Poniz (Anm): “Nessuno può marcire in carcere” adnkronos.com, 30 novembre 2019 “Per la nostra Costituzione, per princìpi di civiltà che credevamo acquisiti, nessun condannato può marcire in carcere, e invocarlo pone chiunque lo faccia fuori dalla Costituzione; così come non possono esistere trofei giudiziari da esibire, o condannati da esporre all’applauso delle folle”. È questo il monito, lanciato dal presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Luca Poniz, in un passaggio della relazione di apertura del 34esimo congresso in corso a Genova. “Appare dunque irrinunciabile sottolineare che il modello costituzionale di diritto penale ripudia esplicitamente l’idea dell’esemplarità della pena - sottolinea Poniz - che contraddice ontologicamente il principio di personalità della responsabilità e della sua sanzione, e prevede come una delle funzioni essenziali della pena la rieducazione del condannato”. La riforma della prescrizione, “svincolata dall’insieme di riforme strutturali necessarie, come infatti da noi contestualmente richieste, e inserita incidentalmente nel testo di una Legge, la cosiddetta spazza-corrotti che disciplina materia affatto diversa, rischia di produrre squilibri complessivi”. Anche se “sarebbe errato attribuire alla riforma in sé ed alla sua ratio ispiratrice” il rischio di questi squilibri. L’Associazione nazionale magistrati, ricorda Poniz, “ha formulato una proposta” che prevede “l’interruzione della prescrizione dopo la sentenza di condanna di primo grado, come del resto chiesto da sempre dall’Anm”, rispetto allo stop contenuto nella riforma dopo la sentenza di primo grado, senza distinguere se di assoluzione o di condanna. Da parte dell’Associazione nazionale magistrati arriva una “netta e ferma contrarietà della Magistratura associata alla separazione delle carriere dei magistrati giudicanti e requirenti”. Che comporterebbe il rischio per il pubblico ministero di una “controllabilità da parte del sistema politico”. Una posizione che “qui ribadiamo con fermezza”. “L’attuale assetto costituzionale, con il pieno inserimento del pubblico ministero nella giurisdizione - ha spiegato Poniz - garantisce un’effettiva forma di controllo giurisdizionale sin dalla fase essenziale delle indagini preliminari, e rappresenta una irrinunciabile garanzia per tutti i cittadini e, in primo luogo, per gli indagati”. A giudizio del presidente dell’Anm la proposta delle Camere penali “è un disegno regressivo, che restituisce un’idea di giurisdizione ancillare e potenzialmente controllabile, in aperta contraddizione non soltanto con quei modelli liberali cui dice di volersi ispirare, ma con la stessa finalità di rafforzamento della terzietà del giudice che, accomunato in questa regressione di statuto costituzionale al pubblico ministero ne condividerebbe la fatale controllabilità da parte del potere politico”. “Qui, oggi, rivolgiamo un appello a tutti i giuristi, ai professori, ai rappresentanti della politica e delle istituzioni, agli avvocati, ai tanti, tra loro, che sappiamo non condividere questa iniziativa - conclude Poniz - perché questo disegno venga respinto, e si uniscano alle ragioni della nostra ferma e argomentata contrarietà”. I Garanti dei detenuti: “non bastano i lavori di pubblica utilità” istituzioni24.it, 30 novembre 2019 Stefano Anastasia: “c’è bisogno di formazione e inserimento lavorativo in attività produttive reali”. Samuele Ciambriello: “Il diritto al lavoro come riscatto personale e sociale”. “Il Garante dei detenuti della regione Campania, con il contributo dell’Osservatorio sulla vita detentiva, ha organizzato un incontro di grande valore sociale, un momento di confronto con gli attori sociali e istituzionali che operano nell’ambito delle politiche attive del lavoro. Il nostro obiettivo è quello di far conoscere, condividere e diffondere le esperienze maggiormente significative di inserimento lavorativo dei detenuti e riflettere sulla normativa vigente sugli sgravi fiscali o contributivi per garantire un futuro, soprattutto ai più giovani. Noi ad esempio in Campania dobbiamo essere orgoglioso della buona pratica e dell’esperienza realizzata nel carcere di Sant’Angelo dei Lombardi”. Così ha dichiarato la Presidente del Consiglio, Rosetta D’Amelio, a margine del convegno sul “Carcere: il lavoro possibile, il lavoro negato” promosso e organizzato dal Garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, a cui hanno partecipato, tra gli altri, il Presidente della Commissione lavoro del Consiglio Regionale, Nicola Marrazzo, il Presidente del Tribunale di Sorveglianza, Adriana Pangia, il Presidente Gruppo Giovani Imprenditori, Vittorio Ciotola, il Provveditore campano dell’amministrazione penitenziaria, Antonio Fullone, il Professore Ordinario di “Diritto del Lavoro” dell’Università Luigi Vanvitelli, Fulvio Corso, la rappresentante dell’U.I.E.P.E., Giusi Forte, il portavoce nazionale della Conferenza dei Garanti territoriali dei territoriali, Stefano Anastasia, il referente dell’Inps, Francesco Tedeschi, il Responsabile ANPAL (Agenzia strumentale del Ministero del Lavoro) regioni Campani e Calabria, Michele Raccuglia, il Presidente regionale Associazione Antigone, Luigi Romano, il Garante dei detenuti della regione Emilia-Romagna, Marcello Marighelli, e il Segretario regionale CGIL, Nicola Ricci. “I dati sono molto eloquenti e indicano una difficoltà nell’applicare la legge Smuraglia - dichiara il Provveditore Antonio Fullone che snocciola le cifre regionali - su più di 7 mila detenuti, in Campania, risultano ammessi in attività lavorativa ai sensi art. 21 O.P., complessivamente 56 detenuti, di cui 3 stranieri e 4 non alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria. In base ai dati trasmessi dagli Istituti per il monitoraggio trimestrale (riferimento: terzo trimestre del 2019) - continua Fullone - risultano assunti in totale solo 9 detenuti (di cui 3 donne), da imprese che beneficiano delle agevolazioni previste dalla Legge Smuraglia. I detenuti sono così distribuiti: 2 ad Avellino (di cui 1 donna), 1 a Benevento, 1 a Poggioreale, 2 a Pozzuoli (donne), 3 a S. Angelo dei Lombardi. Tutto ciò - rincara il Garante dei detenuti Samuele Ciambriello - nonostante lo stato italiano abbia confermato tutti gli ammortizzatori sociali necessari a far tornare i detenuti nel mercato del lavoro. Purtroppo non sempre gli imprenditori riescono a vedere il reale vantaggio economico nel portare la propria impresa in carcere o nell’assumere un detenuto all’esterno e molto spesso non si riesce a capire che un detenuto con profilo di formazione alto potrà rendere l’azienda competitiva sul mercato”. “Non bastano i lavori di pubblica utilità, come dimostrano la gran parte delle esperienze avute finora - conclude Stefano Anastasia, Garante del Lazio e dell’Umbria e Portavoce nazionale della Conferenza dei Garanti territoriali dei territoriali - c’è bisogno di formazione e inserimento lavorativo in attività produttive reali che garantiscano un effettivo reinserimento dei detenuti. Per fare ciò - è l’appello di Anastasia, a nome dei Garanti - occorre l’impegno e lo sforzo di tutti gli attori sociali e istituzionali, comprese le Regioni, che devono poter mettere in campo tutti i provvedimenti e gli adempimenti possibili per raggiungere questo obiettivo”. Psichiatria. Il 65% dei detenuti ha un disturbo di personalità, il 4% una psicosi Corriere Quotidiano, 30 novembre 2019 Il 4% dei detenuti è affetto da disturbi psicotici, contro l’1% della popolazione generale. La depressione colpisce il 10% dei reclusi, mentre il 65% convive con un disturbo della personalità. Significativa, infine, la percentuale di popolazione carceraria che soffre di disturbo da stress post-traumatico, con particolare riferimento ai detenuti migranti: si va dal 4% al 20%. È questa l’allarmante situazione nelle carceri italiane, dove la malattia mentale è molto più presente di quel che si pensa. Da queste necessità nasce il progetto “Insieme - Carcere e salute mentale”, avviato a fine 2016 come risposta concreta all’isolamento e lo shock che la detenzione può veicolare, facendo esplodere o aggravando le malattie mentali. “Nelle carceri il problema è molto delicato - spiega Enrico Zanalda, presidente della Società italiana di psichiatria (Sip) - Sicuramente il tasso di disturbi psichici è molto elevato ma è anche legato a disturbi che non hanno influenza sulla commissione del reato. Legati, piuttosto, alla condizione di detenzione. E quindi vanno trattati dal personale che assiste i detenuti all’interno del carcere”. Il progetto “Insieme” ha coinvolto 16 istituti penitenziari italiani per 3 anni, giungendo alla pubblicazione di un Percorso diagnostico terapeutico assistenziale (Pdta) per una gestione unitaria e multidisciplinare dei disturbi psichiatrici nelle carceri italiane. Tra le novità del nuovo Pdta c’è la valutazione della salute mentale, il monitoraggio fin dall’ingresso in carcere, l’utilizzo di trattamenti di ultima generazione e i gruppi di sostegno tra i detenuti, oltre che diverse attività educative-culturali. Il progetto ha un grande valore: “L’aver elaborato un percorso terapeutico-assistenziale volto a identificare modelli di intervento omogenei nelle carceri italiane, pur nel rispetto delle diversità locali”, chiosa Luciano Lucania, presidente della Società Italiana di medicina e sanità penitenziaria (Simspe). Il punto in comune, infatti, da Nord a Sud, è “la privazione della libertà e l’ambiente carcerario stesso. Fonti - continua il presidente Simspe - di grande stress che possono portare allo sviluppo, o all’acuirsi, dei disturbi psichiatrici, con particolare riferimento a quelli psicotici, della personalità e della depressione”. L’esigenza a cui il progetto mira, dunque, è quella di “una stretta collaborazione fra le diverse figure professionali, che sono coinvolte nella gestione del paziente-detenuto”, commenta Massimo Clerici, presidente della Società italiana di psichiatria delle dipendenze, che aggiunge: “Attraverso il coordinamento delle tre società scientifiche promotrici, il progetto ha puntato molto sulla formazione, non limitandola solo agli operatori sanitari ma estendendola a tutti i soggetti coinvolti nel circuito assistenziale. Nell’ottica di una piena integrazione carcere-territorio”. In questo senso, si sono svolti anche “incontri formativi destinati al personale penitenziario. Che si sono dimostrati fondamentali per il miglioramento della gestione delle malattie mentali”. La multidisciplinarietà introdotta da “Insieme” fonda le radici nell’analisi della situazione concreta delle carceri italiane, proponendo linee di indirizzo unitarie per la gestione del detenuto affetto da disturbi mentali, sia nel periodo della detenzione che al momento del rilascio, assicurando così la continuità terapeutica-assistenziale. Il grande passo in avanti fatto da “Insieme”, in questo senso, “è proprio quello di aver prestato attenzione ai bisogni concreti dei detenuti con problemi mentali- commenta Enrico Zanalda, presidente della Società italiana di psichiatria- Sia alle necessità cliniche che a quelle giuridiche, in un circolo virtuoso che vede correlati il sistema penitenziario e quello sanitario, l’uno consapevole e rispettoso delle dinamiche dell’altro, con l’obiettivo comune del recupero e del futuro reinserimento del paziente nella società”. L’evento conclusivo si è svolto a Bari, la regione Puglia “è uno dei 9 Sai presenti sul territorio nazionale”, spiega Domenico Semisa, direttore del Dipartimento di Salute Mentale della Asl di Bari, che afferma: “Rispetto alle persone detenute che commettono reati e hanno problemi psichiatrici, noi- aggiunge- abbiamo anzitutto l’obiettivo di garantire le cure più adeguate a coloro che sono negli istituti di pena. Siano pazienti psichiatrici che commettono crimini, che detenuti che si ammalano in carcere. Vogliamo garantire loro continuità nelle cure psichiatriche, anche dal momento della scarcerazione alla presa in carico dei servizi territoriali. Per questo il nostro Dipartimento- ribadisce il direttore- vede nel progetto la concretizzazione di quanto ha già iniziato a fare, ormai da più di un anno, con la stesura di protocolli e procedure interni”. Il progetto, promosso dalla Società italiana di medicina e sanità penitenziaria, con il patrocinio della Società italiana di psichiatria, della Società italiana di psichiatria delle dipendenze e con il supporto incondizionato di Otsuka e Lundbeck, non si chiude con il 2019. Nel 2020, infatti, l’impegno del board scientifico e delle aziende sponsor si concentrerà sulla realizzazione di una nuova fase progettuale in ambito Rems, che identifichi chiaramente un puntuale percorso formativo rivolto agli operatori tutti. Se il boss all’ergastolo non collabora e ottiene permessi rischia di diventare un modello di Stefania Pellegrini* L’Espresso, 30 novembre 2019 I mafiosi condannati a vita continuano a esercitare il potere carismatico. E ammorbidire il regime penitenziario, allargando l’accesso ai benefici anche per chi non si pente, non depotenzia la loro carica criminale. Lo scorso 23 ottobre la Corte Costituzionale ha emesso una sentenza dagli effetti potenzialmente dirompenti sullo strumentario sinora posseduto dal nostro ordinamento in tema di contrasto alla criminalità di stampo mafioso. La Corte è intervenuta sul regime penitenziario previsto per gli ergastolani mafiosi i quali, a fronte della loro decisione di non collaborare con la giustizia, vedevano restringersi l’accesso ai benefici, in virtù di una presunzione assoluta di permanenza dei legami con l’organizzazione criminale e, contestualmente, di una presunzione assoluta di pericolosità sociale. La pronuncia ha sancito l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 bis della legge sull’ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche qualora siano stati acquisiti elementi tali da escludere il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. Il condannato dovrà dar prova di aver compiuto un percorso rieducativo. In sostanza, la Corte ha ritenuto come la “pericolosità sociale” del detenuto non collaborante non debba essere più assoluta ma relativa, e dunque valutata caso per caso dal giudice in base alle relazioni del carcere, alle informazioni ed ai pareri di varie autorità. Il raggio d’azione di tale pronuncia va inoltre circoscritto allo specifico beneficio penitenziario dei permessi premio, non essendo incidente sulla totalità dell’art. 4 bis. L’importanza di questa decisione - in attesa della sentenza - va però contestualizzata in uno specifico momento storico, essendo stata emessa all’indomani di una disposizione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che il 7 ottobre, respingendo un ricorso avanzato dal Governo italiano, ha ritenuto “inumano e degradante” il divieto di accedere ai benefici penitenziari imposto dalla legge italiana agli affiliati di mafia che rifiutino una collaborazione con la giustizia. Lo Stato italiano è stato chiamato a rivedere la norma, consentendo quindi al reo di dimostrare la propria lontananza dall’organizzazione con strumenti anche diversi dalla collaborazione di giustizia. Contro e a favore di queste pronunce si sono sollevate tanti voci. Molte hanno manifestato ampia soddisfazione per una pronuncia restauratrice dello spirito di umanità di uno Stato carnefice e spietato nell’aver segregato nelle patrie galere detenuti in un inesorabile “fine pena mai”; il riscatto di uno Stato che in questi casi avrebbe rinnegato uno dei principi fondamentali della Carta Costituzionale che, all’art. 27, sancisce come la finalità della pena andrebbe orientata alla rieducazione del condannato. Il principio della umanizzazione della sanzione penale è indubbiamente connesso al doveroso principio del rispetto della personalità dell’uomo e nello specifico della dignità del detenuto. Ma accanto alla finalità rieducativa va riconnessa anche una funzione deterrente che, oltre a dissuadere i consociati dal commettere reati, svolge un effetto di orientamento culturale richiamandoli alla considerazione dei valori per la cui tutela è posta la pena. Così facendo, si andrebbe a provocare una spontanea adesione dei soggetti ai valori espressi dall’ordinamento, incentivandone il rispetto e l’osservanza. Allo Stato, di fatto, viene assegnato un compito primario rispetto a quello che gli riconosce la potestà punitiva: quello di garantire i diritti inviolabili dell’uomo, impegnandosi a tutelarli, prima che vengano violati. Prevenire il reato rappresenta una missione imprescindibile. Un dovere costituzionale che diviene cogente se riferito alla prevenzione di reati di elevata allerta sociale come quelli mafiosi. Molti, seppur autorevoli, commenti della sentenza della Corte costituzionale non hanno tenuto conto della specificità del fenomeno mafioso. La drammatica storia del nostro Paese ci ha imposto di prevedere una normativa differenziata per gli affiliati di mafia appartenenti ad un circuito criminale che è sul piano sociologico, criminologico e culturale, innegabilmente differente da tutti gli altri contesti malavitosi. La mafia, come scriveva Falcone, è criminalità e cultura. L’adesione ad una organizzazione mafiosa è qualcosa di più della partecipazione ad un’entità criminale finalizzata al profitto illecito. È un credo irrinunciabile. Si diventa mafiosi in un processo progressivo di oggettivazione. Il sicario mafioso è una non-persona, come sono non-persone le vittime. Non c’è l’Io e non c’è l’Altro, c’è solo la “Famiglia”, la “Locale”, il “Clan”. Il boss in carcere continua ad esercitare il potere carismatico criminale ed il rifiuto di collaborare con la giustizia lo rende un modello positivo per il suo ambiente. Dal carcere, prima del regime penitenziario del 41bis, i boss controllavano gli affari ed emettevano ordini di morte. Vale la pena ricordare che i primi provvedimenti di applicazione del regime