Il Papa oltre le sbarre di Luigi Manconi La Repubblica, 29 novembre 2019 Dal discorso di Francesco sul carcere emerge un paradosso: la sola voce dotata di autorità morale che richiami principi universali è quella di un leader religioso, Bergoglio appunto. Se una lettura provinciale e “mondana” ha trasformato la pastorale di Papa Francesco in un messaggio “comunista” figuriamoci cosa accadrà ora. Dopo, cioè, che i suoi critici avranno letto il Discorso del Pontefice ai partecipanti al XX Congresso mondiale dell’Associazione internazionale del diritto penale. Consideriamo uno dei passaggi più interessanti: “La sfida presente per ogni penalista è quella di contenere l’irrazionalità punitiva, che si manifesta, tra l’altro, in reclusioni di massa, affollamento e torture nelle prigioni, arbitrio e abusi delle forze di sicurezza, espansione dell’ambito della penalità, la criminalizzazione della protesta sociale, l’abuso della reclusione preventiva e il ripudio delle più elementari garanzie penali e processuali”. Ancora, nel Discorso si critica l’uso arbitrario della custodia preventiva, la pretesa “di giustificare crimini commessi da agenti delle forze di sicurezza come forme legittime del compimento del dovere”. E si chiede di “ripensare sul serio l’ergastolo”. Si tratta di parole forti, che esigono due precisazioni. A) Il Discorso del Papa riguarda, sì, anche l’Europa, ma richiama questioni che affliggono drammaticamente il mondo intero. B) La riflessione sul concetto e sul senso della pena risale alla tradizione biblica e alle fonti testamentarie, alla pastorale della Chiesa e alla concezione “personalistica” dell’uomo, per come si è sviluppata negli ultimi due secoli. È una riflessione che oggi si nutre, in particolare, dell’elaborazione del giurista argentino Eugenio Raúl Zaffaroni e della sua scuola. E che, in Italia, viene sviluppata da giuristi di ispirazione cattolica, come Luciano Eusebi e Giovanni Maria Flick. Emerge qui una concezione del diritto non solo come strumento di composizione delle controversie tra gli individui, ma come sistema generale di tutela della inviolabilità della persona, che ha al centro il valore della dignità. Ed è ancora qui che la riflessione del Papa incontra la teoria dei diritti umani e dello stato di diritto, elaborata dal miglior pensiero liberale, democratico e garantista, che rappresenta il punto più alto del pensiero giuridico contemporaneo. Ne consegue un paradosso: nella fase attuale di disordine mondiale, la sola voce dotata di autorità morale che richiami principi universali è quella di un leader religioso: Papa Francesco appunto. Ecco, se esaminiamo in questa ottica il pensiero del Papa sulla giustizia, ma anche sulle migrazioni e sulla povertà, sarà possibile sottrarsi più agevolmente alle polemicucce nostrane; e si potrà cogliere tutto il patrimonio di una dottrina sociale che ha una storia antica; e che da sempre incontra resistenze e suscita conflitti all’interno delle gerarchie e del popolo dei fedeli, tra posizioni, chiamiamole così, progressiste e posizioni conservatrici. Discende da qui il fatto che, nella nostra piccola Italia, la contestazione nei confronti di Francesco segue la linea di frattura degli schieramenti politici. Nel 2005 non ero parlamentare e, insieme a giuristi e a molte associazioni, mi battevo perché venisse approvato un provvedimento di indulto e amnistia. Contavamo sull’atteggiamento favorevole della Chiesa cattolica, ricordando che Papa Wojtyla, in occasione del Giubileo del 2000, aveva chiesto con forza un gesto di clemenza; e aveva rinnovato la richiesta quando nel 2002 si era recato in visita al Parlamento italiano. La risposta della classe politica era stata elusiva, ma anche l’atteggiamento della Cei sembrava titubante. Per questa ragione chiesi un incontro privato con l’allora presidente della Cei, Camillo Ruini. Lo ottenni con una certa rapidità e, così, incontrai il cardinale. Ebbi modo di spiegare dettagliatamente le motivazioni a favore di un provvedimento di clemenza. Il cardinale mi ascoltò con attenzione, mi chiese molti particolari e volle approfondire alcuni punti. A conclusione del colloquio non espresse un’opinione, ma mi garantì che avrebbe riflettuto e avrebbe portato la discussione all’interno della Conferenza episcopale. Poi aggiunse di essere stato già informato sul tema da altri e di avere ascoltato opinioni contrarie al provvedimento, indicando nell’allora sottosegretario al ministero dell’Interno, Alfredo Mantovano, il suo interlocutore. Mantovano era ed è persona competente e per bene, cattolico intransigente e, direi, reazionario, allora militante in Alleanza nazionale. E indubbiamente il peso delle sue argomentazioni presso il cardinale doveva essere rilevante. Fatto sta che, dopo poco più di un anno, durante il secondo governo Prodi il provvedimento di indulto venne approvato con la maggioranza richiesta dei due terzi e l’opposizione di An. La Chiesa cattolica tenne un atteggiamento prudente, l’associazionismo assunse posizioni diversificate, così come i vescovi. Il Discorso di Papa Francesco, se pronunciato all’epoca, non sarebbe stato senza conseguenze, rinnovando quel conflitto tra opzioni diverse che - in materie non di dottrina - corrispondono a differenti sensibilità, culture, esperienze. Forse soprattutto esperienze. Racconta Francesco: “Sin da giovane sacerdote, e poi da Arcivescovo di Buenos Aires, la mattina celebravo la messa con i preti e gli altri vescovi, e la sera andavo in carcere”. La deriva securitaria investe anche il carcere di Federica Brioschi sbilanciamoci.info, 29 novembre 2019 La centrale figura del direttore di penitenziario rischia l’estinzione, o meglio una trasformazione allarmante. Non solo perché dal ‘93 non si fanno concorsi. Come il riordino delle forze di polizia rischia di mettere in serio pericolo la funzione trattamentale della pena prevista dalla Costituzione. Il sistema penitenziario è un organismo con equilibri di potere molto delicati, che deve raggiungere diversi obiettivi previsti dal dettame costituzionale in un contesto di difficile bilanciamento fra esigenze securitarie, trattamentali e di tutela dei diritti delle persone private della libertà. Il direttore gioca un ruolo molto rilevante in questo contesto in quanto si tratta di una figura terza e di coordinamento che non appartiene al comparto sicurezza, né all’area trattamentale, né agli organismi di garanzia dei diritti. Il suo compito è molto simile a quello di un arbitro, che deve tenere in equilibrio tutte funzioni svolte dall’istituto penitenziario. Il decreto legislativo in materia di riordino delle forze di polizia al Capo IV presenta alcune norme riguardanti la polizia penitenziaria (che vanno a modificare la legge n.395 del 1990) che possono mettere in pericolo questo delicato equilibrio. L’attuale sistema prevede che a capo di ogni istituto penitenziario ci sia un direttore sovraordinato gerarchicamente al comandante di polizia penitenziaria. Il direttore è la figura a garanzia del rispetto degli obiettivi costituzionali della pena e quindi a lui spettano decisioni riguardanti molteplici aree di intervento fra le quali si trovano l’amministrazione contabile, l’ultima parola sulla disciplina, la sicurezza e l’uso delle armi, l’organizzazione della vita interna, la selezione delle opportunità sociali, educative, culturali e sportive. Pur considerando legittime le aspirazioni di carriera degli appartenenti al corpo di polizia penitenziaria, la riforma, nella parte in cui di fatto elimina la subordinazione gerarchica del comandante di reparto della polizia penitenziaria al direttore del carcere, snatura l’attuale delicato equilibrio tra istanze di risocializzazione, bisogno di sicurezza e tutela dei diritti che vede nel direttore il suo garante. Vero è che nella previsione in discussione, pur venendo meno la subordinazione gerarchica del Comandante al Direttore, rimarrebbe una subordinazione di tipo funzionale, ma si tratta di una soluzione assolutamente inadeguata a garantire il ruolo di terzietà che attualmente è ricoperto dal direttore del carcere. Oltre a una disfunzione sul piano operativo della quotidianità dell’istituto, si rischia anche di andare incontro a uno sbilanciamento verso le funzioni securitarie. Fondamentalmente se in un carcere operasse un poliziotto con una qualifica superiore a quella del direttore sarebbe molto difficile imporre l’esecuzione di un ordine, quale ad esempio quello paradigmatico di non usare la forza fisica, che diventerebbe appannaggio del comandante contrariamente a oggi, così come l’imposizione delle sanzioni disciplinari a un agente della polizia penitenziaria. La polizia penitenziaria è un corpo che conta oltre 35.000 operatori con un rapporto di 1,6 detenuti per agente. La differenza fra questi numeri e quelli del personale civile è molto significativa. Sempre più carceri rimangono senza un direttore incaricato e sempre più direttori sono responsabili di più istituti. Su 52 carceri visitate dal nostro Osservatorio di Antigone solo 30 avevano un direttore incaricato esclusivamente in quell’istituto. Indicativo il fatto che l’ultimo concorso pubblico per la figura del direttore penitenziario risale a 25 anni fa. L’assenza di un direttore incaricato causa numerosi problemi dal punto di vista organizzativo della vita interna oltre che un carico di responsabilità maggiore su chi lo sostituisce. Ma i direttori non sono le uniche figure non sufficienti dal punto di vista numerico. I funzionari giuridico-pedagogici sono, secondo i dati del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, 925, il che significherebbe un rapporto personale-detenuti di 1 a 65 che rende impossibile ogni tentativo di pianificazione del percorso trattamentale per ciascun detenuto. A fronte di un già esistente sbilanciamento della funzione di sicurezza a scapito di quella rieducativa, questa riforma è un chiaro tentativo di accentuare maggiormente questo disequilibrio. Invece che cadere nella trappola securitaria anche nel penitenziario, sarebbe opportuna una riforma che vada ripensare l’intero modello di gestione e management delle carceri. Braccialetti elettronici bloccati, manca il nulla osta del Viminale di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 novembre 2019 Fastweb è pronta da più di un anno, ma il Ministero dell’Interno non nomina la Commissione. Sono passati oramai quasi tre anni da quando, dopo un lungo iter, è stato aggiudicato alla compagnia telefonica Fastweb il bando di gara per la produzione dei braccialetti elettronici. Infatti, la commissione nominata per le valutazioni tecnico/ economiche delle offerte pervenute, ha affidato alla compagnia la fornitura, l’istallazione e attivazione mensile di 1000 braccialetti elettronici, fino a un surplus del 20 per cento in più, con connessi servizi di assistenza e manutenzione per un arco temporale di 27 mesi. La compagnia telefonica, in tandem con l’azienda Vitrociset, aveva presentato l’offerta più conveniente dal punto di vista economico: poco più di 19 milioni di euro, oltre l’Iva al 22 per cento. La gara di appalto a normativa Europea, sulla base del criterio dell’offerta più vantaggiosa, aveva un importo complessivo a base di gara pari a più di 45 milioni di euro. Il servizio sui braccialetti elettronici sarebbe dovuto partire da ottobre del 2018, ma c’era bisogno che il ministero dell’Interno - allora guidato dall’ex ministro Matteo Salvini - nominasse la commissione di collaudo di tutto il sistema: l’emissione del servizio, quindi l’infrastruttura, la sala di controllo e i device. In quel periodo Il Dubbio ha contattato direttamente Fastweb. L’azienda rispose che commissione sarebbe stata nominata a novembre dell’anno scorso e quindi il collaudo sarebbe dovuto partire a metà dicembre 2018. In pratica il ministero dell’Interno non avrebbe rispettato i tempi in modo da garantire l’entrata in funzione come già programmato. Però nel frattempo, da allora, è passato un altro anno e siamo arrivati ad oggi dove tutto tace. Il Dubbio nei giorni scorsi ha contattato Fastweb, ma questa volta la compagnia ha fatto sapere che la compagnia si occupa solo della fornitura e di aver ricevuto l’ordine dal ministero dell’Interno di non dare ulteriori notizie sullo sviluppo, perché questo compito spetta al Viminale. Il Dubbio, con tanto di lettera scritta come prevede la prassi, ha chiesto informazioni nel merito al ministero, ma ad oggi ancora nessuna risposta. Con un sovraffollamento da capogiro e con la popolazione detenuta che cresce di mese in mese, ci si deve accontentare degli attuali 2000 braccialetti elettronici, che sono del tutto insufficienti. Così capita che nonostante i magistrati accolgano le istanze per i domiciliari, salvo l’utilizzo dei braccialetti elettronici, diversi reclusi rimangono in attesa visto l’indisponibilità dei dispostivi. Il ricorso ai braccialetti elettronici serve non solo a sfoltire le carceri dai detenuti per pene brevi e di lieve entità, ma è utile anche alle forze di polizia che possono evitare di impegnare il personale per visitare e controllare giornalmente i detenuti ammessi a fruire di misure detentive domiciliari. Ma non solo, il contratto stipulato con Fastweb prevede la possibilità di utilizzare il braccialetto anche in funzione anti- stalking: l’autorità giudiziaria potrà imporre allo stalker l’obbligo di portare un braccialetto elettronico dotato di dispositivo Gps, mentre la potenziale vittima sarà dotata di apparecchio in grado di rilevare la presenza dell’aggressore nelle vicinanze e di generare in tempo reale una segnalazione di allarme verso le Forze dell’Ordine. In Spagna, dove tale scenario esiste già dal 2009, sono stati confermati i successi della prima sperimentazione: nessuna delle vittime sottoposta a controllo elettronico è stata nuovamente oggetto di violenza. Ma tutto tace e da quando è stato aggiudicato l’appalto, sono già passati quasi tre anni. La compagnia Fastweb ha fatto il suo dovere come fornitore, ma il ministero dell’Interno quando deciderà di dare finalmente il via? Nel frattempo domani l’Unione delle Camere Penali Italiane organizza la V Giornata nazionale dei braccialetti. L’evento principale si svolgerà presso l’Istituto Penitenziario di Sollicciano, mentre in diverse sedi locali si terranno incontri ed iniziative di vario genere per chiedere che vengano immessi i dispositivi per garantire l’art. 58 quinquies dell’Ordinamento penitenziario. Quest’ultimo è stato introdotto dal decreto legge del 23 dicembre 2013, n. 146 e convertito in legge a febbraio 2014: ha disposto la possibilità anche per il magistrato di Sorveglianza di prescrivere procedure di controllo con mezzi elettronici, nel disporre gli arresti domiciliari. Un efficace strumento anche contro gli stalker La prima utilità del braccialetto elettronico è il monitoraggio. È lo scenario classico, in cui il provvedimento dell’autorità giudiziaria impone di monitorare il soggetto all’interno di uno o più luoghi predefiniti (es. il proprio domicilio) secondo le modalità e negli orari stabiliti dalla stessa autorità giudiziaria. Poi c’è il monitoraggio con tracciamento. È lo scenario in cui il provvedimento dell’autorità giudiziaria impone di monitorare il soggetto all’interno di uno o più luoghi predefiniti (es. il proprio domicilio) secondo le modalità e negli orari stabiliti dalla stessa autorità giudiziaria e, contestualmente, di tracciarne gli spostamenti generando un allarme qualora il soggetto acceda a determinate “zone di esclusione” o esca da prefissate “zone di inclusione”, senza che venga effettuato il monitoraggio domiciliare. In caso di allontanamento non autorizzato o di manomissione dei dispositivi di controllo elettronico, sarà generato un allarme verso il Centro Elettronico di Monitoraggio in modo da allertare le Forze di polizia. La persona sottoposta a controllo elettronico, oltre ad indossare il braccialetto, ha l’obbligo di portare con sé anche un dispositivo GPS, entrambi dotati di un sistema di allarme in caso di manomissione. Si aggiunge anche l’utilizzo per il tracciamento di prossimità, ovvero come rimedio anti stalking. È lo scenario in cui, in aggiunta a quanto previsto per il tracciamento, la potenziale vittima di aggressione venga dotata di un dispositivo in grado di rilevare la presenza dell’aggressore nelle vicinanze e di generare immediatamente un allarme verso il centro di monitoraggio. I dispositivi permettono di tracciare costantemente la posizione