Riflessione sulla situazione carceraria di Bologna (ma non solo) di Desi Bruno e Stefania Pettinacci* Ristretti Orizzonti, 2 novembre 2019 Negli ultimi tempi si stanno intensificando gli interventi sulla situazione carceraria, in ragione dell’aumento preoccupante delle presenze, e del conseguente disagio sia per i detenuti che per gli operatori penitenziari. Non c’è quasi giorno che passi senza che non arrivi una segnalazione sull’aumento della popolazione carceraria (circa 880 le presenze ad oggi), sui numeri crescenti ed abnormi delle persone gestite nell’infermeria(luogo dove spesso si trovano insieme detenuti comuni, collaboratori di giustizia, soggetti al regime di alta sicurezza, senza doverosa distinzione delle sezioni di provenienza o destinazione), sui rischi connessi alla presenza sempre maggiore di situazioni di disagio psichiatrico, su episodi di intolleranza di detenuti e quindi sulle problematiche connesse alla sicurezza in primis della polizia penitenziaria, sulla carenza di educatori (6 su 12! nonostante l’intervento ordinatorio della magistratura di sorveglianza), e quindi sulla difficoltà di lavorare per il reinserimento dei detenuti definitivi (circa 400 al carcere della Dozza), sulla mancanza di opportunità lavorative, di fondi, sulla problematicità dell’apertura delle celle ai detenuti (che stanno di fatto nel corridoio e in spazi comuni modesti se non impegnati in attività) e l’elenco delle criticità potrebbe allungarsi ancora molto. A fronte di ciò bisogna ricordare che molti sono i riconoscimenti per il lavoro incessante della Direzione per l’apertura del carcere a mille iniziative volte a stabilire un ponte virtuoso tra il dentro e il fuori, anche con il contributo del mondo del volontariato e della chiesa. Spesso la politica cittadina si è interessata e si interessa del carcere, anche minorile, secondo una tradizione che fa di questa città un fronte avanzato nella comprensione dei fenomeni sociali. Importante è il lavoro degli operatori e degli enti locali sul reinserimento, sulla giustizia riparativa, sui lavori socialmente utili e cosi via. Significativa è la presenza del Garante a tutela delle persone a vario titolo private della libertà personale. Ma detto questo, si avverte una distonia in questo continuo intervenire, perché non è chiaro quale è il pensiero sul carcere che sorregge l’opinione e l’intervento di molti, che oscillano tra l’invocazione del carcere a tutti i costi e la professione di fede sulla necessità di reinserire e ridurre il ricorso alla privazione della libertà personale, peraltro in un Paese che vede ancora una presenza in carcere di presunti innocenti mai sotto la soglia del 30% e che spesso sfiora il 40%. In questo ragionamento nulla c’ entra il tema della sicurezza e della tutela delle vittime, che assumiamo come obiettivo prioritario e peraltro assicurato, sia pure in una parte, proprio da quelle politiche di reinserimento (ma ancor prima di prevenzione) che, da una parte, garantiscono il rispetto della dignità umana e il riconoscimento della possibilità delle persone di cambiare, dall’altra evitano il pericolo di recidiva. Il carcere come extrema ratio serve proprio ad un intervento sulle situazioni di maggior allarme sociale. Però la domanda è d’obbligo, e va rivolta con chiarezza. Il carcere è la soluzione di tutti i mali, l’isolamento aiuta a costruire una società più giusta e sicura e dobbiamo investire in una politica di edilizia penitenziaria volta non a migliorare, ma a costruire per far fronte a numeri sempre più importanti? Il continuo aumento delle pene e la nuova carcerizzazione di massa ha risolto qualche forma di criminalità? In questi giorni assistiamo ad una rincorsa ad un ulteriore inasprimento delle pene questa volta per gli evasori fiscali, come se non ci fosse già una normazione penale in atto, diminuendo la soglia dell’ammontare a cui ancorare la punibilità, pensando di dare una risposta ad un problema sociale ed economico a cui la politica non sa far fronte: quello dell’evasione fiscale a cui è connesso il tema del costo del lavoro, della pressione fiscale, la congruità dei controlli, i soggetti davvero da punire, i paradisi fiscali, ecc. La non politica risponde cercando di accontentare l’opinione pubblica (in realtà forse più accorta di quel che si crede) perché, come ha detto recentemente un ex magistrato, Gherardo Colombo, più si punisce (o si invoca la punizione) più ci si sente innocenti e, diciamo noi, lontani spesso dalla risoluzione dei problemi. L’elenco del ricorso “comunque” al carcere come risposta a qualsivoglia problema non risolto dalle istituzioni è lungo, e caratterizza la storia di una Repubblica che non riesce ad ancora ad avere nel suo patrimonio genetico un sano liberalismo e dove, emergenza dopo emergenza, anche le forze politiche che professano vicinanza strenua ai valori costituzionali accarezzano, e votano, il ricorso ad un rigore cieco e foriero di ulteriori disastri. La vicenda del continuo espandersi delle preclusioni alle misure alternative alla detenzione, via via inserite nell’art. 4bis dell’ordinamento penitenziario ne è un esempio. Così, su altro fronte, l’emanazione del recente codice rosso a tutela della violenza di genere e domestica, inasprisce si le pene in modo importante, ma non stanzia nulla a favore delle vittime in termini di rafforzamento del personale dedicato e dei luoghi di assistenza e protezione. Da ultimo fa scandalo, invece di trarre motivo di conforto politico, l’esclusione del carattere mafioso di un’associazione a delinquere come tale riconosciuta e si invoca non è chiaro quale intervento. Perché è meglio dire che erano e sono, gli altri, tutti mafiosi, nel peggio si sta meglio, e si può sempre chiedere maggior rigore (per gli altri). E sostenere a tal fine la necessità di una prescrizione dei reati senza fine mai, ponendo sotto controllo una parte smisurata della popolazione per effetto di un nuovo aberrante strumento. Senza ricordare che la logica del sospetto divora anche chi l’ha creata, come accadde a Robespierre dopo avere mandato a morte Danton. E allora bisogna chiedersi come possono alcune forze politiche passare dalla convocazione degli Stati generali per l’esecuzione penale, che doveva migliorare non solo la vita interna dei detenuti, ma andare verso un minor ricorso al carcere senza preclusioni, o comunque attenuando rigidi automatismi, basandosi sul giudizio in concreto della persona, al voto per l’inasprimento di pene detentive, e ancor prima a consentire di più il ricorso a misure custodiali, con un ritorno al passato che denota mancanza di comprensione dei fenomeni. E alla fine l’unica risposta possibile è che la questione carcere e giustizia continua a non essere parte di un progetto complessivo, privo di un pensiero che sovrintenda e avvii mutamenti normativi rispettosi di tutte le parti, del principio di legalità, di non colpevolezza, di uguaglianza, del carcere come estrema risposta, di rieducazione, di sicurezza della collettività, di maggior celerità e competenza nel dare giustizia, di terzietà del giudice, e via dicendo. Le battaglie di civiltà sembrano tutte da iniziare ogni giorno più di prima. *Responsabili dell’Osservatorio dei diritti umani, carcere ed altri luoghi di privazione della libertà personale della Camera Penale di Bologna La Polizia penitenziaria vuole i pieni poteri di Francesco Lo Piccolo* huffingtonpost.it, 2 novembre 2019 La Polizia penitenziaria non deve essere subordinata gerarchicamente al direttore del carcere. E lo stesso comandate di istituto non deve avere un rapporto di subordinazione gerarchica con il direttore. Questo il senso di una nota del capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria dove si parla di “rimodulazione dei rapporti gerarchici” che è stata inviata lo scorso 22 ottobre al ministro della Giustizia e alle Organizzazioni sindacali della polizia ma non ai direttori delle carceri o ai loro sindacati. Una nota di dieci pagine che ha per titolo “Schemi di decreti legislativi correttivi del riordino dei ruoli e delle carriere del personale delle Forze di polizia e delle Forze armate”: decreti che saranno portati in parlamento e che di fatto, oltre a riordinare ruoli e carriere, tolgono potere ai direttori delle carceri (art. 9, comma 1, L. 395/90: “Gli appartenenti al Corpo di Polizia penitenziaria hanno doveri di subordinazione gerarchica nei confronti del direttore dell’istituto) per trasferirlo ai comandanti della Polizia penitenziaria. Decreti che di fatto sono il classico “cavallo di Troia” per chiudere con la riforma del 1975 che in grandissima sintesi parla di umanizzazione della pena e di rieducazione e sicurezza garantite dalla figura e dal ruolo del direttore. C’è un punto che la dice lunga sul senso di questa nota, ed è a pagina quattro dove si legge testuale: “previsione che il Comandante di reparto infligga la misura della sanzione”. Non è cosa da poco: significa che non deve più essere tra i poteri del direttore quello di intervenire per avviare l’iter per la sospensione o destituzione dal servizio di un agente in caso di trattamenti nei confronti dei detenuti che non siano in regola col senso di umanità della pena”. In poche righe ecco annullato l’articolo 41, comma 2, dell’Ordinamento penitenziario dove è scritto che “Il personale che, per qualsiasi motivo, abbia fatto uso della forza fisica nei confronti dei detenuti e internati, deve immediatamente riferirne al direttore dell’istituto il quale dispone, senza indugio, accertamenti sanitari e procede alle altre indagini del caso”. Preoccupato così scrive al capo del dipartimento e al ministro Bonafede il segretario nazione dei direttori (Dps) M. Antonio Galati: “incidendo in modo significativo sull’attuale impianto normativo e organizzativo, queste misure vanno a stravolgere i principi di fondo che, sin dalle leggi istitutive dell’Ordinamento penitenziario, hanno, nel tempo, orientato il Legislatore. Un Legislatore che, attento ad assicurare una conduzione degli istituti penitenziari rispondente a principi di equità e umanità, ha affidato al Direttore dell’istituto il ruolo centrale di Garante della Legalità; esigenza riaffermata in sede internazionale con la Raccomandazione R (2006)2 del Comitato dei Ministri degli Stati membri del Consiglio d’Europa sulle Regole Penitenziarie europee cui il sistema penitenziario deve continuare conformarsi”. E ancora Galati: “Depotenziare il ruolo del Dirigente Penitenziario Direttore di Istituto, sottraendogli alcune prerogative - fondamentali per governare con i necessari equilibrio e terzietà, la difficile e complessa realtà penitenziaria - significa non solo violare i principi posti a base delle riforme sopra richiamate, ma anche creare una pericolosa alterazione degli equilibri gestionali, senza, di contro, lasciarne intravedere i vantaggi; significa minare la governabilità degli istituti penitenziari, attesa la indefettibile funzione di coordinamento del Direttore rispetto alla coesistenza delle diverse istanze interne al sistema “carcere” (trattamentali, amministrative, contabili), che devono necessariamente interagire con quella di sicurezza e i cui operatori non possono, ovviamente, riferirsi al Comandante di Reparto quale proprio vertice”. Deriva securitaria in linea con i tempi dunque. Confermata da un post tipo “a noi i pieni poteri” di Salviniana memoria che si trova sulla pagina Fb dell’Associazione dei dirigenti e funzionari della polizia penitenziaria: “è di tutta evidenza che nel sistema penitenziario italiano - finora non gestito dai Dirigenti di Polizia Penitenziaria - oggi si registrino gravi episodi di violenza ed aggressione ai nostri agenti; i detenuti arrivano a chiamare il 112 dalla cella con telefonini di cui illegittimamente sono in possesso… i reclusi saltano le mura di cinta con le lenzuola annodate come nei film e la lista potrebbe proseguire. Qualcuno esalta la terzietà, l’equilibrio e l’imparzialità degli attuali vertici degli istituti penitenziari a vantaggio di una “conduzione rispondente a princìpi di equità ed umanità”, e al contempo vuole porsi a capo di un Corpo di polizia a cui non appartiene. Qualcuno, senza approfondire, parla di profili di incostituzionalità e di eccesso di delega, quando l’unico eccesso di delega che è dato rilevare è quello che ha consentito impropriamente, nel 2017, ad una categoria non appartenente al Corpo di Polizia Penitenziaria di arrogarsi prerogative di un comparto a cui non potranno più fare alcun riferimento non appena si addiverrà alla sottoscrizione del loro contratto”. Un’ultima considerazione e che conferma, anche questa, il senso che viene dato alla pena e che certo non ha nulla a che vedere con i principi della rieducazione e della risocializzazione come è prescritto dalla Costituzione italiana e dalle Convenzione Europee. Si trova nell’Atto di indirizzo politico-istituzionale del ministro Bonafede per l’anno 2020 ed è il punto dove si definiscono i direttori di istituto (così come del resto tutti gli operatori appartenenti al Comparto Funzioni centrali, quindi educatori, amministrativi, contabili etc.) “personale estraneo” all’amministrazione penitenziaria. Francamente parole inquietanti, chiaro ritorno a un’idea di carcere chiuso gestito solo dalla polizia, e dove privazioni e sofferenze fisiche sarebbero gli strumenti per favorire il pentimento e la rieducazione del reo. Altro che pre-1975, qui siamo al carcere degli anni Trenta. *Giornalista, direttore di “Voci di dentro” La dipendenza gerarchica del personale penitenziario non diventi questione ideologica lameziaoggi.it, 2 novembre 2019 Anche la Uil-Pa Polizia Penitenziaria interviene sulle polemiche che stanno imperversando circa la bozza di decreto legislativo che prevede, in casi limitati e ben circoscritti, il venir meno della dipendenza gerarchica del Comandante della Polizia penitenziaria dal Direttore del carcere. A parlare è il massimo esponente, Gennarino De Fazio, che invita a un approccio sereno ed equilibrato, senza farne una questione ideologica. “Il carcere - esordisce De Fazio - è un luogo di muri per antonomasia, non serve erigerne altri, se mai chi ha a cuore le libertà democratiche, il rispetto della dignità delle persone detenute, l’affermazione della legge e la difesa della Costituzione deve contribuire ad abbatterli”. “Purtroppo - prosegue il rappresentante della Uil-Pa Pp - si sta facendo del tema una questione ideologica, come se ci fossero i ‘buoni’ (i direttori penitenziari) e i ‘cattivi’ (i comandanti della Polizia penitenziaria) e, soprattutto, come se i buoni fossero tutti da una parte e i cattivi tutti dall’altra. In realtà, direttori e comandanti sono servitori dello Stato che quotidianamente e con diuturna abnegazione fanno del loro meglio per garantire la legalità e l’umanità all’interno delle carceri, di cui la politica e l’opinione pubblica si interessa poco, male e solo in determinate circostanze”. “La dipendenza gerarchica in senso stretto - spiega ancora De Fazio - è rinvenibile solo nei corpi militari e in quelli con organizzazione di tipo militare. Che un dirigente di polizia sia gerarchicamente dipendente da un altro dirigente che non appartiene alla stessa polizia è un unicum nel nostro ordinamento. La riforma attualmente all’esame delle commissioni parlamentari (che complessivamente non ci piace affatto) sul punto prevede semplicemente che il Comandante della Polizia penitenziaria, solo quando sia primo dirigente (circostanza che si potrà concretizzare in limitati casi e solo dopo l’anno 2023), sia sciolto dalla dipendenza gerarchica nei confronti del Direttore, il quale mantenendo la supremazia funzionale continuerà a essere in ‘capo’ indiscusso del carcere e risponderà a pieno titolo alle esigenze di garanzia di cui anche alle raccomandazioni del Consiglio d’Europa”. “Dallo svincolo dalla dipendenza gerarchica, in realtà, deriveranno per il Comandante solo poche facoltà gestionali, nell’ambito delle direttive impartite dal Direttore, e, si badi bene, qualche libertà in più nel rivolgersi ai superiori, alla magistratura, anche di sorveglianza, e all’esterno. In sostanza - sostiene dunque De Fazio - maggiore equilibrio, maggiore trasparenza, se si vuole, un aggiustamento del sistema di ‘pesi e contrappesi’, che oltretutto, attribuendo finalmente responsabilità dirigenziali al primo dirigente, muove verso il perseguimento compiuto dell’efficienza e dell’efficacia dell’azione amministrativa”. “In altre parole, quella che sta passando come una possibile ‘deriva securitaria’ è in realtà una riforma che vuole favorire maggiori garanzie e trasparenza. Trasparenza che da sempre ispira l’azione della Uil-Pa Polizia Penitenziaria, la quale ha coniato lo storico slogan ‘abbattere le mura dei misteri, per abbattere i misteri di quelle mura’, e che si auspica orienti il pensiero di ciascuna delle componenti del carcere. Invitiamo