di isolamento vennero firmati all’indomani della strage di via D’Amelio, benché la norma facesse parte di un pacchetto antimafia proposto da Giovanni Falcone. Il 19 luglio del 1992, alla notizia della strage, nel carcere palermitano dell’Ucciardone si brindò con champagne introdotto in concomitanza con la preparazione dell’attentato. Il regime del 41 bis nacque con queste finalità: isolare i mafiosi dal contesto di provenienza; depotenziare la loro carica criminale; indurli a collaborare, fornendo notizie certe e riscontrabili, necessarie a prevenire delitti o ad identificare responsabilità per reati già commessi. Altro dalla finalità rieducativa. Il mafioso, tradizionalmente veste gli abiti del detenuto modello. Basare la sua “redenzione” sulla valutazione del percorso trattamentale può essere del tutto fuorviante. Solo con la collaborazione si attesta una nitida presa di distanza dal mondo criminale. In mancanza di questa essi continueranno ad essere capi rispettati ai quali si deve obbedienza. Al contempo, la collaborazione non comporta un “ravvedimento” o un pentimento. La legge non lo richiede. Nella maggioranza dei casi è il calcolo utilitaristico di avvantaggiarsi dei benefici connessi alla collaborazione ad indurre il mafioso a fornire informazioni rilevanti. Si tratta di una mera valutazione costi/benefici. Se i costi venissero ridotti e il carcere ostativo depotenziato, al mafioso non converrebbe collaborare. Alla luce di ciò, va pertanto scongiurato il pericolo dell’estensione del divieto agli altri benefici, in un cortocircuito che determinerebbe la fine di uno strumento antimafia tutt’oggi efficace. Basti pensare alla collaborazione dei mafiosi nei processi al Nord che hanno dato la possibilità di aprire nuovi procedimenti e svelare misteri da tempo archiviati. Ora, alcuni attendono l’emanazione di una legge che delimiti l’area di intervento per la concessione dei permessi, stabilendo parametri e principi fissi. Si tratterebbe di un provvedimento del tutto illegittimo perché andrebbe a limitare la discrezionalità del giudice di sorveglianza, violando la pronuncia della Corte. Tuttalpiù il legislatore potrà solo indicare le modalità di valutazione della concessione, senza reintrodurre nuove preclusioni. Ma la magistratura di sorveglianza non può essere lasciata sola ad affrontare questa delicatissima sfida che può rappresentare un’occasione per migliorare, ma non per depotenziare il contrasto alla mafia. *Ordinario di Sociologia del diritto all’Università di Bologna “La sentenza di Strasburgo contiene principi bellissimi, ma temo false dissociazioni” Il Fatto Quotidiano, 30 novembre 2019 Il procuratore aggiunto della Dda Alessandra Dolci è intervenuta a un convegno al palazzo di giustizia di via Freguglia sulla recente sentenza della Consulta: “Dare un riconoscimento legale alla dissociazione” dalle mafie “è una finzione, non ci credo, non è possibile”, “ho timore di una riabilitazione virtuale” dei condannati per mafia e di una “strumentalizzazione”. Dopo la sentenza della Consulta il capo dell’Antimafia di Milano teme le false dissociazioni dei boss mafiosi condannati all’ergastolo. “Nei giorni scorsi è arrivata nel mio ufficio una lettera di un soggetto che sta espiando la pena per associazione mafiosa e che scriveva “ammetto tutti i fatti, ammetto la mia associazione alla ‘ndrangheta dalla quale mi dissocio, ho 4 figli e devo pensare a loro e l’organizzazione non potrà più contare su di me”. E io dico bene, ma mi chiedo anche sarà veritiera? O è una strumentalizzazione?”, ha detto Alessandra Dolci, procuratore aggiunto della Direzione distrettuale antimafia di Milano, intervenendo a un convegno al palazzo di giustizia di via Freguglia sulla recente sentenza della Consulta. Il 23 ottobre scorso, infatti, la Corte costituzionale ha stabilito che i boss mafiosi all’ergastolo per stragi e omicidi potranno ottenere permessi premio, anche se non collaborano con la giustizia. Dopo la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, si è trattato è un altro colpo mortale all’ergastolo “ostativo”: la condanna a vita che impedisce la concessione di benefici ai detenuti per mafia, stragi e omicidi che si rifiutano di rompere i legami con le organizzazioni criminali raccontando tutto quello che sanno. Secondo Dolci la sentenza della Cedu, per il capo della Dda milanese, esprime “principi bellissimi, ma la realtà dei fatti è diversa” e solo chi lavora nel contrasto alla ‘ndrangheta conosce davvero i meccanismi di “questo anti-Stato e la forza dei legami di sangue”. Se dalla Cedu arrivano principi, però, la Consulta ha invece dichiarato incostituzionale l’articolo 4 bis comma 1 dell’Ordinamento penitenziario “nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia, anche se sono stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. Sempre che, ovviamente, il condannato abbia dato piena prova di partecipazione al percorso rieducativo”. “Dare un riconoscimento legale alla dissociazione” dalle mafie “è una finzione, non ci credo, non è possibile”, “ho timore di una riabilitazione virtuale” dei condannati per mafia e di una “strumentalizzazione”, ha detto Dolci, magistrato che spiegato di avere “un’esperienza ventennale” nel contrasto alla ‘ndrangheta. “Dovremo far fronte” alla decisione della Consulta, “che comunque credo avrà effetti meno dirompenti di quelli prospettati”, ma “dovremo attrezzarci e il giudizio” sulla rescissione dai legami mafiosi di chi chiederà i permessi premio “dovrà essere reale, effettivo, concreto, chiedo solo questo”. Con la sentenza della Consulta, in pratica, la pericolosità degli ergastolani ostativi non sarà più presunta dalla legge, ma andrà verificata, caso per caso, dai magistrati di sorveglianza, come avviene per tutti gli altri detenuti. Il Fatto Quotidiano ha promosso una raccolta firme per chiedere alla politica di produrre una legge sani la situazione. Se la Consulta ha considerato incostituzionale l’articolo 4 bis dell’Ordinamento penitenziario, il legislatore deve adoperarsi subito per approvare una nuova norma che stabilisca parametri e principi fissi da seguire per concedere o negare i permessi agli ergastolani “ostativi”. Una legge che li sottragga alla discrezionalità dei semplici giudici di sorveglianza sul “percorso rieducativo” e “l’attualità della partecipazione all’associazione criminale”. In pratica serve una legge che impedisca a capimafia e agli altri responsabili di stragi di truffare lo Stato, i magistrati e i cittadini onesti ottenendo permessi e altri benefici senza meritarli. Una norma che il Parlamento dovrebbe approvare all’unanimità. Accordo tra Dap e “Pirelli Spa” per la formazione lavorativa dei detenuti Corriere della Sera, 30 novembre 2019 Il Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, accompagnato dal vice presidente esecutivo e amministratore delegato di Pirelli, Marco Tronchetti Provera, ha visitato il centro di Ricerca & Sviluppo di Pirelli nel quartier generale della società milanese. Nel corso della visita è stato anche firmato un protocollo d’intesa fra il ministero della Giustizia (dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) e Pirelli finalizzato alla promozione del lavoro per i detenuti da realizzarsi attraverso un programma formativo per la creazione di competenze spendibili nel mondo del lavoro. L’accordo - L’accordo punta a realizzare un programma formativo qualificante in favore dei detenuti, finalizzato all’acquisizione di competenze professionali spendibili nel mondo del lavoro. Gli interventi da realizzare saranno individuati attraverso specifici accordi operativi da concordarsi entro giugno 2020 e avranno la finalità di sviluppare la cultura della restituzione, accrescere il senso di responsabilità verso la società e, conseguentemente, ridurre i rischi della recidiva. Il protocollo sottoscritto oggi e i successivi accordi operativi che seguiranno, avranno una validità di tre anni e, con l’accordo delle parti, potranno essere replicati in collaborazione con soggetti internazionali. L’intesa è stata formalizzata alla presenza del premier Conte, dal capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Francesco Basentini, e del corporate vice president global institutional affairs & sustainability Pirelli, Filippo Maria Grasso. Con l’accordo di oggi, Pirelli si aggiunge ai partner strategici del Ministero della Giustizia nell’avvio di progetti di formazione professionale in favore dei detenuti, per l’inclusione sociale e l’implementazione di lavori di pubblica utilità e di lavoro penitenziario. “Stiamo lanciando messaggi di una nuova cultura penitenziaria, che cerca di uscire dal carcere, e vedere che operatori economici di questa importanza e di questo spessore, accolgono il messaggio, è motivo di grandissima soddisfazione” ha concluso il capo Dipartimento Franco Basentini “Pirelli offrirà, con il Protocollo, formazione per i detenuti, per un certo profilo di detenuti: nell’ottica del reinserimento, della rieducazione e dell’avvio dei detenuti di prossimo ritorno alla libertà, sul mercato sociale, il contributo di operatori come Pirelli è molto importante”. “Mi riscatto per… il Messico” arriva alla fase finale di Marco Belli gnewsonline.it, 30 novembre 2019 Prosegue l’impegno del Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per l’implementazione del progetto di lavori di pubblica utilità promosso dall’Ufficio messicano delle Nazioni Unite per la lotta alla droga e al crimine nel sistema penitenziario dello Stato di Città del Messico, secondo il modello italiano denominato “Mi riscatto per…”. In questi giorni una delegazione del Dap, composta dal Direttore Generale del Personale e delle Risorse Massimo Parisi e dal responsabile della Task-Force sul lavoro di pubblica utilità Vincenzo Lo Cascio, si trova nuovamente nella capitale messicana per seguire da vicino la fase finale del progetto. Visiterà i centri penitenziari Reclusorio Sur e Ceresova, - due degli istituti che hanno aderito al progetto - dove i detenuti svolgono diverse attività formative e lavorative. La fase esecutiva del progetto è iniziata con la sottoscrizione del Memorandum di intesa del 1° agosto scorso da parte dell’Ufficio messicano delle Nazioni Unite per la lotta alla droga e al crimine, della Segreteria di Governo di Città del Messico e del Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Poi, a fine estate, il progetto esecutivo messo a punto dai delegati Unodc e del sistema penitenziario di Città del Messico è stato sottoposto alla revisione dei partner italiani, ricevendone l’approvazione. Successivamente Unodc México e sistema penitenziario messicano hanno firmato una convenzione per l’impiego di risorse economiche, incontrato i rappresentanti di imprese italiane che potrebbero diventare possibili partner privati del progetto e stilato il crono-programma delle attività per la sua realizzazione. È stato inoltre avviato l’apparato di sicurezza, con la messa a punto della logistica e dei piani per la sorveglianza dei detenuti, la selezione e formazione del personale tecnico e la regolamentazione dei rispettivi ruoli e funzioni. Infine un certo numero di detenuti, accuratamente selezionati sulla base di una serie di requisiti tecnici e legali stilati dalle autorità penitenziarie, in coordinamento con i giudici responsabili dell’applicazione della legge, hanno iniziato il loro percorso di formazione professionale come giardinieri e manutentori delle aree verdi. Fra la fine di dicembre e l’inizio del nuovo anno usciranno per la prima volta per le strade della capitale messicana per svolgere lavori di pubblica utilità. “Il Vangelo dentro” e il ritorno alla fede attraverso la lettura di Davide Dionisi vaticannews.va, 30 novembre 2019 Terza edizione della rubrica “Il Vangelo dentro”. Su Radio Vaticana Italia, le parole dell’Avvento lette e commentate dagli ospiti della Casa di reclusione di Rebibbia. A partire da domenica 1 dicembre, primo giorno d’Avvento, andrà in onda su Radio Vaticana Italia alle 12.35, la terza edizione de “Il Vangelo dentro”, la rubrica che vedrà protagonisti 10 detenuti della Casa di reclusione di Rebibbia. L’approfondimento, della durata di circa sei minuti e trasmesso tutte le domeniche, la Vigilia e il giorno di Natale, prevede la lettura e il commento del Vangelo festivo in uno dei periodi forti dell’anno liturgico. L’iniziativa, promossa dal Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede, sarà trasmessa dal carcere romano. I fatti e gli incontri del Vangelo assumono una forza particolare dentro il carcere - “Il Vangelo dentro fa venire subito in mente il capitolo 25 di Matteo, là dove Gesù dice che saremo giudicati per come l’avremo riconosciuto e aiutato nell’affamato, nell’assetato ma anche nel carcerato” spiega Andrea Tornielli, Direttore editoriale del Dicastero per la Comunicazione. “I fatti e gli incontri del Vangelo assumono una forza particolare dentro il carcere, nella vita dei reclusi. Ricordo la commozione di qualche anno fa dentro un istituto di pena del Nord Italia, quando uno dei carcerati del reparto speciale, dopo aver ascoltato il Vangelo del Figliol Prodigo che ci parla dell’amore misericordioso del Padre in attesa del ritorno del figlio subito perdonato e abbracciato, reagì a quanto aveva appena ascoltato. Parlò della storia sua e di suo papà, del quale aveva sperperato tutte le sostanze mandandolo in fallimento. Ancora oggi - disse - non mi capacito: quando torno a casa in permesso lui a novant’anni è ancora lì ad aspettarmi e ad abbracciarmi, accogliente, nonostante ciò che io gli ho fatto. Una testimonianza di Vangelo dentro”. Iniziativa che aiuta a riconoscere il Signore - L’equipe che partecipa al progetto è guidata dal gesuita Padre Matias Yunes “Secondo la mia esperienza, il Vangelo Dentro è una iniziativa che aiuta a riconoscere che il Signore viene e si fa carne soprattutto nelle realtà più difficile. Si tratta innanzitutto di un messaggio di speranza nella voce di coloro che aspettano la vera Vita e la vera Libertà”. Esperienza che cambia il cuore - “Si manifesta quello che era un mio desiderio. Volevo che si potesse continuare l’esperienza degli anni passati” rivela la Direttrice della Casa di Reclusione romana, Nadia Cersosimo “L’impatto che ha avuo questo progetto è stato straordinario e si è concretizzato in un vero e proprio percorso di cambiamento del cuore. Non è importante quello che passa attraverso i microfoni, ma quanto ciò che avviene nei detenuti che hanno l’opportunità di potere avere una riflessione guidata su passi del Vangelo. Siamo certi che questo segnerà non l’inizio, ma la prosecuzione di un percorso che non si deve fermare solo alla preparazione del Natale, ma deve diventare una strada virtuosa di formazione” ha aggiunto Ritorno alla fede attraverso la lettura delle Sacre Scritture - Le esperienze passate ci hanno detto che i ragazzi che hanno scelto di prendere parte a questo progetto hanno reagito ritornando alla fede, riscoprendo il valore del perdono. Chi ha fatto questo percorso ha dato prova di grande disponibilità e il loro entusiasmo è stato tale che hanno più volte chiesto di continuare. Colpiscono per la loro brutale sincerità, per il loro bisogno di certezze e di valori. Così come colpisce l’insistenza di custodire e amplificare le loro voci di sofferenza e di speranza. I detenuti: “Francesco, il nostro Papa” - I nostri incontri finiscono sempre con una richiesta a Papa Francesco. “Il nostro Papa” ripetono. A lui chiedono di continuare il ruolo di guida nel mondo e che rimanga sempre più vicino ai carcerati. Ma chiedono soprattutto che il Papa parli per loro e chieda più umanità nell’amministrazione della giustizia, una migliore qualità della vita negli istituti di pena e la possibilità del reinserimento dopo la detenzione. Il Vangelo dentro rivela che il tempo del carcere può diventare tempo di fede e che la Chiesa ha un messaggio molto ampio ed è quello della liberazione dalla carcerazione che è contenuto nel Vangelo. Domenica una partita di calcio con papà in carcere di Monica Coviello vanityfair.it, 30 novembre 2019 Domenica 1 dicembre, in 70 istituti penitenziari, parte l’iniziativa che permetterà a 2.900 figli di padri detenuti di divertirsi con i genitori. Quello che per la maggior parte dei bambini è un appuntamento consueto, per oltre 2.900 figli di padri detenuti è un momento straordinario: la “Partita con papà”. Da cinque anni l’associazione Bambinisenzasbarre Onlus organizza, in collaborazione con il Ministero di Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, una serie di giornate per permettere a genitori e bambini di divertirsi insieme giocando a calcio. La nuova edizione dell’iniziativa prende il via domenica 1 dicembre in 70 istituti penitenziari di tutta l’Italia, e prosegue fino a Natale. “La Partita con papà è un momento eccezionale d’incontro, che rimane a lungo nella memoria di bambini e famiglie, è una straordinaria occasione che permette a padri, madri e figli di condividere un momento di normalità e vicinanza”, spiegano gli organizzatori. “È un appuntamento che, negli anni, ha dimostrato “sul campo” di essere un mezzo trainante per coinvolgere le istituzioni, i media e tutta la cittadinanza sul tema dei diritti dei bambini e sull’emarginazione e lo stigma a cui sono soggetti questi minorenni”. Uno degli obiettivi dell’iniziativa è proprio quello di sensibilizzare più persone possibili sul tema dell’inclusione sociale e delle pari opportunità per i bambini figli di genitori detenuti, che sono 100mila in Italia e oltre 2,2 milioni in Europa. Spesso sono vittime di pregiudizi e vivono con il “segreto del loro familiare in carcere”. In contemporanea con la “Partita con papà”, sarà attiva la campagna di sensibilizzazione e raccolta fondi “Loro non hanno colpe”, attiva dall’1 al 28 dicembre 2019, con il numero solidale 45594, per creare nelle carceri italiane nuovi Spazi Gialli: