, e che non si stancava di lottare per arginare il vento dell’odio e le tempeste del sangue. Ebbene, con le dimissioni di don Farris, monsignor Melis si trovò ad affrontare un problema molto spinoso. Nel clero nuorese, infatti, tutti avevano paura di calarsi in quell’abisso di dolore e di paura che era allora Badu e carros. Poi seppe che in curia c’era un prete che aveva detto di non aver timore di affrontare quella sfida. Allora lo convocò per affidargli il ruolo di cappellano del carcere. Quel sacerdote era don Salvatore Bussu. Monsignor Melis in quel momento non poteva immaginare che, con quella scelta, avrebbe cambiato la storia carceraria italiana. Salvatore Bussu era barbaricino di Ollolai. Uomo acuto e complesso, era un prete con la passione del giornalismo. Ma forse - come disse un suo amico - era un giornalista con la passione per il Vangelo e per i più deboli. Dirigeva il settimanale diocesano “l’Ortobene” che aveva trasformato in uno spazio prezioso per il dibattito politico e per l’analisi dei problemi sociali del centro Sardegna. Don Bussu era basso di statura, apparentemente fragile, con due occhi che le spesse lenti degli occhiali facevano sembrare enormi e quasi stupiti. Ma dietro questa apparenza dimessa e mite c’era invece un uomo con una tempra d’acciaio che portava avanti le sue scelte di coerenza con incredibile tenacia. A Badu e carros entrò con discrezione, quasi in punta di piedi, il primo febbraio del 1981. Due giorni dopo, la prima messa per i detenuti “comuni”, i soli che potevano parteciparvi. Cominciò l’omelia con un brano della lettera di San Paolo agli ebrei: “Ricordatevi dei carcerati, come se foste loro compagni di carcere”. Il rapporto con i detenuti “politici” era invece inesistente. Loro ignoravano quel piccolo prete che cercava un dialogo con loro. E don Bussu rispettò quell’atteggiamento freddo, ma non ostile. Ma non si rassegnava a quel vuoto di parole, a quella impossibilità di confronto. E allora il 4 febbraio 1982 scrisse loro una lettera dove, tra l’altro, diceva: “Non sono un uomo del potere, ma soltanto un amico e sacerdote di quel Gesù che è venuto al mondo a portare il lieto annuncio ai poveri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi”. I brigatisti rossi non risposero, ma le parole di don Bussu provocarono al loro interno una discussione molto sofferta. E così, quando il cappellano del carcere chiese il 26 febbraio un incontro con uno dei leader delle Br, Mario Moretti, questi si presentò all’incontro. Così lo descrisse don Bussu: “Fisicamente non è un granché: stortignaccolo, con un viso triste come i suoi baffoni alla Stalin. Ma subito hai la sensazione di trovarti davanti a un uomo estremamente intelligente, razionale, duro”. Moretti era il terrorista considerato regista del sequestro-omicidio del presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro. Il brigatista chiese al cappellano se sapesse per quanto tempo ancora sarebbero state applicate nei loro confronti le restrizioni previste dall’articolo 90 della legge penitenziaria del 1975. Ma don Bussu non poteva saperlo. Allora Moretti gli disse: “Se così ci vogliono fare morire, preferiamo morire a modo nostro”. Era un messaggio criptico, nel quale si intuiva una terribile minaccia. L’articolo 90, come disse don Bussu, “consentiva di chiudere ermeticamente il carcere, rimuovendo il detenuto dalla coscienza dei cittadini”. In concreto, si traduceva nell’isolamento più completo del recluso, nell’impossibilità di ricevere pacchi dall’esterno, nei vetri divisori nei colloqui con i familiari e gli avvocati e nella riduzione delle ore d’aria al minimo. Una norma che veniva applicata con la massima discrezionalità del ministero di Grazia e Giustizia, quando ricorrevano “gravi ed eccezionali motivi di ordine e sicurezza”. Per il ministero a Badu e carros quelle condizioni di eccezionalità duravano da ben due anni. Erano cioè diventate la normalità. Le condizioni di vita imposte erano tanto dure che gli stessi tecnici del ministero chiamavano le sezioni speciali “i braccetti della morte”. Intanto la lettera con la quale don Salvatore Bussu aveva chiesto un dialogo con i terroristi non era piaciuta agli alti papaveri dell’amministrazione penitenziaria. Soprattutto il passaggio nel quale il cappellano aveva detto di non essere “un uomo del potere”. Così il debole filo che esisteva tra il prete e i terroristi fu reciso e per un anno e mezzo don Bussu non poté avere alcun contatto con i detenuti “politici”. Poi, nel novembre del 1983, il convegno nazionale dei cappellani delle carceri italiane provocò un sisma morale e politico. Alla chiusura dei lavori, papa Giovanni Paolo II disse infatti: “L’uomo conserva integra la sua dignità di persona, che per natura sua è inalienabile, anche in stato di colpevolezza. Le restrizioni delle libertà personali trovano in quella dignità un limite invalicabile”. L’onda lunga del terremoto provocato dalle parole del Papa arrivò fino a Nuoro. Fin dentro il carcere di Badu e carros. Alberto Franceschini, fondatore delle Br insieme a Renato Curcio, e Franco Bonisoli chiesero di incontrare don Bussu, che era appena tornato dal convegno nazionale dei cappellani. Da dietro il vetro divisorio Franceschini disse parole gravi e sofferte: “In questa stagione la Chiesa è l’unica a fare discorsi di pace”. Due settimane dopo, don Bussu ricevette dal direttore del carcere le richieste di colloquio non solo dei brigatisti Franceschini e Bonisoli, ma anche di Roberto Ognibene, Luca Nicolotti, Massimo Gidoni, Rocco Micaletto, Claudio Pavese e Nicola Pellecchia. Dopo aver detto al cappellano che alcuni di loro avevano iniziato lo sciopero della fame per protestare contro le loro condizioni di detenzione, consegnarono una lunga lettera nella quale spiegavano le ragioni della loro scelta. Tra le altre cose si leggeva: “… ci sottraggono ogni giorno gocce di vita, distruggendo scientificamente non solo ogni nostro rapporto sociale, ma anche ogni possibilità di ricostruirlo, con l’ambizione infine di distruggerci anche la speranza”. I brigatisti rossi ormai vedevano quel piccolo prete come l’unico legame possibile con il mondo esterno, l’unica possibilità di avere una voce. Don Bussu li supplicò di desistere dal loro progetto che li avrebbe potuti portare fino alla morte. La protesta dei brigatisti continuava nel più completo silenzio. Perché nulla filtrava dal bunker grigio alla periferia di Nuoro. Erano in sette ad alimentarsi solo con una tazza di latte zuccherato al giorno. Alla vigilia di Natale cinque detenuti cominciarono lo sciopero totale. Disperato, don Bussu chiese al vescovo di intervenire, di convincerli a desistere dalla loro azione. E monsignor Melis andò a Badu e carros, dove ebbe un lungo colloquio con Franceschini. Ma il brigatista fu irremovibile: “Andiamo avanti, fino alla fine”. Monsignor Melis, per sottolineare il dissenso della Chiesa rispetto all’atteggiamento disumano del ministero, si rifiutò di celebrare la messa in carcere, affidando questo compito proprio a don Bussu. Cioè al prete che si batteva per riportare umanità tra le mura grigie di Badu e carros. Il pomeriggio di Natale fu per don Bussu un pomeriggio di angoscia. Alla fine prese la decisione: interrompere il suo servizio di cappellano fino a quando non fossero cambiate le condizioni di vita anche nel braccio speciale del carcere. Era il suo regalo di Natale per i digiunatori. Donava loro il suo dolore, la sua solidarietà di uomo e il suo spirito evangelico di prete. Scrisse una lettera al vescovo nella quale spiegava le sue ragioni e raccontava la sua sofferenza. Una copia fu consegnata al direttore del carcere, una ai brigatisti che facevano lo sciopero della fame e una all’Ansa. Per rompere il muro di silenzio. “Sperando che i sette detenuti si ricredano e riprendano a nutrirsi - si legge nella lettera - la prego di voler capire il mio atteggiamento che non è di disobbedienza nei suoi riguardi, ma di rispetto alla coscienza di sacerdote che si ribella ad ogni forma di violenza. Perché se da una parte c’è stato un terrorismo delle Brigate Rosse - e lei sa quanto l’ho sempre condannato nel nostro settimanale che dirigo - dall’altra parte, oggi, per reazione c’è purtroppo un terrorismo di Stato meno appariscente e più scientifico, ma non per questo meno condannabile”. La lettera di don Bussu deflagrò sulle pagine di tutti i giornali e nelle televisioni, creando una bufera politica. Il ministro democristiano Mino Martinazzoli fu costretto a revocare l’applicazione dell’articolo 90 a Badu e carros e ad attenuare le restrizioni per i detenuti “politici”. Fu l’inizio di un lungo cammino di conciliazione, che portò il Paese fuori dagli “anni di piombo” e consentì la riforma carceraria proposta dal senatore Mario Gozzini. Tutto questo forse non sarebbe accaduto senza un piccolo prete nuorese con due occhi che le spesse lenti degli occhiali facevano sembrare enormi. Roma. A Rebibbia partito il Magazzino ePrice di Marco Belli gnewsonline.it, 3 novembre 2019 Sono passati solo cinque mesi, ma sono bastati per passare dalle parole di un protocollo d’intesa ai fatti. Fatti veri e importanti. È partito infatti il 28 ottobre scorso alla Casa Circondariale di Roma Rebibbia il progetto di reinserimento sociale attraverso la formazione e il lavoro, frutto dell’intesa sottoscritta il 30 maggio scorso al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria fra Ministero della Giustizia-Dap ed ePrice Operations srl, società specializzata nella vendita online di tecnologia ed elettrodomestici. L’idea era quella di avviare iniziative di lavoro all’interno degli istituti penitenziari con l’obiettivo di garantire percorsi formativi e professionalizzanti in favore della popolazione detenuta. Furono individuate due strutture, le case circondariali di Roma Rebibbia e Torino, scelte perché in grado di offrire alcune aree non utilizzate che per dimensioni potessero ospitare i magazzini e le attività lavorative previste dall’intesa. Si è partiti nella Capitale con la formazione iniziale di tre detenuti, curata direttamente da ePrice, che al termine ha provveduto a regolarizzare la loro posizione lavorativa mediante assunzione come magazzinieri. E dal 28 ottobre scorso una parte dell’enorme capannone appositamente adibito per il progetto ha iniziato ad ospitare lo stoccaggio dei grandi elettrodomestici che saranno venduti sulla piattaforma online dell’azienda. Nei prossimi mesi è previsto il raddoppiamento della forza lavoro, con altri tre detenuti che verranno selezionati per essere avviati alla formazione e, successivamente, all’assunzione. Novara. Un progetto di giustizia riparativa dedicato ai ragazzi di Barbara Cottavoz