“Anche i detenuti-lavoranti hanno diritto all’indennità di disoccupazione” di Stefano Galeotti Il Fatto Quotidiano, 27 novembre 2019 Antigone e 4 Garanti contro l’Inps. Il presidente dell’associazione per i diritti dei detenuti Patrizio Gonnella ha promosso un ricorso per impugnare il rifiuto a veder riconosciuto il diritto alla Naspi. “Ricordiamoci sempre che la pena, nel nostro ordinamento, è privazione della libertà di movimento: tutto il resto è afflizione”. Le case di detenzione non potrebbero andare avanti senza di loro. Barbieri, cuochi, bibliotecari, addetti alla lavanderia e alle pulizie: nelle carceri italiane, stando ai dati del 2017, lavorano 18.404 detenuti, il 31,95% del totale. Sono dipendenti a tutti gli effetti dell’amministrazione penitenziaria, quindi dello Stato italiano, che nella Costituzione riconosce il fondamentale ruolo del lavoro per la rieducazione del condannato, ma che nei fatti produce discriminazioni: secondo l’Inps, ad esempio, chi ha dovuto interrompere il proprio periodo di lavoro quando era in carcere non ha diritto a ricevere l’indennità di disoccupazione. “Quello all’interno del carcere è qualificato come lavoro e va trattato come tale in tutti suoi aspetti, altrimenti stiamo creando un mondo differente”, dice Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione Antigone, che ha promosso un ricorso per impugnare il rifiuto a veder riconosciuto il diritto alla Naspi. “Ricordiamoci sempre che la pena, nel nostro ordinamento, è privazione della libertà di movimento: tutto il resto è afflizione. Se non ci abituiamo a riconoscere tutti i diritti a chi lavora in carcere, comprese le prerogative del welfare, stiamo solo facendo del paternalismo”. E proprio riguardo a un altro strumento di welfare, il reddito di cittadinanza, è scoppiata di recente la polemica legata all’ex brigatista Federica Saraceni, che percepisce l’assegno mensile mentre si trova ai domiciliari per scontare una condanna a 21 anni e 6 mesi per l’omicidio del giuslavorista Massimo D’Antona: “Il principio giuridico è lo stesso: il reddito di cittadinanza è una misura di sicurezza sociale, che potrebbe avere effetti positivi anche sulla riduzione della criminalità, e non deve avere eccezioni nella sua possibilità di fruizione. Alle vittime dobbiamo garantire tutto il riconoscimento necessario nel processo e attraverso i risarcimenti, ma non possiamo dare loro anche il peso morale di decidere dei diritti di tutti gli altri. È una questione di carattere universale ed è lo Stato che deve assumersi questa responsabilità”. La prassi del mancato riconoscimento della Naspi a detenuti ed ex detenuti che abbiano lavorato per l’amministrazione penitenziaria è stata instaurata dall’Inps con il messaggio n.909 del 5 marzo 2019. “Il lavoro penitenziario è peculiare: già a partire dal nome della retribuzione, chiamata ancora mercede, c’è una differenziazione”, spiega Gennaro Santoro, avvocato dell’Associazione Antigone. “Il lavoro è pagato di meno e la capacità produttiva può essere diversa, ma la giurisprudenza della Corte Costituzionale e della Cassazione ha ormai sancito da anni diritti come quello al riposo settimanale e annuale, ai benefici previdenziali e in generale a un trattamento che deve essere mutuato su quello della società libera. Anche la Naspi quindi, nel momento in cui c’è uno stato di disoccupazione involontaria, deve essere riconosciuta al detenuto”. Da qui la decisione dell’Associazione Antigone, che ha inviato all’Inps una lettera di protesta e insieme ai garanti regionali di Lazio, Umbria, Emilia Romagna e Toscana si è mossa per contestare una prassi ritenuta illegittima, elaborando un modello di ricorso gerarchico, a disposizione di tutti, per impugnare il rifiuto a veder riconosciuto il diritto alla Naspi. Il rapporto tra lavoro e detenzione, oltre che nella Costituzione, che all’articolo 27 prevede come finalità della pena la rieducazione, è trattato dalla legge 354 del 1975 sull’ordinamento penitenziario. Lì si specifica che quello del lavoro in carcere è un diritto-dovere che deve essere privo di carattere afflittivo e svolgersi con modalità il più possibile analoghe a quelle utilizzate all’esterno del carcere. “Il punto fondamentale è considerare come primo elemento di qualificazione la condizione di lavoratore e di persona bisognosa di reddito, e non di detenuto”, ribadisce Gonnella. “Trattare i detenuti al pari delle persone libere dal punto di vista dei diritti fondamentali è un principio di carattere universale che può anche avere un effetto positivo sul loro percorso rieducativo: in questo modo infatti li sottraiamo a quella sindrome di vittimizzazione con cui possono giustificare i loro comportamenti illegali, per il fatto di essere trattati in maniera diversa. Non gli diamo albi, ma offriamo a tutti gli stessi diritti”. E tra questi diritti c’è anche quello di avere a disposizione un reddito, o un sussidio quando questo viene a mancare: “Escludere quote di persone da misure anche minime di reddito significa dire che il loro destino è essere povere. E chi non ha alle spalle una famiglia in grado di aiutare, tornerà con ogni probabilità a commettere reati una volta uscito dal carcere. Le leggi non si valutano ascoltando il parere di chi si sente offeso perché vittima, è lo Stato che deve assumersi la responsabilità della rieducazione”. Le Misure di sicurezza, un fossile da cancellare di Franco Corleone e Katia Poneti Il Manifesto, 27 novembre 2019 Si presenta oggi a Firenze in Consiglio regionale una ricerca sulle Misure di sicurezza, dal titolo significativo di Archeologia criminale. Si è trattato di esplorare istituti arcaici, ma ancora utilizzati, del nostro sistema penale, destinati a gestire la cosiddetta “pericolosità sociale”. Previste dal Codice penale del 1930 con lo scopo di contenere gli autori di reato considerati portatori di un certo livello di “delinquenza” o dichiarati “incapaci di intendere e volere”, le misure di sicurezza costituiscono uno degli ambiti più delicati su cui intervenire nella prospettiva di riformare il nostro ordinamento penale e penitenziario. Purtroppo le proposte di riforma elaborate dagli Stati Generali dell’esecuzione penale nel 2015-2016 sono rimaste lettera morta. Una sorte comune ad altri temi qualificanti come il diritto all’affettività. Il sistema resta quello del 1930, per quanto reso meno autoritario dai numerosi interventi della giurisprudenza, e con le uniche, pur rilevantissime, modifiche legislative che hanno portato alla chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Leggi 9/2012 e 81/2014), sostituiti dalla libertà vigilata a scopo terapeutico e dalle misure di sicurezza detentive da scontare all’interno delle Rems. Nonostante questi passi avanti il sistema continua a generare gli effetti per i quali era predisposto: sia le misure psichiatriche che quelle ordinarie, pur essendo teoricamente diverse nei presupposti e nella funzione, portano entrambe all’internamento. Questo risultato non è più accettabile in un ordinamento che afferma come propri principi il diritto alla salute per i pazienti psichiatrici e la finalità risocializzatrice della pena per i condannati. L’Ufficio del Garante per i diritti delle persone private della libertà personale della Regione Toscana ha ritenuto di togliere il velo che copre la questione irrisolta delle misure di sicurezza attraverso uno studio del loro funzionamento attuale. La ricerca sulle misure di sicurezza per imputabili e non imputabili si è incentrata su due luoghi significativi, la Rems di Volterra e la Casa lavoro di Vasto, nella quale sono internati più del 40% dei soggetti per i quali è in esecuzione la misura della casa di lavoro a livello nazionale. Si sono esaminati i fascicoli degli internati presenti, i reati commessi, le caratteristiche socio-economiche, le motivazioni delle proroghe: ne emerge un quadro di una popolazione internata non giovane, proveniente da contesti di povertà economica e culturale, che resta invischiata nel circuito delle misure di sicurezza per il micidiale meccanismo delle proroghe, e con poche opportunità reali di uscirne. Insieme al paradosso di una casa di lavoro in cui manca il lavoro. Nel caso degli imputabili il “doppio binario” può portare a scontare di fatto una pena doppia: prima la pena comminata in sentenza, poi la misura di sicurezza, per un tempo quasi senza fine. Una soluzione più limpida sarebbe quella di utilizzare lo strumento delle misure alternative, un affidamento terapeutico; per questo occorre colpire alla radice il “doppio binario” e ribadire che la responsabilità (anche affievolita) è terapeutica. La proposta che emerge dal nostro studio è quella dell’abolizione delle misure di sicurezza per i soggetti imputabili, mentre per le misure psichiatriche si suggerisce l’abolizione nell’ambito di una riforma complessiva del Codice penale, che elimini la non imputabilità e responsabilizzi anche i soggetti con patologia psichiatrica, dando nello stesso tempo gli strumenti e gli spazi per la cura. La ricerca condotta da Giulia Melani e Evelin Tavormina e gestita dall’Avp si inserisce in un percorso di approfondimento di molti anni. Rappresenta un patrimonio di riflessione teorica e offre un quadro di dati elaborati in modo raffinato che consentono scelte di riforma. Petizione per i figli delle detenute: “Bimbi fuori dal carcere a 3 anni” di Tomaso Borzomì Il Gazzettino, 27 novembre 2019 L’associazione veneziana “La Gabbianella” chiede che si ritorni alla normativa pre-2011. Carla Forcolin: “Poter uscire solo a 6 anni è una limitazione per la socialità dei piccoli”. Una raccolta firme per far sì i bimbi in carcere possano uscire prima dei 6 anni. È questo l’obiettivo che si pone l’associazione La Gabbianella, che per anni si è occupata del rapporto tra madri in carcere e bambini. I volontari si sono decisi a chiedere luce sulla questione dell’infanzia negata ai piccoli che nascono da madri che hanno commesso qualche sbaglio. Perché se a sei anni risulta difficile riuscire a recuperare il tempo perduto, a tre le cose potrebbero cambiare. Tutto è nato da un episodio avvenuto un mese fa, quando un bambino, al compimento dei sei anni è stato strappato alla madre e dato in affidamento senza che l’associazione potesse fare neppure opera di mitigazione. “Credo che si debba uscire dal carcere, pur lasciando la mamma, se è necessario, molto prima dei sei anni. Almeno si torni ai tre previsti prima della legge 62/2011, se sembra troppo abbassare ancora quell’età. Questo il senso della petizione che propongo e che si deve scontrare con il luogo comune per cui essere separati dalla mamma è il peggiore dei mali”, spiega Carla Forcolin, presidente dell’associazione. Il riferimento è alla tutela della crescita dei bambini: “Tutti i luoghi, da cui i bambini non possono uscire con la mamma o dove non possono entrare persone care a trovare il bambino liberamente, sono luoghi di custodia, più o meno attenuata, e i bambini se ne accorgono. Quindi, se la custodia ci deve proprio essere, e talora è necessaria, nei nidi annessi al carcere femminile e negli Icam (Istituto a custodia attenuata per madri) i bambini devono rimanere solo se il rapporto con la madre è l’elemento fondamentale della loro vita, cioè quando sono piccolissimi”. La presidente perciò prosegue: “A partire dai nove mesi di età, i bambini del carcere dovrebbero frequentare già e obbligatoriamente gli asili nido e comunque stare fuori dall’istituto nelle ore del mattino per tornarvi nel pomeriggio. I bambini non possono stare in istituti a custodia attenuata o veri carceri fino a sei anni, senza che questo pregiudichi la loro vita futura”. Forcolin, che negli ultimi 15 anni ha frequentato il carcere della Giudecca, lamenta un peggioramento: “Ho visto la situazione peggiorare. Il nido, prima dell’Icam, era meno ampio ma c’erano persone che vivevano insieme nella comunità-nido e si facevano compagnia, nel bene e nel male. Ora le madri sono sempre meno e negli Icam c’è il rischio di vivere davvero l’isolamento. Solo a Milano, Torino, Roma e Avellino abbiamo i numeri (da 6 a 11 mamme) per costruire piccole comunità. A Venezia sono in due. Per i 50 bambini rimasti indirettamente reclusi nel nostro Paese - conclude - noi chiediamo almeno che escano a tre anni”. Assistenza sanitaria. “Il carcere sia un’opportunità per proteggere chi è vulnerabile” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 novembre 2019 Rapporto dell’Oms Europa sui sistemi sanitari carcerari. negli istituti si possono affrontare le condizioni di salute esistenti e contribuire a stili di vita positivi e a cambiamenti comportamentali. “Una pena detentiva toglie la libertà a una persona, ma non dovrebbe anche togliere la loro salute e il loro diritto alla salute”. A dirlo è Carina Ferreira- Borges, portavoce dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) per le regioni europee. Si riferisce al rapporto, pubblicato tre giorni fa, dell’Oms che presenta un’analisi dei dati raccolti sullo stato di salute delle persone detenute e sui sistemi sanitari delle carceri per 39 paesi - Italia compresa - della Regione. Il Rapporto stima che 6 milioni di persone vengono incarcerate ogni anno nella regione europea. “Dopo il rilascio, i tassi di recidiva e di ritorno in prigione - evidenzia l’Oms Europa - sono elevati. Il rapporto sottolinea che questo ciclo tra carcere e comunità porta spesso a cure sanitarie sconnesse e inefficaci al di fuori del carcere. Durante i primi giorni del rilascio di una persona, aumenta il rischio di suicidio, autolesionismo e overdose di droga. Ciò significa - afferma l’Oms Europa - che la continuità delle cure durante questo passaggio è fondamentale. Le carenze nell’assistenza in questo periodo hanno implicazioni negative significative per la salute pubblica e possono limitare la capacità di un paese di affrontare le disparità”. Il rapporto dell’Oms sottolinea che gran parte delle persone in carcere rientrano nella comunità ogni anno, quindi vedere la prigione come uno scenario per la salute pubblica apre un’opportunità per azioni di salute pubblica e per migliorare l’alfabetizzazione sanitaria per sostenere e proteggere le popolazioni vulnerabili. “Le carceri e altri luoghi di detenzione - sostiene l’Oms Europa - hanno l’opportunità di offrire interventi e trattamenti preventivi e di riduzione del rischio a una popolazione che in precedenza ha avuto un accesso limitato alle cure sanitarie e a uno stile di vita sano”. Secondo il rapporto, le carceri devono essere viste come contesti in cui gli interventi sanitari possono affrontare le condizioni di salute esistenti e contribuire a stili di vita positivi e a cambiamenti comportamentali. Il tempo in prigione può anche essere usato per migliorare le capacità delle persone per aiutarle a trovare un lavoro dopo il rilascio e a reintegrarsi nella società. “La popolazione carcerari - sostiene Bente Mikkelsen, direttore della Divisione delle malattie non trasmissibili e della promozione della salute dell’ufficio regionale dell’Oms per l’Europa -, con il suo onere sproporzionato per le malattie, non può essere dimenticata nel perseguimento degli Obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite. Per ottenere una copertura sanitaria universale e una migliore salute e benessere per tutti, come nella visione dell’Oms, è fondamentale che le carceri siano viste come una finestra di opportunità per cambiare gli stili di vita e garantire che nessuno rimanga indietro”. Gli italiani hanno paura di rimanere vittime di errori giudiziari camerepenali.it, 27 novembre 2019 Il rapporto Censis 2019 elaborato sul tema de “L’avvocato nel quadro dell’innovazione forense”, dedica una sezione, la terza, all’opinione degli italiani sul nostro sistema giudiziario. Se molte delle risposte sui quesiti formulati sono lo specchio abbastanza fedele del dilagante populismo