luoghi di accoglienza, ascolto, interazione ed attenzione dedicati ai bambini che entrano in carcere per incontrare la mamma o il papà e alle loro famiglie. Ogni giorno, finora, gli Spazi Gialli hanno accolto 10 mila bambini, ma Bambinisenzasbarre vuole costruire anche quelli che servono per gli altri 90 mila. Che nessuno sia escluso. L’Anm boccia Bonafede. E il Pd prepara lo strappo di Alberto Gentili Il Messaggero, 30 novembre 2019 “Beh, adesso che anche i magistrati dicono che lo stop alla prescrizione crea gravi squilibri, forse Bonafede e Di Maio la smetteranno di dirci che difendiamo i corrotti”. Il vicesegretario dem Andrea Orlando, al termine di una nuova giornata campale sul fronte della giustizia, può finalmente festeggiare. L’Anm si schiera con il Pd e Italia Viva nella battaglia contro l’entrata in vigore dal primo gennaio della riforma del Guardasigilli Alfonso Bonafede varata dal governo giallo- verde: “Svincolata dall’insieme di riforme strutturali necessarie, rischia di produrre squilibri complessivi”, denuncia il presidente dei magistrati Luca Poniz. La novità non è da poco. E cade dopo che i 5Stelle sono tornati all’offensiva contro Pd e Iv. Luigi Di Maio, con il solito tono ultimativo, in mattinata ha messo a verbale: “Lo stop alla prescrizione entra in vigore dal primo gennaio”. Punto. E al diavolo gli alleati che chiedono, come spiega l’esperto di giustizia del Pd Michele Bordo, “soltanto che siano garantiti tempi certi e brevi per la durata dei processi. Non è possibile che si resti imputati a vita. Lo Stato già ora deve 1 miliardo di euro per l’equa riparazione in caso di processi più lunghi di 6 anni”. In questa situazione di stallo sarà il premier Giuseppe Conte, la settimana prossima, a cercare una mediazione. Il vertice non è stato ancora fissato, ma è dato per certo sia da Bonafede, sia da Orlando. Il problema è che finora 5Stelle e Pd non sono riusciti a mettersi d’accordo. Il Guardasigilli ha proposto di fissare un termine massimo per la durata dei processi di 4 anni, ma allo stesso tempo - a giudizio dei dem - “non introduce sanzioni per i giudici ritardatari in grado di costituire un vero deterrente”. Il terrore di Di Maio e Bonafede, nel caso in cui non si raggiungesse un’intesa, è che il Pd possa votare la prossima settimana a favore dell’urgenza per il disegno di legge presentato dal forzista Enrico Costa che cancellerebbe lo stop alla prescrizione. Ma questo è escluso: “Anticiperebbe la votazione di appena una decina di giorni, non avrebbe senso far fibrillare la maggioranza per questo risultato”. È invece probabile che i dem, determinati come spiega il segretario Nicola Zingaretti “a fissare tempi brevi certi” alla durata del processi, utilizzino il ddl Costa come “veicolo” per far approvare un emendamento che introdurrebbe la “prescrizione processuale”, quando il procedimento penale supera il termine massimo di durata. Oppure, “ancora meglio”, un “emendamento di mediazione” con i grillini. Non sfugge infatti a nessuno al Nazareno che uno strappo così grave sulla giustizia terremoterebbe il governo rosso-giallo. Proprio per questa ragione Orlando spera che invece di emendamento, possa essere approvata la riforma complessiva del processo penale. Quella che contiene anche il sistema di elezione del Csm e il nuovo patteggiamento. Se la mediazione non andrà in porto, nel Pd c’è chi è pronto allo scontro. “Bonafede dice che sarebbe grave un asse tra noi e Forza Italia e Lega sulla prescrizione? Faccia pace con sé stesso”, dice un autorevole esponente dem, “sarebbero forzisti e leghisti a votare la nostra riforma. Quella che i grillini bocciarono insieme a Salvini”. Sulla prescrizione l’altolà ora viene da Zingaretti: tempi certi ai processi di Errico Novi Il Dubbio, 30 novembre 2019 Preparativi di guerra. Tra Pd e Movimento 5 Stelle la trattativa sulla prescrizione non va avanti. Anzi. Sembra già pronto il terreno per lo show down destinato a consumarsi fra qualche settimana. Non sulla legge Costa ma direttamente sulla riforma del processo penale, quando arriverà a Montecitorio. Lo certifica una dichiarazione solo in apparenza distensiva del segretario dem Nicola Zingaretti che ieri, per la prima volta, entra nel vivo del dibattito sulla norma Bonafede: “Noi diciamo che accanto alla prescrizione bisogna garantire i tempi certi e brevi del processo. Se questo si ottiene noi non facciamo nessun problema, bisogna solo ascoltarci, che è la cosa più bella che si possa fare fra alleati”. Una frase suadente solo nel tono. Perché quando il leader democratico parla di “tempi certi”, oltre che “brevi”, non allude semplicemente all’accelerazione della macchina penale auspicata dalla riforma del guardasigilli. Si riferisce a una durata massima “comunque insuperabile” del giudizio. Un limite invalicabile destinato per ora a sparire dal 1° gennaio, quando entrerà in vigore il blocca- prescrizione. Altra prova di un conflitto sempre più inevitabile ma almeno più definito la offre proprio Alfonso Bonafede. Interviene di mattina, dai microfoni di “Agorà”: “Se il Partito democratico dovesse andare in Aula e fare asse con Forza Italia, Lega e FdI proprio sulla prescrizione dopo decenni di battaglia con Berlusconi, sarebbe un fatto grave, prima di tutto per gli elettori del Pd”. Il ministro non chiama in causa esplicitamente la legge Costa, e non a caso: dopo la capigruppo di giovedì scorso, gli è ben chiaro che l’alleato non scivolerà nell’errore marchiano di votare un testo dell’opposizione. Giovedì i dem non hanno affatto appoggiato la “procedura d’urgenza” chiesta dal responsabile Giustizia di Fi per la sua proposta, che abroga di netto la “nuova” prescrizione. E neppure è alle viste un via libera del partito di Zingaretti martedì in Aula, quando la corsia preferenziale invocata dagli azzurri sarà messa ai voti dell’assemblea. I democratici attenderanno il ddl penale di Bonafede. Aspetteranno che sia presentato in Consiglio dei ministri e poi incardinato a Montecitorio. Una volta in commissione, presenteranno sotto forma di emendamenti i correttivi finora respinti da Bonafede: la prescrizione per fase di appello e giudizio di legittimità, che non potranno superare una durata limite; o in alternativa una progressiva riduzione della pena calibrata sull’entità dello sforamento rispetto al termine prefissato. È chiaro che simili modifiche potranno passare solo con il voto compatto dell’opposizione. Ed è altrettanto chiaro come di fronte a uno scenario del genere il governo Conte rischierebbe di andare in frantumi in pochi istanti. D’altra parte il Nazareno non pare intenzionato a compromessi. Non tanto per l’incalzante pressing di Forza Italia e in particolare di Costa, ma perché della “durata massima” ha fatto ormai una questione di principio. Lo ribadisce a Bonafede anche il suo predecessore a via Arenula, e vicesegretario pd, Andrea Orlando: ““Noi non vogliamo passi indietro sulla prescrizione ma passi avanti sul processo penale. Multe e minacce disciplinari non funzionano. Al ministro continuiamo a chiedere soluzioni concrete”. Altra allusione alla riforma del processo messa a punto dall’attuale guardasigilli, in cui si affida l’accelerazione dei tempi alle sanzioni nei confronti dei giudici che depositassero almeno un quinto delle sentenze di loro competenza oltre i termini, peraltro strettissimi, indicati dalla riforma, in alcuni casi addirittura di 3 anni appena. Se da un fronte scende in campo Zingaretti, dall’altro si fa sentire Luigi Di Maio: “Mi si dice che potrebbe esserci un blitz in Parlamento sulla prescrizione per provare a fermare la nostra riforma. Se qualcuno ha intenzione di votare la legge che fa tornare ai tempi berlusconiani, spero che non sia qualcuno della maggioranza”. Un tono che nella versione di Alessandro Di Battista diventa inevitabilmente anche più aspro: “La prescrizione è un tema su cui i dem devono per forza cedere. Fosse per me, andrebbe bloccata al momento del rinvio a giudizio. È evidente che se il Pd votasse con Forza Italia contro questa riforma il Movimento non potrebbe portare avanti questo governo. Ma non credo accadrà”. Sullo sfondo restano numerosi paradossi. Il primo riguarda la “prescrizione processuale” ipotizzata dal Pd, sulla quale l’Unione Camere penali ha chiesto ad Andrea Orlando un incontro: una soluzione del genere, secondo i penalisti, lascerebbe comunque una pesantissima incertezza giuridica dal momento che per sua natura non sarebbe retroattiva. L’avvocatura, a cominciare dal Cnf, insiste per un rinvio del blocca-prescrizione che, se emendato a posteriori, arrecherebbe dei danni notevoli alla stabilità dell’ordinamento. L’altro paradosso riguarda l’iperbole lanciata da Di Battista: anche da parte di Leu, infatti, si propone di arretrare addirittura lo stop alla estinguibilità del reato alla richiesta di rinvio a giudizio. Con una differenza: che da quel momento in poi la prescrizione processuale scatterebbe innanzitutto sul giudizio di primo grado. Ipotesi che dimostra come il resto della maggioranza, da Italia via in poi, sia in realtà sulla stessa linea del Pd. Prescrizione, l’Anm si schiera di Giulia Merlo Il Dubbio, 30 novembre 2019 Proposta: stop dopo la condanna ma con dei limiti. E sul caos procure: “Una ferita per tutte le toghe”. Stop alla prescrizione sì, ma solo “dopo una sentenza di condanna in primo grado” e insieme a una riforma di sistema. Separazione delle carriere come voluta dalle Camere penali no, mai. Si è aperto così, con una lunga relazione del presidente Luca Poniz, il trentaquattresimo congresso dell’Associazione Nazionale Magistrati, riuniti a Genova per discutere della categoria, in particolare dopo la crisi del Csm della passata estate. “Una profonda ferita che non riguarda solo Anm, ma tutta la magistratura e anche la giurisdizione. Ad essere in crisi sono stati il prestigio e l’autorevolezza di tutto il sistema giudiziario”. È un congresso teso, quello che si è aperto ieri a Genova alla presenza del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: trentaquattresimo nella storia dell’Associazione Nazionale Magistrati, il primo dopo lo scandalo dell’estate che ha coinvolto il Csm e che ha fatto tremare le fondamenta della magistratura italiana. Proprio da qui è partito l’accorato intervento del presidente di Anm, Luca Poniz, che non ha girato intorno alla questione e ha esordito descrivendo quanto avvenuto come “una ferita che non riguarda solo Anm, ma tutta la magistratura e anche la giurisdizione. Ad essere in crisi sono stati il prestigio e l’autorevolezza di tutto il sistema giudiziario”. Per questa ragione, ha spiegato Poniz, l’unica strada è quella di “ripartire dalla fiducia, che si conquista e si riconquista grazie all’apertura al confronto e anche alla critica, con disponibilità sincera al cambiamento”. Nella sua relazione, Poniz ha elencato tutti i virus che hanno pervaso la magistratura: “Il carrierismo dei magistrati, con la bulimica aspettativa di carriera individuale” e il “potere discrezionale del Csm nelle nomine” hanno provocato un “incrocio negativo”, a causa anche di “un sistema attuale che è stato strumento di scientifica programmazione degli eletti nel Consiglio”. Conseguenza dello scandalo è stato il via alla riforma del Csm, nei confronti della quale è stata espressa “Viva preoccupazione” per i “principi ispiratori”, perché “vi è una tendenza, non nuova, a limitare i poteri del Consiglio, quando non a ridefinirne riduttivamente il ruolo”. Il riferimento è alla volontà di modifica del sistema elettorale, su cui Poniz non usa mezzi termini: “Ogni forma di sorteggio, quale ne sia la modalità, o sorteggio degli eletti, od elezione dei sorteggiati, oltre che contrastare frontalmente con l’attuale previsione costituzionale, ne costituisce un’evidente mortificazione”. Fortemente critico, poi, è stato il giudizio sulla cancellazione della prescrizione a partire dal 1 gennaio 2020, come previsto dalla norma Bonafede contenuta nella Spazza-corrotti: una riforma “svincolata dall’insieme di riforme strutturali necessarie”, che “rischia di produrre squilibri complessivi”. Poniz ha di nuovo proposto la soluzione cara ad Anm: “L’interruzione della prescrizione dopo la sentenza di condanna di primo grado”, perché non si può considerare “la prescrizione del reato, che a processo in corso è una patologia del sistema, come un farmaco per curare la lentezza del processo, che è un’altra patologia del sistema”. Quanto al rapporto tra magistratura e politica, Poniz ha sottolineato come “l’invito a candidarsi rivolto ai magistrati che assumono decisioni è una delegittimazione della giurisdizione stessa, come se il consenso popolare fosse l’unica regola della democrazia”. Inoltre, ha evidenziato come sia necessaria una “riflessione sulla funzione e sull’ipertrofia del diritto penale, con l’idea della pena e delle sanzioni. Oggi si vuole usare il diritto penale per riflettere e ingigantire le paure, caricandolo di finalità contingenti e condizionandolo a discutibili emergenza. In questo modo si scarica una tensione enorme sui processi e sulla magistratura”. Una tensione che provoca l’incrinarsi della fiducia dei cittadini nella giustizia “se la giurisdizione non è in grado di rispondere alle aspettative generate da norme manifesto”, tra le quali ha elencato la legittima difesa e il pacchetto sicurezza. Infine, Poniz ha ribadito alcuni principi fondamentali del sistema penale e soprattutto del momento esecutivo della pena (su cui si fondava l’accantonata riforma del carcere promossa da Orlando): “Il condannato per qualunque reato è sempre persona da recuperare”, “la contrarietà all’idea dell’esemplarità della pena, che contraddice ontologicamente il principio di personalità della sanzione e della rieducazione del condannato”. Di più, Poniz ha scandito che “chi invoca che qualcun altro marcisca in carcere si pone automaticamente fuori dalla Costituzione”. Proprio in merito alle riforme dell’ordinamento promesse dal Ministro Alfonso Bonafede, seduto in platea, Poniz ha confermato la disponibilità di Anm a lavorare ai tavoli ma ha posto l’attenzione sul fatto che “nessuna riforma a costo zero serve a qualcosa, senza riforme strutturali, del personale amministrativo, delle risorse per i costi del processo e di modernizzazione tecnologica e delle strutture”. Infine, il presidente Anm ha sottolineato l’importanza “del dialogo con gli avvocati, perché avvocati e magistrati non sono solo tecnici del diritto ma portatori di una visione privilegiata, in quanto protagonisti della giustizia, anche nella contrapposizione di visioni”. Tuttavia, il presidente ha aperto una dura polemica nei confronti dell’Unione camere penali italiane, che hanno presentato il disegno di legge per la separazione delle carriere dei magistrati. “In realtà si tratta della riscrittura di norme costituzionali e di principi cardine della giurisdizione, che potrebbe provocare l’espulsione della magistratura dai poteri dello stato” e “che comporterebbe il rischio per il pubblico ministero di una “controllabilità da parte del sistema politico”, ha avvertito, definendo la riforma “un disegno regressivo che produrrebbe una giurisdizione ancillare e potenzialmente controllabile, in aperte contraddizione coi principi liberali cui gli autori dicono di volersi ispirare”. Addirittura, Paniz ha lanciato “un appello ai giuristi, ai politici e agli avvocati, ai tanti, tra loro, che sappiamo non condividere questa iniziativa, perché questo disegno di legge venga respinto”. Anm: la riforma della prescrizione da sola non basta di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 30 novembre 2019 Sulla prescrizione, la rivendicazione di quella che è una posizione consolidata da parte della magistratura, il congelamento dopo la condanna in primo grado. Sulla crisi del Csm, la contrarietà a ogni forma di sorteggio. Sui rapporti con la politica, il no al populismo giudiziario. Ma anche l’avversione alle rivendicazioni di esemplarità della pena e la preoccupazione per il ritorno di attualità del progetto di separazione delle carriere. Alla fine di quello che viene riconosciuto senza ipocrisie come “un armo molto difficile per la Magistratura italiana”, l’Anm celebra a Genova il suo 34esimo congresso. E Luca Poniz, da pochi mesi presidente, dopo la deflagrazione dello scandalo legato all’indagine di Perugia, che ha investito non solo il Csm ma la fiducia nella magistratura tutta, prova a giocare non solo in difesa. E allora, davanti al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, Poniz svolge una relazione che riconosce l’esistenza di un nodo Csm, che chiama in causa gli stessi magistrati chiamati a scegliere tra un Consiglio amico (che li protegga) o istituzione (che li tuteli). Un po’ di autocoscienza per fare chiarezza, “perché le istituzioni rappresentative assumono sempre la fisionomia dei loro amministrati”. Anche perché “è innegabile che esiste un incrocio improprio tra le aspettative del singolo e l’uso del potere discrezionale del Consiglio”. E quando le prime si coltivano attraverso la forza dei gruppi associati allora il circuito politico culturale che li fonda da virtuoso diventa perverso. In ogni caso, al di là delle condotte censurabili di magistrati, autorevolezza e prestigio del Consiglio sarebbero ontologicamente compromessi da qualsiasi ipotesi di sorteggio per la scelta dei componenti togati. Certo la fiducia è indispensabile e la magistratura dovrà fare di tutto per recuperarla. Non altrettanto però, ha sottolineato Poniz, vale per il consenso popolare. Qui il pericolo concreto è non solo la delegittimazione del singolo giudice o pm, ma il disconoscimento del fondamento della giurisdizione. Con il baluardo della sovranità rivendicata come appartenente al popolo, dimenticando poi il necessario corollario costituzionale sui limiti al suo esercizio. Sul tema del giorno, la prescrizione, Poniz da una parte rivendica una proposta