del molestatore e notificano immediatamente al Centro di controllo la violazione di una delle zone di sicurezza attorno alla vittima. Esiste inoltre la possibilità di contattare la persona in regime interdittivo per verificarne le intenzioni e dissuaderla. La vittima dello stalker, d’altro canto, è dotata di un dispositivo portatile nel quale è presente un bottone di allarme che attiva anche la chiamata diretta con l’operatore, tale dispositivo può essere chiamato dall’operatore stesso. In Spagna, dove tale scenario è già in uso dal 2009, a fronte di una crescita costante delle denunce per violenza domestica, la diminuzione degli omicidi legati alla violenza di genere nella Comunità Autonoma di Madrid è stato pari al 33,33% (da sei a quattro) rispetto all’andamento nazionale che ha registrato un calo del 18,75%. Dal 2009 sono stati confermati i successi della prima sperimentazione: nessuna delle vittime sottoposta a controllo elettronico è stata nuovamente oggetto di violenza. Università e carcere. È garantito davvero il diritto allo studio dei detenuti? farodiroma.it, 29 novembre 2019 La Crui e la Cnupp (Conferenza Nazionale dei Poli Universitari Penitenziari) hanno organizzato presso la Sapienza Università di Roma un incontro per raccontare la propria attività e confrontarsi sul tema della formazione che gli atenei mettono a disposizione dei detenuti. “Quando si pensa all’università spesso ci si limita alla didattica e alla ricerca - ha detto Gaetano Manfredi, Presidente della Crui, in apertura - Ma si tratta di una percezione parziale. L’università è anche un importantissimo strumento di inclusione e di promozione sociale. Nel caso degli istituti penitenziari ciò emerge con molta evidenza. La costituzione prevede che la pena abbia funzione riabilitativa e la collaborazione fra università e poli penitenziari va esattamente in questa direzione.” “Le università si ispirano al principio che il diritto allo studio universitario va garantito anche a chiunque si trovi in condizioni di limitazioni della libertà personale - ha detto Franco Prina, Presidente della Cnupp - Per questo l’impegno duplice della Cnupp: far sì che tutti gli atenei siano fattivamente impegnati a mettere a disposizione le proprie strutture didattiche per questo compito impegnativo; e mantenere un confronto permanente con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria perché in ogni istituto siano garantite le condizioni essenziali per rendere fruibile tale diritto, in maniera omogenea e per tutti coloro che intendano esercitarlo.” La Crui, e gli atenei associati, convinti della necessità sociale di questo percorso hanno istituito nel 2018 la Conferenza Nazionale dei Poli universitari Penitenziari. Ciò per riconoscere e promuovere l’impegno di un numero crescente di atenei per il diritto allo studio degli studenti detenuti o sottoposti a misure di privazione della libertà personale. Attualmente i detenuti iscritti a corsi universitari sono 926 (897 uomini, 29 donne). La maggior parte appartengono a regimi detentivi “normali”, mentre 317 sono in alta sicurezza e 14 al 41 bis. Le università sono presenti in 92 istituti penitenziari. La maggior parte dei detenuti è iscritta a discipline politico sociologiche (23%) e umanistiche (21%). Secondo Antigone, “la possibilità di esercitare il diritto allo studio universitario non è data a tutti coloro che sarebbero nelle condizioni di esercitarlo e avrebbero l’interesse a farlo. Dipende dal carcere nel quale ci si trova, dalla capacità di attivazione presso le amministrazioni e le strutture didattiche universitarie di chi è in contatto con il detenuto interessato, dall’interesse e sensibilità di alcuni docenti. Per questo molte aree (intere regioni) e molti istituti penitenziari non offrono, almeno al momento, questa opportunità. Non essendo questo né un impegno normativamente regolato sul versante delle Università, né un vero e proprio diritto esigibile in maniera incondizionata. E anche laddove si sono sviluppate le varie esperienze, esse paiono al momento piuttosto differenziate, risentendo delle condizioni particolari di ogni istituto, del tipo di popolazione detenuta, delle modalità di esercizio della leadership, del clima interno, dei rapporti tra area trattamentale e area della sicurezza, delle condizioni strutturali e di affollamento, ecc. Ma anche del diverso grado di coinvolgimento e investimento dei singoli Atenei a supporto delle disponibilità e dell’impegno di singoli o gruppi di docenti. È proprio questo panorama articolato e localmente connotato, che emerge dal confronto permanente in seno alla Conferenza nazionale dei Delegati dei Rettori per i poli universitari penitenziari (la Cnupp). Ma un panorama di cui per la prima volta si ha piena consapevolezza, essendo stati raccolti una serie di dati importanti riferiti all’anno accademico 2018/19. La Conferenza nazionale raggruppa al momento 30 Università che sono presenti, in modi e con gradi di intensità variabili relativamente a numero di studenti e attività didattiche realizzate, in 70 istituti penitenziari (di tipi diversi). La distribuzione sul territorio di Università e carceri è piuttosto ampia, anche se, come si può vedere dalle figure e tabelle che seguono, vi sono alcune regioni, in cui l’incontro tra Università e carcere non si è (ancora) concretizzato. La prigione è un convento. Storie di carcerati che si fanno scrittori di Luigi Accattoli ilregno.it, 29 novembre 2019 La prigione è metafora di tante cose e sul pianeta c’è la cella del monaco e quella del carcere: parto da questo doppione per dire come anche il carcere possa portare lontano. Racconto di tre detenuti che di strada ne hanno fatta e uno è arrivato a farsi monaco. Il doppio della cella m’attirava da quando alla vigilia del matrimonio, ero andato con lei a Camaldoli a prendere la benedizione di don Benedetto Calati: “Ci sarebbe la clausura ma venite tutt’e due lo stesso. La cella del monaco è per la libertà, non è una prigione”. La cella che si sdoppia in carcere e in chiostro ancora di più m’attira da quando, otto anni addietro, presi a occuparmi di volontariato carcerario con la San Vincenzo de Paoli. Faccio parte della Giuria del Premio Castelli e ogni anno andiamo in un carcere diverso per la premiazione. Nel 2014, a Bari, mi capitò d’intervistare Massimiliano Taddeini, vincitore del primo premio, che così motivò la decisione di narrare la sua storia: “Il carcere è come un convento: tra quattro mura hai tempo per cercare dentro”. È quello che è successo a tanti partecipanti al concorso, come ho potuto vedere nei 2.000 testi, all’incirca, che ho letto fino a oggi. Cercando dentro, qualcuno si fa scrittore e qualcuno - addirittura - scopre l’orazione mentale. Inattesa utilità del silenzio comandato È il caso del primo libro che suggerisco a chiunque si occupi di carcere o di meditazione: Una via nel deserto. Commento alla Regola di san Benedetto per chi è in carcere (LEF, Firenze 2019, pp. 282). L’autore, James Bishop, che fu in carcere negli USA per dieci anni a seguito di gravi reati, appartiene oggi alla Comunità mondiale per la meditazione cristiana ed è un oblato benedettino. Come la parola “cella”, anche la parola “prigione” può avere il suo doppio: “Attraverso la Regola e la meditazione - scrive Bishop - sono arrivato a capire come abbia vissuto in una prigione autoimposta per molti anni e come, dopo essere stato spedito in una prigione vera, mi sia sentito più libero”. Secondo Bishop, per più aspetti il carcere è “simile a un monastero”: per lo “stretto contatto” tra gli abitatori dei due luoghi, perché in ambedue “la vita è molto inquadrata”, perché là e qua vi sono momenti di silenzio “comandato” che aiutano a condurre “il lavoro su di sé”, perché il detenuto è “povero di tutto” come un monaco. Dalla povertà il monaco che fu carcerato trae una metafora alta: “Quando entriamo a far parte di questo mondo non possediamo niente e anche dopo che ce ne siamo andati non possediamo niente”. Altre più puntuali somiglianze il nostro le segnala tra la “cella d’isolamento” (che sperimentò per sette mesi) e la solitudine che puoi raggiungere con la meditazione. Tra la prigione e la “scomunica” della Regola benedettina, cioè la separazione del monaco ribelle dalla comunità: “Chi è in prigione è scomunicato dalla società”. Tra la scuola d’umiltà dell’una e dell’altra, che procedono ambedue facendo tutti uguali già nel vestito, nel taglio dei capelli, nel cibo. Ho letto con emozione le pagine del monaco che viene dal carcere. L’intento di rivolgersi in primo luogo “a chi è in prigione” l’induce a forti semplificazioni e a qualche ingenuità di storia, di Bibbia e di liturgia, che però non intaccano la convincente serietà con cui accoglie la vocazione cristiana e se ne fa apostolo. Ho ammirato questo fratello che si presenta come “un prigioniero perdonato”, con un motto che ricorda quello di “peccatore perdonato” di papa Francesco. Per fortuna un giorno vennero ad arrestarmi Ho trovato rispondenza tra il cammino meditativo che lo porta ad amare il silenzio della cella e il racconto del percorso compiuto dal monaco a me coetaneo Enzo Bianchi: “Anch’io ho conosciuto la cella come luogo di reclusione ma poi, perseverando, l’ho scoperta come luogo in cui si impara ad abitare con sé stessi” (“Il cielo in una cella”, su La Stampa - TuttoLibri, 31.7.2004). Ho lodato Bishop quando commenta con la sua vicenda il Salmo 119 (“Bene per me se sono stato umiliato”): “La maggior parte delle persone che sono in prigione non avrebbe interrotto i propri crimini se non fosse stata rinchiusa: è stato così anche per me”. Posso attestare che tante storie che i detenuti inviano al nostro concorso di scrittura contengono l’affermazione: “Per fortuna un giorno vennero ad arrestarmi”. Il mio apprezzamento maggiore va infine alle pagine che trattano della riparazione del male: “Ci sono persone vittime del mio crimine. Non posso dare loro alcuna restituzione. La cosa migliore che posso fare è aiutare in generale gli altri: in questo modo è possibile generare più bontà nel mondo di quanta ne abbiamo ricevuta. Forse un giorno il bilancio tornerà in pari”. Informandomi sulla meditazione in carcere ho scoperto che è un’arte insegnata con buoni risultati sia da monaci cristiani sia da buddhisti. “Non c’è poi molta differenza tra la vita cenobitica e la vita in prigione”, afferma in un’intervista Dario Doshin Girolami, che dirige il Centro Zen l’Arco di Roma e tiene corsi di meditazione nel carcere di Rebibbia. La mia vita rubata da faide e ‘ndrangheta Bishop l’ho letto ma non l’ho incontrato. Il secondo autore che segnalo l’ho invece incontrato e l’ho avuto accanto a tavola: si chiama Carmelo Gallico, è il vincitore del primo premio dell’edizione di quest’anno del Premio Castelli di cui ho già parlato (cf. Regno-att. 18,2019, 575s). Ha avuto l’autorizzazione a essere presente nel carcere di Matera al nostro appuntamento annuale e mi ha dato un suo libro: “Senza scampo. La mia vita rubata da faide e ‘ndrangheta” (Edizioni Anordest, Lancenigo 2013, pp. 251). Gallico - che è stato a più riprese in carcere per un totale di 16 anni e che ora è agli arresti domiciliari in attesa di giudizio - si dice innocente e vittima incolpevole d’essere nato in una famiglia di ‘ndrangheta (i Gallico sono di Palmi), con diversi familiari uccisi o variamente condannati: “Ma il modello mafioso è stato sempre da me avversato e mai perseguito”. Entra ed esce dal carcere da quando aveva 25 anni e ora di anni ne ha 56. È autore di più volumi e vincitore di diversi premi. Ha una scrittura asciutta, forte. Bishop distingue tra “prigione autoimposta e prigione vera”. Gallico tra “prigioni di fatto” e “prigioni reali”. Come Bishop trova la libertà nella meditazione, Gallico la scopre nella scrittura: “Avevo finalmente scoperto il modo di sconfiggere il carcere. Con le mie parole aprivo brecce nelle sue spesse mura, parlavo alla gente, suscitavo emozioni, creavo ponti con il resto del mondo. Ero vivo. Quella era la mia vera libertà”. Quella di “sconfiggere il carcere” è per Carmelo l’impresa della vita. Nel teatro del carcere di Matera gli abbiamo chiesto di leggere il testo premiato ed egli, a premessa della lettura, ha confidato la sua utopia del superamento del carcere, un’utopia che i volontari carcerari condividono con i detenuti, nella speranza che un giorno la privazione della libertà sia concepita come una misura estrema e d’emergenza, da limitare il più possibile. Se la luce della ginestra entra nella tua cella Questo sogno a Matera il detenuto e scrittore Carmelo Gallico l’ha così proposto: “Privare qualcuno della libertà è peggio che infliggergli la morte, e l’uomo ha scelto di costruire invalicabili muri dentro cui imprigionare altri uomini rei di un qualche male. Questa concezione del carcere è espressione dell’uomo che si fa lupo per l’uomo, perché il carcere, immaginato come luogo di punizione e relegazione del male, è esso stesso prodotto e strumento del male, non la sua soluzione, ma la sua perpetuazione. Per dare risposte e soluzioni al male, l’uomo dovrà imparare ad attingere dalla parte più nobile della propria umanità, e libero da primitivi istinti di violenza, non avvertirà più il bisogno di mettere uomini in catene”. Il primo autore che segnalavo trovava la libertà nella meditazione. Il secondo nella scrittura. Il terzo la trova nella lettura e nella scrittura tra loro contaminate. Si tratta di Carmelo Guidotto, autore con Carmela Cosentino di un epistolario pubblicato con il titolo “La luce della jinestra. Riflessi di umanità dal carcere” (Ancora, Milano 2019, pp. 249). Jnestra in siciliano è ginestra e il titolo è preso da un brano dove Carmelo torna a sentirsi “libero dentro” contemplando una foto con “una macchia di jnestra bellissima” che gli ha mandato Carmela. Carmelo Guidotto è condannato all’ergastolo, Carmela Cosentino è un’assistente sociale che gli diviene amica di penna. Lei gli porta e spedisce libri, narra concerti e mostre. Lui si giova di ogni appiglio: “Io sono onnivoro, leggo di tutto. Solo leggendo si va fuori di qua”. In Carmelo - che fa anche il volontario nella biblioteca del carcere - la scrittura fluisce naturale come figlia primogenita della lettura. “Scrivi, scrivi” l’incoraggia lei. E lui asseconda, anzi precorre l’invito: “Non faccio altro che leggere e scrivere”, confida trasognato. E confessa che scrivendo sempre si sente “più leggero”. Sono stato sempre fuori con la mente È anche grazie al carteggio con Carmela che alla domanda della direttrice “se io mi vedevo fuori”, il nostro può rispondere: “Io sono stato sempre fuori con la mente”. Quel carteggio - come scrive nella Postfazione il curatore del volume, Giuseppe Trevisi - “è un percorso di educazione alla virtù della fiducia alimentata dalla speranza e fondata sull’amicizia, che potremmo anche chiamare riconoscimento della comune umanità”. Carmelo è sorpreso dai “cambiamenti vissuti nel carcere” e la sua conclusione è vicina a quella del detenuto che si è fatto monaco: “Se non fossi qui dentro avrei mai avuto la fortuna di aprire la mia mente?”