La pericolosa regressione dalla pena alla punizione di Giusy Santella mardeisargassi.it, 26 novembre 2019 Da tempo, l’Italia arretra sul piano della tutela dei diritti attraverso i suoi esponenti politici e, di solito, lo fa con grande acclamazione dei più. Appena pochi giorni fa, ad esempio, Matteo Salvini è stato ospite del Congresso Nazionale del Sindacato Autonomo della Polizia e, per l’occasione, ha ribadito che, dovesse tornare al governo, abolirebbe il reato di tortura perché, a suo dire, la polizia deve essere libera di lavorare. Di certo, il leader della Lega non è nuovo a queste esternazioni e nei mesi scorsi si è già più volte schierato dalla parte degli agenti di Polizia penitenziaria accusati, sia a Torino che a San Gimignano, di tortura a danno di detenuti per i quali il fascicolo d’indagini è ancora aperto. E oltre alle foto che esprimono solidarietà a quelli che Salvini definisce padri di famiglia privati ingiustamente del loro stipendio, come se avesse la certezza assoluta della loro innocenza, e che minano all’imparzialità che, per legge, gli agenti della Polizia penitenziaria dovrebbero mantenere, ci sono dichiarazioni ben più gravi. L’ex Ministro degli Interni ha affermato, infatti, che la parola di un detenuto o di un delinquente non può valere quanto quella di un uomo o una donna in divisa, come se fosse la divisa stessa ad attribuire a tali persone un’aureola di santità che le esonera dal loro obbligo di rispettare gli altri in quanto esseri umani. E, invece, chi è detenuto, oltre a essere privato della propria libertà, è spogliato anche della propria credibilità soltanto perché può aver sbagliato, le sue parole sono meno attendibili di quelle di chiunque altro. Ricordiamo che, già nel 2015, prima che il ddl sul reato di tortura diventasse legge, il leader padano aveva preso parte alla manifestazione indetta dal sindacato di polizia contro la sua conversione, affermando che idiozie come questa legge espongono le forze dell’ordine al ricatto dei delinquenti. La norma, però, non dovrebbe preoccupare chi indossa la divisa e lavora in maniera corretta, eppure nessuno si è sentito offeso dalle ultime promesse di Salvini, anzi tutti hanno salutato con favore tale possibilità. Come se il reato di tortura non fosse necessario per evitare gli abusi che troppo spesso sono sotto i nostri occhi e che hanno condotto ad atrocità come quella commessa sulla pelle di Stefano Cucchi. E l’affermazione, sempre salviniana, per cui se devo prendere per il collo un delinquente lo faccio, non fa altro che giustificare nell’opinione pubblica quel retro-pensiero per cui chi finisce in carcere è dotato di minore dignità rispetto a qualsiasi altro essere umano, che le sue affermazioni hanno meno credibilità e che piccoli buffetti e sbeffeggiamenti - o peggio - non vanno considerati abusi di potere. Ma se da Salvini ci si può aspettare una regressione in tale ambito, più stupore ha destato la proposta formulata dall’attuale maggioranza che è stata definita da molti giallorossa, anche se di rosso ha mostrato di avere ben poco. È infatti vicina all’approvazione una legge che rafforzerà i poteri della polizia penitenziaria, a discapito di quelli del direttore del carcere che sarà così privato del suo ruolo di garante e punto d’equilibrio tra le varie anime della realtà carceraria. Il direttore è infatti soggetto terzo perché non appartenente né all’area trattamentale né a quella di sicurezza, permettendo così di mediare tra le varie funzioni che la pena deve perseguire in base al nostro ordinamento, innanzitutto rieducativa per il soggetto privato della libertà e di sicurezza per la collettività, per chi è recluso e per chi in carcere ci lavora. Il comandante di Polizia penitenziaria è la figura gerarchicamente più in alto dell’area della sicurezza ma è a sua volta gerarchicamente subordinato al direttore, cui spetta l’ultima parola in tema di uso delle armi all’interno del carcere e di potere disciplinare. Il progetto di riforma minerebbe a questo delicato equilibrio poiché