Nel carcere-polveriera già 45 suicidi di Rita Bernardini Il Riformista, 28 novembre 2019 Ci sono 60mila detenuti ma solo 45mila posti: va ripensata l’esecuzione penale riducendo l’accesso al carcere e aumentando le misure alternative. Altrimenti continueremo a piangere i morti di un sistema criminogeno. Ha iniziato ad ingoiare accendini, lamette, stuzzicadenti, poi una forchetta e, da ultimo, dei chiodi. Ha provato anche ad impiccarsi, ma noi familiari - affermano disperate zia e madre - lo abbiamo saputo dai giornali locali, non perché qualcuno ci ha avvertiti. Lui è un tossicodipendente ristretto nella Casa circondariale di Arienzo, uno dei tanti delle carceri italiane che ne contano una percentuale superiore al 25%. Le due donne temono il peggio: “possiamo capire il primo gesto, il secondo, il terzo - dicono - ma ora siamo veramente sopraffatte dall’ansia”. Le ho messe immediatamente in contatto con il sempre presente (assieme ai suoi collaboratori) Samuele Ciambriello, garante regionale in Campania delle persone private della libertà. Subito dopo mi scrive la zia: “Ho spiegato tutto, ma il problema è che ieri sera è successo di nuovo. Il giornale riporta che è stato operato d’urgenza per aver ingoiato le batterie del telecomando. Mia sorella ha telefonato in carcere per sapere se era ricoverato ma le hanno risposto che non danno spiegazioni per telefono e che avrebbe dovuto recarsi di persona in istituto, cosa che ha fatto ricevendo come risposta il silenzio”. Mi viene in mente quell’articolo dell’Ordinamento penitenziario che recita “particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie”. È l’articolo 28, uno dei tanti spesso violati. Quello del ragazzo di Arienzo è un caso recentissimo, e l’ho portato ad esempio perché, avendo egli tentato il suicidio insieme a ripetuti gesti autolesionisti, è certamente un detenuto a forte rischio. Il problema è che sta in carcere, cioè nel luogo peggiore per essere aiutato e curato. Ma cosa fa l’Amministrazione Penitenziaria per prevenire i suicidi che, in questo 2019 (ancora non terminato) sono arrivati già a 45? Partiamo da un presupposto: il carcere in generale, in quanto istituzione totale che tende ad annullare le individualità, le propensioni e le attitudini del singolo dando risposte uguali a problematiche diverse, è di per sé un’istigazione al suicidio. Me lo disse tanti anni fa lo psichiatra responsabile del carcere di Padova, mettendosi nei panni di uno che veniva sbattuto in cella. Hai voglia a firmare “protocolli” per la prevenzione del rischio dei suicidi in ambito carcerario come fa il Dipartimento da tempo immemorabile! Questi “protocolli” o “linee guida” divengono quanto di più inutilmente burocratico possa esistere se mancano le figure professionali che, all’interno del carcere. dovrebbero fare squadra e lavorare in équipe per individuare prima le persone a rischio e, successivamente, prenderle in carico. La drastica riduzione dell’organico degli educatori (passati da 1.376 a 999 di cui, in servizio, 808), degli assistenti sociali (solo 930 in servizio con il compito di seguire anche l’esecuzione penale esterna, cioè in tutto oltre centomila persone), degli psicologi (professionalità ormai divenuta rarissima in carcere), degli psichiatri delle Asl, rende impossibile qualsiasi azione che intenda essere minimamente efficace in istituti sempre più segreganti e sicuritari e sempre meno propensi a corrispondere al dettato costituzionale di un’esecuzione penale ispirata a principi di umanità e di reinserimento sociale della persona condannata. Se entrate in un carcere alle 16 del pomeriggio vi trovate certamente gli oltre 60.000 detenuti ristretti in 45.000 posti e, fra tutte le professionalità che dovrebbero animare il carcere, vi troverete unicamente alcuni (pochi) agenti, i quali spesso sono chiamati, da soli, a controllare e “governare” più sezioni distribuite in due o tre piani detentivi. Se siete fortunati, ma solo nelle carceri più grandi, potete trovare anche medici e infermieri. Ecco, ora figuratevi un’emergenza in un luogo così fatto di celle, cancelli, sbarre e cemento. Io penso che se non si torna a riconcepire l’esecuzione penale riducendo drasticamente gli accessi al carcere (sempre più criminogeno e fuorilegge) e, contemporaneamente, non si aumenta l’accesso alle pene e misure alternative (come si era tentato con l’affossata Riforma dell’Ordinamento Penitenziario) sarà impossibile non ritrovarci di frequente a piangere i caduti, “morti per pena carceraria”. Ma una cosa è per noi del Partito Radicale chiarissima: i responsabili di queste violazioni dei diritti umani fondamentali devono essere individuati e denunciati in ogni sede, confidando molto nelle giurisdizioni superiori, come è stato per la memorabile sentenza Torreggiani che, se ha umiliato il nostro Paese ritenuto responsabile di sistematici trattamenti inumani e degradanti nei confronti dei detenuti, ha almeno restituito loro un po’ di dignità e di sollievo umano e civile. D’altra parte è innegabile che le istituzioni che dimostrano di reggere sulle carte fondamentali sono la Corte Edu, la nostra Corte Costituzionale e, per certi versi, anche la Corte di Cassazione. Che le carceri siano divenute una polveriera vicina alla deflagrazione mi sembra che in pochi si abbia contezza. Eppure, tutti gli “indicatori”, a partire dai suicidi, stanno lì a rivelarcelo. Mi auguro che chi di dovere rinsavisca. *Consiglio generale Partito Radicale Solitudine, disagi e sofferenze dietro i tanti suicidi in carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 novembre 2019 Dall’inizio dell’anno sono 45 i casi su un totale di 120 morti. Due suicidi in cella a pochi giorni di distanza. L’ultimo martedì scorso nel carcere di Monza, ma non è stato un gesto inaspettato. Si chiamava Mario Pagano, 46enne, da poco arrestato perché aveva preso a martellate la moglie e dopo il gesto aveva tentato di uccidersi buttandosi dal balcone. Al momento del fermo era stato trasferito nel reparto Psichiatria. Qui aveva cercato un’altra volta di togliersi la vita. Dopo la convalida dell’arresto, il magistrato aveva disposto il suo trasferimento nel penitenziario monzese, attrezzato con un reparto dedicato a detenuti con problemi psichici. Ed è qui che martedì mattina è stato rinvenuto privo di vita. Stando alle informazioni diramate dall’Agenzia regionale emergenza urgenza, il personale medico e paramedico prontamente intervenuto all’interno del carcere, ha tentato la rianimazione cardiopolmonare dell’uomo, prima di dichiararne il sopravvenuto decesso. Due giorni prima, domenica pomeriggio, invece è stata la volta di un detenuto, 35enne, recluso da febbraio nel carcere di Ivrea dove stava scontando una pena definitiva a circa tre anni. Lì, secondo quanto è trapelato, si sarebbe suicidato tramite impiccagione. L’uomo condivideva la cella con il fratello, perché assieme a lui era stato condannato per una rapina commessa nel 2006, quando aveva solo 22 anni. Giovedì 21 novembre, invece, si è impiccato nel carcere di Bologna un romeno di 27 anni, Costantin Fiti, il quale era stato condannato all’ergastolo per l’omicidio di un pensionato di 73 nel corso di una rapina. Parliamo del secondo suicidio nel corso del 2019 nel carcere di Bologna nel giro di qualche mese. Quella volta, a giugno, si era trattato della tragica vicenda personale di Stefano Monti, ancora in attesa di giudizio, accusato di omicidio che secondo i Pm avrebbe commesso nel 1999. Si era sempre proclamato innocente, ma Monti aveva deciso per sé prima che lo facessero i giudici. Aveva atteso che si aprissero le celle della Dozza e che tutti i detenuti uscissero “al passeggio”, come si dice in carcere. Poi era andato nel bagno della sua cella e si era impiccato con i lacci delle scarpe. Tante, troppe morti in carcere. Dall’inizio dell’anno siamo giunti a 45 suicidi su un totale di 120 morti. Ce ne sarebbero stati molti di più, ma fortunatamente vengono sventati grazie all’intervento degli agenti penitenziari. Un tentativo di suicidio impressionante è avvenuto tre giorni fa al carcere campano di Santa Maria Capua Vetere. Un detenuto di 40 anni aveva provato a togliersi la vita bevendo della candeggina, ma fortunatamente è stato soccorso dagli agenti penitenziari ed è stato trasportato d’urgenza all’ospedale Moscati di Aversa. Tanti sono i motivi di chi arriva a compiere il gesto del suicidio, alcuni casi anche prevedibili come quelli che hanno problemi psichiatrici. Ma non solo. Nell’epoca del mantra della “certezza della pena”, si è perso di vista che in carcere le persone ci vanno per davvero, anche per piccolissimi reati. Buttandoli in una cella non siamo in grado di intercettarne la disperazione. Infatti, nonostante che il numero dei reati sia in calo, oramai i detenuti hanno superato la soglia delle 60mila unità. Nessuna attenzione individuale può essere loro garantita dal sistema e le vite umane continueranno a sfuggire dalle maglie. Come per il recente del suicidio avvenuto nel carcere di Viterbo. Parliamo di Mohamed Ataif, di soli 24 anni. Una condanna a un anno di carcere. Data la scarsa entità della pena, Mohamed in carcere non ci sarebbe potuto proprio entrare, ma non avendo un domicilio il giudice ha scelto per la detenzione. Sarebbe tornato libero tra pochi mesi. Ha deciso, per la disperazione, di uscire prima. Ma in una bara. Mohamed non aveva ricevuto né telefonate né fatto colloqui. Condannato alla solitudine in carcere, fuori dal perimetro della prigione c’erano persone che avrebbero voluto parlargli e fargli visita. Ma per difficoltà burocratiche gli era stato impedito dalle difficoltà burocratiche. Quindi, tanti sono i motivi per il quale un detenuto si suicida e quindi tanti sono i rimedi di prevenzione che il sistema penitenziario potrebbe adottare. Proprio per questo l’associazione Antigone aveva inviato a tutti i componenti delle commissioni Giustizia di Camera e Senato una proposta di legge volta a prevenire i suicidi in carcere. Uno dei rimedi proposti è proprio il potenziamento dei contatti con gli affetti esterni. L’affettività che rientrava anche in uno dei decreti della riforma dell’ordinamento penitenziario: purtroppo disatteso. Psichiatria, il 65% dei detenuti con disturbo di personalità e il 4% con psicosi di Camilla Folena dire.it, 28 novembre 2019 Il 4% dei detenuti è affetto da disturbi psicotici, contro l’1% della popolazione generale. La depressione colpisce il 10% dei reclusi, mentre il 65% convive con un disturbo della personalità. Significativa, infine, la percentuale di popolazione carceraria che soffre di disturbo da stress post-traumatico, con particolare riferimento ai detenuti migranti: si va dal 4% al 20%. È questa l’allarmante situazione nelle carceri italiane, dove la malattia mentale è molto più presente di quel che si pensa. Da queste necessità nasce il progetto “Insieme - Carcere e salute mentale”, avviato a fine 2016 come risposta concreta all’isolamento e lo shock che la detenzione può veicolare, facendo esplodere o aggravando le malattie mentali. “Nelle carceri il problema è molto delicato - spiega Enrico Zanalda, presidente della Società italiana di psichiatria (Sip)- Sicuramente il tasso di disturbi psichici è molto elevato ma è anche legato a disturbi che non hanno influenza sulla commissione del reato. Legati, piuttosto, alla condizione di detenzione. E quindi vanno trattati dal personale che assiste i detenuti all’interno del carcere”. Il progetto “Insieme” ha coinvolto 16 istituti penitenziari italiani per 3 anni, giungendo alla pubblicazione di un Percorso diagnostico terapeutico assistenziale (Pdta) per una gestione unitaria e multidisciplinare dei disturbi psichiatrici nelle carceri italiane. Tra le novità del nuovo Pdta c’è la valutazione della salute mentale, il monitoraggio fin dall’ingresso in carcere, l’utilizzo di trattamenti di ultima generazione e i gruppi di sostegno tra i detenuti, oltre che diverse attività educative-culturali. Il progetto ha un grande valore: “L’aver elaborato un percorso terapeutico-assistenziale volto a identificare modelli di intervento omogenei nelle carceri italiane, pur nel rispetto delle diversità locali”, chiosa Luciano Lucania, presidente della Società Italiana di medicina e sanità penitenziaria (Simspe). Il punto in comune, infatti, da Nord a Sud, è “la privazione della libertà e l’ambiente carcerario stesso. Fonti- continua il presidente Simspe- di grande stress che possono portare allo sviluppo, o all’acuirsi, dei disturbi psichiatrici, con particolare riferimento a quelli psicotici, della personalità e della depressione”. L’esigenza a cui il progetto mira, dunque, è quella di “una stretta collaborazione fra le diverse figure professionali, che sono coinvolte nella gestione del paziente-detenuto”, commenta Massimo Clerici, presidente della Società italiana di psichiatria delle dipendenze, che aggiunge: “Attraverso il coordinamento delle tre società scientifiche promotrici, il progetto ha puntato molto sulla formazione, non limitandola solo agli operatori sanitari ma estendendola a tutti i soggetti coinvolti nel circuito assistenziale. Nell’ottica di una piena integrazione carcere-territorio”. In questo senso, si sono svolti anche “incontri formativi destinati al personale penitenziario. Che si sono dimostrati fondamentali per il miglioramento della gestione delle malattie mentali”. La multidisciplinarietà introdotta da ‘Insiemè fonda le radici nell’analisi della situazione concreta delle carceri italiane, proponendo linee di indirizzo unitarie per la gestione del detenuto affetto da disturbi mentali, sia nel periodo della detenzione che al momento del rilascio, assicurando così la continuità terapeutica-assistenziale. Il grande passo in avanti fatto da ‘Insiemè, in questo senso, “è proprio quello di aver prestato attenzione ai bisogni concreti dei detenuti con problemi mentali- commenta Enrico Zanalda, presidente della Società italiana di psichiatria- Sia alle necessità cliniche che a quelle giuridiche, in un circolo virtuoso che vede correlati il sistema penitenziario e quello sanitario, l’uno consapevole e rispettoso delle dinamiche dell’altro, con l’obiettivo comune del recupero e del futuro reinserimento del paziente nella società”. L’evento conclusivo si svolge oggi a Bari, la regione Puglia “è uno dei 9 Sai presenti sul territorio nazionale”, spiega Domenico Semisa, direttore del Dipartimento di Salute Mentale della Asl di Bari, che afferma: “Rispetto alle persone detenute che commettono reati e hanno problemi psichiatrici, noi- aggiunge- abbiamo anzitutto l’obiettivo di garantire le cure più adeguate a coloro che sono negli istituti di pena. Siano pazienti psichiatrici che commettono crimini, che detenuti che si ammalano in carcere. Vogliamo garantire loro continuità nelle cure psichiatriche, anche dal momento della scarcerazione alla presa in carico dei servizi territoriali. Per questo il nostro Dipartimento - ribadisce il direttore - vede nel progetto la concretizzazione di quanto ha già iniziato a fare, ormai da più di un anno, con la stesura di protocolli e procedure interni”. Il progetto, promosso dalla Società italiana di medicina e sanità penitenziaria, con il patrocinio della Società italiana di psichiatria, della Società italiana di psichiatria delle dipendenze e con il supporto incondizionato di Otsuka e Lundbeck, non si chiude con il 2019. Nel 2020, infatti, l’impegno del board scientifico e delle aziende sponsor si concentrerà sulla realizzazione di una nuova fase progettuale in ambito Rems, che identifichi chiaramente un puntuale percorso formativo rivolto agli operatori tutti. Braccialetti elettronici. “Un altro stop ai diritti costituzionali” camerepenali.it, 28 novembre 2019 Il 30 novembre l’Unione delle Camere Penali Italiane organizza la V Giornata nazionale dei braccialetti. L’evento principale si svolgerà presso l’Istituto Penitenziario di Sollicciano, mentre in diverse sedi locali si terranno incontri ed iniziative di vario genere. Il braccialetto elettronico è una procedura di controllo che consente, almeno parzialmente, di coniugare due esigenze fondamentali del nostro ordinamento e cioè le esigenze cautelari ed il principio costituzionalmente garantito di libertà personali. L’installazione del braccialetto elettronico consente da un lato di monitorare costantemente i movimenti dell’indagato agli arresti domiciliari in modo che possano essere immediatamente rilevate eventuali infrazioni. Dall’altro lato consente all’indagato, al cittadino, di vedere compressa in maniera meno invasiva e meno devastante sul piano psico-fisico la propria libertà, diritto che l’art. 13 della Costituzione dichiara essere inviolabile. “L’auspicata riforma”, scrive Alessio Romanelli, presidente della Camera Penale di Cremona e Crema, “non ha tuttavia provocato l’auspicato effetto deflattivo delle strutture penitenziarie. Infatti, evento non raro nel nostro Paese, la riforma è stata bloccata da difficoltà tecniche, burocratiche e, da ultimo, anche politiche. Dapprima si è dovuto aspettare il 2005 perché fossero operativi i primi 2.000 braccialetti. Da allora il loro utilizzo non ha mai superato il 10% degli stessi. Difficoltà tecniche di applicazione, scarsa sensibilità dei Magistrati e poca attenzione degli avvocati, freddezza dei politici (che vedono sempre con una certa diffidenza l’applicazione di misure cautelari non carcerarie), hanno reso di fatto non operativa la riforma. I recenti problemi di sovraffollamento carcerario hanno però dato una sterzata alla procedura di assegnazione, e così nel dicembre 2017 il Ministero dell’Interno ha siglato un accordo commerciale con la compagnia telefonica Fastweb avente ad oggetto l’affidamento, per un arco temporale di 36 mesi, per la fornitura e la gestione dei braccialetti elettronici. Tale contratto pareva risolvere in un colpo solo tutte le problematiche precedenti. In effetti, oltre all’aumento dei dispositivi disponibili da 2.000 ad oltre 10.000 ogni mese, l’accordo prevedeva che la compagnia telefonica si occupasse dell’intero servizio di monitoraggio dell’indagato, in modo da segnalare in tempo reale alle Forze dell’Ordine la situazione di allarme. In questo modo venivano risolte (almeno sulla carta) tutte le difficoltà operative e criticità precedentemente emerse”. “Ed è con comprensibile orgoglio”, scrive ancora il presidente Romanelli, “che le parti contrattuali potevano pubblicamente dichiarare come a partire dal mese di ottobre il nuovo sistema di controllo a distanza avrebbe permesso il rilascio di circa mille detenuti al mese, con un totale di 22.000 nei due anni successivi. L’esecuzione del contratto pareva offrire un’immediata risoluzione ai problemi di sovraffollamento carcerario (ai tempi pari a circa 60.000 detenuti, quasi 10.000 oltre le massime capienze delle strutture penitenziarie) e di riduzione del numero di indagati presenti in carcere (all’epoca ed anche ora pari a circa 20.000 persone). E invece qualcosa, come sempre, ha inceppato il meccanismo. Già nel corso della Quarta Giornata dei Braccialetti del 30.11.2018, l’Unione Camere Penali aveva segnalato la ritardata partenza del nuovo contratto. Ma quello che a distanza di un paio di mesi poteva sembrare un semplice ritardo, nel tempo si è rivelato qualcosa di più. Come dichiarato alla stampa dai responsabili di Fastweb, la mancata attivazione del servizio era (ed è) dovuta alla mancata nomina da parte del Ministero dell’Interno, della commissione di collaudo di tutto il sistema riguardante l’emissione del servizio, quindi l’infrastruttura, la sede di controllo e i device. Nonostante rassicurazioni provenienti dal precedente e dall’attuale Governo, la commissione non è stata ancora nominata. Se tale ostacolo poteva avere un addentellato politico nelle linee politiche del precedente inquilino del Viminale, tale giustificazione pare essere meno chiara evidente nell’assetto Governativo attuale. E intanto gli anni passano e migliaia di indagati (e quindi persone che per legge non hanno commesso i reati contestati) aspettano dietro le sbarre di conoscere il loro destino. E mentre nel resto del continente i programmi di sorveglianza elettronica domiciliare sono in costante aumento, l’Italia come sempre resta al palo, pagando in termini economici (l’utilizzo del braccialetto elettronico in luogo della custodia cautelare porta notevolissimi risparmi di spesa), sociali (la detenzione cautelare aumenta enormemente i rischi di recidiva) e personali (una detenzione carceraria, magari seguita da una sentenza di assoluzione, provoca ferite che non si rimarginano), il prezzo di una politica giudiziaria lontana dai principi contenuti nella nostra bella e obliata Carta Costituzionale”. Nuovi “Spazi Gialli” per i bimbi senza colpe Famiglia Cristiana, 28 novembre 2019 Tutti i bambini sono uguali, anche i 100mila bambini che hanno la mamma o il papà in carcere e per questo