tutti, pertanto - conclude il leader della Uil-Pa Pp - ad abbassare i toni ed a contribuire a un confronto serio e pacato, scevro da pregiudizi e condizionamenti, che favorisca l’individuazione delle migliori soluzioni nell’interesse comune di dare un senso al sistema di esecuzione penale del Paese, in piena aderenza all’art. 27 della Carta costituzionale”. Replica all’articolo “Cambia la gerarchia nelle carceri…”, di Damiano Aliprandi di Donato Capece* Sappe Informa, 2 novembre 2019 Abbiamo letto con stupore i contenuti dell’articolo de Il Dubbio “Cambia la gerarchia nelle carceri: viene meno il ruolo di garanzia del direttore”, firmato da Damiano Aliprandi, che commenta l’iniziativa di alcuni direttori penitenziari, che non vestono l’uniforme della Polizia Penitenziaria, non hanno alcuna preparazione e/o attitudine di polizia e né hanno superato alcuna selezione per entrare a farne parte. Cosa lamentino i dirigenti penitenziari non è davvero dato comprendere. C’è chi parla di possibile “deriva securitaria” quando nel sistema penitenziario italiano - finora gestito dai direttori penitenziari - oggi si registrano gravi episodi di violenza ed aggressione ai nostri agenti; i detenuti arrivano a chiamare il 112 dalla camera detentiva con telefonini di cui illegittimamente sono in possesso; le situazioni strutturali sono al collasso; la gestione delle relazioni sindacali e del benessere del personale è ai minimi storici con elevatissima conflittualità sindacale; i reclusi saltano i muri di cinta con le lenzuola annodate come nei film, e la lista potrebbe proseguire. Esaltano la terzietà, l’equilibrio e l’imparzialità dei vertici degli istituti penitenziari a vantaggio di una “conduzione rispondente a princìpi di equità ed umanità”, però al contempo ed incoerentemente i dirigenti penitenziari vogliono continuare a stare a capo di un Corpo di polizia a cui non appartengono e che hanno condotto allo sbando, spesso anche a causa di una fuorviante deriva ideologica. Vogliono soprattutto continuare ad edificare le loro carriere sulle spalle della Polizia Penitenziaria, agganciandosi però agli istituti normativi della Polizia di Stato nelle more dell’adozione del loro primo contratto, senza però richiamare il trattamento giuridico ed economico della Polizia Penitenziaria, di cui chiedono di continuare a restare superiori gerarchici. Molti dei firmatari della missiva sono ex collaboratori dei direttori di istituto, spesso impiegati in mansioni di segreteria, i quali, grazie alla legge Meduri, sono diventati dirigenti e oggi godono dei benefici delle Forze di Polizia, senza essere poliziotti. L’ordinamento riconosce loro la responsabilità della sicurezza degli istituti, senza possedere alcuna qualifica che ne legittimi l’attribuzione ma, soprattutto, senza alcuna formazione specifica. Non si comprende, dunque, quali siano le peculiarità dei dirigenti penitenziari rispetto ai dirigenti della Polizia penitenziaria, considerato che questi ultimi sono tutti portatori di una elevata cultura giuridica, visto che sono laureati in giurisprudenza e hanno tutti almeno un master, alcuni hanno anche più di una laurea. Più che essere noi “parte di una deriva securitaria” sono loro parte di una deriva ideologica che vorrebbe eliminare le carceri e la polizia, lasciando i delinquenti in giro per le strade. Noi auspichiamo che il Ministro della Giustizia Bonafede continui a porre attenzione alla crescita del Corpo di Polizia Penitenziaria e condivida con noi l’esigenza, ormai avvertita da tutti, di addivenire al più presto all’unificazione della dirigenza, con possibilità di transito dei dirigenti penitenziari in altre amministrazioni, qualora non volessero entrare a far parte del Corpo; tale modifica ordinamentale dovrebbe prevedere anche l’istituzione dei ruoli tecnici dei medici, degli psicologi, dell’area socio pedagogica e amministrativo contabile. È giunto il momento che i Vertici dell’Amministrazione provengano dal Corpo di Polizia Penitenziaria. *Segretario generale Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe Alcuni magistrati e “Il Fatto Quotidiano” lanciano un appello contro… la Consulta di Paolo Comi Il Dubbio, 2 novembre 2019 Il “Fatto Quotidiano” ha lanciato un appello nel quale chiede al governo un decreto per bloccare la decisione della Consulta che ha dichiarato incostituzionale l’ergastolo ostativo (pena, feroce, che esiste solo in Italia, tra i paesi europei, e che infatti è stata già condannata due volte dalla Corte di Strasburgo, e che viola, effettivamente, oltre alla Costituzione italiana anche i principi essenziali del diritto). Il “Fatto” chiede che la Costituzione sia messa in mora direttamente dal governo, con un decreto. Un decreto che modifichi la Costituzione e delegittimi la Consulta. Senza neanche passare per il Parlamento. Non è una iniziativa da sottovalutare, perché il “Fatto” è il giornale che controlla il principale partito di governo, e cioè i 5 Stelle. L’appello del “Fatto” è sostenuto apertamente da alcuni magistrati (tra loro Nino Di Matteo, Nicola Gratteri, Sebastiano Ardita ed altri esponenti di quello che in genere viene riconosciuto come il partito dei Pm). Nella storia politica italiana non risultano precedenti. E cioè iniziative di magistrati che chiedono il rovesciamento di una decisione della Corte Costituzionale. Senza voler eccedere nella polemica, però è del tutto evidente il valore eversivo dell’iniziativa del giornale di Travaglio. Che oltretutto, con una decisione francamente molto discutibile quantomeno sul piano del costume giornalistico, è stata sottoscritta - si suppone con una qualche forzatura della volontà individuale - dall’intera redazione del giornale. Anche questo, credo, è un inedito nella storia del giornalismo italiano. L’iniziativa del “Fatto” apre uno scontro politico che ormai è difficile negare. Tra tutti coloro che si schierano a difesa dei valori fondamentali della Costituzione italiana, e cioè la consacrazione dello Stato di diritto (e non sono certo la maggioranza, né nel mondo politico né nell’opinione pubblica) e un fronte di forze abbastanza ampio che invece si schiera apertamente per una società sostanzialmente autoritaria, governata dalla magistratura con il metodo della repressione e dell’abolizione delle garanzie. Finora non si sono sentite molte reazioni all’iniziativa contro la Costituzione. Pare che non si siano mobilitati i professori che consideravano sovversiva la proposta di Renzi di abolire il Senato. È probabile che nei prossimi giorni si faranno sentire, però è solo probabile: non è sicuro. Ergastolo ostativo: le modifiche da fare di Giacomo Costa* Il Fatto Quotidiano, 2 novembre 2019 Dopo la sentenza della Corte costituzionale sull’ergastolo ostativo: perché e come modificare l’articolo 4bis. 1. L’articolo 27 della Costituzione non parla delle funzioni delle pene. Quali che esse siano, dice che “devono tendere alla rieducazione del condannato”. Nell’interpretazione corrente si deve trattare di una rieducazione morale che gli permetta di riprendere il suo posto in società. Un corollario di questa interpretazione è che non vi può essere piena attuazione dell’ergastolo: sennò come avverrebbe la reintegrazione che è il fine della rieducazione? Un secondo corollario è che l’apparato giudiziario-carcerario deve istituire un sistema di monitoraggio dei comportamenti dei detenuti, per registrare i progressi compiuti. Probabilmente questa concezione è fondata sulla credenza che i delinquenti si siano formati malamente a causa delle disastrate condizioni socio-economiche di origine. Questa credenza non è generalmente vera. Inoltre, la delinquenza può essere il risultato di elaborate dottrine o di convinzioni lungamente medita. 2. La Corte costituzionale ha prodotto un’importante sentenza, della cui motivazione è stata anticipata una breve sintesi. Gli ergastolani mafiosi o terroristi non erano sinora ammessi, in base all’articolo 4bis comma 1 dell’Ordinamento penitenziario, alla concessione di benefici penitenziari (permessi premio, lavoro esterno, semilibertà, libertà condizionata) se non avessero deciso di collaborare con la magistratura. Ora, osserva la Corte, ciò che va evitato è “l’attualità della partecipazione all’associazione criminale” e “il ripristino di collegamenti” con essa. La collaborazione con la giustizia è una prova sufficiente della decisione di non rinnovare tali contatti, ma non necessaria: “Se si possono acquisire elementi tali da escludere” la ripresa dei contatti, il divieto cade. Quali sarebbero tali “elementi”? Qui la Corte si fa più vaga. Non ne fornisce un solo esempio. Quali questi “elementi” siano, che occorrano o no, spetta al magistrato di sorveglianza stabilirlo, in base alla relazione del carcere e alle informazioni e pareri di varie autorità di sorveglianza (l’apparato inquisitoriale di cui si diceva). 3. Ora finalmente “tocca ai giudici giudicare!” esulta Luigi Manconi su Repubblica del 24 ottobre. Ma di solito il giudice giudica applicando la legge, ossia, i criteri suggeritigli dalla legge: che qui mancano! Osserva Hans Kelsen ne “Il problema della giustizia” (pagine 52-53) che di solito “ci si rifiuta di vincolare gli organi che applicano il diritto con norme generali…e di affidare ogni cosa alla loro discrezionalità, affinché possano trattare ogni caso concreto conformemente alle sue peculiarità”. Ma nel nostro caso non è questo il fine: la Corte delega al magistrato la ricerca di quei criteri sostitutivi della collaborazione di cui essa ha astrattamene ipotizzato l’esistenza, ma che non ha saputo individuare. 4. Gli ex magistrati Caselli, Ingroia e altri, hanno sottolineato che, per la natura non dei singoli uomini, ma dell’organizza zione mafiosa, l’appartenenza alla mafia è per sempre. Se ne esce o da morti, o da collaboratori di giustizia. La Corte costituzionale non è d’accordo, evidentemente, e si può simpatizzare con il suo sussulto in difesa della revocabilità della propria carriera criminale. Ma non indica alcun modo alternativo di compiere il troncamento. Resta, io temo, al magistrato solo la lettura dell’animo dell’ergastolano mafioso: affidata a un soggetto che nulla qualifica per questo difficile, forse impossibile incarico. Il ruolo del magistrato non è affatto “valorizzato” da questa micidiale delega che meglio si potrebbe affidare a una chiromante. 5. Tuttavia la sentenza è irrevocabile. Giovedì sul Fatto Quotidiano è uscito un appello per limitarne i danni potenziali: come? A mio avviso conviene restare aderenti all’impianto ipotetico adottato dalla sentenza, conservandone pienamente lo spirito. Il comma 1 dell’articolo 4bis andrebbe così integrato: “I detenuti finora esclusi dai benefici carcerari a causa della loro mancata dissociazione dalle bande criminali di appartenenza possono farne richiesta allegando la documentazione degli atti da loro compiuti dai quali si possa inferire la cessazione definitiva dei loro rapporti con esse”. Le domande dovrebbero essere esaminate da una commissione di almeno 5 persone, che non comprendano il magistrato di sorveglianza. *Ex professore di Economia Politica all’Università di Pisa Ecco perché quel “no all’ergastolo ostativo” è in contrasto con la Costituzione di Fabio Taormina La Repubblica-Palermo, 2 novembre 2019 La Grande camera della Corte europea dei diritti umani, l’8 ottobre, ha respinto il ricorso presentato dall’Italia contro la sentenza del 13 giugno 2019 n. 77633 nella quale era stato stabilito che la condanna al carcere a vita “ostativo” - senza poter accedere a permessi e benefici - viola l’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti umani (diritto a non essere sottoposti a trattamenti inumani e degradanti). Questo il punto centrale della motivazione: “L’ergastolo ostativo limita eccessivamente la prospettiva di liberazione dell’interessato e la possibilità di un riesame della sua pena. Pertanto, tale pena perpetua non può essere definita riducibile ai fini dell’articolo 3 della Convenzione”. Ciò in continuità con una decisione del 2017 in cui la Corte Edu aveva affermato che “per essere compatibile con l’articolo 3, tale pena deve essere riducibile de jure e de facto, ossia deve offrire una prospettiva di scarcerazione e una possibilità di riesame”. Pochi giorni dopo, il 23 ottobre, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4bis, comma 1, dell’ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevede che all’ergastolano possano essere concessi permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia. In attesa di conoscere la traiettoria motivazionale del giudice costituzionale, è opportuno rilevare che l’approdo della Corte Edu non sembra né intrinsecamente coerente né conciliabile con l’articolo 27 della Costituzione (“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”). Sotto il profilo della coerenza “intrinseca” è necessario chiedersi cosa si intenda per “rieducazione”: è concetto autonomo e soggettivo, che attiene alla persona del condannato? O è valore intersoggettivo in funzione del suo reinserimento sociale? Insomma: rieducazione è sinonimo di “risocializzazione”? Nel 2016 la Corte Edu teorizzò tale “equazione” (pur ammettendo che non fosse esplicitamente rinvenibile nella Carta dei diritti umani) facendo riferimento alla giurisprudenza costituzionale tedesca secondo cui il rispetto della dignità umana comporta che “l’esecuzione di una pena detentiva perpetua debba lasciare al detenuto una possibilità concreta e realistica di ritrovare un giorno la sua libertà”. E, di converso, che lo Stato “colpirebbe nella sua essenza la dignità umana se privasse un detenuto di qualsiasi speranza di ritrovare la sua libertà”. Sembrerebbe quindi che un essere umano sia “sociale” o, semplicemente, non sia. In passato, però, la Corte Edu ciò ha negato: in relazione all’aiuto al suicidio (sentenza 29 aprile 2002), ha concluso che dal diritto alla vita, garantito dall’articolo 2 della Cedu, non possa derivare il diritto di rinunciare a vivere, e dunque un vero e proprio diritto a morire, anche in relazione a patologie che precludano ogni socializzazione. Quanto al rapporto con l’articolo 27 della Costituzione, il contrasto è trasparente: “rieducazione” equivale a emenda morale attraverso l’espiazione della pena; il detenuto può comprendere il disvalore della propria condotta anche non relazionandosi con la società esterna; tanto, in armonia con una considerazione della “persona” (articolo 2 della Costituzione) che prescinde dall’inserimento “sociale” di quest’ultima, e non è da ciò condizionata. Restando al sistema italiano, i travagli giurisprudenziali e legislativi (legge n. 219 del 2017) in tema di eutanasia costituiscono testimonianza dell’aspirazione alla considerazione della persona umana slegata dalle proprie possibilità “sociali”. A questo punto, non resta che una considerazione, e un auspicio: è quanto meno parziale sostenere che il veto all’ergastolo ostativo esalti la tutela della persona: semmai, esso considera l’essere umano in chiave “sociale”, ma non sembra che ciò sia armonico con l’attuale sistema costituzionale. E peraltro, se a tale dictum della Corte Edu ci si volesse conformare sino in fondo, non resterebbe che abrogare l’ergastolo in quanto “disumano” perché “perpetuo” (articolo 22 del codice penale). Con quante nocive conseguenze in punto di deterrenza dissuasiva, speriamo di non doverlo scoprire mai: è preferibile un sano equilibrismo dialettico che un depotenziamento delle esigenze di difesa della collettività da criminali senza coscienza né dignità quali certamente sono, per primi, i mafiosi. *Presidente di sezione del Consiglio di Stato Morra (M5S): “Servono norme raffinate per negare i permessi ai boss” di Gianni Barbacetto Il Fatto Quotidiano, 2 novembre 2019 Il presidente della Commissione parlamentare antimafia, Nicola Morra, dopo gli stop di Strasburgo e della Consulta all’ergastolo ostativo sta lavorando a una proposta legislativa che rispetti la decisione della Corte costituzionale sull’ergastolo ostativo, ma non indebolisca la lotta alla mafia. Come giudica gli interventi della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte costituzionale italiana, che hanno smontato la norma che subordinava la concessione dei benefici penitenziari alla collaborazione con la giustizia? È un dramma, perché non si riconosce la pre-esistenza alla nascita dello Stato unitario italiano di alcune consorterie che hanno nel loro statuto un’identità in netto contrasto con lo Stato, monarchico prima e repubblicano poi. La legislazione antimafia è datata 1982. Prima non esistevano le organizzazioni mafiose? Esistevano eccome. Rocco Chinnici sottolineava che Cosa Nostra rappresentasse un formidabile strumento di conservazione di equilibri sociali. Gratteri e Ciconte hanno dimostrato come le strutture di ‘ndrangheta fossero funzionali a chi gestiva il potere. Roberto Scarpinato ricorda