giudiziario (gli intervistati ritengono le pene troppo poco severe, il sistema giudiziario squilibrato a favore delle élite, i processi troppo lunghi, i casi di prescrizione eccessivi, etc.), sorprende come il campione intervistato, pressoché nella identica percentuale, avverta il rischio di rimanere vittima di un errore giudiziario (57,4%), ma al contempo giudichi troppo benevolo il quadro di garanzia attribuito all’imputato (57,6%). Il rapporto Censis conferma, dunque, che le garanzie difensive non fanno parte della cultura popolare, la quale ritiene che l’imputato non si presuma innocente, ma colpevole. Tutto ciò nonostante, paradossalmente, da quasi la metà degli intervistati (42%) sia avvertito il rischio di essere coinvolti da estranei in un processo penale e da oltre la metà (57,4%) il pericolo di incorrere in un errore giudiziario. Eppure ai più ancora non è chiaro che le garanzie difensive non rappresentano un complesso di limiti e vincoli alla punizione dei colpevoli, bensì un sistema di regole razionali che, se rispettato, garantisce l’accertamento della “verità processuale” e di conseguenza la punizione dei veri colpevoli nel momento in cui potrà dirsi raggiunta la prova “oltre ogni ragionevole dubbio”. L’errore giudiziario, per come sintetizzato in una nota dall’editore del testo Gli errori Giudiziari di Jaques Vergès, si può prevenire attraverso quattro regole: 1. La più severa vigilanza sulla condotta del magistrato inquirente e di quello giudicante, affinché la loro funzione non sia inficiata dalla passione o dal fanatismo; 2. La più assoluta e rigorosa applicazione del principio di presunzione di innocenza dell’imputato; 3. La più grande “lontananza” possibile (in senso fisico e professionale) del magistrato inquirente da quello giudicante; 4. L’obbligo per il magistrato di rispondere di fronte alla legge, ove abbia commesso gravi errori nell’esercizio della sua funzione. Ed allora è del tutto evidente che quel campione intervistato che tanto teme di rimanere vittima di un errore giudiziario non ha ancora realmente compreso che il rischio dell’errore, così come il rischio di essere coinvolti da innocenti in un processo, di subire intrusioni nella libertà di comunicazioni, di essere vittima di “gogna mediatica”, è frutto proprio dell’insufficienza delle prerogative difensive che concorre, unitamente agli altri fattori, a determinare quel numero - da considerarsi sempre eccessivo - di errori giudiziari che peraltro lo Stato risarcisce con malcelata ritrosia. Così come ancora appare evidente che il medesimo campione intervistato ignora la circostanza che l’errore giudiziario è molto spesso frutto di un errore investigativo compiuto durante le indagini preliminari, un errore iniziale che si riverbera, inevitabilmente, nelle altre fasi del processo penale. Gli Italiani interrogati, infatti, sui soggetti ritenuti più efficaci nella denuncia dei reati che destano scandalo nell’opinione pubblica, hanno, in prevalenza attribuito maggiore efficacia alle forze dell’ordine (36,4%), mentre una quota significativa dà risalto al ruolo ormai assunto dai giornalisti di inchiesta (15,5%). Solo al terzo posto - e sostanzialmente a pari percentuale con programmi e trasmissioni televisive (12,6%) - si colloca la magistratura e i pubblici ministeri. Con ciò dimostrando di ignorare l’importanza di una corretta conduzione delle indagini, e, soprattutto i rischi che comportano - anche con specifico riguardo all’errore giudiziario - i processi mediatici. In conclusione, quindi, il campione intervistato è disponibile ad arretrare di un passo rispetto all’esigenza di protezione dei diritti fondamentali, ma al contempo teme di rimanere vittima di quegli errori che solo il rispetto dei principi costituzionalmente garantiti può impedire. Occorre, quindi, una maggiore consapevolezza in Italia in ordine alla possibilità che solo un processo liberale possa realmente prevenire il rischio di un errore giudiziario. Gli avvocati penalisti sanno, per le competenze professionali acquisite e per le esperienze maturate nelle aule di giustizia che, al contrario, l’apparato normativo delle garanzie difensive dell’imputato - innocente fino a prova contraria, non bisogna mai smettere di affermarlo - sia tutt’altro che benevolo e che, drammaticamente esso è oggetto di continua erosione tanto per via legislativa che giurisprudenziale. Le battaglie intraprese dall’Unione delle Camere Penali (prima fra tutte quella sulla separazione delle carriere e per l’abolizione delle recenti norme che abrogano la prescrizione dopo la sentenza - anche di assoluzione - emessa all’esito del primo grado di giudizio), prima ancora che di civiltà giuridica sono culturali. L’Osservatorio sull’Errore Giudiziario dell’Unione Camere Penali Italiane I penalisti: la politica raccolga il testimone di Lattanzi Il Riformista, 27 novembre 2019 “A due settimane ormai dal termine del suo mandato di Giudice e poi di Presidente della Corte Costituzionale, Giorgio Lattanzi in una splendida intervista al Corriere della Sera ha reso ben chiaro - a chi voglia intenderlo - il valore irrinunciabile ed anzi salvifico del patto sociale fondativo della nostra democrazia costituzionale”, lo scrive l’Unione delle Camere penali rendendo omaggio al Presidente uscente della Consulta. “I valori costituzionali vanno condivisi ed applicati, non omaggiati come un vuoto atto d’obbligo: questo è il preoccupato monito del Presidente Lattanzi, il quale non a caso si sofferma a lungo sulle reazioni alla recente sentenza sull’ergastolo ostativo, denunciando senza mezzi termini la “falsità” delle conseguenze allarmistiche per la sicurezza sociale da più parti attribuite ad una decisione peraltro ancora non conosciuta nelle sue motivazioni”, affermano i penalisti. “L’Unione delle Camere Penali ha dal primo momento denunziato l’inaudita gravità di quegli attacchi rozzi e sconsiderati ad una sentenza che ha semplicemente rimesso in linea la legge ordinaria con il principio di finalità rieducativa della pena sancito nell’art. 27 della Costituzione”, proseguono, “Dal surreale giudizio di “stravaganza” formulato dal frastornato segretario di un partito al governo del Paese, alla immediata ricerca di possibili iniziative di contrasto annunziate dal Ministro di Giustizia, fino all’inaudito invito da parte di magistrati della Repubblica, perfino componenti del Consiglio Superiore della Magistratura, perché il legislatore intervenisse a porre rimedio agli effetti preconizzati come catastrofici di quella decisione, lo spettacolo andato in scena a seguito della sentenza sull’ergastolo ostativo ha rappresentato la fotografia desolante ed anzi allarmante dell’analfabetismo costituzionale di una intera classe dirigente del Paese”, “Il richiamo forte, appassionato e ad un tempo allarmato del Presidente Lattanzi al “patriottismo costituzionale”, cioè alla necessità di operare nella vita pubblica e nei comportamenti privati in nome di una reale, consapevole e non retorica condivisione dei principi fondativi del nostro patto sociale, rappresenta il formidabile testimone che una politica sempre più immiserita e pavida farebbe bene a raccogliere, ove mai ambisse a dare un segno di reazione e di riscatto dalla ammorbante rozzezza dell’imperante populismo giustizialista. I penalisti italiani, che sono sempre stati e continueranno ad essere i “patrioti costituzionali” di cui questo Paese ha vitale necessità, rendono omaggio al magistero di un Presidente della Consulta che, giungendo perfino a portare i giudici della sua Corte a toccare con mano la dura realtà delle carceri italiane, ha saputo dire, non a parole ma per fatti concludenti, che la Costituzione è ancora viva, e rappresenta la guida cui affidare il Paese con fiducia e coraggio”, concludono i penalisti. Sulla prescrizione è lite Pd-M5S e Conte si schiera con i grillini di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 27 novembre 2019 Il premier: la nuova norma in vigore da gennaio. Zingaretti: “Non decide Di Maio”. Questa volta è Conte a far ballare il governo. Interviene per il secondo giorno consecutivo sulla giustizia, materia che sempre più divide i 5 stelle dal resto della maggioranza. E soprattutto dal partito democratico. Conte vorrebbe abbassare i toni e riconosce al Pd che “c’è la necessità di garantire il vincolo costituzionale della ragionevole durata del processo”. Ma in sostanza conferma che “la norma per cui dal primo gennaio 2020 la prescrizione viene meno dopo la sentenza di primo grado è giusta”. Proprio quello che il Pd non intende accettare. E se lunedì, davanti ad analoghe dichiarazioni del presidente del Consiglio, il partito di Zingaretti aveva fischiettato, sperando che Conte potesse rientrare nel suo ruolo di mediatore tra le parti, ieri ha deciso di reagire. Con l’unica attenzione di prendersela con Di Maio, che nel frattempo rivendicava la linea 5 Stelle, o con il ministro della giustizia Bonafede, e non ancora con Conte. “Di Maio si tolga dalla testa di dettare l’agenda”, dice il capogruppo al senato Marcucci. “Le garanzie proposte da Bonafede per assicurare processi rapidi non bastano”, aggiunge Michele Bordo, negoziatore per conto dei dem. “Le parole di Conte restringono il campo”, ragiona invece il capogruppo del Pd in commissione giustizia, Alfredo Bazoli. “Adesso l’unico punto di caduta può essere l’introduzione di termini di durata massima per il processo d’appello, eventualmente con una riduzione della pena in caso di durata intollerabile”. Cioè la proposta che il Pd ha portato all’ultimo vertice notturno a palazzo Chigi, fallito e non riconvocato. Il problema è che dal prossimo primo gennaio entrerà in vigore il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado. I processi, che oggi nelle aule di tribunale hanno i ritmi scanditi dai tempi della prescrizione, si avviano a diventare eterni. Per tutti, anche per i presunti innocenti. Approvando la legge anticorruzione, Lega e 5 Stelle avevano deciso di rinviare di 12 mesi l’applicazione della riforma della prescrizione per provvedere nel frattempo a norme in grado di velocizzare le udienze. La famosa riforma del codice di procedura penale ancora ferma al palo. Per questo, spiega Bordo, “se lo stesso Bonafede afferma che il nuovo processo scongiurerà la prescrizione, per quale ragione teme il suo rinvio?”. Spostare di sei mesi l’applicazione della riforma è la prima richiesta del Pd. Respinta, adesso, anche da Conte. “Il Pd - chiarisce però Bazoli - non si sente per nulla vincolato dalla norma introdotta da 5 Stelle e Lega durante il precedente governo. Bonafede ci accusa di sabotare il governo, ma la responsabilità politica di una rottura è tutta sua e di chi non si preoccupa di ascoltare le ragioni della maggioranza”. Anche il rappresentante dei renziani Librandi definisce l’uscita di Conte “affrettata e imprudente”. E pronostica che “in parlamento troveranno la contrarietà di tanti, non passeranno”. L’incidente parlamentare sulla prescrizione in effetti è dietro l’angolo. Non la prossima settimana, come si augura il deputato di Forza Italia Costa che ha presentato un mini disegno di legge che cancella le nuove norme sulla prescrizione, e che chiede di metterlo ai voti con urgenza. Il Pd infatti si opporrà a questa richiesta, con la semplice argomentazione che, trattandosi di una prima lettura, il dl Costa non servirebbe in alcun caso a fermare la riforma entro il primo gennaio. Ma in ogni caso il provvedimento andrà votato in commissione prima di Natale e in assenza di accordo la maggioranza è destinata a dividersi. Nel merito Pd e M5S sono agli antipodi. Se Bonafede e Di Maio insistono a dire che la cancellazione della prescrizione dopo il primo grado è niente di meno che “una conquista di civiltà”, il Pd condivide le analisi che gli avvocati penalisti ripeteranno oggi in commissione giustizia, durante un’audizione proprio sul disegno di legge Costa. Orlando, vice segretario del Pd e da ex ministro della giustizia autore di un nuovo regime della prescrizione che grillini e Lega hanno immediatamente cancellato, prova a tenere un canale aperto: “Sono d’accordo con Conte, il problema è trovare un bilanciamento nell’ambito del processo. Al momento però le soluzioni prospettate non sono adeguate”. La minaccia di votare con il centrodestra è sul tavolo. Caro Bonafede, la tua riforma è una ferita allo Stato di diritto di Francesco Urraro* Il Riformista, 27 novembre 2019 A rischio la presunzione di innocenza, il diritto alla difesa, il giusto processo. La legge voluta dal ministro della Giustizia viola la Costituzione. Parola di senatore Cinque stelle. Lo stop alla prescrizione in vigore dal primo gennaio per effetto della legge anticorruzione dove fu inserito un emendamento ad hoc, implica qualche urgente riflessione: non sono infatti pochi né irrilevanti i possibili vulnus allo Stato di diritto conseguenti all’applicazione della riforma. Innanzitutto, occorre rilevare che sull’annunciata riforma insiste un’ombra di non poco rilievo: sussistono infatti nella proposta profili di incostituzionalità, mentre la sua concreta applicazione potrebbe dar vita a pesanti contraccolpi tali da poter compromettere le diverse funzioni della pena che sono sottese alla ragione estintiva del decorso del tempo. A essere messa in discussione è in primis la presunzione di innocenza sancita dall’articolo 27 della Costituzione. Fermare la prescrizione equivale infatti a considerare l’imputato, anche in caso di assoluzione, sottoposto a un procedimento privo di termini temporali. Il diritto di difesa ex art 24 Cost. risulterebbe inoltre compresso e deteriorato da distanze temporali lunghissime che renderebbero di fatto impossibile una ricostruzione esatta del fatto contestato. Parimenti, la funzione rieducativa ex art 27 Cost. Terzo comma, potrebbe risultare vanificata dal lasso di tempo intercorso in relazione al compimento del fatto. Ed appare sin troppo evidente, quanto allarmante, l’effetto distorsivo principale prodotto da una riforma che scalfisce un altro principio costituzionale. Lo stop alla prescrizione determinerebbe di fatto un procedimento sine die, che comporterebbe così l’irragionevole durata del processo in violazione di quanto previsto espressamente dall’articolo 111 della Costituzione. Tra l’altro la riforma Bonafede prevede che il tempo della prescrizione si blocchi a partire dalla sentenza di primo grado senza distinguere tra condanna o assoluzione, per cui in entrambi i casi l’appello proposto da chi è stato condannato oppure dal pm in caso di assoluzione dell’imputato, potrà svolgersi senza limiti di tempo anche per molti anni dopo. Come detto da tempo, per scongiurare tali effetti abnormi, sarebbe necessaria, ovviamente, una preliminare riforma ordinamentale. In questo senso è da accogliere con favore l’opportunità di estendere il patteggiamento, in combinato con altre innovazioni qui di seguito suggerite. In primo luogo, è necessario il potenziamento dei riti alternativi, l’ampliamento del giudizio abbreviato condizionato (quello che avviene con acquisizione della prova nuova rispetto a quella raccolta in fase di indagine), il rafforzamento della udienza preliminare e il consolidamento dei poteri decisori del giudice. Tutte misure che avrebbero effetti deflattivi sui processi e che comporterebbero una riduzione dei tempi degli stessi, a condizione che si decida di investire seriamente sul sistema giustizia. Si pone infatti davanti a noi il grande tema delle risorse: occorrono investimenti nel settore Giustizia per fare fronte ai sotto-dimensionamenti dei magistrati e degli amministrativi, ma anche fondi per provvedere alla manutenzione degli uffici giudiziari che oggi è centralizzata. Va notato peraltro che nell’amministrazione prossima della giustizia avranno un nuovo ruolo, sempre più centrale, i diversi processi telematici che pure meritano investimenti