La Stampa, 3 novembre 2019 Le incursioni nei parchi saranno “punite” con la realizzazione di una pista per le bici. Uno si chiama “Petra” e frequenta il parchetto di via Petrarca, l’altro s’incontra nel giardino di via Poerio: sono gruppi di ragazzini, tutti bravissimi a impennare con la bici ed esibirsi in evoluzioni alla Brumotti. Ma lo facevano sfrecciando tra le mamme e i bimbi che frequentano le aree-gioco e così la polizia municipale è intervenuta. Multe, ramanzine e un’idea nuova per andare oltre alla punizione: realizzare un bike-park insieme con loro. L’allarme era scattato l’estate scorsa quando le famiglie che frequentano i due giardini della Rizzottaglia e della Bicocca lamentavano la presenza di gruppi di giovanissimi che creavano pericolo scorrazzando in bici tra le altalene, sporcavano e danneggiavano le panchine, entravano al supermercato di viale Giulio Cesare disturbando i clienti e procurando problemi ai dipendenti. La polizia municipale si è mossa con il nucleo di prossimità, composto da quattro agenti e un commissario che da tempo monitorano il mondo dei gruppi giovanili a Novara. Muovendosi in borghese si sono finti frequentatori del giardino, hanno osservato il comportamento dei ragazzi e poi li hanno identificati insieme ai poliziotti della questura. Sono una cinquantina di adolescenti tra i 12 e i 17 anni, quasi tutti novaresi che abitano alla Rizzottaglia e frequentano le scuole medie, il Bellini e l’Enaip. Una volta appurate le responsabilità di ciascuno, i vigili hanno elevato sanzioni per l’ingresso molesto con le bici nel parco: “Ma fermarsi qui, alla repressione e basta, non aveva molto senso perché dopo poco tempo i ragazzini avrebbero ricominciare con gli stessi comportamenti e “inseguirli” con le multe non ci avrebbe portato lontano - dice l’assessore alla Sicurezza Luca Piantanida. Abbiamo provato a pensare che cosa si potesse fare per andare al di là della punizione e dare loro un’alternativa, comunque pretendendo sempre il rispetto delle regole”. A luglio la polizia municipale ha avviato un dialogo a un tavolo comune con la parrocchia San Francesco e i volontari, l’istituto comprensivo Bottacchi e la sua associazione delle famiglie, il progetto Agorà di piazza Donatello, i Servizi sociali del Comune, il Csi e le superiori frequentate dagli adolescenti dei due gruppi. Ne è nata l’idea di creare un bike-park utilizzando strutture realizzate con bancali dismessi e affiggendo cartelloni con le regole da rispettare: i due gruppi di giovani verrebbero coinvolti nell’ideazione, le scuole metterebbero a disposizione i loro laboratori. “Stiamo individuando un’area disponibile: il progetto deve ancora essere approvato definitivamente ma l’amministrazione è già al lavoro - commenta Piantanida. I ragazzi sono entusiasti di quest’idea e il loro comportamento nei parchetti è migliorato”. Salerno. Convegno sul tema: “Giustizialismo mediatico e populismo penale” di Pina Ferro cronachesalerno.it, 3 novembre 2019 “Diritto alla verità e deontologia: dalla strage di via D’Amelio al giustizialismo mediatico. È il tema che sarà affrontato il prossimo 7 novembre (ore 15) nel Salone dei Marmi di Palazzo di Città a Salerno. A discutere dell’argomento sarà Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato Paolo Borsellino trucidato assassinato insieme agli agenti della sua scorta in via D’Amelio nel 1992. Ad organizzare la tavola rotonda è l’associazione Nova Juris - Associazione Italiana per la Costituzione e la buona Giustizia, presieduto dall’avvocato Luca Monaco, insieme all’ Ordine dei Giornalisti della Campania. Avvocato Monaco, come nasce l’idea di questo convegno? “Innanzitutto vorrei sottolineare che questo convegno, che si inserisce nell’ ormai tradizionale calendario di incontri formativi e giuridico-culturali della nostra associazione, è espressione di una bella sinergia creatasi con l’ Ordine Regionale dei Giornalisti e con Assostampa Campania - Valle del Sarno, co-organizzatori dell’evento, a cui rivolgo i miei ringraziamenti. Ma un pensiero speciale va anche a Viridiana Salerno, componente del Direttivo di Nova Juris, che ha reso possibile l’organizzazione dell’evento con il suo silenzioso, paziente, impegnativo e costante lavoro” Perché la scelta di invitare Fiammetta Borsellino? “La presenza di Fiammetta Borsellino è un valore aggiunto. È una donna estremamente coraggiosa che, con grinta e determinazione, ma anche con tanta razionalità, non sempre scontata quando vi è alla base un grande dolore come il suo, combatte per il suo diritto alla verità, che è il diritto di tutta l’Italia. L’incontro sarà anche l’occasione per parlare di giustizialismo mediatico, di populismo penale, del rapporto complesso tra mezzi di informazione e Giustizia Oltre alla Borsellino sono previsti altri relatori importanti? “Ci sarà l’avvocato Carlo Taormina, a cui siamo ormai legati da un rapporto vicendevole e duraturo di stima. Inoltre il vice presidente dell’ Ordine degli Avvocati di Salerno, Cecchino Cacciatore, la cui spiccata sensibilità liberale e garantista è nota. Il presidente dell’Ordine Regionale dei Giornalisti, Ottavio Lucarelli, il giudice presso la Corte di Appello di Salerno, Diego Cavaliero, che è stato allievo di Paolo Borsellino. Con lui ricorderemo la sua figura di uomo e di magistrato. Gli avvocati Antonella Mastrolia e Giovanna Sica, due componenti del nostro Consiglio direttivo. E poi l’avvocato Patrizio Rovelli del Foro di Cagliari, presidente dell’ Osservatorio per la Giustizia, con cui Nova Juris ha instaurato un proficuo gemellaggio. E ancora il Giornalista Rai Michele Giordano” Prima faceva cenno al giustizialismo mediatico e al populismo penale. Perché? “Parto dal presupposto che il giustizialismo è insito nella natura umana. La tendenza alla individuazione sommaria di un colpevole, al pregiudizio, talvolta al moralismo, alla gogna, al concetto di pena esemplare e persino alla vendetta, trascendono i diversi substrati socio-culturali e tendono da sempre a permeare nella nozione e nell’ idea comune di giustizia “ideale”. Esistono, tuttavia, dei momenti storici, come quello che stiamo attraversando, in cui, a causa della concomitanza di diverse congiunture negative (ad esempio, la crisi economica, il senso di insicurezza, la disoccupazione e le frustrazioni che ne derivano) la cultura illiberale e giustizialista diventa addirittura preponderante nella società. In tal senso informazione e politica hanno precise e gravi responsabilità perché, direttamente o indirettamente, spesso a fini propagandistici, finiscono per sobillare il furore giustizialista che si è diffuso in larga parte dell’opinione pubblica. Per questo motivo è importante soffermarci tutti a riflettere e a interrogarci: noi avvocati, i magistrati, i giornalisti, i politici. Ma, soprattutto, è imprescindibile sensibilizzare i cittadini alle ragioni della cultura garantista e liberale sottesa ad alcuni principi cardine della nostra Costituzione; principi che da un po’ di tempo vengono addirittura messi in discussione, quando non demonizzati, e dei quali si rischia di dimenticarne la rilevanza salvifica per la tenuta delle stesse Istituzioni democratiche”. Non è la prima volta che Nova Juris opera in sinergia con altre categorie professionali. E nel suo ambito, l’ avvocatura, come si pone? “Come sempre, con spirito di collaborazione, sia con le rappresentanze istituzionali, dunque con l’ Ordine in primis, che con le altre associazioni come, tra le altre, la Camera Penale. Direi che è una vocazione insita nel Dna di Nova Juris che, oltretutto, presenta alcune sue specificità genetiche che la rendono complementare, non competitiva, con le altre realtà associative. D’altra parte, considero l’Avvocatura salernitana, nel suo complesso, una grande famiglia, la cui forza deve essere l’unità di intenti per la salvaguardia dei diritti dei cittadini, del diritto di difesa e delle rilevanti prerogative a essa assegnate. Ciò, soprattutto in questo difficile momento storico per la nostra professione e per la Giustizia”. Verona. Corsi di Kundalini Yoga in carcere di Roberto Cagliero Ristretti Orizzonti, 3 novembre 2019 Si è svolto il 26 ottobre scorso al centro Yoga Benessere Adi Shakti di Verona, un incontro per insegnanti di Kundalini Yoga che intendano fare richiesta di insegnare in carcere. Teniamo corsi al maschile e al femminile del carcere di Verona. Abbiamo affrontato in 3 ore di lavoro varie specificità della pratica yogica in carcere, da aspetti pratici all’effetto di yoga e meditazione su soggetti reclusi e traumatizzati. L’augurio è che si tratti di un preambolo all’apertura di nuovi corsi in vari istituti di pena italiani. Hanno partecipato insegnanti da Biella, Gorizia, Torino, Udine e Verona. Brescia. La mostra: “Avremo anche giorni migliori. Opere dalle carceri turche” osservatore.ch, 3 novembre 2019 “Gli occhi dei personaggi che disegno sono più grandi del normale. Sono estremamente aperti e grandi. Perché gli occhi sono testimoni di tutto. Parlare non basta, lo so già. Sono gli occhi dei personaggi che raccontano ogni cosa”. (Zehra Dogan) Il Museo di Santa Giulia di Brescia ospita “Avremo anche giorni migliori”, di Zehra Dogan. Opere dalle carceri turche, una personale dell’artista e giornalista curda Zehra Dogan. Il progetto espositivo è curato da Elettra Stamboulis e costituisce la prima mostra di impianto critico curatoriale dedicata all’opera della fondatrice dell’agenzia giornalistica femminista curda “Jinha” e sarà aperta al pubblico da sabato 16 novembre 2019 al 6 gennaio 2020. La mostra rientra all’interno del Festival della Pace, organizzato dal Comune di Brescia e dalla Provincia di Brescia. Le sue opere sono espressioni di vicende personali intrecciate insieme a drammatici eventi politici di attualità. La rassegna raccoglie un totale di 60 opere inedite, tra disegni, dipinti e lavori a tecnica mista, che interessano tutto il periodo della detenzione dell’artista nelle carceri di Mardin, Diyarbakir e Tarso, dove Zehra è stata rinchiusa per 2 anni, nove mesi e 22 giorni con l’accusa di propaganda terrorista per aver postato su Twitter un acquarello tratto da una fotografia scattata da un soldato turco. Questo disegno digitale mostrava la città di Nusaybin distrutta dall’esercito nazionale nel giugno 2016 con le bandiere issate e trionfanti, e i blindati trasformati in scorpioni. Ad arricchire la mostra sono le parole del suo diario, scritto durante la sua prigionia: riflessioni in cui Zehra fa riferimento a diversi artisti che, nel corso della storia, hanno manifestato il proprio dissenso senza pagarne, almeno apparentemente, le conseguenze e a quegli artisti che invece si rifiutano di prendere