che nella nostra storia repubblicana c’è un filo sotterraneo che si chiama stragismo, in cui le organizzazioni mafiose hanno svolto un ruolo da protagoniste, fin da Portella della Ginestra. Dunque, dobbiamo renderci conto che, come ci ripete Nando dalla Chiesa, siamo in guerra, una guerra non dichiarata con organizzazioni in netto contrasto con la Costituzione. La nostra legislazione antimafia serviva a riconoscere questo stato di perenne conflitto e a rendere le organizzazioni criminali più deboli, attraverso un trattamento penitenziario che, dopo la cattura dei mafiosi, spezzi i loro legami con l’organizzazione. Che cosa fare, allora, concretamente? L’appello del Fatto Quotidiano è stato firmato già da 43 mila persone… Noi stiamo lavorando al testo di un disegno di legge. Ci sono varie opzioni che sto approfondendo coi miei consiglieri. Manderò il testo a tutti i colleghi del Movimento 5 Stelle che sono in Commissione Antimafia, in Commissione Giustizia, in Commissione Diritti umani e in Commissione Affari costituzionali. Già ieri, io e il collega Mario Giarrusso abbiamo cercato di ragionare, nell’assemblea del Movimento, sui pro e i contro di cui dobbiamo tener conto. I pro e i contro? Sì, perché dobbiamo avere grande equilibrio e grande raffinatezza giuridica, dobbiamo tener conto delle indicazioni della Corte costituzionale, anche se raggiunte a stretta maggioranza, otto a sette. Dobbiamo rispettare le indicazioni della Consulta, senza creare una situazione di conflitto con la Corte. Dobbiamo saper coniugare le esigenze, ravvisate dai giudici costituzionali, di tutela di una rieducazione che deve essere garantita, come vuole la nostra Costituzione, a tutti i detenuti, con le esigenze di tutela della societas per cui un mafioso continua a esserlo a vita, a meno che non si allontani dall’organizzazione criminale o non ne sia allontanato, perché passato dall’altra parte. Lei in questi giorni è in Calabria a incontrare e discutere con gli attivisti del Movimento 5 Stelle. State decidendo che cosa fare alle prossime elezioni regionali? Un’alleanza con il Pd? l Movimento 5 Stelle è nato in funzione pre-politica, etica, in difesa della legalità. Questo dovrebbe tenere insieme tutti, destra e sinistra. Ora, io rispetto tutti gli elettorati, di destra e di sinistra, perché ogni elettore merita rispetto. Ma poi devo tener conto della realtà: accanto agli elettorati, ci sono gli apparati di partito. E l’apparato del Partito democratico in Calabria ha delle responsabilità politiche e morali enormi, tant’è che lo stesso Partito democratico nazionale ha deciso di rompere con l’attuale governatore della Calabria, Mario Oliverio. Noi del Movimento dobbiamo tornare a essere non tanto la terza via, che è quella che si aggiunge alle due precedenti, ma tornare ai diritti-doveri della nostra Costituzione e che tutti, destra e sinistra, debbono riconoscere. Valorizzando i gruppi e le organizzazioni sociali sul territorio. Ma mi chiedo: in Calabria quali e quante reti sociali esistono? Ci sono poche associazioni e molto individualismo. Io vorrei che il Movimento diventasse il motore di una nuova socializzazione. Potreste trovare una convergenza su una figura come Callipo candidato presidente della Calabria? Non è il problema di un singolo. Io conosco e stimo Pippo Callipo, ma ritengo sbagliato fare riferimento a una sola persona. Tu puoi avere Maradona, ma lo scudetto lo vinci solo se attorno a Maradona ci sono Giordano, Garella, Careca, Bagni e tutti gli altri. Violante: “Giusto rinviare il blocco della prescrizione” di Carlo Fusi Il Dubbio, 2 novembre 2019 L’Ex presidente della Camera condivide i dubbi del Cnf. Lo sguardo lungo di Luciano Violante dribbla le polemiche e gli scontri sulla manovra economica (“Ci sono sempre stati, nei governi di coalizione sono fisiologici, perché meravigliarsi?”) e plana sulle questioni di fondo che agitano l’Italia. A partire dalla necessità di ritrovare la connessione tra una politica troppo disinvolta che snobba l’obbligo di spiegare ai cittadini le sue scelte: un esempio clamoroso è l’intesa di governo tra M5S e il Pd; alla “rifondazione” che Zingaretti ha annunciato; ai nodi della giustizia, compreso lo stop alla prescrizione. “Considerando che la magistratura è sotto organico, il magistrato cerca di fare quello che può evitando di ricorrere alla prescrizione. La mia proposta è questa: perché non si va nei singoli tribunali a vedere perché si prescrivono i processi, a verificare cosa manca nel singolo distretto, nel Tribunale? Eppure, presidente, c’è chi nella maggioranza agita le divaricazioni sulla legge di Bilancio per trovare visibilità e chi mette ogni giorno i bastoni tra le ruote. Il metodo “salvo intese” non è l’anticamera della crisi? Dobbiamo riflettere sul tono di una parte del M5S; mostrandosi aggressivi si cerca di riconquistare una centralità politica che purtroppo si riduce. Ma fare l’opposizione al governo di cui si è parte non è salutare per nessuno neanche per i cittadini, nei cui confronti c’è il dovere di essere chiari. Forse pesa il risultato dell’Umbria, dove i Cinque Stelle sono precipitati a percentuali di una cifra... L’esperienza umbra è stata per il M5s particolarmente dannosa. Bisogna tuttavia considerare che lì la destra già governava alcune delle principali città e c’era stata la vicenda della sanità che nelle polemiche elettorali non c’è stato modo di risistemare. Ma ora Luigi Di Maio afferma che l’accordo con il Pd a livello regionali non è più riproponibile. E come si fa a governare assieme a Roma e poi divaricarsi in periferia? Quando si fa una scelta impegnativa, il governo con il Pd, tirarsi indietro dopo tre mesi dopo una sconfitta, non conforta l’elettorato e non consolida la leadership. Anzi dà l’idea di un’incertezza. Lo dico perché il M5S ha rappresentato una parte grande del Paese che si è sentita esclusa, marginalizzata. Precipitare di elezione in elezione è preoccupante, ma cambiare direzione in corsa forse non aiuta… Non si capisce peraltro in che direzione porterebbe questo cambiamento: con la destra hanno già governato ed è andata male; e da soli non hanno più i voti… Penso si debba partire da una considerazione più di fondo. Il 50% circa degli elettori del M5S non ha votato altri partiti, ma si è astenuto. La sconfitta è stata determinata dalla non partecipazione al voto. Allora mi chiedo: si è spiegato agli italiani e in particolare agli umbri perché si è fatta questa alleanza? Gli astenuti possono essere recuperati; ma offrendo loro un ragionamento serio per spiegare la scelta, ascoltando le obiezioni e replicando, se si è capaci. Altrimenti rischi di perdere anche il 50% dell’elettorato che ti ha votato. Questa operazione verità la deve fare solo Di Maio o anche il Pd? Ance il Pd. Circa il 30% degli elettori non lo ha votato; non ha scelto altri, ma si é astenuto. Chi si astiene, vale anche il M5S, può certamente essere convinto a tornare al voto, ma solo attraverso una paziente ed umile opera di spiegazione. I dirigenti del Pd, così anche quelli di M5S, dovrebbero andare nelle principali città italiane e spiegare al Paese perché si sono fatte certe scelte e quali sono gli obbiettivi. La politica è una continua azione di pedagogia reciproca tra chi parla e chi ascolta. Chi ascolta deve poter parlare e chi parla ha il dovere di ascoltare. Non sono sufficienti gli interventi nei talk show o le interviste sui media. L’annuncio di Zingaretti di voler rifondare il partito del partito va in questa direzione oppure non è sufficiente? Può darsi che sia giusto. Ma io credo che sia prioritaria spiegazione all’elettorato delle scelte che si fanno. Rifondazione mi sembra una parola abusata: è dagli anni ‘ 90 che viene ciclicamente riproposta: i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Al contrario, non abbiamo mai spiegato con chiarezza il tema del rapporto del Pd con il comunismo. Cosa intende? Voglio essere chiaro. Io sono stato comunista, forse lo sono ancora in qualche spazio della mia coscienza. Ma un partito politico ad un certo punto deve prendere con nettezza le distanze da quello che ha lasciato. La tradizione comunista, storicamente e politicamente, è una via chiusa. Ora la sinistra deve proseguire sul terreno socialdemocratico. È un nodo da sciogliere. Lei ritiene che ci sia ancora uno spirito comunista dentro il Pd? No. Sarebbe archeologia. Del resto basta guardare i quadri dirigenti di quel partito e le leadership che si sono succedute. La fascia operativa ha in media quarant’anni: nulla a che vedere con ciò che è accaduto dopo il crollo del Muro di Berlino. Spieghiamo meglio. Secondo lei è necessario per il Pd tagliare i ponti con il passato e costruire un’agenda per il futuro e un’idea di Paese partendo dalla rivisitazione e abbandono della tradizione ideale del comunismo? Il mio suggerimento è che bisogna superare le ambiguità. È chiaro che non abbiamo più niente a che fare storicamente con quell’esperienza, che il mondo è cambiato radicalmente, che le società sono mutate profondamente. Dunque anche i gran- di temi dell’azione politica sono cambiati. È un fatto obbligato: solo il cristianesimo dura da 2.000 anni. Il comunismo era figlio di una certa stagione che è terminata. La sinistra è in difficoltà dappertutto, Francia, Germania, Usa; l’Italia è nella regola anzi forse sta meglio di altri. Per un verso ci vuole una spiegazione di quello che si sta facendo, per l’altro ci vuole una presa di distanza dal passato. Il comunismo italiano è stato nettamente diverso da quello sovietico; ma questa diversità non è sufficiente. Un partito socialdemocratico è ciò che serve. Il PD non può essere una riedizione del cattocomunismo. Ogni volta che cambi nome cambi identità, segno di incertezza rispetto a quello che sei; ma l’identità va abbandonata o spiegata; non va messa nel cassetto. Il comunismo è stato insieme un grande strumento di liberazione e di oppressione. Nel mondo è stato strumento di libertà all’opposizione e di oppressione quando ha governato. A proposito del rapporto con i Cinque Stelle: quale sistema elettorale è il migliore per realizzare questa prospettiva, il maggioritario o il proporzionale? Nell’esperienza italiana secondo me la legge migliore è quella proporzionale con alta soglia di sbarramento, tipo al 5%. Perché il maggioritario dà un eccessivo potere contrattuale alle piccole forze, che diventano indispensabili quando si aggiungono alle grandi per conquistare i collegi. E poi a successo ottenuto (o anche in caso di sconfitta) se ne vanno per conto loro. Lo ha fatto Rifondazione comunista; lo ha fatto l’Udc di Mastella. Invece un meccanismo elettorale proporzionale con adeguato sbarramento taglia via le forze non rappresentative. Nella campagna elettorale per le elezioni politiche ciascuno deve spiegare chiaramente il programma. Dopo le elezioni chi ha maggiore capacità di coalizione va al governo e se va male i cittadini avranno modo di cambiare alle elezioni successive. In ogni elezione, a livello regionale, comunale e politico, bisogna avere un obiettivo preciso: la governabilità della realtà per la quale si concorre. Quella realtà, ad esempio la Regione, è diversa da altre. Ovviamente quando si ripetono gli scossoni nel sentire pubblico, il governo deve tenerne conto. La mia idea è che il sistema elettorale proporzionale serve per fare un ragionamento di respiro più ampio. Il collegio favorisce il rapporto con l’elettore, ma riduce il dibattito politico a questioni minori, intimamente legate a quel perimetro. Con la riduzione dei parlamentari poi, i collegi del Senato saranno composti da circa 300 mila persone. Considerando che ci sono almeno sei mila comuni sotto i 5000 abitanti, quanto costerà una campagna elettorale? Chi pagherà? A mio avviso la riduzione del numero dei parlamentari deve spingere ad abbandonare l’idea dei collegi. Naturalmente non esiste la legge elettorale taumaturgica. La legge elettorale serve soltanto a trasformare i voti in seggi. Cosa poi si fa con quei seggi conquistati, dipende dai partiti. Ecco, appunto. Non è un altro aspetto della crisi italiana l’inesorabile declino dei partiti? A mio avviso, parlare di crisi dei partiti non è sufficiente. In realtà c’é un assaggio sociale s in corso, dalla società analogica verso la società digitale. Solo i Cinque Stelle se ne sono resi conto. L’ha capito anche Matteo Salvini, con intelligenza: giocando sui social e sulla campagna tradizionale, rimbalzando gli effetti dell’uno sull’altra. Quei due soggetti politici si stanno già muovendo in una società diversa, digitale appunto. Anche gli altri partiti dovrebbero accorgersene. Veniamo alla giustizia. Il presidente del Cnf, Andrea Mascherin, ha chiesto al ministro Bonafede la sospensione dell’entrata in vigore della prescrizione. Sul tema della giustizia, su cui Pd e Cinque Stelle parlano linguaggi diversi, a volte opposti, quale sintesi è possibile? Il principio da cui partire è che non puoi avere un sistema che crea imputati a vita. Si determinano conseguenze paradossali: a quel punto, infatti, che bisogno c’è di fare i processi? Considerando che la magistratura è sotto organico, e che la politica da sempre nuovi compiti, il magistrato cerca di fare quello che puoi evitando di ricorrere alla prescrizione. La mia proposta è questa: perché non si va nei singoli tribunali a vedere perché si prescrivono i processi, a verificare cosa manca nel singolo distretto, nel Tribunale? Ci saranno dei dati da studiare e bisognerà verificare anche le ragioni del mancato funzionamento: se è per inerzia, incapacità, o mancanza di mezzi. Se non si va alla radice dei problemi, non si riesce a risolverli. Le realtà dei Tribunali sono diverse da zona a zona. Ma visto che la riforma della prescrizione entra in vigore a gennaio, bisogna sospenderla o no? La mia idea è rimandarla di un anno, per verificare nel frattempo le condizioni reali dell’esercizio della giustizia. Io lo dico così: non è sbagliato porre il problema da parte dei Cinque Stelle. È sbagliata la soluzione. Le toghe, bersaglio facile di Errico Novi Il Dubbio, 2 novembre 2019 L’articolo de “La Verità” contro giudici e avvocati dimentica le riforme incompiute. Ma perché dobbiamo leggere ancora una volta un’accusa generica, indiscriminata, raffazzonata sparata nel presunto mucchio selvaggio della giustizia? Perché un giornale attento come La Verità si lascia andare nella titolazione di un’intervista fino a rovesciarla in un’avvelenata contro i suoi colleghi, “Magistrati, avvocati e università hanno ucciso la nostra giustizia”? Si fa fatica a capirlo. Anche perché in tutta la pure interessante conversazione con il legale fiorentino Eraldo Stefani firmata ieri da Marcello Mancini sul quotidiano di Maurizio Belpietro, aleggia una certa fascinazione esterofila. Dall’accostamento di Stefani a Perry Mason alla lamentela per le ingolfate aule dei tribunali, a quel disfattismo declinista antitaliano che ormai sceglie sempre più spesso la giurisdizione come bersaglio preferito. E poi soprattutto, l’idea secondo cui non è l’assetto ordinamentale a fare acqua da tutte le parti ma la condotta dei protagonisti, cioè appunto magistrati, avvocati e al limite accademici. Non una parola sul fatto che sì, è vero, l’avvocato ha poteri investigativi, eppure il ruolo del pm nella fase delle indagini è così smisurato da negare spesso il valore e la praticabilità stessa dell’attività difensiva. Non una parola sulle sentenze che hanno menomato nella culla il compianto (anche dall’intervista) modello processuale accusatorio, non una parola soprattutto sulle incompiutezze del sistema a cui persino negli ultimi mesi ci si è rifiutati di rimediare. Esempio: è vero che il codice del 1989 funziona male. Ma è vero pure che a detta di magistrati e avvocati, voluti da Bonafede al tavolo per la riforma, la soluzione era chiara: primo depenalizzare, e sul punto nessuna parte politica è davvero disponibile a esporsi; secondo, rafforzare il ruolo del giudice nell’udienza preliminare, evitare cioè che tale decisivo passaggio del procedimento si riduca a insulso passaggio di carte; terzo, cosa decisiva, rafforzare, cioè rendere più appetibili i riti alternativi, innanzitutto il patteggiamento. Ma qui ancora una volta è la scelta politica che piccona le risorse dell’ordinamento, perché proprio al sopracitato tavolo sulla riforma un partito della vecchia maggioranza, la Lega, ha fatto pervenire il proprio insuperabile veto sull’ipotesi di allargare il patteggiamento e rafforzarne i contenuti premiali. D’altronde, lo stesso partito aveva ottenuto, con la stessa maggioranza di allora, che il ricorso a un altro prezioso rito alternativo quale l’abbreviato fosse escluso per i reati da ergastolo, con conseguente micidiale ingolfamento delle Corti d’assise. E nell’ultimo caso non si parla di propositi riformatori: si tratta di una legge in vigore dallo scorso aprile. Ecco: ci dite