e formazione adeguata, se si vuole che funzionino al meglio a tutto vantaggio dei cittadini. La Corte costituzionale con una importante sentenza (la numero 115 del 2018) ha chiaramente rappresentato che la prescrizione debba essere considerata un istituto di natura sostanziale: essa deve dunque rispettare il principio di legalità e determinatezza e come tale è necessariamente immanente nel sistema. In buona sostanza, la prescrizione è insomma il sintomo di una malattia. non la causa. Se è vero che in Italia i tempi dei processi sono abnormi, bisogna intervenire sulla loro durata senza eliminare un istituto antico di civiltà giuridica. *Senatore M5S, presidente Ordine degli avvocati di Noto Accelerare i processi con termini perentori e sanzioni disciplinari non darà risultati di Eugenio Albamonte* Il Dubbio, 27 novembre 2019 Oltre alle solite carenze di mezzi e personale, i nuovi limiti rendono difficile l’accertamento dei fatti e delle responsabilità penali. L’accelerazione dei tempi della giustizia penale è da anni una delle richieste più pressanti da parte dell’associazionismo giudiziario e in particolare di Area DG. Siamo convinti che una giustizia efficiente sia soprattutto una giustizia celere e che la dilatazione dei tempi del processo si risolva in una denegata giustizia. Crediamo che gran parte della sfiducia dei cittadini nella giustizia è causata dai tempi eccessivamente dilatati e ciò produce quotidiana frustrazione anche per i magistrati. Riteniamo che sia però responsabilità del Governo e del Parlamento, porre in atto quegli interventi strutturali e normativi che finalmente riconducano il processo a tempi compatibili che l’effettività della risposta giudiziaria. Per questo da anni chiediamo un adeguamento della pianta organica dei magistrati, l’assunzione di nuovo personale amministrativo, la modernizzazione delle dotazioni informatiche, l’adeguamento dell’edilizia giudiziaria, la razionalizzazione della geografia giudiziaria. Tutti interventi strategici per accelerare i processi, insieme alle riforme procedurali che ne snelliscano alcune fasi eccessivamente onerose e dispersive di tempo ed energie e ad una significativa depenalizzazione. L’approvazione della nuova normativa sulla prescrizione, che ne blocca la decorrenza dopo la condanna di primo grado, rende urgenti questi interventi; perché bloccare la prescrizione senza accelerare il processo espone al rischio di processi infiniti che sarebbero causa di ulteriore perdita di credibilità del sistema. A fronte di queste richieste, tradotte in più occasioni rappresentate anche al Ministro Bonafede, le iniziative di riforma intraprese appaiono inadeguate. Infatti, nel testo presentato prima della caduta del Governo e, stando alle dichiarazioni del Ministro Buonafede, anche nel testo che si accinge a presentare, sembra che il problema voglia essere risolto fissando termini perentori che non potranno essere osservati, e comminando sanzioni disciplinari a pioggia in danno dei magistrati che non ne rispetteranno le scadenze. Le altre riforme individuate, in tema di notifiche alle parti, di ampliamento dei poteri del giudice dell’udienza preliminare, di istituzione del giudice monocratico di appello non varranno a ricondurre i procedimenti di primo e secondo grado nelle fasce temporali previste a pena di iniziativa disciplinare obbligatoria e costringeranno i giudici a dedicare parte significativa del loro tempo a stendere relazioni per spiegare che il ritardo, nel caso specifico, è determinato da quelle carenze strutturali e di personale che sono già note allo stesso Ministro. Quanto alle indagini preliminari va evidenziato che, eliminata opportunamente l’avocazione obbligatoria istituita con la riforma Orlando, le nuove tempistiche non sono supportate da interventi che consentano il rispetto di quelle scansioni. I tempi delle indagini preliminari sono infatti condizionati principalmente dalla speditezza delle attività delegate alla polizia giudiziaria che, a propria volta, è onerata dall’accertamento di un numero infinito di reati, non tutti individuati dal legislatore in presenza di una offesa percepibile a beni giuridici di primaria importanza. Anche la carenza del personale amministrativo, aggravata dall’obsolescenza dei supporti informatici e dalla mancanza di adeguata formazione, incide sui tempi delle indagini, perché ogni singolo atto del pubblico ministero richiede una attività amministrativa per la sua completa formazione, per la sua comunicazione all’esterno, per l’esecuzione. In questa situazione di grave carenza, scandire in modo più serrato i tempi delle indagini vuol dire adottare norme manifesto che solo apparentemente esonerano il Ministro dalle sue responsabilità politiche ed istituzionali, lasciando inalterato l’effetto sulle dinamiche reali di questa delicata fase. Gli effetti della decorrenza dei nuovi termini appaiono poi essere dannosi per l’accertamento dei fatti e delle responsabilità penali nonché fuorvianti ed ingiustamente punitivi per al magistratura requirente. Infatti, da un lato si prevede la discovery anticipata degli atti di indagine con inevitabile pregiudizio per la completezza ed accuratezza degli accertamenti, alla quale consegue una menomazione complessiva della capacità di accertamento dei fatti e delle responsabilità; dall’altra, ancora una volta sanzioni disciplinari per i ritardatari che, oltre ad essere ingiustamente punitive, consegnano all’opinione pubblica, ancora una volta, la volgare falsità che vuole sia l’indolenza dei pubblici ministeri la causa principale del prolungarsi dell’attività investigativa. Le due misure insieme, peraltro, tradiscono la convinzione che sia solo nell’interesse del PM e non della giustizia un accertamento ampio e completo su reati, giungendo a sanzionare la pretesa inerzia dei primi anticipando la chiusura della indagini ancorché incomplete. Siamo, in fine, molto preoccupati, per le distorsioni concrete che le norme indicate potranno produrre sul corretto operato della magistratura requirente e sullo stesso modello professionale del magistrato dell’accusa. Termini perentori non oltre prorogabili e sanzioni disciplinari immotivate potrebbero condurre ad un approccio auto difensivo, che sacrifica l’accertamento dei fatti per evitare di esporsi a censure, e produce rinvii a giudizio ed archiviazioni affrettate e non sostenute da adeguati elementi di giudizio. Ciò comporterebbe un danno per gli indagati, inutilmente esposti alla fase processuale ed alle relative implicazioni morali economiche e sociali, e per le persone offese, le quali legittime aspettative di tutela verrebbero compromesse se non gravemente ostacolate da affrettate decisioni di archiviazione. Aspetti che dovrebbero allarmare prima di tutto i cittadini rispetto al rischio di riforme tanto roboanti negli annunci quanto inefficaci nei risultati. *Magistrato, segretario nazionale di Area Democratica per la Giustizia La bandiera ammainata del garantismo di Carlo Nordio Il Messaggero, 27 novembre 2019 Quando, un anno fa, il Parlamento approvò la Legge che sospendeva la prescrizione dopo la sentenza- di primo grado, il governo promise solennemente che la sua entrata in vigore, differita al 1 Gennaio 2020, sarebbe stata accompagnata da una radicale riforma volta ad accelerare il processo penale. All’epoca lo definimmo un vasto e utopistico programma, perché la riscrittura di un codice richiede tempi di preparazione e di discussione incompatibili con quelli ipotizzati. Ma, in teoria, un programma coerente, perché se davvero la sospensione della prescrizione fosse subordinata ad un’ effettiva velocizzazione dei processi il problema sarebbe risolto da sé: i reati non si prescriverebbero più per il semplice motivo che verrebbero accertati e puniti in tempi brevi. I primi dubbi sulla sincerità di quella promessa erano già sorti quando era stato respinto un emendamento dell’on. Bartolozzi, volto a collegare le due riforme promulgandole insieme, come sarebbe stato ragionevole. Ma il governo ribadì che, anche se approvati in momenti differenti, i due provvedimenti sarebbero stati, alla fine, simultanei: insieme stanno, o insieme cadono. E le perplessità aumentarono. Caduto il governo di allora, della riforma del processo non si è più sentito parlare, se non in termini generici e con intenzioni cartacee, intendendosi per tali le norme che impongono, sulla carta, la riduzione dei tempi senza apprestare le idonee strutture organizzative e ordinamentali. In conclusione, tra un mese il mostro giuridico della prescrizione entrerà in vigore, e i processi continueranno a durare un’eternità. Questa anomalia, come abbiamo detto più volte, confliggerà con il diritto dell’imputato a una durata ragionevole del giudizio, e con quello delle vittime a un sollecito risarcimento, che avviene solo con la sentenza definitiva. Un colossale pasticcio contro il quale hanno protestato, una volta tanto uniti, avvocati, magistrati, e, cosa ancor più singolare, la destra e la sinistra. Si, la sinistra, perché il Pd, allora come oggi, ha manifestato e continua a manifestare il suo dissenso, chiedendo il rinvio di questa sciagurata novità. Oggi tuttavia il Pd è al governo. E qui si impongono due considerazioni La prima. I protagonisti di questa singolare vicenda stanno ancora lì. Il presidente Conte e il ministro della Giustizia Bonafede sono gli stessi che un anno fa si impegnarono alla contestualità dei due progetti, e tuttavia sembrano smentire sé stessi. Perché di fronte alla recente richiesta dell’opposizione di un decreto legge che rinvii la riforma della prescrizione hanno dichiarato che intanto si proceda, e poi quella del processo verrà da sé. Per dirla in linguaggio accademico, il simul stabunt simul cadent è stato sostituito da un rozzo exequatur. Che in termini brutali significa: arrangiatevi con quello che avete, e andate in Russia con le scarpe di cartone. Ora, benché la politica non sia necessariamente l’arte della lealtà e della coerenza, Conte e Bonafede dovranno pur dare una spiegazione di questo voltafaccia. La daranno, e saranno convincenti? Vedremo. La seconda. Il Pd un anno fa non era al governo. Ma sarebbe assurdo se cercasse di cavarsela chiamandosi fuori dalla responsabilità di un simile imbroglio. Perché, e questo rende onore alla sua componente garantista, si è sempre opposto a una riforma così smaccatamente giacobina. Ora sta a lui se accogliere la proposta dell’opposizione rinviandone l’entrata in vigore, o adeguarsi al diktat grillino smentendo sé stesso e i suoi esponenti più autorevoli, primo fra tutti l’ex ministro della giustizia Orlando. È vero che sinora ha ingoiato numerosi bocconi amari, ma questo sembra addirittura indigesto e forse avvelenato. Il Pd ha una solida tradizione di cultura politica, e non si affida a slogan emotivi come i suoi soci. Ma se dovesse cedere anche su quest’ultimo baluardo, non gli resterebbe che affidarsi al popolo delle sardine. Un nome che peraltro evoca immagini funeste, perché “scatole di sardine” erano chiamati i carri di latta dove i nostri soldati morivano imprigionati sotto il fuoco degli inglesi. Una fine che anche il Pd rischia di fare, se si lascia imprigionare dalla demagogia grillina. Femminicidi. Non solo leggi a tutela delle donne, servono percorsi educativi per gli uomini di Paola Balducci Gazzetta del Mezzogiorno, 27 novembre 2019 Alla vigilia della giornata internazionale contro la violenza sulle donne, la Polizia di Stato ha diffuso dati statistici a dir poco agghiaccianti, relativi a tali comportamenti illecito-aggressivi. Agghiacciante perché ogni giorno, in Italia, sono 88 le donne-vittime di atti di violenza, una ogni 15 minuti circa; agghiacciante perché si tratta di un’altissima percentuale che corrisponde all’80,2 percento dei casi; agghiacciante perché, nella maggior parte delle ipotesi, la vittima ed il suo aggressore condividono le “mura di casa”. Mentre reati come il maltrattamento in famiglia sembrano essere in diminuzione, quelli che sono diretti a procurare nocumento, di qualsiasi natura e genere, nei confronti di esseri umani di sesso femminile sono in aumento e, in 6 casi su 10, il loro carnefice risulta essere il partner o l’ex partner. In contesti come questi, è la “prevenzione” ad essere indicata come chiave che apre tutte le porte. Ma in che modo porla in essere e renderla davvero efficace? Da un punto di vista penalistico il nostro Paese prevede una disciplina volta a tutelare, in generale, cittadini-vittime di atti di violenza; disciplina resa ancora più rigorosa dalla recente entrata in vigore della legge 19 luglio 2019, n. 69 (c.d. Codice Rosso) che appresta un sistema di tutela più stringente e preponderante nei confronti delle vittime di sesso femminile. Ma siamo sicuri che tutto ciò sia sufficiente? Per rispondere nella maniera più limpida possibile a questa domanda bisogna, per prima cosa, far luce sulla corrispondenza delle previsioni legislative, intese in senso astratto, con quella che è la loro effettiva applicabilità nel caso concreto. Invero, spesso si tratta di interventi veramente eccezionali dal punto di vista contenutistico che, però, non sono accompagnati da un altrettanto eccezionale intervento da parte dello Stato, per quanto attiene al piano strutturale, di investimento e di risorse, sia di personale, sia di carattere economico. Prevenire la violenza delle donne significa, piuttosto, combattere le sue radici culturali e le sue cause; significa adottare strategie politiche mirate all’educazione, alla sensibilizzazione, al riconoscimento e alla realizzazione delle pari opportunità in ogni ambito della vita pubblica e privata. Essenziale è impegnarsi e lavorare per combattere le discriminazioni e gli stereotipi legati ai ruoli di genere e al sessismo, poiché costituiscono il presupposto per la creazione di contesti favorevoli alla perpetuazione della violenza maschile contro le donne. E allora, come fare tutto ciò? Gli spunti a nostro favore certo non mancano. Per prima cosa, non possiamo non investire, anche in questo caso, nelle nuove generazioni e nella loro, e nostra, formazione. Necessario si rende, a tal punto, tornare ad impartire principi e regole elementari che riguardino il rispetto tra gli esseri umani, punto fondamentale di partenza per poter creare la “società di domani” che sappia vivere nel pieno e profondo rispetto dell’altro. A tal proposito, è la scuola il principale mezzo da “sfruttare”: scuola non è solo il luogo in cui si apprende una determinata materia quanto piuttosto quello in cui si impara a stare al mondo, a sapersi comportare correttamente e rispettosamente. Come non servirsi, poi, degli strumenti mediatici che oggigiorno costituiscono il nostro mezzo di informazione per eccellenza? Si potrebbe, ad esempio, adottare l’idea di dar vita ad una “pubblicità martellante” che, attraverso la spiegazione (anche visiva) delle conseguenze derivanti da tali atti non nobili, dimostri come essi si ripercuotano prima di tutto sui figli, due volte privi dei genitori, e di come lascino una traccia invisibile, ma indelebile, sulla comunità, sia familiare che lavorativa. Prevenire è una responsabilità che grava su ciascuno di noi, in quanto tutti cittadini e tutti esseri umani. È una responsabilità che ci dobbiamo addossare e che non possiamo assolutamente più trasferire, con la solita tecnica (che ci è tanto cara) dello “scarica barile”, addosso a chi ha il compito di regolamentare la nostra quotidianità. Tutto ciò non per minimizzare il lavoro del legislatore concretizzatosi nel c.d. “Codice Rosso”, anzi. Esso si presenta come un intervento legislativo assolutamente opportuno ed utile al fine di contrastare reati connotati da violenza domestica e di genere, mediante la garanzia di una più incisiva ed efficace tutela nei confronti di donne-vittime. A tal proposito, dal punto di vista sostanziale, vengono