il capo della polizia penitenziaria sarebbe dotato di poteri disciplinari e di controllo rispetto ai comportamenti della polizia penitenziaria e sarebbe in grado di decidere sull’uso delle armi all’interno del carcere, che ovviamente è la modalità organizzativa opposta a quella fisiologica. Due faccende delicate che non dovrebbero essere valutate da una sola delle anime dell’intera comunità carceraria, la quale è invece complessa e necessita di una profonda mediazione e di un giusto equilibrio. Tutto ciò manifesta un evidente rischio, quello di uno scivolamento di tipo securitario, di una pericolosa regressione a un modello di carcere antecedente alla Costituzione, di mera custodia e polizia che getterebbe nel nulla tutti i piccoli passi in avanti fatti negli ultimi decenni, da quando negli anni Ottanta è stato scelto un modello detentivo che punti innanzitutto alla rieducazione e alla risocializzazione. Ciò che appare chiaro è che, qualunque sia il colore politico della forza in campo, la richiesta incessante di sicurezza della collettività viene appagata attraverso una diminuzione delle tutele e dei diritti fondamentali, attraverso un inasprimento delle sanzioni e un uso ingiustificato della violenza - anche della tortura - che non fa altro che aumentare la sensazione di pericolo già largamente presente nel nostro Paese che poco corrisponde alla realtà. A mancare è un’impostazione culturale e ideologica che metta al centro l’uomo e che non sostituisca alla percezione di pericolo una percezione, anch’essa labile, di sicurezza e stabilità che non potrà essere ottenuta attraverso un rafforzamento dei poteri. Al contrario, non farebbe altro che ricondurre il sistema carcerario nell’oblio della pena come repressione e punizione spogliata di qualsiasi istanza rieducativa. Aumentare le pene? Ma i numeri dicono: le condanne sono già più severe di Daniele Livreri* Il Dubbio, 26 novembre 2019 Da qualche tempo, soprattutto in correlazione al dibattito sulla lotta all’evasione fiscale, si assiste a ripetute invocazioni a un maggior impiego dello strumento detentivo. Il tutto sembra sottendere un argomento noto: il nostro è il paese del ben godi, in cui in carcere non ci sta nessuno, se non qualche mal capitato straniero. In linea con questa visione delle cose, qualche anno fa un noto giornalista riportava in tv una sorta di barzelletta raccontatagli da un magistrato, per il quale, piuttosto che pagare salatissimi divorzi, conveniva uccidere il coniuge, tanto non si finiva in galera. Tuttavia i numeri del Ministero della Giustizia e quelli pubblicati dall’associazione Antigone ci raccontano altro: in Italia la popolazione carceraria cresce ormai costantemente dal 2015, nonostante, almeno dal 2010 i provvedimenti del Legislatore e della Corte Costituzionale consentano un maggiore, ma non indiscriminato, come si vuol far credere, accesso alle misure alternative alla detenzione. Infatti i dati del Ministero della Giustizia rappresentano che al 31.12.2015 le persone detenute erano 52.164, mentre secondo gli ultimi dati pubblicati da Antigone al 31.10.2019 sono 60.985. In neppure 4 anni la crescita delle persone recluse è stata superiore ad otto mila unità. Se poi si confronta la statistica attuale con quella al giugno 1991, primo dato utile pubblicato dal Ministero, colpisce come in quell’anno vi erano “soltanto” 31.053 persone ristrette, quindi poco più della metà di quelle oggi recluse. Il confronto tra il dato del 1991 e quello odierno consente poi di cogliere la composizione sensibilmente diversa della popolazione carceraria. Nel 1991, e così sarebbe stato sino a tutto il 1993, i detenuti in attesa di giudizio erano diverse migliaia in più di coloro che scontavano una pena definitiva. Oggi invece i condannati a titolo definitivo superano di circa ventimila unità gli imputati in vinculis. Ma attenzione, lo scarto attuale non è dovuto ad una contrazione di questi ultimi, leggermente aumentati, ma al sensibile incremento di coloro che stanno scontando la pena a titolo definitivo, passati