storica dell’Arun e cioè il blocco dei termini dopo la condanna in primo grado, individuata come “diverso punto di equilibrio tra le garanzie dell’imputato e l’efficacia del processo” e da leggere insieme alle proposte di modifica del sistema delle impugnazioni per cancellarne utilizzi strumentali; dall’altra però ammette il rischio di squilibri complessivi se la riforma non fosse accompagnata da interventi strutturali. È il caso di un potenziamento dei riti alternativi. Poniz ha ricordato la centralità del tema delle sanzioni penali, della loro funzione. Tanto più dopo l’affossamento della riforma dell’ordinamento penitenziario. No quindi alle rivendicazioni di pene esemplari, all’affermazione pubblica di condanne esemplari. E chiusura tra applausi dopo “i difficili giorni di giugno” nella convinzione di volere rivolgersi a un magistrato innamorato della Legge e non del Potere, ma nella consapevolezza che a quel Potere anche le toghe, alcune almeno, sono state assai sensibili. L’Anm detta la resa: politici, basta autonomia di Piero Sansonetti Il Riformista, 30 novembre 2019 Il presidente dell’Anm, Luca Poniz, ieri ha aperto il congresso dell’associazione dei magistrati, che si tiene a Genova, sostenendo i principi essenziali che oggi guidano la magistratura d’assalto, e che la tengono abbastanza lontana dalle idee di fondo dello Stato di diritto. Tra qualche riga vediamo quali sono questi principi dell’Anm. Poi, Poniz, in un’intervista rilasciata a un paio di radio, se l’è presa con quelli che prima dicono di aver rispetto per la magistratura e poi la criticano. Ha osservato: “Non ho mai sentito nessuno dire “Io non ho rispetto per la magistratura”. Però - ha aggiunto - è una frase che non vale niente se dopo averla pronunciata si continua, come avviene spesso, a criticarla in modo aspro”. Poniz è convinto, evidentemente, che rispetto significhi sottomissione. Resa. Non solo Poniz: questa dell’obbligo di sottomissione è una corrente di pensiero molto forte tra i magistrati. Comunque, secondo me, un po’ Poniz ha ragione: perché ripetere quella frase stupida? Io, per esempio, non ho proprio nessun rispetto per la magistratura. Lo dico chiaramente: penso che la magistratura nell’ultimo quarto di secolo abbia prodotto dei danni incalcolabili all’Italia, abbia preteso di sostituirsi alla politica e all’economia (e abbia annientato la politica e l’economia), di piegare al suo comando tutti i poteri democratici e di imporre l’idea secondo la quale in una società ordinata c’è un solo potere che controlla e guida tutti gli altri, e che questo potere si chiama magistratura. L’idea di un potere unico non è nuovissima. È l’idea fondamentale di tutte le concezioni autoritarie di sinistra e destra. Quali sono i principi esposti, con molta grinta, da Poniz? Primo: i magistrati non si fanno intimidire da nessuno. Secondo: la magistratura non ha bisogno di riforme, la magistratura si autoriforma, non ha bisogno che la sua crisi sia affrontata dalla società, la sua crisi se la autogoverna. Uno degli slogan di questo congresso è: “Crisi dell’autogoverno e autogoverno della crisi”. Cioè l’affermazione dell’autosufficienza e dell’insindacabilità della magistratura. Che poi sono alcuni degli elementi essenziali di una costruzione autoritaria. Terzo principio: tocca alla magistratura controllare il potere. Ma la magistratura non è un potere? Sì, un potere che ha l’incarico di controllare gli altri poteri per affermare il Diritto. Quale diritto? La magistratura - sottintende Poniz - è essa stessa il diritto. Non esiste diritto fuori della magistratura. Quarto principio, la magistratura ha il dovere di difendere se stessa e i suoi esponenti dagli attacchi esterni. Gli attacchi esterni non sono accettabili e non saranno mai accettati. Se i cittadini vogliono fare delle denunce contro la magistratura “possono fare le denunce che vogliono: faranno il loro corso”. Dicendo ciò Poniz spiega ai cittadini che sarà la magistratura stessa a decidere su di sé, e a stabilire la propria innocenza o la propria colpevolezza. C’è una vecchia e un po’ ermetica canzone di Fabrizio de André che a un certo punto dice così: Tu sei il potere. Vuoi essere giudicato? Vuoi essere assolto o condannato? Tra l’altro il congresso è stato dedicato proprio a de André. Con una scelta spericolata o forse, appunto, autocratica. De André è risaputamente l’artista italiano più lontano dalla magistratura. Per lui la magistratura, e anche la legge, erano il male. De André era anarchico ed era nemico della legalità e dei tribunali fino all’ossessione (ve la ricordate quella canzone geniale e un po’ volgare sul giudice boia violentato da uno scimpanzé?). Perché prenderlo a simbolo? Forse proprio per dare l’impressione dello strapotere: io posso creare e distruggere. Se dico che De André era amico dei magistrati, De André diventa amico dei magistrati. Perché lo dico io. Bisognerebbe commentare uno a uno questi principi riassunti da Poniz. Limitiamoci ad alcuni. Primo: in genere non sono gli imputati, che rischiano la galera, a intimidire i giudici che decidono la loro galera. Succede di norma il contrario. Accusare gli imputati di intimidazione, oltre a essere una intimidazione è la quintessenza dell’arroganza. Quasi imperiale. Solo gli imperatori possono permettersela, neanche i re. E poi c’è la questione dell’impunità. Cioè, dell’impunità dei magistrati. Ieri abbiamo posto il problema, oggi lo ripetiamo. Nell’inchiesta Open quasi sicuramente non c’è nessun reato a carico degli indiziati. Però certamente c’è un reato, ed è la fuga di notizie. L’elenco dei perquisiti (anzi, dei perquisendi) è stato dato ad alcuni giornali amici. È vietato dalla legge. Tutti gli indizi portano a dire che il colpevole è nella Procura di Firenze. Se c’è un reato - grave - e ci sono indizi gravi, perché non si apre un’indagine? (spetterebbe alla Procura di Genova, che ha competenze su Firenze). E poi, perché non interviene il Csm visto che sicuramente è stato violato il regolamento? E poi, ancora, perché il ministro non dispone un’indagine? Perché? Perché si vuole dare l’impressione di un assalto a tutto campo, condotto senza regole e che non lascia vie d’uscita. La magistratura e i giornali hanno circondato la politica, l’hanno avvertita che colpiranno duro e infischiandosene delle leggi, hanno dimostrato di avere una copertura assoluta (procure compatte, Csm piegato, Ministro ossequiente) e chiedono la resa della politica. Come abbiamo scritto in prima pagina: arrendetevi o vi spianiamo. Ci sarà qualcuno che non si arrende? C’è una possibilità di resistenza? Vedremo. P.S. In magistratura ci sono diverse migliaia di magistrati serissimi e che rispettano le leggi e lo stato di diritto. Per loro grande rispetto. Il rispetto per loro sarebbe ancora più grande se si ribellassero a quel migliaio di loro colleghi che oggi tengono in pugno la magistratura. E che spingono le persone serie a dire: nessun rispetto per la magistratura. Si ribelleranno, prima o poi? Campania. Carceri, solo 1 detenuto su 5 lavora di Ciriaco M. Viggiano Il Riformista, 30 novembre 2019 In Campania solo 1.710 detenuti su 7.872, meno del 22 per cento, sono impiegati in attività lavorative. E una quota ancora più esigua, pari a 133 persone e quindi inferiore al 2 per cento, presta servizio in imprese o in cooperative esterne agli istituti di pena nonostante gli sgravi fiscali e contributivi previsti per l’assunzione di chi è recluso. Con buona pace della Costituzione, secondo la quale le pene devono tendere alla rieducazione del condannato, e di quanti, dopo aver espiato la pena, intendano reinserirsi nel mercato del lavoro. Ecco il quadro che emerge dai dati raccolti dall’Osservatorio regionale per le persone private della libertà personale e diffusi stamane a Napoli, nel corso del convegno su carcere e lavoro organizzato dal Garante dei detenuti della Campania. Emblematico il caso di Poggioreale dove si contano 346 lavoranti, tutti alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, su una popolazione detenuta che supera le 2mila e 300 unità. Poco brillante anche la performance di Santa Maria Capua Vetere: 213 persone impiegate nel lavoro inframurario e dieci in quello extra-murario a fronte di 966 presenze. Tra gli istituti più virtuosi figurano quello di Sant’Angelo dei Lombardi, con i suoi 98 lavoranti su 176 presenze, e la casa circondariale di Lauro, dove risultano impiegate otto madri su 12. “L’attività lavorativa e la formazione professionale all’interno degli istituti di pena rappresentano le strategie attraverso le quali l’ordinamento intende dare attuazione al principio del finalismo rieducativo - ha sottolineato Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Campania - Su questo fronte resta ancora molto da fare”. Quali sono le strategie per favorire l’accesso dei detenuti al mercato del lavoro? “Stiamo operando - ha chiarito Antonio Fullone, provveditore campano dell’amministrazione penitenziaria - per far sì che il lavoro all’interno delle carceri sia riconosciuto e spendibile all’esterno”. Negli istituti di pena regionali, infatti, si svolgono corsi di formazione per cuoco, barman, pizzaiolo, meccanico, fruttivendolo, parrucchiere, massaggiatore, operatore del servizio ai piani e altre figure professionali. Senza dimenticare la convenzione con l’ateneo Federico II che ha già consentito a 79 detenuti di iscriversi a corsi universitari. Per Vittorio Ciotola, presidente del Gruppo Giovani Imprenditori dell’Unione Industriali, non basta: “Ben venga la certificazione delle competenze professionali, a patto che i detenuti vengano formati non solo per svolgere lavori tradizionali ma anche per affrontare le sfide della tecnologia”. Piemonte. Nominati i nuovi Garanti dei detenuti a Vercelli e Saluzzo lettera21.org, 30 novembre 2019 Comunicato Stampa dell’Ufficio Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Piemonte, in merito alle nomine di Manuela Leporati e Paolo Allemano. Vercelli e Saluzzo hanno i nuovi Garanti delle persone private della libertà. Le due città, entrambe sedi di carcere, erano in attesa della nomina delle nuove autorità di garanzia, al seguito del rinnovo amministrativo di primavera scorsa: l’11 novembre il Consiglio comunale di Vercelli ha nominato Manuela Leporati (funzionaria della Prefettura); il 27 novembre è stata la volta di Saluzzo, la cui assemblea comunale ha designato Paolo Allemano (medico, già sindaco e consigliere regionale). Fossano invece è ancora in attesa che sia attivata la procedura prevista con la pubblicazione di avviso pubblico per la presentazione delle candidature: il sindaco e il vicesindaco hanno assicurato l’avvio imminente della procedura. Verbania invece dovrebbe procedere con una conferma dell’attuale Garante in attesa di future decisioni. Il Garante regionale Bruno Mellano annuncia con soddisfazione i nomi dei nuovi Garanti: “Sono nomine che vanno a ricostituire la rete regionale dei garanti costruita negli anni scorsi con non poca fatica e che ha reso il Piemonte l’unica regione ad avere un garante per ogni città sede di carcere. Un sincero ringraziamento va a chi, in queste città, ha svolto con passione il ruolo di garante comunale che, è bene ricordarlo, è su base volontaria: Roswitha Flaibani a Vercelli, Bruna Chiotti a Saluzzo e Rosanna Degiovanni a Fossano. Faccio ai due nuovi garanti i migliori auguri per il loro incarico assicurando loro la massima collaborazione nell’ambito del Coordinamento regionale dei Garanti comunali, attivo in Piemonte già da alcuni anni. Confido che - a breve - Fossano possa completare il quadro dell’eccellenza piemontese”. Vale qui la pena di riassumere le tessere che compongono il mosaico piemontese: Alba (Alessandro Prandi), Alessandria (Marco Revelli), Asti (Paola Ferlauto), Biella (Sonia Caronni), Cuneo (Mario Tretola), Ivrea (Paola Perinetto), Novara (Don Dino Campiotti), Saluzzo (Paolo Allemano), Torino (Monica Cristina Gallo), Verbania (Silvia Magistrini) e Vercelli (Manuela Leporati). I Garanti comunali, oltre alla quotidiana interlocuzione con l’istituto penitenziario della propria città, sono collegialmente impegnati in attività di sistema a valenza regionale, come ad esempio gli Sportelli Lavoro per i detenuti, i progetti finanziati dalla Cassa delle Ammende e i Tavoli Territoriali Carcere. Ultimamente si sono spesi in particolar modo per l’implementazione locale del Protocollo di prevenzione dei suicidi, in collaborazione con le Direzioni d’Istituto. Infine Mellano ha dichiarato: “A breve si dovrà mettere mano al protocollo sottoscritto nel 2016 fra i Garanti ed il Provveditorato dell’Amministrazione penitenziaria di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta: personalmente spero di poter essere protagonista di questa ulteriore pagina che si deve scrivere in una fase molto delicata della comunità penitenziaria, sia per il montante sovraffollamento sia per il perdurante problema di risorse umane e materiali che caratterizza in modo particolare gli istituti penitenziari del nord Italia e del Piemonte in specifico: mancano direttori, educatori, mediatori, interpreti, psicologi, comandanti e commissari della polizia penitenziaria e, ovviamente, in molte sedi anche gli agenti”. Firenze. Quinta edizione della “Giornata dei braccialetti” tvsette.net, 30 novembre 2019 Nella giornata di oggi, 30 novembre, si svolgerà, presso l’Istituto Penitenziario di Sollicciano (Firenze), la quinta edizione della “Giornata dei braccialetti”, manifestazione di protesta contro la mancata applicazione degli artt. 275 bis c.p.p. e 58 quinquies Ordinamento Penitenziario, organizzata dalla Camera Penale di Firenze. Come noto, la situazione di assoluta carenza di braccialetti elettronici rende ancor più critica la condizione carceraria italiana, cronicamente caratterizzata dal sovraffollamento delle celle e dall’abuso della custodia cautelare. La Camera Penale di Benevento aderisce e plaude all’iniziativa dei Colleghi fiorentini, sottolineando come -ancor più negli uffici giudiziari del Sud- la richiesta di utilizzo di braccialetti elettronici per i detenuti agli arresti domiciliari abbia ormai superato, da tempo, la disponibilità dei dispositivi. Per tale ragione, pur potendo usufruire della misura, alcuni detenuti restano in carcere. Tali problematiche fanno sì che l’Italia risulti costantemente oggetto di sollecitazioni e richiami da parte dell’Unione Europea e di Organismi internazionali. Il nostro è tra i Paesi in Europa che maggiormente ricorrono al carcere prima della sentenza definitiva, soprattutto quando gli imputati sono stranieri. Resta alta la percentuale di custodie cautelari per la mancata disponibilità di dispositivi, in casi in cui il giudice potrebbe concedere di fatto una misura meno afflittiva della custodia inframuraria. Così accade che almeno in due casi su tre dei suicidi dietro le sbarre - cfr. 15° Rapporto dell’associazione Antigone sulle condizioni di detenzione in Italia -, il detenuto è privo di una condanna definitiva, ovvero presunto innocente - in carcere ci si suicida oltre 18 volte di più che fra la popolazione libera! Ad oggi rimane decisamente molto elevato il numero di detenuti senza sentenza definitiva in custodia cautelare, nonostante gli interventi legislativi che in questi ultimi anni hanno limitato le ipotesi di ricorso alla custodia cautelare inframuraria. Come si legge dal citato rapporto Antigone, e si ricava altresì dalla Sezione Statistica del Dap, la stragrande maggioranza degli ingressi negli istituti di pena riguarda persone in custodia cautelare, rimanendo sporadico l’ingresso in carcere in esecuzione di una sentenza per soggetti in stato di libertà. La lunga “via crucis” che ormai da anni riguarda l’utilizzo dei braccialetti elettronici ex artt. 275 bis c.p.p. (e 58 quinquies O.P. in fase di espiazione pena) coinvolge le stesse procedure di bando e collaudo. I braccialetti sono insufficienti nonostante sia stato effettuato ed aggiudicato il bando per la nuova fornitura, che secondo quanto annunciato aveva ad oggetto 12.000 dispositivi. Il servizio doveva partire nell’ottobre 2018, ma ciò non è accaduto a causa del ritardo da parte del Ministero dell’Interno della nomina della commissione di collaudo. Resta il grave vulnus dal momento che la descritta vicenda special-preventiva incide direttamente sulla libertà personale di soggetti in attesa di giudizio, presunti innocenti, i quali sono costretti ad “espiare” la pena in via anticipata, in regime di custodia inframuraria, pur potendo legittimamente godere del diverso e meno gravoso regime consentito ex art. 275 bis c.p.p. Allo stesso modo, risulta non fruibile il regime di esecuzione della pena definitiva secondo le forme previste dall’art. 58 quinquies O. P. (che rimanda per l’applicazione all’art. 275 bis cit.). Il quadro prospettato, in estrema sintesi, è indicativo di una situazione sperequativa di fatto quasi insuperabile, a meno di interventi immediati del Governo, che allo stato - anche per evidenti orientamenti di bieco “populismo giudiziario” - non appaiono concretamente prevedibili, almeno a breve termine. La Camera Penale di Benevento Il Presidente, Avv. Domenico Russo Napoli. “Ha avvelenato le bimbe, in galera”, ma era innocente di Valentina Ascione Il Riformista, 30 novembre 2019 “Umiliati e offesi”. Come il titolo del romanzo di Dostoevskij. Così l’avvocato Domenico Pennacchio descrive il calvario di Marina, sua assistita, mamma di 32 anni di Napoli che ha trascorso in carcere 2 anni e 10 mesi con l’accusa di aver tentato di uccidere le sue due figlie di 3 mesi e 3 anni imbottendole di medicinali: barbiturici, calmanti, sciroppi a base di ammonio, benzodiazepine. Accusa da cui Marina è stata assolta con formula piena prima dal Tribunale di Roma, il 15 luglio scorso, e poi dal Tribunale di Napoli una settimana fa. Nessun tentato omicidio. La donna è innocente. I valori di alcune sostanze nel