una posizione. Zehra Dogan è stata rilasciata il 24 febbraio 2019. La sua storia di artista dissidente ha da subito raccolto l’interesse e la solidarietà del mondo dell’arte internazionale, tanto che Ai Weiwei le ha scritto una lettera personale e, lo scorso anno, Banksy le ha dedicato il più ambito dei muri di Manhattan: il Bowery Wall, con un’opera che la raffigura dietro le sbarre, mentre impugna la sua arma più potente: una matita. In tutto questo periodo, l’artista non ha mai cessato la propria attività artistica e giornalistica, realizzando opere con materiale di recupero, collaborando con le compagne detenute nella costruzione di immagini e nella realizzazione di un giornale di bordo che documentasse la loro detenzione. Attraverso questo percorso espositivo si vuole raccontare la condizione altrui attraverso l’immagine e la parola… Dalla carta di giornale alle stagnole dei pacchetti di sigarette, dagli indumenti di uso comune ai frammenti di tessuto: ne emerge una amplissima gamma di strumenti e materiali, spesso legata alle particolari contingenze entro le quali le opere hanno trovato vita. Qualunque elemento tratto dal quotidiano incorre nella creazione, come il caffè, gli alimenti, il sangue mestruale o i più tradizionali pastelli e inchiostri, quando reperibili. La mostra è resa possibile grazie all’impegno del web magazine “Kedistan” (“Il Paese dei gatti” in turco) che ha curato il salvataggio e il trasporto delle opere di Zehra Dogan dalla Turchia e che si occupa dell’archivio dell’artista; e di Associazione Mirada, partner del progetto. “Noi felici pochi”, di Patrizio Bati. La Roma violenta degli psycho-pariolini recensione di Simonetta Sciandivasci Il Foglio, 3 novembre 2019 Realtà e fiction. “Noi felici pochi”, romanzo di una città feroce, ma non ancora Gotham City. Roma ha i suoi problemi ma non è Gotham City. L’ha detto il capo della polizia Franco Gabrielli (ma è una frase che si sente spesso, su Roma, diciamo un refrain) la scorsa settimana, quando l’assassinio di Luca Sacchi, 24 anni, sembrava ancora un fatto gravissimo ma semplice, una rapina finita male, dentro a una città che perde il conto delle rapine e delle cose che finiscono male, e che nessuno si fa sfuggire l’occasione di trasformare in metafore e diagnosi di incurabilità. Invece la storia di questo omicidio è complessa, annodata, chissà quando e se la sapremo tutta, e di Roma, per adesso, non racconta niente se non la spietatezza di chi fa di tutto per ridurla alla ragione sufficiente di tutto quello che le capita dentro, di tutti i delitti, di tutte le disfunzioni. Il racconto su Luca Sacchi e la sua fidanzata Anastasia e i suoi spacciatori è già in caldo, e l’impasto di noia, futili motivi, gioventù bruciata, valori perduti, città perduta è sul tavolo. Una delle cose che si capiscono leggendo “Noi felici pochi”, il romanzo di uno scrittore che non esiste, è come queste narrazioni precostituite, affamate di moventi da cui trarre morali, incidono sul destino di certi ragazzi almeno quanto i fattori ambientali incidono sugli adolescenti di Scampia. Patrizio Bati (traduzione di Patrick Bateman, il ricco assassino figlio di puttana di “American Psycho”) è lo pseudonimo che un “laureato in legge” che “vive e lavora a Roma, sposato, ha una figlia e una collezione di foto segnaletiche di detenuti americani anni Cinquanta nel suo studio” ha usato per firmare un romanzo che è una confessione di fatti veri, botte vere, violenze continue, inutili, schifose che fondano l’amicizia di un gruppetto di ventenni pariolini, tutti di destra senza sapere cosa significhi, tutti machi senza il coraggio della solitudine, tutti spacconi senza la nobiltà di un gesto. Vanno allo stadio, a puttane, in Maremma, in barca, a ballare, quasi sempre strafatti, e non tornano mai senza addosso il sangue di qualcuno. Si vogliono bene, ma bene davvero. E si coprono. E si aiutano. E si capiscono, anche se non lo dicono, e sanno di essere i soli a conoscere, o poter immaginare, l’inferno di ciascuno - per tutti gli altri sono mostri da riverire per non passar guai, viziati da snobbare per non perder tempo. Sono certi che non la pagheranno mai, e anche che non durerà per sempre: vent’anni ce li hanno adesso, leoni possono esserlo adesso. Poi, però, hanno un incidente, la macchina sbanda, finisce in un burrone, a bordo ci sono loro e alcune ragazze, e sono tutti troppo ubriachi. Quello di loro che guida è destinato a una brillante carriera da magistrato per decisione di sua madre e suo padre, e sa che un incidente così manderà tutto all’aria. E allora architetta un piano per venirne fuori pulito, un piano che richiede il sacrificio di una persona, quindi un tradimento, e l’omertà di tutti, quindi un reato. Sanno, Bati e i suoi amici, come fare in modo che agli inquirenti l’incidente non sembri altro che una disgrazia, da raffinati abituali delinquenti coperti da cognomi intoccabili quali sono. Sono degli psychopariolini, e la violenza per loro non è uno sfogo, non è una conseguenza: è un mezzo, e se ne servono tanto per divertirsi quanto per salvarsi il futuro. “Noi felici pochi” è il verso di una canzone del 1996 di Gabriele Marconi, ex giornalista romano, militante di estrema destra: “Noi pochi, noi felici pochi, noi manipolo di fratelli, non serve un castello per noi poca gente un buco è un rifugio più che sufficiente”, ed è anche una cosa che nell’”Enrico V” di Shakespeare il re dice ai soldati prima della battaglia di Azincourt, quella in cui 6 mila inglesi malridotti sconfissero 35 mila francesi gagliardi. Roma non è Gotham City, però è piena di supereroi aspirazionali che credono che l’eroismo sia un’oligarchia fondata sul loro proprio arbitrio. È sul fare tutto ciò che si vuole e mai quello che si deve che si fonda il sentirsi e il proclamarsi eroi di questi ragazzi, la loro resistenza a chi si aspetta da loro che non siano vittime di niente, se non di loro stessi, e che se non si fanno bastare l’essere privilegiati per scegliere di fare il bene anziché il male, la responsabilità è del quartiere in cui vivono, della città, della famiglia, dello spirito del tempo, della destra che avanza. E invece no, scrive Bati. La responsabilità, a volte, è il punto in cui la vittima e il carnefice coincidono. “Lessico del razzismo democratico. Le parole che escludono”, di Giuseppe Faso recensione di Francesca de Carolis remocontro.it, 3 novembre 2019 I gesti e le parole del nostro razzismo quotidiano. Davanti alle tragedie dell’oggi, un invito a riconoscere il razzismo che serpeggia nell’uso degradato delle parole di tutti i giorni, e che pure contribuisce a produrle, quelle tragedie. Perché le parole possono uccidere. Ritrovando due libri, “Lessico del razzismo democratico. Le parole che escludono”, di Giuseppe Faso, e “Sulla lingua del tempo presente”, di Gustavo Zagrebelsky. “Non ha ottenuto l’unanimità la mozione per istituire una commissione straordinaria contro odio, razzismo e antisemitismo, proposta da Liliana Segre. Il centrodestra si è astenuto. E quando i senatori si sono alzati in piedi per omaggiare con un applauso la senatrice a vita, quelli del centrodestra sono rimasti seduti senza applaudire”. Leggo su un quotidiano… ma ancora di più inquietano le immagini di quei nostri rappresentanti, seduti, al margine destro, in una calma indifferente che sa di ostilità. E diventa insulto un gesto in sé innocuo come lo stare seduti e in silenzio. E ancora di più suonano come insulti le “innocenti” parole che sono seguite, sui perché e sui distinguo. E cos’è razzismo, e cos’è un’opinione, e quel “prima gli italiani”, ad esempio. I gesti e le parole… bisognerebbe maneggiare gli uni e le altre con più cautela. Che dire dei crocefissi usati (condivido l’espressione di Michela Murgia) facendo riferimento a “dei marcatori culturali” usati “come corpi contundenti”. A questo proposito propongo, per ridare a Cristo quel che è di Cristo, un’attenta e onesta rilettura dei Vangeli. Mentre per tornare ad un uso più accurato delle parole, suggerisco la lettura incrociata di due libri nei quali mi sono imbattuta qualche tempo fa, quanto mai attuali. Ospite, secondo uso - Il primo libro: “Lessico del razzismo democratico. Le parole che escludono” (ed. Derive/approdi) di Giuseppe Faso, che è insegnante e, fra le varie cose, ha coordinato il centro Interculturale Empolese-Valdelsa, e molto ha partecipato a esperienze associative con lavoratori immigrati. Ce ne snocciola un po’, Faso, di parole tanto scontate da sembrare banali, persino, nell’ovvio incedere del nostro parlare quotidiano, ma che compongono il dizionario che pure rivela tanto nostro razzismo. E non stiamo parlando della volgarità del razzismo esplicito e cattivo. Ma di qualcosa di più profondo, sottile, più pericoloso perché tutti ci pervade. Stiamo parlando del razzismo “democratico”, raffinato, di noi persone educate, colte, intellettuali magari. Una parola scelta, non a caso, dal libro di Giuseppe Faso: “ospite”. Quanto distorta, svilita, infangata, negli ultimi tempi. È parola nata buona, accogliente come lo sono le porte spalancate. Sa di abbracci, rispetto e condivisione. Sa di antica cortesia e di buone usanze. L’ospite è sacro, ci hanno insegnato fin da piccoli, agli uomini e agli dei. L’uso degradato delle parole - Eppure… “Se ne consideri l’uso degradato”, ci dice Giuseppe Faso, che tanto per cominciare cita un ricorso della Procura di Firenze nei confronti di un cittadino straniero colpevole di non essersi presentato in Questura, dove era stato convocato, perché la convocazione non era tradotta nella sua lingua. Ecco: “Non si può piegare l’autorità del nostro Stato e la cultura millenaria che ci appartiene alle esigenze di immigrati stranieri in larga misura entrati in origine irregolarmente e che invece (…) devono sottostare, quali ospiti, alle regole e agli usi adottati e rispettati dal padrone di casa”. Ed ecco che una parola nata buona come il pane, “ospite”, carica della sacralità di gesti che hanno segnato la nostra civiltà, viene impiegata per negare il principio stesso dell’ospitalità. Quest’idea degradata dell’ospite rimbalza oggi un po’ dappertutto, e più che d’accoglienza ha il sapore della definizione di limiti e confini, se non del “respingimento” (parola orribile che fa ormai parte del nostro lessico). E non vi sto a dire dei proclami di certa politica molto in linea con il tono del testo del ricorso citato. Il diavolo, si sa, s’insinua nei dettagli. Pensate un po’, mi sono imbattuta nel dettaglio di una targhetta, di quelle che si appendono agli ingressi delle case, che accanto al profilo di un simpatico cagnolino recita: “Ricorda, quando vieni a casa mia, che il mio cane vive qui. Tu