introdotti nuovi reati e previsti inasprimenti sanzionatori nei confronti di quelli già positivizzati. Dal punto di vista processuale, invece, si è inteso rendere più efficace la tutela preventiva della persona offesa attraverso un meccanismo rigido di “velocizzazione” delle operazioni compiute dall’Autorità giudiziaria. A tutto ciò si accompagna, poi, la previsione di specifici obblighi di comunicazione nonché la possibilità di applicare, anche per tali reati, la disciplina delle misure di prevenzione. Tuttavia, nella sua pur compiutezza formale, il “Codice Rosso” sembra peccare da un punto di vista applicativo. Insoddisfacente appare l’apparato strumentale predisposto dallo Stato perché possa essere adempiuta con precisione ogni prescrizione normativa. Insoddisfacente perché si tratta, in fin dei conti, di una riforma a “costo zero”. C’è mancanza di personale, mezzi, strutture e soprattutto di investimenti. Mancano quelli che diano la possibilità di attivare un percorso di educazione che sia rivolto, primi fra tutti, agli uomini. Si tratta, purtroppo, dei soliti “corsi e ricorsi storici”. La stessa insufficienza ha colpito, infatti, i figli delle vittime di femminicidio: c’è una legge del 2018 ma mancano ancora i decreti attuativi per renderla efficace e i finanziamenti per farla funzionare. È questo il risvolto più drammatico: dolore che si aggiunge al dolore. La questione concernente gli orfani dei femminicidi è l’immagine emblematica di una risposta ordinamentale che non funziona: sarebbe sicuramente più opportuno che venissero messi da parte i proclami per concentrarsi sui problemi concreti veramente urgenti. Continueremo ogni giorno a sensibilizzare sulla piaga della violenza sulle donne e dei femminicidi che, allo stato degli atti, nessuna norma penale, anche la più repressiva, riesce purtroppo a fermare. Il nostro impegno deve essere quello di far sì che il 25 Novembre non sia più la “la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne” ma un giorno qualsiasi. E ciò potrà accadere solo quando a trionfare sarà la cultura del rispetto per la donna. Della donna che deve essere libera di scegliere la propria vita, ma soprattutto della donna libera da qualsiasi forma di violenza, fisica o psicologica, da parte di un uomo. Spartizioni e scandali, l’Anm al congresso della crisi di Giovanni Altoprati Il Riformista, 27 novembre 2019 Nel fine settimana a Genova l’incontro che si tiene ogni due anni: è il primo dopo il terremoto Palamara. Ma l’attenzione è già spostata sulla primavera quando ci saranno le elezioni per il rinnovo sindacale. Le varie correnti pronte a darsi battaglia. Quello che si terrà nel fine settimana al teatro Carlo Felice di Genova è l’ultimo congresso dell’attuale Associazione nazionale magistrati. Le elezioni per il rinnovo del sindacato unico delle toghe sono già in programma per la prossima primavera. Grande escluso dell’evento, il pm Luca Palamara, fino a qualche mese fa ras indiscusso dei magistrati italiani. Il 34° congresso nazionale cade, infatti, all’indomani dello scandalo sulle nomine che ha travolto il Csm, con le dimissioni di ben cinque consiglieri togati su sedici ed il pensionamento forzato del procuratore generale della Cassazione, Riccardo Fuzio. Solo l’intervento autorevole del Quirinale, in un drammatico Plenum di giugno, in cui si evocò addirittura il fantasma della P2, ha evitato lo scioglimento anticipato dell’organo di autogoverno delle toghe. Scioglimento che avrebbe minato ancora di più la credibilità delle magistratura, già in caduta verticale. In questi mesi i magistrati hanno operato la rimozione collettiva di quanto accaduto a maggio, cercando di mettere Palamara, e quello che ha rappresentato, sotto il tappetto della propria coscienza. Ma Palamara, leader di Unicost, il gruppo centrista delle toghe, forte di oltre 2500 preferenze ai tempi d’oro, era parte attiva di un sistema efficiente ed efficace: quello della spartizione degli incarichi in base ai rapporti di forza. Ma, come spesso accade in Italia, il passaggio da piazza Venezia a piazzale Loreto è rapidissimo ed ora Palamara è sospeso dal servizio e i tantissimi beneficiari della lottizzazione togata fanno fatica a pronunciarne il nome. Cosa resterà dunque di questi quattro anni di Anm? L’immagine di una magistratura sempre più balcanizzata, con le correnti che si combattono senza esclusioni di colpi per avere più direttivi, più incarichi fuori ruolo, più posti al Massimario della Cassazione e alla Scuola superiore della magistratura. Dopo lo scandalo Palamara, infatti, nulla è cambiato. Tutte le ultime nomine del Csm sono riconducibili alle correnti che detengono l’attuale maggioranza. L’esperienza della giunta unitaria, tutti i quattro gruppi associativi intorno allo stesso tavolo, è stata poi a dir poco fallimentare. Piercamillo Davigo, il primo ed ultimo presidente della giunta unitaria, dopo solo un anno decise di rompere. Motivo? Sempre quello, le modalità di assegnazione degli incarichi. Era comunque utopistico tenere insieme Magistratura indipendente, la destra giudiziaria, con Magistratura democratica, il gruppo di sinistra. Da un lato la corrente del disimpegno. concentrata sulle tutele sindacali dei magistrati, dall’altro chi da sempre rivendica l’impegno attivo nella vita pubblica. Md fece campagna pancia a terra contro la riforma costituzionale voluta da Matteo Renzi ed è stata la più feroce avversaria di tutti i provvedimenti targati Matteo Salvini: dalla legittima difesa ai vari decreti sicurezza. Cosa succederà l’anno prossimo nessuno è in grado di dirlo. La magistratura in questi anni ha cambiato per un terzo la sua composizione. Con l’abbassamento dell’età pensionabile da 75 a 70 anni è sparita tutta la generazione di magistrati che era entrata in servizio negli anni 70. Anni di grande cambiamento, quelli dei pretori d’assalto. Le nuove leve non hanno la stessa passione di chi li ha preceduti. Anche perché entrano in servizio sempre più tardi, quando il sacro fuoco giovanile si è ormai spento. E chi comanda negli Uffici? I capi, oltre mille le nomine effettuate nella scorsa consiliatura del Csm, sono il prodotto della gestione Palamara, con cui bisognerà prima o poi fare i conti. Per il momento, però. i magistrati italiani stanno imitando lo struzzo. La violenza grave e ripetuta nel tempo è tortura di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 27 novembre 2019 La violenza grave e reiterata fa scattare il reato di tortura. E l’applicazione del crimine a chiunque e non solo al pubblico ufficiale è in linea con il diritto internazionale. La Cassazione, (sentenza 47079) respinge il ricorso dei legali dei bulli di Manduria sottoposti a custodia cautelare per il reato di tortura nei confronti di un pensionato morto, secondo l’accusa, per le conseguenze delle vessazioni e delle violenze subite dal branco. I legali degli imputati contestavano, per l’assenza degli elementi, l’applicazione del reato, introdotto dalla legge 110/2017, con l’articolo 613-bis del Codice penale. La Suprema corte avalla - pur chiarendo che esiste una nutrita dottrina dissenziente - la scelta del legislatore di non identificare il reato solo con la tortura di “Stato” prevedendo una fattispecie comune. Una conclusione coerente con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, per la quale il divieto di tortura riguarda sia i soggetti pubblici sia i privati. Quanto ai presupposti del reato, si ricavano dalla norma. L’articolo 613-bis del Codice penale disegna un reato doloso, vincolato dalle modalità della condotta, dall’evento naturalistico, e dalla condizione del soggetto passivo. Nel giudizio pesano, dunque, le violenze, le minacce gravi, la crudeltà, le acute sofferenze fisiche o psichiche e la privazione della libertà personale come la minorata difesa. I giudici precisano inoltre che secondo la norma, che sul punto si muove sulla falsariga dello stalking, le azioni integrano il reato se le condotte sono plurime o se c’è un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona. Tuttavia esiste una clausola di chiusura che dà rilevanza anche ad un solo atto se lede l’incolumità fisica e la libertà individuale e morale del soggetto. Scatta in tal caso il trattamento inumano e degradante insito, ad esempio, nel waterboarding, una delle tecniche di tortura usate a Guantánamo. Per la Cassazione meno immediata è l’interpretazione dell’aggettivo “gravi”, se debba intendersi riferito alle violenze o alle sole minacce. I giudici precisano che i lavori preparatori non offrono una soluzione chiara. Da un lato si afferma che la condotta deve essere connotata da “violenze, minacce gravi e crudeltà”, dall’altro si inseriscono tra i requisiti “la gravità delle violenze e delle minacce”. La Cassazione decide per la prima soluzione, affidandosi alla comune esperienza secondo la quale difficilmente le acute sofferenze e i verificabili traumi sono ricollegabili a violenze non gravi. Quanto alla pluralità delle condotte, in alternativa al trattamento inumano e degradante, i giudici escludono che singoli atti di violenza integrino una pluralità di condotte. Per il reato occorre che le violenze e le minacce siano realizzate a più riprese o commesse con più condotte messe in atto in un arco temporale abbastanza lungo. In questo quadro rientrano i fatti di Manduria. Truffa per chi altera il contachilometri dell’automobile di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 27 novembre 2019 Tribunale di Ferrara - Sezione penale - Sentenza 28 maggio 2019 n. 513. Commette il reato di truffa il venditore che, mediante l’alterazione del reale chilometraggio di un’autovettura, eseguita con intervento sul relativo tachimetro, faccia apparire una percorrenza chilometrica di gran lunga inferiore a quella reale, così inducendo in errore l’acquirente sulle reali condizioni di usura del mezzo e sulla congruità del prezzo pattuito. Questo è quanto emerge dalla sentenza n. 513/2019 del Tribunale di Ferrara. I fatti - Vittime della truffa sono due coniugi i quali, alla ricerca di una autovettura usata, rispondevano ad un annuncio online inserito dal titolare di una società concessionaria di autoveicoli di un paese nelle vicinanze. Dopo aver trovato l’accordo con il venditore sul prezzo, la coppia si faceva consegnare direttamente l’autovettura, sostanzialmente fidandosi delle rassicurazioni fornite sulle buone condizioni della macchina. Dopo poche settimane, tuttavia, la vettura presentava i primi problemi e, a seguito di controlli eseguiti presso un’officina ufficiale della casa automobilistica di appartenenza dell’auto, gli acquirenti scoprivano che l’automobile aveva percorso già 4 anni prima dell’acquisito più di 200 mila km, contro i 95 mila dichiarati dal venditore nell’annuncio. Di qui i vani tentativi di contattare il titolare della concessionaria e la successiva querela per truffa. La decisione - Instaurato il processo penale contro il titolare della società concessionaria, il Tribunale ritiene integrati gli estremi del reato ex articolo 640 del codice penale, essendo tra l’atro l’imputato già stato più volte segnalato nelle banche dati in uso alle forze dell’ordine per condotte truffaldine attuate con le medesime modalità. Ebbene, il giudice afferma che la ricostruzione dell’accaduto denota “chiaramente una volontà ingannatoria, che ha tratto in errore gli acquirenti dell’autovettura circa le reali caratteristiche e lo stato di usura della stessa”. Difatti, i messaggi con i quali l’automobile veniva presentata nell’annuncio online sono di natura mendace e hanno indotto i coniugi “ad acquistare l’automobile a un prezzo maggiore rispetto a quello di mercato”. Anzi, sottolinea il Tribunale, se gli stessi coniugi avessero conosciuto il reale chilometraggio del veicolo, con ogni probabilità non si sarebbero affatto determinati all’acquisto. Hiv: sul reato di epidemia pesano il numero di persone e i tempi del contagio di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 27 novembre 2019 Corte di cassazione - Sezione I - Sentenza 26 novembre 2019 n. 48014. Contagio e non epidemia se la trasmissione del virus, nello specifico Hiv, riguarda un numero di persone cospicuo ma non ingente in un lungo arco di tempo. La Corte di cassazione, con la sentenza 48014, conferma la condanna a 22 anni di carcere per Valentino Talluto, processato per aver contagiato con l’Hiv 32 donne conosciute in una chat. La Suprema corte oltre al ricorso dell’imputato ha respinto anche quello del Pg che chiedeva la condanna per il reato di epidemia. Ad avviso del Pg, l’abrogazione dell’articolo 554 del Codice penale sul contagio di sifilide e blenorragia, non comportava come affermato nella sentenza impugnata, l’impossibilità di ravvisare la responsabilità del reato di epidemia. Nello specifico però, per la Suprema corte mancano gli elementi del reato. Un crimine che si caratterizza per la “diffusività incontrollabile all’interno di un numero rilevante di soggetti e quindi per una malattia contagiosa, dal rapido sviluppo ed autonomo, entro un numero indeterminato di soggetti e per una durata cronologicamente limitata”. Nella vicenda specifica il contagio ha riguardato un numero di persone per quanto cospicuo, certo non ingente e in un tempo molto ampio: nove anni. Circostanze “che rendono il fatto estraneo alla descrizione tipizzante appena prima illustrata”. Secondo la Cassazione, dunque, “l’ampiezza del dato temporale in cui si è verificato il contagio, in uno col fatto che un altrettanto cospicuo numero di donne, che pure ebbero rapporti sessuali non protetti con l’imputato, non furono infettate, militano nel senso della carenza, nella vicenda in esame, della connotazione fondamentale del fenomeno epidemico, che giova a qualificare la fattispecie in termini di reato di pericolo concreto per l’incolumità pubblica, ossia la facile trasmissibilità della malattia ad una cerchia ancora più ampia di persone”. Tuttavia i giudici non escludono che, in altri casi, possa configurarsi - ad esempio con il concorso di più persone - l’accusa di aver diffuso una epidemia. “Non persuade l’assunto dei giudici di appello - si legge nella sentenza - che non possa parlarsi di diffusione rilevante per la fattispecie di epidemia se non vi sia un possesso di germi patogeni in capo all’autore segnato da separazione fisica tra l’oggetto, quel che viene diffuso, e il soggetto, ossia chi diffonde”. “La norma non impone questa relazione di alterità e non esclude che una diffusione possa aversi pur quando l’agente sia esso stesso il vettore dei germi patogeni” Monza. Detenuto di 46 anni si impicca, nel carcere è il secondo decesso in un mese nuovabrianza.it, 27 novembre 2019 Detenuto muore nella Casa circondariale di via Sanquirico a Monza. L’uomo, 46 anni, si è ucciso impiccandosi nella sezione B del carcere di Monza al quartiere San Rocco. Ne hanno dato notizia gli operatori dell’Areu, l’Azienda regionale emergenza urgenza, che è stata chiamata a intervenire all’interno del carcere poco dopo le 10 di martedì 26 novembre. Gli operatori del 118 hanno cercato inutilmente di rianimarlo invano sul posto. Ancora un dramma nel carcere di Monza a distanza di un solo mese. In via Sanquirico 6, al quartiere San Rocco, sono giunte immediatamente un’ambulanza e un’auto medica. Le condizioni dell’uomo però sono apparse subito disperate. Il personale medico ha iniziato subito l’intervento di soccorso con una rianimazione cardiopolmonare che però non è servita a nulla. Il detenuto è stato dichiarato morto poco dopo il loro intervento. Ora si dovrà capire cosa sia accaduto e ricostruire la dinamica della morte dell’uomo. La vicenda umana riaccende i riflettori sul tema delle condizioni nelle carceri. Nello specifico sul numero di detenuti negli istituti penitenziari. Nella maggior parte dei casi al di sopra dei limiti consentiti. Un mese fa, sempre nel carcere di via Sanquirico