da 12.689 a 41.103. Dunque, a dispetto delle storielle, sono sempre più i condannati che stanno negli istituti di pena. Peraltro l’aumento del numero dei detenuti pone un interrogativo. Come può la popolazione carceraria aumentare, se le misure alternative, intese in senso ampio, hanno sicuramente contratto il numero di coloro che sono entrati negli istituti di pena e favorito l’uscita di altri dal circuito carcerario? Al riguardo si ricordi che si è ben lontani dai numeri del 2008, allorquando fecero ingresso negli istituti di pena ben 92.800, attestandosi invece gli accessi del 2018 a 47.257 unità. Ed allora la soluzione va trovata nell’inasprimento delle sanzioni. Infatti nel 2009 circa il 60% di coloro che erano in carcere doveva scontare una pena detentiva inferiore a 5 anni, lì dove invece al 2018 questa percentuale si è ridotta al 45.8%, aumentando per converso la percentuale dei detenuti che devono scontare una condanna a pena superiore ad un quinquennio, soglia di pena ben lontana da quella per la quale è possibile accedere a misure alternative alla detenzione, e sempre che il titolo di reato lo consenta. In sintesi, per buona pace dei narratori del paese del Bengodi, il numero dei detenuti e la severità delle pene irrogate aumentano. Se ciò ci possa rassicurare, è altra storia. *Avvocato “E vado a lavorare”: un bando per il reinserimento dei detenuti nel Mezzogiorno La Repubblica, 26 novembre 2019 L’iniziativa, alla seconda edizione, è promossa dalla Fondazione “Con il Sud” nell’ottica di affermare il principio del fine rieducativo della pena. Reinventarsi pasticceri, fornai, operatori ecologici, sarti. Apprendere un mestiere e, magari, trovare anche un impiego stabile. Una prospettiva che potrà realizzarsi grazie agli 8 progetti, selezionati con il Bando “E vado a lavorare”, per il reinserimento socio-lavorativo dei detenuti nelle regioni del Mezzogiorno. L’iniziativa, alla seconda edizione, è promossa dalla Fondazione Con il Sud nell’ottica di affermare il principio del fine rieducativo della pena e con l’obiettivo di dare una reale “seconda possibilità” alle persone che si trovano in regime di detenzione ordinario e/o in regime alternativo alla detenzione. Gli 8 progetti, selezionati su un totale di 88 proposte presentate da partenariati che comprendono almeno una struttura penitenziaria e due enti del Terzo Settore, coinvolgeranno 273 detenuti (tra cui minori, Lgbt, pazienti psichiatrici) in 14 diversi istituti penitenziari e 3 carceri minorili del Sud Italia. Interessati anche 5 uffici per l’esecuzione penale esterna e 1 ufficio servizi sociali per minori. Complessivamente, gli interventi saranno sostenuti con 2,34 milioni di euro di risorse private. Sono 3 i progetti in Sicilia (province di Siracusa, Palermo, Catania, Messina, Caltanissetta), 2 in Campania (entrambi a Napoli); 1 in Calabria (Catanzaro) e 1 in Sardegna (Cagliari). Infine, 1 progetto multiregionale (interessando in Puglia le province di Lecce, Bari, Taranto, Trani; in Basilicata Matera e in Campania Napoli). In allegato le schede dei progetti. Si va dall’avvio di nuove cooperative sociali - anche su desiderio degli stessi detenuti - per la produzione e distribuzione di taralli, dolci, biscotti e altri prodotti da forno (coinvolgendo anche chef stellati); al rafforzamento di realtà imprenditoriali esistenti tra cui una lavanderia, un’impresa specializzata in prodotti da forno e catering, una sartoria sociale; all’inserimento lavorativo in un’azienda profit che lavora nel settore della raccolta dei rifiuti. Gli interventi prevedono, inoltre, percorsi formativi finalizzati all’avvio delle attività d’impresa, servizi di supporto e accompagnamento psicologico e professionale, laboratori artigianali, consulenze legali, interventi a favore dei familiari dei detenuti e lavori di pubblica utilità. Per 146 detenuti (circa la metà di coloro che parteciperanno ai progetti) sono previsti tirocini retribuiti. 