. Pena di vita di Massimo Gramellini La Stampa, 29 novembre 2019 Come accoglieremmo la notizia che gli assassini di un nostro caro sono stati condannati a morte? A giudicare dai commenti che fioriscono dopo ogni delitto, si può azzardare che molti reagirebbero con una certa soddisfazione. Ma poiché in Europa la pena di morte per fortuna non c’è più, si tratta di un discorso puramente ipotetico. O meglio, si trattava. Fino a quando un tribunale del Bangladesh ha condannato a morte i sette invasati che tre anni fa torturarono e uccisero i commensali di un ristorante di Dacca che ai loro occhi avevano la colpa di non conoscere il Corano. Tra le vittime vi furono nove italiani e dopo la sentenza i parenti hanno espresso lo stesso concetto: togliere altre vite non lenisce la tristezza e aumenta l’amarezza. Il signor Luciano Monti, che nella strage perse la figlia e il nipotino che portava in grembo, ha detto: “Mi fa rabbia sapere che non si sono pentiti, però la loro morte non è una consolazione né una soluzione”. Escludo che tutti questi genitori, coniugi e fratelli appartengano a una congrega di santi pacifisti. E che il pensiero di strappare la vita a un altro essere umano, persino al peggiore, assume un peso diverso quando da dibattito virtuale si trasforma in evento reale. Il partigiano Giorgio Bocca lo spiegò benissimo: “Uccidere i cattivi a caldo può essere una necessità, talvolta una liberazione. Ma ucciderli a freddo, magari dopo anni, non ti fa sentire più giusto. Solo un po’ più simile a loro”. L’idiozia delle pene deterrenti di luri Maria Prado Il Riformista, 29 novembre 2019 Rendere più aspre le punizioni non serve a niente, si sa. E se pure servisse? Torniamo a pane ed acqua, o ai lavori forzati? Il terrore è buono per i regimi di terrore. Un’altra balordaggine in materia di giustizia è questa: che per ottenere il rispetto della legge bisogna rendere conveniente rispettarla. E come si fa? Si fanno leggi sempre più dure, affinché tutti sappiano che violarle non conviene. Questo illuminato programma è illustrato a destra e a manca perlopiù quando si discute di evasione fiscale, ma è riproposto frequentemente a proposito di qualsiasi illecito e precipita sempre in una ricetta esclusiva: alzare le pene. Con l’accortezza - come spiega certa magistratura militante - di alzare le pene minime, in modo tale da garantire che in galera ci vadano proprio tutti (lo ha spiegato qualche giorno fa il procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri, durante la trasmissione Otto e mezzo, con la giornalista Lilli Gruber impegnata a mettere in difficoltà il magistrato facendosi aiutare da Marco Travaglio). Qualche millennio di esperienza dovrebbe insegnare che la società non migliora mai con l’indurimento delle leggi: e che una legge è veramente efficace quando è diffusamente ritenuta giusta, non quando si ha solo il timore di sottrarvisi. Ma si faccia pure l’ipotesi che, al contrario, la cosa funzioni. Si faccia l’ipotesi, cioè, che davvero aggravare il sistema e l’entità delle pene costituisca un modo efficace per ottenere - come dicono questi qui - maggiore legalità”. D’accordo: ma il limite qual è? Immaginiamo qualche esempio. La prospettiva dí rimanere a pane e acqua per la durata della detenzione non deve essere un granché, e disporre che i detenuti godano di una simile dieta rappresenterebbe un ottimo esperimento dell’intenzione di rendere poco conveniente violare la legge. Che cosa facciamo? La introduciamo, questa salutare riforma? Oppure - che so? - i lavori forzati. Nemmeno quelli saranno visti come una delizia, e c’è caso che uno ci pensi un paio di volte ín più, quando sta per commettere un delitto, se sa che finisce a spaccare pietre sotto il sole. Ma è un motivo sufficiente per accogliere nel nostro ordinamento questa bella soluzione? Forse sarebbe il caso di capire che un sistema civile rifiuta le pene terribili perché non desidera una legalità fondata sul terrore. E rifiuta il terrore anche se sa che il terrore può servire. È, molto semplicemente, ciò che lo rende diverso da un sistema autoritario. Come quello governato dai militari. O dai magistrati. Prescrizione. Accordo con il M5S possibile se si velocizzano i processi di Anna Rossomando* Il Riformista, 29 novembre 2019 Il dibattito in corso nasce con un difetto di fondo, ovvero la ghigliottina di Capodanno. Ma è possibile arrivare a una soluzione comune se si riducono i tempi della giustizia: un’esigenza che avvertono tutti i cittadini. Il dibattito in corso sulla prescrizione nasce con un difetto di fondo, ovvero la ghigliottina di Capodanno. Un termine che era stato individuato dalla vecchia maggioranza con l’approvazione della legge cosiddetta “spazza corrotti”. All’epoca si disse che si introduceva questo lasso di tempo in attesa di un intervento strutturale sul processo penale che però non è stato ancora realizzato. Qual è dunque la ragione per rendere immediatamente esecutiva oggi la norma? Va detto che i provvedimenti concordati dalla passata maggioranza poggiavano su una logica pattizia mentre invece l’attuale maggioranza di governo è nata scegliendo il metodo della sintesi politica sui punti programmatici. Da qui nasce la discussione in corso ormai da mesi e su cui, per non essere omissivi, bisogna dire che il Pd, senza prefigurare scenari apocalittici, semplicemente si oppone al fatto che entri in vigore questa riforma così com’è. Quindi si può, e su questo c’è evidentemente un lavoro in corso. arrivare a un accorcio. È noto che la ragionevole durata del processo è prevista dalla nostra Costituzione a garanzia tanto dell’imputato quanto della parte offesa. Questo richiamo costituzionale così come il sistema in cui si inserisce. ovvero quello dell’obbligatorietà dell’azione penale e la necessità di motivare i provvedimenti che incidono sulla libertà della persona. stanno a significare che la disciplina e la ratio dell’istituto della prescrizione poggiano su un delicato equilibrio, quello della certezza delle decisioni e quello del diritto a ottenere giustizia in tempi ragionevoli. Evidentemente si tratta di un interesse generale. Tanto più che una riforma della prescrizione era già stata portata a termine nella scorsa legislatura all’interno di una serie di interventi sulla riforma del processo penale (legge n. 103/2017. conosciuta come “riforma Orlando”), che aveva tra i suoi obiettivi limitare proprio l’estinzione dei reati per prescrizione. La riforma, per il sacrosanto principio della non retroattività, si applica però ai soli fatti commessi dopo l’entrata in vigore della legge e per questo motivo ad oggi non se ne possono ancora verificare pienamente gli effetti. Sovrapporre nuove normative a leggi di cui ancora deve essere stimato il risultato rischia di essere un tentativo al buio. Ciò vale con particolare riferimento ai reati di corruzione sotto il cui titolo è nato l’intervento che sospenderebbe sine die la prescrizione dopo la sentenza di primo grado: invero è doveroso ricordare che il combinato disposto tra aumento della pena e modifica del regime della prescrizione della riforma del 2017, porta i termini oltre i 20 anni per i fatti più gravi. Occorre precisare che quando ci si appella ai criteri della ragionevolezza, dell’equilibrio tra i diversi principi ed esigenze, non è certo per una sorta di cedevolezza o timidezza. Al contrario è per affermare e difendere un’autorevolezza e una credibilità dell’intervento dello Stato nel rapporto con i cittadini che non può essere messo a rischio da mosse non ponderate e incoerenti tra loro. E possibile discutere di giustizia e trovare una sintesi pur partendo da diverse impostazioni? Penso di sì. se si mettono da parte tentazioni demagogiche e preconcetti. Non siamo (li fronte a una rappresentazione della contrapposizione tra chi oggi si rassegnerebbe alla prescrizione e chi la combatterebbe. E su questo punto voglio assumere le parole di Gustavo Zagrebelsk-v quando afferma che “lo spirito democratico è (invece) quello in cui convinzioni e conseguenze formano il campo di tensione che determina la norma dell’agire responsabile”. In tema di prescrizione occorrerebbe intanto concordare sul fatto che non si può attribuire a questo istituto la funzione di accelerare i processi. mentre una sua articolazione errata o fuori sistema, può persino minare la funzione stessa della giurisdizione. E vero invece che la disciplina della prescrizione non può prescindere da quanto in concreto un processo impiega a concludersi. Ciò è confermato dagli ordinamenti che sospendono il decorso della prescrizione dopo la prima fase del processo: sono tutte realtà nelle quali i tempi sono certi e più brevi dei nostri e con diverse regole ordinamentali. Da dove ripartire dunque? Magari da ciò che sono certa sia condiviso. ovvero che la priorità è agire direttamente sulla riduzione dei tempi del processo. Alcuni interventi sono stati realizzati, probabilmente non ancora sufficienti o concretamente misurabili. considerato il poco tempo trascorso dall’entrata in vigore. Sarebbe auspicabile quindi partire dalla diretta e non aggirabile questione della riduzione dei tempi con, ad esempio, la differenziazione delle soluzioni procedurali in base alle diverse domande di giustizia. Sono sicura che un intervento di questo tipo sarebbe pienamente comprensibile e apprezzato dai cittadini, per i quali la vera priorità è avere risposte in tempi ragionevoli alla legittima richiesta di giustizia. *Senatrice Pd e vicepresidente del Senato Prescrizione. “Il Pd dovrà votare il ddl Costa”, Fi prova il colpaccio di Giovanni Altoprati Il Riformista, 29 novembre 2019 “Come potrà il Pd non votare il ddl Costa sulla riforma della prescrizione?”, continuano a ripetere in queste ore alla Camera i parlamentari di Forza Italia, sperando nel “colpaccio”. La conferenza dei capigruppo deve decidere infatti quando votare il testo preparato dall’ex vice ministro della Giustizia del governo Renzi. Prima data utile a Montecitorio, il prossimo 11 dicembre. Il nodo della questione, dunque, è tutto qui. Nella scelta politica dei dem su una riforma che, a detta di tutti, avvocati, giuristi, magistrati, paralizzerà definitivamente i Tribunali italiani, creando un esercito di imputati a vita. Il ddl Costa cancella l’abolizione della prescrizione voluta del grillino Bonafede e inserita lo scorso anno nella “Spazzacorrotti”, ripristinando la riforma dell’allora Guardasigilli Andrea Orlando, attuale vice segretario del Partito democratico. Il voto contrario dei dem significherebbe rinnegare il lavoro fatto da Orlando a via Arenula sui tempi del processo. “Ma perché? Che senso ha? Nella scorsa legislatura abbiamo previsto una sospensione di tre anni, dopo le sentenze di primo grado e di appello: date tempo alla nostra riforma di mostrare la propria efficacia, anziché rimettere mano alla prescrizione in modo disorganico”, disse appena un anno fa Orlando, allora all’opposizione del governo gialloverde, all’indomani dell’approvazione dello “Spazzacorrotti”. Salvo modifiche, dal prossimo primo gennaio viene definitivamente eliminata la prescrizione del reato dopo la sentenza di primo grado. Sia di condanna che di assoluzione. La norma non è entrata in vigore subito in quanto la Lega chiese un anno di tempo per riformare il processo penale. La riforma “epocale” di Bonafede, però, a pochi giorni dalla fine del 2019 non si è mai vista, ed è rimasto in piedi solo il blocco della prescrizione Sul punto Bonafede ha l’appoggio dell’avvocato del popolo, il premier Giuseppe Conte: “La norma sulla prescrizione è giusto che ci sia, è il segnale che in Italia le verifiche giudiziarie si completano con assoluzione o condanna, altrimenti sfoceremmo nella denegata giustizia”. Lo studio preliminare effettuato da Orlando, la sua riforma della prescrizione entrò in vigore il 3 agosto del 2017, stabilì che più del 60 per cento delle prescrizioni sono dichiarate quando il processo neppure è iniziato, cioè durante la fase delle indagini preliminari dove il pm è il re assoluto del fascicolo.Le prescrizioni dichiarate durante il giudizio di primo grado, poi, rappresentavano il 40 per cento dei processi in alcuni Tribunali, in altri invece erano prossime a quota zero. Oltre la metà delle prescrizioni dichiarate in appello, infine, si concentrava in 3 o 4 sedi di distretto. “Che quella soluzione fosse congrua per la lotta al malaffare l’hanno certificato sia l’Ocse che il Consiglio d’Europa che avevano segnalato il problema”, puntualizzò Orlando, giustificando la sua riforma che allungava di molto i tempi di prescrizione (20 anni, ad esempio, per il reato di corruzione), finita nel cestino dopo appena due anni. Che il primo nodo fosse l’organizzazione del lavoro dei magistrati era chiaro. Ma il tema non è stato neppure sfiorato da Bonafede che, evidentemente, non ha intenzione di mettersi contro il Csm e l’Anm. Prescrizione. Fallisce il blitz di Fi per salvare il colpo di spugna di Ilaria Proietti Il Fatto Quotidiano, 29 novembre 2019 Prescrizione. Ieri non è passata la “procedura d’urgenza” per il ddl Costa (FI) che blocca la riforma Bonafede: ma il 3 dicembre ci sarà il voto alla Camera Il deputato di Forza Italia Enrico Costa è una furia, ma sa di aver già incassato una piccola vittoria. Perché ieri - sebbene la capigruppo di Montecitorio abbia bocciato la sua proposta di far approdare in aula con massima urgenza il ddl che cancella lo stop alla prescrizione dopo la sentenza di primo grado che entrerà in vigore a gennaio - Costa, dicevamo, è riuscito a mettere nell’angolo il Pd. Che avrebbe voluto come gli azzurri far slittare, se non cancellare del tutto, le nuove norme della legge Bonafede, ma invece ora è appeso alla promessa del Movimento 5 Stelle di trovare rapidamente la quadra su una serie di accorgimenti tecnici che garantiscano tempi certi al proce sso penale. Il premier Conte ieri è stato ottimista rimettendo di nuovo il sereno in casa dem: “Non ci sono posizioni inconciliabili: stiamo riflettendo su un pacchetto di misure che garantiscano laragionevole durata dei processi senza dire che ilprocesso si estingue” ha detto rassicurando quanti nel Pd si erano rimessi sugli scudi a sentir parlare in mattinata Luigi Di Maio. Che sulla questione dellaprescrizione ha tagliato corto: “La verità è che la legge c’è già, entra in vigore il 1 gennaio e fa in modo che non ci siano furbetti impuniti che la fanno franca”. Dimenticando di dire quello che i dem si aspettavano finalmente di sentire, ossia che per la maggioranza è prioritario occuparsi anche che i processi non vadano troppo per le lunghe. Il capo pentastellato, complici i suoi attacchi a Matteo Renzi per la vicenda Open, invece ha addirittura mandato la colazione ditraverso a Davide Faraone di Italia Viva. “Dietro la definizione di furbetto affibbiata a chi beneficia della prescrizione, infatti, c’è un mondo: la totale ignoranza del dettato costituzionale, lo sloganismo senza significato, l’idea forcaiola per cui chiunque sia sottoposto a un procedimento siacolpevole a prescindere e debba, perciò, essere sottoposto a un processo senza fine”. Se l’offesa in realtà cela la promessa di dare battaglia contro l’entrata in vigore delle nuove norme sulla prescrizione, con la creaturarenziana al fianco di Forza Italia e Lega, è presto ancora per dirlo. Per questo per ora prevale in seno alla maggioranza la sensazione che per varare almeno una bozza della delega per riformare il processo penale non si debba attendere oltre l’Immacolata. Chi per conto di Zingaretti si occupa di Giustizia già una ventina di giorni fa aveva sottoposto al ministro Bonafede una serie di proposte su cui ci sono stati confronti apalazzo Chigi e pure alla Camera, ma che non sono stati risolutivi, per usare un eufemismo. Perché la questione ha fatto traballare il governo e dopo ogni incontro i toni si facevano più aspri in seno all’alleanza giallorossa. Poi però ci sono stati moltisegnali difumonelleultime 24-36 ore, tanto che più d’uno in casa 5 Stelle ha lasciato intendere che si era vicini a un accordo. E che il governo non rischiava certo a causa di questo tema. E pure dal Pd era stata accolta con favore la mediazione raggiunta al Mef per rivedere alcune le pene previste dal decreto fiscale: un ammorbidimento da parte dei 5 Stelle a cui i dem hanno risposto abbassando le armi sulla prescrizione: e infatti, nonostante avessero lasciato trapelare la minaccia, non si sono accodati allarichiesta di Forza Italia per esaminare subito il ddl Costa che sterilizzale norme che entrano in vigore a gennaio. Anche a costo di dover affrontare il prossimo 3 dicembre un dibattito in aula in cui al partito di Zingaretti, l’opposizione dei forzisti e di tutto il centrodestra rinfaccerà di “strisciare sotto i piedi di Bonafede”, per dirla con il capogruppo azzurro in commissione Giustizia, Enrico Costa che si prepara a dare battaglia anche nell’emiciclo di Montecitorio. Prescrizione, rinvio, revisione di Mauro Anetrini L’Opinione, 29 novembre 2019 Vedo che il Partito Democratico potrebbe chiedere un rinvio dell’entrata in vigore delle nuove norme sulla prescrizione. Perché un rinvio? Quale ragione c’è di rinviare l’efficacia di una legge regolarmente approvata ad un passo dalla sua operatività? Se non piace, se non la si condivide, la si cambia, o la si cancella addirittura. Basta dirlo. Le cose, però, non stanno così. Le nuove regole sulla prescrizione furono sospese perché - diceva il fenomeno Guardasigilli - si sarebbero innestate su un impianto riformato. Insomma: noi l’approviamo, ma sarà efficace l’anno prossimo, quando avremo riformato il Codice. L’anno che verrà è passato, mentre la riforma si trova ancora in gestazione e non promette nulla di buono. La richiesta di rinvio, fatte queste precisazioni, potrebbe avere un senso se inserita in un organico disegno che preveda una revisione profonda di quell’obbrobrio. Diversamente, serve soltanto a non gettare benzina sul fuoco che sta cucinando un’alleanza innaturale. Al Pd non vogliono che la prescrizione sia cancellata, ma devono pur sopravvivere. Devono, però, avere il coraggio di dire là verità: quella legge è una boiata pazzesca, un segno di resa dell’intero sistema, che riconosce la propria incapacità di amministrare la Giustizia in tempi ragionevoli. Con gente come Alfonso Bonafede non si discute e non si collabora. Al più, li si spedisce a frequentare l’intero ciclo della scuola dell’obbligo, sperando che serva. Non è vero che si può mediare tra le parti politiche in materia di riforme della Giustizia. Non c’è nulla da mediare. Comunque la si prenda, la riforma voluta dal ministro è inaccettabile e va rispedita al mittente. Mediare significa accettare di discuterne, magari confidando di ridurre i danni. È già successo, nel 2017 e anche prima. Chiunque abbia un minimo di sensibilità politica capisce quando è il momento di ribaltare il tavolo. “Prescrizione? Una bomba atomica. Bonafede superficiale, riforma vuota” di Alberto Gentili Il Messaggero, 29 novembre 2019 Intervista a Giulia Bongiorno (Lega). Senatrice Bongiorno, lei definì lo stop alla prescrizione una bomba sul processo penale. La bomba esploderà il primo gennaio, quando la riforma entrerà in vigore. Preoccupata? “Solo coloro che non calpestano quotidianamente la polvere dei tribunali possono pensare che questo blocco della prescrizione non sia una bomba atomica. Chiunque conosce la procedura penale sa perfettamente che, siccome esiste un carico processuale particolarmente pesante, le udienze sono fissate in ragione di quando si prescrive il reato. Ebbene, nel momento in cui questa “ghigliottina” non ci sarà più, inevitabilmente si paralizzerà per sempre la giustizia italiana”. L’accuseranno di esagerare… “Esagerare? Ieri è venuta nel mio studio una persona che tra primo e secondo grado di giudizio ha atteso dieci anni. Ripeto: dieci anni. E chiedo al ministro della Giustizia, Bonafede: è giustizia fare attendere dieci anni una persona, costringerla a questo calvario, sia essa colpevole o innocente?!”