sei solo un ospite”. E viene anche da sorridere magari. Migrante=clandestino, zingara=ladra - L’elenco di parole degradate che Giuseppe Faso ha da tempo scovato è ben lungo: altro, apprendimento, sicurezza, badante, legge, cibo, ripulire, bivacco, decoro, dato di fatto. Le parole non sono innocenti, dipende dall’uso che se ne fa. Provate a pensarci voi, e se non riuscite a “vedere” il senso deviato di queste parole che pure tutti i giorni pronunciamo, andate a consultare il “Lessico del razzismo democratico” che, catalogando questi e altri termini, ci inchioda alle nostre responsabilità. Puntando il dito contro la pigrizia (e la malafede) di chi finge di spiegare realtà complesse con semplificazione di pensiero e di linguaggio, e ce ne spiega, di queste parole e semplificazioni, l’uso strumentale e demagogico. Così che alla fine per tutti, sotto sotto, chi migra è sempre un clandestino, chi è clandestino è un terrorista, una zingara è sempre una ladra… e le parole diventano proiettili che possono uccidere, come spiegava un’efficace campagna sociale di qualche anno fa. Il secondo libro: “Sulla lingua del tempo presente”, prezioso lavoro di Gustavo Zagrebelsky. Bella riflessione sui luoghi comuni linguistici la cui continua ripetizione è segno di una malattia degenerativa della vita pubblica, che si esprime in un linguaggio stereotipato e kitsch, proprio per questo largamente diffuso e accolto”. Prima gli italiani - Una parola per tutte. “Italiani”. Dovrebbe parlare di unione e fratellanza, rimando a un inno alle cui note riusciamo persino a commuoverci (finanche se solo prima del fischio d’inizio di una tenzone su un campo di calcio!), rimando alla storia che l’Italia fece… eppure “è diventata parte di un lessico dell’ostilità”. Parola corrotta, dice Zagrebelsky, dal momento in cui un partito è stato definito dal suo capo “partito degli italiani” (partito è per definizione parte, gli italiani dovrebbero essere il tutto), e oggi siamo a quel “prima gli italiani” che sa di esclusione, respingimenti e morti, su frontiere d’acqua o di terra che siano. Italiani. Ospiti. Due parole che saldandosi insieme, nel loro degradato uso, chiudono il cerchio del nostro distorto orizzonte. Svuotate del loro senso e riempite di veleni, diventano tarli, che polverizzano l’anima della nostra civiltà. Bisognerebbe pensarci, prima di democraticamente commuoverci davanti alle tragedie che anche il nostro colto e composto razzismo contribuisce a produrre… L’inciviltà diffusa (e nessuno se ne occupa) di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 3 novembre 2019 Capita ormai ogni giorno di dovere sottostare ai comportamenti offensivi, aggressivi, illegali, talora violenti, di troppi nostri concittadini. Non si tratta solo di Roma. Della Roma criminale che ha visto l’ennesimo omicidio per una storia di droga. È un clima generale quello che ormai in Italia rende sempre più difficile per tutti affrontare la fatica della vita quotidiana. Sempre di più, infatti, capita ogni giorno di dover sottostare ai comportamenti offensivi, aggressivi, illegali, talora violenti, di troppi nostri concittadini. Specie nei centri urbani e nelle grandi città siamo circondati da persone che sui mezzi pubblici, sui treni, si abbandonano a comportamenti incivili e arroganti, si divertono a danneggiare sedili, panchine, cassonetti e cestini dei rifiuti, cartelli stradali e quant’altro, a scrivere sui muri qualunque cosa, a sporcare parchi e strade; che negli alloggi in specie dell’edilizia popolare se ne infischiano di qualsiasi regola; che la sera schiamazzano fino a tardi nei luoghi della movida, che addirittura non esitano a fare i loro bisogni in pubblico. Siamo alle prese in ogni momento con automobilisti e motociclisti che soprattutto la sera passano ai semafori con il rosso, rompono i timpani con le loro sgassate e accelerazioni repentine o con le loro autoradio a tutto volume: e anche loro come tutti gli altri, se qualcuno osa protestare non ci pensano un secondo ad aggredirlo minacciando di passare alle vie di fatto. Si aggiungono le molte periferie dove in pratica la sera scatta il coprifuoco, dove specie per le donne è un rischio avventurarsi a piedi. Ancora: intere zone delle città sequestrate dallo spaccio a causa di quell’uso ormai di massa delle sostanze stupefacenti denunciato qualche giorno fa da Antonio Polito proprio sul Corriere(8 milioni di consumatori!), per finire gli atti più o meno gravi ma innumerevoli di bullismo spicciolo, i mille disgusti e irritazioni frutto della micro violenza diffusa dovunque. Insomma qui da noi la vita sociale moderna - che anche se accresce la solitudine reale degli individui tuttavia moltiplica i contatti interpersonali - rende sempre più evidente un dato: la maleducazione diffusa, l’istinto di sopraffazione, il disprezzo delle regole, che sembrano ormai radicati e quasi congeniti in Italia. Non a caso molti studiosi parlano di un deficit storico nella Penisola di “disciplinamento sociale”, cioè di quel processo storico che - grazie soprattutto all’azione delle Chiese e dello Stato assoluto - ha fatto sì che all’inizio dell’età moderna, tra ‘5 e ‘600, cominciasse a svilupparsi nelle masse una capacità di autoregolazione dei propri comportamenti in obbedienza a norme imposte dall’alto per esigenze di ordine e di convivenza, di un minimo di disciplinamento dei rapporti sociali e dei costumi. In Italia, però, tale processo, per ragioni che qui è inutile indagare, ha avuto una portata debole e limitata. Siamo rimasti una popolazione tra le più ineducate del continente, con una scarsa propensione alla civile convivenza, al rispetto verso gli altri. In generale con un’ancora più scarsa attitudine ad obbedire alle regole e ai comandi dell’autorità. È il noto anarchismo del carattere italiano, si dice, quasi a mo’ di giustificazione. Ma non è così: si tratta piuttosto di sciatto menefreghismo e d’indifferenza sprezzante, d’ incapacità di rinunciare al gesto violento e all’intimidazione non appena si capisca che ce lo si può permettere. Non appena si capisca cioè che non si rischia nulla. Questo è il punto decisivo. Storicamente infatti il disciplinamento sociale di cui sto parlando è stato anche il prodotto di un sistema di sanzioni, spesso anche assai dure. Oggi quell’antico sistema è stato ovviamente cancellato, ma non è scomparso, anzi si è in un certo senso di molto accresciuto il bisogno di regole di convivenza e dei modi di farle rispettare. È vero, formalmente un sistema di sanzioni esiste anche oggi, ma esso scatta solo quando si arriva a fattispecie di reato particolarmente gravi. Di fatto, chi imbratta un muro o urina all’angolo di una strada, chi danneggia una panchina o tiene un’autoradio a un volume assordante, chi minaccia di aggredire lo sventurato che in una di queste occasioni osa protestare, è sicuro della più assoluta impunità. Non solo ma anche quando si arriva alla sanzione, questa o è di natura pecuniaria e finisce virtualmente in un niente, ovvero si risolve in una condanna penale che grazie ai tre gradi di giudizio, alla prescrizione, alla virtuale assenza di detenzione fino a quattro anni, fa in pratica la stessa fine. È giusto? È giusto, soprattutto, mi chiedo, che a subire le conseguenze di tutto questo siano soprattutto le fasce più deboli della popolazione, le donne e le persone anziane, chi vive nelle periferie o è più a contatto con situazioni di degrado? Per tutta una serie di comportamenti diciamo così asociali, di violenza minuta ma di forte impatto anche emotivo sulla qualità della vita quotidiana, un legislatore intelligente avrebbe da tempo pensato a un sistema sanzionatorio specifico, diverso e più efficace rispetto a quello generale vigente per le violazioni della legge più gravi. E se del caso avrebbe anche pensato a proporre i necessari cambiamenti del dettato costituzionale (ricordo che ne sono stati introdotti a decine). Avrebbe insomma fatto qualcosa invece dell’inerzia che domina sovrana. Un’inerzia e un’indifferenza che non riguardano solo i legislatori in senso stretto, vale a dire i politici. Infatti sollevare questi problemi - che, ripeto, sono i problemi che milioni d’italiani avvertono quotidianamente con maggiore angustia - produce abitualmente in tutta la classe dirigente del Paese, a cominciare dai soloni accreditati del discorso pubblico, dai padroni dei talk show che vanno per la maggiore e dagli intellettuali pensosi della sorte della democrazia, l’unico effetto di un’alzata di spalle o nel caso migliore di una sorta di benevolo cenno di consenso destinato a lasciare invariabilmente il tempo che trova. Non ci si rende conto che però così facendo si scherza davvero con il fuoco, che la richiesta di vivere in pace e al riparo dalla prepotenza, non è una richiesta “securitaria”, non è l’anticamera di alcuna “onda nera”. Che semmai proprio non facendo nulla si lascia tutta questa materia infiammabile a disposizione della demagogia e delle sue pericolose tentazioni. Non sarebbe in fin dei conti un ottimo antidoto al deprecato populismo decidere di occuparsi un po’di meno delle battute di Renzi e delle felpe di Salvini e un po’ di più del popolo? Odio online, il dito e la luna di Guido Scorza L’Espresso, 3 novembre 2019 Quando il dito indica la luna, lo stolto guarda il dito. Dice così un vecchio proverbio cinese che pare suggerire la lezione migliore della quale far tesoro nell’affrontare la questione dell’online hate-speech ritornata alla ribalta politica e mediatica nelle ultime settimane. E il dito, in questa vicenda e il web mentre la luna è la nostra società, la sub cultura dell’odio, del razzismo, dell’antisemitismo che vi cova da sempre e che, sempre più di frequente, si riaccende dando fuoco a ceneri mai spente del tutto per davvero. La rappresentazione più plastica si è avuta l’altro giorno nel Senato della Repubblica, nell’Aula di Palazzo Madama, quella che dovrebbe essere la culla della cultura civile e giuridica nazionale: 98 Senatori della Repubblica che prima si astengono dal votare la mozione - prima firmataria la Senatrice a vita Liliana Segre, sopravvissuta di Auschwitz - con la quale si proponeva l’istituzione di una commissione straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza e poi rincarano la dose restando seduti mentre, approvata, comunque, a maggioranza la mozione, il resto dell’emiciclo si alza a applaudire la Senatrice Segre per il successo della sua iniziativa e, ancor di più, in segno di solidarietà per l’odio e la violenza antisemita dei quali è vittima da quando aveva tredici anni offline prima e online poi. E diciamolo subito perché la verità è uno dei migliori antidoti a gran parte dei mali della società, parole