per piacere come si può sostenere che, se il processo penale accusatorio non decolla mai davvero, è per colpa di magistrati e avvocati? E poi, l’attacco ormai sistematico alle toghe, a quelle della magistratura come alle toghe dei difensori, lascia sempre più chiaramente scorgere altri retro-pensieri, che c’entrano davvero poco con la capacità dell’avvocato di svolgere indagini alla Perry Mason. Qui il punto è il fastidio per il procedimento penale in quanto tale. Che è avvertito ormai come forma di impostura rispetto al processo vero, quello mediatico. E quello sì che funziona. Le indagini difensive non le fa neppure il penalista ma direttamente la tv. Ci piace tanto. E allora rinunciamo del tutto alle aule di giustizia. Rottamiamo le toghe. E mettiamoci davanti a uno schermo per ascoltare la sentenza. Arriverà sicuramente in tempi più brevi e senza calca nei corridoi. Giusto l’attesa per il super spot. Giustizia non è separare le carriere di Giacomo Urbano* Il Fatto Quotidiano, 2 novembre 2019 In questi giorni, è in discussione alla Camera dei deputati il ddl costituzionale denominato “Norme per l’attuazione della separazione delle carriere giudicante e requirente della magistratura”. Se fosse approvata questa netta distinzione degli ambiti ordinamentali, organizzativi e disciplinari, determinerebbe la fine della magistratura costituzionale così come la conosciamo, esempio di equilibrio e garantismo unico nel mondo occidentale. Il senso di questo decalogo, se si vuole generalista, sentimentale, nostalgico, è quello di dare voce alle ragioni del No, con la convinzione che di certo questa riforma non porterebbe a un migliore assetto della giustizia penale né a una maggiore qualità della giurisdizione. Ecco quindi alcuni buoni motivi per opporsi alla separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri. Il pm non è l’avvocato dell’accusa, la sua azione tende unicamente a raggiungere la verità processuale nell’interesse della collettività, perciò è una parte imparziale, senza essere un ossimoro. Pm, giudice e avvocato sono tre uomini in barca, quella di Jerome K. Jerome. La separazione delle carriere è il primo passo verso un’altra magistratura, non sappiamo quale. O forse sì. Pensare che il giudice sia appiattito sul pm significa non conoscere gli uffici giudiziari e le statistiche di definizione dei procedimenti e dei processi, che invece dicono tutt’altro. Esiste già una netta separazione delle funzioni che rende poco praticabile il passaggio dall’una all’altra, con limiti territoriali e temporali significativi di cui nessuno parla mai. Se la separazione serve a rendere il Giudice più distante dal pubblico ministero e ancora più terzo, ciò vuol dire che quel giudice è semplicemente non autorevole e non professionale. E continuerà a esserlo, anche da separato. È passato il tempo delle battute degli anni 90: “studia figliolo, studia, sennò da grande farai il pm”, ma è passato pure il tempo in cui i pm andavano in tv a fare proclami. E non si regolano, oggi, i conti del passato. La separazione non determinerebbe un processo più giusto ma al contrario solo un pm più forte e fuori controllo perché affrancato dal limite della giurisdizionalità del suo agire. Se ancora, nonostante tutto, ci sono avvocati che chiamano giudici i pm ci sarà un motivo. E non per un lapsus. Non si può essere separati in casa. E pm e giudici abitano sotto lo stesso tetto, quello del dubbio e della giurisdizione. Il pm, quando il Giudice entra in aula, si alza e quando parla al Giudice lo fa in piedi. Con la separazione non ci sarà più un sostituto procuratore che, come Rosario Livatino, dopo aver chiesto la condanna di un imputato, ascoltando l’arringa del difensore cambierà idea e replicando ne chiederà l’assoluzione. E poi alla fine in fondo, a ben pensarci pm e giudici sono separati già, perché ognuno di loro nel silenzio della camera, di consiglio o non, sta solo sul cuore della terra trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera. *Sostituto procuratore Santa Maria Capua Vetere Diciamocelo chiaro: troppi pm si atteggiano a sceriffi di Tiziana Maiolo Il Riformista, 2 novembre 2019 Medaglia alla coerenza al dottor Armando Spataro, che ha svolto per tutta la sua vita di magistrato il ruolo di Pubblico ministero, sfuggendo così alle due tentazioni cui non sanno resistere tanti (troppi) suoi colleghi: quella di scambiare il ruolo di accusatore con quello di giudice e quello di entrare in politica mettendo a frutto la popolarità acquisita con le inchieste giudiziarie. Siamo certi non gli siano mancate le occasioni né per diventare giudice né per diventare politico. Ma ha rinunciato. Il primo ruolo non è proprio nelle sue corde, per quel che riguarda il secondo, non ne ha mai avuto bisogno, avendo lui sempre interpretato il ruolo del pubblico accusatore nel modo più “politico” possibile. Nei lunghi anni in cui è stato pubblico ministero a Milano, Armando Spataro ha svolto un vero ruolo da “sceriffo” all’americana, pur non essendo lui né eletto né nominato da un ministro, ma teoricamente solo un burocrate planato in magistratura per concorso. Certo, anche lui come tutti i suoi colleghi, ha nuotato nell’acqua della grande anomalia italiana, quella di un ordinamento giudiziario in cui il pm gode di un regime di ampia indipendenza a scapito della responsabilità. Ha goduto del vantaggio di appartenere allo stesso ordine dei giudici e lo rivendica ancora oggi, attraverso la finzione retorica (Il Riformista, 29-10-19) di una querelle tra garantisti e forcaioli, in cui ricorda quel che è ovvio, cioè il dovere di tutti i soggetti processuali di rispettare i diritti individuali di ciascuno. Ma il problema non è quello, e non è neanche un’altra sua finzione retorica, quella di ricordarci di esser stato lui stesso vittima di volta in volta di coloro (che lui cataloga in: colleghi magistrati, politici, pseudo-intellettuali) che lo criticavano attribuendogli patente di uomo di destra se indagava sul terrorismo “rosso” e di esponente di sinistra se troppo blando nel perseguire la violenza islamica. Il punto vero è un altro, è una questione di regole. Principi che ancora dovrebbero sussistere, nonostante i nostri codici siano da tempo infarciti di legislazione di emergenza emanata da un Parlamento sempre più convinto che sia i pubblici ministeri che i giudici, più che indagare e deliberare debbano “lottare”. Non inquisire e giudicare il cittadino, ma sgominare i fenomeni devianti, si chiamino terrorismo o mafia. Dimenticando che la lotta, se non addirittura la guerra contro le piaghe della società spetta invece proprio a quel potere esecutivo che spesso demanda agli altri poteri dello Stato quel che non sa o non può e non vuole fare. Proprio come fece l’ultimo governo Andreotti nel 1993 dopo gli assassinii di Falcone e Borsellino, quando affidò (con la legge Scotti-Martelli) al Parlamento e alla magistratura il compito della lotta alla mafia. Diverso sarebbe il ruolo del Pubblico ministero se, come è nei sistemi di common law, rispondesse delle sue azioni all’elettorato o in sede politica. È sotto gli occhi di tutti il fatto che certi comportamenti di rappresentanti della pubblica accusa, quelli che chiamiamo “sceriffi”, in un sistema come quello italiano in cui esiste l’obbligatorietà dell’azione penale e un unico corpo, la magistratura, che contiene coloro che accusano e coloro che giudicano, diventano di per sé potere privo di controllo. Potere politico. Vogliamo citarli uno a uno questi comportamenti? Possiamo parlare degli stratagemmi usati per prolungare le indagini, la violazione della competenza territoriale, l’uso distorto della carcerazione preventiva per estorcere confessioni e chiamate in correità, l’uso dei “pentiti”. E molto altro. Sono argomenti che il dottor Spataro conosce molto bene, questi ultimi, visto il suo ruolo nelle indagini e nel processo per l’assassinio del giornalista Walter Tobagi. Negli Stati Uniti i responsabili del delitto poi diventati collaboratori di giustizia Marco Barbone e Marco Morandini forse non avrebbero scontato nemmeno i tre anni di carcere che hanno trascorso in Italia dopo la trattativa, più o meno segreta, stipulata con il pubblico ministero, però i cittadini americani sarebbero stati tranquilli del fatto che il rappresentante della pubblica accusa sarebbe stato responsabile in sede politica e pubblica delle proprie azioni e dell’osservanza delle regole. Ci domandiamo che cosa sarebbe successo in Usa (ma anche negli altri Paesi europei) se alcuni pm e gip avessero trascinato per sedici anni con una gogna infinita una vicenda giudiziaria come quella subita dall’avvocato Melzi senza risponderne davanti ai cittadini. Con i pm trasformati in incontrollati poliziotti non smentiti quasi mai dal compiacente avallo dei gip se non anche dai collegi giudicanti. Come se ogni arbitraria scelta del pm fosse atto dovuto e insindacabile. E che arroganza! Viene in mente un episodio raccontato nel libro di Agostino Viviani, La degenerazione del processo penale in Italia. Un tribunale del riesame aveva rimesso in libertà un indagato in custodia cautelare, e subito dopo pare che il pm avesse fatto aspre critiche con “aggressione verbale” nei confronti del presidente del collegio giudicante che non aveva obbedito alle sue richieste e in seguito si sia anche rivolto per protestare al presidente del tribunale. Il quale, invece di denunciare la grave intromissione del pm nei confronti dell’organo giudicante, aveva convocato il presidente del Tribunale del riesame per avere spiegazioni. Così, tra “colleghi”. Come è finita? Che quest’ultimo, a disagio perché si sarebbe presto trovato nella stessa situazione in altra indagine e con lo stesso pm, finì per astenersi dal giudicare. Nel libro ci sono i nomi e cognomi. Due volte il Csm fu investito della questione: la prima dallo stesso Viviani, la seconda dal consigliere Di Federico. Invano. Sarebbe questa la “cultura della giurisdizione” di cui sarebbe fornito il pm e di cui parla il dottor Spataro? Le manette e la demagogia dell’evasore fiscale di Antonella Rampino Il Dubbio, 2 novembre 2019 Nel secolo di carta che abbiamo (spero non solo) alle spalle i giornali furono strumenti di ricerca del senso, e nell’odierno dominio della comunicazione a rete, che intrappola il lettore nell’ubiquo e nell’indistinto azzerando per l’appunto proprio il senso, quando non anche l’intelligenza, merita grande attenzione il confronto delle argomentazioni. Dico subito, perché questo è l’uso introdotto dai precedenti discussant, che io, donna di sinistra, sto con Gennaro Malgeri, che è notorio uomo di destra: non è con le manette che si risolvono evasione, elusione e frode fiscale. Non è con la possanza delle pene, e il loro incremento, che si fronteggia la debolezza dello Stato nel contrastare chi sottrae illecitamente risorse a una comunità di destino. Perché questo è una nazione, al di là delle fòle sovraniste (come chiamiamo oggi il nazionalismo): una comunità legata da un destino. E proprio questo era il senso ultimo di una famosa frase del compianto Tommaso Padoa Schioppa, “pagare le tasse è bellissimo”: nel Paese che ha mitizzato qualunque mascalzone come eroe eponimo, TPS fu sbeffeggiato. Ma aveva ragione lui. “Manette agli evasori” è pura demagogia. Non si tratta di scomodare Cesare Beccaria, perché versare parte dei propri proventi da lavoro o da patrimonio al fisco è un obbligo, sottrarsi è perseguibile per legge, e il carcere per gli evasori in Italia c’è già, così come c’è con differente applicabilità in tutti i principali Paesi europei. Solo che in Italia difficilmente si finisce dietro le sbarre perché le pene sono basse, e c’è la condizionale. Le sbarre sono inderogabili solo se l’evasione supera il 30 per cento del volume d’affari, o va oltre i 3 milioni di euro: sicuri che abbassare la soglia a 100mila euro funzioni? Sicuri che basti un deterrente? E dunque l’unico, vero, grande Paese occidentale in cui la severità verso questo tipo di reato è massima sono gli Stati Uniti, dove - lasciando perdere Trump, portatore di svariati eccezionalismi - ad accentuarla è stato proprio Barack Obama, nel 2012. Per combattere un’evasione da 450miliardi di dollari l’anno, all’epoca, più altri 100 di elusione, Obama istituì una speciale intelligence con oltre 2mila agenti. E in carcere negli Usa, dove il Tesoro può recuperare il sottratto direttamente dal conto corrente in banca, ci si va davvero: son poche migliaia i casi, ma la detenzione media si aggira sui 3 anni. E però gli Stati Uniti non solo hanno un sistema giudiziario molto diverso dal nostro: soprattutto non hanno la prescrizione costituzionale di pene che “devono tendere alla rieducazione del condannato” come recita l’articolo 27 della nostra Carta, condensando una intera civiltà giuridica, quella del diritto positivo, che discende dal riconoscimento della dignità umana comune a molte carte costituzionali europee. Da noi, la Corte costituzionale ha iniziato sin da una famosa sentenza del 1990, la 313, a considerare il principio rieducativo non come un’astrazione ma come un preciso dovere di chi amministra la pena. Da dove nasce dunque l’anelito “manettaro” e l’entusiasmo risarcitorio all’idea di vedere in ceppi chi evade il fisco? Come tutte le illusioni pone le radici nella frustrazione: quella di chi si vive come tartassato, e dubita (anche giustamente) dell’efficacia delle leggi. E il tutto, in un Paese nel quale sin dagli esordi di Silvio Berlusconi sulla scena politica si è fatta grancassa dell’idea che lo Stato “metta le mani nelle tasche degli italiani”: la nostra versione del liberismo, comica. E alle vongole: perché chi ha vinto più volte le elezioni grazie proprio a quel genere di propaganda, ha poi varato condoni su condoni. Depenalizzando di fatto, oltre che simbolicamente, l’evasione e anche la frode fiscale (si ricorderà che proprio il governo Berlusconi cancellò il reato di falso in bilancio per le aziende, tanto che i magistrati per affrontare il caso Parmalat dovettero applicare la bancarotta fraudolenta). Non siamo arrivati per caso a una stagione politica in cui regna incontrastata la demagogia. Non meraviglia che il grido “manette agli evasori” susciti entusiasmi, o che attraverso di esso si tenti di scalare il consenso. Meraviglia che non ci si renda conto che quell’invocazione è solo l’ultimo granello di polvere di una eterna stagione italiana. Quella successiva a Tangentopoli, quando la politica non seppe ritrovare se stessa, non seppe prendere coscienza e avviare un riscatto, lasciando spazi vuoti - anzi, praterie - a soluzioni giudiziarie. E il vuoto, in politica come in natura, non esiste: viene subito colmato. È da allora, da quando la politica ha abdicato a se stessa, che si vedono occhi sbrilluccicanti al tintinnar di inutili manette, non diverse dai cappi agitati in Aula (dal leghista Luca Leoni Orsenigo) un quarto di secolo fa, o dagli apri-scatolette per tonno cari a Beppe Grillo. Populismi e demagogia attecchiscono dove la politica cede il passo. Gli strumenti per combattere l’evasione fiscale ci sono, e in Italia son stati usati eccome: l’ultimo avanzo primario lo abbiamo avuto con Prodi, e veniva dalle misure anti- evasione adottate da un viceministro delle Finanze che si chiamava Vincenzo Visco. Si faccia una seria lotta all’evasione e all’elusione fiscale, invece di sventolare manette e accontentarsi di alzare la soglia delle pene. Ci diano l’arrosto e non il fumo. Anzi, come direbbero loro: a lavurà! “Per i testimoni di giustizia problemi seri. Ma il ministro degli Interni tace” di Ignazio Cutrò antimafiaduemila.com, 2 novembre 2019 “Grave la mancata assegnazione della delega per la Presidenza della Commissione Centrale”. Con riferimento alla audizione del Ministro dell’Interno Luciana Lamorgese, ieri in Commissione Parlamentare Antimafia, registriamo il suo silenzio in merito alla mancata assegnazione della delega per la Presidenza della Commissione Centrale. Il ritardo con il quale il Ministro dell’interno non abbia ancora deciso a quale dei due viceministri assegnare la Presidenza di un così importante organo politico-amministrativo non è dato di sapere. Ciò che invece sappiamo è che la signora Ministro si è limitata a ribadire l’ennesimo copione sul numero dei testimoni e dei collaboratori protetti e di come il sistema di protezione italiano sia punto di riferimento in altri Paesi. Dicevamo un copione già visto e rivisto che volutamente ignora quanto emerso dalle inchieste della Commissione Parlamentare Antimafia. Basterebbe che il Ministro trovasse il tempo di leggere le relazioni della Commissione Parlamentare Antimafia, approvate all’unanimità, nel 1998, nel 2008 e nel 2014 nonché le prime risultanze sui disagi di testimoni e collaboratori nel corso della attuale inchiesta del Comitato X di Inchiesta sui testimoni di giustizia e collaboratore di giustizia. Per