115 sono invece gli inserimenti lavorativi attesi entro il termine delle iniziative, di cui 47 con contratto a tempo indeterminato. “Sostenendo questi progetti vogliamo ancora una volta sottolineare che la detenzione debba necessariamente avere un fine rieducativo, così come sancito dalla nostra Costituzione - ha dichiarato Carlo Borgomeo, presidente della Fondazione Con il Sud. Il carcere non può e non deve essere solo il luogo in cui scontare una pena, quelle quattro mura dovrebbero rappresentare anche il punto di partenza per una nuova vita. E questo cambiamento può realizzarsi concretamente attraverso il lavoro: dà dignità, ma dà anche motivazioni e soddisfazioni per ripartire su nuove basi”. L’articolo 27 della Costituzione italiana sancisce il principio del ‘finalismo rieducativo della penà, inteso come creazione dei presupposti necessari a favorire il reinserimento del condannato nella comunità, eliminando o riducendo il pericolo che, una volta in libertà, possa commettere nuovi reati. La legge di riforma dell’ordinamento penitenziario n.354/75, e le successive modifiche, hanno dato attuazione a tale principio costituzionale, individuando e disciplinando norme, strumenti e modalità per garantire l’effettivo reinserimento sociale e lavorativo dei condannati. La situazione attuale nelle carceri italiane, ben fotografata dall’Associazione Antigone nel XIV Rapporto sulle condizioni di detenzione, è ancora lontana dal garantire ai condannati un adeguato ed efficace percorso di integrazione sociale e lavorativa. Ad oggi, il lavoro ha sofferto nella prassi di una carenza di effettività risultando solo parzialmente efficace. Se da un lato il numero dei detenuti lavoratori è leggermente cresciuto negli anni - passando dai 10.902 (30,74%) del 1991, ai 18.404 (31,95%) del 2017 - dall’altro oltre l’85% dei lavoratori è alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria svolgendo spesso mansioni che non richiedono competenze specifiche e con elevate turnazioni (per permettere a più persone di lavorare). Al Sud tale situazione è ancor più accentuata: solo il 3,7% dei detenuti lavora per soggetti privati esterni. In conclusione, rispetto alla possibilità di formarsi e di lavorare in carcere vi sono ancora elevate possibilità di miglioramento - a partire da un maggior impegno da parte di tutti gli attori coinvolti - ma anche ostacoli da superare per poter efficacemente favorire un reinserimento dei detenuti ed evitare un aumento del rischio recidiva. Raffaele, fuorilegge per due metri di Adriano Sofri Il Foglio, 26 novembre 2019 Storia di un nonno ai domiciliari che per proteggere il nipote sconfina per circa 200 centimetri. Un mese dopo, un tribunale del riesame riconosce il carattere meritorio di quei pochi passi. Ma è troppo tardi. Sto faticosamente esumando vecchie corrispondenze, di galera o giù di lì, spesso nemmeno aperte. Per esempio, in un momento in cui non ero in grado di leggerla, una lettera da Genova, 20 novembre 2005, dall’avvocato Giovanni R. “Carissimo signor A.S., vorrei brevemente raccontarle di Raffaele, fuorilegge per due metri. Costui, a settant’anni compiuti, mentre si trovava agli arresti domiciliari accompagnava fino all’uscio di casa, un’abitazione monofamiliare sita in Arquata, l’ispettore di Polizia, amico di famiglia, che era andato a fargli visita. In quell’istante, il nipotino di otto anni sfuggiva al controllo dei due adulti, e attraversava la strada, da solo, per raggiungere gli antistanti giardini pubblici. Raffaele, che si muoveva a fatica, e non era certamente in grado di fermare il nipote, ha istintivamente percorso tre o quattro passi per assicurarsi che il bambino completasse l’attraversamento senza danni. Proprio in quel momento, è passato di lì il M.llo della locale Stazione dei Carabinieri, il quale, pur messo al corrente del motivo che aveva indotto Raffaele a sconfinare per circa 200 centimetri, ha fatto rapporto all’A.G. Raffaele, nonostante l’età, è stato rimesso in galera per evasione. Dopo quasi un mese, avendo perso oltre venti chili, è stato trasferito d’urgenza al reparto detenuti dell’Ospedale San Martino