. Ma non c’era un accordo tra voi i 5 Stelle che stabiliva l’entrata in vigore dello stop alla prescrizione solo assieme alla riforma del processo penale? “Certo che c’era. E pacifico. Altrimenti non l’avremmo votata. Ed è singolare sentire Di Maio dire che noi abbiamo approvato la riforma. La Lega disse sì con condizione. In più, all’epoca, tutti si mostrarono consapevoli dell’effetto dirompente dell’abolizione della prescrizione: i 5 Stelle garantirono che avrebbero creato le condizioni per dare tempi certi e brevi ai processi”. Quello che ora chiede il Pd. Perché Bonafede e Di Maio resistono? “Questo andrebbe chiesto a loro. Io so con certezza che non esiste una riforma della giustizia pronta. Si parla del nulla, questa è la grande verità. In luglio, in un Consiglio dei ministri durato oltre nove ore, leggemmo la proposta da Bonafede: pagine bianche! Non c’era scritto niente. Il Guardasigilli si limitava a indicare i tempi che deve avere il processo, senza stabilire i meccanismi necessari per abbreviarne i tempi. Roba da dilettanti allo sbaraglio. E credo che questa sia stata una delle ragioni per cui si è disintegrato il governo giallo-verde”. Da allora non è cambiato nulla? “Sembra che Bonafede voglia allargare l’accesso ai riti alternativi, come il patteggiamento e l’abbreviato, ma così si svuotano del tutto il processo e la pena della loro funzione per poter dire: i tempi si accorceranno. Ma è assurdo. Lo Stato non può dire a una persona: patteggia, oppure ti tengo in ostaggio vent’anni, ti faccio diventare imputato a vita. I riti alternativi devono essere una scelta, non una soluzione pressoché obbligata. In più si crea un danno collaterale: con il patteggiamento si baratta uno sconto di pena evitando il processo, unica sede destinata all’effettivo accertamento dei fatti. E chiedo ai 5 Stelle: non eravate voi che parlavate di legalità? Come si sposa la legalità con lo svuotamento della pena?”. Se il quadro è questo, perché Bonafede non ha ascoltato voi e adesso non ascolta il Pd? “Credo che di fondo ci sia superficialità, accompagnata dall’assenza di un serio lavoro di tecnici esperti capaci di scrivere la riforma. E poi servono risorse significative per far funzionare gli uffici giudiziari. Ma Bonafede sonnecchia, purtroppo”. Il Pd sostiene che mancano sanzioni efficaci per i pm ritardatari… “È vero. Nelle pagine che lessi c’era scritto che i pm avrebbero dovuto rispondere in caso di ritardo nelle indagini e nel rigo successivo era aggiunto: “tutto questo non vale in caso di carico di lavoro eccessivo”. Roba da gioco delle tre carte scrivere una norma e smentirla la riga sotto”. Il primo gennaio entra in vigore anche la riforma delle intercettazioni di Orlando. Cosa ne pensa? “È una riforma double face. Nella parte relativa alla tutela della privacy ci sono spunti condivisibili, ma c’è anche una parte destinata a distorcere l’acquisizione della prova perché prevede che le intercettazioni siano selezionate direttamente dalla polizia giudiziaria, senza lasciare traccia di tutto il materiale intercettato. Ciò introduce una limitazione gravissima delle garanzie della difesa. Ma per i 5 Stelle il garantismo non è un valore”. Sono giustizialisti… “Il garantismo è scritto in Costituzione, dove c’è la presunzione di innocenza fino al terzo grado di giudizio. Quindi uno non può decidere se essere o meno garantista”. Cosa ne pensa della commissione d’inchiesta sul finanziamento ai partiti proposta da Di Maio? “Noi della Lega non abbiamo paura di nulla, siamo pronti a qualsiasi commissione. Non vorrei però che fosse un diversivo e suggerisco a Bonafede e Di Maio di non disperdere energie e di dedicarsi alla cosa più importante: la riduzione dei tempi dei processi. Il disastro della giustizia distrugge il Paese e ferma l’economia”. Nella riforma penale il colpo di grazia al principio cardine dell’immediatezza di Giorgio Spangher Il Dubbio, 29 novembre 2019 Circola, negli ambienti degli operatori della giustizia, da giorni una bozza del “Disegno di legge recante deleghe al Governo per l’efficienza del processo penale”. La bozza ripropone con alcune varianti il testo che non fu approvato nel Consiglio dei ministri del luglio scorso. La prudenza consiglierebbe di non analizzare un testo sicuramente provvisorio. Tuttavia, la presenza di una novità dirompente impone di evidenziare non tanto la sua presenza, ma considerato il suo devastante significato, le sue implicazioni. Il riferimento va a quanto previsto dall’articolo 5, lettera e): “prevedere che la regola di cui all’art. 190 bis, comma 1, c. p. p. sia estesa, nei procedimenti di competenza del tribunale, anche ai casi nei quali, a seguito del mutamento della persona fisica di uno dei componenti del collegio, è richiesto l’esame di un testimone o di una delle persone indicate nell’art. 210 e queste hanno già reso dichiarazioni in dibattimento nel contraddittorio con la persona nei cui confronti le dichiarazioni medesime saranno utilizzate”. Alla successiva lettera f) dello stesso articolo 5 si prevede che “l’ordinanza emessa ai sensi dell’art. 190 bis c. p. p. sia impugnabile nei limiti e con le forme di cui all’art. 586 c. p. p.”. Il tema è stato recentemente oggetto di un duplice intervento, prima della Corte costituzionale (C. Cost. n. 132 del 2019) e poi delle Sezioni Unite (Cass. Sez. un. 35.5.2019, Bajrami). Se la Corte costituzionale, forzando i suoi poteri, a fronte di una questione da lei stessa ritenuta inammissibile, si era mossa in una logica di impronta efficentista, suggerendo interventi idonei a superare le ragioni del mutamento dei collegi (videoregistrazioni e calendarizzazioni delle udienze); se le Sezioni unite, ancorché di termini non condivisibili, avevano cercato di rimodulare la rinnovazione del dibattimento davanti al nuovo collegio, garantendo il principio di fondo dell’immediatezza, temperato dal canone costituzionale del contraddittorio/contro oralità, l’indicazione del criterio di legge delega azzera tutto questo. Se anche viene a mancare un giudice del collegio, il processo può proseguire con la presenza degli altri due e l’integrazione di un nuovo componente. Vengono così eliminate anche quelle poche garanzie che le Sezioni unite avevano appena conservate. Non è il caso di sottolineare tutte le “varianti” che questa previsione può determinare in processi di lunga durata. Se si voleva ulteriormente “ferire a morte” il processo “accusatorio”, per quello che ne resta, incardinato sulla centralità del dibattimento, l’arma è stata caricata. Del tutto irrilevante si prospetta la previsione dell’impugnabilità del provvedimento di rigetto della richiesta di rinnovazione che potrà essere esercitata solo unitamente alla sentenza, con tutte le implicazioni “manipolative” che ciò determina una volta che la decisione sia stata assunta. Giova ricordare che la regola dell’immediatezza è presieduta da una nullità assoluta speciale, l’unica del codice di rito, non casualmente. Resta da sottolineare che la garanzia della collegialità e dell’oralità è garantita dalla Corte Edu nonché dalle regole costituzionali del giusto processo (articolo 111 Cost.). Giova ancora ricordare che la previsione della garanzia della collegialità era prevista anche dal Codice Rocco del 1930. Anche il regime era consapevole della necessità che il giudizio fosse pronunciato dai giudici che aveva non solo disposto, ma anche assunto la prova. Appare difficile capire come si possano addirittura concepire, ipotizzare, a livello ministeriale, previsioni come quelle che si vuole proporre all’approvazione del Governo e del Parlamento. Inchiesta “Open”. Colpa della politica che ha fornito ai magistrati armi improprie di Riccardo Mazzoni Il Tempo, 29 novembre 2019 Gli errori: abolizione del finanziamento pubblico, traffico d’influenze e autoriciclaggio. Il ciclone che sta investendo dalle fondamenta le strutture politiche del renzismo ha riaperto il dibattito sull’interventismo delle procure, sulle modalità di finanziamento ai partiti e sul ruolo del populismo nella deriva giudiziaria della nostra democrazia. Per la prima volta, sta vacillando anche a sinistra il mantra secondo cui bisogna avere, sempre e comunque, “fiducia nella magistratura”. Renzi, ad esempio, ha detto che quanto accaduto alla Fondazione Open, con le centinaia di perquisizioni scattate all’alba, costituisce “un vulnus clamoroso nella vita democratica del Paese”, aggiungendo che chi non reagisce oggi accetta che si metta in discussione il principio della separazione dei poteri e “lascia che siano i magistrati a decidere che cosa sia un partito e che cosa no”. Concetti, questi, sicuramente condivisibili, anche perché il collateralismo delle fondazioni politiche ai partiti non è certo una novità, e probabilmente neppure un reato: utilizzare una fondazione per raccogliere finanziamenti da impiegare nell’attività politica, invece che finanziare direttamente un partito, è infatti una tecnica (finora) legale a cui negli anni non è certo ricorso solo Renzi. E comunque la legge spazzacorrotti che, per volere di Bonafede e con l’assenso della Lega, ha equiparato fondazioni, associazioni e comitati politici ai partiti, è entrata in vigore un anno fa, quindi dopo lo svolgimento dei fatti oggetto dell’inchiesta fiorentina. Una legge che - a parte l’aberrazione dello stop alla prescrizione dopo il primo grado di giudizio - lancia un autentico “fumus” di sospetto su chiunque svolga attività politica, tanto da prevedere che basti la presenza nel comitato direttivo della fondazione di una persona eletta nei dieci anni precedenti, anche solo come consigliere comunale, per etichettarla come “politica” ed equipararla alla disciplina di un partito. Oggi si riscopre dunque che il problema del finanziamento dei partiti - e quindi della democrazia - esiste, e che se dopo quello pubblico la magistratura criminalizza anche quello privato, si entra in un vicolo cieco, perché è dimostrato che non esiste democrazia senza partiti. Ma a Renzi, e più in generale a una classe politica imbelle, va ricordato il vecchio proverbio secondo cui chi è causa del suo mal pianga sé stesso. L’abolizione del finanziamento pubblico fu infatti voluta nel 2013 dal governo Letta, ma campeggiava anche nel programma elettorale di Forza Italia, e quando il premier nel discorso d’insediamento scandì che “tutte le leggi sui rimborsi elettorali introdotte dal 1994 ad oggi sono state ipocrite e fallimentari, non rimborsi ma finanziamento mascherato” riscosse il plauso generale. E ancora oggi c’è il sacro terrore di affermare che forse quell’abolizione tout court è stata un errore: a parte Ugo Sposetti, che sulla questione si è sempre espresso con cruda chiarezza, ci ha provato il tesoriere del Pd Zanda, ma è stato quasi linciato dalla furia anticasta. Quella stessa furia che ha portato prima all’introduzione del traffico illecito di influenze, una fattispecie di reato talmente indeterminata da consegnare potenzialmente ogni politico nelle mani della discrezionalità di un magistrato, e poi all’autoriciclaggio, una norma tesa a colpire l’occultamento dei proventi criminali, ma che per la sua vaghezza consente a qualche pm spregiudicato di estenderla anche a chi finanzia attività politiche. Non ci si deve quindi meravigliare tanto dei magistrati che usano la giustizia come arma politica, perché è una storia che va avanti da un quarto di secolo, tanto della politica che ha fornito ai magistrati un numero impressionante di armi improprie per essere colpita e delegittimata. Spazza-corrotti irretroattiva sugli ordini di esecuzione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 29 novembre 2019 Corte di cassazione - Sentenza 48499/2019. Un punto a favore della irretroattività della legge “spazzacorrotti”. Nella confusa prima attuazione della legge n. 3 del 2019, in larghissima parte determinata dall’assenza di una puntuale disciplina della fase transitoria, la Cassazione, con la sentenza n. 48499della Quinta sezione penale, depositata ieri, ha messo nero su bianco l’impossibilità di procedere alla revoca della sospensione dell’ordine di esecuzione della pena emesso in data anteriore all’entrata in vigore della “spazzacorrotti”. I fatti: il Gip, in funzione di giudice dell’esecuzione, ha annullato la revoca della sospensione dell’esecuzione della pena a 4 anni per corruzione, decisa dalla Procura. L’ordine di esecuzione e il contestuale decreto di sospensione datavano 21 dicembre 2018, in un momento quindi precedente al debutto della legge 3/19. Per il Gip, le disposizioni sull’esecuzione delle pene detentive e le misure alternative alla detenzione non hanno carattere di norme sostanziali e non sono di conseguenza soggette alla regola generale sulla successione di leggi nel tempo, quanto piuttosto al principio per cui a dovere essere applicata è la disciplina in vigore al momento in cui l’atto è stato emesso. Il procuratore ha proposto ricorso, sostenendo la legittimità della revoca della sospensione dell’ordine di esecuzione a causa della legge 3/19, che ha inserito nei reati per i quali non è possibile la sospensione anche i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione. A questo punto, venendo a cadere i presupposti di legge, era inevitabile anche la revoca della sospensione. La Cassazione ha però respinto il ricorso, sottolineando innanzitutto che l’esecuzone si era consolidata in concreto con l’emissione dell’ordine di carcerazione (con decreto di sospensione) a fare data dal 21 dicembre 2018. L’atto processuale era, pertanto, avverte la sentenza, regolato, quanto alla sua validità, dalla legge in vigore al momento in cui questo è stato compiuto. Con la conseguenza che leggi successive non possono, se non è stabilito diversamente, renderlo invalido o pregiudicarne gli effetti. “In altri termini - si legge nella sentenza -, i rapporti esecutivi pendenti, in difetto di una disciplina transitoria, non risentono delle modifiche legislative successive. Rapporto e “diritti esecutivi” si valutano secondo il quadro normativo pregresso e in vigore nel momento di avvio del procedimento stesso. Con la conseguenza che ai rapporti processuali complessi non risulta applicabile congiuntamente il doppio regime di norme in successione”. Su quest’ultimo aspetto, infatti, la Cassazione ricorda che ordine di