quali ragioni il Ministro intenda ignorare questioni fondamentali quali sicurezza, reinserimento sociale e lavorativo, minori resta per noi un mistero. Di certo non è utile a nessuno, ai testimoni di giustizia e ai collaboratori di giustizia, ma anche alle Istituzioni che si neghi la crisi di sistema dello speciale programma di protezione ne tantomeno è utile a chicchessia che si taccia sul fatto che il decreto attuativo della legge n. 6 del 2018 attualmente in esame alla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati sia tutto da riscrivere per manifesta incostituzionalità in quanto contiene norme incompatibili con quella legge e tantomeno desumibili dalla volontà del Legislatore. Dal Ministro dell’interno Lamorgese ci aspettiamo più coraggio e soprattutto discontinuità rispetto a quella logica punitrice verso i testimoni di giustizia ai quali purtroppo siamo stati abituati a subire. Mario Scrocca, trent’anni senza verità. Di giustizia nemmeno a parlarne di Checchino Antonini popoffquotidiano.it, 2 novembre 2019 Lo stranissimo suicidio in carcere di un infermiere sindacalista arrestato per errore. Si chiamava Mario Scrocca. Un’inchiesta mai fatta davvero. Primo maggio del 1987, alle 21.30 viene dichiarata, dai medici del S. Spirito di Roma, la morte di Mario Scrocca. Era stato prelevato il giorno prima da casa, accusato di un pluri-omicidio avvenuto quasi dieci anni prima; su sua espressa richiesta durante l’interrogatorio era stato sottoposto a vigilanza a vista. Il ragazzo (27 anni) costretto in isolamento era sorvegliato con la cella aperta. Per un “errore” nel cambio di consegna degli agenti penitenziari, la sorveglianza a vista si trasforma in controllo ogni dieci minuti dallo spioncino. Scrocca fu arrestato per il duplice omicidio di due neofascisti in via Acca Larentia nel gennaio 1978 sulla base delle rivelazioni di una pentita Livia Todini (all’epoca dei fatti quattordicenne), che parlò di un certo Mario riccio e bruno ma non lo riconobbe nel corso del riscontro fotografico. Questa è una delle storie contenute nel sito di Acad, l’associazione contro gli abusi in divisa, e sulla quale sta per uscire un documentario che verrà presentato l’11 maggio al Cinema Palazzo di Roma. Alle 20 del primo maggio, orario del cambio di guardia, gli agenti trovano il giovane impiccato, non in una cella anti-suicidio, ma in una cella anti impiccagione. Riuscì ad impiccarsi per uno scarto di 2 millimetri usufruendo dello spazio del water, incastrando la cima del cappio nella finestra a vasistas, cappio confezionato con la federa del cuscino scucita e legata alle estremità con i lacci delle sue scarpe (che erano stato confiscati insieme alla cintura al momento della carcerazione); lacci che torneranno magicamente sulle scarpe del ragazzo (uno regolarmente allacciato) quando arriverà al S. Spirito. I primi soccorsi vengono effettuati direttamente a Regina Coeli, sembra, nella stessa cella, poi il detenuto viene portato all’ospedale che dista circa 500 metri dalla casa circondariale, che purtroppo sono contromano, 1.6 km per un tempo stimabile al massimo in 10 minuti. Il trasporto avverrà nel portabagagli di una 128 Fiat familiare, anziché sull’autoambulanza di servizio del carcere. Due agenti di custodia e un maresciallo, senza alcuna presenza del medico che avrebbe dovuto prestare teoricamente il primo soccorso; appare evidente ai sanitari dell’Ospedale che nulla è stato tentato per salvare Mario. Arriverà al S. Spirito alle 21.00 già cadavere. Non sarà permesso ai familiari (avvisati per altro al telefono e senza qualificarsi) di vedere il corpo fino alle 6 del mattino successivo, che non presenta tracce di lesioni se non per l’enorme ematoma sulla spalla destra e sul collo, solcato da larghi e profondi segni, dichiarati dagli stessi sanitari, non prodotti da stoffa. Tre giorni dopo la morte di Mario, il Tribunale del Riesame revocherà il mandato di cattura. Dopo la costituzione come parte civile, nel procedimento aperto contro ignoti, della moglie, spariranno tutti i fogli di consegna, di ricovero e requisizione degli oggetti al momento dell’arresto. A distanza di un anno il procedimento si chiuderà in primo grado senza responsabili se non lo stesso giovane. L’accaduto è sempre stato volutamente nebuloso fin dall’arresto su dichiarazioni di seconda mano di una pentita che avrebbe appreso notizie da una persona non rintracciabile. Evidenti le irregolarità nella carcerazione, le stranezze della morte del giovane e nei referti autoptici. Nessuno ha mai dato risposte se il giovane sia “stato suicidato” o se sia stato istigato al suicidio, reato che all’epoca non esisteva. La responsabilità “reale” di quel giovane è stata avere un nome troppo comune, una famiglia, un bimbo di due anni, un lavoro stabile, essere militante di Lotta continua e poi tra i fondatori delle RdB del settore sanitario, amare il suo lavoro, la sua vita e le sue convinzioni politiche. Toscana: Carceri, il Gozzini si fa green ma l’incertezza avvolge il sistema di Stefania Valbonesi stamptoscana.it, 2 novembre 2019 Grande evento ieri alla Casa Circondariale Mario Gozzini, che, nata con l’intento di rendere l’evento detentivo un’occasione per riflettere e riprogettare la propria esistenza attraverso proposte trattamentali ampie, ha richiesto una riorganizzazione del sistema di gestione dei rifiuti, la sensibilizzazione degli “utenti”, introducendo buone pratiche e attivando sistemi di riduzione della produzione di rifiuti. Richiesta cui Alia Servizi Ambientali SpA, h dato risposta, e, per gestire al meglio i rifiuti prodotti in questa “città-microcosmo”, ha valutato le necessità esistenti, ascoltando e coinvolgendo le 150 persone in 10 incontri formativi, svoltisi nei mesi di settembre ed ottobre. Dunque, riorganizzazione della raccolta differenziata, posizionamento di oltre 250 contenitori all’interno della struttura, mentre all’esterno sono state riviste le 2 postazioni esistenti, collocate a Nord e Sud della struttura nell’anello interno, composte adesso da 8 e 6 contenitori. Inoltre, è stato richiesto di incrementare la raccolta delle pile esauste, già presente, e sono in fase di attivazione anche raccolte. In questo contesto di sensibilizzazione e trasformazione si è inserito anche l’intervento di Publiacqua, che torna a distribuire borracce ai detenuti, caraffe per i refettori ed a programmare un’attività didattica dedicata all’acqua del rubinetto. Inoltre, il gestore del servizio idrico si è reso disponibile a rinnovare, dopo quanto fatto negli anni scorsi, il controllo della qualità dell’acqua interna ai rubinetti interni i reparti. L’interessante iniziativa cala tuttavia in un momento di particolare incertezza del mondo carcerario toscano. Infatti, da venerdì scorso, è scaduto il mandato del garante regionale Franco Corleone, che dunque sta consumando il periodo di prorogatio, come previsto dalla legge regionale sul garante. Un’uscita per raggiunti termini che lascerà un’eredità complicata al suo successore, eredità che costituisce il “pacchetto sciopero della fame” di Corleone: trasformare il Gozzini o Solliccianino che dir si voglia, attualmente metà per i semiliberi e metà custodia attenuata, in carcere femminile, trasferendo il reparto donne da Sollicciano: si tratta, ricorda Massimo Lensi, volto storico dei radicali di Firenze e sostenitore di storiche battaglie per l’umanizzazione delle condizioni carcerarie, di una proposta lanciata anni fa da Don Russo e proseguita da Corleone. Inoltre, nella lista lasciata aperta dal garante uscente, permane la seconda cucina di Sollicciano, il ripensamento dei carceri di Pianosa e Gorgona, l’apertura della struttura per i semiliberi a Pistoia, lo spazio trattamentale a Lucca, il pieno funzionamento del carcere di San Gimignano, la semilibertà a Firenze, il teatro stabile a Volterra, il rafforzamento del polo universitario a Sollicciano. “E tante altre questioni del cantiere aperto delle carceri in Toscana” dice ancora Lensi. Per quanto riguarda le nuove nomine, ci sono 4 autocandidature, che verranno proposte al consiglio regionale: Francesco Ceraudo, ex direttore del Centro Sanitario del carcere “Don Bosco” di Pisa; Saverio Migliori, proveniente dalla Fondazione Michelucci; Emilio Santoro, proveniente da Altro Diritto, garante del carcere di San Gimignano, istituto penitenziario che si trova sotto la lente della magistratura per le ben note vicende di maltrattamenti denunciate dai detenuti; Giuseppe Fanfani, ex Csm, di appartenenza Pd origine Margherita, che tuttavia non sembra essere molto gradito all’interno del partito. Per quanto riguarda la candidatura di Emilio Santoro, professore universitario oltre che garante a San Gimignano, verrebbe in essere un motivo di incompatibilità, che tuttavia potrebbe essere sanata nel momento in cui la scelta cadesse su di lui, con una modifica della legge. La nuova nomina deve essere fatta entro 90 giorni dalla scadenza, ovvero da venerdì scorso. “Il vero problema - dice Lensi - è che l’intero sistema carcerario toscano si trova in condizioni pessime. Nonostante la buona conduzione di Franco Corleone infatti, a causa del continuo taglio dei fondi per le carceri, e anche di una difficoltà burocratica evidente, ciò che si lascia è forse peggio di quanto c’era quando cominciò l’azione del garante”. Un problema anche di strumenti in mano al garante stesso come figura istituzionale, tant’è vero che lo stesso Corleone ha messo in atto svariati scioperi della fame per attirare l’attenzione sui problemi gravissimi delle condizioni detentive. Tanto per fare un esempio, si ricordi la vicenda della richiesta di ventilatori per alleviare le condizioni dei carcerati nei periodi estivi, vicenda che vide due anni di tira e molla, con un primo invio di 60 ventilatori da parte dell’assessore regionale Stefania Saccardi, che non furono utilizzati. Faccenda che si chiuse con l’intervento diretto del cappellano del carcere di Sollicciano don Vincenzo Russo, che si rivolse ai privati. Anche perché, spiega Lensi “le logiche del carcere sono del tutto proprie, ed è impossibile creare aree di privilegio per 60 celle, e lasciare gli altri senza niente”. La conseguenza, è innestare una tensione che, visti i numeri dei detenuti, la scarsità delle risorse umane e la stessa morfologia di Sollicciano, mette a rischio la stessa gestione dell’istituto. Per capire meglio la situazione limitandosi al solo carcere fiorentino, basti pensare che, nella logica rieducativa che dovrebbe presiedere alla pena detentiva secondo quanto stabilito dalla Costituzione, è vero che ci sono degli educatori che si recano a Sollicciano per svolgere un compito importantissimo, ovvero creare una qualche possibilità di riscatto reale ai detenuti. Ma i numeri rivelano la triste realtà: “Su 740 detenuti attualmente presenti a Sollicciano - rivela Lensi - gli educatori sono nove”. E spesso neppure tutti in attività. Tornando alla nomina del garante regionale che dovrà avvenire a breve, in ballo ci sono 17 carceri toscane (19 contando la Rems, ovvero residenza per l’esecuzione delle misure di scurezza ex Legge 81 di Volterra, e quella ancora in ristrutturazione di Empoli, vale a dire l’ex carcere femminile del Pozzale) per circa 4mila detenuti, il tutto da gestire con fondi sempre più scarsi. Per capire meglio le difficoltà, si pensi che il carcere di San Gimignano, che come è stato ricordato si trova sotto inchiesta della magistratura, ha sì un direttore, ma non è quello definitivo; diciamo che “regge” San Gimignano in via di supplenza. Anche se, come ricorda l’esponente radicale, “è in corso l’approvazione di un Dlgs del governo che intende togliere (parte dei) poteri al direttore e trasferirli al comandante di Polizia Penitenziaria, creando una situazione particolarmente delicata proprio per la funzione di equilibrio interno che il direttore riveste”. Per quanto riguarda le candidature, da mettere in conto che, a parte le autocandidature ufficiali, potrebbe arrivare qualche novità: ad esempio, il garante comunale Eros Cruccolini, anch’egli in proprogatio, potrebbe rivelarsi un candidato “a sorpresa” per il regionale. Qualcuno vorrebbe in quel ruolo il cappellano di Sollicciano, don Vincenzo Russo, che si segnala per competenza e capacità di comprensione dei problemi, oltre che per la particolare sensibilità verso gli abitanti di questi universi dimenticati dalla società civile e politica che sono le carceri. Tuttavia, una sua eventuale corsa dovrebbe ottenere il benestare dell’Arcivescovo, monsignor Claudio Betori, il che fa sì che le cose si complichino. Fra le eventualità ventilate per il carcere fiorentino, il sindaco Nardella aveva lanciato la proposta di costruire un nuovo carcere. Un’idea tuttavia che, per i costi e i tempi, venne ridimensionata alla distruzione di una parte dell’attuale casa circondariale, esattamente quella dove si trovano i magazzini. Un’idea che però non solleva molto entusiasmo. “Un nuovo passo verso la colata di cemento che, fra opere e grandi opere, e al di là dei proclami green dell’attuale governo cittadino, sta per investire la città - conclude Lensi - in realtà va solo migliorata l’attuale struttura di Sollicciano, anche perché l’edilizia carceraria non è mai sinonimo di miglioramento sul piano della funzionalità di un carcere. Fa solo contenti imprenditori del cemento e sostenitori della giustizia punitiva. Ricordiamo che a Pescia esiste un carcere costruito nel 1986 e ancora non inaugurato. Ad oggi, l’unica funzione che ha svolto è stata quella di far girare nei suoi ambienti un film”. Bergamo. Troppe contenzioni notturne nell’ospedale dove è morta bruciata Elena di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 novembre 2019 I rilievi del garante nazionale sul tragico episodio del 13 agosto scorso. Quel maledetto giorno, in piena estate, morì bruciata in un letto del reparto di psichiatria del “Papa Giovanni” di Bergamo. Non poteva muoversi, perché legata al letto con fasce contenitive. Una condizione che non ha permesso alla ragazza di allontanarsi dal letto né ha dato la possibilità al personale e agli altri soccorritori di procedere alle operazioni per metterla in salvo. Aveva appena vent’anni Elena Casetto, la quale aveva vissuto per sette anni da sola a Salvador de Bahia, studiava, era autonoma. Sognava di dedicarsi alla filosofia, a Londra o ad Amsterdam. Coltivava una vocazione poetica. Aveva anche vinto un premio con un componimento intitolato “Terra de bandidos” dove si evinceva la paura di restare in Brasile, il paese d’origine della madre. Forse era stato quel timore espresso nella poesia a persuadere Elena ad accettare l’invito della madre di raggiungerla in Italia, nell’appartamentino preso in affitto a Osio Sopra. L’ultimo periodo della vita di Elena è un rapido precipizio, fino a un epilogo che attende più di una risposta. L’8 agosto tenta il suicidio. Vorrebbe lanciarsi da un ponte, la bloccano i carabinieri. Viene ricoverata prima a Brescia e poi a Bergamo. L’11 agosto supplica la mamma perché la riporti a casa. Il messaggio è rimasto nel cellulare, sequestrato dopo la sua morte. La mattina del 13 agosto cerca nuovamente di togliersi la vita, stringendosi al collo un lenzuolo. La salvano due infermieri. Viene sedata e contenuta. L’allarme anti- incendio scatta attorno alle 10. I vigili del fuoco trovano Elena Casetto carbonizzata nel suo letto. È stata aperta una inchiesta da parte della Procura. L’autorità del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, in data 19 agosto 2019, ha inviato il caso alla Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Bergamo e si è costituita parte offesa nell’inchiesta sulla morte di Elena. Il Garante, nell’esprimere la propria vicinanza alla famiglia della giovane vittima, ha sottolineato ancora una volta la drammaticità della contenzione delle persone nelle istituzioni psichiatriche e delle sue possibili conseguenze. Ma non si è fermato qui. Il compito del Garante è, appunto, quello di monitorare le situazioni dove, di fatto, le persone vengono private della propria libertà. Come ad esempio i luoghi del Servizio psichiatrico di diagnosi e cura (Spdc). Per questo, subito dopo la tragedia, il Garante si è subito attivato avviando una interlocuzione con la direzione del “Papa Giovanni XXIII” di Bergamo e da poco li ha resi pubblici. Dal registro aggiuntivo telematico “Psicheweb” delle contenzioni attuate presso l’ospedale il Garante ha rilevato che, nelle disposizioni sui controlli da effettuare sulla persona sottoposta a tale misura privativa della libertà, non si prevede, come dovrebbe, un periodo iniziale di osservazione del paziente immediatamente successivo alla contenzione stessa, nella misura di 15- 30 minuti consecutivi prima di attivare periodicamente i controlli delle funzioni vitali, registrandone appositamente gli esiti ogni quarto d’ora. Nel caso della ragazza, il Garante ha