di Genova. Un mese dopo, un tribunale del riesame, investito dell’appello, ha esplicitamente riconosciuto il carattere meritorio di quei pochi passi e ha concesso all’anziano detenuto la possibilità di tornare a casa. Troppo tardi. Ancora pochi giorni e Raffaele, ormai intrasportabile, è morto, da solo, in ospedale, lontano dalla famiglia, ma custodendo gelosamente sul comodino quell’ultimo provvedimento che, come mi aveva confidato, lo aveva commosso. Le allego gli atti che documentano l’accaduto e le porgo i miei migliori saluti”. Gli allegati sono 4 fogli, datati 1° agosto, della sezione feriale del tribunale di Genova in funzione di giudice per il riesame, tre giudici donne. Lui Raffaele P. dice proprio una storia così. La ricordo, quattordici anni non bastano a prescriverla. Un boss condannato ad impazzire. Zagaria: “sono murato vivo” di Angela Nocioni Il Riformista, 26 novembre 2019 Il capo dei Casalesi, condannato a vari ergastoli, da otto anni in isolamento totale: “Fatemi lavorare. Fatemi far qualcosa. Fatemi almeno pulire la cella da solo”. Lo strano caso dello psichiatra 125. A Michele Zagaria, boss dei Casalesi detenuto in isolamento totale da otto anni per condanne a una serie di ergastoli, una cosa soltanto era risultata di sollievo al silenzio della galera da solo: lo psichiatra identificato con il numero 125. Gli sembrava che quel medico senza nome avesse “azzeccato la terapia farmacologica”. Antidepressivi e ansiolitici. Lo ha detto a un processo. Non l’ha più visto. Neanche un mese dopo la frase pronunciata dal detenuto in un’aula di tribunale, lo psichiatra 125 non ha più varcato la soglia della sua cella. Lo racconta il suo avvocato Paolo Di Furia che lo difende, oltre che in una serie di altri giudizi, anche in un nuovo processo a Milano in cui il boss dei Casalesi deve rispondere di varie accuse. Per aver distrutto un anno e mezzo fa con un manico di scopa le telecamere di sorveglianza della cella in cui era rinchiuso nell’area riservata del carcere di Opera dopo esser stato trovato con una busta in testa che s’è tolto, agguantando la scopa e dando in escandescenze appena intervenute le guardie carcerarie a soccorrerlo. Per aver dato due schiaffi a un agente che gli aveva fatto rapporto. E per aver minacciato l’allora direttore della prigione attraverso una frase riferita a lui pronunciata durante una visita medica: “Il direttore io lo paragono a una busta di immondizia e io l’immondizia la butto fuori”. Undici i reati contestati e almeno due aggravanti. Quella mafiosa. E quella d’aver causato oltraggio agli agenti in luogo pubblico, perché tale è considerato il carcere. “Sono murato vivo. Sto impazzendo. Fatemi lavorare, fatemi fare qualcosa. Non è m’è permesso? Fatemi almeno pulire la cella da solo”. Questa, dice l’avvocato Di Furia, sia la richiesta constante del detenuto Zagaria. C’è un nulla osta della Corte d’Assise di Napoli che gli consentirebbe di lavorare in carcere. Ma a quel permesso nessuno ha mai dato seguito. “Non posso parlare con nessuno e non posso fare assolutamente nulla. Vorrei sentire almeno un rumore umano, anche lontano, che non sia il mio” ha detto Zagaria al suo difensore, che racconta: “La mia grande difficoltà nel processo di Milano è stato lo psichiatra. Erano più comprensive le guardie carcerarie, abituate a vedere persone in questa condizione di isolamento totale, che lo specialista. Lo psichiatra ha insistito nel dire che lui fingeva nel simulare malessere. Se lo psichiatra dice che è inutile la terapia farmacologica vuol dire che tutti quelli che l’hanno visto prima non hanno capito nulla? Fatto sta che gli ha dimezzato la quantità di farmaci. Prima che cominciassero questi atti violenti per i quali oggi Zagaria è sotto processo”. Non è detto che i due fatti, la riduzione dei farmaci e gli atti violenti, siano necessariamente connessi. Ma chissà se ha davvero bisogno di simulare depressione una persona detenuta da otto anni in isolamento totale che per la stragrande maggioranza del tempo non ha avuto le due ore