sangue delle bimbe erano altissimi non perché Marina le stesse avvelenando, ma perché l’organismo delle piccole non era in grado di metabolizzare velocemente quei principi attivi, che così ristagnavano negli organi per molto tempo, come se fossero state avvelenate, scrive il Corriere della Sera che per primo ha raccontato la vicenda. La conseguenza, molto probabilmente, di una patologia genetica che nessuno dei sanitari delle due strutture ospedaliere che avevano avuto in cura le bambine, il Santobono di Napoli e il Bambin Gesù di Roma, avevano preso in considerazione. E che è emersa grazie a un genetista nominato dalla difesa. Ora Marina è libera e aspetta di poter riabbracciare le sue bambine che al momento si trovano in una struttura protetta. Il suo dolore, però, nessuno potrà cancellarlo, dice la donna che ha gridato invano la propria innocenza per ben 34 mesi, dietro le sbarre della sua cella. Prima a Pozzuoli, dove ha rischiato anche il linciaggio da parte delle altre detenute, perché la legge non scritta del carcere non perdona chi commette delitti contro i bambini. E quindi a Benevento dove è stata trasferita. Una lunga reclusione che le ha anche impedito di allattare e veder crescere la terza delle sue figlie, nata solo due mesi prima dell’ingresso in carcere della donna il 16 gennaio del 2017. “Ci sono voluti tre lunghi anni e due lunghi dibattimenti per far emergere la verità”, afferma l’avvocato Pennacchio. “Una verità che sarebbe potuta venire a galla molto prima se coloro che hanno avuto la possibilità di decidere sulla questione avessero avuto la libertà mentale di farlo senza pregiudizi. Invece pubblici ministeri, consulenti dell’accusa, magistrati del Tribunale dei minorenni che si sono approcciati a questa vicenda, si sono lasciati suggestionare dal fatto che queste due sorelline avessero avuto qualcosa di lontanamente analogo, ma non hanno mai voluto approfondire i fatti. Il sillogismo è stato: la stessa mamma, due sorelline con la stessa patologia, quindi è stata la mamma. Non c’è stato lo sforzo di approfondire quali fossero i sintomi delle due bambine, che tipo di sostanze fossero state riscontrate nelle urine dell’una e nel sangue dell’altra”, accusa l’avvocato Pennacchio. “Per fortuna abbiamo trovato dei magistrati, sia a Roma che a Napoli, che non hanno avuto pregiudizi. Il tribunale di Roma ha pronunciato una sentenza di assoluzione nonostante i periti nominati dallo stesso tribunale avessero ritenuto responsabile la madre. Il tribunale, quindi, non ha recepito acriticamente la ricostruzione dei propri periti, ma ha ritenuto più credibile e condivisibile la tesi prospettata della difesa, anche grazie ai propri consulenti tecnici, perché era la sola che teneva conto di tutto quanto emerso dalle cartelle cliniche sia del Santobono di Napoli, che del Bambin Gesù di Roma”, spiega il legale. Le procure di Roma e di Napoli avevano chiesto rispettivamente per Marina 12 e 14 anni per il tentato omicidio delle due sorelline commesso, secondo l’accusa, a novembre del 2015 e del 2016. La prima delle bambine, Vittoria, di 3 mesi - scrive il Corriere ripercorrendo la vicenda - arriva al pronto soccorso dell’ospedale napoletano a novembre del 2015 con vomito, diarrea, cianosi, irrigidimento del corpo. Per alcuni medici si tratta di una forma di epilessia, per altri di emiplegia alternante. Alla piccola viene somministrato prima uno sciroppo a base di barbiturici, poi un altro medicinale a base sedativa, Dosi massicce che non portano a nulla e Vittoria entra in coma con nello stomaco un mix di principi attivi dei farmaci che aveva assunto. Dopo un mese, nonostante la terapia fosse stata sospesa, nel corpo della piccola ci sono ancora tracce di sedativi e ammonio. I medici si convincono che sia stata all’avvelenata e la madre Marina viene segnalata al Tribunale dei minorenni. Ma la storia non finisce qui. A novembre dell’anno successivo l’altra figlia Asia, di 3 anni, viene trasferita dal Santobono al Bambino Gesù di Roma a causa di una violenta crisi respiratoria. Nel passaggio da un ospedale all’altro non viene però trasferita la cartella clinica. Viene trasmessa soltanto una nota di accompagnamento dove non sono riportati i farmaci con cui la bambina è stata trattata a Napoli. L’analisi delle urine rileva la presenza di benzodiazepine, per i medici non ci sono altre spiegazioni e anche stavolta sotto accusa finisce la mamma. Ma l’avvocato Domenico Pennacchio con i suoi consulenti ha dimostrato che quelle tracce di sedativi altro non erano che il principio attivo del medicinale usato in rianimazione a Napoli, il principio attivo che, proprio a causa della probabile mutazione metabolica e genetica, il corpo della bimba non era riuscito ad espellere. Secondo i pubblici ministeri Marina sarebbe stata affetta della sindrome di Polle: un disturbo mentale che spinge un genitore a infliggere un danno fisico ai figli per farli ritenere malati e attirare invece l’attenzione su di sé. Ma la difesa riesce a smontare al tesi del consulente dei pm e due successive perizie psichiatriche dimostrano come la donna non si affetta da alcun disturbo della volontà, ma sia assolutamente capace di intendere e di volere. E ora la sola che Marina vuole è riabbracciare le sue bambine. Prato. Nel carcere della Dogaia apre una azienda di confezioni tvprato.it, 30 novembre 2019 Il progetto della Caritas diocesana per i detenuti a fine pena. Nel carcere della Dogaia verrà aperta una azienda di confezioni dove saranno impiegati detenuti verso il fine pena e per questo bisognosi di una opportunità seria e concreta di lavoro in vista di un futuro reinserimento nella società. Il progetto non poteva che nascere a Prato, città del tessile e realtà da sempre attenta a sostenere le persone con fragilità sociali attraverso l’azione della Caritas diocesana. E proprio quest’ultima, tramite il braccio operativo Fondazione Solidarietà Caritas onlus, ha coordinato il progetto presentato questo pomeriggio in Palazzo vescovile alla presenza del vescovo di Prato monsignor Giovanni Nerbini e degli altri soggetti promotori. Come funziona. Nell’area semiliberi del carcere maschile della Dogaia verrà aperto un reparto di lavoro per la confezione di sotto-fodere per materassi. Si tratta di una produzione resa possibile grazie alla Pointex, azienda specializzata nel settore, che farà da committente delle lavorazioni, e dalla cooperativa sociale San Martino della Caritas diocesana di Firenze, organizzazione che vanta una lunga esperienza di lavoro con i detenuti nella casa circondariale fiorentina Mario Gozzini, dove ha aperto un servizio di lavanderia. Nel progetto Confezione, questo il nome dell’iniziativa, saranno impiegati prima con un tirocinio e poi con un regolare contratto cinque detenuti in regime di semilibertà o che possono usufruire delle possibilità offerte dall’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario che permette loro di poter essere assegnati a un lavoro, anche esterno, o a corsi di formazione professionale. I turni sono di otto ore per cinque giorni la settimana. Il team sarà coordinato da un capo reparto, una persona esterna, dunque non un detenuto, appositamente formato al ruolo dalla Pointex, che fornirà in comodato d’uso gratuito le macchine da cucire e le altre attrezzature necessarie allo svolgimento della produzione. Il progetto è frutto di un accordo di rete sottoscritto lo scorso 15 ottobre. Il primo passo è l’allestimento del luogo di lavoro all’interno del carcere della Dogaia, che sarà pronto entro la fine di dicembre, poi, dopo l’adeguata formazione del capo reparto, a gennaio 2020 l’azienda entrerà in funzione e potrà così iniziare a rispondere alle commesse richieste dalla Pointex. Hanno detto. “Se il problema della mancanza di un lavoro è diventato drammatico per chi lo ha perso lo è ancora di più per i carcerati - ha osservato monsignor Giovanni Nerbini - e sappiamo benissimo che chi non ha avuto opportunità di lavoro e formazione durante la detenzione è a rischio recidiva. Per questo motivo progetti come quello che presentiamo sono importanti: è bello vedere più soggetti che si mettono insieme e che con coraggio decidono di fare una scommessa del genere”. Il direttore della casa circondariale della Dogaia Vincenzo Tedeschi ha detto di aver accolto la proposta con entusiasmo, “non è facile per noi proporre esperienze di lavoro significative che vadano oltre l’assistenzialismo, dare una chance ai detenuti è fondamentale per evitare che una volta usciti tornino a delinquere”. Marco Ranaldo, titolare dell’azienda Pointex, parla di “scelta voluta e ponderata, perché crediamo che il lavoro sia una delle poche strade in cui un uomo si realizza. Ma oltre l’aspetto solidale - sottolinea - per noi c’è l’aspetto imprenditoriale, questo settore della nostra produzione è in crescita e dovremo essere tutti in grado di ottenere risultati capaci di reggere il mercato. Solo così potremo andare avanti e vincere la sfida”. Ne è convinto Francesco Grazi, presidente dalla Cooperativa San Martino, ente che materialmente gestirà il lavoro e assumerà i detenuti: “il contesto del carcere è difficile e lo sappiamo bene grazie alla nostra ventennale esperienza nell’istituto Gozzini di Firenze dove abbiamo una lavanderia, che riesce a lavorare perché è competitiva con le concorrenti sul mercato”. Il progetto Confezione può contare sull’appoggio e il sostegno delle istituzioni: il Comune di Prato e la Regione Toscana, che tramite la Società della Salute ha dato un contributo alla realizzazione dell’iniziativa. “Questa non è una opera utile solo per chi “sta dentro” - ha affermato l’assessore regionale al welfare Stefania Saccardi - perché dare una opportunità concreta di reinserimento sociale significa diminuire i rischi di nuovi danni alla comunità. Ma per fare tutto questo c’è bisogno di aziende coraggiose e realtà come la Caritas e la Cooperativa San Martino che da tempo collaborano in modo proficuo con le istituzioni”. Un plauso all’iniziativa è arrivato anche dal sindaco Matteo Biffoni e dall’assessore comunale ai servizi sociali Luigi Biancalani. Non assistenzialismo ma una vera attività imprenditoriale. Questo è il vero obiettivo del progetto sottoscritto dalla direzione del carcere e dai soggetti coinvolti nella confezione: si potrà dunque andare avanti soltanto se verrà prodotta una quantità minima, e di qualità, di lavorati, che possa garantire il pagamento degli stipendi. Solo così, attraverso un impiego vero e proprio, scandito da regole e condizioni lavorative reali, è possibile acquisire le competenze utili per potersi reinserire un domani nel mondo del lavoro. Si tratta dunque di una scommessa che Caritas di Prato e Firenze, Pointex, Società della Salute, Regione Toscana e la Casa circondariale della Dogaia hanno scelto di compiere tutti insieme per attuare quanto previsto dall’articolo 27 della Costituzione: le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato”. L’impegno di Caritas Prato per i detenuti. Questa iniziativa si inserisce in un progetto più ampio chiamato “Non solo carcere” pensato con lo scopo di favorire il reinserimento sociale dei detenuti e sensibilizzare la cittadinanza alle questioni del mondo carcerario. Grazie alla collaborazione di Cna e Confartigianato nel 2017 sono stati attivati degli inserimenti lavorativi di persone carcerate in semilibertà o in articolo 21 in alcune aziende artigiane del territorio pratese attive nel campo dell’edilizia, della ristorazione e cooperative sociali. “Da sottolineare che tutte queste esperienze hanno avuto successo e nessun detenuto ha fallito l’opportunità concessa - afferma il vice direttore della Caritas diocesana di Prato Rodolfo Giusti - e il merito va alle aziende che hanno accolto e a chi ha selezionato le persone carcerate abbinandole ad una certa tipologia di lavoro”. La conferma viene dai numeri: su otto tirocini formativi ben cinque si sono trasformati in assunzioni a tempo determinato e una a tempo indeterminato. Cagliari. Casa di accoglienza della Caritas per detenuti in permesso sardegnareporter.it, 30 novembre 2019 Sabato 30 novembre 2019, alle ore 10, a Cagliari (in via Dante n. 60) sarà inaugurata la casa di accoglienza “Leila Orrù - De Martini” per detenuti in permesso, su iniziativa della Diocesi di Cagliari, attraverso la Caritas diocesana. L’opera-segno della Caritas è stata realizzata per rispondere a una necessità rilevata dalla direzione, dall’area sicurezza e dell’area trattamentale del carcere di Uta, dal Uiepe (Ufficio inter-distrettuale esecuzione penale esterna), dal Tribunale e giudice di sorveglianza; essa sarà un luogo di accoglienza dei detenuti in permesso, che, durante i periodi da trascorrere fuori dal carcere, non hanno altro posto dove andare e che, nella struttura, potranno incontrare i propri familiari. L’accoglienza sarà garantita in collaborazione con il cappellano del carcere, padre Gabriele Iiriti. Saranno presenti domani all’inaugurazione, i rappresentanti delle istituzioni carcerarie, l’arcivescovo di Cagliari mons. Arrigo Miglio, il direttore della Caritas diocesana don Marco Lai, il cappellano del carcere di Uta padre Gabriele Iiriti. Cagliari. Sdr: 27 detenute nella Casa circondariale, realtà in sofferenza Ristretti Orizzonti, 30 novembre 2019 “Secondo i dati più recenti dell’Amministrazione Penitenziaria nelle strutture detentive dell’isola sono recluse 40 donne: 27 a Cagliari e 13 a Sassari. Dopo l’apertura delle nuove quattro carceri (Cagliari-Uta; Sassari-Bancali; Tempio-Nuchis e Oristano-Massama) il Dipartimento ha ritenuto di alleggerire la Casa Circondariale di Nuoro e la Casa di Reclusione di Oristano delle sezioni femminili e concentrarle a Cagliari e Sassari. Una decisione vissuta dalle detenute, con malcontento avendo subito un trasferimento non richiesto e non programmato”. Lo ha detto Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, intervenendo all’incontro-dibattito “Contrasto alla violenza sulle donne e loro condizione nel contesto carcerario”, promosso dalla Fidapa di Sestu nell’ambito delle iniziative dedicate alla Giornata Internazionale contro la violenza di genere. “Le 27 detenute nella Casa Circondariale di Cagliari-Uta hanno un’età che va dai 27 ai 68 anni; 6 di loro contano tra i 41 e i 45 anni; 7 tra i 27 e i 35 anni; 6 intorno ai 50 anni. Donne cioè relativamente giovani. Una ventina - ha precisato Caligaris - sono italiane (di cui 5 sono originarie della Penisola) le altre invece native della Nigeria, Colombia, Ungheria, Serbia. I dati sono ovviamente quotidianamente suscettibili di modifiche per le liberazioni e/o i trasferimenti. Le pene sono principalmente legate allo spaccio della droga o al mondo della prostituzione. Restano in carcere per poco tempo rispetto ai detenuti della sezione maschile. Si tratta quindi di persone che potrebbero scontare la pena in strutture alternative, non potendo usufruire della detenzione domiciliare o perché non hanno una dimora adeguata oppure perché essendo straniere non hanno parenti che possano ospitarle”. “Molto difficile per le donne accettare la privazione della libertà. Spesso sono vittime incapaci di opporsi a lusinghe e/o a ricatti affettivi. Sono fragili e hanno una visione di sé particolarmente negativa con sensi di colpa verso i figli, il marito, la famiglia. Ci sono detenute con gravi problemi psichici che avrebbero necessità di vivere in un ambiente meno afflittivo. In Sardegna le Comunità di Recupero per persone con problemi psichici e in doppia diagnosi non sono sufficienti e a seconda dei casi sono del tutto assenti. Altre potrebbero cambiare il loro futuro se potessero diventare autonome economicamente e prendere coscienza delle proprie capacità lavorando o apprendendo un mestiere con un corso di formazione oppure accedendo alla istruzione di secondo grado e/o universitaria. Nessuna delle detenute è iscritta alle scuole superiori e/o all’Università. Alcune invece frequentano le lezioni del corso di scuola media di primo grado. Il livello culturale è quindi medio basso”. “Nella Casa Circondariale di Cagliari - è stato evidenziato - l’accesso al lavoro è molto limitato. Le più fortunate sono assegnate alla cucina e/o alla piccola biblioteca. Qualcuna cuce, rattoppa e stira le lenzuola. Altre si occupano delle pulizie della sezione. Come si può comprendere si tratta di lavori di scarsa valenza formativa e sociale. I problemi più gravi riguardano il sistema delle relazioni interne ed esterne. Non riescono a liberarsi del pensiero della famiglia alimentando così il proprio disagio con un autolesionismo spesso poco evidente ma molto profondo e doloroso. Vorrei infine ricordare - ha concluso - che l’esperienza detentiva coinvolge profondamente le operatrici. Le funzionarie giuridico pedagogiche e le Agenti della Polizia Penitenziaria donne che quotidianamente condividono questa realtà. A loro va un particolare ringraziamento”. Coordinato da Maristella Casula, presidente della Fidapa di Sestu, il dibattito è stato animato, tra gli altri, dal Direttore della Casa Circondariale di Cagliari Marco Porcu, Annalise Martis, dell’Ufficio interdistrettuale Esecuzione Penale Esterna, Susanna Murru, presidente Cpim, Elena Calorio, psicologa Donna Ceteris e Monica Tascedda, avvocata. Hanno portato il saluto la Sindaca Paola Secci, la vice Prefetta Vicaria di Cagliari Paola Dessì e Susi Ronchi coordinatrice di Giulia Giornaliste. Ha concluso i lavori, dopo le testimonianze del cappellano Padre Gabriele Iiriti e della volontaria Mariella Cuccuru, Maria Tina Maresu, presidente Fidapa Distretto Sardegna. Livorno. Letteratura in carcere, assegnato il Premio Casalini met.provincia.fi.it, 30 novembre 2019 “La scrittura antidoto alla solitudine”, così l’assessora all’istruzione e al lavoro Cristina Grieco commentando la premiazione dei vincitori del premio Emanuele Casalini. “Questo novembre sottolinea più forte che mai quanto