vengono emarginati e stigmatizzati. Bambinisenzasbarre Onlus si impegna dal 2002 per tutelare il diritto di questi piccoli di mantenere il rapporto con il genitore detenuto, affermando allo stesso tempo il diritto-dovere di quest’ultimo a esercitare il suo ruolo. Per questo ha creato gli Spazi Gialli, luoghi di accoglienza, ascolto, interazione e attenzione dove accogliere i bambini che entrano in carcere per incontrare la mamma o il papà. Gli istituti penitenziari in cui è presente sono, per ora, in Lombardia, Piemonte, Toscana, Liguria, Campania, Puglia e Sicilia. Per costruire nuovi Spazi Gialli Bambinisenzasbarre lancia la campagna di sensibilizzazione e raccolta fondi “Loro non hanno colpe”, attiva dall’1 al 28 dicembre 2019 con numero solidale 45594. Il valore della donazione sarà di 2 euro per ciascun Sms inviato da cellulari e di 5 euro per le chiamate da rete fissa. A supporto della campagna, inoltre, nel mese di dicembre Bambinisenzasbarre organizza la quinta edizione di La partita con papà: in 68 carceri italiane, i detenuti potranno giocare una partita a calcio con i loro figli, condividendo un momento di normalità e vicinanza nonostante la reclusione. L’esperto dei 5 Stelle alla Camera: “Blocca-prescrizione? Un azzardo” di Errico Novi Il Dubbio, 28 novembre 2019 Il Pm Maresca, audito ieri a Montecitorio su indicazione del Movimento. Parte da un esempio concreto. Dalla sua Corte d’appello. “Sono un pm della Dda di Napoli. Posso dire che da noi la prescrizione è un fenomeno drammatico”. Catello Maresca, sostituto della Procura partenopea, è pacato quanto impietoso. I deputati della commissione Giustizia lo ascoltano in silenzio. “Da noi, il dato dei reati prescritti ormai è strutturale e non deriva certo dalla cattiva volontà dei giudici: non si può intervenire però con un provvedimento che semplicemente nullifica la prescrizione, senza dei corollari”. Sembra di sentir parlare un deputato di opposizione, al massimo del Pd. Il dottor Maresca va avanti: “In assenza di quei corollari”, scandisce, “un intervento che non sospende ma, come in questo caso, in realtà blocca la prescrizione è un azzardo”. Prima di raccontare le altre considerazioni proposte dal magistrato della Procura di Napoli nell’incredibile audizione svolta ieri dalla commissione Giustizia di Montecitorio, ci si può anche fermare un attimo qui. E precisare un dettaglio: Maresca non è stato sorteggiato a caso. È stato audito ieri, subito dopo il vicepresidente dell’Unione Camere penali Nicola Mazzacuva, non perché da lui ci si aspettassero valutazioni analoghe a quelle dell’avvocatura. Tutt’altro. A proporre di sentire Maresca sulla prescrizione sono stati i deputati 5 Stelle. Ebbene sì. I parlamentari del Movimento si sono trovati “a essere smentiti dal loro stesso testimone”, come nota con ironia il capogruppo dem in commissione Giustizia Alfredo Bazoli. I pentastellati avevano cercato con assoluta onestà un interlocutore tecnicamente accreditato. Ma Maresca si rivela impietoso, netto, oltre che chiarissimo. Dice, è vero, che “l’inviolabile principio della ragionevole durata del processo e l’istituto della prescrizione sono due elementi ontologicamente distinti”. Ma alla fine, dal confronto con i deputati, emerge che persino chi, come lui, non ritiene lineare affidare la ragionevole durata dei processi alla mera prescrizione dei reati, indica tra i “corollari” di cui sopra anche una “prescrizione della fase processuale”. Ossia proprio quel meccanismo che, nella devastante guerra fredda con i 5 Stelle e il guardasigilli Alfonso Bonafede, il Pd propone con insistenza. Il caso di ieri è esemplare. E non potrà essere ignorato nella discussione sempre più difficile tra le due principali forze di maggioranza. Oggi la capigruppo di Montecitorio discuterà sulla tempistica con cui esaminare la legge Costa, che punta ad abrogare il blocca-prescrizione di Bonafede. Il Pd non chiederà di accelerarne l’approdo in Aula. Non lo chiederà neppure la settimana prossima quando, dopo l’inevitabile spaccatura con l’opposizione nella capigruppo di oggi pomeriggio, sarà la stessa Aula della Camera a doversi pronunciare. Ma dopo l’endorsement con cui il premier Giuseppe Conte ha definito “giusta” la norma che abolisce la prescrizione, la frattura riguarda lo stesso governo. Conte si è mostrato imperturbabile di fonte alla prospettiva che la norma voluta dai 5 Stelle entri in vigore il 1° gennaio, senza che la riforma penale sia stata neppure discussa in Consiglio dei ministri. Dà forza a Bonafede, il quale ieri è tornato a dirsi “convinto che troveremo una soluzione”. Il ministro della Giustizia ha ribadito anche la sua intransigenza sull’entrata in vigore della norma dal 1° gennaio: “È una conquista di civiltà”. Eppure adesso dovrà tenere conto di quanto detto ieri pomeriggio da un “esperto” invitato dai suoi stessi deputati, qual è il pm Catello Maresca: “Un processo giusto è un processo tempestivo, il potere punitivo dello Stato non può essere sine die. E la prescrizione risponde al principio garantista e liberale secondo cui una pena, per essere rieducativa, non può arrivare a troppi anni dal reato”. Fino a quella frase: “Così il provvedimento sulla prescrizione è un azzardo, perché creerà l’accumularsi di faldoni nelle Corti d’appello, e darà luogo al fenomeno degli eterni giudicabili”. Non era un avvocato delle Camere penali. Era un esperto chiamato in audizione dal Movimento 5 Stelle. La magistratura italiana: un re nudo e malato che vuol curarsi da solo di Alberto Cisterna* Il Riformista, 28 novembre 2019 Mentre quasi tutti i raggruppamenti politici che reggono la Repubblica ignorano confronti interni e assemblee deliberanti - preferendo in corso la mistica dell’uomo solo al comando - l’Anm celebra il proprio 34° Congresso nazionale. Un evento che evoca stagioni ormai trascorse della storia e rimanda a riti del passato quando partiti possenti (il Pci e la Dc) e sindacati onnivori misuravano idee e, spesso, rapporti di forza in un confronto non di rado decisivo per le loro stesse sorti. Le sigle dell’associazionismo giudiziario sono tra le pochissime che sono sopravvissute allo stravolgimento epocale della vita politica del Paese dopo la caduta del muro di Berlino e se qualche nuovo nome è apparso all’orizzonte molte volte non è altro che lo spin off di raggruppamenti più numerosi che perdono costole senza soccombere in una sporogenesi che tanto somiglia a quella della politica assillata da diatribe intestine. Questa volta l’appuntamento si annuncia importante non fosse altro perché celebrato a ridosso di un’imminente elezione suppletiva per ricomporre il corpo del Csm, mutilato di ben 5 consiglieri dalle vicende dei mesi scorsi, e alla vigilia della presentazione di un progetto di riforma governativo dell’organo di autogoverno che si vuole ispirato dal preciso intento di contenere il peso delle correnti dell’Anm. Un passaggio semiclandestino della brochure di presentazione del Congresso la dice lunga sul clima che aleggia nelle interlocuzioni con il potere esecutivo: “Ha confermato la Sua presenza il Vice Presidente del Csm on. David Ermini. È stato invitato il Ministro della Giustizia on. Alfonso Bonafede”. Un invito, a quanto si intende, rimasto probabilmente senza una risposta definitiva e, comunque, non scontato nei suoi esiti. È il titolo, invero splendido, di una delle tavole rotonde del Congresso a dare la misura delle preoccupazioni che in questa fase marcano l’azione politica dell’Anm: “Crisi dell’autogoverno e autogoverno della crisi”. Illumina la convinzione di tanti che le convulsioni della magistratura italiana possano essere governate con una palingenesi tutta interna alla corporazione e alle sue sigle sindacali; convinzione che non è nuova e che periodicamente si riaffaccia come estrema rassicurazione per sé stessi e per gli altri, per i chierici e i laici. Ogni corporazione ha nel proprio codice genetico la convinzione che il corpo, appunto, resti immutato al succedersi delle malattie e delle mutilazioni, si nutre della certezza che l’identità genetica sopravviva anche in una piccola goccia d’ambra e sia pronta a sprigionarsi nella sua rinnovata vitalità alla prima occasione favorevole. E tanto più questa convinzione è radicata, altrettanto cresce la fiducia che auto-mutilando il corpo, privandolo dell’arto infetto o dell’organo collassato, la vita tornerà a scorrere, la salute sarà ristabilita. Ma questa volta la clessidra sembra aver consumato i propri ultimi granelli di sabbia. La percezione è che quello che taluno definisce l’affaire Palamara non abbia disvelato isolati contegni riprovevoli e prassi mercatorie di pochi, ma che piuttosto abbia mostrato il re, il corpo del re nella sua fragile nudità. Non un arto o un organo, ma il corpo nella sua totalità, senza pudori, senza veli. La cifra oscura di quanto è successo è tutta da scoprire, fatti e misfatti che stanno prima e dopo questo 2019 (l’anno del trojan quasi fosse un calendario cinese) sono destinati a venire a galla. Manca ancora scoprire la mano o le mani che hanno spregiudicatamente provocato una devastante fuga di notizie mentre erano ancora in corso le attività della Procura di Perugia, mentre si stagliano con una certa precisazione quanti ne hanno tratto un provvidenziale vantaggio. Un eventuale dibattimento innanzi ai giudici umbri che si impantani su queste vicende sarebbe un bagno di sangue per la magistratura italiana che - c’è da giurare - tanti vorrebbero scongiurare: “un giorno in pretura” al contrario con i giudici dalla parte degli inquisiti e gli spettatori a spigolare sulle frattaglie del correntismo italiano. Una sessione del Congresso genovese è dedicata al tema “Ci vedono così”. Proiezione di video interviste con opinioni sulla giustizia. Se il procedimento perugino proseguisse sino all’udienza pubblica saranno scene da cineteca, come quelle di Tangentopoli con un farfugliante Forlani innanzi ai giudici o con Luca Palamara che si sta cucendo addosso il vestito, presago di guai invero, di un Bettino Craxi disposto a raccontare con sincerità il “così fan tutte” delle correnti. È difficile dire se questa profezia sia corretta e se, al netto di qualche espediente narrativo che va perdonato, ci sia da attendersi davvero uno scenario del genere. Ma se le cose andassero così avremmo la cifra di una situazione, a un tempo, sconvolgente e triste ossia che la magistratura italiana (una parte sia chiaro e, per fortuna, largamente minoritaria, ma percepita inevitabilmente come molto rilevante) non può esporsi allo sguardo dei cittadini; essa deve ritrarsi dalla vista della gente, preferendo le tenebre alla luce (Giovanni 3,19) perché non può mettere in mostra il proprio corpo mutilato e non può consentirsi il giudizio sommario delle platee mediatiche. Uno strano sortilegio e una maledizione se si pensa alla disinvoltura di tante fughe di notizie, all’esibizione del corpo dell’arrestato già reo e colpevole, all’uso delle manette come esibizione della muscolarità inquirente. Ferite cosparse di sale che lenisce solo il pensiero che altri magistrati e altre toghe non hanno temuto di squarciare il velo e di denudare il corpo del re spogliando delle stimmate più evocative della sua sacralità: l’aurea di purezza della corporazione. *Magistrato “Riformare la giustizia anche in difesa delle donne”. Intervista a Giulia Bongiorno di Luciana Matarese huffingtonpost.it, 28 novembre 2019 “Sono contenta che il Codice Rosso stia funzionando, tutte le donne che incontro e che mi scrivono sostengono di sentirsi più incoraggiate a denunciare”. La senatrice fa un primo bilancio del Codice Rosso e chiede di ridurre i tempi del processo penale, “ma Bonafede sonnecchia”. Spiega che nella Lega “mi trovo benissimo”. Sui diritti difende Salvini e Fontana, sconfessa Pillon. Giulia Bongiorno non nasconde la propria soddisfazione. Il Codice rosso, la legge ideata per tutelare le donne vittime di violenza con la showgirl Michelle Hunziker, dal 2007 con lei nella fondazione “Doppia Difesa” onlus, proposta da ex ministra per la Pubblica Amministrazione nel Governo Conte I ed entrata in vigore ad agosto, sta registrando riscontri positivi. Avvocata penalista, da anni in prima fila, anche in politica, nella difesa delle donne maltrattate, legale di Giulio Andreotti prima, poi con Gianfranco Fini, nel 2013 candidata con Scelta civica di Mario Monti e nel 2018 con la Lega di Salvini, oggi è senatrice. Le sue posizioni sui diritti civili - è favorevole alle unioni civili omosessuali e all’inseminazione artificiale - non sono in linea con una parte del Carroccio, ma lei non se ne cura. E liquida chi, come Mario Adinolfi, dal fronte dei detrattori, l’ha definita “Nichi Vendola al femminile”, con un sibilante “Tamquam non esset” (“Come se non esistesse”, ndr). Lanciatissima secondo i rumors più ventilati per un posto di rilievo con il ritorno - accreditato dai sondaggi - della Lega al Governo, per un periodo è stata indicata pure come probabile candidata sindaca di Roma. “Un’ipotesi da escludere completamente”, taglia corto. E alla cronista che obietta che siamo certi che da qualche parte la ritroveremo, risponde con un molto abbottonato: “Mi può trovare al mio studio e in Parlamento”. In questo momento, spiega, è concentrata sul nuovo progetto educativo, sempre contro la violenza di genere, che sta per lanciare con “Doppia Difesa” e in occasione della giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, la prima da quando il Codice rosso, la sua legge, è entrata in vigore, parla con HuffPost dell’impatto della norma, delle cose fatte e di quelle da fare. Non risparmiando bordate ai Cinque Stelle, gli ex alleati nel Conte I, per non avere portato a termine l’annunciata riforma sulla giustizia, “che - scandisce - servirebbe per far funzionare al meglio il Codice rosso e tutelare ancora di più le donne dalla violenza”. Intanto, senatrice Bongiorno, sembra che il Codice rosso abbia dato una scossa al sistema... “Quando, con Michelle, abbiamo pensato a questa legge non volevamo aggiungere una norma alle tante già presenti nel nostro Paese, volevamo una legge che facesse funzionare le altre, che sanasse la lacuna derivante dal fatto che spesso una donna che denuncia si ritrova sola. Penso al caso di Noemi Durini, la sedicenne pugliese uccisa dal fidanzato nonostante la mamma avesse già chiesto aiuto. Ma c’è un’obiezione che ancora sento e che mi dà fastidio”. Quale? “Mi amareggia sentir dire talvolta che è una legge che intasa i tribunali, quasi le donne fossero detriti. Mi fa piacere, invece, che i magistrati mi dicano che la legge funziona, al pari di quella contro lo stalking, che incardinai da presidente della Commissione Giustizia della Camera. Le mie più grandi soddisfazioni derivano da queste due leggi. E non ho voluto dare al Codice rosso il mio nome per un motivo preciso”. Perché? “Perché appartiene a tutti, a cominciare, ovviamente, dalle donne”. “Nessuna donna sarà più sola”, assicurò dopo l’approvazione della legge. L’introduzione di pene più aspre garantiranno il mantenimento di questa promessa? “L’inasprimento delle pene fa parte della pluralità di norme contenute nel Codice rosso. Quella centrale, per me il cuore, è la norma in base alla quale una donna che denuncia viene aiutata nel giro di 48 ore. Quel mio “non sarete più sole” mirava a rassicurare le donne sul fatto che le loro denunce sarebbero state finalmente prese in carico e l’autore di violenza punito. Purtroppo il nostro sistema penale è un po’ una fisarmonica”. In che senso? “Nel codice penale vengono stabilite pene che poi, sulla base del codice di procedura penale e di altre leggi speciali, vengono diminuite. Resiste, in Italia, una confusione tra garantismo e certezza della pena. Essere garantisti vuol dire che fino al terzo grado di giudizio c’è la presunzione di innocenza, ma dopo il terzo grado è allucinante prevedere sconti di pena. Se inasprimento vuol dire effettività della pena che ben venga”. La sua legge prevede formazione specifica delle forze dell’ordine, ma dal fronte critico c’è chi fa notare che non sono state stanziate risorse. “Nell’unica legge di bilancio in cui io abbia potuto dire la mia, quella del Governo passato, sono state previste risorse significative per le assunzioni sia nel settore giustizia che, in generale, in quello della pubblica amministrazione. Da ministro del settore ho previsto il turn over al 100%, dopo decenni che non si faceva. Non mi pare che l’attuale manovra vada in questa direzione, che preveda le stesse risorse stanziate nella precedente”. I più critici evidenziano anche la carenza di personale giudiziario, di risorse per le associazioni e per i centri antiviolenza. “Abbiamo stanziato fondi specifici per le assunzioni nel settore Giustizia e più in generale, di tutto quello della Pubblica amministrazione, l’ho già detto. È evidente che il Codice rosso debba essere letto insieme a quella legge di bilancio. E poi andava portata avanti la riforma della Giustizia, mi sarei aspettata che il ministro procedesse in questa direzione”. Si riferisce a Bonafede? “Certo, andava portata avanti la riforma per ridurre i tempi della giustizia e invece mi pare che il ministro stia sonnecchiando”. Dai centri antiviolenza continuano a segnalare che nel sistema di tutela manca il pezzo relativo al “dopo” denuncia, che le donne, nel percorso di recupero dell’autonomia, si ritrovano tante volte da sole. “In me i centri antiviolenza troveranno sempre una sponda. Le associazioni impegnate nel contrasto alla violenza di genere sono state supplenti in momenti in cui lo Stato era poco presente ed è reale l’esigenza che la loro azione sia supportata da risorse adeguate. Ma se, anche con il Codice Rosso, alle donne diciamo “Denunciate, denunciate”, e poi il processo che ne scaturisce continua a durare sei, sette anni, per quelle stesse donne, che si ritroveranno con l’autore di violenza come controparte processuale, l’uscita dalla violenza rischia di trasformarsi in un nuovo calvario. Va velocizzato il processo penale, ma la riforma Bonafede non è in grado di rispondere a questa esigenza”. Cosa intende? “Quando ho visto la riforma, mi sono chiesta dove fosse effettivamente. È astratta, un libro fatto di pagine bianche, non indica soluzioni. Non è un caso che il Pd non abbia dato il via libera. Per me è chiaro il retro-pensiero che fa da sfondo a questa riforma”. Cioè? “L’obiettivo è mettere in campo una serie di norme sul patteggiamento e altri riti speciali, formule processuali per svuotare la pena, eliminare i dibattimenti. Noi della Lega ci batteremo perché ciò non avvenga. Siamo convinti che il dibattimento sia essenziale per accertare la responsabilità e lotteremo fino in fondo per la certezza della pena”. A marzo, alla ripresa dell’esame del suo ddl alla Camera, in un tweet, poi cancellato, lei scrisse: “Così si può appurare se si ha a che fare con una isterica o con una donna in pericolo di vita e in tal caso salvarla”. Oggi lo scriverebbe ancora? Anche così, si avvalorano stereotipi che ancora resistono sulle donne, o no? “Se è stato cancellato è assai probabile non lo avessi scritto io. Sono espressioni che non utilizzo, quel tipo di linguaggio non mi appartiene. Di certo, con il Codice rosso, il pubblico ministero ha a disposizione una sorta di filtro dell’urgenza: può verificare, in tempi rapidi, se la violenza denunciata è particolarmente grave da richiedere un intervento immediato”. Con l’allora sottosegretario alle Pari Opportunità, il Cinque Stelle Spadafora, avevate previsto un fondo “anti ostaggio” per le donne che vogliono allontanarsi temporaneamente dall’abitazione e non andare nelle case rifugio. Che ne è stato, ora che Spadafora è ministro del Governo col Pd? “Spero che quel fondo non sia stato toccato, mi auguro che Spadafora, persona seria, non si sia fatto sfuggire quel denaro. Indicazioni certe non posso darne, essendo la Lega fuori dall’esecutivo”. A proposito della Lega, lei si è battuta contro l’omofobia e per le unioni civili omosessuali. Come si trova in un partito in cui c’è l’ex ministro Fontana che ha sostenuto che le famiglie Arcobaleno non esistono? “Fontana viene descritto come un mostro e anch’io, prima di conoscerlo, pensavo avesse posizioni molto distanti dalle mie. Fermo restando che nello stesso partito possono esserci punti di vista diversi. È stato travolto da critiche ingiuste, gli sono stati attribuiti virgolettati su dichiarazioni mai rese, io preferisco commentare il vero Fontana. Ma posso dirle una cosa?”