di socialità, cioè le due ore d’aria condivise con altri due detenuti scelti dall’amministrazione penitenziaria. Chissà se lui finge. Di certo è singolare non prendere in considerazione che si possa impazzire davvero rinchiusi per un tempo così lungo - “almeno 50 mesi di seguito senza interruzioni” dice il suo avvocato - nell’area riservata, situazione peggiorativa del regime di detenzione già pesantissimo previsto dal 41bis. Tra i vari problemi del detenuto in questione, non un detenuto qualsiasi per curriculum vitae e pericolosità sociale, c’è il fatto che non si pente. Non ho intenzione di pentirmi, pare ripeta. Dice di aver ricevuto “un centinaio di volte” inviti a pentirsi. Di non sopportare più tanta pressione. “Lo ha detto a Milano, ma anche una quindicina di giorni fa in processo a Napoli nord e a un processo a Santa Maria Capua Vetere” racconta il suo avvocato. Da chi riceve questi inviti, visto che lì dentro lo può visitare solo lei e, una volta la mese per un’ora attraverso un vetro e parlando attraverso un telefono, un massimo di tre familiari? “Sia da personale interno all’amministrazione penitenziaria sia da persone esterne. Ma non mi ha mai specificato da chi” dice Paolo Di Furia. E lei non glielo chiede? “Per ottenere cosa? - risponde l’avvocato - Dovrei fare una richiesta al carcere, chiedere chi è entrato, non avrei risposte utili”. L’area riservata, o area rossa, è una parte del carcere completamente isolata. Che non consente contatti con altri detenuti. Sarebbero 50 le persone che attualmente in Italia sono in questo tipo di isolamento. Zagaria, tra queste, avrebbe una condizione peggiore a detta del suo avvocato. Delle due ore di socialità, previste per legge a chi sta al 41bis (con precisi limiti: non possono essere persone per esempio della stessa zona di provenienza) non può usufruire. “Quando è stato arrestato otto anni fa - dice l’avvocato Di Furia - è stato mandato direttamente all’area riservata, in alcuni momenti è tornato al regime previsto dall’articolo 41bis, ma senza la punizione ulteriore dell’area riservata alla quale è stato poi rispedito ance per questioni di condotta. Sconta ergastoli. Ogni volta che arriva un’altra sentenza, siccome non si può aumentare la pena perché l’ergastolo già c’è, colleziona ulteriori isolamenti diurni”. In totale isolamento nell’area riservata, calcola il suo avvocato, Zagaria ha trascorso il 90% del tempo degli ultimi otto anni. Poiché tale trattamento è illegale gli chiediamo se la cosiddetta dama di compagnia, ossia la presenza di un altro detenuto condannato anche lui al 41bis e messo di solito nell’area riservata per preservare almeno la parvenza del rispetto dei diritti umani basici di chi all’area riservata è stato spedito, l’ha rifiutata e per questo non sta da solo? “No” assicura l’avvocato. “Ci sono stati brevi periodi all’Aquila in cui Zagaria aveva accesso alla socialità”. Il boss dei Casalesi ha avuto accesso all’ora d’aria per due ore al giorno insieme ad altre persone (due persone) per non più di quattro mesi, secondo il suo avvocato. Quattro mesi in otto anni. Politica e magistratura di Pietro Di Muccio de Quattro L’Opinione, 26 novembre 2019 I rapporti tra politica e magistratura dovrebbero basarsi sul principio, ribadito anche qui, secondo cui “Non esiste separazione dei poteri senza separazione degli uomini di potere”. Accade invece in Italia che, quando gli uomini di potere vestono la toga dei magistrati, la loro separazione dalla politica, cioè dal potere legislativo e esecutivo, non è affatto stabilita come esigerebbe in teoria e in pratica la separazione dei poteri nel corretto “Governo costituzionale”. In Italia un magistrato in carica può essere nominato ministro o sottosegretario della Giustizia. Un procuratore della Repubblica può candidarsi in un partito a governare una regione dopo aver inquisito gli esponenti del partito avverso. La legge lo consente. Ma non lo consente la correttezza istituzionale; anzi, il senso della giustizia, che per un magistrato dovrebbe essere il sesto