esecuzione, decreto di sospensione e domanda di misure alternative, sono attività processuali collegate sul piano funzionale, in una sequenza processuale coerente e non divisibile. E allora, la fattispecie complessa, che nasce con l’emissione dell’ordine di esecuzione, secondo la disciplina in vigore al momento dell’emissione, produce effetti nella sfera del condannato che non possono essere modificati in maniera unilaterale e neppure cancellati attraverso interventi successivi “sia pur assunti in forza di quadri normativi sopravvenuti, ma privi di regole transitorie”. Puglia. Dalla Regione stanziati finanziamenti per la sanità nelle carceri pugliesi cosmopolismedia.it, 29 novembre 2019 In tutto 300 mila euro da destinare agli istituti penitenziari di Bari (per il 90%) e Taranto (per il 10%) per la strumentazione sanitaria. Associazione Marco Pannella: “Tra e pene inflitte non devono scontare anche la perdita della salute”. Stanziati 300 mila euro per la strumentazione sanitaria in due istituti penitenziari in Puglia. Questo l’esito dell’impegno profuso dall’Associazione Marco Pannella che nei mesi scorsi assieme al consigliere regionale Francesa Franzoso ha visitato gli istituti di detenzione pugliesi. Dallo stesso consigliere la convocazione in Regione di audizioni che videro al centro la sanità pentitenziaria delle carceri. “L’esigenza ci fu segnalata dal direttore del carcere di Bari Valeria Pirè e il direttore sanitario Nicola Bonvino. - spiega l’Associazione - Il consigliere Franzoso presentò l’emendamento in consiglio regionale, e fu messo a bilancio. Finalmente ieri la giunta ha stanziato i fondi”. Approvato infatti, il Programma di acquisto 2019 di strumentazione tecnico diagnostica per le cure sanitarie presso le case circondariali pugliesi, in particolare quella di Bari e di Taranto. In tutto 300mila euro a carico del bilancio regionale da destinare per il 90% (270mila euro) a Bari e per il restante 10% (30mila euro) a Taranto. “Siamo certi che ora i responsabili delle strutture e le Asl competenti li utilizzeranno nel modo migliore e che potranno davvero servire a chi non ha nessuna altra possibilità o scelta di diagnosi e cura. Per i detenuti infatti le difficoltà sanitarie si moltiplicano vista la specifica condizione in cui sono ristretti - prosegue l’associazione, Eppure tra le pene inflitte non devono scontare anche quella della perdita del diritto alla salute, che invece la Costituzione riconosce alla pari per chiunque”. Napoli. Detenuto col tumore nel carcere di Poggioreale, dimagrito dieci chili di Stefano Di Bitonto internapoli.it, 29 novembre 2019 L’appello:”Fatelo uscire”. Dimagrire dieci chili in dieci giorni. E non vedere la luce in fondo al tunnel. Un buco nero fatto di disperazione e dimenticanza materializzatosi nel padiglione Firenze del carcere di Poggioreale. Un inferno in terra per i familiari di Giovanni De Angelis detenuto da una quindicina di giorni e arrivato a pesare in poco tempo 42 chili 8 (a fronte di 49 anni di età). È questa l’ennesima, triste storia che riguarda il carcere più affollato d’Europa. Le conseguenze di tale sovraffollamento sono sotto gli occhi di tutti, celle invivibili, ambiente carente delle più elementari regole igienico-sanitarie e anche per i parenti aumentano dei detenuti le difficoltà aumentano: costretti a lunghe fila ogni volta per poter incontrare i loro cari rinchiusi. Le difficoltà diventano insormontabili poi quando subentrano patologie come nel caso di Giovanni a cui sono rimaste la madre e la sorella a lottare per lui:”Ha iniziato a tossire sangue dalla bocca ma quello che a noi ha fatto maggior impressione è che è visibilmente dimagrito, dieci chili in pochi giorni. Mio fratello assume da tempo anche psicofarmaci ma a causa delle sue precarie condizioni ha smesso di prenderli. Qualche tempo fa i risultati dei marker tumorali hanno dato esito positivo e la nostra paura è che questa situazione possa soltanto peggiorare. Abbiamo presentato un’istanza ma ad oggi non abbiamo avuto nessuna risposta. I giorni passano e mio fratello sta sempre più male, siamo disperati”, commenta la sorella di Giovanni che da giorni attende di sapere come sta suo fratello. Sulla vicenda è intervenuto anche Pietro Ioia, presidente degli Ex D.O.N., un’associazione che riunisce alcuni ex detenuti campani che tentano di ritrovare un posto nella società dopo la detenzione e che punta a sensibilizzare l’opinione pubblica sulle difficili condizioni dei detenuti:”I familiari del detenuto Giovanni De Angelis sono disperati perché è un malato affetto da patologia psichiatrica e da qualche tempo era anche in cura perché gli sono stati riscontrati valori tumorali alti. È detenuto per reati minori e sta rifiutando il cibo per mancanza di medicinali, spero che non stiamo di fronte a un’altro come quello di Ciro Rigotti. Vista la gravità della situazione domani allerterò personalmente il garante Samuele Ciambriello, questo è una caso che noi, come Ex Don, seguiremo molto da vicino”. Campobasso. Detenuto morto, in Aula la ricostruzione del presunto omicidio isnews.it, 29 novembre 2019 Nuova udienza davanti alla Corte d’Assise di Campobasso del processo a carico di due dei tre imputati per il decesso di Fabio De Luca. Sfilano i testi dell’accusa. Nuova udienza questa mattina davanti alla Corte d’Assise di Campobasso del processo per omicidio, partito a seguito della morte di Fabio de Luca, il detenuto che perse la vita per via dei traumi riportati all’interno della cella 110 del carcere di Isernia nel novembre del 2014. In Aula sono stati ascoltati i primi testi dell’accusa: il personale della Polizia penitenziaria e il medico del carcere che per primo soccorse il 45enne. Inoltre sono state acquisite agli atti alcune informazioni fornite dal medico del 118, chiamato ad intervenire quella sera. Durante l’udienza sono stati ricostruiti dunque i momenti salienti di quel 5 novembre di cinque anni fa. Si tornerà in Aula il prossimo 19 dicembre: verranno ascoltati altri quattro testimoni del pm e saranno visionati alcuni filmati estrapolati dal sistema di videosorveglianza del carcere isernino. Imputati nel processo sono Francesco Formigli ed Elia Tatangelo, mentre per Aniello Sequino, che ha scelto il rito abbreviato, il procedimento è in corso davanti dal gup del tribunale di Isernia. La famiglia della vittima, assistita dall’avvocato isernino Salvatore Galeazzo, si è costituita parte civile e continua a chiedere che venga accertata la verità. La sera del 5 novembre 2014, il 45enne venne portato d’urgenza all’ospedale ‘Venezialè con pesanti traumi alla testa. Si parlò di caduta accidentale. L’uomo, secondo le ricostruzioni della Squadra Mobile di Campobasso, che indagò sul caso, si era recato in un’altra cella per prendere una gruccia quando, alla presenza di due detenuti, avrebbe battuto la testa e sarebbe finito in coma. L’11 novembre, dopo circa una settimana di agonia in Rianimazione, De Luca morì al Cardarelli, dove nel frattempo era stato trasferito. L’autopsia, eseguita due giorni dopo il decesso, stabilì che le ferite sul corpo di De Luca erano incompatibili con una caduta accidentale. “Trauma cranico multifocale”: fu il responso contenuto nella relazione del medico legale Vincenzo Vecchione. Morte indotta, dunque, forse a seguito di un pestaggio in cella. Per quel decesso tre ex compagni di detenzione della vittima vennero accusati a vario titolo di omicidio dalla Procura di Isernia. La svolta nelle indagini ci fu nel novembre del 2015, con l’arresto dei presunti responsabili, ora a giudizio. Venezia. “Rio Terà dei Pensieri”, tre laboratori per rinascere dopo il carcere di Paola Centomo valoreresponsabile.startupitalia.eu, 29 novembre 2019 A Venezia c’è una Cooperativa che si occupa di reinserire lavorativamente persone in esecuzione penale, puntando sulla loro formazione e il loro impiego in attività produttive di carattere artigianale. La sua storia raccontata dalla presidente Liri Longo. Le storie di Mario, di Clelia, di Emanuele sono fino a un certo punto storie di una discesa negli abissi del crimine e sono solo fino a un certo punto storie di perdizione. Già, fino a un certo punto: il punto in questione è quello in cui un destino di degrado morale e di isolamento che sembrava ormai segnato per sempre tocca, invece, un miracoloso punto di svolta. E da quel punto comincia la risalita, e si apre la rinascita. Mario, Clelia, Emanuele (nomi di fantasia per storie assolutamente reali) sono solo tre dei tanti detenuti che hanno avuto la possibilità di rinascere grazie ai progetti della Cooperativa Sociale Rio Terà dei Pensieri, che a Venezia si occupa di reinserire lavorativamente persone in esecuzione penale, puntando sulla loro formazione e il loro impiego in attività produttive di carattere artigianale. “Operiamo nella Casa Circondariale maschile Santa Maria Maggiore e nella Casa di Reclusione per donne della Giudecca, ma anche all’esterno, con detenuti che accedono alle misure alternative alla detenzione”, dice Liri Longo, antropologa che presiede la Cooperativa, una trentina di soci, la gran parte dei quali sono i detenuti stessi. “La nostra cooperativa ha deciso di puntare sul lavoro come opportunità di riscatto, crescita e reinserimento nella società in quanto il lavoro ha una riconosciuta capacità educativa e trasformativa: il detenuto che lavora impara il rispetto delle regole, imparando che proprio il rispetto delle regole sociali - che lui in passato ha infranto - è il presupposto per la propria realizzazione individuale. Il detenuto che lavora apprende, poi, a incanalare gli sforzi verso degli obiettivi e a operare in sinergia con il gruppo; si educa a esprimersi attraverso il lavoro e a riempire di significato il tempo, che altrimenti in carcere è uno scorrere vuoto che inchioda alla solitudine e ai retaggi del passato. Il detenuto che lavora, poi, percependo uno stipendio può contribuire alle sue spese di mantenimento in carcere, così come a quelle della sua famiglia, quando rimane il legame con una famiglia, e può accantonare del denaro per costruire la prospettiva di una nuova vita, una volta fuori dal carcere. In particolare, poi”, aggiunge la dottoressa Longo, “noi abbiamo deciso di puntare sul lavoro artigianale perché consente alle persone di mettersi in gioco in un processo creativo e non, invece, meramente esecutivo, un processo che permette di seguire l’intero ciclo di lavorazione sino alla realizzazione finale del manufatto, interfacciandosi sempre con il resto della squadra”. Sono tre i laboratori artigianali a cui la cooperativa ha dato vita: c’è l’ex pelletteria ora convertita in laboratorio ecosostenibile che utilizza i banner in PVC delle affissioni pubblicitarie per realizzare borse e accessori unici, cui peraltro è stato dato ironicamente il nome Malefatte. C’è il Laboratorio di serigrafia, che produce stampe su tessuto con cui è possibile personalizzare capi d’abbigliamento, accessori e gadget: tenendo fede ai principi di eticità ed ecosostenibilità, il laboratorio usa materie prime del circuito del Commercio Equo e Solidale e i colori sono tutti a base di acqua e privi di solvente. E c’è il Laboratorio di Cosmetica, nel quale le detenute della Giudecca coinvolte creano linee cosmetiche uniche perché sono frutto di formulazioni originali ottenute sotto la supervisione di un chimico, oltre che naturali o biologiche, che spaziano da creme a gel doccia, da deodoranti a prodotti per bambini. “I detenuti e le detenute interessati a queste attività vengono prima coinvolti nella fase di formazione, quindi in un periodo di tirocinio che può durare dai due ai quattro mesi. Al termine vengono assunti con un regolare contratto, diventando a tutti gli effetti colleghi di noi operatori”, spiega Liri Longo. “Sempre nel Carcere della Giudecca, insieme agli operatori della Cooperativa le detenute lavorano all’Orto delle Meraviglie, un orto con certificazione biologica in cui si producono decine di tipologie di ortaggi, frutti ed erbe aromatiche, queste ultime impiegate anche nella produzione dei cosmetici del laboratorio: una volta alla settimana, poi, le detenute a cui è concesso di farlo partecipano alla vendita dei prodotti stessi in uno spazio fuori dal carcere”. Chi volesse acquistare i prodotti della cooperativa li trova sull’ecommerce malefattevenezia.it o, direttamente a Venezia, nello store Process Collettivo in Fondamenta dei Frari, San Polo 2559/A (i proventi verranno usati per sostenere i progetti di inserimento lavorativo in carcere): lo store è stato voluto e sponsorizzato dall’artista americano Mark Bradford, che ha rappresentato gli Usa alla 57esima Biennale di Venezia, per far conoscere e vendere le creazioni del carcere e perché sia punto di riferimento per gli ex detenuti impegnati nella ricostruzione di una nuova vita. Volterra (Pi). Slitta al 2021 la costruzione del teatro in carcere di Samuele Bartolini Il Tirreno, 29 novembre 2019 “Ci siamo quasi. Il provveditore alle opere pubbliche di Toscana Marche Umbria, Marco Guardabassi, sentirà a breve il suo funzionario di Pisa, Alessandro Iadaresta. Sapremo a breve quale ditta farà i lavori e quanto costeranno”. Il garante regionale dei detenuti Franco Corleone vede il traguardo. I saggi nella “zona d’ora d’aria” in vista della realizzazione del teatro stabile al carcere di Volterra potrebbero cominciare a Natale. Meglio andare coi piedi di piombo. Certo. Dopo il sopralluogo del 2 agosto la realizzazione del teatro stabile trova tutti d’accordo. Comune di Volterra, Regione Toscana, Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, Provveditorato alle opere pubbliche e Soprintendenza di Pisa e Livorno. Hanno detto tutti sì. E la “zona dell’ora d’aria” per i detenuti pare lo spazio adatto. Mala Soprintendenza, l’ente culturale che controlla la correttezza dei lavori, vuole vederci chiaro. Prima vasaggia-to il terreno. Va capito il sottosuolo è ok. Se invece saltasse fuori che non si può scavare troppo a fondo rischiando di superare le mura antiche col tetto del teatro, la procedura per realizzare il carcere si farebbe più complessa. Tocca invece al Provveditorato alle opere pubbliche cercare la ditta dei saggi, capire quanto vuole essere pagata. Il garante è convinto che siamo a un passo dall’affidamento dei lavori per fare i saggi. Potrebbero cominciare entro Natale. È tramontata invece la speranza di vedere realizzato il teatro stabile entro Natale 2020. “Se ne riparla nel 2021”, taglia corto Corleone. Segno che non è facile far suonare con la stessa armonia l’orchestra della macchina amministrativa quando dentro ci ben cinque enti pubblici, locali e interregionali. Non svanisce invece il milione di euro stanziato dal Ministero della Giustizia. L’ex provveditore dell’amministrazione penitenziaria Antonio Fullone ha garantito che l’impegno dei fondi è stato spostato sul 2020. Così ci sarà un anno in più per fare la gara d’appalto. Insomma, tanta aria in più nei polmoni per dare vita al progetto definitivo e costruire il teatro. Ieri Franco Corleone ha presentato a Palazzo del Pegaso, la sede del consiglio regionale a Firenze, il volume “Archeologia criminale”. Fa il punto sulle misure di sicurezza psichiatriche e non psichiatriche in Italia. Con due focus. Uno sulla Rems di Volterra. L’altro sulla Casa lavoro di Vasto. Dice Corleone: “Il 2 febbraio è prevista l’apertura della Rems da nove posti a Empoli. Darà una mano a quella di Volterra. Ma per quanto riguarda gli ospiti alla Rems di Volterra, un rischio è il sovraffollamento. La soluzione è la realizzazione di una nuova struttura, sempre a Volterra, che sostituisca la vecchia Rems. Da realizzare in due anni”. Intanto ieri il nuovo provveditore dell’amministrazione penitenziaria Gianfranco De Gesu ha incontrato i direttori di tutte le carceri della Toscana. È a conoscenza del progetto del teatro stabile al carcere di Volterra. Ne parlerà a breve con Corleone. Napoli. “Carcere: il lavoro possibile, il lavoro negato”, convegno in Consiglio regionale ottopagine.it, 29 novembre 2019 “Carcere: il lavoro possibile, il lavoro negato” dalle ore 9.30 alle ore 14.00, presso la Sala Siani del Consiglio Regionale Isola F13, centro direzionale. L’iniziativa promossa dal Garante dei detenuti della regione Campania, con il contributo dell’Osservatorio sulla vita detentiva, vuole rappresentare un momento di confronto con gli attori sociali e istituzionali che operano nell’ambito delle politiche attive del lavoro. L’obiettivo è quello