a Monza, un morto per un arresto cardiaco. Il 50enne è spirato al Pronto soccorso dell’ospedale San Gerardo. Donato Capece, segretario generale SAPPE ha definito allarmante la situazione sanitaria delle carceri che somigliano a “moderni lazzaretti di manzoniana memoria”. “In Lombardia vi sono 18 istituti penitenziari sui 190 nazionali. La capienza regolamentare regionale stabilita per decreto dal Ministero sarebbe di 6.199 detenuti. L’ultimo censimento ufficiale ha contato 8.618 reclusi. Questo dato conferma come la Lombardia sia la Regione con il maggior numero di detenuti”. Ha spiegato il segretario regionale della Lombardia Alfonso Greco Greco. Bologna. Suicidio al carcere Dozza, l’ennesima vittima non fa quasi notizia di Vito Totire* labottegadelbarbieri.org, 27 novembre 2019 Un giovane di 27 anni, Costantin Fiti, è l’ennesima vittima della assenza totale di una politica di prevenzione. Un quotidiano di Bologna informa, il 23 novembre, del suicidio. Stando al monitoraggio di Radiocarcere sarebbe il 43° suicidio nelle carceri italiane del 2019 a fronte di un numero totale di 114 persone decedute. I commenti registrati dalla stampa sono nel segno della rassegnazione e dell’impotenza. Parrebbe, da alcuni commenti, che la prevenzione fondi soprattutto - o esclusivamente - sulla vigilanza fisica che ovviamente è molto difficile con gli indici di affollamento delle carceri italiane; oppure che la prevenzione si basi solo sulla capacità di capire se e quando privare la persona di lacci e lenzuola. Nel caso dell’ultimo suicidio (prima di questo) abbiamo inviato un esposto alla Procura della Repubblica di Bologna che non ha ritenuto di sentirci sulla vicenda né ha probabilmente aperto alcun fascicolo sul filone di indagine che abbiamo proposto. Riteniamo doveroso insistere: occorre assolutamente valutare l’eventuale omissione colposa con previsione di misure di prevenzione. Come per il tragico episodio che ha riguardato Stefano Monti ribadiamo le nostre istanze: Occorre valutare l’esistenza di un piano generale di prevenzione. Occorre accertare quali attività di prevenzione siano state adottate ad personam e con quali mezzi per monitorare, prevenire e contrastare pulsioni suicidarie; è stato valutato il rischio dell’adozione di condotte autolesive con la presa in carico da parte di esperti della prevenzione (psicologo e/o psichiatra coadiuvati, se occorre, da mediatori culturali)? Esistono cenni e riscontri di questa attività nella cartella clinica di Costantin Fiti? Sappiamo che il tema è difficile e che non è mai stato affrontato adeguatamente fin dai primi tempi dell’apertura di un carcere che ha visto una sequenza impressionante di eventi suicidari e para-suicidari, senza dimenticare l’evento verificatosi in Questura nel 2017 rispetto al quale le indagini si conclusero - incredibilmente - senza alcuna attribuzione di responsabilità. Evidentemente le istituzioni considerano questi suicidi inevitabili o peggio li considerano eventi “normali”. Al contrario. Considerato che una politica di prevenzione è possibile, considerato che i fattori di rischio sono prevedibili e studiati da molti decenni, chiediamo che la Procura della repubblica di Bologna apra un’indagine approfondita sulla eventuale “omissione colposa con previsione di misure di prevenzione” e sull’eventualità di abuso di mezzi di correzione. E su questo ultimo luttuoso evento del carcere di Bologna - punta dell’iceberg di una condizione di disagio cronicizzata e diffusa - invieremo un esposto anche alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Il carcere è un problema di tutti. Le istituzioni continuano da decenni a tacere su una situazione di illegalità che - se verificata in qualunque altra struttura recettiva - ne comporterebbe la chiusura immediata. Per la Dozza e per le altre carceri invece “si chiude un occhio” il che viola i prìncipi elementari di giustizia e di equità ed è fonte di grave dissonanza cognitiva, paradossale per un luogo che pretende di rappresentare l’affermazione della norma sulla devianza da reprimere. Le istituzioni inoltre insistono nel respingere istanze di partecipazione e finalizzate alla trasparenza. Da tempo abbiamo chiesto di poter visionare il progetto del “nuovo padiglione” del carcere -un progetto che noi riteniamo da respingere - ma dopo la prima, la seconda e la terza istanza (a interlocutori diversi) aspettiamo dal 1° novembre 2019 (quando sono scaduti 30 giorni) una risposta che non arriva… Il carcere di Bologna è un luogo di morte e va demolito, altro che nuovo padiglione! Va integralmente ristrutturato per rispondere a una nuova politica di gestione delle pene che presuppone un ribaltamento della politica sbagliata e retrograda del governo attualmente in carica, evidentemente ignaro (oppure ostile?) nei fatti dei prìncipi costituzionali. *Portavoce del coordinamento Chico Mendes e del Centro Francesco Lorusso Vicenza. Detenuti per mafia trasferiti nel carcere. Il direttore: “ora attendiamo rinforzi” di Raffaella Ianuale Il Gazzettino, 27 novembre 2019 “Sono arrivati i 416 bis e altri ancora ne arriveranno, questo prevede un aggravio di lavoro e noi cercheremo di garantire un servizio d’ordine come è nostro dovere fare. Era da mesi che si parlava di questa situazione e ora è diventata realtà”. Fabrizio Cacciabue, direttore a scavalco del carcere Filippo del Papa di Vicenza se proprio deve trovare un lato positivo nell’arrivo dei detenuti per mafia lo ravvisa nel fatto che “evidentemente ci considerano all’altezza e si fidano”, consapevole comunque che per fare questo salto di qualità il carcere va potenziato di uomini e mezzi e soprattutto deve avere un direttore in pianta stabile. Perché il carcere di Vicenza sta diventando un caso finito sul tavolo del comitato per la sicurezza e anche in parlamento attraverso l’interrogazione dell’onorevole di Fratelli d’Italia Maria Cristina Caretta. Qui sono già arrivati sessanta detenuti accusati di associazione a delinquere, altri quaranta ne arriveranno a breve e la prospettiva è che alla fine dei trasferimenti possano diventare duecento. “Confermo, evidentemente c’è una ridistribuzione dei detenuti di alta sicurezza e stanno deflazionando altri istituti portando i detenuti da noi. In previsione già questa estate ci avevano potenziato dandoci trenta nuove unità - spiega Cacciabue - e ci hanno garantito che arriveranno ulteriori rinforzi, ma sinceramente non so quando e anche il problema del direttore appena possibile verrà risolto”. L’“appena possibile” si lega al fatto che attualmente di direttori di carcere disponibili non ce ne sono. Fabrizio Cacciabue è stato per anni il direttore del carcere di Vicenza, ma dopo il suo trasferimento alla casa circondariale di Padova riesce a garantire la sua presenza al Filippo del Papa per un paio di giorni alla settimana. “Il bando di concorso per ricoprire questo ruolo è già stato bandito, poi per una serie di problemi burocratici è stato rinviato. Comunque ora dovrebbe essere tutto a posto e prevede quarantacinque nuovi direttori di carcere - prosegue - quindi non appena ci saranno, sicuramente uno sarà destinato a Vicenza. Diventa fondamentale considerato che questo carcere è stato scelto per ospitare un elevato numero di detenuti soggetti al 416 bis”. Si tratta per la maggior parte di detenuti che hanno reati per mafia, ndrangheta, sacra corona unita e camorra. “Avere detenuti di questo tipo - continua il direttore - comporta responsabilità maggiori perché richiedono più attenzione, quindi confidiamo che arrivino le nuove unità”. Una situazione che ha sollevato le preoccupazioni di tutte le sigle sindacali della polizia penitenziaria, a partire dall’Uspp, che hanno denunciato come l’affollamento del carcere, la carenza del personale e l’arrivo dei detenuti per mafia possano mettere a rischio la sicurezza. Il deputato vicentino della Lega Erik Pretto, componente della Commissione parlamentare antimafia, ha intanto fatto un’interrogazione urgente sull’arrivo dei detenuti per mafia a Vicenza. “Inaccettabile - dice - ho depositato un’interrogazione parlamentare urgente al ministro della Giustizia per chiedere i motivi che hanno portato alla scelta di destinarli alla nostra regione, nonostante le già precarie condizioni legate alle infiltrazioni della criminalità organizzata in questo territorio”. Varese. Detenuti meno “soli”, arriva lo sportello del Garante varesenews.it, 27 novembre 2019 Presentato martedì mattina ai Miogni un servizio che aiuta la popolazione carceraria a sbrigare diverse pratiche. “Chi ha commesso un errore, domani potrà riprendersi la vita tra le mani, perché chi sta qui, ricordiamolo, continua ad essere cittadino”. Il difensore regionale della Lombardia Carlo Lio era questa mattina al carcere dei Miogni per la presentazione dello “Sportello del Garante regionale dei detenuti” di Varese. Pratiche sanitarie pensionistiche, richieste, ricongiungimenti familiari e avvicinamenti, addirittura pratiche automobilistiche in vista di un rinnovo della patente che può rappresentare un’occasione fondamentale per ricostruirsi una vita fuori dalle sbarre, per avere “una seconda chance”. Da oggi questo servizio è una realtà e al cercare di Varese era presente anche il prefetto Enrico Ricci che ha elogiato questo servizio, “perché bisogna credere e praticare l’umanità della pena invocata dalla Costituzione, come pure la funzione rieducative del carcere”. Un nuovo servizio dunque per Varese - ma non per il Varesotto perché già attivo nel carcere di Busto Arsizio, oltre che in altre località della Lombardia - che ha l’obiettivo di incidere in maniera reale sui diritti dei detenuti, specialmente per quelli che hanno meno possibilità di essere aiutati da un legale, come ha ricordatolo stesso Lio. Inoltre l’agevolazione di tutte le pratiche - proprio come per quelle automobilistiche - può aiutare ad accorciare i tempi burocratici e influire positivamente sulla rieducazione. La grande scommessa è l’abbassamento del tasso di recidiva (cioè la propensione scommettere nuovamente rati una volta tornati in libertà) che per il sistema carcerario italiano ancora molto elevato rispetto agli altri Paesi europei: siamo al 68%, mentre per chi è affidato a misure alternative si ferma al 19% (fonte: il Sole24Ore su dati Ministero della Giustizia). Per questo nel 2018 il ministero della giustizia si è dotato presso l’Ufficio di Gabinetto del gruppo di lavoro “Osservatorio permanente sulla recidiva” L’unico antidoto conosciuto per ovviare a questa piaga dagli altissimi costi sociali è rappresentato infatti dal lavoro. Quindi ogni pratica che diviene meno macchinosa anche per arrivare a questo obiettivo, da queste parti è ben accolta. “Per il momento non sono ancora stati fissati gli orari e i giorni in cui questo servizio sarà attivo”, ha spiegato la direttrice della Casa circondariale di Varese, Carla Santandrea. Alla cerimonia del “taglio del nastro” era presente anche il questore di Varese Giovanni Pepè, l’assessore ai servizi sociali del Comune di Varese Roberto Molinari, il comandante polizia penitenziaria Alessandro Croci, la direttrice dell’Ats Insubria Barbara Lamperti, il Direttore Ufficio Esecuzione Penale Esterna (Uepe) Maria Grazia Mezzanzanica che hanno sottolineato, ciascun secondo i propri ambiti di competenza, l’importanza delle politiche di ascolto e d’intervento finalizzate al reintegro in società di quelle persone che si vengono a trovare in regime di libertà sospesa. Gli uffici dove si potranno imbastire colloqui individuali è stato ricavato con la ristrutturazione di due stanze al piano terreno della struttura. Per accedere al Garante regionale è necessario fare domanda attraverso apposito modulo che va presentato all’amministrazione penitenziaria di Varese. In tutto il carcere dei Miogni di Varese ospita 82 detenuti. Paola (Cs). Detenuto in isolamento totale da 40 giorni, la denuncia di un legale di Francesca Lagatta lacnews24.it, 27 novembre 2019 L’avvocato ha annunciato che presenterà un esposto al ministro della Giustizia per protestare contro il trattamento subito dal suo assistito. Costretto a un isolamento integrale che sta mettendo a dura prova il suo equilibrio mentale. In altre parole, murato vivo. È la sorte che starebbe toccando a un detenuto della casa circondariale di Paola, dove si trova rinchiuso dallo scorso 19 ottobre. A denunciare il fatto è il suo avvocato Francesco Liserre, che già due volte si è rivolto al tribunale affinché riesca a cambiare il corso di un destino che appare seriamente compromesso. “Se il grado di civiltà di un paese, come scriveva Voltaire, si misura osservando le sue carceri - afferma il legale - allora la nostra civiltà è drammaticamente e irrimediabilmente compromessa”. La vicenda - Per capire come si è arrivati a questa situazione, è necessario fare un passo indietro e raccontare i fatti da principio. Il protagonista è un uomo di Diamante, indagato del reato di maltrattamenti in famiglia. Le manette per lui sono scattate quando ha violato la disposizione del divieto di avvicinamento alla ex convivente, stazionando sotto casa della donna. “Provvedimento cautelare - tiene a precisare l’avvocato - formalmente ineccepibile”. Anche se per tutelare i diritti del suo assistito, ha immediatamente proposto appello alla Sezione Riesame del Tribunale di Catanzaro, la cui udienza di discussione è fissata per il prossimo 10 dicembre. La legge del carcere - Fin qui tutto regolare. I problemi, per l’uomo, sono cominciati quando ha varcato la soglia del carcere paolano. Perché se la legge italiana fa acqua da tutte le parti, quella carceraria non perdona. Benché l’uomo sia imputato in un processo non ancora iniziato in primo grado e, pertanto, innocente fino a prova contraria, si ritrova, di fatto, da più di un mese, in totale isolamento diurno e notturno, al solo fine di sottrarlo alla furia degli altri detenuti, che mal digeriscono gli “infami”, ossia, chi si macchia di atti di violenza di ogni genere nei confronti di donne e bambini. “È una condizione allucinante e disumana - dice ancora Liserre - con tutte le prevedibili e nefaste conseguenze psicologiche, contraria a quella finalità rieducativa, costituzionalmente garantita, che vieta trattamenti inumani e afflittivi della pena che annichiliscano e degradino la dignità di qualsiasi essere umano”. Un trattamento, sottolinea il legale, che non sarebbe riservato neanche ai criminali più più spietati. “Per gli ergastolani - continua Liserre - sono previste forme detentive di eccezionale rigore che prevedono al massimo l’isolamento diurno e spazi più ampi di quelli riconosciuti al mio assistito”. “Sono circa 40 giorni - dice affranto Liserre - che il mio assistito è letteralmente sigillato (testuale terminologia utilizzata dai costernati agenti di Polizia Penitenziaria del carcere di Paola - uomini di grande professionalità e sensibilità ma impotenti dinanzi a questo scempio), ad eccezione dei colloqui con il sottoscritto difensore, per timore delle sicure conseguenze alla propria incolumità”. Pertanto, dopo aver denunciato l’allarmante situazione, per iscritto, e in più occasioni al Personale della Polizia Penitenziaria della Casa Circondariale di Paola, presenterà un dettagliato esposto al ministro della Giustizia, al Dap, nonché a tutti gli altri organi istituzionali competenti. “Indipendentemente dalla commissione e dal definitivo accertamento anche del più efferato delitto”, la dignità di qualunque cittadino non dove “mai essere sacrificata sull’altare di becere logiche, giustizialiste e populiste” che troppo spesso condannano un detenuto, ancora prima delle sentenza, a pagare il conto con la giustizia con la propria vita. La vicenda di Stefano Cucchi dovrebbe averci insegnato qualcosa. Ascoli. Carcere del Marino, incontro con la direttrice Eleonora Consoli di Simone Corradetti cronachepicene.it, 27 novembre 2019 “Ci