d’odio incluse: in quella mozione non c’è una sola parola, una sola frase, una sola virgola, un solo principio, niente di niente che possa seriamente non essere condiviso da chiunque si auguri per la società un futuro migliore del passato. La mozione in questione non è una legge che stabilisca questa o quella regola suscettibile di incontrare il favore di alcuni e lo scontento o le perplessità di altri ma semplicemente l’impegno del Senato della Repubblica a osservare, studiare, affrontare fenomeni dilaganti come l’intolleranza, il razzismo, l’antisemitismo e l’istigazione all’odio e, naturalmente a cercare e proporre soluzioni facendo quello che, mozione o non mozione, è il dovere del Senato come di ogni altra Istituzione repubblicana. Ma allora perché quasi cento Senatori della Repubblica hanno scelto di non votarla? E perché hanno scelto di restare seduti, con un gesto, almeno, di evidente sgarbo istituzionale davanti a una Signora novantenne, Senatrice a vita della Repubblica, mentre i loro colleghi si alzavano a applaudirla? Le spiegazioni che scoppiata la polemica Matteo Salvini e Giorgia Meloni si sono affrettati a proporre lasciano basiti: il primo ha evocato il rischio che la mozione possa dar luogo - non è chiaro come e perché - a scenari di sorveglianza di massa di orwelliana memoria mentre la seconda ha chiamato la Segre cercando di spiegarle che il suo no sarebbe stato dettato dall’amore per la famiglia. La verità, probabilmente, sta nelle ultime righe della mozione, quelle nelle quali si stabilisce che “la Commissione può segnalare agli organi di stampa ed ai gestori dei siti internet casi di fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza nei confronti di persone o gruppi sociali sulla base di alcune caratteristiche, quali l’etnia, la religione, la provenienza, l’orientamento sessuale, l’identità di genere o di altre particolari condizioni fisiche o psichiche, richiedendo la rimozione dal web dei relativi contenuti ovvero la loro deindicizzazione dai motori di ricerca”. Probabilmente chi si è astenuto dal votare la mozione, chi si è sottratto al tributo a Liliana Segre ha paura che, domani, la Commissione potrebbe chiedere a Facebook o Twitter di rimuovere un proprio contenuto o a Google di disindicizzarlo spuntando la propria azione politica di quella che è, drammaticamente, divenuta un’arma di propaganda e affermazione politica irrinunciabile perché facendo leva sugli istinti e sulle pulsioni, sulle paure più becere, primordiali, animali degli uomini produce consensi, riempie spiagge, piazze e sottopalchi e garantisce a qualcuno quella popolarità purtroppo capace di schiudere la porta dei Palazzi delle Istituzioni repubblicane hackerando la democrazia che di certi anti-valori è nemica giurata e fragile vittima predestinata. Eccola la drammatica verità, eccolo quel dito fissato da tanti stolti al posto della luna. Il problema non sta nel web - o, almeno, non nasce nel web, nei social, nelle chat - ma nella nostra società, nel Senato della Repubblica, nel cuore pulsante della nostra democrazia, nel quale è accaduto sia entrato chi dell’odio online ha fatto un modello di business politico, chi istigando gli odiatori a odiare di più ha conquistato seggi in Parlamento, chi non crede davvero che combattere quel fenomeno sia una questione di democrazia. E, allora, se vogliamo davvero dichiarare guerra all’odio online, dobbiamo farla finita di fissare il dito e guardare al web e iniziare a guardare alla luna e alla nostra società perché solo cultura e educazione al rispetto reciproco e delle diversità possono debellare un male del quale il web è ripetitore, amplificatore e megafono quasi meccanico, automatico, passivo. Altro che identificare gli utenti dei social network prima di lasciarli parlare online, bisognerebbe identificare uno per uno i Senatori che si sono astenuti dal votare la mozione della Segre e disporre per loro un Daspo, un bando, un ostracismo da tutte le Istituzioni repubblicane fino a quando non abbiano completato un corso - anche breve - di educazione civica e diritti fondamentali dell’uomo. Commissione Segre, il razzista dice no di Furio Colombo Il Fatto Quotidiano, 3 novembre 2019 Il razzismo è un disturbo della personalità. Tende a manifestarsi in una serie di comportamenti socialmente pericolosi, a differenza di disturbi altrettanto gravi come la depressione o la schizofrenia o la perdita di identità. Il razzista si sveglia con il tormento di un pericolo che richiede prontezza e astuzia, la presenza di qualcuno che crede di essere come te o superiore a te e invece è inferiore. Il razzista ha le prove. È inferiore perché non è della tua razza. Però si ostina ad avere i tuoi stessi diritti o si mette, per qualche ragione, più avanti, vantando ragioni che non ha perché non è della tua razza. Razza è la visione distorta della vita che fa del razzista un malato in quanto altera tutti i suoi comportamenti, fino alla violenza. È sincero un razzista quando dice (come le donne di Casal Bruciato, che hanno appena cacciato famiglie di rom, assegnatarie legali di case popolari) che non hanno agito per razzismo, ma per la giusta ragione che i cacciati sono rom. Tipico della malattia detta razzismo è che il paziente vede la ragione del suo comportamento negli evidenti fatti intorno a lui, non nei suoi sentimenti o pensieri. E infatti se fate il giro del Senato italiano e chiedete a tutti coloro che non hanno voluto votare per la “Commissione Segre” contro il razzismo (circa la metà dei senatori italiani) perché lo hanno fatto, avrete due risposte da ognuno. Una è costruita nascondendo la ragione sotto le mentite spoglie della “libertà di opinione” (non si capisce perché certi inquisiti non abbiano potuto usare la stessa ragione per liberarsi dalla pesante accusa di mafia). L’altra è sempre: io non sono razzista, che, come ho detto, è una risposta sincera perché fa parte della malattia. Aiuta, sia pure in modo rudimentale, una celebre battuta del teatro di varietà anni Cinquanta: “Io razzista? Ma se è lui che è negro!”. A quel tempo tutti ridevano. Adesso è la sola spiegazione di ciò che è avvenuto in Senato. Liliana Segre è ebrea, dunque non è dei nostri ed è una minaccia. Che cosa fanno gli ebrei, oltre che controllare le ricchezze e i media del mondo? Alterano le opinioni, cambiano le carte in tavola, nascondono i fatti veri per convenienza loro. Uno per uno, tutti gli appartenenti alla destra italiana, dalla più moderata alla più estrema (con l’eccezione di Mara Carfagna e Renato Brunetta), hanno detto no, chi con diffidenza, chi con sdegno, alla mite e civile proposta Segre, una commissione per parlare e spiegare. L’apparente errore di Liliana Segre, che cerca attentamente di stare lontana dal precipizio del razzismo quando diventa follia, lei che è una Anna Frank sopravvissuta, è stato di cercare di allontanare dagli aspetti peggiori del male razzismo almeno alcuni dei suoi colleghi “di destra” al Senato. Ho detto errore apparente perché la senatrice Segre vive l’onore che ha ricevuto e il lavoro al Senato non come un compenso ma come un dovere, con un tono calmo e severo che rivela la chiara visione dei fatti. Il razzismo è sempre fascista. Il fascismo è sempre razzista. La Repubblica, che pure è nata dalla liberazione di Auschwitz e dalla Resistenza, adesso è retta dal motto infantile e umiliante “Prima gli italiani”, che vuol dire niente merito, niente regole, niente garanzie, niente diritti, tutto spetta solo alla razza giusta. Diventare “razza” per un Paese che, a parte il vergognoso periodo fascista, ha sempre cercato, spesso con successo, di essere prima con la sua creatività e il suo lavoro, vuol dire diventare Orbán e, alla fine, diventare Eichmann, cioè impiegati dei porti chiusi e dei centralini di Stato che non rispondono alle chiamate di aiuto. Ora sappiamo che tanti, anche in Senato, hanno capito la rotta, e lo dimostra la scrupolosa obbedienza razzista per ogni voto sull’immigrazione. Altri sentono il bisogno di non essere sgraditi al Sultano di Papeete. E il sultano di Papeete ha gridato “è tornata la pacchia” (per dire “sono tornati Soros, gli ebrei e la sostituzione dei popoli secondo il noto complotto”) quando è sbarcata una nave di donne e bambini scampati alla Libia e al mare dopo 12 giorni di attesa. Evidentemente, una volta imboccata la strada del razzismo secondo Borghezio e Gentilini, il percorso non cambia. A suo tempo la Lega ha piegato i primi alleati a chiudere i porti obbedendo agli umori vendicativi di Salvini. Al Senato si sono portati via, soprattutto nella tetra forma del silenzio, nella astensione, nel rifiuto di applausi, la larga parte di coloro che sentono il fascismo alla porta, si sono presi il trans-partito di coloro che fiutano il vento (altrimenti il sindaco di Ascoli Piceno, di Fratelli d’Italia, non avrebbe pubblicamente festeggiato, insieme ai camerati e alla tv locale, l’anniversario della marcia su Roma). Altrimenti non si lancerebbero insulti in aula al deputato Fiano, figlio di un sopravvissuto di Auschwitz (“S io ni sta !”). In questa nuova Italia allo sbando, molti, anche in Senato, ci tengono a mostrarsi pronti per un futuro di “maschia volontà” (dall’inno fascista Fuoco di Vesta). Migranti. Tripoli e il bluff della guardia costiera “È gestita da Roma” di Marco Mensurati e Fabio Tonacci La Repubblica, 3 novembre 2019 Sar libica all’italiana, atto secondo. Comunque vada a finire la rinegoziazione tra Roma e Tripoli del memorandum di intesa, la commedia dell’esistenza di una reale, efficiente e autonoma zona Search and Rescue (Sar) di competenza della Libia, andrà avanti. E, con essa, il ruolo occulto di “coordinatore delle operazioni in mare” assunto dalla Marina militare italiana, come dimostrano alcuni documenti visionati da Repubblica e finiti nell’indagine della procura di Agrigento. Dunque, con ordine. Da otto mesi il pm Salvatore Vella sta lavorando al caso della Mare Jonio, il rimorchiatore della piattaforma civica Mediterranea che il 20 marzo ha portato a Lampedusa cinquanta naufraghi recuperati da un gommone al largo della Libia. Per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina sono indagati il comandante Pietro Marrone e il capo-missione Luca Casarini. Fin qui niente di originale. Tuttavia il pm agrigentino ha allargato l’inchiesta all’intero funzionamento della Sar libica, ottenendo documenti dall’Unhcr e dall’International Maritime Organization (l’ente londinese delle Nazioni Unite che tiene il registro delle zone Sar), e ascoltando gli ufficiali della nave italiana Capri, ormeggiata nel porto di Tripoli nell’ambito della missione Nauras. Missione che, tra gli obiettivi, ha: supporto sanitario, attività di addestramento, consulenza e assistenza alle forze di sicurezza e istituzioni governative libiche, sostegno a carattere umanitario. Le conversazioni registrate il 18 marzo sul canale vhf 16 tra la Capri e il Centro soccorsi di Roma, però, svelano la vera natura di Nauras. Intorno alle 13 di quel giorno viene segnalata da Moonbird, l’aereo delle ong, la presenza di un gommone in mare. Il capo scelto A., in servizio a Roma, chiama la Capri. “C’è l’ufficiale libico?”, chiede. Gli rispondono che tale Mustapha sta arrivando. Richiama alle 14.02, e questa volta il capo missione Nauras, il comandante L., gli fa sapere che i libici sono in attesa di un cenno da lui per prendersi in carico il soccorso. “Sì, stanno aspettando me perché facciamo... chiudiamo l’evento e lo fanno partire, quindi magari ci aggiorniamo tra cinque minuti, ok?”