di condividere e diffondere le esperienze maggiormente significative di inserimento lavorativo delle persone ristrette e riflettere circa la normativa vigente sugli sgravi fiscali e/o contributivi del nostro paese. I lavori saranno introdotti dal Presidente del Consiglio Regionale Rosetta D’Amelio, e presieduti dal Garante dei detenuti Samuele Ciambriello. Interverranno il Presidente della Commissione lavoro del Consiglio Regionale Nicola Marrazzo, il Presidente del Tribunale di Sorveglianza Adriana Pangia, il Presidente Gruppo Giovani Imprenditori Vittorio Ciotola, il Provveditore campano dell’amministrazione penitenziaria Antonio Fullone, il Professore Ordinario di “Diritto del Lavoro” dell’Università Luigi Vanvitelli Fulvio Corso e la rappresentante dell’U.I.E.P.E. Giusi Forte. Nella seconda parte della mattinata è prevista una “Tavola rotonda” presieduta da Stefano Anastasia, Garante delle persone private della libertà personale delle Regione Umbria e Lazio (Portavoce nazionale dei Garanti dei detenuti) con gli interventi del Direttore regionale dell’Inps Giuseppe Greco, il Responsabile Anpal (Agenzi strumentale del Ministero del Lavoro) regioni Campani e Calabria, Michele Raccuglia, il Presidente regionale Associazione Antigone, Luigi Romano; il Garante dei detenuti della regione Emilia-Romagna Marcello Marighelli, il Segretario regionale CGIL, Nicola Ricci. “L’incontro ha l’ambizione di far entrare nel mondo carcerario lavoro normale che riscatta la condizione dei detenuti e favorisca il loro inserimento nella società in maniera dignitosa e democratica. Mediante il lavoro negli istituti, nonché con corsi di formazione professionale, coincidente le persone detenute, oltre a provvedere alle proprie esigenze personali, possono sviluppare determinate professionalità e competente spendibili direttamente nel mercato del lavoro all’esito del loro percorso rieducativo, coincidente con l’espiazione della pena inflitta”, dichiara il Garante Campano dei detenuti Samuele Ciambriello. Reggio Calabria. Convegno sull’ergastolo ostativo all’Università “Mediterranea” di Giuseppe Abramo* Ristretti Orizzonti, 29 novembre 2019 Lunedì 18 novembre, presso il “Dipartimento di Giurisprudenza, Economia e Scienze Umane” di Reggio Calabria, si è tenuto un arricchente dibattito promosso dal Movimento universitario “Contaminiamo i Saperi” e patrocinato dall’Ordine degli psicologi della Calabria, dal titolo: “Il diritto alla speranza. L’ergastolo ostativo alla luce del “caso Viola” e della sentenza della Corte costituzionale”. Era fondamentale, in qualità di aspiranti operatori del diritto, organizzare un incontro di approfondimento e di analisi riguardante l’evoluzione giurisprudenziale in materia di ergastolo ostativo; ed è ancora più significativo che questa preziosa occasione si sia svolta all’interno dell’Università, luogo emblematico per la formazione dei protagonisti del futuro. A dare il via ai lavori è stato il Dir. del DiGiES, Prof. Massimiliano Ferrara, che ha accolto favorevolmente non solo l’iniziativa in corso d’opera ma soprattutto lo spirito d’intraprendenza degli studenti e dei vari gruppi associativi che animano la nostra realtà universitaria. Con una incoraggiante esortazione a prestare completo affidamento nel sostegno del Dipartimento per qualsiasi progetto di crescita culturale e professionale, ha poi annunciato l’apertura di un corso di “diritto penitenziario” per il prossimo anno accademico, che valorizzerà sensibilmente il corso di studi in riva allo stretto. Il Prof. Arturo Capone, associato di procedura penale presso l’Università Mediterranea, ha delineato il quadro giuridico e normativo in cui collocare l’argomento in questione, illustrando il tortuoso percorso dottrinale e giurisprudenziale che è culminato con la sentenza Viola della Corte Edu e con la sentenza della Corte costituzionale di alcune settimane fa. Le due Corti supreme hanno sostanzialmente sollecitato lo Stato italiano a prevedere che, anche in assenza di collaborazione con la giustizia, il Tribunale di sorveglianza possa valutare la richiesta di accesso ai benefici penitenziari da parte dei condannati per i c.d. reati ostativi (tra cui l’associazione a delinquere di stampo mafioso), sempre alla luce dei percorsi trattamentali di rieducazione e di risocializzazione posti in essere dentro il carcere. È stata poi colta la pregevole opportunità di conversare con la Dott.ssa Antonia Sergi, psicologa e psicoterapeuta presso gli Istituti penitenziari G. Panzera di Reggio Calabria, nonché esperta in criminologia e sistema penitenziario, che ha permesso di scoprire come opera in concreto un professionista negli ambienti carcerari. L’osservazione scientifica della personalità del reo, il concetto di “revisione critica”, le linee guida di valutazione in assenza di collaborazione del detenuto e poi l’approccio conoscitivo alla c.d. “psicologia mafiosa”, considerata anche la riproposizione in carcere delle condotte tipiche dei boss. Di particolare interesse la delucidazione relativa al trattamento degli affiliati alle organizzazioni criminali, anche perché - aspetto confermato dalla stessa dott.ssa Sergi - il mafioso è nella quasi totalità dei casi un “detenuto modello”, che si contraddistingue per il rispetto ossequioso del regolamento carcerario, perfettamente in sintonia con una forma di deontologia criminale. Il Garante dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale della Regione Calabria, Avv. Agostino Siviglia, ha infine offerto degli efficaci spunti di riflessione critica, raccontando le numerose esperienze nelle carceri calabresi dove ha potuto, ad esempio, ammirare le opere di c.d. “ingegneria carceraria”, invenzioni e progettazioni di alcuni soggetti internati, utili e funzionali non solo per il trascorrere delle giornate in carcere ma soprattutto per conferire un barlume di umanità alla stessa detenzione. Dopo aver ripreso l’originale metafora proposta dal “Garante nazionale dei diritti dei detenuti” Mauro Palma, della “dea della giustizia non bendata” - appunto per soddisfare l’esigenza di guardare ogni singolo caso nella sua specificità, senza automatismi pregiudiziali -, ha citato l’esemplare gesto di Fiammetta Borsellino, figlia del giudice palermitano, che ha chiesto di incontrare in carcere i fratelli Graviano (esecutori materiali dell’attentato di Via D’Amelio). Ha infine dichiarato che “deve essere lo Stato a nutrire il diritto alla speranza”. E questa affascinante attività di studio e di ricerca, indispensabile per la realizzazione della nostra tavola rotonda, ha generato delle stimolanti considerazioni che vengono riportate in questo umile contributo. Come spiegato in precedenza dal Prof. Pugiotto, Docente ordinario di diritto costituzionale dell’Università di Ferrara, “la Corte di Strasburgo non ha affatto bocciato la collaborazione come condizione per accedere ai benefici penitenziari, ma ha contestato l’equivalenza tra mancata collaborazione e pericolosità sociale del condannato, invitando il Legislatore italiano a prevedere anche per l’ergastolano non collaborante la necessità di accedere ai benefici penitenziari, se ha dato prova del suo ravvedimento. [...] Ecco perché deve essere la magistratura di sorveglianza a valutare caso per caso, alla luce dell’intero percorso trattamentale del reo, se sia ancora socialmente pericoloso, indipendentemente dalla sua collaborazione con la giustizia”. [...] Caduto l’automatismo ostativo, si ritornerà alla regola della valutazione giurisdizionale individuale. Si chiama riserva di giurisdizione, ed è prevista dalla Costituzione a garanzia di tutti i cittadini, detenuti compresi”. Si tratterebbe quindi dell’imprescindibile restituzione alla magistratura di un potere di valutazione e di verificabilità, come costituzionalmente previsto nel nostro ordinamento. Sono state anche avanzate critiche legate a un’eventuale sovraesposizione dei giudici di sorveglianza alle ritorsioni del potere mafioso. Ma sorgono spontanei alcuni interrogativi: il pubblico ministero che chiede la condanna all’ergastolo ostativo, non è invece soggetto a questi rischi? E soprattutto, il giudice che emana la sentenza di condanna all’ergastolo ostativo, non rappresenta forse il grado decisionale più elevato in tal senso? Si tratta di un pericolo connaturato alla funzione stessa del magistrato, e risulterebbe pertanto inutile qualsiasi catastrofismo al riguardo. D’altronde, come spiegato da Fabio Gianfilippi - magistrato di sorveglianza di Spoleto e componente del Tribunale di sorveglianza di Perugia, che peraltro ha sollevato il caso di legittimità costituzionale nei confronti dell’ergastolano ostativo Pietro Pavone - “la magistratura di sorveglianza si occupa da molti anni di detenuti per reati gravissimi, anche di mafia, e già oggi valuta le loro richieste di differimento della pena per motivi di salute, le richieste di permesso per gravi motivi, oppure si occupa di valutare la concessione di benefici penitenziari nei confronti di quei detenuti per reati di mafia che non siano collaboratori, ma che abbiano avuto la valutazione di collaborazione impossibile con la giustizia”. Analizzando poi un punto di vista requirente, è interessante menzionare alcune osservazioni rilasciate da un altro operatore pratico del diritto, da anni impegnato nella lotta alla criminalità organizzata, come il procuratore della Dda di Reggio Calabria Stefano Musolino. Afferma il p.m. reggino: “Nonostante la scarsità di investimenti e di attenzioni, il sistema penitenziario e la magistratura di sorveglianza hanno già dimostrato un’efficace capacità di gestione di queste dinamiche. Gli allarmismi sul punto sono, perciò, del tutto infondati. Piuttosto, mi inquieta il tentativo di aggressione culturale alla capacità discrezionale del giudice. È come se si brandisse il manganello mediatico per indurre la magistratura a chiedere nuove e deresponsabilizzanti presunzioni normative. Ma noi siamo un potere dello Stato, non funzionari addetti allo smaltimento di pratiche burocratiche e ogni persona, ogni situazione sottoposta al nostro giudizio merita un’attenzione speciale che ci impone valutazioni verificabili e discrezionali, perché tarate sul caso specifico sottoposto alla nostra attenzione”. Significativa poi l’affermazione del magistrato antimafia: “direi che sia più accettabile (sul piano dei costi-benefici costituzionali) un errore, in buona fede, del giudice a favore di un detenuto immeritevole, anziché cento detenuti costretti a un generale regime deteriore che non tiene conto del loro percorso personale, per impedire che possa verificarsi il predetto errore”. Ma lo tsunami di polemiche sulla vicenda non si è per nulla limitato a valutazioni di natura tecnica, raggiungendo notevoli livelli di strumentalizzazione mediatica, attraverso ad esempio l’abuso del nome di Giovanni Falcone. Come spiegato dal Prof. Capone durante il nostro convegno, è vero che Giovanni Falcone - da Direttore generale degli Affari penali del Ministero di Grazia e Giustizia - aveva contribuito alla stesura del d.l. 152 del 1991, che introdusse per la prima volta l’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario; la prima versione, tuttavia, condizionava l’accesso ai benefici penitenziari all’esclusione di rapporti attuali con la criminalità organizzata. Solo dopo la strage di Capaci, sull’onda emergenziale, fu invece emanato il secondo decreto legge che introdusse l’attuale art. 4bis o.p., con l’ostatività della mancata collaborazione. La stessa Corte EDU ha rilevato, nella pronuncia sull’ergastolano taurianovese, “che il sistema penitenziario italiano si fonda sul principio della progressione trattamentale, secondo il quale la partecipazione attiva al programma individuale di rieducazione e il passare del tempo possono produrre degli effetti positivi sul condannato e promuovere il suo pieno reinserimento nella società. Man mano che evolve la detenzione, ammesso che evolva, il detenuto si vede offrire dal sistema la possibilità di beneficiare di misure progressive (che vanno dal lavoro all’esterno alla liberazione condizionale), destinate ad accompagnarlo nel suo “cammino verso l’uscita”“. E appare inoltre ancor più considerevole un dettaglio legato al procedimento dinnanzi alla Corte sovranazionale. L’art. 43 Cedu parla chiaro: “possono essere discusse alla Grande Camera soltanto le questioni che presentino seri dubbi interpretativi”. Sembrerebbe evidente, quindi, la netta presa di posizione di Strasburgo sulla controversia, manifestata appunto con il rigetto del ricorso presentato dal Governo italiano contro la sentenza Viola, come a voler precisare che non esistesse alcun serio dubbio interpretativo tale da rimettere in discussione la pronuncia dello scorso giugno. Grazie a una formidabile squadra di professionisti, il corpo studentesco dell’Università “Mediterranea” e la società civile reggina hanno potuto cogliere la rivoluzione copernicana avvenuta nel mondo del diritto penitenziario, abbattendo quel muro di paura, di incredulità e di indignazione costantemente fortificato dalla disinformazione dilagante. Risulta, quindi, inderogabile una esortazione nel pieno rispetto di qualsiasi opinione sulla tematica: corre l’obbligo (non solo il dovere) morale di riempire la parola “intelligenza” del suo significato etimologico, “intus”-”legere”, “leggere dentro”, non fermarsi all’apparenza, alla copertina di un libro, alla descrizione di un articolo di giornale. Al titolo di un post Facebook. *Laureando DiGiES Trieste. Riflessioni sulla violenza di genere alla Casa circondariale di Elisabetta Burla* Ristretti Orizzonti, 29 novembre 2019 Sabato 23 novembre alla casa circondariale di Trieste si è svolto l’incontro mensile organizzato dal Garante comunale dei diritti dei detenuti in collaborazione con l’Area pedagogico Giuridica della Casa Circondariale tra le persone private della libertà e le persone autorizzate all’ingresso per stimolare riflessioni, coltivare il confronto e riportare, anche nella società, l’importanza della conoscenza necessaria a superare pregiudizi e a permettere di pensare a percorsi diversi. Stante la prossimità della giornata mondiale contro la violenza sulle donne il tema scelto è stato proprio quello della violenza di genere affrontato attraverso la proiezione del film “L’amore rubato” della regista Irish Braschi. Il lungometraggio attraverso la storia di cinque donne diverse tra loro per estrazione sociale, età, cultura, contesto familiare riesce a raccontare le varie sfumature di violenza che possono essere agite nei confronti delle donne, i diversi soprusi e agiti da parte di uomini violenti, morbosi, controllanti, egocentrati. Una pubblico ridotto rispetto alle presenze riscontrate nelle precedenti occasioni ma al termine della proiezione del film liberi e reclusi si sono seduti in cerchio e hanno sviluppato alcune riflessioni sul delicato tema. A dirigere il confronto il dott. Paolo Di Nisio psicoterapeuta, vice presidente dell’Associazione Inter Pares il cui scopo è quello di garantire percorsi di rivisitazione critica dei comportamenti posti in essere da uomini maltrattanti, e l’avv. Esmeralda Di Risio, Consigliere dell’Ordine degli Avvocati e Tesoriere della Camera Penale di Pordenone, che ha illustrato gli aspetti di novità introdotti dal c.d. codice rosso. Il confronto, molto partecipato, ha permesso di far emergere alcune tematiche, prima tra tutte quella della solitudine. Solitudine che spesso porta a isolarsi e a vivere in modo errato il rapporto con l’altro. Ma l’incontro ha anche permesso di fare luce su di un altro aspetto: l’importanza del percorso terapeutico volto a risolvere i comportamenti violenti; comprendendo e superando i propri traumi si possono instaurare corretti rapporti con l’altro. *Garante comunale dei diritti dei detenuti di Trieste Novara. L’arte degli origami entra nel carcere varesenews.it, 29 novembre 2019 La mattina di mercoledì 27 novembre, l’associazione culturale “Brughiera CàDaMat”, presieduta da Matteo Tosi, Garante dei Detenuti per il Comune di Busto Arsizio, ha organizzato presso la Casa Circondariale di Novara un piccolo corso di origami, tenuto dal Maestro Giancarlo Toran, colonna portante della Pro Patria Scherma e dello sport bustocco in generale, animo curioso e poliedrico che nelle sue peregrinazioni tra sport, logica e filosofia, si è specializzato da anni in questa affascinante disciplina orientale. “È un’arte fatta di piccoli gesti e cose semplici, alla