senso della professione. Chi disistima i magistrati avrà buon gioco nell’accusarli di combattere battaglie politiche mascherate da inchieste giudiziarie. Poiché l’indipendenza della magistratura nella Costituzione è garantita in modi che non si riscontrano in nessuna Costituzione sulla terra, occorrerebbe una disposizione costituzionale per recidere il legame tra rappresentanza politica e magistratura. I magistrati dovrebbero essere ineleggibili in assoluto, accettando tale clausola all’atto del giuramento d’ingresso in magistratura: “semel abbas, semper abbas”. Se i giudici sono soggetti solo alla legge, non possono appartenere alle assemblee rappresentative che “producono” la legge. La “soggezione” diventa fittizia o formale senza la distinzione tra il politico legiferante e il magistrato giusdicente. Lo stesso dicasi per il potere esecutivo che esprime l’indirizzo governativo e, per quanto l’amministrazione pubblica debba essere imparziale, non ha l’imparzialità della giurisdizione. È ineccepibile, immune da riserve di opportunità e convenienza, che il ministero della Giustizia sia amministrato dai magistrati che amministra? Tutto l’apparato degli esistenti istituti per preservare la “purezza” dei caratteri propri della magistratura (indipendenza e imparzialità), quali l’ineleggibilità, i distacchi, le aspettative, le incompatibilità, eccetera, non raggiunge lo scopo, come i più avveduti tra giudici e cittadini percepiscono. Né lo raggiungerà la pur commendevole revisione legislativa della complessa materia all’esame della Commissione giustizia del Senato. A tacere che la smaccata militanza di qualche singolo magistrato, proprio per la sua stessa veste, induce alla diffidenza anche verso i tanti altri magistrati pur non esposti politicamente, mentre le porte girevoli tra politica e magistratura assestano un colpo funesto alla credibilità di chi le attraversa entrando e uscendo da una parte all’altra. L’obiezione, invero capziosa, dei magistrati è che la toga non rappresenta una “deminutio capitis”. L’elettorato passivo spetta a loro in quanto cittadini. In effetti questo punto di vista è stato avallato dalla Corte costituzionale, con un’argomentazione tuttavia anfibologica, tipica di certe sue sentenze, secondo cui “i magistrati godono degli stessi diritti di libertà garantiti ad ogni altro cittadino” però “hanno una posizione peculiare che comporta l’imposizione di speciali doveri anche come regola deontologica”. La Consulta purtroppo non ha voluto spingersi ad ammettere ciò che pare una “verità effettuale” (Machiavelli), cioè che gl’istituti per proteggere e separare i magistrati dalle commistioni politiche non riescono ad evitare che “possa fondatamente dubitarsi della loro indipendenza ed imparzialità”. Dunque, l’equiparazione sic et simpliciter dei magistrati ai comuni cittadini quanto alle istituzioni politiche, non regge. Il giudice è la bocca della legge, che parla uguale per tutti. Non può diventare la bocca dell’elettore, che esprime una parte, o l’espressione del Governo che lo nomina. Voler tenere il piede in due staffe risulta inoltre autolesionistico per i magistrati, la cui autorevolezza crescerebbe a dismisura se prendessero totalmente le distanze dalla politica. Processi più veloci, altro che prescrizione: è questa la vera riforma di Antonia Postorivo Il Riformista, 26 novembre 2019 Servono più magistrati e più personale amministrativo: la proposta del ministro Bonafede è invece anticostituzionale. Si parla tanto di prescrizione. Il ministro della Giustizia ne ha fatto il suo cavallo di battaglia. La tenuta della maggioranza dell’attuale Governo sembrerebbe dipendere da questo. Addirittura il nostro sistema giudiziario non funzionerebbe senza “questa riforma epocale della prescrizione”. Magari fosse vero, magari... Invece mai battaglia sulla riforma della giustizia in Italia fu così sbagliata come questa sulla modifica dei tempi della prescrizione. Battaglia portata avanti poi da un ministro che di mestiere fa l’avvocato: la cosa è ancora più