. Infine alle 14.17 il comandante L. conferma a Roma che sta per partire il soccorso ma c’è bisogno di un “aiutino”. “Allora - dice L. - vi stiamo mandando il fax, hanno assunto (i libici, ndr) la responsabilità dell’evento, non c’è il numero dell’evento quindi ho messo evento 18 marzo 2019... tra qualche minuto uscirà la motovedetta”. Per gli avvocati di Casarini ce n’è abbastanza per chiedere al pm Vella di approfondire, per capire se la nave Capri “abbia funzionato da distaccamento esterno degli uffici della centrale operativa libica” e se, dunque, il personale militare italiano “abbia svolto ruoli non solo logistici ma decisionali”. Non sono dettagli da azzeccagarbugli, perché, se il pm dovesse trovare evidenze, lo Stato italiano potrebbe anche essere accusato di respingimenti collettivi (40 mila migranti riportati in Libia da quando il memorandum è in vigore) e di concorso nelle violenze nei centri di detenzione. Il memorandum d’intesa sottoscritto nel febbraio 2017 presupponeva la creazione di una zona Sar libica. La Sar è stata effettivamente registrata all’Imo nel giugno 2018, ma rimane un’anomalia mondiale. La Libia è l’unico paese ad averla richiesta pur non avendo porti sicuri, come dimostra la guerra civile in corso e come certifica l’Alto commissariato Onu per i rifugiati. Repubblica ha chiesto conto all’Imo, e la risposta è stata: “Le zone Sar sono dichiarate dai singoli Stati. L’Imo non ha potere autonomo di revoca”. Lo potrebbe fare su richiesta di Stati costieri vicini, ma Italia e Malta si guardano bene dal farla. “Il progetto del Centro soccorsi libico - si legge in un documento dell’Imo - è condotto dalla guardia costiera italiana e finanziato dalla Commissione Europea”. È noto che il governo italiano ha anche regalato alla Libia le motovedette, compresa quella usata dagli uomini di Abdul Rahman Milad, più conosciuto col soprannome Bija, capo della guardia costiera di Zawiya e, secondo un report delle Nazioni Unite, trafficante di uomini. Il report risale al giugno 2017, un mese dopo la visita della delegazione di Tripoli (di cui Bija faceva parte) al Cara di Mineo e al Viminale. Bija poi è stato sospeso dalla Marina libica nel giugno dell’anno seguente, proprio nel momento in cui veniva registrata la Sar. Per almeno un anno, quindi, ha collaborato con gli italiani alla sua realizzazione. Una commedia, appunto. Che il rinnovo del memorandum porterà avanti. Migranti. Ma emendare i crimini umanitari non si può di Raffaele K. Salinari Il Manifesto, 3 novembre 2019 Italia-Libia. Resta però fondamentale inquadrare quel che accade sul Memorandum, che altro non è che uno scempio del diritto internazionale, in uno scenario molto più ampio, che parte da lontano, da almeno 20 anni e precisamente dalla ridefinizione dell’”intervento umanitario” che deve essere prioritariamente militare, come sancito dai bombardamenti della Serbia da parte della Nato nel 1999. Sotto la spinta delle società civile e di una piccola parte di quella politica, l’Italia ha finalmente chiesto, ai sensi dell’articolo 3 del Memorandum Italia-Libia, di riunire la commissione congiunta dei due paesi per modificare l’intesa. L’obiettivo, spiegano fonti governative, è quello di “migliorare il memorandum sul fronte dei diritti umani”. Intanto però si è fatto scadere il Memorandum, che così si è automaticamente quanto tragicamente rinnovato. Dentro questa ambiguità, quali “modifiche” si vogliono davvero ottenere? Certo, è positiva, in questo senso, la risposta del governo libico che si è detto “aperto a modifiche del memorandum d’intesa sui migranti stipulati tra Libia e Italia”. Ma il memorandum per la sua struttura non è modificabile come si vuol far credere: non sono infatti emendabili né la detenzione arbitraria (carceri e campi di concentramento) che noi finanziamo, degli esseri umani torturati, stuprati, soggetti ad ogni tipo di violenza; né i nostri fondi alle milizie che chiamiamo “guardia costiera”; né il sostegno armato a questi aguzzini criminali con le dotazioni di eleganti motovedette militari; e tantomeno è emendabile l’autorizzazione fin qui data a fare la guerra alle navi umanitarie: tutti questi contenuti dell’attuale Memorandum altro non sono che crimini e vanno solo cancellati. Ora, se questa novità della quale bisognerà attentamente verificare i contenuti, vuole veramente sanare il vulnus aperto dal rinnovo automatico, dovrà perlomeno cancellare questi misfatti. Resta però fondamentale inquadrare quel che accade sul Memorandum, che altro non è che uno scempio del diritto internazionale, in uno scenario molto più ampio, che parte da lontano, da almeno 20 anni e precisamente dalla ridefinizione dell’”intervento umanitario” che deve essere prioritariamente militare, come sancito dai bombardamenti della Serbia da parte della Nato nel 1999. Il filo rosso, rosso sangue in questo caso, che lega due momenti solo in apparenza distanti tra loro, sia nel tempo che nello spazio, è in realtà estremamente evidente e può essere riassunto nella categoria, individuata già nel secolo scorso da Carl Schmitt, di “guerra costituente”. Dopo il crollo trenta anni fa esatti del muro di Berlino, infatti, a livello mondiale, da parte dell’unica potenza allora rimasta, gli Stati uniti leadership del mondo e da parte del capitale finanziario che non vuole regole di controllo o pagare le tasse sui suoi immensi profitti, alle industrie dell’agro-business e del farmaco che privatizzano con i brevetti le risorse genetiche naturali, l’idea di un Nuovo Ordine Mondiale costruito attorno al profitto ha cercato di imporre la sua visione del mondo. Se solo ricordiamo come e perché nacque l’Organizzazione del Commercio mondiale, il Wto e, di conseguenza, un diffuso movimento di resistenza sociale ai processi solo mercantili della globalizzazione, cogliamo il quadro di riferimento complessivo. Ebbene di quello scenario, oggi potentissimo nelle sue espressioni di potere a livello politico mondiale e nelle conseguenze nefaste in termini di ambiente, esclusione sociale, diseguaglianze, processi migratori e via enumerando, faceva parte l’idea delle guerre di nuovo conio, al di fuori dell’egida Onu, con una valenza di riconfigurazione delle regole del Diritto Internazionale, a partire dal suo anello più debole ed esposto: i diritti umani. Tutto questo per dire, evidentemente, che il Memorandum libico, tra i suoi effetti nefasti, già ampiamente evidenziati da tantissime associazioni, Ong, parlamentari, e soprattutto dai reportage e dalle inchieste dirette, ha anche quello di sancire, per così dire, la presunta efficacia della guerra civile-mondiale in Libia del 2011 - e poi in Siria - nel cambiare de facto le regole del diritto internazionale. In effetti la morsa che stringe l’Europa, stretta da una parte dagli accordi con Erdogan per la gestione dei rifugiati siriani, e le cui conseguenze si vedono ora in tutta la loro tragicità (e non solo rispetto al popolo curdo, ma più in generale sull’impotenza dei meccanismi multilaterali nel gestire quel conflitto); e dall’altra proprio dal Memorandum italiano con la Libia, o meglio con i poteri criminali libici, definisce le nuove dinamiche internazionali in termini di gestione dei conflitti, rispetto dei diritti umani, ruolo delle Ong, politica estera comunitaria e di cooperazione allo sviluppo, aree di sovrapposizione tra interessi dei governi e quelli della criminalità organizzata nella gestione dei flussi migratori, e molto altro ancora. E allora, in conclusione, la revisione del Memorandum va costruita a partire dal rifiuto di questo quadro geopolitico più articolato, in cui la posta in gioco va ben al di la delle relazioni italo-libiche, per inserirsi in una tendenza di denaturazione delle regole multilaterali e di una loro riscrittura a colpi di violazioni del diritto internazionale motivate da una realpolitik che di fatto le vuole radicalmente cambiare in favore del Diritto del più forte, del più ricco, della visione escludente legata ai nuovi e vecchi razzismi. Riscrivere il Memorandum, in altre parole, significa rigettare la logica dei nuovi sovranismi, della reificazione degli esseri umani, del securitarismo versus l’inclusione, della cooperazione militare al posto di quella allo sviluppo. Speriamo che chi dice ancora di rappresentare a livello politico i valori costituzionali, comunitari, delle Nazioni unite, colga questa occasione e riesca a trovare le ragioni per un ripensamento radicale di questa aberrazione giuridica alla base del disastro libico e della stessa tragedia dei nuovi Muri eretti -a proposito del muro di Berlino caduto 30 anni fa - contro i migranti in fuga dalle nostre guerre e dalla miseria spesso prodotto del nostro modello economico di rapina Droghe. I medici: “Emergenza neonati in crisi di astinenza” di Michele Bocci La Repubblica, 3 novembre 2019 A Roma quattro casi di positività alla cocaina in un solo ospedale, allarme anche a Milano e in Toscana. Quattro bambini che piangono e si agitano. Tutti ricoverati nello stesso reparto, la terapia intensiva neonatale del policlinico Casilino di Roma, per lo stesso identico motivo. Sono positivi alla cocaina. In questi giorni nella più grande sala parto della capitale si può osservare una delle conseguenze drammatiche della grande diffusione della droga: l’abuso di sostanze spesso non si ferma nemmeno in gravidanza. E così vengono al mondo bambini che devono subito prendere il metadone e seguire terapie per affrontare i primi giorni di vita, con lo spettro che altri problemi provocati dalle droghe durante la gestazione, come il ritardo neurologico, si presentino più avanti. Non è, ovviamente, solo un fenomeno circoscritto alla capitale. A Grosseto, ospedale non grande di una città medio-piccola, negli ultimi tre mesi i neonati positivi alla cocaina sono stati tre. A Milano, tra metà settembre e