la Toscana sia la regione dei diritti e della civiltà. Mi piace ricordarlo all’indomani del premio letterario Emanuele Casalini, riservato ai detenuti delle carceri italiane che ha appena compiuto diciott’anni festeggiati alle Sughere di Livorno con i vincitori del premio che ho avuto l’onore di conoscere. Mi piace ricordarlo alla vigilia della Festa della Toscana, che domani celebra 20 anni dalla sia istituzione e che ogni volta mette in luce il valore dell’impegno per la promozione dei diritti umani, della pace e della giustizia come elemento costitutivo dell’identità della nostra regione”. Così l’assessora all’istruzione e al lavoro Cristina Grieco commentando la premiazione dei vincitori del premio Emanuele Casalini, che quest’anno ha visto classificarsi al primo posto Ghassen Hammami, recluso proprio nella Casa Circondariale di via delle Macchie, che ha vinto con la poesia “La felicità”, quindici fulminanti versi di geniale semplicità che sintetizzano la condizione carceraria e i rimpianti che comporta. Secondo classificato Francesco Veneziano, con “Non potete fermare il vento”, arrivato a Livorno dal carcere di Milano, dopo aver ottenuto un permesso per l’occasione. Nella sezione della prosa, giunto dal carcere di Massa, è stato premiato Luciano Sacchi per il racconto “La vita in fiamme”: nel suo intervento appassionato e commosso, ha dovuto ammettere che solo l’esperienza dolorosa della detenzione gli ha fatto scoprire doti inaspettate che non avrebbe mai coltivato da libero, come quella di attore teatrale (ha interpretato Prospero nella “Tempesta” di Shakespeare allestita in prigione) e, con questo riconoscimento, di scrittore. Li ha premiati Ernesto Ferrero, scrittore, critico letterario e per vent’anni direttore del Salone del Libro di Torino, in qualità di presidente della giuria, durante la cerimonia svoltasi di fronte al pubblico dei detenuti, alla presenza del direttore del carcere Carlo Mazzerbo e di ospiti tra i quali, oltre all’assessora Grieco, il garante dei detenuti Eros Cruccolini, il rappresentante dell’Unitre Davide Casalini e il dirigente scolastico dell’Istituto Vespucci Maria Teresa Corea, il vescovo Simone Giusti, il prefetto Gianfranco Tomao. “La letteratura, la scrittura, sono stimoli fondamentali per la riflessione e possono essere un efficace antidoto alla solitudine e alla difficile condizione della vita in carcere - ha detto Grieco - Per questo l’intuizione di Emanuele Casalini è stata lungimirante. L’occasione del Premio, come ha ricordato il presidente Rossi nelle sue riflessioni sul Premio, costituisce un invito a trovare la volontà e il coraggio necessari per mettere su carta i propri pensieri, generando con questo gesto l’occasione per iniziare un cammino di “auto-terapia” e di reinserimento. La Toscana a questo tiene molto. É anche per questo che abbiamo voluto creare un Polo universitario penitenziario regionale in collaborazione con le Università toscane e che, da molti anni, sosteniamo progetti importanti come la promozione del teatro in carcere. “L’istruzione e la formazione - ha proseguito - sono strumenti di riscatto individuale e di integrazione sociale attiva, in grado di accompagnare e sostenere i percorsi di emancipazione: per questo finanziamo i progetti di formazione collettiva e individuale delle persone in stato di detenzione e la certificazione delle loro competenze, affinché siano effettivamente spendibili nel mercato del lavoro. A questo scopo il sistema regionale di Web-Learning Trio - che costituisce un modello di formazione su misura, direttamente fruibile da casa - è stato offerto, fin dagli esordi, anche nelle carceri toscane”. “Ringraziamo - ha concluso l’assessora Grieco - gli organizzatori del Premio Casalini per l’impegno nel portare avanti un progetto di altissimo valore che ci rende orgogliosi di vivere in Toscana, una regione capace, storicamente, di esprimersi a favore della dignità dell’uomo, la chiave di volta per alimentare e far crescere la civiltà e la democrazia”. Milano. “Ma l’Amore cos’è?”, dibattito sulla violenza nel carcere di Bollate di Emanuela Cimmino* Ristretti Orizzonti, 30 novembre 2019 È stato un dibattito costruttivo e significativo quello della violenza contro le Donne realizzato in due giornate nel carcere di Bollate, il 26 ed il 27 Novembre 2019. Un momento per riflettere sulle cause, per fare prevenzione, ma soprattutto per parlare di cosa è violenza e di cosa non lo è e dunque cos’è l’Amore e cosa non è Amore. Protagonisti di un dibattito dinamico ed interattivo gli alunni detenuti della scuola superiore ad indirizzo alberghiero e gli alunni detenuti della scuola media alla quale già l’anno scorso fu proposto uno spazio di discussione rispetto al tema della violenza dal titolo Fiabe spezzate. Ideatrice e moderatrice del dibattito, il Funzionario Giuridico Pedagogico dott.ssa Cimmino. Ma l’Amore cosa è ha previsto la proiezione di cortometraggi che hanno visto come protagoniste donne con i loro monologhi e scene di violenza nella forma di quella psicologica e con essa tutte le sfaccettature, la privazione della libertà, il non avere più una identità personale, il non avere più una vita, la paura. E solo quando la ragazza del primo corto, nei panni di una donna abusata, violata nella sua voglia di vivere, costretta a mentire alle amiche, solo dopo essersi resa conto che i lividi sul volto non sono frutto dell’Amore che tanto pensava di ostentare a quelle stesse amiche alle quali raccontava sempre una versione diversa, usa l’affermazione “ho paura”, ed ancora “ho paura”, l’attenzione si è spostata di riflesso sulla consapevolezza. L’importanza della consapevolezza, di saper scindere l’Amore cosa è da cosa non è Amore. Mi chiamo Valentina e credo nell’Amore, è così che apre il bellissimo monologo sulla violenza, Paola Cortellesi e che ha rappresentato per gli alunni detenuti, la storia di tante Valentina; donne che credono nell’Amore, donne che rinunciano a molto, donne che perdonano gesti, “È solo nervoso”, “È stanco”, “È geloso, e se è geloso, significa che mi ama”, “La colpa è mia”. E poi, quando lui torna un giorno, più aggressivo che mai, tormentato da una infrenabile gelosia, non la trova, Valentina ha vinto, Valentina è scappata, Valentina ha denunciato, Valentina ha trovato una via di fuga, una via d’uscita. “ La colpa non è mia, la colpa non è mia”. “Mi chiamo Valentina e voglio ancora credere nell’Amore” Uno spazio quello di Ma l’Amore cosa è all’interno del quale si è parlato di fiabe e come ci sono sempre state raccontate, di Principesse e Principi azzurri, di stereotipie, di pari opportunità, di genere, di diritti. Uno spazio che ha concesso agli alunni ristretti di discutere attraverso piccoli focus of group scrivendo su bigliettini cosa è per loro Amore su un lato e cosa non è Amore sull’altro. L’Amore è rispetto, è fiducia, è complicità, è bene, è lasciare l’altro/a libero/a, è tenerezza, è condivisione. Non è Amore, violenza, tradimento, possessione, odio, aggressione, cattiveria. Tra le cause, alla base della violenza, prevale la debolezza, la piccolezza dell’uomo, il non avere carattere, l’impulsività. Per alcuni, condizioni di dipendenza da sostanze, che potrebbe incidere, ma non è la sola causa, o la causa. Quello di Ma l’Amore cosa è, un’occasione per fare luce però anche sulla violenza al contrario e quindi una visione tutta al maschile con opinioni decisamente discutibili. La lettura del mito Il Filo di Arianna con i suoi Teseo, Minosse, Minotauro ed il labirinto, ha dato il La perché gli alunni lavorassero alla rappresentazione ora grafica ora attraverso una sola parola una via d’uscita. Occasione per immaginare ad un piano di fuga metaforica, quella della porta in fondo al corridoio, senza sbarre ovviamente; ma rimanendo sul tema, le vie d’uscita sono state rappresentate con la Conoscenza, si ha la necessità di conoscere la violenza e su cosa fare per fronteggiarla; l’Affetto perché si ha bisogno di piccoli gesti, di quelli belli come la carezza, come la sensazione di sentirsi protetti; la Legalità intesa come Giustizia, una giusta Giustizia. Parole scritte a pro di slogan. Ed ancora un cuore, un fiore, una corda aperta slegata, le vie d’uscita dal labirinto della Violenza, quelle rappresentante in occasione del dibattito sulla Violenza Ma L’Amore cosa è, nel carcere di Bollate. *Funzionario Giuridico Pedagogico C.R Milano Bollate Milano. “Una vita normale, ma non tanto di Giada Ferraglioni open.online, 30 novembre 2019 Le poesie lette dai detenuti nel carcere di San Vittore. Volontari, educatori e detenuti si incontrano nei corridoi di San Vittore per leggere poesie. Una testimonianza su come sopravvivere al carcere, nonostante il carcere. “Non vorrei mai essere venuto qui, in Italia. Dove uno straniero rimane tale per sempre. Non vorrei aver conosciuto l’eroina. Non vorrei aver lasciato mio padre da solo. Non vorrei aver creduto in lei, che ho sposato. Non vorrei essere rimasto a Milano” Quando il ragazzo con i ricci neri inizia a leggere questi versi, è difficile pensare che non siano i suoi. Le parole di Bruno Brancher gli escono naturali, senza che debba cambiare sguardo o espressione per renderle credibili. E anche quando Elena, una donna con i capelli raccolti in uno chignon alto e stretto, finisce di recitare una poesia di Alda Merini, nessuno pensa che ci sia bisogno di aggiungere altro. È questa l’atmosfera che si respira nella casa di reclusione di San Vittore, nel pieno centro di Milano, durante il reading “Voci dentro e fuori dal carcere”, organizzato dalle Biblioteche in Rete in occasione dell’inaugurazione della biblioteca nel carcere dedicata a Brancher: una figura ambigua della letteratura, per nulla immacolata, che ha passato la vita a entrare e uscire da riformatori e galere. Spiombatore, armiere, ladro. A 57 anni tornò a San Vittore per aver tentato di uccidere la compagna, che lo aveva lasciato dopo essersi innamorata di un’altra donna. A leggere i suoi testi e i suoi versi non poteva essere certo il primo che passava. Bisognava che li leggesse chi non aveva bisogno di tirar fuori del pulito o del buono dalle sue pagine, ma che le interpretasse per quello che erano: la testimonianza di una storia vera, nel bene o nel male. C’era bisogno di chi, come Brancher, nella scrittura e nella lettura non cercasse assoluzioni né redenzioni, ma nuove domande da porsi e diverse prospettive per continuare a stare al (e nel) mondo. Storie vere come le vite di chi San Vittore lo abita oggi, oggi che è una casa circondariale - dove, cioè, sono detenute persone in attesa di giudizio e quelle condannate a pene inferiori ai cinque anni. L’evento, organizzato nella cornice di Book City, è uno sguardo rubato a ciò che succede in quello che altro non è se non un quartiere della città. “Un pezzo della città, al centro della città”, come lo ha definito il direttore Giacinto Siciliano. “Dove ci sono persone che provengono da ogni parte, e che da qui poi torneranno fuori”. Mai più carcere cimitero dei vivi - “Le carceri italiane, cimitero dei vivi; erano così cinquant’anni fa, sono così oggi, immutate”. Era il 1904 quando Filippo Turati pronunciò alla Camera dei Deputati parole di condanna contro la condizione delle carceri in Italia. Ancora oggi la questione è tutt’altro che risolta, nonostante il principio di umanità e la rieducazione dei detenuti siano diritti stabiliti dalla Costituzione. E “mai più un carcere cimitero dei vivi” è stato l’impegno dei padri costituenti, per dare e ridare dignità ai soggetti all’interno dei vari istituiti di detenzione. Se l’articolo 27 sancisce che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, quello che è accaduto a San Vittore il 15 novembre di quest’anno è forse l’esempio massimo di quello che si intende. Il reading, che ha coinvolto una ventina di detenuti (i giovani adulti, le donne del reparto femminile, altri dal terzo, dal quinto e dal sesto reparto), diventa un’occasione eccezionale. Un momento straordinario che educatori, volontari e professori cercano di rendere ordinario, per sopravvivere al carcere nonostante il carcere. Un progetto non certo facile a San Vittore, che da casa circondariale - e quindi soggiorno provvisorio - vede un via vai continuo di facce, quasi mai le stesse. Ma che diventa un ginnasio di civiltà per il sistema detentivo più in generale, gestito da persone che cercano “di dare un senso a ‘sta vita balorda”. Una “bellissima biblioteca” - Era il 1989 quando l’allora direttore del carcere, il giovane Luigi Pagano, affrontò la prima grana della sua esperienza a San Vittore. Brancher, che di anni ne aveva 57, aveva deciso di lasciarsi morire di fame. Preoccupato dalla piega che poteva prendere la faccenda, Pagano lo invitò nel suo ufficio per una chiacchierata. I due si scambiarono qualche parola, finché il detenuto non gli disse semplicemente: “Voglio morire, ormai ho perso tutto. Ho già 57 anni”. “E che sarà mai?”, gli rispose Pagano. “C’è gente che riinizia da 3, lei con le esperienze che si ritrova può permettersi di farlo a 57”. Con lo stupore del direttore, Brancher annuì e decise di lasciar perdere quello sciopero. Solo un aneddoto, forse nemmeno tra i più potenti delle vicende carcerarie che ogni giorno attraversano le case di detenzione italiane, ma che un accenno di verità la racchiude: nessuno si salva da solo. Libri, persone, affetti: sono queste le cose che hanno trasformato il Brancher delinquente nel Brancher scrittore. E proprio a lui, e a questa piccola verità, è ora dedicata la biblioteca del carcere. Durante il reading, uno dei detenuti, il responsabile della biblioteca, toglie la tendina rossa che copre la targa. È un foglio bianco con su scritto: “Leggere mi ha sempre aiutato. Anche quando facevo il cattivo e finivo in galera. Ma non ero cattivo davvero. A San Vittore c’era una bellissima biblioteca, è stato lì che ho cominciato a riflettere”. Altri detenuti leggono altri versi di Brancher. C’è chi è più malinconico, chi è più agitato, chi la prende come un’occasione per divertirsi. Il mix di emozioni coinvolge anche chi assiste da esterno. Si ride, si piange, si sbadiglia e ci si distrae insieme agli altri, senza chiedersi se si rida, si pianga, si sbadigli o ci si distragga al fianco di qualcuno che ha spacciato droga fino a un mese prima, o che magari ha tentato di uccidere un amico o una parente. Ma è proprio questa ambivalenza dello stare insieme che si impara dal carcere, non diversa da quella della vita di tutti i giorni: non si sa mai chi si ha di fronte. Anzi, a pensarci bene, qui lo si sa addirittura un po’ meglio. In fondo, qui è tutto un po’ più sincero. Un obiettivo in comune: gli organizzatori del reading - I tasselli che hanno costruito un puzzle così complesso sono stati moltissimi. “Voci dentro e fuori dal carcere”, il reading itinerante accompagnato dalla voce e dalla musica di Paola Odorico e Carlo Marinoni, si è inserito nel programma “Bookcity per il sociale”, la cui responsabile è Antonella Minetto. Un evento seguito passo passo da Costanza Formenton e Silvia Introzzi di Fondazione Mondadori. Il Sistema Bibliotecario urbano del Comune di Milano, poi, ha costituito una rete di partner che hanno dato vita al progetto “Biblioteche in rete a S. Vittore”, che collabora con la casa circondariale attraverso una logica inclusiva, sia per genere che per cultura. Attorno a questa realtà gravita una rete straordinaria di professori, come Luca Leccese, di educatori e di volontari, come Enrica Maria Borsari, Elvio Schiocchet, Sergio Seghetti, Ileana Montagnini e Cinzia Chinaglia. Teramo. “Una casa di donne” al carcere di Castrogno Il Centro, 30 novembre 2019 Dopo le spettacolo le detenute hanno trovato il coraggio di aprirsi ricordando le loro storie. Alle toccanti parole del testo teatrale di Dacia Maraini “Una casa di donne” hanno fatto eco le parole di chi la prostituzione e la violenza le ha vissute sulla propria pelle. Le protagoniste dell’incontro che si è svolto ieri al carcere di Teramo, promosso dall’associazione culturale “Hanna Arendt” con il patrocinio della Provincia in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, sono state le detenute della sezione femminile. In silenzio e con occhi attenti hanno seguito il monologo recitato dall’attrice Ottavia Orticello e la storia di Manila, la protagonista, che decide di prostituirsi tra paure, cuori infranti, sogni e sofferenze mai dimenticate, ha dato loro il coraggio di aprirsi. “Ho lavorato in strada a Milano e nessuno mi ha mai aiutata a liberarmi dai miei aguzzini”, ha detto Ana (i nomi sono di fantasia), una ragazza albanese, “ho visto tante ragazze come me portate in Italia e sono orgogliosa di essere fuggita da sola in una casa-famiglia dove ho ripreso la mia vita. Mi sono sposata e ho due figli. Ma qualcosa si deve fare per fermare questo sfruttamento”. C’è chi ha parlato della violenza più subdola, quella che si consuma tra le mura domestiche. “Ho subito maltrattamenti da mio marito anche con armi e sono stata in coma”, ha raccontato una ragazza marchigiana, “sono andata al consultorio, ma non ho ricevuto l’aiuto adeguato e ogni denuncia cadeva perché non avevo testimoni. Me lo ritrovavo ovunque nonostante il provvedimento di divieto di avvicinamento”. Storie di violenza fisica, ma anche psicologica derivante da dipendenze come quella da gioco. “La ludopatia porta scompiglio nelle famiglie a chi ne soffre e a chi gli sta vicino”, ha spiegato con le lacrime agli occhi Giada, “sono stata aiutata da un’associazione che ha seguito mio marito, ma lo Stato perché permette il gioco?”