rivelato con particolare disappunto che “non è stata osservata la specifica raccomandazione rivolta al personale sanitario relativa al controllo dell’eventuale possesso di accendini o fiammiferi da parte del paziente, così come prevede il paragrafo 8 del Protocollo sulla procedura specifica “La contenzione fisica in psichiatria”. Evidenza, soprattutto che la contenzione della ragazza non era stata registrata. Ma il Garante, sempre dal registro telematico, ha anche rilevato un elevato numero di contenzioni effettuate e una significativa durata delle stesse, superando talvolta le 40 ore consecutive. “Emerge - si legge nella lettera inviata alla direzione dell’ospedale - una contenzione ricorrente applicata allo stesso paziente fino a superare le 62 ore interrotte soltanto da un’ora tra le prime 42 e le ulteriori 20”. Tale circostanza 15, su 73 contenzioni applicate, quelle notturne risultano 45, superando, in entrambi i casi, il 50% delle contenzioni totali. Ha quindi posto al Garante problemi rilevanti in considerazione del fatto che la Corte di Cassazione ha descritto in modo inequivoco che la contenzione meccanica non è riconoscibile come “atto terapeutico” e che, pur ammettendo un eventuale ricorso all’articolo 54 del codice penale, “resta impossibile tale valutazione di necessità qualora dell’atto in essere non rimanga documentata né la decisione assunta, né il responsabile e neppure il momento di necessità che l’ha determinata”. In merito alla mancata registrazione della contenzione di Elena, la direzione ha risposto al Garante che lo sviluppo delle fiamme sarebbe avvenuto subito dopo il suo contenimento e quindi non ci sarebbe stato tempo. Poi la direzione dell’ospedale affronta la questione sollevata dal Garante per quanto riguarda il numero elevato delle contenzioni notturne. Sottolinea che si tratta dell’unico ospedale della provincia di Bergamo dotato di un Dipartimento di Emergenza e accettazione di secondo livello, nonché di una guarda psichiatrica attiva h24. “Su questa base - scrive la direzione -, sono assai numerosi i pazienti in condizione di grave acuzie psicopatologica che giungono in Pronto Soccorso proprio nelle ore notturne”, evidenziando che nella quasi totalità dei casi, la patologia è accompagnata da una intossicazione da sostanze d’abuso, di assai difficile gestione. Poi nella lettera viene affrontato il caso specifico di un paziente per giustificare la lunga contenzione. Spiega che si tratta di un caso eccezionale di un giovane tossicodipendente con un disturbo di personalità borderline e antisociale, con discontrollo degli impulsi, che comportavano gravi crisi e aggressività. All’ingresso, scortato dalla polizia visto la crisi, essendo intossicato di sostanza, non poteva assumere farmaci per sedarlo ed è stata quindi necessaria la contenzione meccanica fino al momento in cui è stato possibile combinare l’approccio relazionale con i farmaci. Però durante la degenza è fuggito dal reparto, ha di nuovo abusato di sostanze e la polizia l’ha ricondotto in ospedale tramite tso. Anche in quel caso hanno dovuto ricorrere alla contenzione meccanica, quella segnalata in una nota del Garante. Resta il fatto che il dibattito sull’utilizzo eccessivo della contenzione si è riacceso dopo la tragica morte di Elena. L’uso della contenzione in Italia di per sé non è illegale (sentenza della Corte di Cassazione sul caso Mastrogiovanni), anche se gli ordini professionali e il comitato nazionale di bioetica prevedono la necessità di un suo superamento. Alcune realtà ci sono. L’Agenzia di tutela della Salute della Brianza ad esempio si è impegnata nel 2019 a non praticarla più, così come i Servizi psichiatrici diagnosi e cura (Spdc) di Ravenna, che da tre anni non legano nessuno. Secondo la campagna “E tu slegalo subito”, sono solo 15 su 321 in Italia i Spdc che non usano la contenzione: ovvero il 5 per cento del totale. Messina. Scarcerate Rosa, rischia la paralisi di Gioacchino Ciriaco Il Riformista, 2 novembre 2019 C’è una donna, Rosa Zagari, compagna di un ex superlatitante, Ernesto Fazzalari, in carcere per aver aiutato il suo compagno a eludere la pena, condannata in primo grado, in attesa di appello. Rosa sta in carcere, è scivolata nella doccia qualche mese fa, ha riportato gravi lesioni alla schiena. È rimasta in carcere, spostata dalla cella nel reparto medico della prigione. C’è una donna, Teresa Moscato, madre di Rosa, convinta che le cure alla figlia siano insufficienti, teme che rimanga paralizzata. C’è un appello che gira perché si faccia quanto possibile, quanto giusto, per aiutare una a stare bene e l’altra a non temere. È uno di quegli appelli che girano poco, fra i soliti fessi convinti che l’umanità venga prima di tutto. A queste cose, a quelli che stanno in galera, anche i buoni ci badano poco. Sì, anche i buoni, se c’è puzza di mafia, e anche se è tutta da dimostrare storcono il naso, si allineano a tutti quelli che ogni giorno criticano, con quelli che dispensano odio, e che in genere sono coerenti: odiano tutti allo stesso modo. Quelli che sono buoni no, in genere amano ma poi sanno anche ferocemente odiare. Per loro qualunque giudice o agente è cattivo a prescindere se tocca un Lucano, è sempre nel giusto se persegue un “pungiuto” o presunto tale. Agenti e magistrati stanno sempre nel male, contro i Cucchi, nelle Genova varie, e sono angeli del bene sempre e comunque contro i palermitani scaltri. E ognuno è libero di essere buono o cattivo a piacimento, di affogarsi nelle proprie ipocrisie. Ci sono due donne che soffrono e io, a Rosa e a Teresa, auguro a una di ritrovare la salute e all’altra la pace. Milano. Gli “atti” dei pm prima ai cronisti poi ai difensori di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 2 novembre 2019 Alla conferenza stampa della chiusura delle indagini sul disastro ferroviario di Pioltello è stato presentato un video, montato dagli investigatori e poi distribuito ai presenti. IL procuratore aggiunto Tiziana Siciliano ha assicurato che non sarà “fonte di prova”. Verrebbe quasi da dire che la Procura di Milano ha “istituzionalizzato”, questa settimana, il processo mediatico. Una gestione “in house” della singolare attitudine, tutta italiana, a creare percorsi extra processuali lontani dalle aule del dibattimento. L’occasione è stata offerta dalla chiusura delle indagini sul disastro ferroviario di Pioltello, accaduto il 25 gennaio del 2018, in cui morirono tre persone e ne rimasero ferite quarantasei. La notifica dell’avviso ex articolo 415 bis ai dodici indagati, due manager e sette fra dipendenti e tecnici di Rfi (Rete ferroviaria italiana), oltre ai vertici dell’Agenzia nazionale per la sicurezza delle ferrovie, è stata infatti accompagnata da una conferenza stampa organizzata dai pm milanesi titolari del fascicolo. Durante l’incontro con i cronisti, in particolare, è stato presentato un video, montato dagli investigatori e poi distribuito ai presenti, in cui venivano dettagliatamente ricostruite le cause del deragliamento del treno Milano- Cremona. Il filmato, girato con le più moderne tecniche 3D, non lasciava alcuno spazio a dubbi sulle effettive responsabilità dell’accaduto. “È stato fatto un vero processo con attribuzione di responsabilità”, ha dichiarato Giovanni Briola, uno degli avvocati presenti alla conferenza, assieme a Matteo Picotti e Tiziana Bellani, tutti della Camera penale milanese, protestando contro questa “spettacolarizzazione” voluta dalla Procura. “In alcuni punti di questo video - ha poi aggiunto Briola - c’era scritto “consulenza tecnica”, perciò in parte è un atto processuale”. Immediata la replica del procuratore aggiunto Tiziana Siciliano, titolare del fascicolo, che ha assicurato che il video 3D non sarà “fonte di prova”. La polemica, però, è proseguita. Sempre l’avvocato Briola: “Avete avvisato i difensori e messo a disposizione i faldoni con gli atti d’indagine? Siciliano ha risposto: sì, certo lo abbiamo fatto ieri pomeriggio. Ma in realtà hanno mandato il 415 bis, l’avviso di chiusura indagini, e quindi nessuno ha potuto visionare la mole di documenti che avremo a disposizione solo tra diversi giorni. In un contesto di correttezza dell’informazione, la Procura fa una conferenza stampa ma, visto che ci sono tutti gli atti depositati, deve dare il tempo anche alla difesa di vederli e preparare la propria versione”. Gli indagati sono accusati di disastro ferroviario colposo, omicidio plurimo e lesioni colpose. Sul punto va sempre ricordato che il Csm ha nel 2018 approvato delle “Linee guida per la corretta informazione giudiziaria”. Nella circolare si raccomanda ai magistrati “la tutela della presunzione di non colpevolezza, la centralità del giudicato rispetto ad altri snodi processuali (per esempio le indagini preliminari), il rispetto del giusto processo”. Concetti ribaditi dall’avvocato Andrea Del Corno, consigliere dell’Ordine di Milano: “Il dibattimento è stato da tempo svuotato. A chi interessa conoscere l’esisto di un processo quando ormai la sentenza è stata emessa sui media basandosi sul materiale fornito dall’accusa?”. E a proposito dell’accusa, la Procura di Milano ha iniziato a distribuire ai giornalisti, dal mese scorso e dietro pagamento dei diritti di cancelleria, copia degli atti giudiziari “di rilievo pubblico” e non contenenti informazioni che possano danneggiare il segreto istruttorio. Primi atti divulgati, quelli di “Moscopoli”. Aosta. Agnese Moro e Franco Bonisoli: un rapporto diverso fra vittima e colpevole valledaostaglocal.it, 2 novembre 2019 Ne parlano ad Aosta venerdì 8 novembre la figlia dello statista ucciso dalle Br e l’ex brigatista che sparò in via Fani il 16 marzo 1978. Un incontro tra Agnese Moro e Franco Bonisoli è un pezzo della nostra storia contemporanea. Lei è figlia di Aldo Moro, lo statista sequestrato e ucciso dalle Brigate rosse, lui, membro della direzione strategia del gruppo terrorista, il 16 marzo 1978 faceva parte, con Valerio Morucci, del gruppo di fuoco che sparò in via Fani alla scorta di Moro. Agnese Moro e Franco Bonisoli da tempo portano avanti le tematiche della giustizia riparativa e ne parleranno ad Aosta nel salone parrocchiale della Parrocchia di Saint-Martin-de-Corléans venerdì 8 Novembre alle 21 per raccontare la storia di un cammino durato sette anni, testimoniando che quel dialogo che sembrava impossibile è diventato possibile. La serata è organizzata dall’ L’Associazione l’Albero di Zaccheo. La giustizia riparativa integra la visione puramente compensativa e risarcitoria del nostro sistema giudiziario, in cui trova ampia applicazione la giustizia cosiddetta “retributiva” e offre la possibilità di costruire, al di fuori dei tribunali e delle carceri, dei percorsi di avvicinamento e riparazione tra vittime e colpevoli. Nel corso della serata sarà presentato il Libro dell’incontro, ovvero il racconto dettagliato di anni di cammino che ha visto procedere fianco a fianco colpevoli e vittime del terrorismo, che, insieme, hanno scelto di rendere pubblica l’esperienza della giustizia riparativa, ovvero della giustizia dell’incontro, per esprimere “la bellezza dell’incontrare l’altro anche quello apparentemente più lontano”, come ha detto Agnese Moro. In caso di esaurimento posti e per facilitare la più ampia partecipazione sono previste sedi secondarie dalle quali sarà possibile seguire lo svolgimento della serata su maxi-schermo, attraverso un collegamento in streaming al Teatro Aurora, Parrocchia Immacolata di Aosta ed dall’oratorio inter parrocchiale Giovanni Paolo II di Donnas. È disponibile un servizio di baby-sitting. L’evento ha ottenuto il patrocinio gratuito del Consiglio Valle. Il voto sulla Commissione Segre. Rotto il patto costituzionale di Nadia Urbinati La Repubblica, 2 novembre 2019 Sui media e sui social in queste ore si sono succedute numerosissime dichiarazioni di costernazione e di stupore per l’astensione di 98 senatori (Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia) alla mozione della senatrice a vita Liliana Segre per l’istituzione di una Commissione straordinaria per contrastare i fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza. Stupore e costernazione comprensibili e legittimi, anche per quella bruttissima immagine di una parte dei senatori che restano seduti e immobili mentre l’altra si alza per una standing ovation alla comunicazione dell’esito della votazione: 151voti a favore, nessuno contrario. Tremenda la dichiarazione di Matteo Salvini sulle ragioni dell’astensione della Lega: “Siamo contro razzismo, violenza, odio e antisemitismo senza se e senza ma. Tuttavia non vorremmo che qualcuno a sinistra spacciasse per razzismo quello che per noi è convinzione e diritto ovvero il prima gli italiani”. Questa dichiarazione è in palese dissenso rispetto al principio di eguaglianza sancito dalla nostra Costituzione. Perché introduce una discriminazione tra cittadini e cittadini - quelli cioè che per religione o razza o convinzioni sono e possono essere fatti oggetto di intolleranza e discriminazione e odio e quelli che non hanno quelle specificità che li rendono minoranza. Gli italiani che “vengono prima” non sono quelli per i quali la commissione è stata proposta e votata. Certamente solo quelli che si identificano con la posizione di Salvini e che hanno, secondo Salvini, una posizione privilegiata: più italiani degli altri italiani. Per i quali si sono espressi i 98 senatori astenuti. Questa logica faziosa e inegualitaria mette Salvini e il suo movimento in diretta rotta di collisione con la nostra Costituzione repubblicana - con la parte prima, quella che riguarda i diritti fondamentali e che si preoccupa proprio di quelle persone che potrebbero essere fatte oggetto di discriminazione, intolleranza e odio. È un segno esplicito della rottura dell’unanimità di alcuni partiti rispetto al dettato costituzionale. Quell’astensione è un’astensione al testo de11948. È uno steccato alzato per dividere “quegli” italiani che devono venire “prima” da tutti gli altri - il popolo “vero” da quello meno vero, quello che, continua il leader leghista, è “spacciato” per vittima dalla sinistra e, per questo, non meritevole di attenzione. Tremendo discriminare tra quegli italiani che meritano di essere oggetto di razzismo e intolleranza perché non italiani giusti e quegli altri che devono venire “prima” e che valgono di più. La posizione di Salvini è ancora più grave di quella dei suoi alleati di Fratelli d’Italia che si sono appellati alla libertà di offendere. Più grave perché introduce un elemento di diseguaglianza di peso e valore tra gli uguali. È questa rottura dell’unanimità rispetto al patto che ci tiene insieme sotto le stesse leggi e istituzioni che ci deve fortemente preoccupare. Che ci deve fare aprire gli occhi: ci troviamo di fronte ad una radicalizzazione dell’opposizione politica, ad un’erosione di moderazione nei toni e nei princìpi che rendono la Lega un movimento di destra senza alcuna ombra di centrismo. Il razzismo esiste e si fa vedere nelle istituzioni - nel Senato della Repubblica - come a voler sfidare direttamente la Costituzione. Queste considerazioni hanno un peso che induce ad andare oltre la costernazione. Dobbiamo reagire, nelle istituzioni ma soprattutto nella società civile e politica, nel mondo dell’informazione. Oltre il caso Segre. Commissione strabica, pregiudica le libertà di Luca Ricolfi* Il Messaggero, 2 novembre 2019 Ha suscitato qualche inquietudine, anche fra alcuni parlamentari dell’opposizione di destra, il fatto che 98 senatori (tutti di centro-destra) non abbiano votato a favore della “Commissione Segre”, ovvero di una Commissione straordinaria “per il contrasto ai fenomeni dell’intolleranza, del razzismo, dell’antisemitismo, e dell’istigazione all’odio e alla violenza”. Anch’io mi sono stupito un po’, conoscendo la passione dei parlamentari per le commissioni, e trovando strano che ci si debba dividere persino su principi così generali e ovvi. Possibile che ci siano senatori che difendono l’intolleranza, il razzismo, l’antisemitismo, l’istigazione all’odio e alla violenza? Poi però mi sono ricordato di una cosa: il titolo di una legge, come il titolo di un articolo di giornale, spesso non corrisponde a quel che c’è scritto dentro. Meglio leggere tutto prima di esprimere un’opinione. Allora ho letto il testo istitutivo della Commissione, e il mio stupore è aumentato, ma capovolto di segno. Ora sono stupito che sia stato possibile mettere al voto un testo simile. Attenzione: ho detto mettere al voto, non approvare. Perché si può essere d’accordo o contrari a una proposta, ma si dovrebbe pretendere che la proposta sia chiara, ossia ben formulata nei suoi presupposti, nei suoi propositi e nei suoi limiti (e magari anche scritta in un buon italiano, come la nostra Costituzione). Ebbene, questi requisiti sono drammaticamente assenti, quindi la proposta è ingiudicabile nel merito. Come ha