metà ottobre, è stata trovata droga nelle urine di sei bambini appena nati e ieri l’arresto di un uomo di 44 anni che picchiava la compagna ha riportato alla luce il caso di uno dei figli di lei, nato con un’astinenza alla cannabis. A Padova il 20 settembre un bimbo è stato tolto ai genitori perché appena dopo il parto si è scoperto che era sotto effetto di sostanze stupefacenti. La cronaca offre esempi che non saranno trasferiti in uno studio scientifico. All’Istituto superiore di sanità dicono di non aver intenzione di farlo, perché si tratterebbe di “schedare” le persone appena nate. In più è molto difficile avere una lettura del fenomeno perché non sempre le condizioni di salute del neonato e quelle personali e sociali dei genitori spingono gli operatori sanitari a fare approfondimenti. Per svolgere l’esame tossicologico sui bambini è necessario il consenso del padre e la madre, che spesso non hanno alcuna intenzione di dare l’ok agli approfondimenti. Dalla Società italiana di neonatologia confermano che anche a livello internazionale gli studi in questo campo sono pochi. Il vicepresidente di quella società scientifica è Piermichele Paolillo, primario proprio al Casilino. “Ci capiteranno una ventina di casi ogni anno di bambini positivi alle sostanze stupefacenti, con picchi di ricoveri come in questo momento”, spiega. Nelle maternità dei grandi ospedali italiani, come Careggi a Firenze, capitano almeno una decina di casi l’anno. “Di solito - spiega Paolillo - capita che qualcosa non ci quadri nella mamma o nel padre. Se abbiamo sospetti chiediamo un esame delle urine. Si trovano cocaina, metadone oppiacei. Così si avvia un percorso che può portare a una segnalazione al tribunale dei minori che fa partire l’iter per nominare un tutore”. Il neonatologo spiega che di solito i bambini con questi problemi “all’inizio stanno bene, la sindrome di astinenza neonatale inizia dopo un po’. Il bambino diventa agitato, irritabile e bisogna usare barbiturici per sedarlo”. Se il neonato non ha sintomi particolari, fondamentale per intercettare il problema, spiega Paolillo, è il ruolo delle ostetriche che anche durante il parto colgono segnali nel comportamento dei genitori. “Spesso quando parliamo con le coppie a rischio, ci danno giustificazioni. Dicono di aver preso un po’ di coca qualche giorno prima a una festa, o magari di aver assunto eroina “ma fumandola, non iniettandola”. Questa è la situazione, e siamo consapevoli del fatto che certamente ci sfuggono dei casi”, conclude il primario. Libia. Quel patto è una sconfitta di Gennaro Migliore Il Riformista, 3 novembre 2019 Oggi si rinnova automaticamente il memorandum di intesa tra Italia e Libia. Nonostante diverse iniziative che hanno coinvolto parlamentari della maggioranza, nonostante la risposta del governo all’ultimo question time su questo argomento, l’automatico rinnovo non può che essere una sconfitta per chi ritiene, come il sottoscritto, che quella intesa vada radicalmente modificata. Non è una sconfitta irrimediabile. Nel corso di questi mesi si è aperto un dibattito che ha positivamente rimesso al centro le condizioni di vita dei migranti detenuti nei campi, piuttosto che i rapporti con un governo debole e condizionato da milizie non controllabili, come quello di Serraji. Questa discussione, alimentata anche da inchieste giornalistiche che hanno svelato la vera natura di chi aveva il controllo della guardia costiera libica, e che oggi torna ad averlo, come quel Bijia, indicato da ogni organismo internazionale come un vero e proprio tagliagole, ha consentito di rimettere in discussione quello che sembrava il caposaldo dell’intera politica estera italiana verso il Nord Africa. Si tratta di comprendere quanto siano modificate le condizioni di un Paese che dall’aprile scorso è in una guerra conclamata. Si tratta di interpretare alla luce delle notizie che, sempre più numerose, siamo in grado di ottenere, quale sia il reale interesse del nostro Paese e quali siano gli obblighi etici e politici che abbiamo nei confronti di chi in questo momento sta rischiando la vita, o perché torturato in un campo o perché sta tentando di attraversare il Canale di Sicilia con mezzi di fortuna. Il ministro Di Maio ha dichiarato una disponibilità alla modifica dell’accordo, ma il tempo delle frasi generiche e degli impegni scritto sull’acqua è finito. Non ci basta più una semplice dichiarazione di principio. Abbiamo estrema necessità di affrontare con urgenza il tema principale: quello dello svuotamento dei campi di detenzione. Per fare ciò tutta la maggioranza attuale dovrà superare ogni imbarazzo nei confronti di una possibile reazione della retorica salviniana. La discontinuità con il governo giallo verde non può che essere basata su una serie di scelte, a cominciare anche dalla cancellazione delle norme più intollerabili dei decreti sicurezza, che possano determinare un avanzamento della qualità civile del nostro paese. Italia Viva è stata fin dall’inizio, con i suoi rappresentanti, impegnata sul versante della modifica radicale degli accordi. Il primo risultato si ottenne quando ancora Italia Viva non esisteva, con il voto compatto di tutto il Partito Democratico, non senza una discussione all’epoca lacerante all”interno di quel partito, per il non rifinanziamento delle motovedette assegnate alla guardia costiera libica. Del resto non si comprende come non sia arrivato il momento di realizzare una nuova intesa trasparente, senza clausole segrete, senza nessun finanziamento nei confronti di bande che proseguono, indisturbate, a fare affari sulla pelle dei migranti. Il Parlamento, i cittadini italiani, hanno il diritto barra dovere di determinare l’indirizzo della politica estera del nostro Paese. Nel rispetto della nostra legge suprema, la Costituzione, e facendosi interprete di un impegno che supera ogni altro: la tutela imprescindibile dei diritti umani. La Turchia all’Europa: “Vi rimandiamo indietro i vostri cittadini che erano terroristi dell’Isis” di Marco Ansaldo La Repubblica, 3 novembre 2019 Il ministro dell’Interno Soylu accusa alcuni paesi europei: non potete limitarvi a revocare loro la cittadinanza e credere che poi noi ci occuperemo di loro. I miliziani sono stati catturati soprattutto in Siria durante la guerra contro il Califfato che è culminata con l’uccisione di Al Baghdadi. “La Turchia non è un albergo per terroristi”. E dunque rimanda indietro, verso i rispettivi Paesi, i jihadisti che afferma di avere arrestato durante l’intervento militare in Siria, e gli altri fermati in precedenza. Liberi tutti. Non c’è tregua - a dispetto del relativo cessate-il-fuoco che per ora tiene congelata la situazione nel nord del Paese - sulla questione dei “foreign fighters”, i combattenti stranieri negli ultimi anni affiliatisi all’Isis, e che provengono tanto dall’Asia e dall’Africa, quanto in molti casi anche dall’Europa. Un argomento scottante e un tema delicato, per le difficoltà inerenti al rimpatrio dei sospetti jihadisti, e per le implicazioni e i risvolti anche familiari che contiene. Ora Ankara, sempre più in rotta di collisione con l’Occidente, e ancora più vicina alla Russia di Vladimir Putin, annuncia di volersene disfare, scaricandoli fuori dal proprio territorio. “La Turchia non è un hotel per membri dell’Isis di nessun Paese”, sbotta il ministro degli Interni turco Suleyman Soylu. Denunciando quella che indica come l’inazione europea sui prigionieri del Califfato nero. Non ci si può semplicemente limitare - sostiene il ministro - a revocare la cittadinanza agli ex terroristi, e aspettarsi che Ankara si prenda cura di loro. “Questo è inaccettabile per noi. È anche irresponsabile. Manderemo nei loro Paesi d’origine i membri dell’Isis che abbiamo catturato e detenuto”. Soylu è un fedelissimo del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, ed è considerato anzi un “falco” per le sue posizioni spesso ferme e le sue dichiarazioni corrosive. I terroristi a cui si riferisce non sono solo i sospetti tali, fermati dopo l’attacco turco nel nord della Siria che ha causato l’arretramento dei combattenti curdi di oltre 30 chilometri dal confine nelle ultime settimane. Ma riguarda pure gli arresti effettuati in precedenza in Turchia. Con Paesi dell’Unione europea come Francia, Germania, Belgio e Olanda che hanno rifiutato di riammetterli e processarli. Di recente alcuni avvocati olandesi hanno avviato una causa contro il loro governo dopo che non aveva voluto accettare 23 donne terroriste dell’Isis e i loro 56 figli. Adesso emerge che Ankara in questo periodo avrebbe arrestato decine di membri del Califfato, ora privo del suo leader Abu Bakr al Baghdadi morto una settimana fa nel raid americano al confine con la Turchia. A quanto annuncia il quotidiano turco Daily Sabah, filo governativo e fonte oggi privilegiata e quasi ufficiale del governo conservatore di ispirazione religiosa, le forze della sicurezza di recente hanno arrestato due jihadiste olandesi che erano fuggite con i tre figli dal campo profughi di al-Hol in Siria e cercavano di rientrare in Olanda. Sarebbero state fermate dopo avere preso contatti con l’ambasciata olandese ad Ankara, attraverso cui cercavano il rimpatrio. Erano arrivate in Turchia dopo che era scattata l’Operazione “Fonte di pace” lo scorso 9 ottobre. L’Olanda ha però chiarito di non voler riaccogliere i propri connazionali che si sono uniti al Califfato nero. A una delle due donne sarebbe stata revocata la nazionalità olandese per la sua adesione a una organizzazione terroristica, la seconda ha invece doppia nazionalità, olandese e marocchina. Nelle scorse settimane Paesi come il Belgio e la Francia avevano cercato di affrontare la situazione dei propri “foreign fighters”, presenti nelle carceri del nord della Siria controllate dai curdi. Ma la prima tregua annunciata durante il conflitto, quella di 120 ore, appariva un lasso di tempo troppo stretto per individuare i sospetti terroristi, oltre alle loro famiglie (mogli spesso sposate in loco e vari figli) e trasferirli verso l’Europa. Adesso l’accusa turca all’Europa di essere inerme, e l’annuncio di volersi liberare del peso dei jihadisti. Gran Bretagna. L’accusa dell’Onu: “Assange è sottoposto a tortura psicologica” globalist.it, 3 novembre 2019 Lo ha dichiarato il responsabile Onu contro la tortura, lo svizzero Nils Melzer, dopo aver visitato nel carcere britannico di massima sicurezza, dov’è recluso dall’11 aprile scorso. Una denuncia da non sottovalutare: “Julian Assange continua ad essere detenuto in un carcere di massima sicurezza, in condizioni di sorveglianza e isolamento estreme e non giustificate, mostra tutti i sintomi tipici di un’esposizione prolungata alla