. Prego. “Nella Lega mi trovo meglio di quanto avessi mai potuto immaginare”. Salvini, però, ha preso le distanze dalle adozioni omo-genitoriali. Nel suo partito c’è chi ha sferrato attacchi pesantissimi contro la legge 194. E c’è il senatore Pillon, col suo ddl, testo al quale lei stessa non ha risparmiato critiche e obiezioni. “Quando, prima ancora che mi candidassi con la Lega, gli ho detto che avrei voluto presentare la legge del Codice Rosso, Salvini ha immediatamente telefonato i leader degli altri principali partiti per parlare loro dell’iniziativa. Così, ancor prima che iniziasse la legislatura, io sapevo già che Martina, Berlusconi e Di Maio su questo erano d’accordo. Salvini è un uomo che fa fatti concreti. Per me contano quelli”. E la sua contrarietà al ddl Pillon? “È vero che quella proposta conteneva una serie di disposizioni che non condividevo. Ne abbiamo parlato nelle sedi naturali, ossia nei gruppi del partito. Significherà qualcosa se non è diventata legge, no?”. Ecco, che significa? Non l’ha archiviato il nuovo Governo? “Il ddl Pillon non è andato avanti perché noi abbiamo deciso che non era una priorità. Non lasciamo ad altri meriti che non hanno”. La ministra Bonetti ha promesso 30 milioni di euro alle Regioni per i centri antiviolenza, annunciato un progetto di micro-credito per aiutare le donne vittime a recuperare la loro autonomia, il ministro Gualtieri 12 milioni di euro per supportare gli orfani di femminicidio. Misure efficaci secondo lei? “Le iniziative che sostengono donne e bambini vittime di violenza sono sempre positive. Non sentirà mai da parte mia critiche sulla base dell’appartenenza partitica. Non mi interessano i colori politici, la battaglia contro la violenza di genere è una grande battaglia culturale, di valori”. Da ministra lei ha firmato una direttiva che impone all’amministrazione pubblica di utilizzare in tutti i documenti di lavoro termini non discriminatori. Poco dopo il via libera al Codice rosso assicurava: “Il mio impegno a favore delle donne non finisce certo qui”. Cosa ha in mente? “A quella direttiva tengo molto perché è un altro segno concreto della mia battaglia. Con “Doppia Difesa”, io e Michelle presenteremo a breve un nuovo programma, che parte dall’educazione nelle scuole. Vedremo se quando la Lega tornerà al Governo su questa iniziativa potremo incentrare un’altra norma. Abbiamo già dimostrato di essere capaci di trasformare in leggi idee e proposte nate fuori dal Parlamento. Con il Codice rosso ci siamo riusciti”. Dagli stupri impuniti alla malasanità: storie d’ordinaria ingiustizia di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiani, 28 novembre 2019 A Bologna e a Roma, in Liguria e in Basilicata: tante storie non sarebbero finite nel nulla con lo stop dopo il primo grado. La salvifica prescrizione per imputati colpevoli non fa avere giustizia sul fronte penale, neppure a tanti cittadini comuni vittime di malasanità o ai familiari di pazienti morti. Sia l’omicidio colposo sia le lesioni personali gravissime colpose hanno come termine di prescrizione 7 anni e 6 mesi. Ma il Pd, come gli avvocati penalisti, fanno ancora barricate contro il blocco dopo il primo grado. Per esempio, gli accertamenti delle responsabilità nell’ambito delle colpe mediche sono molto difficili, i tempi delle perizie lunghissime e così la tagliola della prescrizione è spesso garantita. Da Nord a Sud. A Bologna, Daniela Lanzoni è morta di setticemia dopo l’asportazione di un rene sano a soli 54 anni. Lei ha perso la vita in questo modo assurdo mentre gli imputati del Policlinico Sant’Orsola, accusati di omicidio colposo, l’hanno fatta franca grazie alla prescrizione dichiarata al processo d’appello, il 25 ottobre 2016. La donna è morta il 27 settembre 2007, due giorni dopo l’inutile operazione eseguita per un incredibile scambio di cartelle cliniche: una Tac e un altro referto intestato a una paziente con lo stesso cognome ma più vecchia di ben 32 anni hanno portato i medici ad asportarle un rene perfettamente funzionante. In primo grado era stato condannato a un anno e 10 mesi l’ex primario di Urologia Giuseppe Severini, imputato oltre che per omicidio colposo anche per falso. Il tecnico radiologo Stefano Chiari era stato condannato per omicidio colposo a l anno. Il Sant’Orsola si era costituito parte civile così come i familiari della vittima, risarciti. In Liguria, Valentina, studentessa di 19 anni, è morta per un aneurisma cerebrale nel dicembre 2005 all’ospedale Santa Corona di Pietra Ligure. Due medici dell’ospedale di Savona furono condannati in primo grado rispettivamente a 1 anno e a 8 mesi per omicidio colposo per non aver eseguito degli esami specifici che avrebbero potuto salvare la vita della ragazza. In Appello, i giudici di Genova, il 25 marzo 2014, hanno dichiarato prescritto il reato. Nel 2010, al Fatebenefratelli di Roma, per setticemia post intervento muore Dragana Zivanovic, ricercatrice, 40 anni. Durante l’operazione, un sondino difettoso aveva messo in circolo liquidi infetti. Un fatto sottovalutato che ha provocato la morte della donna. Nel 2018 viene condannato a 8 mesi l’endoscopista che aveva usato il sondino difettoso. Ottavio Bassi. Solo nel 2016 invece, si arriva a celebrare l’udienza preliminare per il procedimento parallelo a carico di 5 medici imputati per non aver diagnosticato l’infezione. Il primo grado comincia a febbraio2017 e un anno fa il reato è stato prescritto. Imputati salvi. È inchiodato su una sedia a rotelle Giuseppe Locaso, 46 anni, di Marconia di Pisticci, in Basilicata. La pena a vita, per la vittima, è dovuta a una diagnosi sbagliata, nel 2004, all’ospedale “Madonna delle Grazie” di Matera. Reato prescritto in primo grado, dopo 8 anni, per i medici imputati di lesioni gravissime colpose. Giuseppe Locaso aveva un ematoma diagnosticato troppo tardi all’ospedale materano e così il paziente ha subito la lesione del midollo spinale che lo costringe a vivere sulla carrozzella. Doveva essere un intervento di routine e si è trasformato in tragedia a vita per la paziente. Nessuna conseguenza per il responsabile. A Bari, in una clinica privata, a fine 2007,unadonnadi 63 anni è rimasta paraplegica dopo un’operazione per un’ernia del disco. Il neurochirurgo imputato per lesioni colpose gravissime è stato salvato dalla prescrizione in Appello, nel 2015. Ma in questo Paese, dove la prescrizione scorre dalla consumazione del reato e non dalla sua scoperta, può finire in nulla anche un processo per un reato mostruoso come quello di stupro nei confronti di una bambina. Certo, è un esempio estremo, ma è accaduto perché pur essendo i tempi di prescrizione, in astratto, lunghi (17 anni e 6 mesi per violenza sessuale su minore di 10 anni, 15 anni su minore sopra i 10 anni) quando i fatti sono sul tavolo di un magistrato sono di solito passati molti anni. Infatti, a fine ottobre 2017, la Corte d’appello di Venezia ha dichiarato la prescrizione del reato di violenza sessuale commesso da un uomo che aveva abusato di sua figlia oltre vent’anni fa, quando aveva appena 8 anni. Molti anni dopo, la vittima ha trovato il coraggio di denunciare anche grazie all’aiuto della madre, dei fratelli e del fidanzato. Il padre stupratore, in primo grado, era stato condannato dal tribunale di Treviso a 10 anni. Due anni fa, la prescrizione lo salva anche perché nel frattempo la Cassazione a Sezioni Unite aveva annullato l’allungamento del termine di prescrizione previsto nel caso delle cosiddette “aggravanti a effetto speciale”, riconosciute in casi del genere. Ma è ovvio che se ci fosse stato il blocco della prescrizione almeno in primo grado, il padre stupratore sarebbe andato in carcere. Meno manette agli evasori e riforma della prescrizione verso l’intesa di Ilaria Proietti Il Fatto Quotidiano, 28 novembre 2019 Il Pd, da ieri, è più ottimista di raggiungere un accordo sulla prescrizione con gli alleati di governo del Movimento 5 stelle. Anche se la cautela è d’obbligo e si tratta con la pistola sul tavolo. Ma lasciano ben sperare le aperture pentastellate sulla modifica alle norme sulle cosiddette manette agli evasori contenute nel decreto Fiscale. Che per i dem possono e devono essere riviste, limitando le pene più severe ai soli reati fraudolenti. S e ne è parlato in tarda mattinata nel corso di un vertice di maggioranza al Tesoro con il ministro dell’Economia Gualtieri e alla fine erano tutti d’accordo sul rivedere le norme sulla confisca allargata limitandola solo alle condotte che non siano esenti dal dolo specifico. E pure a limare le pene, rispetto a quanto previsto originariamente, per alcune fattispecie sanzionate dal decreto Fiscale ora all’esame del Parlamento. E così la giornata si è fatta carica di speranze di essere vicini al punto di caduta per un possibile accordo anche in materia di prescrizione. “Le nuove norme potranno tranquillamente entrare in vigore da gennaio come previsto. Ma a patto che, nel frattempo, nel ddl Bonafede sul processo penale vengano inseriti alcuni paletti”, spiega Alfredo Bazoli, capogruppo del Pd in Commissione Giustizia alla Camera. Quali paletti è presto detto: che si tenga distinta la questione della prescrizione del reato (cioè la prescrizione sostanziale) e quella processuale. O, in alternativa che, come in altri Paesi come la Germania, che siano previsti sconti di pena nel caso in cui i tempi della giustizia siano stati troppo lunghi. Ma si batte prevalentemente sulla prima ipotesi. “Che - spiega ancora Bazoli - consentirebbe di far convivere il blocco della decorrenza dei termini della prescrizione sostanziale su cui spingono i 5 Stelle, con la nostra esigenza che vengano specificati i termini passati inutilmente i quali il processo si estingue”. Ma bisogna tornare a parlarsi per mettere nero su bianco una normativa che tenga insieme le esigenze di tutti. Perché, per esempio, di decadenza processuale i 5 Stelle non vogliono sentir parlare e non da ora. Già quando l’alleato di governo era la Lega, alle profferte di questa natura formulate da Giulia Bongiorno per conto di Matteo Salvini, si disse chiaramente di no. Ma tutto sommato, alla possibilità che alla fine, con un accordo politico, si possano appianare le questioni di natura più squisitamente giuridica, si guarda con ottimismo dal Nazareno. “Il tema non è la prescrizione, ma il processo e la necessità di garantire un equilibrio dei tempi”, scandisce il vicesegretario dem, Andrea Orlando. Che ieri mattina incontrando alla Camera il professor Guido Alpa - il “maestro” dell’attuale presidente del Consiglio, che era lì per un convegno nella Sala della Regina- è stato folgorato dai suoi ragionamenti sull’esigenza di abbinare lo stop alla prescrizione a un processo che abbia tempi ragionevoli. “Che poi - sottolinea Orlando - è quello che ha detto anche il presidente Conte quando si dice convinto che alla fine si riuscirà a trovare un compromesso accettabile”. Anche per i 5 Stelle che sono parsi più possibilisti rispetto al muro contro muro degli ultimi giorni con i dem: il Guardasigilli Alfonso Bonafede ieri ha teso la mano. “Sono convinto che troveremo una soluzione, nell’interesse dei cittadini, investendo sulla riforma del processo penale”, ha detto, pur ribadendo un no secco a qualunque tipo di rinvio dello stop della decorrenza dei termini a partire dalla sentenza di primo grado da gennaio, perché “è una conquista di civiltà”. L’impressione, insomma, è che nessuno voglia far saltare il tavolo. Oggi alla riunione dei capigruppo a Montecitorio, il Pd non appoggerà la richiesta di Forza Italia di calendarizzare con la massima urgenza in aula il disegno di legge di Enrico Costa, che cancella con un tratto di penna le norme che entreranno in vigore in gennaio. Un ramoscello d’ulivo a cui, si spera, possa seguire un segnale dal ministro della Giustizia in tempi molto contenuti. Ossia prima che il ddl forzista venga incardinato in commissione e poi trattato in aula: una finestra temporale di un paio di settimane o tre che al Pd servirà per capire se i 5 Stelle puntano sul serio all’accordo oppure no. Se salta tutto, come spera Forza Italia, la soluzione per i dem potrà essere una sola. “Votare il mio disegno di legge che, cancellando le norme volute da Bonafede, fa rivivere automaticamente quelle in materia di prescrizione volute dall’allora Guardasigilli dem Orlando. A quel punto - spiega Costa - con quale faccia il Pd dirà che la sua stessa legge non va più bene?”. L’inquisito è subito condannato. Lo spirito di Tangentopoli non vuole proprio dissolversi di Cesare Maffi Italia Oggi, 28 novembre 2019 Chi viene indagato o è colpevole e sarà condannato, o ce la farà per il rotto della cuffia. L’offensiva giudiziaria contro la fondazione renziana Open, inusitata per dimensioni, ha mandato in estasi sia i giustizialisti (capeggiati, more solito, dalla coppia Fatto-Repubblica), sia gli avversari di Matteo Renzi (per restare nella stampa, La Verità). Beninteso, la circostanza è stata sfruttata, con immediatezza, da titolati nemici del fondatore di Italia Viva, su tutti Luigi Di Maio, il quale ha così trovato la ghiotta occasione per abbinare la propria vocazione manettara con l’insofferenza per l’anti-grillismo praticato (oggi, beninteso) da Renzi. È indubbio che riesce difficile, se non impossibile, difendersi da un simile assalto di pubblici ministeri, sostenuti da mezzi di comunicazione aprioristicamente schierati e, in certa misura, avvantaggiati dal ricordo di Tangentopoli. Quali che siano le ricostruzioni storiche della vicenda giudiziaria che, in concreto, affossò la Prima repubblica, non si può negare che Tangentopoli fu un fenomeno popolare, che ancora serba un fascino destando rimpianti. Basterebbe ricordare il livello di stima diffusa raggiunto da Antonio Di Pietro, venerato come fosse stato madre Teresa di Calcutta, per capire come ancor oggi le notizie circolanti (finanziamento illecito ai partiti, traffico d’influenze, ossia un reato evanescente) sono comunemente tradotte in corruzione, truffa e peggio. La reazione immediata di molti, bisognerebbe dire di troppi, è: se questi personaggi sono indicati, vuol dire che sono colpevoli. Non soltanto si pensa all’immagine, che ritorna più volte in Agatha Christie, del “non c’è fumo senza fuoco”, ma si crede alla colpevolezza generale. Non esistono innocenti: chi viene indagato o è colpevole e sarà condannato, o è colpevole ma per sua fortuna sarà dichiarato innocente. Renzi si trova in un oggettivo guaio. Non è mai stato un giustizialista, anche se qualche pecca non proprio insignificante l’ha rivelata, come quando diede una mano alla decadenza di Silvio Berlusconi dalla carica parlamentare. Adesso come può difendersi? Se addita, come dopo qualche incertezza ha fatto, gli inquirenti come magistrati che non da oggi s’intestardiscono contro di lui, la famiglia, gli amici, rischia di passare come il solito politico preso con le mani nel sacco che non trova di meglio che lanciare accuse per teorici pregiudizi a chi, invece, svolge la propria attività in nome della Giustizia (con la maiuscola, beninteso). Può soltanto rimandare agli esiti processuali, il che significa attendere anni, nell’incertezza poi del giudizio ultimo. Non solo: quand’anche tutto si risolvesse bene per lui, in tempi brevi, rimarrebbe per l’eternità il bollo d’infamia sugli odierni indagati. Per anni e anni ciascuno di loro sarà marchiato con l’epiteto di “coinvolto nel procedimento Open”, così da far capire o che ha commesso un reato o che se l’è cavata pur essendo responsabile di pesanti accuse. Lo Stato vince solo quando fa giustizia. La sentenza sul caso Cucchi di Giampaolo Cassitta La Nuova Sardegna, 28 novembre 2019 È un stato omicidio. Lo sapevamo. Ci son voluti dieci anni per cristallizzare (almeno nella condanna di primo grado) un reato commesso all’interno di una caserma di carabinieri. Stefano Cucchi non è morto per aver assunto “droghe”, non è morto perché rifiutava la terapia. Non è morto neppure perché era cafone, rompiscatole, paranoico come alcuni detenuti quando si presentano nelle infermerie. È morto perché è stato selvaggiamente pestato e quelle lesioni sono servite a farlo morire. Gli hanno cercato l’anima a forza di botte. Lo Stato ha vinto e ha perso. Questa prima condanna restituisce la speranza a chi si era rivolto quasi con disperazione alla giustizia: i familiari di Stefano, con la sorella Ilaria in prima linea. Ha vinto perché ha avuto il coraggio di ripartire dopo gli errori di processi sbagliati, di condanne errate e di una narrazione completamente “storpiata” da uomini che lo rappresentavano. Qui lo Stato ha perduto. È sceso negli inferi, ha camminato nella menzogna, nella paura, ha voluto fortemente nascondere la verità, depistare le indagini, ha fatto finta - e lo ha fatto per anni - che tutto fosse chiaro o che tutto fosse complicato e che, in fondo, un tossicodipendente non poteva avere la stessa dignità di medici e di carabinieri. C’è voluta tutta la forza, l’amore, la cocciutaggine, la passione di Ilaria Cucchi, la sorella che tutti vorrebbero avere vicino, la Giovanna d’Arco che ha sfidato i silenzi, i tentativi di annacquare la verità. Lo ha fatto insieme a un altro piccolo grande cocciuto: Luigi Manconi. Lui, con l’associazione a buon diritto, lui senatore testardo e mirabile difensore delle ingiustizie, lui sardo e orgoglioso, sociologo attento e passionevole. Lui e Ilaria hanno macinato parole per anni, hanno cavalcato strade impervie, gonfie di curve e piene di cartelli con la scritta “divieti d’accesso”. Stefano Cucchi era un punto importante. Non era una partenza o un arrivo ma era- doveva essere - la dimostrazione che lo Stato non si vendica e protegge i cittadini: tutti i cittadini sono uguali davanti alla Legge. Stefano ha gridato per anni senza essere ascoltato se non da pochissime persone. Un piccolo drappo di parlamentari: Emma Bonino, Rita Bernardini e Marco Perduca su tutti. Anche un altro deputato sardo del Pd, Guido Melis, si interessò a Cucchi e ne ricordo la sua voglia di arrivare a una verità, a una giustizia equa, chiara. Tutti ad aspettare la risposta che pareva non dovesse giungere mai, una risposta a quel corpo straziato, lacerato e dimenticato. Quel corpo che nessuno ha osservato, ha interrogato, ha contemplato. Quel corpo inerme che da un carcere è finito all’ospedale senza troppe domande, con troppa velocità e poca mestizia, con troppa superficialità e molta fretta. È un tossicodipendente, un rompiscatole, uno che se l’ha cercata. Tutto orrendamente scritto, tutto terribilmente già vissuto. Stefano Cucchi è morto molte volte. Troppe. È morto dentro le prime condanne a dei poliziotti penitenziari e a un dirigente del Ministero della Giustizia completamente estranei. È morto nei verbali scritti dai carabinieri e avvallati dai superiori. È morto quando i rappresentanti dell’arma hanno negato davanti a un tribunale - e quindi davanti al popolo - che loro non sapevano, che non ricordavano e che, in fondo, si trattava di un tossicodipendente. Uno abituato a essere “fuori”. E non era così. Ma Stefano Cucchi è morto anche quando i politici ci hanno ricamato sopra, quando gli hater hanno insultato Ilaria, il padre. Quando hanno avuto compassione per la madre. È morto tutte le volte che ognuno di noi ha pensato che sono cose normali, che capitano solo a chi se le va a cercare. È morto quando anche noi, tutti noi, abbiamo provato a lasciar perdere, che son cose che si superano. Gli hanno cercato l’anima a forza di botte e adesso, dopo questa prima condanna, quell’anima, forse, ha lanciato un debole e forte sorriso. Non a noi, ma a sua sorella Ilaria e a Luigi Manconi sì. “Sissi, suicidio impossibile, lo Stato ci nega la verità”. Il padre contro la Procura di Andrea Tornago La Repubblica, 28 novembre 2019 La famiglia respinge l’archiviazione del caso: “Nessuna impronta sulla pistola o sangue, serve una superperizia”. “Per la Procura il caso è chiuso, l’hanno scritto già due volte. Lo Stato che mia figlia serviva, non vuole dirmi com’è morta Sissi”. Non si dà pace Salvatore, il padre di Maria Teresa Trovato Mazza, detta “Sissi”. Atleta e poliziotta penitenziaria di origini calabresi, 27 anni, cresciuta nell’esercito, prestava servizio nel carcere femminile della Giudecca quando il 10 novembre 2016 è stata trovata riversa a terra in un ascensore dell’ospedale Civile di Venezia, con la testa devastata da un proiettile calibro 9. Per il pm veneziano Elisabetta Spigarelli non ci sono dubbi: l’agente ha tentato di togliersi la vita “senza il coinvolgimento di terzi”, rivolgendo la pistola d’ordinanza contro se stessa. Ma il padre Salvatore Trovato Mazza, la madre Caterina e i famigliari sono convinti che non sia stata Sissi a sparare. Quel giorno l’agente Trovato Mazza doveva controllare una detenuta che aveva partorito ed era ricoverata nel reparto di pediatria dell’ospedale veneziano. Le immagini delle telecamere di sorveglianza la riprendono mentre si trattiene nei pressi delle scale come se stesse aspettando qualcuno. Si dirige verso l’ascensore, un punto non coperto dal raggio della telecamera, dove succede tutto in pochi istanti. Due minuti di buio, poi il corpo viene trovato da una passante. Nell’ottobre del 2018 i rilievi avanzati dai legali della famiglia, supportati da autorevoli periti, hanno convinto il giudice a ordinare nuove indagini, al termine delle quali la Procura ha chiesto nuovamente l’archiviazione. Qualche giorno fa l’avvocato dei Trovato Mazza, Girolamo Albanese, ha depositato una seconda opposizione chiedendo alla magistratura di scavare più a fondo: la speranza è che il giudice ordini una superperizia. Perché se di suicidio si è trattato, quello dell’agente Sissi sembra un suicidio impossibile. Il foro di entrata del proiettile si trova in un punto strano del capo, più vicino alla nuca che alla tempia, non proprio la zona scelta da chi si punta una pistola alla testa. E l’arma che ha sparato, la Beretta d’ordinanza, viene ritrovata completamente priva di impronte digitali e ancora in mano alla poliziotta, nonostante il rinculo e le gravissimi lesioni provocate dal proiettile rendessero quasi impossibile trattenerla. C’è poi il dato più pesante: l’assenza di tracce ematiche sulla punta della pistola, “un evento insolito” anche secondo la Procura, considerato che il sangue viene riscontrato “nel 75% dei casi” di colpi sparati a contatto o a bruciapelo. Secondo i consulenti di parte sarebbero immacolati anche il polsino e la manica destra di Sissi, che rientrano in quella zona che gli esperti chiamano di “back-spatter”, dove dovrebbero depositarsi le gocce di sangue e i frammenti provocati dall’entrata del proiettile: “Una contraddizione insuperabile rispetto alla tesi del suicidio”, si spinge a sostenere il generale dei carabinieri Luciano Garofano, biologo ed ex comandante del Ris di Parma, che ha accettato di dare il suo contributo al pool di esperti ingaggiati dalla famiglia. Cos’è successo dunque all’agente Sissi Trovato Mazza? Resta un giallo. Anche perché le indagini presentano lacune irreparabili, come la decisione dei medici legali di non sbendare la testa per verificare la lesione e di rimandare l’esame a un mese dopo, quando ormai sulla poliziotta era stato eseguito un invasivo intervento neurochirurgico. “Ma le pare normale che un genitore debba cercare di dimostrare scientificamente che sua figlia non si è sparata da sola? Nessuno vuole parlare con noi - denuncia il padre Salvatore. Per lo Stato il caso è chiuso. Cosa c’è dietro? Che cos’è questo muro?”