già ben detto ieri su queste colonne Carlo Nordio, può essere usata come arma di lotta politica, ma non valutata politicamente. Provo a spiegare perché. I presupposti. Un presupposto (noto, ma non dichiarato nel testo) è costituito dai messaggi d’odio, presumibilmente a sfondo antisemita, indirizzati quotidianamente alla senatrice Segre, come a decine di altri personaggi pubblici. Un secondo presupposto è la convinzione degli estensori del testo che “il fenomeno denunciato” (i messaggi d’odio sul web, sembra di capire) “è purtroppo in crescita in tutte le società avanzate”. Questo secondo presupposto è perlomeno mal definito, e a mia conoscenza non è supportato da alcuno studio empirico condotto sistematicamente nel tempo “in tutte le società avanzate”. Quel che è verosimile, semmai, è che un po’ tutti i generi di messaggi siano in crescita sul web per la ovvia ragione che aumenta molto velocemente il numero di utenti del web. Quando dico tutti i generi di messaggi intendo quelli di odio e quelli di solidarietà, quelli ostili agli ebrei e quelli ostili all’Occidente, quelli che fanno l’apologia del fascismo e quelli che fanno l’apologia dello Stato islamico. Quanto ai personaggi pubblici, credo ve ne siano parecchi, a destra (Matteo Salvini), a sinistra (Laura Boldrini), e persino al centro (Elsa Fornero), che hanno ricevuto, e continuano a ricevere, dosi non certo omeopatiche di ingiurie, specie se sono attivi sul web. I propositi. Che cosa dovrebbe fare la Commissione straordinaria? Non è chiarissimo. A parte studi, viaggi, scambi di informazioni, missioni all’estero, report annuali, la Commissione ha “compiti di iniziativa per l’indirizzo e il controllo sui fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza” (fino alla richiesta di rimozione dal web di contenuti che la Commissione giudica manifestazioni di odio, intolleranza o discriminazione). I limiti. Il problema è che nel testo non vengono mai circoscritti e definiti in modo chiaro i comportamenti che si ritengono inammissibili, e dunque potenzialmente segnalatili, stigmatizzabili, sanzionabili, o addirittura perseguibili penalmente. Se si legge attentamente tutto il testo, si scopre un’incredibile insalata di comportamenti che la Commissione sembra far rientrare nel proprio campo di interesse e di sorveglianza. In alcuni punti, sembra che il bersaglio sia l’odio in quanto tale, a prescindere dal suo contenuto ideologico o politico, fino a includere il cyberbullismo nelle scuole. In altri punti del testo nel mirino finisce “l’istigazione all’odio e alla violenza nei confronti di persone o gruppi sociali” ma limitatamente al caso in cui l’odio è “sulla base di alcune caratteristiche quali l’etnia, la religione, la provenienza, l’orientamento sessuale, l’identità di genere o di altre condizioni fisiche o psichiche”. Altrove il testo si allarga ancora un po’ e parla di hate speech e di “tutte le manifestazioni di odio nei confronti di singoli o comunità”. Infine, per quanto riguarda le ideologie, il bersaglio è molto ampio, con qualche omissione: rientrano il razzismo, l’antisemitismo, l’antigitanismo, l’antislamismo, il “nazionalismo aggressivo” (chi stabilirà se il nazionalismo è aggressivo o mite?) e persino l’etnocentrismo; ma non rientrano l’anticristianesimo e l’antioccidentalismo, topoi tipici della propaganda islamica radicale. Lo stesso strabismo riguarda la denuncia del negazionismo: giustamente stigmatizzato quando è negazione della Shoah, dei genocidi, dei crimini di guerra o contro l’umanità, ma sorprendentemente mai riferito ai Gulag e alle altre tragedie del comunismo (una dimenticanza particolarmente grave in un testo che si sforza di avere un respiro europeo, in un’Europa nella quale i crimini del comunismo sono ancora vivi nella memoria di tanti popoli). Le perle. Parlando di hate speech, e poggiando sull’autorità del “Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa”, si arriva a includere nel raggio di azione della commissione “gli abusi, le molestie, gli epiteti, gli stereotipie le ingiurie che stigmatizzano e insultano”. Gli stereotipi? Chi stabilirà che un’etichetta appioppata a qualcuno è uno stereotipo, e come tale perseguibile o stigmatizzabile? Non sanno gli estensori del testo che la vita sociale si nutre di stereotipi, e che moltissimi stereotipi sono semplicemente la cristallizzazione di esperienze individuali e collettive? Che dire, alla fine? Siamo di fronte a un testo le cui sacrosante e condivisibili intenzioni, combattere l’odio e l’istigazione alla violenza, convivono con due limiti che, almeno nella tradizione liberale, appaiono difficili da accettare. Il primo è la completa mancanza di consapevolezza di quanto delicato sia l’equilibrio fra il diritto a non essere insultati e offesi, e il diritto alla libera manifestazione delle opinioni, specie in campo politico. Il secondo limite è l’incapacità di vedere che, ove si decida di percorrere la rischiosa strada di tutto monitorare, controllare, sorvegliare e punire, anche nei casi in cui l’aggressività è confinata al piano verbale, allora occorre essere veramente neutrali, imparziali, universali: il diritto della Boldrini di non subire una campagna d’odio sul web vale quanto l’analogo diritto di Salvini, che di insulti - presumibilmente - ne riceve anche di più, e di assai più organizzati. Qualcuno ha dimenticato la copertina dell’Espresso (Uomini e no) in cui il leader della Lega veniva presentato come un non-uomo? Se è impossibile, nell’era di internet, impedire a legioni di imbecilli frustrati di sfogare il loro odio e le loro antipatie sul web, potremmo almeno cercare, come sistema dei media, di accordare a tutti il diritto di essere trattati come esseri umani. *Fondazione Hume Diritti umani. Tortura, polizia, migranti e rom: l’Italia sotto esame Onu di Eleonora Martini Il Manifesto, 2 novembre 2019 Il documento di Amnesty International al Consiglio delle Nazioni unite che da lunedì comincerà la valutazione della situazione italiana. Criminalizzazione della solidarietà, violazioni dei diritti di rifugiati e migranti, anche nel contesto della cooperazione con la Libia, debolezze della legislazione sulla tortura, operato delle forze di polizia e discriminazione nei confronti dei rom: sono le questioni più critiche sottoposte da Amnesty International al Consiglio Onu dei diritti umani che da lunedì 4 novembre inizierà l’Esame periodico universale dell’Italia. “La situazione dei diritti umani è peggiorata rispetto all’ultimo Esame del 2014 - scrive Amnesty nel documento fornito al Consiglio, l’organismo composto da 47 Stati eletti dall’Assemblea generale - e, soprattutto nell’ultimo anno, l’approccio delle autorità italiane nei confronti dei meccanismi di monitoraggio internazionali si è fatto teso”. Ma, sottolinea ancora l’Ong internazionale, “nel 2014 l’Italia aveva ricevuto 186 raccomandazioni. Ne ha accettate 176, riguardanti soprattutto la ratifica dei trattati; la creazione di un’autorità nazionale per i diritti umani; la lotta contro la discriminazione e il razzismo; il contrasto alla violenza contro le donne; la difesa dei diritti di rom, migranti e richiedenti asilo”. Raccomandazioni accettate ma mai attuate completamente. Secondo l’organizzazione presieduta dal sudafricano Kumi Naidoo, l’Italia ha ancora molta strada da fare per essere annoverata tra i Paesi che rispettano appieno i diritti umani. Per esempio, modificare la definizione di tortura contenuta nella legge 110/2017 per renderla conforme alla Convenzione Onu; salvaguardare il lavoro delle Ong che salvano le persone in mare; curare una comunicazione pubblica responsabile sul tema dei migranti; cessare le forniture di armi ai Paesi che possono utilizzarle violando i diritti umani; subordinare la cooperazione con la Libia al rispetto dei migranti; porre fine a tutte le forme di segregazione razziale dei Rom; garantire la tutela dei diritti dei migranti irregolari favorendo i processi di regolarizzazione; modificare la legge salviniana 132 del 2018; abolire immediatamente il memorandum d’intesa con il Sudan; modificare le procedure di espulsione. E infine, garantire indagini imparziali ed efficaci da parte di autorità indipendenti sulle morti di detenuti e le accuse di tortura da parte delle forze di polizia. A questo proposito Amnesty raccomanda l’introduzione di codici identificativi per gli agenti, come avviene nel resto d’Europa. E lo fa proprio mentre la legge ad hoc arriva finalmente in commissione Affari Costituzionali, sollevando però ancora una volta la reazione di alcuni sindacati di polizia di destra. Purtroppo però, gli altri, la maggioranza, tacciono. Migranti. Che cos’è il memorandum Italia-Libia e perché fa discutere di Claudio Del Frate Corriere della Sera, 2 novembre 2019 Il patto sottoscritto da Minniti ha fatto crollare gli sbarchi ma ha sollevato problemi di natura umanitaria per il trattamento a cui i profughi sono sottoposti nei campi libici. Oggi, 2 novembre, scatterà automaticamente il rinnovo del cosiddetto memorandum tra Italia e Libia sottoscritto nel 2017 dal governo Gentiloni con il capo del governo provvisorio di Tripoli Al Serraj per limitare gli sbarchi dal Nord Africa: un patto che ha effettivamente fatto crollare il flusso lungo la rotta centrale del Mediterraneo ma che al tempo stesso è stato oggetto di ripetute critiche (di organizzazioni umanitarie, di settori della politica) per il ruolo affidato alla Libia e per le violenze e le violazioni dei diritti a cui sono sottoposti i migranti trattenuti al di là del mare. Sia il ministro degli esteri Luigi Di Maio che la collega degli interni Luciana Lamorgese ritengono possibili modifiche al trattato e la prossima settimana è prevista una discussione in Parlamento ma il documento non verrà revocato. Cosa dice il memorandum - L’accordo è figlio della situazione vissuta dall’Italia tra il 2015 e il 2017, quando l’arrivo di migranti dalla Libia e l’attività degli scafisti erano al loro apice. Nel 2016 gli arrivi erano stati oltre 160.000 con una punta di ben 12.000 in appena 48 ore (tra il 25 e il 27 giugno 2017). Il flusso era alimentato dal fatto che la Libia non esercitava da tempo alcuna sorveglianza sulle sue coste e su questo punto si innesta in via primaria l’accordo promosso dall’allora ministro degli interni Marco Minniti. Il memorandum impegna l’Italia ad addestrare la Guardia Costiera libica, a fornirle mezzi e fondi. Quanti? Secondo il dato fornito dalla ong Oxfam sono 150 milioni di euro in 3 anni, a cui ne vanno aggiunti altrettanti forniti dall’Unione Europea. Il crollo degli sbarchi - Gli effetti dell’accordo sono immediati: già da luglio 2017 unità navali libiche cominciano a pattugliare la loro zona Sar di competenza (ben più ampia delle semplici acque territoriali) e a riportare indietro barconi e gommoni carichi di migranti. Il numero di sbarchi in Italia - secondo i dati rintracciabili sul sito del Viminale - crolla già nel 2017 a 111.000 che diventano 22.000 l’anno successivo. A ottobre 2019 gli arrivi sono 9.600. Secondo i calcoli dell’Ispi (Istituto di studi di politiche internazionali) dall’entrata in vigore dell’accordo oltre 38.000 migranti sono stati riportati in Libia, il 50% di quelli che partiti. Ma la Libia non è “porto sicuro” - Bilancio positivo, dunque? Non proprio ed ecco apparire l’altra faccia della medaglia. Il personale della cosiddetta Guardia Costiera è costituito da componenti delle milizie protagoniste della guerra civile, l’utilizzo dei fondi stanziati non è trasparente e sdi teme vada ad alimentare traffici illeciti, la qualità dei soccorsi è scarsa: i numeri di telefono da chiamare spesso squillano avuto, chi risponde dall’altro capo del filo spesso parla solo arabo e non inglese. Ma soprattutto: in base alla convenzione di Ginevra e in base a sentenze della Corte Europea dei diritti dell’uomo la Libia non è considerata “porto sicuro” per i richiedenti asilo: organizzazioni umanitarie hanno più volte documentato le torture, le violenze, gli stupri, le terribili condizioni di vita a cui sono sottoposte le persone ferme nei cosiddetti centri di detenzione in attesa di imbarcarsi per l’Italia; concordi sono le testimonianze di chi è arrivato in Italia. La Ue, inoltre, vieta espressamente a navi battenti bandiera di uno stato dell’Unione di riconsegnare migranti soccorsi in mare alla Guardia Costiera libica. Quanti migranti in Libia? (Numeri discordi) - Un altro interrogativo riguarda il numero delle persone che attendono di prendere la via del mare verso l’Italia e l’Europa. In ripetute dichiarazioni il capo del governo di Tripoli Al Serraj ha minacciato di far arrivare in Italia 600.000 persone che si trovano nei suoi campi. Rapporti dell’intelligence italiana parlano invece di 5-8.000 migranti trattenuti in quei lager. Cifre oggettivamente troppo discordanti. In più, negli ultimi mesi la rotta del Mediterraneo è mutata: sempre più barche (e di dimensioni più piccole) arrivano non più dalla Libia ma dalla Tunisia. Realpolitik o diritti umani? - La partita, dunque, dalla prossima settimana si sposta nel parlamento italiano. Sul fronte politico italiano, esponenti sia del Pd che del M5S chiedono la cancellazione del memorandum; altri ne auspicano modifiche, ad esempio attraverso l’apertura di strutture in Libia controllate da organizzazioni internazionali. La Ue ha però già escluso l’apertura di hotspot sotto il suo controllo. La contraddizione dunque si fa evidente: da un lato l’intesa è necessaria per ragioni di Realpolitik e per non far esplodere di nuovo il problema degli sbarchi; dall’altro l’Italia deve affidare il compito di “gendarme” a un partner come la Libia, preda di un’assoluta instabilità politica e militare e totalmente al di sotto degli standard umanitari. Migranti. Tempo scaduto per il “nuovo umanesimo” di Franco Ippolito* Il Manifesto, 2 novembre 2019 Sapremo soltanto oggi se il nuovo governo giallorosso si è attivato davvero per impedire il rinnovo automatico dell’accordo stipulato dal governo Gentiloni il 2 febbraio 2017 con la Libia, dilaniata da una feroce guerra civile. Ieri Ginevra Bompiani ha raccontato ai lettori de Il Manifesto le atrocità subite da una ragazza somala in un campo di detenzione libico. Numerosi racconti identici ci furono narrati da vittime e da tanti diretti testimoni, nel corso della sessione che il Tribunale Permanente dei Popoli tenne a Palermo nel dicembre 2017, su richiesta di centinaia di organizzazioni europee, per valutare e giudicare in base al diritto internazionale le politiche di esternalizzazione dei confini europei, sostenute da lauti finanziamenti al regime di Erdogan per la chiusura della rotta balcanica e alle milizie libiche per il blocco dei migranti africani. Di fatto realizzato con inaudite violenze in autentici campi di concentramento, sottratti ad ogni controllo, come risulta dagli allarmi continui dell’Unhcr sulle atrocità di ogni tipo commesse sui migranti e richiedenti asilo. Particolare attenzione il Tribunale Permanente dei Popoli dedicò all’intesa dell’Italia con le autorità libiche, che non erano né sono in grado di garantire il rispetto dei più elementari diritti umani dei migranti, lasciati di fatto ad abusi di ogni tipo, anche per la sostanziale connivenza tra le “forze dell’ordine e della sicurezza” (cioè le stesse milizie libiche) e le organizzazioni di trafficanti di esseri umani. In una recente intervista rilasciata a Gad Lerner, il ministro del governo che stipulò l’accordo con la Libia rivendica di “non avere mai autorizzato accordi che sacrificassero l’etica e i diritti umani”. Sta di fatto che a quel sistema di atrocità, documentato da decine di verifiche da parte di organismi internazionali e dal coraggioso lavoro di alcuni giornalisti, lo Stato italiano ha fornito e continua a fornire assistenza, mezzi materiali e sostegno economico, al fine di bloccare i flussi migratori africani. Che questo sia l’obiettivo delle politiche migratorie italiane ed europee è provato dalla mancanza di possibilità legali, sicure e controllate, di giungere in Europa per sfuggire a persecuzioni, guerre, povertà, effetti del cambiamento climatico e, più in generale, dall’assoluta assenza di iniziative politiche e di interventi strutturali idonei a prevenire i motivi di migrazione, al fine di evitare che le persone siano costrette a fuggire dal proprio Paese. Soltanto provvedimenti di tal genere, unitamente a serie politiche di accoglienza e di integrazione, sarebbero efficaci per ridurre e governare i flussi migratori nel rispetto dei valori scritti nella Costituzione italiana e nelle Carte dei diritti fondamentali adottate in Europa. Nella stessa intervista, l’ex ministro degli interni Minniti lamenta una disparità di trattamento da parte di chi chiede a lui conto della Libia, mentre “nessuno chiede conto alla cancelliera Merkel dell’accordo stipulato un anno prima con Erdogan: sei miliardi per