sono 80 detenuti per una capienza di 120, la Polizia Penitenziaria conta 123 unità rispetto alle 162 previste dalla legge. Si socializza molto con associazioni esterne e un detenuto. Dopo tanti anni di lontananza, ha parlato via Skype con l’anziana madre”. Nel 2020 torna il periodico trimestrale, si chiamerà “L’eco del Marino”. Eleonora Consoli dirige la casa circondariale di Marino del Tronto dallo scorso giugno. Prima di arrivare ad Ascoli, aveva ricoperto lo stesso ruolo nel carcere di Fermo dal 2008. Quello ascolano è un Istituto da sempre considerato eccellente, anche perché ospitava il cosiddetto “carcere duro” (41bis) che venne smantellato nel giugno 2018, con diversi detenuti trasferiti altrove. Quale è la situazione attuale? La nostra struttura conta 80 detenuti, con una capienza di 120, ma attualmente una sezione è in fase di restauro. Abbiamo diversi reparti: media sicurezza, protetti (ex appartenenti alle forze dell’ordine), articolazione salute mentale, osservazione psichiatrica, semiliberi (escono la mattina per lavorare e rientrano la sera) e alta sicurezza per chi è coinvolto in traffico internazionale di stupefacenti o finalizzati allo spaccio (articolo 4 bis). Come siete organizzati all’interno della struttura? La Polizia Penitenziaria ha una carenza di organico di circa il 30%. Abbiamo un totale di 123 unità, rispetto alle 162 previste dalla legge. Trenta detenuti al mese svolgono un’attività lavorativa in carcere, al servizio dell’Amministrazione. Ci sono addetti alle pulizie, alla cucina, alla distribuzione del vitto, alla consegna della spesa, alla lavanderia e l’assistenza alle persone con difficoltà motorie. Il loro lavoro serve per la rieducazione e la riabilitazione, come previsto dall’articolo 27 della Costituzione. Nelle camere detentive, le ex celle, pranzano con gli altri compagni di stanza e hanno la possibilità di farsi la doccia, direttamente al suo interno. E l’importanza di coinvolgere soggetti esterni? È importantissimo farli socializzare con soggetti e associazioni esterni. Infatti è iniziato “Il mio campo libero”, un progetto per l’attività sportiva, e sono poi numerose le scuole che vengono in visita da noi. Abbiamo poi una scuola per i detenuti, i quali hanno già scritto un libro dal titolo “La luna è dietro le sbarre, il mare ha il colore del sole”. Poi c’è il campetto da calcio, il teatro e un’area verde per far incontrare ad esempio il padre detenuto con i suoi bambini. C’è la sala colloqui, ma anche la possibilità di parlare via Skype con parenti lontani. Grazie a questa tecnologia, infatti, Un detenuto ha avuto la possibilità di comunicare con l’anziana madre dopo tanti anni di lontananza. Il sabato e la domenica, si svolgono le messe nei vari reparti, e si insegna anche catechismo. Nel 2020 ritornerà la rivista trimestrale dell’Istituto, con un nuovo nome: “L’eco del Marino”. I detenuti come trascorreranno il Natale? Ci tengo a ringraziare gli agenti per la loro umanità e professionalità. E i volontari che ci assistono sempre come la Caritas, l’Associazione Papa Giovanni XXIII e la parrocchia di Palmiano. I detenuti cucineranno e mangeranno le loro specialità, nelle proprie camere. Chieti. Giornalismo sociale, al Galiani presentazione del progetto “In carta libera” chietitoday.it, 27 novembre 2019 Il progetto editoriale dove lavorano fianco a fianco detenuti, giornalisti, studenti, educatori, volontari di Voci di dentro che operano nelle Case circondariali di Chieti e Pescara. Mercoledì 27 novembre, alle ore 11, nell’aula magna dell’istituto “Galiani-De Sterlich” a Chieti, l’associazione Voci di dentro presenta “In carta libera”: un percorso integrato di in-formazione e giornalismo sociale che vede coinvolti anche gli studenti della scuola. L’incontro è aperto a tutti. Il progetto della Onlus “Voci di dentro” è finanziato dalla Regione Abruzzo e prevede, attraverso laboratori di scrittura e giornalismo, informatica e web journalism, grafica editoriale, fotografia e video una opportunità di formazione professionale, sociale e umana destinata a persone in stato di disagio/devianza (dipendenti da sostanze, detenuti nelle carceri di Chieti e Pescara, ex detenuti, persone in semilibertà ed affidati Udepe). Il progetto editoriale, partito a ottobre, prevede la costituzione di una redazione giornalistica composta da detenuti, giornalisti professionisti, studenti, educatori, mediatori e volontari di Voci di dentro che operano nelle case circondariali di Chieti e Pescara. I componenti della redazione crescono assieme, in un percorso di conoscenza reciproca, di scambio e confronto a vantaggio di tutti: i detenuti hanno l’occasione di apprendere da esempi positivi; gli studenti comprendono e interiorizzano le conseguenze negative causate da dipendenze e da comportamenti devianti. Nella consapevolezza che la scrittura non è un bene superfluo, ma necessario, un vero e proprio atto di libertà. Ai laboratori partecipano gli studenti dell’ITC Galiani De Stelich e del Convitto nazionale GB Vico. In carta libera si avvale anche della collaborazione dell’associazione Granello di Senape Padova Onlus, che gestisce ‘Ristretti Orizzonti’: la più importante redazione che si occupa di carcere in Italia. Firenze. Scrittura creativa in carcere, al via il corso a Sollicciano Redattore Sociale, 27 novembre 2019 Riprendono le lezioni del corso di Arci Firenze nel carcere di Sollicciano, ideato e condotto dalla scrittrice Monica Sarsini, aperto ai detenuti e agli esterni. L’iscrizione, da quest’anno gratuita, è aperta fino al 5 dicembre. Tornerà dal prossimo 14 gennaio “Scrittura d’evasione”, il corso di scrittura creativa promosso da Arci Firenze, giunto alla sua quinta edizione. Il progetto di animazione sociale e culturale rivolto alla popolazione carceraria, ideato e condotto dalla scrittrice Monica Sarsini, torna dopo i successi delle passate edizioni ed anche quest’anno porterà nelle aule della scuola carceraria di Sollicciano scrittori, giornalisti e documentaristi in un ciclo di 20 incontri settimanali che da gennaio fino a maggio coinvolgerà un gruppo formato da detenuti e partecipanti esterni. Per questa quinta edizione il motore della narrazione richiesta ai partecipanti sarà il tema del Viaggio con tutte le sue numerosissime implicazioni, dirette ed indirette, presenti nella vita di ognuno di noi. Il tema sarà sviluppato attraverso lezioni frontali e laboratori in cui si lavorerà sui testi elaborati dai partecipanti, ma anche incontri con scrittori, attori e docenti universitari, per offrire ai partecipanti una grande opportunità di confronto, formazione e crescita: uno strumento prezioso per imparare ad ascoltare se stessi e gli altri, per poi raccontare e raccontarsi. Tra i nomi degli ospiti di questa edizione lo scrittore romano Tommaso Giagni, la giovane scrittrice di romanzi già premiata col Premio Brancati Giulia Caminito ma anche Augusta Brettoni ed il giornalista ed esperto di comunicazione Gioacchino De Chirico.In seguito all’esperienza del laboratorio di scrittura creativa nella sezione femminile, dal 2016 Monica Sarsini insieme ad Arci Firenze ha progettato un corso di scrittura creativa anche nella sezione maschile del carcere di Sollicciano, dove questa attività non era ancora stata prevista in modo continuativo. La successiva ulteriore idea di aprire il corso anche a persone esterne ha creato uno scambio attivo ed importante per i due mondi separati, partendo dal principio base che la lettura e la scrittura non sono attività solitarie e isolate, ma creano la possibilità di una riflessione collettiva. Un progetto, quello di “scrittura d’evasione”, su cui il Comitato fiorentino di Arci crede ed investe da anni con convinzione, proprio per la sua capacità di coniugare quei valori di inclusione, umanità, solidarietà, cultura e partecipazione su cui l’Associazione si fonda.Il corso sarà gratuito per tutti i partecipanti. Una novità rispetto agli scorsi, grazie anche al contributo del Comune di Firenze nell’ambito del progetto “realizzazione attività di animazione culturale e socializzazione a favore della popolazione carceraria del Nuovo Complesso Penitenziario di Sollicciano e della Casa Circondariale maschile Mario Gozzini” realizzato in Rti con Cat (Capofila) e Arci Firenze (partner). Il progetto è realizzato grazie alla collaborazione e al sostegno dell’Istituto Cpia 1 Firenze, dei suoi docenti e della scuola carceraria. Come nelle passate edizioni, l’emittente fiorentina Novaradio di cui Arci Firenze è editore, trasmetterà al termine del corso degli estratti dai racconti. Ivrea (To). Cosa sanno i cittadini del carcere? giornalelavoce.it, 27 novembre 2019 Come preannunciato, l’associazione Avp d’Ivrea “Tino Beiletti”, la scorsa settimana, in sala Santa Marta, ha presentato il Progetto “Carcerati Cittadini” che si tradurrà in un lavoro statistico sulla conoscenza che i cittadini hanno del carcere di Ivrea. Molto più semplicemente un questionario on-line (all’indirizzo www.avpivrea.it) o cartaceo da consegnare ai volontari con domande sul diritto allo studio, al lavoro, sulla pena preventiva e rieducativa, su un mondo e su argomenti, insomma, di cui spesso si sente parlare, ma non sempre se ne parla a ragion veduta. Oltre ai volontari Avp, alla conferenza hanno partecipato alcuni giornalisti, amministratori pubblici e imprenditori particolarmente vicini alla campagna di sensibilizzazione. “Grazie a tutti coloro che sono intervenuti” ha commentato il presidente Giulio Tassi mostrando i lavori di alcuni detenuti (origami, manufatti del laboratorio “Scacco… maglia” ecc). Al tavolo dei relatori anche Marilena Pola, molto attiva nel mondo della scuola, Paolo Balbi, project manager del progetto e Silvio Salussolia redattore della rivista “Alba”. “La nostra consapevolezza - commenta Giulio Tassi - è che la cittadinanza non ha la pressoché minima conoscenza delle dinamiche della carcerazione e del forte impatto economico e sociale della Casa circondariale d’Ivrea. La considerazione, gli atteggiamenti ed i comportamenti che si assumono nei confronti dei carcerati sono infatti in genere tali da escluderli poi, da un loro reinserimento. Una visione diversa esiste ed è quella di vedere anche il detenuto come una risorsa e non solo una minaccia permanente che per esperienza vissuta può produrre anche risultati a dir poco sorprendenti. Per questo è stato predisposto un questionario anonimo destinato alla popolazione eporediese, per conoscere l’orientamento, la conoscenza e nel contempo attivare una maggiore consapevolezza sulla questione carceraria. L’elaborazione dei risultati darà un quadro più preciso per poter meglio intervenire ed operare a favore dei cittadini tutti, compresi i carcerati. L’associazione - L’Associazione Volontari Penitenziari, nata nel 2011, continua la presenza e l’attività di operatori volontari iniziata nella Casa Circondariale di Ivrea, negli anni settanta. Una presenza silenziosa, ma ormai insostituibile, che offre alle persone private della libertà un aiuto concreto, che si compie nelle varie forme di solidarietà previste dalla riforma penitenziaria del 1975. E si va dalla fornitura di beni per l’igiene personale e di indumenti, alla gestione di una serie di attività ludiche, ricreative, scolastiche, culturali e formative con attività sul territorio. Infine anche una rivista “Alba” che è una finestra vera e propria sempre aperta su questo mondo. I volontari cercano anche di costruire e tenere viva la necessaria relazione tra la città e coloro che vivono nel carcere. E per chi ne volesse sapere di più la sede si trova al civico 6 di piazza Castello. Nuoro. Scarpette rosse per il carcere di Badu e Carros di Stefania Vatieri La Nuova Sardegna, 27 novembre 2019 Un gruppo di detenuti celebra la Giornata contro la violenza sulle donne. I detenuti di Badu e Carros dicono No alla violenza sulle donne. Nella giornata mondiale è stata presentata all’interno della casa circondariale nuorese l’installazione sul tema della violenza di genere creata da un gruppo di detenuti, che attraverso l’arte hanno voluto esprimere il loro pensiero. Una iniziativa messa in campo dalla direttrice Patrizia Incollu e dal commissario capo della polizia penitenziaria del carcere barbaricino e referente regionale delle pari opportunità della polizia penitenziaria, Manuela Cojana, che grazie alla collaborazione di un gruppo di detenuti hanno dato vita a un’opera con l’obiettivo di sensibilizzare i detenuti sul sempre più attuale tema della violenza sulle donne. Il simbolo scelto è l’ormai celebre scarpetta rossa che i detenuti hanno intagliato e posizionato alla base di un pannello dove è stata incisa la frase dello scrittore irlandese Oscar Wilde: “Date alle donne occasioni adeguate ed esse potranno fare tutto”. Ai lati dell’opera due sedie rosse che simboleggiano la quotidianità. “In questa giornata così importante abbiamo voluto lanciare un messaggio e dare voce al pensiero dei detenuti del carcere di Badu e Carros - spiega Manuela Cojana commissario capo della Polizia penitenziaria. I detenuti hanno lavorato diversi giorni per la realizzazione dell’installazione con l’aiuto del capo d’arte falegname del carcere. La frase l’ho scelta perché racchiude una tematica molto importante che parla di opportunità negate e uomini sempre più intimoriti dal valore delle donne”. Un problema che secondo la referente per le pari opportunità sfocerebbe nei gesti estremi di cui ogni giorno sono piene le cronache dei giornali. Ogni quarto d’ora c’è una donna che subisce una violenza. Un dato agghiacciante, che racconta non solo un verità che fa paura ma anche il fatto che a colpire siano uomini vicini, nella cerchia di parenti e amici, delle nostre madri, sorelle, compagne e amiche. È noto infatti che sono spesso i partner o gli ex partner a commettere gli atti più gravi: in Italia sono responsabili del 62,7 per cento degli stupri. Una lunga scia di violenza che a volte culmina con l’estrema conseguenza: il femminicidio, dove nel 38 per cento dei casi di omicidi di donne, il responsabile è, ancora una volta, il partner. In Italia e nel mondo subisce violenza, mediamente, una donna su tre dai 15 anni in su”. “Stiamo parlando di un fenomeno dilagante che negli ultimi anni sta assumendo i contorni di una vera emergenza sociale - conclude Manuela Cojana. Il fatto che l’opera sia stata realizzata da mani maschili simboleggia il fatto che senza l’aiuto degli uomini non è possibile porre fine a questo sterminio”. Per la giornata mondiale contro la violenza sulle donne è stato scelto il 25 novembre perché in questo stesso giorno del 1960, furono uccise le tre sorelle Mirabal, attiviste politiche della Repubblica Dominicana. È una data importante, per ricordare a tutti che il rispetto è alla base di ogni rapporto e che non possiamo continuare a veder crescere il numero delle donne che subiscono violenza. Simbolo di questa giornata sono appunto le scarpe rosse. Gorizia. Una giornata di incontro fra i detenuti e la Caritas di don Alberto de Nadai e Steven Stergar Voce Isontina, 27 novembre 2019 Domenica 3 novembre i detenuti di Gorizia hanno voluto organizzare una giornata di incontro con la direzione della Caritas diocesana guidata dall’arcivescovo Carlo. L’evento è stato preparato e preceduto da una serie di incontri formativi indispensabili per giungere nel migliore dei modi in tali occasioni di confronto con persone dell’esterno e non solite alla struttura. Suddivisa in tre parti pre-individuate, la giornata del 3 novembre ha avuto come principali obiettivi quelli di far incontrare la comunità di detenuti con gruppi esterni alle mura del carcere, incentivando un dialogo informale e paritario tra parti. La prima parte della giornata ha visto il celebrare della Santa Messa nell’aula adibita agli incontri formativi e scolastici. In tale momento, la Diocesi goriziana ha effettuato un servizio comunitario