portata di tutti - spiega Toran - ma consente di dare infinite forme alla propria fantasia e di ottenere subito risultati e miglioramenti, costringendoti a liberare la mente da tutto, almeno per quei pochi momenti, perché richiede grande attenzione e precisione. Mi sembrava una disciplina perfetta da insegnare a chi ha tanto tempo e bisogno sia di regole che di sfoghi creativi, intuizione che direi confermata dall’interesse con cui sono stato seguito e abbiamo lavorato tutti insieme”. “L’idea da cui siamo partiti - continua Camilla Pensa, segretaria dell’associazione - era proprio quella di trovare qualcosa di piacevole da far fare a chi vive una condizione complicata come quella della detenzione, ma anche di dare modo a qualche papà di preparare un regalino in più per i propri figli o di avere qualcosa da insegnare loro, sempre attraverso il gioco, durante visite e colloqui, che sono momenti cruciali e delicatissimi sia per i detenuti che per i loro cari, spesso vissuti tra grandi imbarazzi e troppi non detti”. L’avvicinarsi del Natale, quindi, è sembrata l’occasione perfetta per questo piccolo esperimento, che verrà replicato mercoledì prossimo, ancora con gli stessi detenuti, chiamati ad andare oltre le rane salterine, le stelle e gli elicotteri imparati da Toran nelle prime due ore. Poi, chissà, non è detto che questi “fogli piegati” non diventino uno strumento costante nelle attività rieducative implementate dall’Ufficio Trattamento di via Sforzesca o da quelli di altri Istituti. “Qui a Novara ci siamo trovati molto bene - conclude, infatti, Camilla Pensa - e siamo molto soddisfatti soprattutto di come è partito e sta proseguendo il nostro laboratorio di stampa su tessuto, quello delle magliette “amanetta”, ma ovviamente ci piacerebbe portare qualche sorriso e qualche messaggio importante anche nella struttura della nostra città. Vedremo se sarà possibile, anche perché siamo sicuri che il Maestro Toran ne sarebbe entusiasta, come si è dimostrato anche qui”. Cuneo. I detenuti-attori escono dalle carceri per recitare cuneocronaca.it, 29 novembre 2019 “Destini incrociati” a Saluzzo e Savigliano. Da giovedì 12 a sabato 14 dicembre la provincia di Cuneo ospita la sesta edizione della rassegna nazionale di teatro in carcere “Destini incrociati”, promossa dal Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, che raggruppa 33 compagnie teatrali provenienti da 16 regioni d’Italia, e dalla Compagnia “Voci Erranti” di Savigliano. Per la prima volta in provincia di Cuneo (dopo Firenze 2012, Pesaro 2015, Genova 2016, Roma 2017 e Firenze 2018), l’appuntamento propone tre giornate di teatro con attori-detenuti che giungeranno nel Cuneese, in regime di massima sicurezza, provenienti dai carceri di Cosenza, Livorno, Pesaro, Palermo, oltre che di Saluzzo. Saranno proiettati, inoltre, gli spettacoli realizzati da altre 15 realtà carcerarie italiane, ma non mancheranno seminari, conferenze, mostre d’arte, dimostrazioni di lavoro. “Destini incrociati”, che vedrà la già sicura partecipazione di oltre 300 studenti provenienti da alcuni dei principali istituti scolastici della Granda, chiamati a prendere parte a laboratori di accompagnamento alla visione, si tiene con il patrocinio del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, il Ministero di Giustizia/Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità e la Fondazione Piemonte dal Vivo con il contributo della Compagnia di San Paolo, della Cassa di Risparmio di Saluzzo e delle Città di Saluzzo e Savigliano. La rassegna è promossa in Rete da 22 organismi aderenti al Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, avendo come capofila l’associazione Teatro Aenigma. Per maggiori informazioni visitare il sito Internet www.vocierranti.org o telefonare al numero 340.3732192. “Detenuti da tutta Italia, alcuni dei quali usciranno per la prima volta dal regime detentivo, giungeranno a Saluzzo e Savigliano nel corso della tre giorni. Il teatro in carcere è ormai in Italia un’esperienza matura sia sul piano artistico che organizzativo/progettuale, come dimostra anche il recente sviluppo del teatro negli istituti di pena per minori - afferma Grazia Isoardi, direttrice artistica della rassegna -. Evidenti sono poi gli sconfinamenti verso gli ambiti del cinema, della produzione video/fotografica ed editoriale; così come cominciano ad emergere esperienze di professionalizzazione di attori ex-detenuti”. La rassegna, che a Saluzzo coinvolgerà La Castiglia, l’antico palazzo comunale, il teatro civico Magda Olivero e la casa di reclusione, con un’appendice presso il Teatro Milanollo di Savigliano, sarà occasione per restituire un ampio panorama delle nuove esperienze drammaturgiche sperimentate da registi e autori professionisti che da anni lavorano nelle realtà detentive del Paese. Si assisterà a spettacoli nati dalle narrazioni e dalle biografie dei detenuti, spesso direttamente coinvolti anche nel processo di scrittura e allestimento. Tra i personaggi più attesi che animeranno l’evento sono attesi Elvio Fassone, scrittore, già magistrato e componente del Consiglio Superiore della Magistratura che racconterà la sua corrispondenza, ancora viva, con un giovane condannato all’ergastolo; Angelica Corporandi D’Auvare, vedova del prof. Alberto Musy, che ha trasformato la propria personale vicenda di vita in uno spettacolo teatrale. Interverrà anche Ronald Jenkins, docente di teatro alla Wesleyan University di Middletown (Connecticut) che relazionerà su alcune esperienze lavorative condotte in carcere in Usa e Indonesia sulla Divina Commedia di Dante. “La diversità di queste esperienze rispetto al teatro istituzionalizzato - spiega Vito Minoia, presidente del Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere - non appare come una moda teatrale, ma come una condizione genetica che ci consente di delineare un ambito di lavoro teatrale, con una forte connotazione artistica e al tempo stesso educativa e inclusiva, una zona pratica della scena contemporanea ricca di implicazioni sociali e civili. Tra gli altri spicca il dato della sensibile diminuzione della recidiva in chi fa teatro in carcere: si riduce dal 65 al 6%”. Già fantasmi prima di morire”, di Monica Scaglia. Ammanettata alla barella di Claudio Dionesalvi dinamopress.it, 29 novembre 2019 “Già fantasmi prima di morire” di Monica Scaglia (Sensibili alle foglie, 120 pp) è stato presentato ieri, giovedì 28 novembre, alla Casa internazionale delle donne di Roma. Il magistrato di sorveglianza ha vietato all’autrice di partecipare all’evento. Svegliarsi di notte e ritrovarsi con gli scarafaggi in bocca. Di tutti gli inferni possibili, questo è il peggiore: essere malati di tumore e detenuti. Anche da liberi, è noto quanto sia difficile curarsi in questo Paese. Diventa una solitaria battaglia per la sopravvivenza quando non si è considerati “persone”. E in carcere non si è più tali. È un abisso che nessuno vuole illuminare, una condizione in cui si trovano migliaia di prigionieri e prigioniere. Prova invece a disvelarlo, e ci riesce, Monica Scaglia nel libro Già fantasmi prima di morire, edito da Sensibili alle foglie con la prefazione di Sandra Berardi, l’introduzione di Domenico Bilotti e la postfazione di Francesca De Carolis. Ideatrice nel 2004 del volume S.O.S. fiabe (Editrice Elena Morea), Scaglia è attualmente in regime di detenzione domiciliare sanitaria. La legge italiana prevede che un detenuto in condizioni di salute particolarmente gravi può ottenere gli arresti domiciliari o altre misure attenuanti la pena del carcere solo se gli resta da scontare una pena inferiore a quattro anni. I medici in servizio nelle carceri, però, si rifiutano di diagnosticare “condizioni di salute particolarmente gravi”. È prassi consolidata. “Non si opporranno mai a una legge” - scrive Monica Scaglia - “piuttosto che andarvi contro si opta per una maggiore concentrazione su un’eventuale relazione di decesso. Le nostre morti sono insabbiate e a maggior ragione, più abbiamo gravi problemi di salute, più i nostri decessi sono facilmente giustificabili. La filosofia dominante dunque è mantenere buoni rapporti con i giudici e non metterli in difficoltà, costi quel che costi”. Monica possiede una scrittura prospettica. L’impiego di registri stilistici differenti, tra fiabesco, epistolare e poetico, crea una dimensione avvolgente che consente una lettura agevole, immedesimata eppur lucida, mai declinante sul patetico. Ne scaturisce una ruvida denuncia impregnata di amore verso la dignità, le relazioni umane, la fede in un Essere superiore che in qualche modo accompagni e condivida le sofferenze degli oppressi. Come in ogni condizione detentiva, la modificazione di coscienza che ne deriva partorisce poesie, fiabe, lettere e richieste di attenzione. Queste rimarranno senza risposta e si perderanno nell’indifferenza, quando non intercettate dalla censura carceraria. “Qua in Italia se un uomo picchia una donna per strada, la gente si gira dall’altra parte, figuriamoci se interessa a qualcuno la vita dei detenuti malati. Nessuna via d’uscita, per l’Italia tutto deve rimanere così”, denuncia l’autrice, annotando come la persona detenuta sia “spinta con forza a regredire, infantilizzarsi”. Riecheggiano l’eterna domanda e l’inequivocabile risposta: “A cosa mi è servito il carcere? Ad aprirmi le porte al mondo criminale, mondo che prima non conoscevo, mondo che si estende non solo ai detenuti, ma a criminali ben più pericolosi, quelli legali”. Proprio questo suo rifiuto di subire, di lasciarsi andare, ha reso Monica scomoda, insopportabile per il dispositivo carcerario. Affiora spontaneo il sospetto che questo accanimento nei suoi confronti non sia ancora finito, alla luce del diniego opposto dal magistrato di sorveglianza alla sua richiesta di potersi recare presso la Casa Internazionale delle Donne, a Roma, in via della Lungara 19, dove giovedì 28 alle 18,30 sarà presentato il suo libro. Motivazione: “Non è compatibile con la natura contenitiva della misura”. In effetti, a volte, la scrittura è incompatibile con la sottomissione. Il sogno globale è al capolinea: da dove ripartire di Paolo Pirani Il Riformista, 29 novembre 2019 “La globalizzazione passa attraverso i diritti, non i mercati”, sosteneva con passione Stefano Rodotà. Osservando quello che sta provocando, anche in Italia nel mondo produttivo, saremmo tentati di dire che, come il capitalismo di cui è la manifestazione attuale, cambia pelle più velocemente e radicalmente di quello che riescono a fare il pensiero e l’azione politica e sindacale. E sono queste rapide mutazioni che allora rendono vano lo sforzo di puntellare diritti e tutele. Di fronte ai rischi di deindustrializzazione che si colgono in particolare in Europa si deve prendere coscienza che non sarà più sufficiente attestarsi su posizioni puramente “difensive” o di concorrenza “fratricida”. La trincea nel migliore dei casi potrà rallentare quel che avviene, ma sarà pur sempre una immobile linea Maginot facilmente aggirabile. Certo, nel momento nel quale emergono importanti questioni industriali occorre avere la forza di affrontarle con unità, realismo e determinazione, specie per impedire lo sfociare in drammatiche situazioni sociali. Siamo in presenza di una prima fase della globalizzazione che ha concluso il suo percorso. La redistribuzione della ricchezza si è risolta in un maggiore accentramento di essa in meno detentori; i dazi, le guerre commerciali, l’emersione di potenti competitori come la Cina, l’incessante rivoluzione tecnologica hanno terremotato perfino il mito dell’economia globale come nuovo approdo in un’età dell’oro. E il predominio della finanza ha accentuato inevitabilmente gli squilibri. Tanto che, se ci si fa caso, le analisi più puntuali delle prospettive economiche in divenire vengono più dagli analisti finanziari che dai tradizionali economisti. Che sia in atto un cambiamento di scenario lo sostengono il Financial Times che ritiene necessaria una “nuova agenda” come Walter Stahel, considerato il padre dell’economia circolare che dà il benservito alla globalizzazione a favore della cosiddetta performance economy nella quale, almeno in parte già vivremmo. Il tramonto del vecchio capitalismo è per certi versi storia già “digerita” e lo si comprende dalle reazioni degli opposti che nel caso in questione sono gli Stati Uniti di Trump e la Cina. Il primo ha predicato protezionismo e ritorno a casa di capitali e produzioni, minando il vasto campo delle nuove tecnologie. La seconda, conquistando impetuosamente terreno nello sviluppo delle reti e della intelligenza artificiale, si è impossessata disinvoltamente della bandiera del libero mercato con la quale punta a rappresentare “interessatamente” anche le esigenze delle zone più povere del globo. Le nuove tecnologie risultano perciò il terreno privilegiato delle fondamentali strategie di “guerra” economica per il solo fatto che penetrano ovunque e ovunque stabiliscono nuove gerarchie (e diseguaglianze) a partire dalla conoscenza. Finora l’unica reazione in qualche modo “alternativa” a questa evoluzione inarrestabile lo si può trovare nei fautori della green economy perché se non altro mobilita un pensiero, i giovani, mette in discussione anch’esso da un altro punto di vista la logica dei profitti e l’uso delle proprietà. A questo punto però dobbiamo chiederci se la strumentazione e le strategie di cui si dispone per far fronte a questa stagione difficile di cambiamenti sia adeguata o meno. E soprattutto cosa si può fare per non rimanere travolti e lasciare impoverire sia il tessuto economico che sociale non di un singolo Paese, ma dell’Europa. Vero che Ursula von der Leyen si è spesa perché sotto la sua Presidenza l’Europa faccia passi in avanti nella economia circolare e del clean tech. Ma il Vecchio Continente premuto da un lato dal confronto Usa-Cina e frenato dal timore dei sovranismi pare ancora troppo impacciato per esercitare il necessario colpo di reni. Ma tutti possiamo fare qualcosa per riemergere da questo pericoloso stagno di apparente impotenza. Ad esempio ragionare sui compiti dello Stato in una situazione mai contemplata in precedenza. Che attributi strategici deve avere, senza abbandonare le necessità del momento? È ancora e sempre lo Stato degli ammortizzatori sociali come unica risposta alle crisi, o deve indossare i panni di uno Stato regolatore dell’economia che ristabilisce il primato di politiche industriali sulle convenienze contingenti, asseconda concretamente le innovazioni, comprende che non esistono solo palcoscenici globali ma anche quelli di nuove economie locali, si impegna a fondo per realizzare le condizioni migliori per creare lavoro e non rifugiarsi nell’assistenzialismo? Inoltre anche a sinistra, si riflette su un postulato che nel passato è stato oggetto di profonde divisioni: ma se il modus operandi del capitalismo è quello che osserviamo, non è forse giunto il momento di instaurare laddove non c’è o rafforzare dove già esiste la partecipazione dei lavoratori alla vita delle aziende? Questo è un terreno di lavoro quanto mai importante per le forze sociali e ovviamente per il movimento sindacale. Che ha maturato soprattutto nel suo ruolo contrattuale proposte e strategie utili in questa direzione. Ma questa “patata bollente” non va lasciata in mano alla sola politica o a un’opera di nuova ingegneria istituzionale. È di tutta evidenza che occorra un nuovo patto che collochi l’iniziativa e le proposte di imprese e sindacati nella nuova fase economica che non solo produce imponenti mutamenti ma è anche attraversata da incognite pesanti, ad esempio i livelli di indebitamento e la gigantesca massa di liquidità che si muove a livello globale e di aree, ma anche il vuoto di investimenti che invece andrebbe intelligentemente comato. C’è bisogno di un nuovo patto che possa rianimare anche un grande dibattito sul futuro coinvolgendo soprattutto i giovani con le lavoratrici e i lavoratori. Non si può fare altrimenti perché le inadeguatezze delle attuali classi dirigenti sono tali che difficilmente potranno essere colmate in breve tempo. Vanno viceversa incalzate. Il divario fra ciò che si manifesta e le risposte che si cercano di dare però è talmente alto da far temere che sia prossimo ad un livello di guardia. Continuare a restare fermi nelle vecchie certezze è assai pericoloso. Sarebbe come rimanere impigliati nella rete della memoria, quando invece la realtà corre a velocità della luce. Non ce lo possiamo