tortura psicologica. È necessario, dunque, che il governo britannico lo liberi immediatamente per proteggere la sua salute e la sua dignità. È inoltre da escludere la sua estradizione negli Usa”. È quanto ha dichiarato il responsabile Onu contro la tortura, lo svizzero Nils Melzer, dopo aver visitato nel carcere britannico di massima sicurezza, dov’è recluso dall’11 aprile scorso, il fondatore di Wikileaks. Le accuse - Assange è accusato di aver svelato prove di crimini di guerra e di altri illeciti commessi dagli Stati Uniti in Iraq e Afghanistan. E mentre il governo americano persegue Assange “i responsabili dei crimini da lui denunciati continuano a beneficiare dell’impunità’“, ha dichiarato Melzer. E non è solo contro gli Stati Uniti che il rappresentante Onu punta il dito. “Il governo britannico, infatti - aggiunge - nonostante l’urgenza della mia richiesta di cure e libertà per Assange non ha preso alcuna misura in suo favore”. Rifiuto d’apertura di un’inchiesta - In virtù della Convenzione contro la tortura, infatti, gli Stati di fronte ad una denuncia come quella avanzata dal rappresentante Onu devono avviare rapidamente un’inchiesta per stabilire se esiste una ragionevole ipotesi che un atto di tortura sia stato commesso. Invece, spiega Melzer, il governo britannico 5 mesi dopo la mia visita a Assange, in maggio, e la mia denuncia “ha escluso categoricamente la mia analisi senza esprimere la volontà di prendere in considerazione le mie raccomandazioni”. Inoltre, sottolinea il rappresentante Onu, “nonostante la complessità dei procedimenti avanzati contro di lui da parte del governo più potente del mondo, l’accesso di Assange alla consulenza legale e ai documenti è stato gravemente ostacolato, minando il suo diritto fondamentale di preparare la sua difesa”. Abusi che “potrebbero costargli la vita” - Melzer denuncia inoltre come “l’arbitrarietà palese sostenuta sia della magistratura che del governo suggerisce in questo caso un allarmante allontanamento dall’impegno del Regno Unito nei confronti dei diritti umani e dello Stato di diritto”. Dunque “se il Regno Unito non modificherà con urgenza la situazione disumana in cui versa il fondatore di Wikileaks, Assange continuerà ad essere esposto all’arbitrarietà e agli abusi che potrebbero costargli la vita”. L’ultima apparizione pubblica di Assange, dimagrito e con qualche difficoltà di parola, risale al 21 ottobre quando è comparso in tribunale a Londra per un’udienza del processo contro di lui. Haiti. La rivolta con il silenziatore di Lucia Capuzzi Avvenire, 3 novembre 2019 L’Onu denuncia: già 42 morti in sei settimane di proteste contro il presidente Moise che rifiuta di lasciare. Il Paese è paralizzato. A scatenare la rabbia popolare, l’economia al collasso e gli scandali di corruzione. La rabbia haitiana tornerà in piazza questa sera per chiedere le dimissioni del presidente, Jovenal Moise, in carica dal febbraio 2017, dopo una controversa elezione, costellata da accuse di brogli e irregolarità. Le proteste vanno avanti da un anno e mezzo, nell’indifferenza del mondo. Il “primo tempo” della rivolta è cominciato nell’estate del 2018 quando - su consiglio del Fondo monetario internazionale (Fmi) da cui aveva ricevuto un prestito di 229 milioni di dollari - il governo ha deciso di eliminare i sussidi sul carburante, facendone schizzare il prezzo di oltre il 37 per cento. Un costo improponibile per il Paese più povero dell’Occidente, dove oltre metà della popolazione sopravvive con meno di due dollari al giorno. La furia popolare è costata la poltrona al premier, Jack Guy Lafontant - prontamente silurato - mentre la misura è stata ritirata. La tensione, però, non è rientrata. Perché, nello stesso periodo, è emerso lo scandalo dei “fondi scomparsi di Petrocaribe”: trai due e i quattro miliardi di aiuti elargiti dal Venezuela intrappolati in una rete di cui corruzione in cui sarebbero coinvolti una ventina di politici, compresi vari ministri e tre capi di Stato. Le manifestazioni sono proseguite a intermittenza, mentre l’opposizione ha aumentato la pressione in Parlamento. Tre primi ministri si sono susseguiti in un drammatico valzer e ora l’incarico è vacante. La crisi istituzionale ha peggiorato ulteriormente la già precaria economia. Il 15 settembre, così, è cominciato il “secondo tempo”, con un’escalation dei cortei in corrispondenza di un ennesimo ballo del 20 per cento dei prezzi e del crollo della moneta. Data l’esasperazione generale, le dimostrazioni spesso sfociano in scontri con le forze dell’ordine o le opposte fazioni. Da sei settimane, il Paese è paralizzato. “Le scuole sono tutte chiuse come gli uffici pubblici, negozi e banche aprono a sprazzi. Le operazioni portuali funzionano al 20 per cento, complicando l’approvvigionamento di cibo, per la metà importato dall’estero. Perfino il famoso hotel Oloffson, rifugio di Graham Green, ha interrotto l’attività”, racconta Maurizio Barcaro, italiano, da 25 nell’isola dove, nel 2000, ha creato Lakay Mwen, associazione che offre educazione gratuita a 2.500 bimbi di Port-au-Prince e Lakay. “Ho vissuto momenti molto difficili ad Haiti. Ma mai come in questo momento”, aggiunge. Intere porzioni di territorio sono isolate, per la presenza di barricate costruite dai manifestanti. A differenza di quelle dei vicini latinoamericani, però, la rivolta di Haiti non ha conquistato l’attenzione mediatica. Nemmeno quella politica, in realtà. Due giorni fa, l’Alto commissario Onu per i diritti umani ha espresso forte preoccupazione le violenze e ha denunciato la morte di almeno 42 persone negli scontri tra dimostranti e forze di sicurezza, quasi uno al giorno. Altre 86 sono state ferite. Il 15 ottobre, le Nazioni Unite avevano chiuso ufficialmente la missione aperta quindici anni prima, mantenendo, però, un ufficio politico data la “difficile situazione”. La comunità internazionale, però, è rimasta in silenzio. In particolare, gli Stati Uniti mantengono il proprio sostegno a Moise, il quale rifiuta di andarsene. “Sarebbe un atto di irresponsabilità”, ha detto la settimana scorsa. La Chiesa locale ha esortato più volte a trovare un dialogo. E il Consiglio delle Conferenze episcopali latino americane (Celam) ha esortato i fedeli del Continente a pregare per l’isola. A 33 anni dalla fine della sanguinosa dittatura del clan Duvalier, quest’ultima fatica a trovare un minimo di stabilità. Eppure - quando quasi dieci anni fa un terribile terremoto polverizzò Port-au-Prince, uccidendo 316mila persone - il mondo si impegnò a ricostruire Haiti dalle macerie, una volta per tutte. La promessa è rimasta, però, sulla carta come due terzi dei quasi 14 miliardi di dollari promessi. E la quota arrivata si è persa, in gran parte, fra burocrazia e corruzione. Per le strade dissestate, soffocate dal fumo nero dei copertoni bruciati, intanto, l’insurrezione della fame prosegue. Brasile. Amazzonia, ucciso un altro leader indigeno: proteggeva la foresta di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 3 novembre 2019 I mercenari dei gruppi agrari hanno assassinato Paul Paulino Guajajara che guidava uno dei gruppi dei “Guardiani della foresta” nello stato di Maranhão. Due giorni fa in Colombia, nella Cauca, i narcos hanno ucciso 5 indigeni di una commissione governativa che lavorava a nuove strade. È l’ultima vittima di una strage continua, sistematica, preordinata e quasi sempre impunita. Si chiamava Paulo Paulino Guajajara ed era un leader indigeno di Araribóia, nella regione di Bom Jesus das Selvas, stato di Maranhão, nord del Brasile. Da due mesi era diventato uno dei tanti “Guardiani della foresta” che le comunità indigene hanno creato per pattugliare le foreste dell’Amazzonia e fare il lavoro che lo Stato centrale non fa. Un nemico dei taglialegna, quel vero esercito di mercenari, sbandati, piccoli e grandi criminali che, aiutati dalle politiche ambientali del presidente Bolsonaro, sono tornati a frotte nel cuore della foresta pluviale. Paul Paulino è finito al centro di una scorribanda dei nuovi invasori disposti a tutto pur di portare a termine il lavoro. Nella breve ma violenta battaglia ci ha rimesso la vita un altro guardiano, Laércio Guajajara, della stessa tribù del primo. La notizia è stata diffusa da Greenpeace che assieme a tante altre ong è particolarmente attiva nei territori presi di mira dai tagliaboschi e dagli invasori che su ordine dei potenti agrari si accaparrano fette di foresta e distese di vegetazione affidate alle tribù indigene dalla Costituzione. La guerra per il controllo delle terre è una costante in molti paesi in cui si affaccia l’Amazzonia e altre importanti foreste. C’è in ballo un business che vale miliardi di dollari. Non solo terra da usare per le coltivazioni intensive, per abbattere alberi e ricavare legno da esportare. C’è il narcotraffico, ci sono le estorsioni, i pizzi, le tasse illegali per il diritto di passaggio. Due giorni fa in Colombia, nella Cauca, regione del sud ovest dove soprusi, omicidi e violenze sono quotidiani, perché strategica per le bande di narcos e della guerriglia, sono stati uccisi 5 indigeni che facevano parte di una commissione governativa incaricata di svolgere dei rilievi, anche con l’aiuto di droni, per la costruzione di strade altre infrastrutture. Anche questi erano tutti indigeni locali. I corpi mostravano i segni di torture. Uno è stato decapitato. La strage, secondo la comunità indigena locale, è opera di un “Gao”, Gruppi armati residuali organizzati, in particolare della colonna “Dagoberto Ramos”, transfughi della guerriglia che non hanno aderito all’accordo di pace del 2016. La zona, nella comunità indigena di Corinto, è nota per essere un corridoio importante per la produzione di coca e marijuana e come transito per il loro trasporto verso il Centro America e poi negli Usa. Altri due leader indigeni locali erano stati fatti fuori due giorni prima, il 29 ottobre. Il governatore del Cauca, Óscar Rodrigo Ocampo, è sicuro che dietro questa raffica di omicidi ci sia il narcotraffico. Lo ha denunciato in un collegamento all’emittente W Radio. “Stiamo vivendo qualcosa di molto diverso dalla guerra subita negli ultimi 52 anni. I killer agiscono con determinazione e ferocia. Non ci sono precedenti e questo ci preoccupa molto”. Il presidente Iván Duque ha deciso di spedire sul posto il ministro degli Interni e 300 tra soldati e squadre dei corpi speciali. La popolazione reclama sicurezza, esige il minimo di garanzia per la propria incolumità. Confrontarsi con decine di bande, ben armate e organizzate, e i gruppi dissidenti delle vecchie Farc non è facile. I territori sono stati abbandonati a lungo dallo Stato e nessuno è disposto a mollare un bottino miliardario.