. Bancarotta e autoriciclaggio: custodia in carcere per chi distrae beni e li impiega all’estero di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 28 novembre 2019 Bancarotta fraudolenta e autoriciclaggio per l’imprenditore che distrae circa 3 milioni di euro da due società fallite, di cui era amministratore, per poi impiegarli all’estero per avviare altre attività. Il tutto distruggendo le scritture contabili per impedire di ricostruire le vicende societarie, denunciandone falsamente il furto. La Cassazione, con la sentenza 48244, conferma la custodia in carcere, respingendo la richiesta dei domiciliari, considerati non idonei, neppure se presidiati dal braccialetto elettronico, a scongiurare il rischio di contatti con terzi, di reiterazione del reato e di inquinamento delle prove. Per la Suprema corte legittimamente il tribunale del riesame ha affermato i pericoli ritenendo ininfluente sia il fatto che le società gestite dal ricorrente fossero fallite, sia che i suoi beni fossero sottoposti ad un sequestro del quale, tra l’altro, non era nota l’estensione. Ad avviso dei giudici la reiterazione dei reati come quelli oggetto del procedimento, non richiede affatto l’impiego dei grossi mezzi che l’imputato negava di avere. Lo stesso vale per il rischio di inquinamento delle prove, perché l’occultamento o la distruzione della documentazione contabile non hanno consentito agli inquirenti di acquisire tutti gli atti necessari al dibattimento. Non è abbastanza per negare il rischio di fuga neppure la circostanza che dopo il trasferimento all’estero, il ricorrente abbia continuato a frequentare l’Italia, certo non per sottostare alla giustizia interna, costretta a ricorrere ad un mandato d’arresto europeo, per ottenere la consegna per farlo rientrare. I giudici danno un peso anche alla destrezza con la quale l’imprenditore si muoveva nel contesto sovranazionale, riprendendo all’estero l’esercizio di attività dismesse in Italia con capitali sottratti a società italiane. Uno scopo ottenuto occultando, prima del trasferimento oltreconfine, ogni traccia della sua attività illecita e chiedendo alla segretaria di custodire il personal computer della società e un quaderno con tutti i dati utili ad accedere ai conti correnti bancari. Messa alla prova, motivazione rafforzata integrando programma concordato con l’imputato di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 28 novembre 2019 Obbligo di motivazione rafforzata per il giudice che integra il programma di messa alla prova elaborato, d’intesa con l’imputato, dall’ufficio esecuzione penale esterna (Uepe). La sentenza 48258/2019 di Cassazione, in considerazione della inevitabile componente afflittiva dell’istituto, fissa dei rigidi paletti per il giudice che inserisce nel programma la durata del lavoro di pubblica utilità, nello specifico fissato nella misura massima di due anni. La decisione non può essere presa senza una puntuale motivazione. Non basta dunque un generico richiamo ai criteri fissati dall’articolo 133 del Codice penale che, per la valutazione della congruità della pena, fa riferimento alla gravità del reato considerando più variabili. La giustificazione deve tenere in debito conto le particolarità del singolo caso. La Suprema corte ricorda che nell’elaborazione dell’Uepe ci sono indicazioni piuttosto dettagliate sulle modalità di coinvolgimento dell’imputato e dei suoi familiari nel processo di reinserimento sociale, così come sui comportamenti da tenere anche rispetto al lavoro di pubblica utilità o di volontariato. Nelle norme del codice di procedura penale che regolano la messa alla prova c’è però una vistosa lacuna: al giudice non vengono indicati i criteri da seguire per valutare durata e intensità della pena. Dagli articoli si evince la durata: dai 10 giorni a un tetto che coincide con i termini massimi di sospensione del processo, uno o due anni a seconda della pena edittale. Restano dunque da individuare indici di commisurazione sufficientemente certi. E allo scopo non sono utili i criteri dettati per il lavoro gratuito sostitutivo della pena detentiva, sia perché la messa alla prova scatta anche per i reati puniti con sanzione esclusivamente pecuniaria, sia perché manca una condanna da usare come parametro. Per la Suprema corte la via più affidabile, e in linea con le indicazioni della Consulta, sta nell’applicazione analogica degli indici dettati dall’articolo 133 del Codice penale, “con una prospettiva che tenga conto ad un tempo: della valutazione virtuale della gravità concreta del reato e del quantum di colpevolezza dell’imputato, nonché della sua necessità di risocializzazione”. A queste considerazioni va aggiunto che il quadro normativo non fissa un confine rigido tra il programma di trattamento Uepe e il provvedimento con il quale il giudice dispone la messa alla prova. Non si precisa se la durata del lavoro di pubblica utilità debba essere fissata nel primo o nel secondo atto. Una differenza che comporta un diverso obbligo di motivazione. Se il programma, accettato dall’imputato, indica la durata del lavoro, il giudice si può limitare a un giudizio di congruità. Ma se la durata non c’è ed è il giudice a stabilirla, l’obbligo di motivazione è rafforzato: non può essere un richiamo generico alla gravità del reato ma deve tenere conto delle peculiarità del caso. Nello specifico i due anni sono stati fissati nel massimo senza adeguata motivazione e senza considerare il risarcimento del danno e le attenuanti generiche. L’ordinanza è annullata e il giudice del rinvio dovrà tenere conto dei principi dettati dalla Cassazione. È reato inviare una e-mail contente copia di una sentenza inesistente di Pietro Alessio Palumbo Il Sole 24 Ore, 28 novembre 2019 Corte di Cassazione - Sezione V - Sentenza 7 novembre 2019 n. 45369. La sentenza è per sua natura atto che può circolare solo in copia, restando l’originale allegato a raccolta. Ne discende che la trasmissione della stessa, accompagnata dalla prospettazione di conformità all’originale in conseguenza della simulata celebrazione del giudizio, si manifesta idonea a ledere il pubblico affidamento. È irrilevante la circostanza di fatto legata alla materiale esistenza o meno dell’atto “originale” rispetto al quale dovrebbe operarsi il raffronto comparativo con la copia, perché l’attività falsificatoria effettuata con la modalità della contraffazione assume come riferimento non tanto la copia in sé, quanto il falso contenuto dichiarativo o di attestazione, apparentemente mostrato dalla copia formata ed esibita. Con la recente sentenza n°45369/2019 la Corte di Cassazione affronta la questione concentrando il fuoco di lettura sugli elementi concreti della condotta di chi fabbrica, poi trasmette, un provvedimento fittizio. La vicenda processuale - La Corte di Appello in parziale riforma della decisione del Tribunale di primo grado che aveva affermato la responsabilità penale di un avvocato per il delitto di falso materiale in atto pubblico e falso ideologico commesso dal privato in riferimento alla formazione di una falsa sentenza, riqualificava il fatto come falso materiale commesso da pubblico ufficiale in copie autentiche di atti pubblici. Dal che l’imputato formulava ricorso per Cassazione deducendo erronea applicazione della legge penale e della legge processuale in riferimento all’inesistenza dell’atto che si assumeva falso, consistente nella mera creazione di una sentenza civile relativa ad una causa mai instaurata, trasmessa alla parte e priva di attestazione di conformità, con conseguente esclusione dell’ipotesi di reato. Inoltre a suo dire la sentenza era viziata in motivazione in considerazione dei rapporti correnti tra lui e la persona offesa, nipote della sua compagna, che escludevano la finalizzazione del falso all’inganno a terzi, riconducendone la causale a mere ragioni di opportunità familiare con conseguente eccessiva determinazione della provvisionale in favore della parte civile. La decisione e il principio di diritto - Secondo la Cassazione è erronea la qualificazione giuridica attribuita dalla Corte territoriale alla fattispecie in disamina, in cui è stata trasmessa a mezzo posta elettronica, una mera copia di sentenza, non corredata da attestazioni di conformità. Trattasi dunque del falso dell’atto trasmesso e non già di una inesistente dichiarazione di conformità della sentenza all’originale. In altre parole, secondo la Cassazione, la formazione della copia di un atto inesistente non integra il reato di falsità materiale, salvo che la copia assuma l’apparenza di un atto originale. A ben vedere lo stesso soggetto che produce la copia deve compiere anche un’attività di contraffazione che vada a incidere materialmente sui tratti caratterizzanti il documento in tal modo prodotto, attribuendogli una parvenza di originalità, così da farlo sembrare, per la presenza di determinati requisiti formali e sostanziali, un provvedimento originale o la copia conforme, originale, di un tale atto, ovvero una copia comunque documentativa dell’esistenza di un atto corrispondente. La volontà di ingannare la fede pubblica, in tal modo, si realizza attraverso un comportamento inquadrabile nell’ipotesi di falso per contraffazione poiché almeno apparentemente creativo di un atto originale in realtà inesistente, sì da determinarne oggettivamente, nelle intenzioni dell’agente, un’apparenza esterna d’originalità. Deve pertanto affermarsi che ai fini della rilevanza penale del falso in fotocopia di un atto, non importa se esistente o meno, rilevi oltre all’idoneità del documento di accreditarsi come corrispondente a un originale, l’intenzione dell’agente che quell’atto utilizzi per ingannare la fede pubblica, proponendolo come originale e conforme all’autentico secondo le circostanze del contesto concreto. Secondo la Cassazione nel caso in esame, non vi è dubbio che la falsa sentenza, trasmessa via mail alla persona offesa, sia stata accreditata come corrispondente all’inesistente originale, tanto in riferimento alla qualità di avvocato del mittente, che alle ulteriori circostanze rappresentate alla persona offesa in merito all’iscrizione della causa, al suo andamento ed all’assicurazione del suo esito, che la copia intendeva asseverare. Segnatamente, anche l’assenza di un fine di arricchimento lascia del tutto impregiudicata la modalità ingannatoria che la trasmissione dell’atto falso intende accreditare, qualora il contesto è caratterizzato da menzogna. Di talché costituisce falso punibile, in riferimento alle circostanze di fatto, la formazione della copia di una sentenza inesistente, quando la stessa assuma l’apparenza di una riproduzione di atto originale per sua natura non soggetto a circolazione. Toscana. Il Garante dei detenuti: “Le Misure di sicurezza sono un fossile da eliminare” provincia.fi.it, 28 novembre 2019 Presentata “Archeologia Criminale”, l’indagine condotta nella Rems di Volterra e nella casa lavoro di Vasto. Interventi del Garante dell’infanzia e dell’adolescenza Camilla Bianchi e del Difensore civico Sandro Vannini. “Si tratta di un fossile da eliminare. Abbiamo ancora il codice Rocco del 1930, che prevede varie forme di misure di sicurezza. Sono tantissime, ma le principali sono quelle psichiatriche, per cui chi commette un reato viene prosciolto, perché incapace di intendere e di volere, ma ritenuto pericoloso socialmente, una volta veniva chiuso negli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), oggi viene accolto nelle Residenze per le misure di sicurezza (Rems) per un tempo stabilito dai magistrati. Altre misure di sicurezza sono destinate a persone imputabili, cioè persone che commettono un reato, vengono condannate e, nella sentenza, si prevede che, al termine della pena, andranno in casa lavoro per un certo periodo, perché ritenuti delinquenti abituali, per tendenza o professionali. Con questo armamentario del secolo scorso, abbiamo 350 persone in Italia che, per reati non particolarmente gravi, non escono dal circuito penitenziario, perché le case lavoro sono delle carceri. La loro pena in molti casi è infinita, perché le misure di sicurezza vengono prorogate. È un paradosso intollerabile”. Così Franco Corleone, garante regionale dei detenuti, ha riassunto il senso della ricerca “Archeologia criminale”, che ha commissionato all’Associazione del volontariato penitenziario Avp), ed è stata presentata questa mattina in Sala Fanfani nel Palazzo del Pegaso. La ricerca, condotta da Giulia Melani ed Evelin Tavormina, con il coordinamento di Katia Poneti, si è svolta in due luoghi significativi: la Rems di Volterra e la Casa lavoro di Vasto. A Volterra sono stati presi in esame i fascicoli delle persone presenti nel luglio scorso e lo studio si posto in continuità con le ricerche precedenti svolte nella stessa Rems nel 2018 e sull’Opg di Montelupo nel 2014-2015. A Vasto, dove sono internati più del 40% dei soggetti per i quali è in esecuzione la misura della casa lavoro a livello nazionale, la ricerca del settembre scorso ha interessato 108 persone. Il lavoro, o meglio la sua mancanza, è la questione più paradossale che emerge. Solo 26 lavorano e, di questi, ben 24 svolgono servizi per il funzionamento dell’istituto, non professionalizzanti per il mondo esterno. “Cosa fare? Credo che le misure di sicurezza non psichiatriche debbano essere abolite. Una persona ha commesso un reato, sconta una pena e poi deve tornare in libertà - ha affermato Corleone - Per quelle psichiatriche c’è il problema di come procedere sulla via di una riforma efficace, dopo la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. Nel periodo di proroga del mio mandato, realizzerò un volume con una proposta di riforma del Codice penale per aggredire questo problema, eliminando la non imputabilità e responsabilizzando coloro che hanno patologie psichiatriche, fornendo strumenti e spazi per la cura”. “Credo che il primo passaggio debba essere limitare le misure di sicurezza psichiatriche ai soli reati contro la persona - ha suggerito il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze Marcello Bortolato - La pericolosità ha un senso solo nel caso in cui i reati che si rischia di commettere sono connessi alla minaccia o alla violenza alle persone, mentre per i reati patrimoniali sarebbe il caso di rivedere completamente questo concetto”. Sono intervenuti anche il direttore della Rems di Volterra, Alfredo Sbrana, e lo psichiatra Franco Scarpa, dirigente dell’Azienda Usl di Empoli, già direttore dell’Opg di Montelupo. “La comunità, dalla quale i ragazzi provengono ed alla quale dovranno tornare, ha un imperativo: la corresponsabilità. Spesso la comunità sa essere madre, accoglie, ma non sa essere padre, non sa essere etica, non sa essere morale, non sa dare valore alla regola - ha osservato la Garante per l’infanzia e l’adolescenza della Toscana, Camilla Bianchi. Solo una comunità che sa intessere reali interazioni di prossimità, relazioni materne e paterne di qualità, può sviluppare un reale percorso di crescita, di sviluppo e di recupero al proprio interno. Deve esserci una responsabilità condivisa, affinché sia riconosciuto, anche in ambiti restrittivi, il riconoscimento dei ragazzi e delle ragazze, del loro superiore interesse, per garantire loro un reale orizzonte di speranza e di futuro”. “Il Garante dei detenuti, con i suoi libri, sta sviluppando battaglie non solo di contenuto giuridico e normativo, ma soprattutto di principio, con una impostazione squisitamente riformista - ha concluso il Difensore civico regionale Sandro Vannini. Si è fatto riferimento a 350 persone, che valgono lo 0,49%, in percentuale, ma in termini assoluti sono oltre trecento, sono molti. Una battaglia non solo giuridica e sociale, ma una battaglia di principio. Tutta questa attività dovrebbe diventare un punto di riferimento nazionale, un laboratorio nazionale”. Campania. Corsi di primo soccorso per gli agenti di Polizia penitenziaria La Repubblica, 28 novembre 2019 Iniziativa del Garante dei detenuti della Campania, finanziata dalla Regione. Presentato ieri mattina, nella Sala Nassirya del Consiglio regionale della Campania, il corso “Basic Life Support and Defibrillation-blsd”, dedicato a 150 agenti di Polizia penitenziaria e 20 professionisti in ambito socio-sanitario che operano all’interno delle carceri. Il corso è promosso dal Garante dei detenuti della Campania, in collaborazione con il Servizio sanitario di urgenza ed emergenza medica ed è finanziato dalla Regione. “Si tratta - ha spiegato Samuele Ciambriello, garante campano dei detenuti - di un corso di pronto soccorso perché l’anno scorso si sono registrati 77 tentativi di suicidio, 11 suicidi in Campania, un migliaio di atti di autolesionismo e una ventina di morti per attacco cardiaco nelle carceri. Riteniamo che, se non ci sono state delle stragi, è grazie agli interventi degli agenti della polizia penitenziaria. Con questa nuova qualifica potranno salvare ancora più vite in caso di arresti cardiaci”. Il corso Blsd, rimarca Ciambriello, “è un modo per migliorare la vita dentro le carceri ed è un modo per rispondere anche al dettame costituzionale che dice che le pene e il carcere servono per rieducare”. Il corso - che si articolerà in 7 incontri che si svolgeranno nella sede del consiglio regionale, il Prap, il carcere di Santa Maria Capua Vetere e quello di Salerno - in questa sua prima edizione vede coinvolta anche la Asl Napoli 1 ed è proprio da una collaborazione con l’azienda che “nascerà, sia al carcere di Poggioreale che in quello di Secondigliano, un movimento di potenziamento delle attrezzature e di potenziamento delle risorse all’interno degli istituti soprattutto per le visite specialistiche. Con il 118 - aggiunge il garante - stiamo migliorando attivamente gli interventi di pronto soccorso”. Il compito delle asl, ha dichiarato Ciro Verdoliva, direttore dell’Asl Napoli 1, è quello di “garantire i servizi sanitari alla città di Napoli e all’isola di Capri. E sulla città insistono le case circondariali di Poggioreale, Secondigliano e Nisida e anche ai loro ospiti è necessario garantire i servizi sanitari. In collaborazione con il garante abbiamo individuato dei punti da migliorare e ci siamo rimboccati le maniche. Stiamo per iniziare i lavori per garantire la dialisi all’interno del carcere, le trasfusioni per i pazienti talassemici e stiamo per cambiare - anticipa - un’apparecchiatura per la diagnostica con immagini con una digitale e abbiamo programmato anche il teleconsulto. Il rapporto di collaborazione si concretizza oggi il corso di blsd. È un passo avanti per garantire la dignità all’interno delle strutture”. Di iniziativa “davvero importante” ha parlato la presidente del