trattenere i profughi in Turchia”. La curiosa giustificazione assomiglia tanto ad una chiamata in correità, effettivamente ben fondata, tanto che il Tribunale Permanente dei Popoli valutò alla stessa maniera “gli accordi della vergogna stipulati” con la Turchia e con la Libia. Entrambi illegittimi sia per i contenuti, in contrasto con elementari diritti delle persone, sia per il metodo, giacché essi furono sottratti alla competenza del Parlamento europeo e dei Parlamenti nazionali, come sempre più spesso accade per intese del genere, tanto più che sovente tali accordi, sotto l’etichetta di “cooperazione allo sviluppo”, nascondono il loro effettivo contenuto giuridico, ossia l’inaccettabile scambio tra denaro e persone, realizzato con il blocco delle frontiere esterne dell’Unione europea, delegato a Paesi terzi che non offrono alcuna garanzia di rispetti dei più elementari diritti umani. Su queste scelte concrete, e non su dichiarazioni e parole, va misurata il “nuovo umanesimo” del governo e la discontinuità con le precedenti inaccettabili politiche migratorie. *Presidente della Fondazione Basso Libia. “Io, trafficante di uomini vi racconto il mio lavoro” di Francesca Mannocchi L’Espresso, 2 novembre 2019 “Ho visto gli annegati, mi sono commosso. Ma poi ho pensato che in fondo li avevo aiutati. Se decidono di partire è perché pensano di non avere scelta. Si sentono morti nel loro paese e anche qui”. Cinquemila migranti chiusi nei centri di detenzione ufficiali, decine di migliaia in quelli non ufficiali gestiti dalle milizie. una guerra in corso dal 4 aprile che ha provocato 120 mila sfollati, 1000 morti di cui 100 civili. In mezzo i soldi dell’Europa e dell’Italia, arrivati negli ultimi anni, aumentati anno dopo anno. Sullo sfondo il business del traffico di uomini. L’Espresso è riuscito ad incontrare e registrare un’intervista con un trafficante di Sabratha, che - per ragioni di sicurezza - vuole restare anonimo. Come è cambiato in questi mesi il traffico di uomini? “Al momento è molto complicato per i migranti raggiungere la costa, a causa delle condizioni di sicurezza. Per questo il traffico si è un po’ indebolito, perché i migranti non riescono in gran parte ad arrivare sulla costa. Le strade sono bloccate dai combattimenti e i negoziatori non riescono ad attirare clienti”. Cerca di riassumere la rete, come funzionano gli spostamenti da una zona all’altra? “I migranti arrivano da sud, ci sono varie reti di contrabbando. A volte a trasportare i migranti è gente comune, che di solito non lavora come trafficante. Sono civili, gente normale che fa semplicemente un viaggio con un carico di migranti fino alla zona successiva. Ci sono diversi punti di consegna, ogni regione, tribù, ha qualcuno che prende il trasporto fino al punto successivo. Ad esempio da sud, da Sabbha, da Beni Walid da Al-Hamada, da Ghadamas raggiungono Zintan. A Gharian vanno verso le aree di montagna e scendono nella valle di Wadi Al-Hayya fino all’ultimo punto di trasporto che è Zawia, o Sabratha. E ovviamente ci sono gruppi da Tripoli, partono dalle vicinanze dell’aeroporto di Mitiga verso le coste ovest”. Come sono composti questi gruppi? “Non sono africani. Ci sono siriani, palestinesi. Molte nazionalità diverse. Quello che sta succedendo in questi mesi è che vogliono partire i migranti che sono in Libia da anni, che magari sono qui da dieci anni e non avevano mai considerato di andare via, che più o meno legalmente erano qui per lavorare, come meccanici o qualsiasi altro lavoro. Ora stanno risparmiando per partire, perché sono sempre minacciati da milizie e soprattutto hanno paura della guerra. Molti di quelli che vogliono partire oggi sono già nel nord del paese, non arrivano dai confini sud”. Quando arriva un gruppo di persone da te, qual è il tuo compito? “Limitato, mi occupo della fase finale del lavoro. Chi arriva da me ha raggiunto l’ultimo passaggio. Ognuno ha un ruolo distinto, limitato in questo lavoro. Per chi sta al mio posto la cosa importante è farsi consegnare i soldi prima di partire, prima dell’imbarco. Di solito i migranti non hanno troppe richieste o condizioni. Vogliono solo salire a bordo, questo è tutto”. Non fanno richieste sulla sicurezza durante il viaggio non so, sui salvagenti, per esempio? “No, non a me. Non hanno richieste basate sul nulla. Io li consegno ai ragazzi che li mettono a bordo senza approfondire l’argomento”. Quanto costa il viaggio ora? “Ora i prezzi sono un po’ aumentati, perché è tutto più difficile. Comunque non c’è nulla di fisso, dipende dal modo in cui ci accordiamo con le milizie, un giorno stringiamo un accordo con uno, un giorno con un altro. Un giorno spunta un gruppo nuovo da pagare, lungo la strada. In genere l’ultima fase costa 3-4 mila dinari libici, o può arrivare a 2 mila euro, dipende dalle condizioni”. Hai usato più volte la parola “lavoro”. Ti senti mai in colpa? “No, non provo questo sentimento. Io aiuto le persone a realizzare il proprio sogno. Il nostro lavoro è un taxi. Sanno che il viaggio è pericoloso”. C’è stato un momento, in passato o recentemente, o qualcosa che è accaduto che ti ha fatto pensare di lasciare quello che tu chiami lavoro? “Non mi sono quasi mai fatto questa domanda. Forse una volta, avevo visto l’immagine di un gruppo di migranti annegati. E i media ne parlarono molto. Mi sono commosso. Poi ho pensato che in fondo li avevo aiutati a realizzare il loro sogno. Sono persone morte in ogni caso. Se decidono di partire è perché pensano di non avere scelta. Si sentono morti nel loro paese e anche qui. È una scommessa, le persone scommettono sulla loro vita. E questo fa continuare anche uno come me a fare ciò che faccio”. Due ultime domande, ti è mai capitato di andare a prelevare migranti in un centro di detenzione per portarli a “imbarcarsi”? “Preferisco non rispondere a questa domanda”. Ti risulta che funzionari di paesi europei abbiano cercato di trattare con i gruppi che controllano il traffico per fermare le partenze? “Preferisco non rispondere a questa domanda”. Siria. Nelle carceri curde con i detenuti dello Stato islamico rsi.ch, 2 novembre 2019 Reportage da Al Hasakah, dove migliaia di ex combattenti jihadisti sono sotto il controllo delle forze curde. Le migliaia di combattenti jihadisti dello Stato islamico (Isis) detenuti dalle milizie curde in Siria continuano a preoccupare la comunità internazionale, preoccupazioni che crescono dopo l’annuncio da parte degli Stati Uniti della morte del leader dell’Isis Abu Bakr al Baghdadi per il timore di attentati. I combattenti jihadisti sotto il controllo dei curdi sono circa 12.000: si teme che l’offensiva turca nel nordest della Siria possa favorire evasioni di massa, in quanto molti curdi che controllavano le strutture carcerarie si sono dovuti spostare per combattere al fronte. L’accordo russo-turco, siglato lo scorso 22 dicembre, sembra aver calmato le acque ma i timori sul futuro dei miliziani restano. Tra i circa 12.000 combattenti dell’IS finiti nelle carceri kurde, circa 4.000 sono siriani e altrettanti iracheni. Almeno altri 2.500 provengono però da altri paesi (molti dal Magreb), e fra di loro ci sono anche decine di europei. Secondo Parigi, per esempio, almeno una settantina hanno il passaporto francese, ma i curdi - per ora - non hanno rilasciato statistiche sulla nazionalità dei prigionieri. Finora erano detenuti in diverse strutture ma, sempre a causa dell’offensiva di Ankara, le forze curde hanno dovuto concentrarli in poche prigioni, di cui per motivi di sicurezza non vengono fornite le coordinate. I colleghi della Rts sono però riusciti ad entrare in una di queste strutture ad Al Hasakah. Si tratta molto probabilmente di un’ex carcere del regime siriano e le immagini girate al suo interno sono sconcertanti: testimoniano di centinaia, forse migliaia, di ex combattenti dello Stato islamico con indosso solo una tuta arancione, stipati in un’unica sala, in condizioni igienico-sanitarie precarie. Ci sono uomini, ma anche ragazzi giovanissimi, poco più che bambini. Prima non era così - sostiene ai microfoni della Rts Serkan Demirel, giornalista dell’agenzia stampa curda Firat - in ogni camera c’erano al massimo 25 prigionieri, ma dopo l’attacco di Ankara le forze curde hanno dovuto raggruppare gli jihadisti”. I detenuti sono controllati notte e giorno; la sorveglianza è massima, ma i tentativi di evasione sono costanti. Molti sono malati o hanno gravi ferite, “molti cercano di scappare quando vengono portati a fare un controllo medico - spiega una guardia con il volto coperto da un passamontagna - prendono in ostaggio una guardia e tentato la fuga”. Turchia. Vietato parlare della guerra e dei curdi di Riccardo Noury Corriere della Sera, 2 novembre 2019 In Turchia circola questa barzelletta: “Come vanno le cose?”, “Non possiamo lamentarci”. “Ah, bene allora”. “No, non ha capito. Non possiamo lamentarci”. “Non possiamo lamentarci” è anche il titolo del rapporto diffuso ieri da Amnesty International, in cui l’organizzazione per i diritti umani rende noto che centinaia di persone sono state arrestate e rischiano processi e condanne per aver fatto commenti o denunce sull’offensiva militare in Siria. Chiunque si sia distanziato dalla linea ufficiale - giornalisti, utenti dei social media, manifestanti, attivisti e oppositori politici - viene accusato di “terrorismo” e sottoposto a indagini, detenzioni arbitrarie e divieti di viaggio all’estero. Il rapporto di Amnesty International segnala in particolare la repressione che si è abbattuta contro i giornalisti dopo che il 10 ottobre, 24 ore dopo l’inizio dell’offensiva militare, l’autorità regolatrice delle comunicazioni aveva avvisato gli organi d’informazione che vi sarebbe stata tolleranza-zero su “ogni trasmissione che potrebbe avere un impatto negativo sul morale e sulle motivazioni dei soldati o che potrebbe ingannare i cittadini attraverso informazioni incomplete, false o parziali funzionali agli obiettivi del terrorismo”. Una denuncia ha raggiunto persino il direttore e l’editore del settimanale francese “Le Point”, rei di “offesa al presidente” per questo titolo di copertina: “Pulizia etnica: il metodo Erdogan”. Per quanto riguarda i social media, solo nella prima settimana dell’offensiva militare, 839 account sono stati posti sotto indagine per “diffusione di contenuti di rilevanza penale”; 186 persone sono state messe in custodia di polizia e 24 di loro sono state rinviate in detenzione preventiva. L’operazione “Sorgente di pace” è anche il pretesto per intensificare la repressione contro gli attivisti e gli oppositori politici. Parecchi parlamentari sono sotto inchiesta e decine di attivisti del Partito democratico del popolo (Hdp), di sinistra e filo-curdo sono stati arrestati. La sindaca della città di Nusaybin è stata deposta e subito sostituita da un governatore distrettuale. Il 12 ottobre le “Madri del sabato”, un gruppo di parenti di vittime di sparizioni forzate che organizzano veglie pacifiche ogni sabato dal 2009 per ricordare i loro cari, sono state avvisate che, se fosse stata pronunciata la parola “guerra”, la manifestazione sarebbe stata sgomberata. Cosa puntualmente e violentemente avvenuta non appena è iniziata la lettura di una dichiarazione che criticava l’operazione militare in Siria. Dunque, è vero: in Turchia non ci si può lamentare. Russia. Sciolta d’imperio la storica associazione “Per il diritto dell’uomo” di Yurii Colombo Il Manifesto, 2 novembre 2019 Il ministro della Giustizia ordina, il tribunale esegue. Il fondatore Lev Ponomariov, storico dissidente, si rivolgerà alla Corte europea: “Un obbrobrio giuridico e un tentativo di mettere la museruola a chi si batte per la democrazia”. Puntuale e implacabile come l’orologio del Cremlino che con i suoi rintocchi ricorda il cambio della guardia del picchetto d’onore sulla piazza Rossa, ieri è arrivata la sentenza del tribunale supremo di Mosca che scioglie d’imperio la storica associazione “Per il diritto dell’uomo” presente in oltre 40 città di tutta la Russia. Una misura che getta una pesante ombra sulle prospettive della democrazia nel paese. L’epilogo era ampiamente previsto dato che era stato proprio il ministero della Giustizia Alexander Kolovanov, qualche tempo addietro, a chiedere la liquidazione della fondazione. Il febbraio scorso “Per il diritto dell’uomo” era stata anche dichiarata dal governo “agenzia straniera che opera nell’interesse di altri Stati”. Preludio a una serie di multe milionarie comminate contro l’associazione che si era detta indisponibile a pagarle. Ora il suo fondatore Lev Ponomariov ha dichiarato che si rivolgerà alla Corte europea per i diritti dell’uomo per ribaltare una sentenza da lui definita “un obbrobrio giuridico e un tentativo di mettere la museruola a chi si batte per la democrazia”. Il 78enne attivista ha anche confermato che il suo movimento continuerà ad esistere: “Non so ancora in quale forma ma noi ci saremo” ha sostenuto Ponomariov. Nei prossimi giorni intanto sono previsti dei presidi di protesta nella capitale e non solo. Solo due mesi fa Ponomariov era stato condannato a 25 giorni di arresto amministrativo per essersi appellato su Facebook alla difesa dei diritti dei Testimoni di Geova, fuorilegge nella Federazione dal 2017. Ponomariov è convinto che la decisione del tribunale di ieri sia legata alla ripresa dell’opposizione in Russia, al nuovo vento che spira a Mosca. In un’intervista concessa al portale Meduza, lo storico dissidente sovietico ha dichiarato: “A Mosca, i giovani sono cresciuti, stanno già diventando liberi e guardano all’Europa. Tra questi, ci sono quelli che sono cresciuti nello stesso modo di quando io ero in terza media: credono che la cosa principale nella loro vita sia il lavoro politico, organizzativo e sociale. Ce ne sono molti e faranno una vita normale nel nostro paese, qualunque cosa accada loro. Saranno spaventati, imprigionati e tuttavia non saranno intimiditi. Sarebbe offensivo pensare alla nazione russa che non può rigenerarsi che sia una “nazione di schiavi”. Stati Uniti. “The writing on the wall”, il talento dietro le sbarre abbanews.eu, 2 novembre 2019 Una mostra a New York per far conoscere al mondo il talento e l’umanità racchiusi nelle carceri di tutto il mondo e al tempo stesso per evidenziare la mancanza di correlazione tra i tassi di criminalità e il numero dei detenuti. Nasce così l’esposizione “The writing on the wall”, installata a Manhattan Hight, formata da pareti che costituiscono 3 spazi - grandi quanto le celle delle prigioni - e le cui pareti sono interamente ricoperte dalle composizioni di persone di vari istituti di reclusione del mondo, ma soprattutto statunitensi, dove - spiega Baz Dreisinger, ricercatore e docente e tra gli organizzatori della mostra - sono accolti “il maggior numero di prigionieri al mondo, oltre 2,3 milioni, di cui un terzo non ancora condannato”. Per la mostra sono state scansionate circa 2mila pagine, precisa The New York Times, di composizioni di detenuti ed ex-detenuti in Uganda, Gran Bretagna, Cina, Sudafrica, El Salvador, Norvegia, Australia e Brasile, tutti Paesi dove Baz Dreisinger ha insegnato. Il materiale è composto da lettere, poesie, elaborati sulla femminilità fino a una graphic novel disegnata a mano, ma soprattutto testi politici che esprimono idee su come migliorare il sistema carcerario. Nessuno sa meglio dei detenuti come riparare il sistema giudiziario, o meglio i sistemi giudiziari perché, sostiene Dreisinger se quello degli Stati Uniti mette dietro le sbarre soprattutto gli afroamericani e i latini, accade che in Canada, Australia e Nuova Zelanda le porte del carcere si aprono soprattutto per le popolazioni indigene e, in generali, per i più poveri. Stando alle parole delle studioso sono “pochissime le cose che funzionano nel sistema giudiziario degli Stati Uniti” basato soprattutto “sull’esclusione sociale e l’oppressione razziale”, risultati diretti della schiavitù e della segregazione; prosegue Dreisinger: “Si pensa che punire le persone in modo ossessivo ci renderà più sicuri, quando tutti i dati smentiscono questa convinzione”. E allora che sia promosso lo scrivere perché “non c’è nulla che umanizzi più della parola scritta” dice lo studioso, che oltre a essere direttore dell’Incarceration Nations Network, insegna presso il John Jay College of Criminal Justice di New York, dove ha concepito un programma di formazione che promuove gli studi universitari tra i detenuti. Vale la pena leggere i testi selezionati, giacché oltre “a esprimere l’intera gamma della sensibilità dietro le sbarre” sono le voci di chi “avendolo vissuto, sa come riparare il sistema carcerario”. La mostra The writing on the wall, visitabile fino al 10 novembre 2019, è frutto della collaborazione tra il professore Baz Dreisinger, l’artista concettuale, Hank Willis Thomas, Open Box e con la progettazione dell’allestimento di Mass Design Group.