per un gruppo di cittadini momentaneamente esclusi dalle attività esterne di condivisione e partecipazione, ricevendo in dono dai detenuti un mosaico realizzato in occasione dell’onomastico dell’Arcivescovo; il dono fa riferimento diretto ad Aquileia, come luogo d’incontro tra i vari popoli, metafora di ciò che il carcere è a tutti gli effetti, seppur sotto altra luce. La seconda parte ha previsto un pranzo comunitario occasione unica per poter tutti assieme partecipare a un momento informale di scambio culturale e sociale, consentendo agli ospiti esterni di dialogare in prima persona con i detenuti, ascoltando e rispondendo alle loro storie e ai loro quesiti. Le due parti sono servite come ulteriore preparazione per intavolare la discussione avvenuta nel terzo, e conclusivo momento della giornata, dove il gruppo formatori ha preso in prima persona la parola in qualità di moderatori dell’assemblea. Un vero e proprio sinodo, nel quale questi e il gruppo lavoro dei detenuti hanno potuto presentare un’idea di progettualità rieducativa pensata e trascritta grazie al lavoro e alle esperienze maturate nei mesi passati. Un progetto scritto, siglato dai detenuti e dai formatori, e consegnato nelle mani della Caritas nella speranza che questa possa prender parte attiva alla realizzazione e promozione di attività esterne per i soggetti detenuti della Casa Circondariale, nonché per coloro che hanno già scontato la pena giudiziaria ma non hanno alternative e possibilità al di fuori delle mura. Un progetto “casa” che possa allora essere esempio di comunità e partecipazione alla vita sociale. Detenuti e gruppo dei formatori auspicano che con il sostegno della Caritas, ogni parte integrante operativa in carcere potrà svolgere nei migliori dei modi quel lavoro di rieducazione e inclusione sociale necessario al reinserimento dei detenuti. Sassari. Le detenute “ripartono da loro” di Paoletta Farina La Nuova Sardegna, 27 novembre 2019 Progetto del Polo universitario carcerario di Bancali: un team al femminile insegna la “sorellanza”. “Riparto da me”. Tre parole in cui è condensata l’esperienza che sta vivendo una decina di detenute del carcere di Bancali. Grazie a un progetto del Polo universitario penitenziario, creato e proposto da un gruppo di volontarie di cui fanno parte la docente e delegata al Pup per il Dipartimento di Agraria, Marilena Budroni, Caterina Arru, direttrice della Biblioteca universitaria, Rita Marras, da sempre impegnata nella tutela dei detenuti, la naturopata Angela Sanna e la counselor Laura Masala. Il progetto è stato fortemente voluto anche dal delegato rettorale Emmanuele Farris e dalla responsabile dell’Area trattamentale del carcere di Bancali Ilenia Troffa. Il Pup dell’Università da diversi anni porta avanti un lavoro di orientamento e istruzione universitaria all’interno di diversi istituti penitenziari (oltre Sassari, Alghero, Tempio e Nuoro) e che ha già visto numerosi detenuti conseguire una laurea. Era quindi tempo di provare ad interagire con le donne carcerate, minoranza spesso dimenticata. Un team tutto al femminile si è messo all’opera, coinvolgendo prima di tutto gli educatori, e dal 7 novembre (e lo farà fino al prossimo mese) incontra settimanalmente le donne in carcere per offrire strumenti utili di consapevolezza delle capacità e delle potenzialità di ogni persona. Perché le donne abbiano la possibilità di costruire autostima già in carcere e un futuro quando le sbarre si riapriranno e ci sarà una nuova vita a cui andare incontro. È infatti dimostrato che le donne sono punti di snodo fondamentali per sovvertire il degrado e la violenza familiare, un destino che spesso sembra ineluttabile e che può non esserlo se le donne cambiano la percezione di se stesse. Un percorso reso possibile anche dalla direttrice del carcere, Elisa Milanesi, e dagli educatori che hanno aderito mettendo in campo le loro competenze e affiancando il gruppo di volontarie. “Un progetto innovativo e unico in questo momento nelle carceri italiane, dove la collaborazione tra Università, Area trattamentale e libere professioniste consente di ottenere sinergie a vantaggio delle detenute, ma anche delle istituzioni coinvolte”, spiega la responsabile Marilena Budroni. La popolazione carceraria femminile, a Bancali è una minoranza di appena 11 donne rispetto ai 451 detenuti complessivi. Donne con un livello basso di istruzione, molte straniere, così che anche la comunicazione non è sempre facile. Perciò, gli incontri non hanno un approccio didattico di tipo accademico, ma tendono a creare anche al di là dei temi che vengono affrontati, un rapporto tra donne che vivono all’interno di una casa di reclusione e donne che vivono al di fuori, in uno scambio reciproco di condivisione di esperienze e vita. “Direi che il fine ultimo è di creare una “sorellanza” che regala a tutte le donne coinvolte arricchimento, e consapevolezza che la diversità è un bene da coltivare, che niente è mai perduto e che si può ricominciare a credere in se stesse anche in carcere”, afferma Budroni. Le emozioni sono palpabili ad ogni incontro, a partire dal primo di presentazione del progetto, per le rose regalate alle detenute e tanti altri momenti di grande empatia si sono creati da quando sono cominciati gli appuntamenti settimanali. Sedute in cerchio, si pratica tutte insieme autostima, yoga e meditazione, utili - come è stato dimostrato in altre carceri che già hanno avviato questo tipo di sperimentazione - contro stress, conflitti e autolesionismo. Si impara a prendersi cura di mente e il corpo, del proprio benessere fisico attraverso l’aroma terapia e la naturopatia di genere, a praticare una alimentazione sana e adottare uno stile corretto di vita. “Le detenute, dopo una diffidenza iniziale, stanno partecipando con curiosità e gradimento - racconta Marilena Budroni - e anche per noi si è aperta un’opportunità di conoscenza e comprensione di una realtà troppo spesso ignorata. Ci siamo trovate di fronte a persone profondamente vere, con un passato di violenze subite ma che hanno voglia di riscatto e noi vogliamo offrire loro gli strumenti per poter arrivare a una rinascita. Anche la violenza sulle donne si combatte rafforzando le donne”. Con il progetto “Riparto da me” il Polo universitario penitenziario aggiunge un nuovo tassello alla missione educativa nei confronti della popolazione carceraria, perché è la cultura che può sconfiggere la violenza. Eboli (Sa). “Natale in casa… I.C.A.T.T.”, i detenuti salgono sul palco salernonotizie.it, 27 novembre 2019 Andrà in scena lunedì 23 dicembre 2019, alle ore 18.30, presso l’I.C.A.T.T. di Eboli, Istituto a Custodia Attenuata per il Trattamento dei Tossicodipendenti diretto dalla Dott.ssa Concetta Felaco, lo spettacolo teatrale dal titolo “Natale in casa… Icatt” la cui regia sarà curata da Enzo D’Arco. L’iniziativa nasce su proposta dell’Associazione di Promozione Sociale “Mi girano le ruote” di Campagna, presieduta da Vitina Maioriello. Saliranno sul palco alcuni ragazzi ospiti della struttura penitenziaria diretti dall’abile regista ed attore professionista valdianese, Enzo D’Arco. Lo spettacolo è l’evento finale di un progetto di teatro fortemente voluto dal sodalizio “Mi girano le ruote” a cui, negli ultimi mesi, hanno preso parte i ragazzi ospiti dell’istituto penitenziario. Un laboratorio teatrale di qualità, un vero e proprio corso di formazione professionale tenuto da D’Arco, accolto con grande entusiasmo dai ragazzi e che è stato finanziato con fondi provenienti dalle rassegne teatrali tenutesi nella primavera di quest’anno curate dall’associazione campagnese. “Il teatro - dichiara Maioriello - è salutare, fa bene all’anima, è l’arte più nobile e profonda. Uno strumento potente che, oltre ad avere un grande valore trattamentale, svolge al contempo una preziosa funzione di collegamento con la società insegnando a chi ha sbagliato qualcosa di più su se stesso. Lo porta ad una sorta di rinascita, dopo la quale può reinserirsi in maniera più consapevole nella comunità civile”. Al termine della rappresentazione ci si intratterrà con gli ospiti attualmente detenuti per uno scambio di auguri e un dolce rinfresco natalizio. In un periodo in cui le condizioni delle carceri italiane fanno tanto discutere, nella Casa Circondariale di Eboli si prova a fare entrare la magia del Natale affinché chi si trova in carcere possa intraprendere nuovi percorsi, nuove strade che portino ad un concreto reinserimento una volta scontata la pena. Per partecipare allo spettacolo è necessario contattare gli organizzatori al 331.4182348 per avviare la procedura di registrazione che consentirà di accedere nell’istituto di custodia. Bologna. Rugby oltre le sbarre, sfida tra “Giallo Dozza” e “Drola” di Giacomo Mazzocchi attualita.it, 27 novembre 2019 Il rugby è lo sport educativo e formativo per eccellenza che insegna a stare insieme e condividere tutto, rispettare tutto e tutti perché la Meta è un obiettivo che si raggiunge in collettivo. Ormai sono tanti i giovani che nei carceri italiani hanno imparato a vivere insieme nel rugby e tantissimi hanno avuto l’occasione per reinserirsi pienamente e positivamente nella società. Le autorità carcerarie e quelle della Federugby hanno collaborato nel progetto ‘Rugby Oltre le Sbarrè ed oggi sono in tanti negli istituti di pena ad allenarsi con tecnici abilitati a formare squadre, a partecipare ad una attività agonistica che può arrivare dalle sfide fra istituti, alle attività interne, fino alla serie C; a viaggiare in trasferte. A dare ancora, insomma, un senso alla propria vita. A diventare bravi giocatori di rugby che quando riacquistano la piena libertà, trovano un ambiente che li aspetta e li rispetta e che loro sono entusiasti di rispettare. Fra le prime carceri a tuffarsi nel progetto, vi sono quelle di Torino e Bologna che ogni anno si affrontano per una sfida dal sapore di Coppa Italia. Sarà un derby speciale quello che andrà in scena, domani, 28 novembre alle 14 presso il carcere Dozza di Bologna. A sfidarsi saranno la squadra Giallo Dozza - formata dai detenuti della stessa casa circondariale della città felsinea - e quella della Drola di Torino, composta da detenuti de “Le Vallette”, l’istituto di pena del capoluogo piemontese. Incipit dai contenuti prettamente sportivi, ma il contesto va ben oltre quello del campo e i punti conquistati al di fuori hanno una valenza più ampia rispetto a quelli che il rettangolo da gioco mette in palio. La partita in calendario a Bologna nel primo pomeriggio di domani giovedì è, infatti, una sfida tra le due realtà che hanno sposato per prime il progetto “Rugby oltre le sbarre”. Il percorso intrapreso dalle due case circondariali - con il pieno sostegno della Federazione Italiana Rugby, parte attiva nello sviluppo del progetto - ha svolto la funzione di volano verso altre realtà simili che hanno aperto le proprie porte al rugby come uno degli strumenti per l’educazione e il reinserimento dei detenuti: grazie al protocollo Fir/Dap, sono oggi sedici gli istituti dove viene praticato il rugby, dall’11 settembre di quest’anno incluso ufficialmente dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria tra le attività utili all’educazione e alla formazione del detenuto, mentre Drola, Giallo Dozza e Bisonti di Frosinone, si sono aggiudicati il Bando della Presidenza del Consiglio “Inclusione Sociale attraverso lo sport”. Da dieci anni a oggi il numero delle case circondariali che hanno aperto le porte al rugby è in costante aumento. All’interno delle carceri sono presenti detenuti che hanno ottenuto, studiando, il patentino da direttore di gara. Un contesto, quello delle carceri, dove i valori educativi del Gioco trovano piena applicazione: rispetto per le regole, per l’avversario, verso l’arbitro e le sue decisioni; il sostegno che si riceve e si offre ai compagni di squadra. “Il Rugby oltre le sbarre è un progetto consolidato - afferma Stefano Cantoni, Consigliere Federale referente del Progetto Carceri per la Federazione Italiana Rugby - ed entrambe le squadre, provenienti dal carcere della Drola e Dozza, militano nel campionato regionale di Serie C grazie alle modifiche alle regolamentazioni che il Consiglio ha posto in essere negli anni, consapevole dell’alto valore educativo e sociale di queste attività svolte con passione, entusiasmo e senso civico dai nostri Club. La pratica del rugby negli istituti carcerari certifica il valore dell’attività formativa e i forti legami che il rugby genera: sono numerosi i casi di detenuti che, reinseriti nella società, hanno continuato a giocare, mentre nel carcere di Pesaro alcuni di loro hanno frequentato i corsi Cnar e l’abilitazione a svolgere il ruolo di arbitro”. “Sarà il terzo incontro tra il carcere della Drola e della Dozza. Un derby che aggiunge un senso di sfida ad un progetto di cui siamo orgogliosi, in particolare, per la capacità di incarnare appieno, nelle difficoltà date dal contesto, i valori fondanti del nostro gioco”. “Atonement. Storia di un prigioniero e degli altri”, di Salvatore Torre agensir.it, 27 novembre 2019 Mons. Viganò, “la speranza non deve venire meno in carcere”. “Non chiedo mai a un detenuto se è un credente o se prega. Infatti un credente, anche se peccatore, non smette mai di essere credente. Quando il peccato assume i contorni del reato questo non preclude l’essere discepolo del Signore. Discepolo, che in un momento della propria vita, non è riuscito a manifestare il volto di Dio e si è ripiegato sui propri interessi individualistici come il potere”. Sono le parole di mons. Mons. Dario Edoardo Viganò, vice-cancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze e delle Scienze sociali della Santa Sede, che scrive nell’introduzione del libro “Atonement. Storia di un prigioniero e degli altri” edito dalla Libreria editrice vaticana. Il volume “Atonement”, curato dalla giornalista Antonella Bolelli Ferrera, è firmato da Salvatore Torre, detenuto cinquantenne fine pena mai, divenuto negli anni scrittore. Sempre nel testo, indica ancora mons. Viganò: “Queste pagine toccano non solo per i contenuti che veicolano, ma per le parole, per le espressioni, spesso forti, a volte anche volgari, che dicono proprio quel mondo fangoso e martoriato da cui difficilmente si intravvede l’orizzonte di un’alba non solo rinnovata ma anche capace di essere, a propria volta, olio profumato sulle ferite profonde e spesso sanguinanti dell’umanità”. Seguendo progetti di pastorale carceraria dagli anni 90, prima in Brasile e poi in Italia, mons. Viganò ha sottolineato nel volume di Torre: “Il carcere deve rappresentare per le persone recluse un tratto dell’esistenza che ha come obiettivo non semplicemente pagare un debito con la giustizia ma individuare le strade possibili per una rinnovata esistenza. E molti istituti di pena hanno equipe di educatori, psicologi che, insieme alle guardie carcerarie, sanno offrire cammini di riappropriazione della proprie esistenza. Per Salvatore Torre è stata la scrittura, per altri la recitazione - ricordo il bellissimo film dei fratelli Taviani “Cesare deve morire” del 2012, Orso d’oro a Berlino - così come per altri i mestieri della migliore tradizione italiana. Papa Francesco su questo è chiaro: ‘se si chiude in cella la speranza, non c’è futuro per la società. Mai privare del diritto di ricominciare!’”