Consiglio regionale della Campania, Rosa D’Amelio. “Abbiamo investito spiega - sulla formazione degli operatori della giustizia e delle guardie carcerarie su interventi di primo soccorso che vanno in aiuto e a sostegno di difficoltà e problematiche che vivono molti carcerati: gli agenti sono a loro i più vicini e questa formazione può salvare molte vite umane. Quello di oggi è un altro piccolo tassello nel lavoro che stiamo facendo per la difesa dei diritti delle persone detenute ma anche per chi con loro lavora”. C’è poi un investimento anche sulla formazione dei reclusi “per offrire loro - conclude la presidente dell’assemblea regionale -un’opportunità lavorativa che possa contrastare il “fenomeno dell’alta recidiva” che si verifica in regione proprio per le scarse “possibilità di reinserimento lavorativo”. Campania. “La vita nelle tue mani”, la Polizia insegna ai giovani detenuti l’uso dei defibrillatori napoli.fanpage.it, 28 novembre 2019 I giovani e i minorenni detenuti negli istituti di pena Campani saranno formati per le manovre di di primo soccorso cardio-rianimatorio e defibrillazione cardiaca precoce dagli operatori della Polizia di Stato. È il frutto del protocollo d’intesa siglato tra Polizia di Stato e Dipartimento di Giustizia Minorile “La vita nelle tue mani”. I medici della Polizia di Stato insegneranno ai minori e ai giovani detenuti negli istituti minorili campani le manovre salvavita e quelle per primo soccorso cardio-rianimatorio e defibrillazione cardiaca precoce. È l’obiettivo del protocollo d’intesa firmato oggi, 27 novembre, tra la Polizia e il Dipartimento di Giustizia Minorile e di Comunità per lo svolgimento di corsi di formazione BLS-D (Basic Life Support Defibrillation). I corsi saranno tenuti da operatori di polizia, che già si occupano della formazione degli agenti. I giovani partecipanti aderenti al protocollo “La vita nelle tue mani” avranno modo di apprendere ed eseguire le manovre di rianimazione cardio-polmonare che, in alcuni casi, sono determinanti per salvare una vita, e al termine riceveranno un attestato di abilitazione. Testimonial del progetto, l’ex nuotatore e conduttore televisivo napoletano Massimiliano Rosolino e l’attore napoletano Massimiliano Gallo. Alla firma, nella sede del IV Reparto Mobile, erano presenti il Direttore Centrale per la Polizia Stradale, Ferroviaria, per le Comunicazioni ed i Reparti Speciali della Polizia di Stato Armando Forgione, il Questore di Napoli Alessandro Giuliano, il Presidente del Tribunale per i Minorenni Patrizia Esposito, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni Maria de Luzenberger e il Dirigente del Centro di Giustizia Minorile Maria Gemmabella. Firenze. Diventare cittadini migliori. L’Università in carcere unifimagazine.it, 28 novembre 2019 Il prossimo anno ricorrono i venti anni di attività del Polo Universitario penitenziario della Toscana. Oggi l’unità fiorentina conta 60 iscritti, tra cui una donna. Per far conoscere l’offerta formativa è stata realizzata anche una guida dello studente detenuto. Il prossimo anno compirà vent’anni. Il Polo universitario penitenziario (Pup) della Toscana nasce a Firenze per iniziativa dell’Ateneo ed assume una dimensione regionale dal 2010 grazie a un protocollo che coinvolge gli atenei di Pisa e Siena e, dal 2018, anche di Siena Stranieri. Si tratta della seconda esperienza istituzionale in Italia dopo quella di Torino - oggi i Pup sono ventisette - ed è l’unica oggi ad avere una dimensione regionale e ad offrire l’accesso a tutti i corsi di laurea di quattro atenei. Dal 2000 a oggi, il Pup targato Unifi ha contato oltre 220 studenti. Una ventina di loro - due dei quali proprio di recente - ha completato gli studi. Altri si sono fermati alla tesi o prima. Di altri ancora, trasferiti in altri penitenziari, si sono perse le tracce. A tutti, però, è stato garantito il diritto di poter diventare “cittadini migliori”. Attualmente l’unità fiorentina conta 60 studenti. “Venticinque in più da quest’anno - sottolinea Maria Grazia Pazienza, delegata del rettore dell’Ateneo fiorentino - un risultato particolarmente importante, frutto di un grande impegno svolto da tutto l’Ateneo nell’attività di orientamento”. Per promuovere la conoscenza dell’offerta formativa è stata realizzata per la prima volta anche una guida dello studente detenuto “tradotta - aggiunge Pazienza - anche in lingua inglese”. La maggior parte degli iscritti è detenuta nei circuiti di media e alta sicurezza nel carcere di Prato. Sono tutti uomini con un’eccezione. “Proprio tra le matricole - osserva la delegata - vi è una donna detenuta, a Sollicciano, che ha scelto Giurisprudenza”. Per il resto non è possibile tracciare un identikit dello studente tipo per via delle molte differenze di età, livello culturale ed estrazione sociale. La diversità emerge anche in relazione alla scelta del percorso di studi. Fino a qualche tempo fa, le lauree più gettonate erano Scienze politiche, Scienze umanistiche e Agraria. Il quadro oggi risulta più articolato e non mancano iscritti a Economia, Scienze Alimentari e Tecnologia del Legno, istituito a Firenze più di recente. L’accesso ai corsi da parte dei detenuti avviene attraverso un colloquio, mentre le lezioni e gli esami sono tenuti dai docenti all’interno del carcere. I tutor (docenti in pensione, operatori del servizio civile, tirocinanti e studenti volontari) svolgono una preziosa funzione di raccordo tra le due istituzioni. In questo quadro, lo sforzo istituzionale è enorme e in questi anni si è tradotto in accordi, iniziative, occasioni di incontro e di scambio anche attraverso il dialogo con un’altra istituzione - l’istituto penitenziario - concepita ovviamente per altre finalità. In questo confronto rientra, tra l’altro, l’apertura di una nuova sala studio presso il penitenziario di Prato che punta a rispondere al bisogno di spazi adeguati da parte degli studenti. Un impegno particolare dell’Ateneo è rivolto a far conoscere ad altri soggetti e all’opinione pubblica l’esperienza del Pup e, in questa prospettiva, rientrano l’esperienza del primo periodico universitario realizzato dagli studenti detenuti, “Spiragli”, coordinato da Silvia Pezzoli, ricercatrice del Dipartimento di Scienze Sociali, che si è già concretizzata in tre numeri in appena un anno di attività. Va nella stessa direzione la scelta di partecipare al Festival delle Donne dove alcuni studenti del Polo universitario penitenziario hanno sviluppato una riflessione sul tema delle relazioni familiari e delle emozioni, collegate alla genitorialità attraverso la letteratura e il cinema, che sono state riportate in un’occasione pubblica presso la Biblioteca dell’Isolotto. In vista dei 20 anni di attività dell’unità fiorentina sono in programma varie iniziative tra cui un convegno che si svolgerà all’inizio del nuovo anno, dove si farà il punto dei risultati raggiunti per delineare nuove tappe da percorrere. Intanto, la realtà fiorentina in carcere è cresciuta di interesse anche sotto il profilo della ricerca. Proprio in questi mesi infatti un gruppo interdisciplinare fiorentino ha cominciato a indagare sul livello di recidiva tra gli studenti detenuti e sul contributo dei poli universitari alla “rieducazione” del condannato per un reinserimento sociale, così come previsto dalla Costituzione. Catania. La Costituzione entra nelle carceri: “è un ponte per il mondo esterno” Quotidiano di Sicilia, 28 novembre 2019 Il presidente della Consulta ha incontrato a Catania gli studenti del Dipartimento di Giurisprudenza. Presentato il docu-film che racconta il viaggio dei sette giudici nei penitenziari italiani. Un “viaggio” nelle carceri italiane tra Carta Costituzionale, illegalità e anche emarginazione. Un argomento su cui negli ultimi anni si sono accesi spesso i riflettori dell’opinione pubblica, in particolar modo sul tema dei diritti umani dei detenuti tra pene detentive e funzione rieducativa della pena stessa. Ne ha discusso martedì pomeriggio, con gli studenti del dipartimento di Giurisprudenza, il presidente della Corte costituzionale, Giorgio Lattanzi, prendendo spunto dalla proiezione del docu-film di Fabio Cavalli, prodotto da Clipper Media con Rai Cinema, dal titolo “Viaggio in Italia: la Corte Costituzionale nelle carceri”. Un docufilm che racconta il viaggio di sette giudici della Corte Costituzionale che incontrano i detenuti di sette istituti penitenziari italiani. E dal film al “viaggio” cominciato il 4 ottobre a Roma dal Carcere di Rebibbia, cui sono seguite le tappe negli istituti penitenziari di Milano, Nisida, Terni, Genova e Lecce, ma anche nei tribunali, nei teatri e negli atenei di Firenze, Napoli e anche Catania. “Questo è un viaggio nel viaggio perché grazie al film riusciamo a illustrare il significato del primo, quello nelle carceri a contatto con i detenuti - ha esordito il presidente della Consulta Lattanzi -. Il film commuove e ci fa capire cose che altrimenti non avremmo potuto comprendere. Il carcere viene visto come un qualcosa che non ci riguarda, che è da un’altra parte e, invece, il carcere è una parte del Paese con delle persone reali che hanno i diritti di ogni persona anche se in qualche misura affievoliti o limitati dall’esistenza della prigione”. Il presidente della Corte costituzionale, inoltre, si è soffermato anche sulla situazione delle carceri definendola “comunque meno drammatica di quella che possa immaginare anche se sta aumentando il numero dei detenuti”. “La Costituzione è di tutti, la Costituzione non conosce le mura del carcere e anzi può essere vista come un ponte per il mondo esterno” ha concluso il presidente Lattanzi alla presenza, tra gli altri, del rettore dell’Università di Catania Francesco Priolo, del decano di Giurisprudenza Vincenzo Di Cataldo, del prof. emerito di Diritto processuale penale Delfino Siracusano, del prof. di Diritto costituzionale Gianluca Ferro, del prof. di Diritto processuale Fabrizio Siracusano e del direttore della Casa circondariale “Piazza Lanza” Elisabetta Zito. In Italia, ormai, si è arrivati a oltre 60mila detenuti per poco più di 50mila posti in carcere con ben 8 mila detenuti in più rispetto a tre anni e mezzo fa e un tasso di affollamento che sfiora attualmente il 120% che ha causato innumerevoli condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo. Proprio il legislatore nell’ottobre scorso ha varato la Riforma dell’ordinamento penitenziario che ha apportato modifiche in tema di assistenza sanitaria, di semplificazione delle procedure e di accesso alle misure alternative. E sulla maggiore flessibilità della pena si discute da anni anche alla luce dei dati che testimoniano come i detenuti affidati al circuito carcerario tornano a delinquere nel 68% dei casi, mentre il tasso di recidiva tra chi è affidato a misure alternative si ferma al 19 per cento. Nel corso dell’incontro con gli studenti il rettore Priolo ha evidenziato che “si tratta di un tema particolarmente importante sui diritti dei detenuti e sul ruolo della Carta costituzionale vigente da 70 anni che segna i diritti di tutti i cittadini e della Consulta che rappresenta il luogo in cui i nostri diritti vengono difesi”. Per il prof. Di Cataldo “negli ultimi anni è mutata la consapevolezza della situazione dei detenuti e si pensava che la detenzione fosse un problema di una fascia circoscritta della popolazione, di soggetti diversi di cui nessuno si preoccupava”. “Ma non è così e, infatti, è maturata una progressiva presa di coscienza dell’importanza del tema per l’intero sistema sociale e non a caso la Corte costituzionale è stata protagonista di questo cambiamento radicale di prospettiva” ha aggiunto il docente. Livorno. Un progetto per aiutare il rapporto detenuti-figli gonews.it, 28 novembre 2019 Si chiama “Come a casa. Per una genitorialità consapevole”. Coinvolti dieci papà detenuti. L’associazione “Girotondo Intorno al Sogno” di Arezzo ha promosso, grazie ad un protocollo siglato con il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, il progetto “Come a Casa” finalizzato alla promozione di una genitorialità consapevole all’interno degli istituti penitenziari, tra cui anche la Casa Circondariale di Livorno dove si è appena concluso. Rivolto ad un gruppo di dieci papà detenuti, “Come a casa”, attraverso una serie di incontri, ha coinvolto direttamente i bambini e le mamme, oltre al personale di Polizia Penitenziaria che lavora all’interno dell’area colloqui del Carcere. Con l’utilizzo di una sorta di “spartito” del progetto, ovvero la lettura del libro “Il sogno di Cora” (Edizioni Chartusia) e grazie anche ad esperienze di pet therapy e musicoterapia, i professionisti dell’associazione sono riusciti, nel corso degli incontri, a sostenere un percorso di crescita e maturazione dei detenuti rispetto al loro ruolo di padre, garantendo nel contempo ai bambini la possibilità di confrontarsi in maniera più serena con l’assenza della figura paterna. Il progetto è stato presentato a palazzo comunale nel corso di una conferenza stampa presieduta dall’assessore Andrea Raspanti che si è dichiarato favorevole nel sostenere il progetto che offre l’occasione anche in carcere di creare un rapporto autentico tra padre e figlio e di garantire ai detenuti il diritto all’affettività. “Il progetto - ha detto - è stato pienamente accolto dall’Amministrazione in quanto risponde alle linee di mandato, ovvero favorire la conoscenza della presenza penitenziaria nel nostro territorio e al tempo stesso accrescere i rapporti tra casa circondariale e comunità”. Alla conferenza hanno partecipato tutti i soggetti coinvolti tra cui il funzionario giuridico-pedagogico area trattamentale, Alessia La Villa; esponenti dell’Associazione “Girotondo Intorno al Sogno, psicoterapeute e agenti della polizia penitenziaria. Alle ore 18 di mercoledì 27 novembre presso la Biblioteca di Villa Maria(via Calzabigi) l’Associazione “Girotondo Intorno al Sogno” unitamente alla Casa Editrice Carthusia, al direttore del carcere di Livorno dott. Carlo Mazzerbo, all’educatrice referente del progetto Alessia La Villa, al Garante per i diritti dei detenuti Giovanni De Peppo, presentano il libro “Il sogno di Cora”. Napoli. Reinserimento post-carcere, il cardinale Sepe a Poggioreale di Antonio Mattone Il Mattino, 28 novembre 2019 Il cardinale Crescenzio Sepe ha proseguito il suo viaggio nelle carceri cittadine visitando ieri mattina la Casa circondariale “Giuseppe Salvia Poggioreale”, dopo essere stato la settimana scorsa a Secondigliano. Quest’anno, infatti, la Lettera pastorale indirizzata ai fedeli della diocesi di Napoli, è dedicata alla sesta opera di misericordia: visitare i carcerati. Ad accoglierlo c’erano cento detenuti che frequentano i corsi di catechesi con il cappellano don Franco Esposito, gli altri sacerdoti, suore e volontari. Dopo il saluto della direttrice Maria Luisa Palma, il coro del Conservatorio di San Pietro a Majella ha eseguito una serie di brani di musica sinfonica e di canzoni napoletane, ascoltato in religioso silenzio dai presenti. Alcune domande poste dai detenuti rispetto all’atteggiamento della società nei confronti di chi esce dal carcere e cerca un lavoro e il perdono. Il Cardinale ha confermato la vicinanza della chiesa verso chi ha commesso degli errori, evocando la storica visita di Papa Giovanni XXIII a Regina Coeli appena salito sul trono di Pietro. I prossimi appuntamenti sono in programma il 5 e 17 dicembre nel carcere minorile di Nisida e in quello femminile di Pozzuoli, mentre l’arcivescovo tornerà a Poggioreale per la fine dell’anno, quando durante la messa di ringraziamento impartirà i sacramenti del battesimo, eucarestia e cresima a un detenuto peruviano. Un incontro denso di significato nel penitenziario dell’emergenza sovraffollamento. Nello spirito della sua lettera pastorale “Visitare i Carcerati”, che richiama l’omonima opera di misericordia, il cardinale Crescenzio Sepe è stato già nel carcere di Secondigliano. “La Chiesa di Napoli - aveva spiegato la Curia in una nota nell’annunciare le visite - volge particolare attenzione al mondo del carcere, ai detenuti, alle loro famiglie, “per collaborare al recupero umano e al reinserimento sociale di quanti hanno perduto la libertà”. Torino. Al Cpr la disumanità è sicuramente permanente di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 novembre 2019 Le proteste dei migranti e le denunce di “Lasciatecientrare”. Ancora disagi e proteste nel centro di permanenza e rimpatrio (Cpr) di Torino. Nel corso della notte tra il 24 e 25 novembre scorso è scoppiato un nuovo incendio nell’area viola del Cps. I vigili del fuoco sono dovuti intervenire entrando nelle zone interessate. I migranti reclusi - perché di reclusione si tratta - hanno protestato ancora una volta contro le pessime ed ingiuste condizioni di detenzione. “I reclusi - denuncia la campagna Lasciatecientrare - continuano a denunciare la mancanza di assistenza sanitaria, di vestiti, di asciugamani, mentre il cibo è immangiabile. Il tutto avviene in una condizione di reiterati trattamenti inumani e degradanti”. Per questo gli attivisti della campagna che si occupa di monitorare le condizioni dei centri per migranti chiedono che vengano chiarite le motivazioni della protesta e vengano ascoltati gli uomini che “da diversi mesi provano a far valere il diritto ad un trattamento umano, rimanendo inascoltati e invisibili”. La situazione è sempre più problematica. In primis la struttura. D’inverno ci sono problemi con il riscaldamento ed in estate non ha mai funzionato l’impianto di condizionamento dell’aria. “Le condizioni di caldo asfissiante, in un’area dove non esiste alcun tipo di ristoro dal sole, poiché interamente costruita in cemento - denuncia sempre Lasciatecientrare - hanno costretto i reclusi ogni giorno a dormire all’esterno degli abitati, che sono cubicoli senza finestra non coibentati e che nelle ore più calde diventano delle fornaci”. Ma è l’assistenza sanitaria il punto critico principale del Cpr sia per chi vi arriva già in precarie condizioni di salute che di chi vi si ammala. “Intanto - sottolinea Lasciatecientrare - sarebbe opportuno fare delle verifiche stringenti sulle certificazioni mediche e quindi sui certificatori che autorizzano la possibilità di ingresso e permanenza nel Cpr”. Viene evidenziato che persone con patologie psichiatriche incompatibili con la vita in detenzione, sono state recluse nella struttura. Ci sono casi disumani che sono stati denunciati. Uno riguarda un uomo tunisino, affetto da una semiparalisi e con un esito di resezione del colon: poiché il Cpr possiede solo bagni turchi, egli deve essere legato con corde improvvisate per accedere ai servizi igienici. Oppure emblematica la denuncia riguardante il caso di un uomo che ingoia 3 pile e beve detersivo. Chiede un supporto medico che gli viene negato. Da suoi contatti esterni viene avvisato il centro antiveleni dell’ospedale Niguarda di Milano, che consiglia un ricovero immediato per il ragazzo. Contemporaneamente viene contattato il 118 da attivisti e medici, ma al ragazzo verrà fornita soltanto una “purga”, senza visita medica. Lo stesso verrà rimpatriato quando ha ancora le pile nello stomaco. Roma. Da galeotti a barman. Appio, il pub è...pentito di Francesca Conidi Leggo, 28 novembre 2019 Con la Onlus “Semi di libertà” gli ex detenuti trovano lavoro. Sbarre, manette e frasi presenti sulle mura del locale evocano a gran voce il mondo della prigione. Il pub “Vale la pena”, all’Alberone, ci tiene a ricordarlo quel mondo, come tiene a sottolineare che è possibile una seconda vita per chi si lascia alle spalle il carcere e gli errori che lo hanno condotto fin lì. In questo posto infatti, grazie ad un progetto promosso dalla Onlus “Semi di libertà”, riescono a trovare lavoro gli ex detenuti che vogliono percorrere una strada nuova, lontana dalla delinquenza. “Abbiamo la mission di contrastare la recidiva delle persone in esecuzione penale, ovvero evitare che facciano altri reati una volta usciti dalla prigione”, spiega Paolo Strano, Presidente della Onlus che ha avviato il progetto. “Purtroppo in Italia è quasi la normalità, visto che le statistiche evidenziano che il 70% dei pregiudicati non riesce a correggere i propri comportamenti illegali. Il problema è enorme perché sono tanti i costi che il detenuto deve affrontare una volta tornato in libertà, sia dal punto di vista sociale sia da quello economico, e non sempre trova alternative al crimine”. Grazie all’associazione, che ha promosso l’attività di Economia carceraria a Rebibbia, nel 2014 è stato aperto un birrificio all’interno del penitenziario romano, germoglio dal quale è sbocciata nel 2018 la realizzazione di questo Pub. “Con l’intenzione di fare un passo avanti nella nostra iniziativa di inclusione sociale, abbiamo formato e inserito dei detenuti nella filiera della birra artigianale”, sottolinea Paolo. A promuovere l’iniziativa ci pensa Oscar