permettere. “I nemici della libertà sono il potere politico e il fanatismo religioso” di Antonella Napoli Il Dubbio, 29 novembre 2019 Intervista a Wole Soyinka, drammaturgo e saggista. “La maggior parte delle volte ci troviamo obbligati a sottometterci a una forza maggiore, ma ogni tanto qualcuno si ferma, si erge e dice no. Soprattutto tra i più giovani. Quello è un buon giorno per qualsiasi democrazia, che sia compiuta o meno”. Parola di Wole Soyinka, drammaturgo e saggista nigeriano, il primo africano a vincere il premio Nobel per la letteratura nel 1986. Incontrato a margine del congresso mondiale dell’International Press Institute di Abuja, in Nigeria, con al centro il tema della libertà di pensiero e di espressione, abbiamo affrontato con l’autore tematiche di stringente attualità. Da metà novembre Soyinka è in Italia per presentare il suo ultimo lavoro, la raccolta di saggi Del Potere e Della Libertà in cui l’autore interviene su temi a lui sempre cari: le migrazioni, l’integrazione e, appunto, il potere e l’abuso dello stesso. In questi scritti inediti, Soyinka esprime parole di concreta speranza, una ferma convinzione: “La libertà è la vera casa dell’uomo, e l’uomo può costruirla sia in paesi ricchi che in condizioni di povertà, che non è miseria né schiavitù”. Il “dogma del potere”, come lei lo definisce, sembra estendersi anche in realtà apparentemente immunizzate dall’antidoto della democrazia. Qual è la sua visione? Oggi l’umanità si confronta con lo stesso nemico che la libertà ha avuto sin da quando gli uomini si sono riuniti in società, quel nemico è conosciuto come il Potere. Oggi la più grande minaccia con cui ci confrontiamo, in Africa come in Europa o nel resto del mondo, è l’arroganza politica e il fanatismo religioso, che sono portatori di repressione e chiusura intellettuale e di pensiero. Per questo è necessario alzare la testa, combattere l’avanzata di politiche sovraniste. Chi non protegge i propri diritti favorisce il sorgere del fascismo, nei luoghi più inaspettati. Lei ha messo più volte in guardia sul pericolo dell’autocensura nel suo Paese ma resta ottimista per il futuro della libertà di stampa? In Nigeria al momento il livello di libertà di stampa raggiunge a malapena il 55% ma, se si riuscisse ad aggirare le aree grigie che implicano sottomissione e le pressioni di cui nella maggior parte dei casi l’opinione pubblica non è a conoscenza, potrebbe migliorare in un paio d’anni. Quanto costa difendere la libertà di stampa e di pensiero? Non è facile affermare i proprio diritti in contesti come quello nigeriano e africano in generale. Ma bisogna avere il coraggio di far saltare l’arroganza e la presunzione di coloro che cercano di controllare il diritto delle persone alla libertà di parola anche se si rischia di perdere quella personale. Non far nulla per proteggere i propri diritti è il modo certo per perderli per sempre. Il suo è stato un impegno pagato a caro prezzo. Ha vissuto a lungo in esilio negli Usa. Dopo la morte di Abacha è tornato in Nigeria. Ha anche rinunciato alla green card negli Stati Uniti. Perché? Dopo l’elezione di Trump mi sentivo a disagio. La sua politica xenofoba e razzista mi ha spinto verso questa decisione. Lo avevo anticipato ai miei amici già durante la campagna elettorale. Quanto Trump è stato eletto la scelta di non volermi più sentire cittadino americano si è concretizzata nell’atto formale di restituire la green card. Ma torno spesso in America, e continuerò a farlo, per conferenze e soprattutto rivedere amici. La Nigeria è casa mia, in fondo da qui non sono mai andato via. Nel 2014 le è stato diagnosticato un carcinoma prostatico in fase iniziale. Ha combattuto il male e ha fatto di questa esperienza un messaggio di speranza. Ora come sta? Sono passati un po’ di anni. Da allora, dopo aver subito un trattamento che ha fermato il cancro, sono in buona salute. Cerco di prendermi cura di me stesso, passo molto tempo all’aria aperta. Sono l’esempio vivente che sconfiggere questo terribile male è possibile. A chi si ammala sento di poter dire che, se la si affronta con resilienza e determinazione, si può uscire vincitori dalla battaglia contro il cancro. Pena di morte, il cammino abolizionista dell’Africa: oggi a Roma un convegno di Riccardo Noury Corriere della Sera, 29 novembre 2019 Nonostante alcune situazioni gravissime (tra tutte, quella di un ragazzino condannato a morte in Sud Sudan all’età di 15 anni), l’Africa subsahariana guida da alcuni anni il movimento degli stati per l’abolizione della pena di morte. Ne ha parlato Antonio Salvati nel suo recente libro “L’Africa non uccide più” (Infinito Edizioni), che abbiamo recensito qui ad agosto. Se ne parlerà anche domani, alla vigilia dell’appuntamento Cities for Life, nell’XII Incontro internazionale dei ministri della Giustizia, intitolato “Prepariamo la strada, sconfiggiamo l’odio: per un mondo senza la pena di morte” organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio alla Camera dei deputati. L’impegno abolizionista di un numero sempre maggiore di stati, le campagne delle organizzazioni non governative, le prese di posizione di leader religiosi e laici: tutti questi fattori stanno cercando di mettere in un angolo quei paesi che ancora applicano la pena di morte, poco più di 20, assai meno della metà dei cosiddetti “mantenitori”. La strada verso l’abolizione della pena di morte è ancora lunga ma sappiamo già da tempo che la domanda non è se la pena di morte verrà cancellata a livello mondiale, ma quando. La Libia è il porto del silenzio di Alberto Negri Il Manifesto, 29 novembre 2019 Per l’Italia la Libia è ormai diventata il “porto del silenzio”. Certo non è tragicamente il porto “sicuro” per i migranti che qualcuno qui si azzarda ancora a pensare perché la guerra intestina tra Tripoli e Bengasi è diventata sempre più vasta, è diventata una guerra di droni, di schieramenti militari e diplomatici per procura in cui brilliamo per un assordante silenzio. Se mai ce ne fosse ulteriore bisogno, stiamo perdendo ancora più credibilità. Insistendo nel dare fiducia ai trafficanti di uomini di Tripoli, nella speranza che nessuno se ne accorga e gli italiani abbocchino alla missione di ieri del premier Conte in Ghana effettuata all’insegna dello slogan “aiutiamoli a casa loro”. Intanto manteniamo sul campo un contingente a Misurata di oltre 300 uomini, ufficialmente a difesa di un ospedale ma probabilmente anche a fare altro, un po’ come accade con le forze speciali in Iraq, ferite recentemente in un’imboscata con un ordigno artigianale. Il generale Khalifa Haftar ci ha appena inferto un’umiliazione dopo l’altra cui non abbiamo comunque saputo rispondere. Dopo avere abbattuto un drone italiano e uno americano, Haftar ha chiesto scusa agli Usa ma non a noi, anzi ci ha minacciato mentre circolavano foto di miliziani che danzavano allegramente sui resti del veivolo. Haftar poi ha pure bombardato ieri i miliziani alleati di Tripoli che andavano a difendere i pozzi di El Feel dell’Eni. Insomma ci prende a schiaffi. L’abbattimento dei droni è stato un evento assai rilevante. Accompagnato nelle scorse settimane dallo schieramento in Libia dei contractor russi della Compagnia Wagner, società di mercenari che Mosca usa quando non si vuole sporcare le mani e che ha già impiegato anche in Siria e Ucraina. Gli Stati Uniti hanno accusato la Russia di speculare sul conflitto ma per non restare colti di sorpresa, dopo essersi sbilanciati sul governo di Tripoli, hanno mandato una delegazione da Haftar, che notoriamente è pure cittadino americano, in passato legato alla Cia - per ammissione della stessa Cia. “Un colloquio proficuo”, ha twittato Matthew Zais, vice del Dipartimento dell’Energia che faceva parte della delegazione con Victoria Coates della sicurezza nazionale, l’ambasciatore Richard Norland e il numero 2 di Africom, il generale di brigata Steven deMilliano. Haftar ha quindi potuto negoziare con gli Usa su tutto, dal petrolio agli aspetti politico-militari. E noi che facciamo? Ecco cosa facciamo. Ai primi di dicembre è previsto a Roma l’arrivo del ministro degli Esteri russoLavrov, in un primo momento accompagnato anche dal ministro per la difesa russo Shoigu intenzionato a incontrare i nostri vertici in vista anche della conferenza di Berlino sulla Libia. La nostra risposta nei giorni scorsi è stata: “Shoigu non ci interessa”. Ora bisogna capire che cosa ormai ci interessa più del mondo, dato che gli americani trattano con Haftar e i russi ci hanno più volte offerto una mediazione con il generale. Perché queste proposte? Haftar è stato esplicito nell’affermare di non volere la cooperazione con l’Italia mentre la Russia, che ha forti e storici legami con l’Eni, ritiene che gli italiani possano contribuire a stabilizzare la Libia e a limitare le pretese energetiche della altre potenze visto che proprio l’Eni continua a fornire l’80% dell’energia ed è una compagnia chiave per lo sfruttamento del gas nel Mediterraneo orientale. E poi, soprattutto, perché chi non controlla il petrolio non controlla la Libia. Haftar ha le mani sui terminali nella Sirte ma non può esportare legalmente il suo greggio e dipende ancora dai proventi distribuiti alle milizie dalla Banca centrale. Inoltre, pur avendo insediato una sistema parallelo per la gestione dei dinari stampati proprio da Mosca, ha contratto una montagna di debiti con russi ed egiziani. È ovvio che i russi non fanno nulla per nulla e che agli americani potrebbe poi non dispiacere in Libia un dittatore come l’egiziano Al Sisi, in una sorta di condominio in cui a noi riserveranno, nel nostro assordante silenzio, i piani bassi. Forse le cantine. Egitto. Giro di vite contro la stampa, arrestato un altro reporter di Francesca Paci La Stampa, 29 novembre 2019 Da due mesi, dalle proteste contro il presidente al Sisi mobilitate dal sedicente imprenditore in esilio Mohamed Ali e terminate con oltre duemila arresti, il governo del Cairo ha stretto ancora di più la morsa sulla stampa. Ieri, secondo il sindacato dei giornalisti egiziani, la National Security ha prelevato nella sua casa di Qalyubiya il giornalista Ahmed Shaker, un collaboratore del periodico Rose al Youssef. A rilanciare immediatamente la notizia sui social network è stato il sito d’informazione indipendente (uno degli ultimi) MadaMasr, protagonista a sua volta pochi giorni fa di una visita non esattamente amichevole degli apparati di sicurezza. Il caso di MadaMasr, famoso per tenere viva la memoria di Giulio Regeni in un Paese dove invece si preferisce non ricordare, ha fatto rapidamente il giro del mondo e i quattro redattori trattenuti in custodia cautelare - Shady Zalat, Rana Mahmoud, Mohamed Hamadi e la direttrice Lina Attallah - sono stati poi rilasciati. Ma il messaggio, ribadito ieri con il fermo di Shaker, è forte e chiaro. Lo è stato da subito: quando, dopo aver portato via nella notte Zalat e il suo computer, la polizia in borghese ha fatto irruzione nella redazione di MadaMasr e, incurante della presenza di alcuni colleghi di France24 nonché di diplomatici francesi accorsi su chiamata dei connazionali, ha perquisito le stanze e ammanettato gli altri tre reporter pochi al Cairo hanno avuto dubbi sul casus belli, l’articolo appena pubblicato sul figlio maggiore del presidente al Sisi al centro di uno scontro di poteri interno agli apparati di sicurezza e inviato in Russia ad occuparsi di uno dei più attivi alleati del regime, Putin. Nelle ultime ore tutti e quattro i giornalisti di MadaMasr sono stati rilasciati mentre per ora non si sa nulla di Ahmed Shaker. La denuncia di Amnesty A detta di Amnesty International dal 20 settembre le autorità egiziane hanno lanciato la più ampia campagna repressiva da quando al Sisi è diventato presidente. Sull’onda della sfida lanciata dalla Spagna da Mohmaed Ali la sicurezza ha portato in cella una cifra senza precedenti di oppositori, tra cui almeno 111 minorenni. L’accusa è sempre quella di “intelligenza con il nemico” (i Fratelli Musulmani) ma nella rete sono finiti avvocati per i diritti umani, attivisti, esponenti politici, semplici manifestanti e giornalisti (molti sono ora liberi ma restano sotto processo). L’Egitto è con la Turchia e la Cina il Paese con il più alto numero di reporter in carcere Iraq. Le rivolte di piazza come una guerra civile: 400 morti in due mesi di Valerio Sofia Il Dubbio, 29 novembre 2019 Dopo quasi due mesi di proteste anche violente che hanno causato quasi 400 morti, nuovi scontri e nuove vittime si sono registrate in Iraq, dove un ulteriore salto di qualità si è determinato con l’assalto al consolato iraniano di Najaf. Gli scontri più violenti si sono accesi a Najaf e Nassiriya, oltre che a Baghdad. Siamo nell’area sciita, eppure da un po’ di tempo nel mirino degli iracheni c’è l’Iran con la sua influenza crescente sul paese mesopotamico. Najaf è uno dei centri più sacri e importanti dell’islam sciita iracheno, e qui si è sempre vissuto un rapporto altalenante col primo paese sciita al mondo, l’Iran. Accanto alle affinità e al sostegno anche politico del recente passato, infatti, c’è anche una rivalità etnica tra arabi e persiani e religiosa per la guida del mondo sciita. Così dal 1 ottobre le proteste contro il carovita e la corruzione hanno preso di mira l’attuale governo iracheno. Questo è stato sul punto di dimettersi, ma poi in suo sostegno è intervenuto l’Iran che blindato il premier Adel Abdul Mahdi, e a quel punto la rabbia dei manifestanti si è diretta anche contro Teheran. Anche perché nel frattempo milizie sciite filo iraniane hanno a più riprese avuto responsabilità nella morte di diversi manifestanti iracheni. Un bilancio che ormai ha quasi raggiunto i 400 morti ufficiali, fra cui le 14 vittime di ieri a Nassiriya, dove si sono registrati almeno 70 feriti quando prima dell’alba le forze dell’ordine hanno aperto il fuoco sui manifestanti. A Najaf, invece, è stato assaltato il consolato iraniano, e le forze armate hanno annunciato la creazione di un’unità di crisi per ripristinare l’ordine. Una folla di manifestanti ha dato alle fiamme il consolato di Teheran, urlando “l’Iran fuori dall’Iraq”. Le forze di sicurezza hanno usato lacrimogeni e pallottole vere per disperdere i dimostranti, due dei quali sarebbero rimasti uccisi. Il personale diplomatico iraniano era stato evacuato prima dell’attacco. Da Teheran è arrivata la condanna per l’assalto, e la richiesta di punire i responsabili. Il ministero degli Esteri dell’Iraq ha subito condannato l’attacco affermando che esso mira a danneggiare “i rapporti storici dell’Iraq con l’Iran”. Stati Uniti. Un carcere dell’Indiana ha aperto le porte ai gatti abbandonati di Andre Giove newnotizie.it, 29 novembre 2019 L’effetto terapeutico sui detenuti è straordinario. Il carcere Pendleton Correctional Facility nello stato dell’Indiana ha deciso di accogliere i gatti abbandonati e di fargli accudire dai detenuti. L’effetto sulle persone e sui gatti è straordinario: “I detenuti imparano il concetto di responsabilità”. Straordinaria iniziativa del carcere Pendleton Correctional Facility nello stato dell’Indiana. I responsabili hanno consentito l’ingresso ai mici abbandonati o maltrattati in passato, consentendo ai detenuti di prendersene cura. Questa rivoluzionaria idea di portare i gatti in carcere sembra proprio funzionare per entrambe le parti coinvolte. Queste le dichiarazioni dei responsabili del carcere: “I detenuti imparano il concetto di responsabilità, ad interagire in un gruppo usando metodi non violenti per risolvere i problemi e ricevono l’amore incondizionato di un animale domestico, qualcosa che molti di questi detenuti non hanno mai conosciuto”. L’effetto terapeutico appare sbalorditivo e i responsabili del carcere hanno evidenziato un aumento progressivo dell’autostima e del senso di responsabilità nei detenuti. L’idea è stata lanciata dalla Animal Protection League. I responsabili del carcere Pendleton Correctional Facility l’hanno fatta loro, lanciando il programma di recupero psicologico sia dei detenuti che degli animali: “Il programma Mckc ha ridotto l’ozio dei detenuti, ha insegnato loro cosa sia la responsabilità e ha aumentato la loro autostima. Dall’inizio del programma, i detenuti si sono iscritti a corsi scolastici, hanno iniziato dei lavori, obbediscono alle regole di convivenza e hanno migliorato la loro igiene per poter partecipare all’iniziativa. La presenza di animali ha portato serenità e ha rafforzato lo spirito di gruppo”.