. Per le detenute il pomeriggio è stato un’importante motivo di sfogo e hanno chiesto agli ospiti che si sono confrontati con esse - la presidente di “H.Arendt” Guendalina Di Sabatino, la senatrice e parlamentare europea, prima presidente nazionale della commissione pari opportunità Elena Marinucci, la presidente della Casa internazionale delle donne Irene Giacobbe, il presidente di “Bee Free” Oria Gargano, la docente di criminologia Laura Di Filippo, la consigliera di parità della Provincia Beta Costantini, il segretario provinciale della Cgil Giovanni Timoteo, la giornalista Edda Migliori, segretario provinciale Cgil e alcune studentesse delle scuole superiori accompagnate dalle docenti - di tornare per un altro incontro. Lo spettacolo teatrale è stato poi riproposto nella sala polifunzionale della Provincia con il convegno “Prostitute prostituite: l’uso del corpo delle donne tra sex work e schiavitù sessuale”. Monza. “Dona un libro”, il progetto per migliorare gli incontri tra detenuti e figli ilcittadinomb.it, 30 novembre 2019 “Dona un libro” è il progetto di Fidapa, Inner wheel e Soroptimist di Monza per aiutare il carcere a migliorare gli spazi di incontro tra i detenuti e i loro figli: ecco come sostenerlo. Un libro come amico, per riappropriarsi del proprio ruolo di genitore e figlio, per trascorrere del tempo insieme, anche se all’interno del carcere. Nasce da questa riflessione il progetto “Dona un libro” pensato da Fidapa Modoetia Corona Ferrea con Inner Wheel e Soroptimist di Monza. Da domani (30 novembre) e fino al 10 gennaio sarà possibile recarsi in una delle librerie monzesi che aderiscono all’iniziativa (Feltrinelli, Istituti Nuovi, Libraccio, Libri e Libri, Tutti giù per terra e Virginia& co) per acquistare un volume per l’infanzia che sarà messo da parte e consegnato alla casa circondariale. “Il progetto interculturale - spiega la presidente di Fidapa, Tiziana Achilli - si pone l’obiettivo di allestire, nei luoghi destinati ai colloqui con le famiglie delle mini biblioteche per favorire l’accoglienza dei minori e rendere meno traumatico lo spazio di condivisione”. I libri donati saranno presenti nella ludoteca, nelle stanze dei colloqui, nel piccolo appartamento realizzato lo scorso anno da Soroptimist, nella stanza della musica donata da Inner Wheel. “Sappiamo quanto possa essere traumatico per un genitore raccontare al proprio figlio la verità - spiega La direttrice del carcere Maria Pittaniello - per questo con la funzionaria del servizio pedagogico, Marika Colella, abbiamo un progetto di sostegno alla genitorialità con un educatore che potrà essere d’aiuto nell’incontro tra le famiglie”. Non c’è un elenco di titoli scelti, ma ognuno potrà scegliere liberamente tra le proposte per l’infanzia o lasciarsi guidare dall’esperienza dei librai. All’iniziativa partecipa la casa editrice Sperling & Kupfer che ha già donato dei libri, come il comune di Triuggio che donerà cinquanta titoli. Perché lo spazio di lettura sia il più multiculturale possibile sono graditi testi anche in lingua araba, spagnola ed inglese. “Un’idea semplice - il commento dell’assessore alle politiche sociali e alla famiglia Desirée Merlini - ma un bellissimo regalo di natale per i bambini e le loro famiglie”. Novara. I papà detenuti preparano “origami” di Natale per i loro bimbi di Maria Rosà novaratoday.it, 30 novembre 2019 La mattina di mercoledì 27 novembre, la Casa Circondariale di Novara è stata teatro di un’inedita iniziativa dedicata a una dozzina di suoi “ospiti”: un piccolo corso di origami, organizzato dall’associazione culturale “Brughiera CàDaMat” (la stessa che gestisce il laboratorio di stampa su tessuto “amanetta”), grazie alla disponibilità di Giancarlo Toran, maestro e colonna portante della Pro Patria Scherma di Busto Arsizio, animo curioso e poliedrico che nelle sue peregrinazioni tra sport, logica e filosofia, si è specializzato da anni in questa affascinante disciplina orientale. “È un’arte fatta di piccoli gesti e cose semplici, alla portata di tutti - spiega Toran - ma consente di dare infinite forme alla propria fantasia e di ottenere subito risultati e miglioramenti, costringendoti a liberare la mente da tutto, almeno per quei pochi momenti, perché richiede grande attenzione e precisione”. Un’attività ideale, quindi, per chi ha tempo da spendere e, soprattutto, bisogno di sentirsi ancora vivo e impegnato in qualcosa, ma anche un’occasione per realizzare qualche simpatico oggetto da regalare a chi è fuori ad aspettarli. Il corso, infatti, era aperto a tutti i detenuti, ma l’Ufficio Trattamento di via Sforzesca lo ha pensato soprattutto per dare la possibilità ad alcuni papà di preparare qualche dono per i loro bambini, in vista delle Feste. “L’occasione del Natale e di regali fatte con le proprie mani - continua Camilla Pensa, segretaria dell’associazione bustocca - ci è sembrata perfetta per iniziare, ma siamo convinti che l’aver qualcosa di semplice e giocoso da insegnare ai propri figli possa funzionare sempre per chi è ristretto e vede i propri cari solo qualche ora al mese, spesso in situazioni di estrema tensione e difficoltà, dove sorridere e lasciar uscire le proprie emozioni può risultare davvero complicato”. L’incontro è durato un paio d’ore, volate tra elicotteri, rane salterine, stelle e scatoline dei ricordi, ma mercoledì prossimo si proverà a fare anche qualcosa di più complicato, vista l’attenzione con cui la “classe” ha seguito il proprio maestro, piega dopo piega. Poi, chissà, gli origami potrebbero anche diventare un appuntamento fisso tra le tante attività ludico-artigianali che l’Istituto novarese sta cercando di coltivare per completare il percorso rieducativo degli uomini che ha in custodia. In foto, il maestro Giancarlo Toran, la Signora Camilla Pensa e due educatrici di via Sforzesca, Patrizia Borgia e Stefania Novielli. Reddito di cittadinanza, la doppia pena dei poveri senza residenza di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 30 novembre 2019 Barriere burocratiche e tecnologiche, sbarramenti linguistici e patrimoniali, sospensioni del sussidio e una via crucis tra patronati e sedi dell’Inps. È la storia dei beneficiari del cosiddetto “reddito di cittadinanza” che vivono nelle occupazioni delle case a Roma. Stranieri da anni nella capitale, italiani precari e disoccupati, giovani e non, vivono in attesa di un Sms e in molti casi lottano contro la legge “Renzi-Lupi” che nega la residenza a chi occupa per necessità una casa e si vede negare il sussidio. La campagna “Vogliamo tutto” chiede l’allargamento della platea del “reddito” e la rimozione degli ostacoli per la sua richiesta. Paola (nome di fantasia) ha fatto domanda per il “reddito di cittadinanza” due volte e ora pensa di farlo per la terza volta. Pur rientrando tra i criteri patrimoniali stabiliti dalla legge che ha istituito il sussidio, le sue richieste sono state respinte. Si era mossa già a marzo questa studentessa universitaria in lingue che si vive in un’occupazione abitativa a Roma insieme al fratello e alla madre. E il primo tentativo sembrava essere andato a buon fine. Sul suo cellulare è stato recapitato un messaggio con la buona notizia, ma non è stato comunicato l’importo. Poi, più nulla. Chiedendosi che fine avesse fatto la domanda, dopo quattro mesi Paola ha chiesto informazioni alla sede di competenza dell’Inps. Le hanno spiegato che alla sua richiesta mancavano alcuni documenti. Solo che nessuno ha pensato di dirglielo. Allora Paola ha presentato una nuova domanda rivolgendosi al sindacato Asia Usb di San Basilio. Pensava così di avere trovato un modo per risolvere i problemi tecnici. Ma nemmeno in questo caso ci è riuscita. Allora è tornata all’Inps, ma ancora nulla. “È finita così la mia storia con il reddito di cittadinanza” racconta. Ora c’è anche un altro problema: fino al luglio scorso viveva nell’occupazione di via Cardinal Capranica nel quartiere di Primavalle dove aveva la residenza. Dopo lo sgombero l’ha persa, rendendo difficile la presentazione della domanda per il “reddito di cittadinanza”. “È una doppia beffa: non si esce dall’estrema povertà e si elimina ogni alternativa”. La doppia pena del povero e occupante per necessità - Ho incontrato Paola ieri, sotto una capricciosa pioggia intermittente, a un presidio promosso dai movimenti per il diritto all’abitare in piazza San Giovanni in Laterano a Roma. Eravamo in attesa di una delegazione che è stata ricevuta alla sede dell’Inps di via dell’Amba Aradam per denunciare l’esclusione di migliaia di persone che avrebbero diritto alla misura del “reddito di cittadinanza”. La “beffa” di cui parla Paola nella sua storia è stata creata dalla legge che impedisce di accedere al “reddito” a chi ha la residenza fittizia - ovvero un indirizzo di residenza che non corrisponde al luogo di effettiva dimora, e che permette alle persone che vivono in situazione di precarietà abitativa o in occupazione per necessità di accedere ai servizi del territorio. A Roma questa misura si chiama “Modesta Valenti”, dal nome di un’anziana senza dimora morta per abbandono in strada nel 1983. Grazie al beneficio di questa misura, molti occupanti nella Capitale hanno potuto esercitare perlomeno il diritto di presentare la domanda per il “reddito”. Non è così in altre città. Solo 200 comuni su 7915 riconoscono questa prassi, sostiene la Federazione Italiana organismi per le persone senza fissa dimora. Per chi vive in un’occupazione abitativa esiste una difficoltà in più: l’articolo cinque della legge “Renzi-Lupi” sul “piano casa” approvato nel 2014. La norma prevede il distacco di luce e acqua alle occupazioni per necessità e, inoltre, nega la residenza. A Roma i distacchi dell’Acea continuano, ma le situazioni sono al momento quasi sempre recuperate. Tuttavia, sono numerosi i casi di persone che hanno preso la residenza nei luoghi occupati prima dell’approvazione della controversa legge e rischiano oggi di perderla perché nel frattempo hanno subito uno sgombero. E, pur vivendo in occupazione, risultano essere senza fissa dimora. La pena sociale a cui condanna l’articolo 5 criticato dai movimenti per il diritto all’abitare si aggiunge a quella stabilita dalla legge sul reddito di cittadinanza che nei fatti esclude chi non ha un tetto formalmente riconosciuto. La povertà e l’esclusione sociale sono il risultato di una costruzione giuridica, oltre che di decisioni politiche e di una realtà economica drammatica. Contro questa esclusione i movimenti per il diritto all’abitare hanno organizzato uno sportello nell’occupazione di via Tiburtina 1099 che si aggiunge a un altro in via Casanate 2/A a Primavalle. Uno degli obiettivi della campagna “Vogliamo tutto” organizzata da sindacati di base, movimenti dei disoccupati, realtà di base a Catania, Cosenza, Palermo, Roma, Perugia, Messina. Uno degli obiettivi è il censimento sulle motivazioni delle domande rigettate, il superamento delle difficoltà burocratiche e l’allargamento della platea dei beneficiari del “reddito” oltre i parametri della residenza e dell’Isee. Molto spesso, infatti, chi è povero, ma lavora precariamente è escluso dal beneficio anche per poche centinaia di euro. I parametri patrimoniali hanno escluso numerose persone in stato di necessità dal beneficio del reddito. La riduzione di un miliardo dell’investimento inizialmente stabilito per il “reddito”, stabilito ai fini del bilancio dello stato, indica l’intenzione di limitare l’enorme platea potenziale dei poveri assoluti e di quelli relativi a un numero pur sempre cospicuo. Attualmente sono oltre 2 milioni le persone beneficiarie del sussidio. Il problema in Italia è che sono molte di più le persone che ne hanno bisogno: i poveri assoluti e i lavoratori poveri e precari. La nuova questione sociale è sterminata e il “reddito”, per come è stato concepito, risponde male alla sua emergenza. Centomila famiglie escluse - Quella di Paola è una delle storie dei 100 mila nuclei familiari, di cui 53 mila stranieri, che si sono visti sospendere o respingere la domanda per il “reddito”. Una su dieci delle famiglie che ne hanno fatto richiesta da marzo. Presentate come “irregolari”, oggetti spesso di una campagna stampa tesa a stigmatizzare la loro condizioni di povertà, molte di queste persone rientrano invece nei parametri e hanno pieno diritto a ricevere il reddito. La più grande difficoltà che gli esclusi incontrano quando entrano in contatto con la burocrazia è quella di comprendere i messaggi che arrivano da un numero di cellulare sconosciuto sui cellulari. Tutti mostrano un messaggio, asettico e lacunoso, ma non per questo meno angosciante di un’ingiunzione, in cui l’Inps avverte di andare su una certa pagina internet, recarsi in uno dei suoi uffici, oppure alle poste, accludendo un numero di matricola. E basta. Questi messaggi possono andare persi, e quindi il beneficiario può non presentarsi alla convocazione, perdendo così il reddito o ricevendo penalizzazioni. Senza contare quelli che non hanno un cellulare, oppure lo hanno perso o, più banalmente, non hanno visto il messaggio o non lo hanno capito. In attesa dei dati provenienti dal censimento in corso nelle occupazioni romane tra chi ha fatto richiesta del “reddito”, si può dire che il sussidio medio percepito da chi è riuscito ad ottenere la tessera è all’incirca 480 euro. Ma sono diversi i casi in cui i membri dei nuclei familiari hanno inizialmente percepito anche più di mille euro. Successivamente, a causa di un’analisi della situazione patrimoniale, l’importo è stato sospeso in attesa di verifiche e, in alcuni casi di famiglie separate, o allargate, è stato drasticamente ridimensionato. Anche in questi casi ho raccolto molti racconti sulla via crucis tra patronati, sedi dell’Inps alla ricerca dell’interpretazione migliore di messaggi enigmatici. “Le sospensioni di cui siamo a conoscenza hanno motivi formali, più che di sostanza - sostengono le attiviste del movimento dei Blocchi Precari Metropolitani - Manca un’informazione adeguata e spesso non si comprende l’urgenza delle integrazioni richieste. È capitato che le informazioni sono arrivate da canali informali come le catene di messaggi su WhatsApp. In molti altri casi i destinatari non sono pratici di Internet, non capiscono il linguaggio né sanno orientarsi tra i link. E se non parlano o non leggono l’italiano sono rovinati”. In altri casi, come quello di Antonio (nome di fantasia), il percorso è stato andato come previsto. In questo caso la domanda è stata presentata, ha seguito la trafila programmata ed è arrivata anche la convocazione al centro per l’Impiego di Cinecittà. Antonio ha seguito le indicazioni contenute nel messaggio ricevuto sul suo telefono (non uno smartphone), si è recato all’appuntamento, ha firmato la disponibilità al lavoro e ha avuto un colloquio anche con una donna che si è presentata nelle vesti di “navigator”. Dopo il “patto” gli è stato detto che avrebbe ricevuto una mail. Era fine settembre. Aspetta da due mesi. Alicia (nome di fantasia) è una cittadina emigrata dal Centro-America a Roma 29 anni fa. Vive anche lei in un’occupazione con un figlio disoccupato di 21 anni. Ha dovuto aspettare sei mesi, dice, prima di superare tutti gli ostacoli, e i successivi silenzi della burocrazia. Due giorni fa ha ricevuto un sms che le ha ingiunto a recarsi a un ufficio delle poste per ritirare la “card” del reddito. Alla mia domanda se sia oggi disposta ad accettare un lavoro ha risposto senza esitazioni: “Certo, se me lo offrono mi metto in fila davanti agli uffici anche alle sei del mattino. Vorrei solo che ci fosse un lavoro. Di questi tempi è dura”. Alla mia domanda successiva se sia disposta ad accettare le offerte di lavoro anche fuori dalla Capitale, e persino lontano dal Lazio - lo prevede la legge nel caso in cui il suo “profilo” non trovi immediatamente un interesse da parte delle aziende che dovrebbero offrirle un lavoro - Alicia è rimasta interdetta. Antonio è allora intervenuto nella nostra conversazione e le ha spiegato nel dettaglio le condizioni che i beneficiari del “reddito” accettano quando lo percepiscono. Alicia ci ha guardati con uno sguardo doppiamente interdetto. “Dipende” ha detto. La corsa ad ostacoli al reddito per gli stranieri - Barriere burocratiche e tecnologiche, sbarramenti linguistici e patrimoniali. E poi c’è l’esclusione dei cittadini extracomunitari residenti in Italia da meno di 10 anni, di cui gli ultimi due in maniera continuativa. Una discriminazione prodotta dalla xenofobia che animava il governo “gialloverde” Conte Uno che non sembra essere stata ancora messa in discussione dal suo successore “giallorosso”, sebbene lo stesso presidente del Consiglio abbia annunciato la nascita di un nuovo “umanesimo” nel giorno del discorso alle Camere. Questa esclusione è sentita anche nelle occupazioni che, insieme a molti italiani poveri, raccolgono anche stranieri nelle stesse condizioni. Molti di loro sono tuttavia residenti in Italia da molti anni, anche più dei dieci indicati dalla legge. Hanno figli, anche grandi, sono sposati. E vivono comunque in povertà. In alcuni casi hanno ricevuto un reddito, racconto. E se lo sono visti sospendere per le difficoltà raccontate. In altri casi non lo hanno nemmeno ricevuto perché soggetti ad un’altra norma capestro individuata per escludere un’altra parte dei possibili richiedenti. Subito dopo l’approvazione della legge il 6 marzo 2019 gli avvocati dell’Asgi hanno denunciato l’incostituzionalità della norma e l’illegittimità dei requisiti che colpiscono comunque una parte importante dei tre milioni e 700 mila cittadini extra Ue residenti in Italia. I più vulnerabili sono: i rifugiati e i titolari di protezione sussidiaria. Per loro l’Inps ha disposto un modulo di richiesta ma non essendo previsti erroneamente nel decreto sono stati diversi i casi di difficoltà nella presentazione della domanda. Ugualmente illegittima è stata l’esclusione degli stranieri titolari del permesso unico di lavoro che vivono spesso in condizioni molto difficili. A queste difficoltà se ne è aggiunta un’altra: l’obbligo per i pochi tra gli stranieri aventi diritto al “reddito” di recuperare la documentazione sui redditi provenienti dai loro paesi di provenienza. Le loro domande sono state sospese