La Rosa, Amministratore della piattaforma che ha contribuito alla nascita di “Vale la Pena”. “È un mondo, a volte troppo nascosto, che però è reale. In questo caso le imprese investono sui detenuti con un contratto di lavoro regolare, come avviene nel mondo libero, dandogli la possibilità di mantenere famiglie e saldare le “spese per il mantenimento del condannato” di cui non si parla mai”. “Qui al momento - prosegue Oscar - lavorano tre persone, due detenuti e un volontario. Per noi è fondamentale questa coesione per comunicare all’esterno di non ghettizzare mai nessuno. Fare un progetto di soli carcerati sarebbe stato sbagliato visto che l’obiettivo principale è l’integrazione. Sui nostri taglieri i prodotti dell’economia carceraria e quelli del mondo libero si trovano insieme e si esaltano a vicenda”. Roma. “Bookciak, Azione!”, le detenute-registe nel penitenziario di Rebibbia di Gianfranco Ferroni Italia Oggi, 28 novembre 2019 Graphic novel, romanzi e poesie, con la proiezione dei corti realizzati dalle allieve-detenute di Rebibbia: “Bookciak, Azione!” è tornato nella sezione femminile del carcere romano per lavorare con le classi del liceo artistico Enzo Rossi, presente all’interno del penitenziario. Nell’ambito di speciali laboratori interdisciplinari, guidati dai docenti dell’istituto, le allieve-detenute hanno realizzato i loro bookciak, corti di massimo tre minuti ispirati alle pagine dei libri. Dal graphic novel di Laura Scarpa, War painters 1915-1918 Come l’arte salva dalla guerra, è nato Volti, bookciak vincitore della sezione Rebibbia 2019. “Per le tante detenute che hanno vissuto in prima persona l’esperienza della guerra in Bosnia”, spiegano i docenti Claudio Fioramanti e Lucia Lo Buono che hanno diretto il seminario in carcere, “la scelta del testo di Scarpa è stata quasi immediata. Ognuna a suo modo ha voluto esprimere la guerra quotidiana che vive, ma che grazie all’arte, attraverso la scuola, forse, può essere allontanata e messa da parte. Almeno per un po’. Perché come l’arte salva dalla guerra, la scuola in carcere salva dalla violenza del carcere stesso e aiuta a lenirne la sofferenza”. Nella Casa del Cinema di Roma sono stati mostrati i bookciak vincitori dell’edizione 2019 del premio: “Eroico” di Aurora Alma Bartiromo, studentessa anconetana del Csc di Roma, tratto da “War painters 1915-1918 Come l’arte salva dalla guerra”; “Memorie”, liberamente ispirato al romanzo “La lettrice di Cechov” di Giulia Corsalini, trasformato in un delicato corto di animazione dalle sorelle veneziane Elisa e Serena Lombardo; “Napoli Reload”, di Elettra White ispirato a “La bella Sulamita” di Renato Gorgoni per la sezione Memory Ciak; e infine “La memoria nel corpo”, dall’omonima raccolta di poesie di Antonella Sica, realizzato da 20 allievi del Csc - Centro Sperimentale Piemonte dipartimento di animazione. Milano. “Recuperando il cielo”, voci e immagini dentro e fuori il carcere milanotoday.it, 28 novembre 2019 “Recuperando il cielo. Voci e immagini dentro e fuori il carcere” è la nuova iniziativa promossa da Attraversamenti luoghi Arti Culture in collaborazione con Consorzio VialedeiMille di Milano. L’evento si svolgerà presso il negozio del Consorzio - il primo dedicato interamente all’economia carceraria - in viale di Mille 1 (angolo Piazzale Dateo), martedì 26 novembre dalle 18.00 alle 20.00 e vedrà protagonisti i linguaggi della fotografia e della poesia, in linea con l’approccio già sperimentato per altri eventi organizzati a partire dal maggio 2018 da Attraversamenti Luoghi Arti Culture. In particolare, il Consorzio ospiterà dal 26 novembre al 15 dicembre una mostra fotografica curata da Giovanna Gammarota - Recuperando il cielo - composta da tre sezioni: “Qui dentro”, “Là fuori”, “Recuperati” che presenta alcuni lavori realizzati da detenuti delle Carceri di San Vittore e Bollate nel corso dei laboratori tenuti dalla critica e storica dell’arte Gigliola Foschi e dal direttore della Galleria San Fedele Andrea Dall’Asta, tra il 2003 e il 2005. Le immagini selezionate ruotano intorno alla dialettica dentro/fuori che connota la condizione carceraria ma mettono a fuoco anche l’istanza del recupero, sociale e individuale, dei detenuti, molto spesso considerati invece come scarti. I linguaggi artistici e i loro immaginari possono contribuire a “[…] riconoscere la consapevolezza del proprio stato e accompagnare le persone verso un percorso di riscatto” (Giovanna Gammarota) Anche per questo insieme alla mostra, le testimonianze degli ospiti si alterneranno a quelle di detenuti ed ex detenuti sulle loro esperienze creative e soprattutto, alla lettura di poesie scritte dai partecipanti ai laboratori di poesia condotti nella Casa di Reclusione di Milano - Bollate negli anni da Maddalena Capalbi (che per questa sua attività ha ricevuto l’Ambrogino d’oro dal Comune di Milano). Alla serata saranno presenti oltre a Gigliola Foschi e a Maddalena Capalbi, Nino Iacovella (poeta e tra i fondatori del blog di poesia “Perigeion”), Francesco Capizzi Cisky-Mck (poeta e rapper) e gli ideatori del progetto Attraversamenti Sergio Di Giorgi e Giovanna Gammarota. A conclusione dell’incontro si svolgerà l’inaugurazione della mostra accompagnata da un aperitivo (con contributo libero dei partecipanti) che vedrà protagonisti i prodotti eno-gastronomici in vendita presso il concept store di viale dei Mille. Milano. Pereira presenta ai detenuti la Tosca: “è la mia ultima prima” ansa.it, 28 novembre 2019 Alexander Pereira è tornato in carcere a San Vittore a raccontare ai detenuti la Tosca che il 7 dicembre inaugura la stagione della Scala, come ormai fa ogni anno dal 2014, cioè dal suo arrivo alla guida del teatro milanese. Anche quest’anno una quarantina fra donne e uomini ha ascoltato il racconto della trama e fatto domande sull’opera e non solo. Visto che è l’ultimo anno da sovrintendente del Piermarini, dato che dal 15 dicembre andrà a dirigere il Maggio Fiorentino, a Pereira è stato chiesto quale opera, di quelle realizzate a Milano, gli è rimasta nel cuore. E lui ha risposto che “quello a cui sei più affezionato è sempre l’ultimo bambino”, dunque “questa Tosca, che è emozionante, e sarà anche la mia ultima prima”. In realtà, un po’ di Pereira ci sarà anche nelle inaugurazioni dei prossimi due anni. Se il suo successore Dominique Meyer non cambierà la programmazione. il prossimo anno - ha spiegato Pereira - l’apertura dovrebbe essere con Otello e quello successivo con Macbeth, con Anna Netrebko nel ruolo forte di Lady Macbeth. “È una delle migliori cantanti del mondo - ha sottolineato - È difficile trovarne di migliori per ruoli forti”. Sarà lei Tosca il 7 dicembre, con un cast che include il tenore Francesco Meli e il baritono Luca Salsi. “Il racconto sarà nel passato, non una Tosca in blue jeans” ha assicurato aggiungendo che il regista Davide Livermore ha deciso di utilizzare comunque dei video “per rendere più plastica” la vicenda. I detenuti hanno anche chiesto al sovrintendente se la Scala potrebbe mettere sotto la sua egida un nuovo gruppo teatrale interno al carcere. Pereira non ha chiuso alla possibilità ma ha rilanciato con un progetto per far esibire insieme i cori del carcere di San Vittore, di Firenze e di Bologna. “Mi sembra molto bello” ha aggiunto. La diffusione della musica d’altronde è sempre stato uno dei suoi obiettivi, motivo per cui ha, ad esempio, istituito le opere per bambini. E non solo. Negli anni si è sempre più irrobustito il programma della Prima diffusa che porta una serie di eventi legati all’opera inaugurale in tutta la città (quest’ anno ne fa parte anche un concerto di Patti Smith), e permette anche di vederla in diretta in diversi punti della città: dall’ospedale Niguarda, all’Ottagono, al liceo Virgilio, al mercato comunale di Corvetto, alla palestra Heracles. E, ovviamente, a San Vittore dove insieme ai detenuti vedranno l’opera una settantina di ospiti fra cui assessori, magistrati ma anche personaggi come la scenografa Margherita Palli. Una serata con un rinfresco realizzato grazie a una serie di donazioni, a partire dai 40 panettoni messi da Coop fino al riso. Papa Francesco: “Basta con l’ipocrisia di chi parla di pace e guadagna con le armi” L’Osservatore Romano, 28 novembre 2019 L’incontro con i giornalisti durante il volo verso Roma. Come è consuetudine al termine di ogni viaggio apostolico, sull’aereo che da Tokyo lo stava riportando a Roma, martedì 26 novembre, Francesco ha voluto incontrare i giornalisti al seguito. Prima di rispondere alle loro domande, il Pontefice ha accolto il saluto del direttore della Sala stampa della Santa Sede, Matteo Bruni, e ha così introdotto il colloquio: “Ringrazio per il vostro lavoro, perché davvero è stato un viaggio intenso e anche con un cambio di categorie, perché una cosa era la Tailandia, un’altra cosa il Giappone. Non si può valutare le cose con una stessa categoria; le realtà vanno valutate secondo le categorie che provengono dalla stessa realtà. E queste erano due realtà totalmente diverse. Perciò ci vuole doppio lavoro, e grazie a voi di questo, anche delle giornate molto intense, credo che il lavoro è stato forte. Ringrazio. Io mi sono sentito vicino a voi in questo lavoro. Grazie. [Padre Makoto Yamamoto, “Catholic Shimbum”]: La ringraziamo di cuore per essere venuto in Giappone da così lontano. Io sono sacerdote diocesano di Fukuoka, proprio vicino a Nagasaki. Vorrei chiederle questo: lei ha visitato Nagasaki e Hiroshima. Santo Padre, come si è sentito? Vorrei chiederle un’altra cosa: la società e la Chiesa occidentale hanno qualcosa da imparare dalla società e dalla Chiesa orientale? Comincio dall’ultima. C’è una cosa che a me ha illuminato tanto, un detto: “Lux ex Oriente, ex Occidente luxus”. La luce viene dall’Oriente, il lusso, il consumismo viene dall’Occidente. C’è proprio questa saggezza orientale, che non è saggezza soltanto di conoscenza, è saggezza di tempi, saggezza di contemplazione. Alla società occidentale - troppo di fretta, sempre - aiuta tanto imparare un po’ di contemplazione, fermarsi, guardare anche poeticamente le cose. Sai? Pensando questo - questa è un’opinione personale -, credo che all’Occidente manchi un po’ di poesia. Ce ne sono di cose poetiche bellissime, ma l’Oriente va oltre. L’Oriente è capace di guardare le cose con occhi che vanno oltre; non vorrei usare la parola “trascendente”, perché alcune religioni orientali non fanno accenno alla trascendenza, ma certamente sì ad una visione oltre il limite dell’immanenza, senza dire trascendenza, oltre. Per questo parlo di “poesia”, di ciò che è gratuità, cercare la propria perfezione nel digiuno, nelle penitenze e anche nella lettura della saggezza dei saggi orientali. Credo che a noi occidentali fermarci un po’ e dare tempo alla saggezza farà bene. La cultura della fretta [ha bisogno] della cultura del “fermati un po’”. Fermati. Non so se serve questo per chiarire la differenza e ciò di cui noi avremmo bisogno. La prima [domanda]: Nagasaki e Hiroshima. Ambedue hanno sofferto la bomba atomica, e questo le rende simili. Ma c’è una differenza. Nagasaki non ha avuto solo la bomba, ma anche i cristiani. Nagasaki ha radici cristiane, un cristianesimo antico. La persecuzione dei cristiani c’era in tutto il Giappone, ma a Nagasaki molto forte. Il segretario della Nunziatura mi ha regalato un facsimile in legno dove c’è il “wanted” di quel tempo: “Si cercano cristiani! Se ne trovi uno, denuncialo e avrai tanto, se trovi un sacerdote, denuncialo e avrai tanto”. Una cosa così, andrà al museo. Colpisce questo: sono stati secoli di persecuzioni. Questo è un fenomeno cristiano, che “relativizza”, nel senso buono della parola, la bomba atomica, perché sono due cose. Se uno va a Nagasaki pensando soltanto: “Sì, va bene, era cristiana… Ma c’è stata la bomba atomica”, e si ferma lì [trascura una parte della sua storia]. Invece andare a Hiroshima è soltanto per la bomba atomica, perché non è una città cristiana come Nagasaki. Per questo io sono voluto andare in ambedue. È vero, in ambedue c’è stato il disastro atomico. Hiroshima è stata una vera catechesi umana sulla crudeltà. La crudeltà. Non ho potuto vedere il museo di Hiroshima, perché sono stato giusto il tempo [dell’incontro], perché è stata una giornataccia quella, ma dicono che è terribile, terribile: lettere dei Capi di Stato, dei generali che spiegavano come si poteva fare un disastro più grande. Per me è stata un’esperienza molto più toccante di quella di Nagasaki. A Nagasaki è stata quella del martirio: ho visto un po’ il museo - en passant - del martirio; ma quella di Hiroshima, molto toccante. E lì ho ribadito che l’uso delle armi nucleari è immorale - questo deve andare nel Catechismo della Chiesa Cattolica -, e non solo l’uso, anche il possesso, perché un incidente, [a causa] di un possesso, o la pazzia di qualche governante, la pazzia di uno può distruggere l’umanità. Pensiamo a quel detto di Einstein: “La quarta guerra mondiale si farà coi bastoni e con le pietre”. [Shinichi Kawarada, “The Asahi Shimbum”]: Vorrei fare una domanda sul nucleare. Come lei ha giustamente indicato, una pace duratura non è realizzabile senza un disarmo. Il Giappone è un Paese che gode della protezione nucleare degli Usa, ed è anche produttore di energia nucleare, cosa che comporta un grande rischio per l’ambiente e per l’umanità, come è stato tragicamente dimostrato dall’incidente di Fukushima. Come può il Giappone contribuire alla realizzazione della pace mondiale? Dovrebbero essere spente le centrali nucleari? Torno sul possesso di industrie nucleari. Sempre può accadere un incidente. Voi lo avete sperimentato, anche il triplice disastro, che ha distrutto tanto. Il nucleare è al limite. Le armi escludiamole, perché quella è distruzione. Ma l’uso del nucleare è molto al limite, perché ancora non siamo arrivati alla sicurezza totale. Non ci siamo arrivati. Tu potresti dirmi: “Sì, anche con l’elettricità si può fare un disastro per una mancanza di sicurezza”. Ma è un disastro piccolo. Un disastro nucleare, di una centrale nucleare, sarà un disastro grande. E ancora non è stata elaborata la sicurezza. Io - ma è un’opinione personale - non userei l’energia nucleare finché non ci sia una totale sicurezza dell’uso. Ma io sono profano in questo e dico un’idea. Alcuni dicono che l’energia nucleare è contraria alla custodia del creato, che lo distruggerà e che si deve fermare. È in discussione. Io mi fermo sulla sicurezza. Non ha la sicurezza per impedire un disastro. Sì, è uno nel mondo in dieci anni, ma poi [incide] sul creato: il disastro della potenza nucleare sul creato, e anche sulla persona. Ancora dura il disastro nucleare in Ucraina, per tanti anni. Distinguo dalla guerra, dalle armi. Ma qui dico che dobbiamo fare ricerca sulla sicurezza, sia sui disastri sia sull’ambiente. E sull’ambiente credo che siamo andati oltre il limite, oltre il limite: nell’agricoltura ad esempio i pesticidi, nell’allevamento dei polli - i medici dicono alle mamme di non dare da mangiare i polli di allevamento, perché sono ingrassati con gli ormoni e ai bambini faranno male alla salute -; tante malattie rare che ci sono oggi a causa dell’uso non buono per l’ambiente. Sono malattie rare. I cavi elettrici e tante altre cose... La custodia dell’ambiente è una cosa che va fatta oggi o mai più. Ma tornando sull’energia nucleare: costruzione, sicurezza e custodia dell’ambiente. [Elisabetta Zunica, “Kyoto News”]: Hakamada Iwao è un condannato a morte giapponese, in attesa della revisione del processo. Era presente alla messa al Tokyo Dome, ma non ha avuto modo di parlare con lei. Ci potrebbe confermare se fosse in programma o no un breve incontro con lei? Perché il tema della pena di morte in Giappone è molto discusso. Poco più di un mese prima della modifica del Catechismo su questo tema, è stata eseguita la condanna di ben 13 detenuti. Su questo tema non c’è un riferimento nei suoi discorsi di questa visita. Come mai, non si è voluto pronunciare in questa occasione, oppure ha avuto modo di parlarne con il primo ministro Abe? Su quel caso della pena di morte, l’ho saputo dopo, non sapevo di quella persona: non lo sapevo. Con il Primo Ministro ho parlato in generale di tanti problemi: di processi di condanne eterne che non finiscono mai, sia con la morte sia senza la morte. Ma di questo ho parlato come di un problema generale, che esiste anche in altri Paesi: le carceri sovraffollate, la gente che aspetta con una prigionia preventiva, senza presunzione di innocenza... Aspetta lì, aspetta, aspetta... Quindici giorni fa ho fatto un intervento al convegno internazionale di diritto penale e ho parlato nel merito di questo tema: il tema delle carceri, il tema della precauzione [custodia cautelare] e poi della pena di morte, di cui è stato chiaramente detto che non è morale, non si può fare. Credo che questo va insieme a una coscienza che si sviluppa sempre di più. Ad esempio, alcuni Paesi non osano l’abolizione per problemi politici ma fanno la sospensione: è un modo di dichiarare, senza dichiarare: l’ergastolo, per esempio. Ma il problema è che la condanna deve essere sempre per il reinserimento: una condanna senza “finestre” di orizzonte non è umana. Anche l’ergastolo: si deve pensare come un ergastolano può reinserirsi, dentro o fuori. Ma sempre ci vuole l’orizzonte, il reinserimento. Lei mi dirà: ma ci sono condannati pazzi, per un problema di malattia, di pazzia, di incorreggibilità genetica, per così dire... Ma bisogna cercare il modo che almeno possano fare delle cose che li facciano sentire persone. Oggi, in tante parti del mondo le carceri sono sovraffollate, sono depositi di carne umana, che invece di crescere in salute, tante volte si corrompe per questo. Dobbiamo lottare contro la pena di morte, a poco a poco... Ci sono casi che a me danno gioia perché ci sono Stati, Paesi che dicono: ci fermiamo. Ho parlato con il governatore di uno Stato, lo scorso anno, e lui prima di lasciare il posto ha fatto quella sospensione quasi definitiva. Sono passi, passi di una coscienza umana. Invece, altri Paesi ancora non sono riusciti a inserirlo nella linea dell’umanità. [Jean-Marie Guénois, “Le Figaro”]: Lei ha detto che la vera pace può essere solo una pace disarmata. Ma che cosa succede per la legittima difesa, quando un Paese è attaccato da un altro? In questo caso, esiste ancora la possibilità di una “guerra giusta”? Piccola domanda: si è parlato di un’enciclica sulla non violenza: è ancora in progetto, questa enciclica sulla non violenza? Due domande. Sì, il progetto c’è, ma la farà il prossimo Papa, perché a mala pena ho tempo di... Ci sono progetti che sono nei cassetti...: uno sulla pace, per esempio, è lì, sta maturando, e quando sarà il momento lo farò. Ma parlo abbastanza di questo: per esempio, il problema del bullying con i ragazzi delle scuole, è un problema di violenza, ne ho parlato proprio ai giovani giapponesi, sull’argomento. È un problema che con tanti programmi educativi stiamo cercando di aiutare a risolvere. È un problema di violenza, e i problemi di violenza si devono affrontare... Ma un’enciclica sulla non violenza ancora non me la sento matura, devo pregare di più e cercare la via. Sulla pace e le armi: c’è quel detto romano “Si vis pacem, para bellum”. Lì non siamo stati maturi. Le Organizzazioni internazionali non riescono, le Nazioni Unite non riescono... Fanno tante cose, tante mediazioni, è meritevole. Paesi come la Norvegia, per esempio: sempre disposti a mediare, a cercare un’uscita per evitare le guerre... Questo si sta facendo e a me piace. Ma è poco, ancora si deve fare di più. Lei pensi - senza offendere - al Consiglio di Sicurezza: c’è un problema con le armi, tutti d’accordo per risolvere quel problema per evitare un incidente bellico, tutti votano sì, uno col diritto di veto vota no e tutto si ferma. Ho sentito - io non sono in grado di giudicare se è buono o no, è un’opinione che ho sentito - che forse le Nazioni Unite dovrebbero fare un passo in avanti rinunciando nel Consiglio di Sicurezza al diritto di veto di alcune nazioni. Non sono tecnico, in questo, ma l’ho sentito come una possibilità. Non so cosa dire, ma sarebbe bello che tutti avessero lo stesso diritto. Nell’equilibrio mondiale ci sono argomenti che in questo momento io non sono capace di giudicare. Ma tutto quello che si può fare per fermare la produzione di armi, per fermare le guerre, andare al negoziato, anche con l’aiuto dei facilitatori, questo di deve fare sempre, sempre. E dà dei risultati: alcuni dicono pochi, ma incominciamo con il poco, poi andiamo oltre con i risultati del negoziato per cercare di risolvere dei problemi. Per esempio, nel caso di Ucraina-Russia: non si parla di armi, è stato il negoziato per lo scambio di prigionieri, questo è positivo. È sempre un passo per la pace. C’è stato adesso un confronto per pensare a una pianificazione di un regime governativo nel