. Migranti. I giudici scagionano Salvini: “Le Ong sbarchino nel loro Paese” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 27 novembre 2019 Il Tribunale dei ministri sul caso migranti: lo Stato di primo contatto è quello della nave. La responsabilità di assegnare un “porto sicuro” alle navi con i profughi soccorsi in mare spetta allo “Stato di primo contatto”, che però non è sempre facile individuare. Tuttavia, volendo seguire “alla lettera” le indicazioni che si possono ricavare da Convenzioni e accordi, “lo Stato di primo contatto non può che identificarsi in quello della nave che ha provveduto al salvataggio”; dunque se un’imbarcazione che ha raccolto i naufraghi batte bandiera tedesca, è alla Germania che deve rivolgersi per ottenere l’approdo. Così ritiene il tribunale dei ministri di Roma, che anche per questo motivo, il 21 novembre, ha archiviato le accuse di omissione di atti d’ufficio e abuso d’ufficio nei confronti dell’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini e del capo di Gabinetto Matteo Piantedosi, per aver negato lo sbarco ai 65 migranti che si trovavano a bordo della nave tedesca Alan Kurdi, della Ong Sea Eye, nell’aprile scorso. “L’assenza di norme di portata precettiva chiara applicabili alla vicenda - hanno scritto i giudici Maurizio Silvestri, Marcella Trovato e Chiara Gallo - non consente di individuare, con riferimento all’ipotizzato, indebito rifiuto di indicazione del Pos (Place of safety), precisi obblighi di legge violati dagli indagati, e di conseguenza di ricondurre i loro comportamenti a fattispecie di rilevanza penale”. Niente reati quindi, e niente processo. Qualche giorno fa Salvini aveva esultato alla notizia dell’archiviazione: “Finalmente un tribunale riconosce che bloccare gli sbarchi non autorizzati non è reato”; ora le motivazioni del provvedimento potrebbero accrescere la sua soddisfazione. Oltre a stabilire la responsabilità dello Stato di appartenenza della nave che ha soccorso i profughi, infatti, il tribunale romano aggiunge che quando - come nel caso della Alan Kurdi, e come spesso accade - le coste di quel Paese sono troppo lontane, “la normativa non offre soluzioni precettive idonee ai fini di un intervento efficace volto alla tutela della sicurezza dei migranti in percolo”. Le leggi sono inadeguate, e tutto è rimesso a “una concreta e fattiva cooperazione tra gli Stati interessati che, fino a oggi, è di fatto scritta solo sulla carta”. L’interpretazione di norme e regolamenti, però, sembra tutt’altro che scontata. E difficilmente il provvedimento del tribunale porrà fine a denunce e inchieste. Come dimostra la richiesta della Procura di Roma, che aveva sollecitato i giudici ad archiviare il fascicolo con motivazioni ben diverse. Secondo le conclusioni del pm Sergio Colaiocco (avallate dai procuratori aggiunti Michele Prestipino, Paolo Ielo e Francesco Caporale), una volta interpellata l’Italia aveva l’obbligo di concedere il Pos, in forza della Convenzione di Amburgo. Ma non il ministero dell’Interno (e dunque Salvini), bensì la Guardia costiera, che fa capo al ministero delle Infrastrutture. Il quale con un atto del 2015 ha delegato la pratica al Viminale per accelerare le procedure: ma ciò non fa venire meno la propria responsabilità, e le eventuali omissioni. Nel caso della Alan Kurdi, Salvini fece scrivere a Piantedosi una direttiva di divieto d’ingresso e transito nelle acque italiane che per i pm “appare in contrasto con più di una disposizione di legge”. Tuttavia per contestare l’abuso d’ufficio serve un “dolo intenzionale” mirato a provocare danni a terzi, mentre l’ex ministro e il suo capo di Gabinetto avevano altri intenti. Di qui la richiesta di archiviazione per ragioni del tutto differenti da quelle del tribunale: l’illecito di Salvini ci fu, senza però rientrare nei reati di omissione o abuso d’ufficio. Stati Uniti. Riconosciuti innocenti e liberati dopo 36 anni di carcere Corriere della Sera, 27 novembre 2019 Erano stati condannati all’ergastolo quando avevano 16 anni. Tre uomini arrestati nel 1983 e giudicati colpevoli dell’assassinio di un teenager in una scuola pubblica di Baltimora sono stati scarcerati dopo che la magistratura ha riconosciuto l’errore giudiziario. Alfred Chestnut, Andrew Stewart e Ransom Watkins, ora ultracinquantenni, avevano 16 anni ed erano studenti di liceo quando 36 anni fa finirono dietro le sbarre. All’epoca, l’assassinio del quattordicenne DeWitt Duckett aveva fatto scalpore: il ragazzino era stato ferito mortalmente per rubargli un giaccone della Georgetown University. Revisionando il caso gli investigatori hanno scoperto che a sparargli era stato un altro studente, Michael Willis, a sua volta ucciso in una sparatoria nel 2002.Chestnut, Stewart e Watkins avevano fin dall’inizio protestato la loro innocenza. E avevano continuato a battersi, tanto da rinunciare allo sconto di pena e restare in cella perché negavano di aver commesso il fatto. Il caso era stato riaperto su insistenza di Chestnut, che qualche mese fa aveva scritto una lettera alle autorità dopo aver ottenuto i documenti con i racconti di diversi testimoni. I quali avevano identificato il killer ma erano stati ignorati dalla polizia. Bangladesh. Strage degli italiani, condannati a morte sette membri del commando di Michele Sasso La Stampa, 27 novembre 2019 A luglio 2016 morirono 20 persone in un bar-ristorante di Dacca. Un tribunale antiterrorismo di Dacca, la capitale del Bangladesh, ha condannato sette persone alla pena di morte in relazione all’attacco sferrato il primo luglio 2016 contro il bar-ristorante Holey Artisan Bakery nel quartiere diplomatico di Gulshan nel quale morirono 20 persone, tra cui nove italiani. Lo riferisce il sito “Bdnews24”. Mojibur Rahman è il giudice che ha emesso le sentenze, contro le quali gli imputati possono ricorrere in appello. I sette condannati a morte - Jahangir Hossain alias Rajib Gandhi, Rakibul Hasan Regan, Aslam Hossain alias Rashedul Islam alias Rash, Abdus Sabur Khan alias Soheil Mahfuz, Hadisur Rahman Sagar, Shariful Islam Khaled alias Khalid e Mamunur Rashid Ripon - erano presenti in tribunale al momento della lettura della sentenza. Un altro imputato, Mizanur Rahman alias Boro Mizan, è stato assolto dai giudici di un altro tribunale. Nell’attentato di matrice jihadista nel quartiere diplomatico di Gulshan, oltre alle vittime locali, morirono anche sette giapponesi, un americano e un indiano. I terroristi obbligarono i clienti del ristorante a recitare versi del Corano, e uccisero gli occidentali che non conoscevano il testo sacro. Gli imputati condannati sono accusati di aver ideato il massacro, che fu opera invece di cinque giovani. Il commando fece irruzione nel ristorante nel tardo pomeriggio, e vi rimase tutta la notte. Le forze di sicurezza decisero l’assalto al locale all’alba e dopo ore di scontro a fuoco hanno tratto in salvo 13 persone ma gli altri erano stati evidentemente già trucidati. Una volta dentro il bar ristorante nel quartiere diplomatico della capitale del Bangladesh, le teste di cuoio - hanno trovato i corpi senza vita di 20 persone. Nove italiani, sette giapponesi, una studentessa indiana appena 19enne e tre bengalesi dei quali uno era cittadino americano. Dei sette terroristi del commando, sei sono stati uccisi e uno catturato. Tutti i componenti del commando erano cittadini del Bangladesh. Due anni dopo, il 26 novembre 2018, la corte aveva presentato accuse formali per otto membri del gruppo jihadista locale Jamaat-ul-Mujahideen. Il processo prese il via dopo una settimana, il 3 dicembre. La polizia ha accertato che all’attacco parteciparono 21 persone, ma solo 8 furono accusate, poiché le altre 13, inclusi i cinque esecutori della strage, morirono nell’attentato o in altre operazioni successive delle forze speciali. Le autopsie sui corpi dei nove italiani evidenziarono segni di torture, tagli provocati da armi affilate (probabilmente machete) e mutilazioni. Nell’attentato morirono i connazionali Cristian Rossi, 47 anni; Marco Tondat, 39; Nadia Benedetti, 52; Adele Puglisi, 54; Simona Monti, 33; Claudia Maria D’Antona, 56; Vincenzo D’Allestro, 46; Maria Riboli, 34; Claudio Cappelli, 45. Israele. Muore in carcere Sami Abu Diak, “Giorno di Rabbia” palestinese di Michele Giorgio Il Manifesto, 27 novembre 2019 Il detenuto era un malato terminale ma, denunciano i palestinesi, Israele non gli ha concesso di morire a casa. Almeno 70 i palestinesi feriti o intossicati dai gas lacrimogeni durante le proteste. Sami Abu Diak è spirato nella notte tra lunedì e martedì nel centro medico israeliano di Assaf Harofeh, in stato di detenzione e non a casa, con la sua famiglia, come chiedevano da settimane tante voci palestinesi di fronte al rapido aggravarsi delle sue condizioni. Abu Diak, 36 anni, ammalato di cancro, è il 222esimo prigioniero politico palestinese a morire in carcere in Israele dall’inizio, 52 anni fa, dell’occupazione di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme. “È stato curato in ritardo e male”, denunciano i palestinesi. Nonostante fosse un malato terminale e versasse in condizioni critiche, spiegano, i servizi carcerari hanno impedito “fino all’ultimo che Abu Diak ricevesse visite familiari e cure idonee”. Originario di Jenin, nel 2002 Abu Diak era stato arrestato appena 18enne con l’accusa di essere coinvolto nell’uccisione di tre palestinesi collaborazionisti di Israele e condannato a tre ergastoli. “Porteremo il suo caso e quello di altri detenuti nelle carceri israeliane davanti alle organizzazioni internazionali in modo che Israele venga punito per i suoi crimini”, ha promesso Ahmed al Tamimi, del Comitato esecutivo dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina. Il movimento islamico Hamas ha condannato quella che ha descritto come “negligenza medica adottata come da Israele per provocare la morte dei detenuti, è un crimine contro l’umanità e una violazione del diritto internazionale”. La morte in carcere di Sami Abu Diak ha accesso i cortei e i raduni del “Giorno della rabbia” con cui ieri i palestinesi, mobilitati principalmente da Fatah, hanno protestato contro la recente decisione presa dall’Amministrazione Trump di non considerare più illegali le colonie israeliane costruite in Cisgiordania e Gerusalemme Est. Una settantina di manifestanti sono rimasti feriti o intossicati da proiettili di gomma e dal lancio di lacrimogeni da parte dei soldati israeliani. I cortei più partecipati si sono visti a Nablus, Betlemme e Ramallah. “Abbiamo compiuto solo un primo passo, abbiamo un programma articolato su come rendere libere le nostre città”, ha commentato Khaled Mansour dell’ufficio politico del Partito popolare (ex Partito comunista). Non mancano le voci critiche. “Il Giorno della Rabbia ha portato in strada gli attivisti e i ragazzi delle scuole ma non la classe media palestinese. E questo è un segnale grave”, notava ieri l’attivista Bilal Jadu. I palestinesi protestano contro gli insediamenti coloniali e tra i coloni serpeggia il nervosismo. Questi ultimi hanno incassato il nuovo “regalo” di Donald Trump ma guardano con nervosismo alla sorte del premier di destra e principale fautore della colonizzazione, Benyamin Netanyahu, incriminato la scorsa settimana per corruzione, abuso di potere e frode. Un’uscita di scena di Netanyahu e la possibile creazione di una maggioranza centrista dopo le probabili nuove elezioni legislative (a marzo) - il partito centrista Blu Bianco guadagna dei sondaggi dopo l’incriminazione del premier - se da un lato non lasciano immaginare cambiamenti di qualche rilievo nel rapporto tra occupanti ed occupati, tra israeliani e palestinesi, dall’altro potrebbero mettere il freno all’annessione a Israele di buona parte della Cisgiordania occupata promessa da Netanyahu. Al nervosismo si richiamano alcuni per spiegare il moltiplicarsi degli episodi di vandalismo compiuti nelle ultime settimane dai coloni israeliani a danno di palestinesi e talvolta anche dell’Esercito. Scritte ingiuriose in ebraico sono apparse ieri mattina sulle case del villaggio palestinese di Jabaa, in apparente risposta alla rimozione da parte dell’Esercito di una tenda eretta dai coloni in un uliveto fuori dall’insediamento di Bat Ayin. Ad Ayn as Sawiyah i coloni, denunciano i palestinesi, hanno distrutto circa 30 alberi di ulivo. Venerdì scorso sassi lanciati dai coloni hanno ferito una decina di palestinesi a Hebron, tra cui un bimbo di 18 mesi. Il centro israeliano per i diritti umani B’Tselem riferisce che negli ultimi due anni si è registrato un aumento considerevole del numero di attacchi contro i palestinesi da parte dei coloni. Malta. Inchiesta sull’omicido di Caruana Galizia, cadono le prime teste di Youssef Hassan Holgado Il Manifesto, 27 novembre 2019 A due anni dall’attentato. Terremoto politico nel governo laburista e sull’Isola, si dimettono in successione: il braccio destro del premier e il ministro del Turismo, si sospende il titolare dell’Economia. “Tre anni dopo che nostra moglie e madre ha rivelato i crimini finanziari di Keith Schembri e due anni dopo il suo assassinio, Schembri si è dimesso dalla carica di capo di gabinetto del primo ministro Joseph Muscat”. Inizia così il comunicato dei famigliari di Daphne Caruana Galizia, assassinata due anni fa mentre indagava su un caso di corruzione che coinvolgeva vari esponenti politici maltesi. Tra questi c’è anche il ministro del Turismo Konrad Mizzi, le cui dimissioni hanno fatto seguito a quelle del capo di gabinetto. Un vero e proprio terremoto politico causato dagli ultimi importanti sviluppi relativi all’indagine sull’assassinio della giornalista. Il 14 novembre è stato arrestato Melvin Theuma, formalmente un tassista ma figura grigia in questa vicenda, considerato l’intermediario tra gli assassini e il mandante dell’attentato. Per confessare il nome del mandante, Theuma ha chiesto e ottenuto la grazia dal presidente della Repubblica, l’unico in grado di concedere e firmare un tale atto. Il nome fatto dal tassista è quello di Yorgen Fenech, un noto imprenditore che è stato arrestato dalle forze armate maltesi mentre era in fuga dall’Isola con il suo yacht. Dal giorno del suo arresto, avvenuto mercoledì scorso, Fenech è stato rilasciato su cauzione per ben tre volte secondo il Times di Malta. Nel frattempo, durante gli interrogatori con la polizia ha chiesto il perdono presidenziale in cambio della verità sull’assassinio di Daphne. È stato proprio Fenech a dare vita a questa serie di dimissioni visto che avrebbe collegato Keith Schembri ad un grave caso di corruzione. Il magnate maltese, secondo il Times of Malta, avrebbe anche affermato di essere soltanto un anello della catena che porta all’omicidio della giornalista. Fenech avrebbe dichiarato inoltre che Schembri conoscesse l’intermediario Theuma e che addirittura gli avrebbe promesso un incarico di governo. Le accuse gravissime, ancora da verificare da parte degli inquirenti, hanno portato alle dimissioni del capo di gabinetto ieri mattina, dopo che la polizia ha perquisito la sua casa. Poi è stato il turno del ministro Konrad Mizzi il quale ha affermato: “Ho sentito il dovere, nel contesto delle attuali circostanze politiche, di dimettermi con lealtà verso la gente, il Partito Laburista e il presidente del consiglio dei ministri. Voglio chiarire ancora una volta - ha continuato Mizzi - che non ho avuto alcuna relazione, direttamente o indirettamente con 17 Black o Yorgen Fenech”. Sarebbe proprio la società offshore 17 Black, di cui Fenech è proprietario, il mezzo attraverso il quale ottenevano le presunte tangenti i due membri del governo laburista. Nel frattempo il ministro dell’economia Chris Cardona si è autosospeso fino a conclusione delle indagini. “Esortiamo ora le autorità maltesi a perseguire immediatamente Schembri per la sua vasta e lunga attività criminale” affermano i famigliari di Daphne. Chiedono anche di capire come mai il primo ministro Muscat avrebbe protetto i membri del suo governo fino ad oggi. “Il mancato perseguimento di Schembri, Mizzi e dei loro protettori ha avuto conseguenze fatali per nostra moglie e nostra madre. Se ciò continuerà, ci saranno conseguenze fatali per la democrazia maltese” concludono i famigliari. A distanza di due anni dalla sua morte, finalmente le inchieste di Daphne, da sempre screditate e prese di mira dal mondo politico, stanno facendo tremare non soltanto il governo, ma l’intera Isola.