dall’Inps per otto mesi in mancanza di un decreto ministeriale che doveva stabilire l’elenco degli stati dov’è “oggettivamente impossibile” procurarsi i documenti. Ieri il decreto è finalmente arrivato dal ministero del lavoro di concerto con quello degli Esteri. Invece che redigere un elenco dei Paesi esenti, il decreto indica gli Stati i cui cittadini dovranno produrre la certificazione. Il totale dei possibili beneficiari va calcolato a partire dai circa 61.200 cittadini stranieri. Si va dai sette del Qatar ai 40 mila del Kossovo. Ovviamente solo una parte di questi è nelle condizioni economiche per accedere al reddito. E siamo solo all’inizio - Siamo solo all’inizio di un processo che è destinato a cambiare il governo dei poveri e dei lavoratori poveri attraverso il nuovo modello del “reddito di cittadinanza”. Se per alcuni l’accesso al sussidio è stato una corsa ad ostacoli, un altro percorso accidentato inizierà per chi - probabilmente più del 30% degli oltre 2 milioni di beneficiari attuali, è stato calcolato in una stima - sarà chiamato obbligatoriamente a lavorare fino a 16 ore a settimana per lavori di pubblica utilità e, nel frattempo, partecipare a corsi di formazione e infine ad accettare un’offerta di lavoro su tre. Se non nella città di residenza, anche fuori, fino a raggiungere tutto il territorio nazionale. Tutto questo con una magra integrazione fino a tre mesi del reddito derivante dal contratto di lavoro, anche part-time, e la necessità di trovare un affitto in un’altra città. Per fare funzionare il sistema immaginato ci vorranno anni. Sarà necessaria una riforma dei centri per l’impiego, oltre che la nascita di una piattaforma digitale che incrocerà domanda e offerta di lavori che potrebbe vedere la nascita a giugno dell’anno prossimo ha detto il presidente dell’Agenzia nazionale delle politiche attive del lavoro (Anpal) Mimmo Parisi. Nel frattempo un numero cospicuo di poveri godrà di un sussidio insperato per 18 mesi, prorogabile per altrettanti. Non è poco, considerata la situazione in cui si trova questo paese. È quello che aspetta queste persone che dovrebbe preoccupare: mobilità obbligatoria in assenza di tutele e garanzie sostanziali e universalistiche. Se per centinaia di migliaia di persone il semplice accesso a un sussidio a cui hanno diritto è una via crucis, non è escluso che possa essere qualcosa di peggio rispondere a un’autorità che obbliga a svolgere un lavoro qualsiasi anche a centinaia di chilometri da casa. Occupata e non. Migranti. Caso Alan Kurdi: i giudici scagionano Salvini, ma è una sentenza che fa acqua di Fulvio Vassallo Paleologo Il Riformista, 30 novembre 2019 Il Tribunale dei ministri di Roma avrebbe “scagionato” l’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini, archiviando le accuse di omissione di atti d’ufficio e abuso d’ufficio mosse nei suoi confronti per aver negato lo sbarco della Alan Kurdi (Ong Sea Eye) nell’aprile scorso. I giudici Maurizio Silvestri, Marcella Trovato e Chiara Gallo hanno affermato che la responsabilità di assegnare un porto sicuro alle navi con a bordo migranti soccorsi in mare spetta allo Stato di primo contatto, che “non può che identificarsi in quello della nave che ha provveduto al salvataggio”. Nel caso della Sea Eye, battente bandiera tedesca, dunque, la nave avrebbe dovuto rivolgersi alla Germania per ricevere l’indicazione di un porto sicuro nel quale approdare. Per il Tribunale dei ministri di Roma, le disposizioni normative vigenti al riguardo sarebbero inadeguate, e la indicazione di un “porto di sbarco sicuro” resterebbe affidata a “una concreta e fattiva cooperazione tra gli Stati interessati che, fino a oggi, è di fatto scritta solo sulla carta”. La propaganda sovranista ha subito salutato la decisione come una “vittoria” dell’ex ministro dell’Interno Salvini, che da quando si è insediato, a partire dal caso Aquarius nel giugno del 2018, ha sistematicamente eluso gli obblighi di soccorso in mare che incombono agli Stati, negando la tempestiva indicazione di un porto sicuro di sbarco. “Finalmente un po’ di buonsenso”, ha commentato Salvini. Una scelta di “buon senso” che produrrà altre tragedie come gli ultimi naufragi avvenuti nei pressi delle coste libiche e di Lampedusa. Una scelta “di buon senso” che permetterà di tenere lontane le navi di soccorso delle Ong, ma anche le navi commerciali, e i pescherecci di diversa nazionalità dalla zona di ricerca e salvataggio nella quale, nel Mediterraneo centrale, più frequentemente si verificano tragedie che in diversi casi rimangono senza testimoni. Una scelta di “buon senso” che contrasta con il diritto internazionale del mare, che nel nostro ordinamento interno può assumere una precisa efficacia cogente, per effetto dei richiami operati dalla Costituzione italiana agli articoli 10, 11 e 117. Un richiamo che il Tribunale dei Ministri di Roma ha evidentemente sottovalutato, ritenendo in sostanza che, nel caso di soccorsi in alto mare, tutto dipenda dagli accordi raggiunti tra gli Stati, e che nel tempo che occorre per raggiungere queste intese, le persone possono pure annegare, per i ritardi negli interventi di salvataggio, conseguenza della mancanza di mezzi disponibili, o essere condannate a vagare per settimane in acque internazionali. Le norme internazionali sulla ricerca e sul salvataggio (Sar) dei naufraghi in pericolo in alto mare sono contenute: nella Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (Unclos) stipulata a Montego Bay nel 1982 e recepita dall’Italia dalla legge n. 689 del 1994, che sancisce che ogni Stato contraente deve obbligare i comandanti delle navi che battono la propria bandiera nazionale a prestare assistenza ai naufraghi trovati in mare ovvero a portarsi immediatamente in soccorso di persone in pericolo quando si abbia notizia del loro bisogno di aiuto. Si deve ricordare poi la Convenzione per la salvaguardia della vita umana in mare (Solas-Safety of Life at Sea, del 1974, ratificata dall’Italia con la legge n. 313 del 1980 e la Convenzione di Amburgo del 1979 resa esecutiva dall’Italia con la legge n. 147 del 1989 e alla quale è stata data attuazione con il D.P.R. n. 662 del 1994. Da tutte queste Convenzioni emerge un obbligo di salvataggio in mare della vita umana che, derivante da una consuetudine marittima risalente nel tempo, riguarda sia i comandanti delle navi che gli stessi Stati contraenti. Rientra nell’obbligo di ricerca e soccorso in mare l’individuazione di un porto sicuro dove sbarcare i naufraghi dopo le prime attività di soccorso. Sulla base della Convenzione di Amburgo ogni Stato contraente deve assicurare l’organizzazione di un adeguato “servizio SAR” all’interno dell’area assegnata alla propria responsabilità, oltre a doversi far carico, a certe condizioni, quale primo soggetto investito della segnalazione, anche degli eventi che accadono al di fuori della propria area di responsabilità-prevede in capo all’Autorità nazionale che ha coordinato il soccorso anche il dovere accessorio di assicurare che lo sbarco dei naufraghi avvenga in un “luogo sicuro”. L’archiviazione del procedimento penale instaurato a carico di Salvini per la mancata indicazione di un porto sicuro di sbarco risente di una lettura del diritto internazionale del mare che si basa su una interpretazione aberrante dell’obbligo degli stati concernenti la indicazione di un porto di sbarco sicuro. Un obbligo che di fatto verrebbe cancellato, stando a una interpretazione che si presta, se si dovesse consentire il riconoscimento del principio della bandiera che batte la nave soccorritrice, a traversate pari alla metà della circumnavigazione del globo, e comunque a diverse settimane di navigazione, per sbarcare i naufraghi (si pensi alle numerose navi commerciali che battono bandiera panamense). A meno di ritenere che i giudici romani abbiano voluto adottare una decisione ad navem, nei confronti delle navi private delle Organizzazioni non governative, esattamente come, prima e dopo l’entrata in vigore del decreto sicurezza bis, erano ad navem le misure interdittive dell’ingresso nelle acque territoriali adottate dal ministro dell’Interno contro le Ong e soltanto contro le navi umanitarie. Pena di morte, la ritorsione smascherata. Non il patibolo, ma una vera giustizia di Marco Impagliazzo Avvenire, 30 novembre 2019 Il mondo contemporaneo è complesso, richiede capacità di leggere le diversità degli eventi e di coglierne la profondità. Ma tale possibilità non è di tutti e non è offerta a tutti. Per questo spesso, oggi, cultura e politica divorziano: quest’ultima ama spesso le semplificazioni gridate. Così si stimolano le passioni, si guidano le reazioni, ma non si aiuta a comprendere. Un mondo fatto di passioni e di emozioni riguarda infatti tutti gli aspetti della vita quotidiana, anche la giustizia, la sicurezza e le pene. Da alcuni anni le percezioni sulla giustizia sono attraversate da ondate emozionali: processi spettacolarizzati, morbosità sui dettagli di cui la stampa è piena, magistrati o avvocati come star televisive, dibattiti accesi sulle sentenze. Il bisogno di sicurezza appare come la nuova medicina davanti allo spaesamento e alla paura. Anche il dibattito sulla pena di morte soffre di tali eccessi, e qualcuno prova a rievocarla. Sicuramente non appare più così scandalosa come solo qualche anno fa. È per questo che occorre invece insistere sul cammino che ha portato negli ultimi anni, progressivamente, all’eliminazione della pena capitale in tanti Paesi, con successi evidenti soprattutto in Africa. È il motivo del XII Congresso internazionale dei ministri della Giustizia, che si è svolto alla Camera, con la partecipazione di rappresentanti di 22 nazioni, e questa sera, con la manifestazione davanti al Colosseo in collegamento con oltre duemila “Città per la Vita” nel mondo. La cultura di morte rischia di allargarsi: terrorismo, guerre che non sembrano avere fine, reti criminali globali, narcotraffico. Sono eventi e fenomeni che determinano condanne a morte non ufficiali (extragiudiziali), ma comunemente sempre più accettate. Ormai gli Stati non sono più gli unici attori ad avere il monopolio della violenza. Lo sono anche gli universi culturali e religiosi. È questo il nocciolo della crisi dell’islam, come nel caso del terrorismo di sedicente matrice musulmana, specie dopo l’11 settembre 2001. Quegli attentati furono presentati da Ben Laden come una ritorsione legittima, una condanna a morte per reciprocità: se noi soffriamo, perché voi no? Così siamo pari: un ragionamento che nasconde un’idea di retribuzione, esattamente ciò che sostengono i fautori del mantenimento della pena capitale. La pena capitale rappresenta la sintesi della disumanizzazione a cui opporsi: è una pena irreversibile, viene data dai poteri pubblici che dovrebbero difendere la vita, assomiglia a una vendetta, si basa sulla reciprocità con il male, lancia alla società un potente messaggio di legittimità della ritorsione. L’eccesso di semplificazione dei problemi può far crescere il sostegno ad una risposta brutale e definitiva come la pena di morte. Al contrario, quando le questioni vengono presentate nella loro complessità, e nel loro inevitabile risvolto umano, il sostegno a misure drastiche come la pena capitale diventa molto più sfumato. E questo anche in Paesi mantenitori della pena di morte. Numerosi studi dimostrano che quando le persone sono informate della possibilità che la giustizia condanni ed esegua un innocente, della discriminazione che tale pena comporta a danno dei poveri e dei più deboli e dell’esempio positivo di Paesi che hanno abolito, il sostegno alla pena capitale si riduce. Vale ancora quanto detto nel 1972 da un giudice in occasione della sospensione della pena capitale negli Stati Uniti: se sufficientemente informato, “il cittadino medio riconoscerebbe che la pena di morte è irragionevole, immorale e quindi incostituzionale”. L’opinione pubblica è malleabile e anche quello che sembra un attaccamento alla pena capitale può sgretolarsi facilmente: lo dimostrano la rapida caduta del sostegno alla pena di morte nei Paesi che hanno abolito e sondaggi in alcuni Paesi mantenitori (dal Giappone allo Zimbabwe) che rivelano la disponibilità ad accettare una politica più mite quando questa è scelta dal governo. E allora perché insistere, avere ancora fede nell’umanità, nella sua capacità di mobilitarsi di fronte alle ingiustizie, come quella rappresentata dalla pena di morte? Perché il contagio del bene si comunica facendolo vedere, mostrandolo. Bisogna insistere: alla fine ci sarà una vittoria della cultura della vita. E questa la forza dei tanti che nel mondo si battono contro la pena capitale. Già ora si vede come potrà essere un mondo più umano domani perché senza pena di morte. Turchia. L’avvocato curdo Elci merita giustizia, i suoi assassini vengano processati di Ezio Menzione* Il Dubbio, 30 novembre 2019 Il 28 novembre 2015 Tahir Elci venne assassinato. Elci era il presidente dell’ordine degli avvocati di Dyarbakir, il capoluogo del Kurdistan turco, ed era molto noto sia perché in prima fila nella difesa dei diritti umani in una regione dove essi vengono continuamente calpestati sia perché aveva appena pubblicato un libro- reportage sui bombardamenti del governo turco sulla cittadina di Cizre. Quel mattino di novembre Elci stava tenendo un discorso di fronte all’antico “Minareto delle quattro colonne”, in fondo ad una stradina nella parte vecchia della città, il quartiere di Sur. Il suo discorso voleva mettere in guardia il governo dal colpire i monumenti storici curdi, perché significava colpire l’identità stessa del popolo curdo. Ad un certo punto spuntano correndo e con la pistola in mano due giovani, che un po’ più in là avevano attaccato una postazione di polizia. I giovani si liberano delle pistole e, sempre correndo, passano vicinissimi ai molti poliziotti che controllavano il “comizio” di Elci. Questi cominciano a sparare una cinquantina di colpi, ma non colpiscono i supposti terroristi, che scappano e non saranno mai identificati, ma centrano alla testa l’avvocato Elci, che cade bocconi sul selciato proprio sotto il minareto che stava difendendo. Passano i giorni e non viene fatto nemmeno un sopralluogo degno del nome; si recupera il girato degli operatori Tv della polizia, ma essi mancano proprio dei secondi della sparatoria. I poliziotti presenti e che hanno sparato vengono sentiti e “sterilizzati” come testimoni, ma nessuno conosce finora le loro dichiarazioni. L’inchiesta non decolla mai. Passano 204 settimane, in cui ogni giovedì i colleghi dell’Ordine continuano a protestare davanti al Palazzo di Giustizia, ma senza risultato: l’inchiesta non prende nemmeno l’avvio e non c’è nessun indagato. L’ufficio stesso della Procura di Diyarbakir viene smantellato a seguito del tentato golpe del luglio 2016, e solo di recente è stato individuato un Pm che ha in carico l’indagine. Il Consiglio dell’Ordine ed i colleghi però non si arrendono e danno incarico ad una agenzia londinese, esperta di video-ricostruzioni con tecnologia digitale, di ricostruire i fatti di quella mattina sulla base (principalmente) dei video girati dalla polizia e da una telecamera di un esercizio commerciale. I risultati sono usciti un paio di mesi fa in un video su Youtube e sono sorprendenti. Il video è in turco, ma con l’aiuto di google si comprende abbastanza bene. La ricostruzione è precisissima e commovente allo stesso tempo, andando ben oltre le aspettative degli avvocati di Diyarbakir che l’avevano commissionata. Essa ricostruisce tempi e modi della sparatoria e individua con precisione le traiettorie dei colpi stessi, compreso quello che colpì Elci, indicando il poliziotto che aveva esploso quel colpo. Manca il nome del poliziotto: quello ce lo deve mettere la procura e sarebbe operazione semplicissima, sol che la volesse compiere. Forti di questi risultati i colleghi di laggiù hanno immediatamente portato il video in procura ed il procuratore capo lo ha mandato ad Istanbul a farlo analizzare dagli esperti ministeriali, i quali hanno concluso che “dal loro punto di vista non c’è nulla di nuovo per prendere in considerazione nuovamente il caso”. Conseguentemente l’indagine ed i suoi risultati sono rimasti in mano al viceprocuratore capo, che non consente che altri procuratori se ne facciano carico. L’indagine risulta ancora aperta, ma non fa nessun passo avanti. I colleghi di Elci chiedono ed esigono che ci sia un rinvio a giudizio e si apra finalmente un processo contro il responsabile della sua morte, così facilmente identificabile. Si noti che, comunque, quale eredità del periodo dell’emergenza in Turchia, i poliziotti godono, almeno fino ad un certo punto, di un’immunità per reati commessi in servizio. Ma, all’evidenza, qui si gioca ben altra partita: chi ha sguinzagliato i due presunti terroristi in quella stradina? come è mai possibile che quasi 50 colpi abbiano sbagliato un bersaglio facilissimo, mentre uno solo ha centrato alla testa Tahir Elci? Chi ha distrutto o occultato le prove dirette ed i video della sparatoria? C’erano ordini precisi in tal senso oppur no? Sta di fatto che giustizia non è stata fatta e non si intende farla. Più ancora, è un caso o corrisponde ad una strategia il fatto che si sia messo a tacere un testimone dell’assedio e delle stragi della piccola città di Cizre proprio il giorno prima che cominciasse l’assedio ed il bombardamento del quartiere di Sur a Diyarbakir? Un assedio che annullò ogni diritto per più di sei mesi, che comportò l’esodo di decine di migliaia di curdi dalla loro capitale e costò la vita ad un numero altissimo, anche se tuttora imprecisato di vittime. In questi giorni i colleghi di Diyarbakir hanno indetto un convegno di tre giorni (dal 28 al 30) proprio per puntare il dito su chi vuole continuare a tenere nascosta la verità sull’assassinio del migliore fra loro. *Osservatore Internazionale per l’Ucpi