Donbass, diverso, e stanno discutendo: questo è un passo avanti della pace. È successa, poco tempo fa, una cosa bella e brutta. La cosa brutta è - devo dirlo - l’ipocrisia “armamentista”. Paesi cristiani - almeno di cultura cristiana -, Paesi europei - si dice “Europa culta” - che parlano di pace e vivono delle armi: ipocrisia, si chiama questa. È una parola evangelica: Gesù la dice tante volte nel capitolo 23° di Matteo. Bisogna finirla con questa ipocrisia. Che una Nazione abbia il coraggio di dire: “Io non posso parlare di pace, perché la mia economia guadagna tanto con la fabbricazione delle armi”. Senza insultare e senza sporcare quel Paese, ma parlare come fratelli, la fratellanza umana: fermiamoci, ragazzi, fermiamoci, perché la cosa è brutta! In un porto - adesso non lo ricordo bene - in un porto è arrivata da un Paese una nave piena di armi che doveva consegnare a una nave più grande diretta nello Yemen. Noi sappiamo cosa succede nello Yemen. E i lavoratori del porto hanno detto “no”. Sono stati bravi! E la nave è tornata a casa sua. È un caso, ma ci insegna come ci si deve comportare su questo. La pace oggi è molto debole, molto debole, ma non bisogna scoraggiarsi. E con le armi favoriamo questa debolezza. [Jean-Marie Guénois, “Le Figaro”:] E la legittima difesa con le armi? L’ipotesi della legittima difesa rimane sempre. È un’ipotesi che anche nella teologia morale va contemplata, ma come ultima risorsa. Ultima risorsa, con le armi. La legittima difesa va fatta con la diplomazia, con le mediazioni. Ultima risorsa la legittima difesa con le armi. Ma sottolineo: ultima risorsa! Noi stiamo andando avanti in un progresso etico che a me piace, nel mettere in questione tutte queste cose. Questo è bello: dice che l’umanità va avanti anche per il bene, non solo per il male. Grazie a Lei. [Cristiana Caricato, “TV 2000”]: La gente legge sui giornali che la Santa Sede ha acquistato immobili per centinaia di milioni nel cuore di Londra, e rimane un po’ sconcertata da questo uso delle finanze vaticane, in particolare quando viene coinvolto anche l’Obolo di San Pietro. Lei sapeva di queste operazioni finanziarie? E soprattutto, secondo Lei, è corretto l’uso che viene fatto dell’Obolo di San Pietro? Lei spesso ha detto che non si devono fare i soldi con i soldi, spesso ha denunciato quest’uso spregiudicato della finanza, poi però vediamo che queste operazioni coinvolgono anche la Santa Sede, e questo scandalizza. Come vede tutta questa vicenda? Grazie. Prima di tutto, la buona amministrazione normale: arriva la somma dell’Obolo di San Pietro, e che cosa faccio? La metto nel cassetto? No. Questa è una cattiva amministrazione. Cerco di fare un investimento, e quando ho bisogno di dare, quando ho le necessità, durante l’anno, si prendono i soldi, e quel capitale non si svaluta, si mantiene o cresce un po’. Questa è una buona amministrazione. Invece l’amministrazione “del cassetto” è cattiva. Ma si deve cercare una buona amministrazione, un buon investimento: chiaro questo? Anche un investimento… da noi si dice “un investimento da vedove”, come fanno le vedove: due uova qui, tre qui, cinque lì. Se cade uno, c’è l’altro, e non si rovinano. È sempre su qualcosa di sicuro, è sempre su qualcosa di morale. Se tu fai un investimento dell’Obolo di San Pietro su una fabbrica di armamenti, l’Obolo lì non è più l’Obolo! Se tu fai un investimento e stai per anni senza toccare il capitale, non va. L’Obolo di San Pietro [di un anno] si deve spendere durante un anno, un anno e mezzo, fino a che arrivi l’altra colletta, quella che si fa a livello mondiale. Questa è buona amministrazione: sul sicuro. E sì, si può anche comprare una proprietà, affittarla, e poi venderla, ma sul sicuro, con tutte le sicurezze per il bene della gente e dell’Obolo. Questo è un aspetto. Poi è accaduto quello che è accaduto: uno scandalo, hanno fatto cose che non sembrano pulite. Ma la denuncia non è venuta da fuori. Quella riforma della metodologia economica che aveva già incominciato Benedetto XVI è andata avanti, ed è stato il Revisore dei conti interno a dire: qui c’è una cosa brutta, qui c’è qualcosa che non funziona. È venuto da me e gli ho detto: “Ma Lei è sicuro?” - “Sì”, mi ha risposto, mi ha fatto vedere i numeri. “Cosa devo fare?” - “C’è la giustizia vaticana: vada e faccia la denuncia al Promotore di Giustizia”. E in questo io sono rimasto contento, perché si vede che l’amministrazione vaticana adesso ha le risorse per chiarire le cose brutte che succedono dentro, come questo caso, che, se non è il caso dell’immobile di Londra - perché ancora questo non è chiaro -, tuttavia lì c’erano casi di corruzione. Il Promotore di Giustizia ha studiato la cosa, ha fatto le consultazioni e ha visto che c’era uno squilibrio nel bilancio. Poi ha chiesto a me il permesso di fare le perquisizioni. Ho detto: “È chiaro questo suo [studio]?” - “Sì, c’è una presunzione di corruzione e in questi casi io devo fare perquisizioni in questo ufficio, in questo ufficio, in questo ufficio…”. E io ho firmato l’autorizzazione. È stata fatta la perquisizione in cinque uffici e al giorno d’oggi - sebbene ci sia la presunzione di innocenza - ci sono capitali che non sono amministrati bene, anche con corruzione. Credo che in meno di un mese incominceranno gli interrogatori delle cinque persone che sono state bloccate perché c’erano indizi di corruzione. Lei potrà dirmi: questi cinque sono corrotti? No, la presunzione di innocenza è una garanzia, un diritto umano. Ma c’è corruzione, si vede. Con le perquisizioni si vedrà se sono colpevoli o no. È una cosa brutta, non è bello che succeda questo in Vaticano. Ma è stato chiarito dai meccanismi interni che cominciano a funzionare, che Papa Benedetto aveva cominciato a fare. Per questo ringrazio Dio. Non ringrazio Dio che ci sia la corruzione, ma ringrazio Dio che il sistema di controllo vaticano funziona bene. [Philip Pullella]: Se mi permette volevo proseguire un po’ su questa domanda che ha fatto Cristiana, con un po’ più di dettagli. C’è molta preoccupazione nelle ultime settimane per quello che sta succedendo nelle finanze del Vaticano, e secondo alcuni c’è una guerra interna su chi deve controllare i soldi. La maggior parte dei membri del consiglio di amministrazione dell’Aif si è dimessa. Il gruppo Egmont, che è il gruppo di queste autorità finanziarie, ha sospeso il Vaticano dalle comunicazioni sicure dopo il raid del 1° ottobre. Il direttore dell’Aif è ancora sospeso, come ha detto Lei, e ancora non c’è un Revisore generale. Cosa può fare o dire Lei per garantire alla comunità finanziaria internazionale e ai fedeli in generale, che sono chiamati a contribuire all’Obolo, che il Vaticano non tornerà a essere considerato un “paria” da tenere escluso, di cui non fidarsi, e che le riforme continueranno e che non si tornerà alle abitudini del passato? Grazie della domanda. Il Vaticano ha fatto passi avanti nella sua amministrazione. Per esempio lo Ior oggi è accettato da tutte le banche e può agire come le banche italiane, normalmente, cosa che un anno fa ancora non c’era. Ci sono stati dei progressi. Poi, riguardo al gruppo Egmont. Il gruppo Egmont è una cosa non ufficiale, internazionale; è un gruppo a cui appartiene l’Aif. E il controllo internazionale non dipende dal gruppo Egmont, il gruppo Egmont è un gruppo privato, che ha il suo peso, ma è un gruppo privato. Monyeval farà l’ispezione: l’ha programmata per i primi mesi dell’anno prossimo e la farà. Il direttore dell’Aif è sospeso, perché c’erano sospetti di non buona amministrazione. Il presidente dell’Aif ha fatto forza con il gruppo Egmont per riprendere la documentazione, e questo la giustizia non può farlo. Davanti a questo io ho fatto la consultazione con un magistrato italiano, di livello: cosa devo fare? La giustizia davanti a un’accusa di corruzione è sovrana in un Paese, è sovrana, nessuno può immischiarsi lì dentro, nessuno può dare le carte al gruppo Egmont [e dire]: “Le vostre carte sono qui”. No. Devono essere studiate le carte che fanno [emergere] quella che sembra una cattiva amministrazione nel senso di un cattivo controllo: è stato l’Aif - sembra - a non controllare i delitti degli altri. Il suo dovere era controllare. Io spero che si provi che non è così, perché ancora c’è la presunzione di innocenza; ma per il momento il magistrato è sovrano e deve studiare come è andata; perché al contrario un Paese avrebbe una amministrazione superiore che lederebbe la sovranità del Paese. Il presidente dell’Aif scadeva il 19 [novembre]; io l’ho chiamato alcuni giorni prima e lui non si è accorto che lo stavo chiamando - così mi ha detto. E ho annunciato che il 19 lasciava. Ho trovato già il successore: un magistrato di altissimo livello giuridico ed economico nazionale e internazionale, e al mio rientro prenderà la carica nell’Aif e continuerà la cosa così. Sarebbe stato un controsenso che l’autorità di controllo fosse sovrana sopra lo Stato. È una cosa non facile da capire. Ma quello che ha un po’ disturbato è il gruppo Egmont, che è un gruppo privato: aiuta tanto, ma non è l’autorità di controllo del Moneyval. Moneyval studierà i numeri, studierà le procedure, studierà come ha agito il Promotore di Giustizia e come il giudice e i giudici hanno determinato la cosa. So che in questi giorni incomincerà - o è incominciato - l’interrogatorio di alcuni dei cinque che sono stati sospesi. Non è facile, ma non dobbiamo essere ingenui, non dobbiamo essere schiavi. Qualcuno mi ha detto - ma io non credo -: “Sì, con questo fatto che abbiamo toccato il gruppo Egmont, la gente si spaventa…”. E si sta facendo un po’ di terrorismo [psicologico]. Ma lasciamo da parte. Noi andiamo avanti con la legge, con il Moneyval, con il nuovo presidente dell’Aif. E il direttore è sospeso, ma magari fosse innocente, io lo vorrei, perché è una cosa bella che una persona sia innocente e non colpevole. Ma è stato fatto un po’ di rumore con questo gruppo, che voleva si toccassero le carte che appartenevano al gruppo. [Philip Pulella]: È per garantire ai fedeli che le cose vanno bene? È per garantire questo! Guarda, è la prima volta che in Vaticano la pentola viene scoperchiata da dentro, non da fuori. Da fuori, [è successo] tante volte. Ci hanno detto: “Guarda…”, e noi con tanta vergogna… Ma in questo Papa Benedetto è stato saggio: ha cominciato un processo che è maturato, è maturato e adesso ci sono le istituzioni. Che il Revisore abbia avuto il coraggio di fare una denuncia scritta contro cinque persone…: sta funzionando il Revisore. Davvero non voglio offendere il gruppo Egmont, perché fa tanto bene, aiuta, ma in questo caso la sovranità dello Stato è la giustizia. La giustizia è più sovrana anche del potere esecutivo. Più sovrana. Non è facile da capire, ma vi chiedo di capire questa difficoltà. Grazie a Lei. [Roland Juchem, “cic]: Santo Padre, sul volo da Bangkok a Tokyo ha mandato un telegramma alla signora Carrie Lam di Hong Kong. Che cosa pensa della situazione lì, con le manifestazioni e dopo le elezioni comunali? E quando potremo accompagnarla a Pechino? I telegrammi si mandano a tutti i capi di Stato, è una cosa automatica: sono un saluto e anche un modo cortese di chiedere permesso di sorvolare il loro territorio. Questo non ha un significato né di condanna né di appoggio. È una cosa meccanica che tutti gli aerei fanno: quando tecnicamente entrano, avvisano che stanno entrando, e noi lo facciamo con cortesia. Salutiamo. Questo non ha alcun valore nel senso che Lei domanda, soltanto un valore di cortesia. L’altra cosa che Lei mi chiede è cosa penso [della situazione di Hong Kong]. Ma non è soltanto Hong Kong: pensi al Cile, pensi alla Francia, la democratica Francia: un anno di “gilet gialli”. Pensi al Nicaragua, pensi ad altri Paesi latinoamericani, il Brasile, che hanno problemi del genere, e anche a qualche Paese europeo. È una cosa generale. Che cosa fa la Santa Sede con questo? Chiama al dialogo, alla pace... Ma non è solo Hong Kong, ci sono varie realtà che hanno dei problemi che io in questo momento non sono capace di valutare. Io rispetto la pace e chiedo la pace per tutti questi Paesi che hanno dei problemi. Problemi così ci sono anche in Spagna... Conviene relativizzare le cose e chiamare al dialogo, alla pace, perché si risolvano i problemi. [Roland Juchem, “cic”]: E quando andrà a Pechino? Ah, mi piacerebbe andare a Pechino! Io amo la Cina... [Valentina Alazraki, “Televisa”]: L’America Latina è in fiamme. Abbiamo visto dopo il Venezuela e Cile immagini che non pensavamo di vedere dopo Pinochet. Abbiamo visto la situazione in Bolivia, Nicaragua o altri Paesi: rivolte, violenza nelle strade, morti, feriti, anche chiese bruciate, violate. Qual è la sua analisi su quello che sta succedendo in questi Paesi? La Chiesa e lei personalmente, come Papa latinoamericano, state facendo qualcosa? Qualcuno mi ha detto questo: “Si deve fare un’analisi”. La situazione oggi nell’America Latina assomiglia a quella del 1974-1980, dove in Cile, Argentina, Uruguay, Brasile, Paraguay con Strössner, e credo anche Bolivia, con Lidia Gueiler, avevano l’operazione Condor in quel momento. Una situazione in fiamme, ma non so se è un problema simile o di altro genere. Davvero, in questo momento non sono capace di fare l’analisi totale di questo. È vero che ci sono dichiarazioni precisamente non di pace. Ciò che accade in Cile mi spaventa, perché il Cile sta uscendo da un problema di abusi che ha fatto soffrire tanto e adesso ha un problema del genere che non capiamo bene. Ma è in fiamme, come Lei dice, e si deve cercare il dialogo e anche l’analisi. Ancora non ho trovato un’analisi ben fatta sulla situazione in America Latina. E [ci sono] anche governi deboli, molto deboli, che non sono riusciti a mettere ordine e pace all’interno. E per questo si arriva a questa situazione. [Valentina Alazraki, “Televisa”]: Evo Morales ha chiesto una sua mediazione, per esempio. Cose concrete... Sì, cose concrete. Il Venezuela ha chiesto la mediazione e la Santa Sede sempre è stata disposta. C’è un buon rapporto; siamo lì presenti per aiutare quando è necessario. La Bolivia ha fatto qualcosa del genere, ancora non so bene su quale strada, devo vedere, ma ha fatto anche una richiesta alle Nazioni Unite che hanno inviato dei delegati, e anche qualche Paese dell’Unione europea. Il Cile, non so se ha fatto qualche domanda di mediazione internazionale. Il Brasile certamente no, ma anche lì ci sono dei problemi. È una cosa un po’ strana, non vorrei dire una parola di più perché sono incompetente, perché non ho studiato bene e sinceramente non capisco bene il problema. Ma approfitto della sua domanda: voi avete parlato poco della Tailandia, e la Tailandia è un’altra cosa, differente dal Giappone, un’altra cultura, totalmente diversa, una cultura della trascendenza, una cultura anche della bellezza, diversa dalla bellezza del Giappone: una cultura con tanta povertà e tante ricchezze spirituali. Ma c’è anche un problema che fa male al cuore e che ci fa pensare a Grecia e le altre [libro di Valentina Alazraki]: Lei è una maestra in questo problema dello sfruttamento, Lei lo ha studiato bene, e il Suo libro ha fatto tanto bene. E la Tailandia, alcuni posti della Tailandia sono duri, sono difficili in questo. Ma c’è la Tailandia del Sud, c’è anche la bella Tailandia del Nord, dove non ho potuto andare, la Tailandia tribale, come c’è l’India del Nordest tribale, che ha tutta un’altra cultura. Io ho ricevuto una ventina di persone di quella zona, i primi cristiani, primi battezzati, che sono venuti a Roma, con un’altra cultura diversa, quelle culture tribali, che in India si conoscono bene, ma in Tailandia ancora non si conoscono bene; è a Nord. E Bangkok, abbiamo visto, è una città modernissima, è una città forte, grande, ma ha dei problemi diversi da quelli del Giappone e ha ricchezze diverse da quelle del Giappone. Questo è importante. Ma il problema dello sfruttamento ho voluto sottolinearlo, e ringrazio Lei per quel Suo libro. Come anche vorrei ringraziare il “libro verde” [L’alfabeto verde di Papa Francesco] di Franca Giansoldati… dov’è? Ah, è lì. Due donne che vengono sul volo e che hanno fatto ognuna un libro che tocca dei problemi di oggi: il problema ecologico, il problema della distruzione della madre terra, dell’ambiente; e il problema dello sfruttamento umano, che Lei ha toccato. Si vede che le donne lavorano più degli uomini e sono capaci: grazie. Grazie a voi, ambedue, per questo contributo. Grazie. E ancora ho nel cuore la camicia di Rocío [il riferimento è alla camicia di una giovane donna messicana assassinata che Valentina Alazraki ha donato al Papa durante una recente intervista]. E a tutti voi, grazie per aver fatto delle domande dirette, grazie. Questo fa bene, fa sempre bene. Pregate per me. Buon pranzo. Grazie. Esiste il diritto a vivere ma anche quello a morire: la via maestra della Corte costituzionale di Stefano Ceccanti Il Riformista, 28 novembre 2019 Aiuto al suicidio: cosa ha detto la Consulta. Se si considerano le reazioni alla prima ordinanza della Corte costituzionale sull’aiuto al suicidio, al comunicato che anticipava la sentenza e quelle al testo definitivo della medesima, non si può non rilevare un consenso crescente. Ciò nonostante il fatto obiettivo che la Corte abbia sviluppato i suoi ragionamenti in modo piuttosto lineare nel tempo. La cosa, in generale, non deve stupirci più di tanto se si pensa che anche la legge sul testamento biologico, analogamente a quella sulle unioni civili, contestate al momento dell’approvazione, hanno visto poi rapidamente consolidare un consenso pressoché unanime. Tant’è che si sono perse per strada le notizie su possibili raccolte di firme su referendum abrogativi. Ciò anche al netto di una più raffinata capacità di discernimento sempre più favorita in questo periodo dall’attuale pontificato, più attento all’obiettiva complessità dei profili giuridici rispetto a facili assertività di principio, a reazioni difensive per il timore di derive libertarie unilaterali che si esprimeva nella retorica dei cosiddetti principi non negoziabili. Il pontificato di Francesco non parte comunque affatto da zero se si considera che l’uso limitato del diritto penale per affermare principi è un portato del Concilio Vaticano II, in particolare della dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis Humanae e che aveva avuto ulteriori sviluppi anche nell’Enciclica Evangelium Vitae di Giovanni Paolo II, in particolare al suo paragrafo 71. Non c’è però dubbio che solo in questa fase il sistema di distinzioni tra legge morale e legge civile e sulla possibilità di rinuncia a punire comportamenti ritenuti negativi sembra acquisire un maggiore rilievo coerente e sistematico. Lo hanno spiegato bene Giorgio Armillei su www.landino.it e padre Francesco Occhetta su Civiltà Cattolica del 2 novembre. In ogni caso, al di là delle cause, il consenso cresce perché il percorso argomentativo appare particolarmente solido su quella che è una parziale rinunzia a punire. Andiamo a vederlo nel dettaglio. La Corte nella sentenza 242/2019, riparte dalla prima sentenza e quindi dalle sue acquisizioni fondamentali, in particolare dal rifiuto di opporre in maniera unilaterale due principi: il diritto alla vita e quello all’autodeterminazione. Lo Stato protegge la vita ma non fino al punto di condannare sempre e comunque il singolo che, a determinate condizioni, decide di “accogliere la morte”, quasi che la persona fosse di sua proprietà; nel contempo accetta l’autodeterminazione, ma si pone a difesa di chi volesse usarla contro soggetti deboli e vulnerabili spingendoli al suicidio, con una obiettiva eterogenesi dei fini delle teorie libertarie (punto 2.2). Per questo l’aiuto al suicidio resta un disvalore perché rompe i legami comunitari, ma ciò non comporta che vada sempre punito negando a priori qualsiasi forma di autodeterminazione. Lo Stato può arrestarsi e rinunciare a punire, analogamente a quanto accade con l’interruzione volontaria di gravidanza nei casi previsti dalla legge (richiamata esplicitamente nel testo). La Corte ricorda quindi di aver individuato un’area di non punibilità, in cui il ricorso alla pena sarebbe incostituzionale, in relazione a una persona “(a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli. Se la legge sul testamento biologico ha già consentito di chiedere e ottenere la sedazione profonda “non vi è ragione per la quale il medesimo valore debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale”. Questo passaggio è quello chiave sia come fondamento della decisione sia come richiamo a un precedente intervento del Parlamento che consente di evitare vuoti in modo non arbitrario (punto 2.3). Consapevole della delicatezza delle questioni e delle diverse modalità possibili con cui configurare concretamente queste situazioni, a questo punto la Corte ricorda di aver lasciato tempo al Parlamento, ma che esso è passato invano e che non appare neanche “imminente” una nuova legge (punto 3). Come poteva però la Corte agire non creando un semplice vuoto (che sarebbe stato pregiudizievole per i soggetti vulnerabili) e non umiliando il legislatore e la sua discrezionalità, dal momento che il tempo era stato lasciato perché più soluzioni erano astrattamente possibili, che non c’era cioè “un contenuto costituzionalmente obbligato” la cui presenza invece legittima di solito le sentenze additive? Come costruire una sentenza di quel tipo, che aggiunge disposizioni, come se si trattasse di emendamenti parlamentari, e che è immediatamente operativa, se c’era e c’è un margine di discrezionalità politica? La Corte lo spiega chiarendo che essa ha finito per seguire strettamente la logica della legge sul testamento biologico già richiamata in precedenza. È grazie a quella che il vuoto poteva essere riempito e si superava il problema dell’invasione di campo finendo col rimettersi a quanto già fatto dal legislatore stesso. La procedura con la quale l’intervento del medico rientra nelle condizioni di non punibilità è infatti ripresa di peso dalla legge 219 del 2017 sul testamento biologico (punto 5) senza peraltro che ci possa essere alcun vincolo di coscienza per il medico (punto 6). Non si tratta infatti di un diritto soggettivo del paziente né di una depenalizzazione del reato, ma di uno spazio limitato di non punibilità, di rinuncia a punire. Insomma si aggiungono disposizioni ma in sostanza non ci si sostituisce al legislatore perché il materiale per riempire il vuoto è ripreso da una legge di poco precedente. È quello che ragionevolmente il Parlamento avrebbe fatto se fosse stato in grado di superare lo stallo. Se si può parlare di supplenza, sostiene in sostanza la Corte, è il Parlamento che ha votato quella legge che supplisce se stesso e noi siamo in fondo solo i tramiti di questo passaggio. Se poi le Camere vorranno e potranno fare qualcosa di meglio, seguendo un analogo equilibrio tra diritto alla vita e all’autodeterminazione, sarà bene, conclude la Corte, che lo facciano prima possibile: ve lo ribadiamo “con vigore” affermano i giudici (punto 9). Come risolvere infine il caso da cui la questione si era originata (Cappato-Dj Fabo) ed eventuali casi analoghi precedenti, visto che la sentenza non può essere retroattiva mutuando una procedura prima non utilizzabili? I giudici non puniscano, dice pragmaticamente la Corte, se ritengono che ci siano state “garanzie sostanzialmente equivalenti.” (punto 7). È tempo che anche la politica parlamentare riprenda questa pacatezza e razionalità, senza ricorrere a facili unilateralità, visto che essa è sempre più condivisa, anche grazie alla Corte, dalla società italiana. Non tutti quelli che lo desiderano possono farsi aiutare a morire di Massimo Rossi* Libero, 28 novembre 2019 Chi soffre dolori insopportabili per una malattia irreversibile ma non vive grazie a una macchina. E chi non muove neanche un muscolo. Ecco gli esclusi dalla possibilità di scegliere la fine vita. Allora è proprio vero che d’ora in avanti si potrà morire rapidamente, e senza soffrire, dopo aver patito un inferno di dolore dentro a una malattia irreversibile. È questo che ha deciso in sostanza la Corte Costituzionale con la sentenza numero 242 depositata lo scorso venerdì, con cui è stata ampiamente motivata la pronuncia di incostituzionalità parziale della norma di Legge che punisce l’aiuto al suicidio (l’articolo 580 del nostro Codice Penale) già anticipata con il comunicato stampa dello scorso 25 settembre emesso all’esito dell’udienza pubblica di discussione. Aiuto che resta in ogni caso generalmente punibile in tutte le ipotesi di reato diverse da quella, ben circoscritta, specificamente individuata dalla Consulta e, di fatto, riferibile al caso concreto di Dj Fabo, che Marco Cappato, noto radicale ed esponente dell’Associazione Luca Coscioni, ha accompagnato in Svizzera a darsi appunto una morte rapida e indolore; quella che in termini non del tutto felici ma realistici viene spesso definita “la dolce morte”. Non di suicidio in generale stiamo quindi parlando, quello, per intenderci, indotto da sofferenze dell’anima quali una pena d’amore, un dissesto finanziario o la vergogna per un gesto che non si sarebbe voluto commettere. Nel caso Cappato si parla invece delle sofferenze fisiche o psichiche non più sopportabili, indotte da una malattia irreversibile (quand’anche non in stato terminale) patite da un paziente che, perfettamente in grado di autodeterminarsi in piena libertà e autonomia, decide di porre fine alla propria vita rapidamente e senza ulteriori sofferenze assumendo direttamente una sostanza dal nome pentobarbital sodium, prescrittagli da un medico a valle di rigorose verifiche circa la ferma e libera volontà del malato e circa l’effettiva situazione della sua patologia medica. Questo è ciò che fino a pochi giorni fa si poteva fare in alcuni Paesi anche europei, fra cui la Svizzera, ma che non si poteva fare in Italia. Questo è il motivo per cui Marco Cappato è stato incriminato per aver aiutato Fabio Antoniani a recarsi in Svizzera a porre fine alla propria vita e alle proprie non più sopportabili sofferenze. La sentenza della Consulta è stata già bene esaminata, anche su questo giornale, da altri commentatori. Non starò quindi a ricordare e approfondire i numerosi paletti posti dalla Corte a presidio di una corretta procedura che sia rispettosa della specificità dei casi all’interno dei quali è stata riconosciuta la non punibilità. Ciò che mi preme è invece individuare il punto più qualificante della decisione della Consulta. All’interno della propria sentenza, la Corte ricorda che una persona che si trovi nelle condizioni sopra descritte ben potrebbe già decidere di “accogliere la morte” sulla base della legislazione vigente. Il riferimento è alla legge 219 del dicembre 2017 (più nota come legge sul testamento biologico) che prevede la possibilità per il paziente di chiedere formalmente, senza che i medici possano opporsi, l’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale in atto. Ricorda ancora la Consulta che, fra i trattamenti sanitari rifiutabili dal paziente, la medesima legge ricomprende i trattamenti di idratazione e di nutrizione artificiale. La sentenza sottolinea inoltre che, in tale situazione, al paziente la legge vigente garantisce di poter ricorrere alla sedizione profonda, in associazione alla terapia del dolore, per fronteggiare le sofferenze provocate dal suo legittimo rifiuto di trattamenti di sostegno vitale “quali la ventilazione, l’idratazione o l’alimentazione artificiali: scelta che innesca un processo di indebolimento delle funzioni organiche il cui esito - non necessariamente rapido - è la morte”. A dire della stessa Corte, dunque, la legge vigente non garantisce una morte rapida, i cui tempi sono infatti dettati dalla rilevanza vitale delle diverse terapie sanitarie rifiutate. A fronte di questo quadro legislativo la Corte conclude che non si vede il motivo per il quale, se il “valore della vita” non esclude comunque il diritto del paziente di rinunciarvi attraverso il legittimo rifiuto delle terapie anche salva vita, non si possa consentire alla persona di rinunciare al medesimo “valore vita” attraverso una scelta di morte che egli consideri più dignitosa nella sua rapidità, priva di sofferenza e anche in assenza di un periodo più o meno lungo di “annullamento totale e definitivo della coscienza e della volontà del soggetto sino al momento del decesso”. Periodo che i parenti del paziente non potrebbero che vivere con insopportabile sofferenza sul piano emotivo, aspettando un momento non prevedibile nel suo preciso accadimento. Questa lunga premessa serve per introdurre l’argomento vero che mi sta a cuore e che riguarda in qualche modo ciò che, con una sorta di gioco di parole, potrebbe paradossalmente definirsi come un aspetto “incostituzionale” della decisione della Corte Costituzionale in commento. Occorre infatti sottolineare come uno dei paletti fissati dalla Consulta riguardi la circostanza secondo la quale, per rendere non punibile l’aiuto, è altresì necessario che il paziente sia “tenuto in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale”. Siffatta condizione appare a prima vista ledere il diritto costituzionalmente garantito di ciascun cittadino all’uguaglianza davanti alla legge (articolo 3 della Costituzione italiana). Se infatti pensiamo a una persona afflitta da una malattia irreversibile e da dolori non più sopportabili, che però non sia tenuta in vita da una macchina, non si vede perché, per tale solo motivo, questa stessa persona non possa decidere in piena libertà e autonomia di porre fine alla propria vita, con l’assunzione rapida e indolore del pentobarbital sodium, senza dover necessariamente aspettare, in mezzo alle atroci e non più sopportabili sofferenze indotte dalla sua malattia irreversibile, di trovarsi solo di lì a qualche mese, peggiorando nel frattempo la malattia, nella condizione di essere attaccato a una macchina e di poter quindi finalmente optare legittimamente per il suicidio medicalmente assistito. Con la tentazione, magari, di indursi a fingere di avere bisogno di un supporto di ventilazione per essere aiutato a respirare, pur di “coprire” anche tale ultima condizione imposta dalla sentenza della Consulta. Oppure trovandosi lo stesso paziente nella condizione di dover rifiutare cibo e acqua per poter essere alimentato e idratato artificialmente e così creare, in quest’altro modo, la sussistenza del quarto “paletto”. Una situazione, questa, che non potrà non essere considerata, approfondita e risolta, eventualmente con una nuova pronuncia che estenda la parziale incostituzionalità della norma in questione anche a casi come quello testé descritto. Senza considerare che del tutto discriminata appare anche la situazione della persona che, attaccata o non attaccata a una macchina di sostegno vitale che sia, non si trovi nella possibilità, a causa di una totale infermità, di riuscire, da solo, ad attivare il meccanismo che introduce in circolo il pentobarbital sodium. Cosa che Dj Fabo è riuscito a fare con il solo muscolo ancora attivo del suo corpo e cioè quello utile ad aprire e chiudere la bocca. È infatti con un morso, letteralmente, che Dj Fabo ha detto addio alla vita e alle sue sofferenze. Cosa potremmo rispondere, dunque, a chi non fosse in grado di suicidarsi assumendo direttamente e senza l’intervento di terzi la sostanza in questione? Che purtroppo per lui l’alternativa di una morte rapida e indolore non esiste e che potrà quindi solo accedere al rifiuto delle terapie ex legge 219/2017, con tutte le conseguenze del caso, anche in termini di durata di un’agonia, per sè e per i propri famigliari, non preventivabile? Ecco perché qualcuno ha scritto che l’eutanasia, e cioè la buona morte che un medico pietoso potrebbe dare a chi glielo chiede nelle situazioni sopra descritte, è cosa più democratica del suicidio assistito; perché non escluderebbe nessuno e tutti saremmo davvero uguali, almeno di fronte alla morte. *Avvocato componente del collegio di difesa di Marco Cappato Migranti. Su riforma di Dublino e porti chiusi la strada resta ancora in salita di Carlo Lania Il Manifesto, 28 novembre 2019 Riforma di Dublino ma, prima ancora, l’avvio di un meccanismo di distribuzione dei migranti tra gli Stati membri in modo da non vedere più navi cariche di disperati attendere per giorni l’indicazione di un porto sicuro. È lungo questo asse che la commissione guidata da Ursula von der Leyen dovrà provare a riscrivere le politiche europee sull’immigrazione, rese sempre più urgenti anche dalle condizioni drammatiche in cui sono costretti a vivere quasi 40 mila profughi sulle isole greche dell’Egeo. Sono almeno quattro anni, dalla crisi del 2015, che a Bruxelles si prova a rimettere mano al regolamento di Dublino senza mai approdare a nulla per gli interessi contrastanti delle varie capitali. Al punto che un buon testo che andava incontro alle esigenze dei Paesi di primo ingresso e approvato dal parlamento europeo nel 2017, è rimasto chiuso in un cassetto senza neanche essere discusso dal Consiglio europeo. Una situazione di stallo insopportabile, che però adesso potrebbe interrompersi. La Germania appare infatti determinata a raggiungere in tempi stretti un accordo tra gli Stati sulla una bozza di riforma del sistema di asilo europeo presentata da Berlino il 13 novembre scorso. Il testo - che potrebbe essere discusso al summit dei ministri dell’Interno del 2 e 3 dicembre prossimi, stabilisce il superamento del principio per cui la responsabilità di un migrante ricade oggi totalmente sul primo Paese nel quale mette piede e, pur prevedendo un primo esame della richiesta di asilo alla frontiera esterna, instaura un sistema obbligatorio di distribuzione dei profughi basato su quote stabilite in base alla popolazione di ogni Stato e sulla sua forza economica. La determinazione della Germania a superare un meccanismo giudicato “inefficace”, come è spiegato nel documento fatto circolare informalmente nelle capitali, è dimostrata anche dalle pressioni che Berlino proprio in questi giorni sta esercitando sui partner europei chiamandoli a discutere la sua proposta. Una prima riunione è prevista per oggi con Francia, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Austria, Svezia, Finlandia, Danimarca e Portogallo. Domani toccherà invece a Italia, Grecia, Spagna e Cipro i Paesi maggiormente coinvolti dagli arrivi dei migranti. Appare invece sempre più in salita la possibilità che altri Paesi entrino a far parte dell’accordo per la distribuzione dei migranti siglato a settembre alla Valletta da Malta, Italia, Francia e Germania. Nonostante l’ottimismo più volte manifestato dalla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, finora non si è registrata nessun altra adesione oltre a quella già manifestata da tempo da Portogallo, Lussemburgo e Irlanda. La freddezza con cui la proposta è stata accolta prova quanto profonde siano ancora le divisioni tra gli Stati di fronte a una situazione che rischia invece di precipitare in una nuova emergenza, come dimostrano le condizioni di vita dei profughi in Grecia. Ieri il nuovo presidente dei Msf, Christos Christou, ha scritto una lettera ai leader europei dopo aver visitato i campi che si trovano sulle isole dell’Egeo dove vivono stipate come sardine 38 mila persone, 12 mila delle quali sono bambini.”Quello che ho visto - ha spiegato - è comparabile a quello che si vede in zone di guerra o colpite da catastrofi naturali”. Bangladesh. Pena di morte per i 7 terroristi di Dacca di Alessia Guerrieri Avvenire, 28 novembre 2019 I parenti delle vittime italiane: “Non li uccidete”. Nessuna consolazione, nessuna gioia di sapere che chi tre anni fa uccise a Dacca i propri cari è stato condannato alla pena di morte, perché rispondere “con la morte ad altra morte non è la soluzione”. Certo “fa male ancor di più”, dicono, sapere che in questi anni “non c’è stato alcun ravvedimento da parte degli imputati”, come dimostra il grido “Allah akbar” dei condannati dopo la sentenza. “Sono tre anni e mezzo che aspetto questo giorno, pensavo avrei trovato un po’ di pace, invece sono tristissimo”. Luciano Monti - che il primo luglio del 2016, alla Holey Artisan Bakery, perse la figlia incinta - parla di “ferite ancora aperte e sanguinanti”, della “rabbia che fa vedere queste persone non pentite del loro gesto”. Ma è chiaro che “mentre ho dentro la testa il film di quello che è accaduto a mia figlia in quei minuti - continua - rimango nella certezza che la pena di morte non è mai una soluzione”. L’odio e la vendetta sono idee già scartate tre anni fa anche dal figlio, oggi parroco di Santa Lucia di Serino in provincia di Avellino, don Luca Monti. Alla notizia della sentenza “mi sono fasciato nel silenzio in chiesa per cercare di capire meglio e nell’intimo del mio cuore ho provato ad ascoltare la parola di Dio”. Da uomo è contento che “la giustizia abbia fatto il suo corso”, ma sulla sentenza di morte “preferisce pregare” più che commentare. Il pensiero della sorella Simona e del bambino che portava in grembo, “mi fa sperare che quel sangue possa contribuire a creare un mondo più giusto e fraterno”. Ciò che ferisce di più don Luca è che “sia stato usato il nome di Dio per mascherare odio, quando Dio è Amore”. Per questo “la pena di morte per noi non è una consolazione”. Per Cristina Rossi, sorella di Cristian friulano di 47 anni ucciso nell’attentato, l’unica consolazione “sarebbe capire le motivazioni per cui degli innocenti sono morti. La pena capitale per noi è inconcepibile come cultura, è qualcosa contro l’essere umano”. Oggi per i parenti delle 9 vittime italiane si chiude una fase, “ma è comunque una giornata triste perché dopo quello che è successo quella notte a Dacca, in base alle leggi in vigore in quel Paese, altre vite andranno perse”. Fabio Tondat è il fratello di Marco, imprenditore 39enne di Cordovado. Di fronte a questa sentenza - ammette - c’è un po’ di tristezza, perché non ci restituisce i nostri cari e quindi cambia poco: resta l’amarezza per altre morti. In questi anni, l’associazione dedicata a Marco - continua - promuove progetti per “valorizzare la vita perché questo può contribuire a far crescere una volontà di andare avanti più forte rispetto a quello che può essere un vile attentato”. Emozioni e razionalità si sono susseguite in pochi minuti invece nella mente di Patrizia D’Antona, sorella di un’altra delle vittime italiane, Claudia. “La prima reazione è stata emozionale - spiega - mi ha lasciata neutra nel senso che nulla potrà cambiare le cose e riportare indietro mia sorella”. Poi, da persona di legge e sotto il profilo razionale, ha pensato che “la giustizia ha fatto il suo corso, ferme restando le mie personali riserve sulla pena di morte”. La sentenza era attesa in Italia, tuttavia, “per la mia famiglia non è una consolazione sapere che subiranno la pena capitale”, aggiunge infine Graziella Riboli, che nell’attacco ha perso la sorella Maria. Brasile. “Disbosca, incendia, recinta e porta il bestiame”: così scompare l’Amazzonia di Riccardo Noury Corriere della Sera, 28 novembre 2019 L’allevamento di bestiame è il principale motivo di acquisizione illegale di terreni delle riserve e dei territori nativi della foresta amazzonica del Brasile. L’allevamento favorisce la deforestazione e viola i diritti dei popoli nativi e tradizionali a vivere sulla loro terra. Sono queste le conclusioni presentate da Amnesty International in un rapporto sull’acquisizione illegale di terreni protetti nell’Amazzonia brasiliana. La storia non è nuova. Tra il 1988 e il 2014 - si legge nel rapporto - circa due terzi delle zone deforestate dell’Amazzonia sono state recintate e convertite in pascoli. Si tratta di 500.000 chilometri quadrati, cinque volte la superficie del Portogallo. Ma ora, complice anche lo smantellamento dei programmi federali di protezione dell’ambiente disposta dall’amministrazione Bolsonaro, la situazione si è aggravata, andando a interessare cinque aree protette dell’Amazzonia brasiliana: i territori nativi Karipuna e Uru-Eu-Wau-Wau e le riserve di Rio Ouro Preto e Rio Jacy-Paraná nello stato di Rondônia, e il territorio nativo Manoki nello stato di Mato Grosso. Dati ufficiali, immagini satellitari e visite sul posto hanno consentito ad Amnesty International di verificare come le acquisizioni illegali di terreni, collegate all’allevamento di bestiame, stiano aumentando in tutte e cinque le aree. Gli allevatori di bestiame e i grileiros - privati che acquisiscono illegalmente i terreni - seguono un modello ricorrente per convertire la foresta pluviale tropicale in pascoli. Prima vengono identificati i lotti, poi vengono abbattuti e portati via gli alberi e infine vengono appiccati gli incendi, spesso ripetutamente, prima di recintare il terreno, seminarlo e portarvi il bestiame. In quattro delle cinque aree protette Amnesty International ha raccolto testimonianze sulle violenze, le minacce e le intimidazioni che hanno spesso accompagnato le nuove invasioni. Nella quinta area, la riserva di Rio Jacy-Paraná, praticamente tutti gli abitanti originari sono stati sgomberati con la forza e hanno paura di rientrare nei luoghi dove ora vivono gli invasori armati coinvolti nell’allevamento del bestiame. Amnesty International ha presentato una richiesta di accesso alle informazioni agli stati di Rondônia e Mato Grosso per sapere quanto bestiame pascola nelle aree protette e i suoi movimenti. Le autorità dello stato di Rondônia hanno fornito dati incompleti. Nonostante cinque solleciti, quelle dello stato di Mato Grosso non hanno mai risposto. Secondo i dati parziali relativi allo stato di Rondônia, nel novembre di un anno fa c’erano oltre 295.000 capi di bestiame nei territori dei nativi e nelle aree protette.