grave. Ma cos’è quest’oggetto misterioso? Perché la ami o la odi? La prescrizione è quel meccanismo giuridico che estingue i reati dopo un certo periodo di tempo dal fatto. È chiaro che l’importanza della prescrizione è dettata dal fatto che questo istituto giuridico determina l’estinzione del reato decorso un tempo stabilito dalla legge. Di fatto ha una sua logica ma da molti anni in Italia si è parlato di prescrizione soprattutto come un problema: in Italia la regola entra in conflitto con la frequente lunghezza dei procedimenti. I dati statistici sono chiari: molte indagini si prescrivono perché cominciano tardi e a volte finiscono tardi. Molti processi poi finiscono con assoluzioni senza sentenza perché i reati sono prescritti. Pur condividendo che l’estinzione di un reato, senza che venga stabilito un colpevole o anche un innocente, non è cosa buona e giusta, di chi è la colpa e perché questo accade nel nostro ordinamento? Come evitare che rimangano impuniti i colpevoli e liberare, dopo anni di lunghi processi, chi invece poi verrà assolto? Proviamo a proporre delle soluzioni: velocizzare i processi, informatizzare sempre di più i nostri Tribunali, aumentare il personale di Procure. Corti d’Appello, Tribunali e Cassazione. Potrebbero essere “idee interessanti”, forse possono sembrare banali, ovvie o fattibili. Sono soluzioni che possono non piacere ma su una cosa ci si ci trova tutti d’accordo: non sono modifiche anticostituzionali! Possibile che non ci si renda conto che introducendo “il blocco della prescrizione” addirittura dopo il primo grado di giudizio, anche in caso di assoluzione, si è di fronte ad una norma aberrante? Che allungherebbe solo a dismisura la durata di un processo e che lederebbe palesemente la dignità di un innocente, di un colpevole ed anche di chi è parte civile o parte offesa in un processo? In Italia la prescrizione è legittima difesa! È divenuto strumento necessario proprio per difendere gli imputati dall’eccessiva lunghezza dei processi e delle indagini. Il nostro Paese - non lo dico io ma le statistiche - è uno dei Paesi europei dove i giudici impiegano più tempo a concludere un processo penale, dove i processi sono più lunghi, dove anche la fase delle indagini ha tempi lunghissimi. Bloccare la prescrizione porterebbe ad ulteriori allungamenti dei tempi della giustizia, e non perché gli avvocati non avranno più convenienza a usare tattiche dilatorie: le tattiche sono usate a volte dalle procure che cercano la prova mentre si svolge il processo e non nella fase delle indagini. Per non parlare dell’intenzione stravagante di bloccare la prescrizione anche per gli imputati che venissero assolti in primo grado, mettendoli a rischio poi di attendere anni prima di un giudizio definitivo senza poter neanche contare sulla prescrizione. “Con più risorse, in termini di magistrati e personale amministrativo, i processi saranno più veloci” ha spiegato il ministro Bonafede. Condivido le affermazioni del ministro e rilancio: signor ministro velocizziamo i processi. pretendiamo che tutte le parti in causa abbiano pari dignità e lanciamo dalla finestra del suo ufficio la riforma anticostituzionale che ha in mente di fare. Se lo farà io sarò sotto la finestra ad “acchiappare al volo” la riforma per evitare di sporcare Via Arenula e riporre la carta nell’apposito contenitore previsto per la raccolta differenziata. Nel frattempo il Paese Le sarà grato perché avrebbe contribuito e renderlo un Paese civile e giusto. Conte e Cinque Stelle fanno muro: prescrizione addio. Il Pd che fa? di Piero Sansonetti Il Riformista, 26 novembre 2019 Il premier Giuseppe Conte ha dichiarato ieri sera che non intende intervenire per fermare il blocco della prescrizione. E ha messo il Pd con le spalle al muro. Il Pd accetterà questo diktat o si ribellerà? La sortita di Conte è stata preceduta da una serie di dichiarazioni, a raffica, di Luigi Di Maio. Il quale ha spiegato che la cancellazione della prescrizione dopo il processo di primo grado (che fu decisa dal governo Conte-Salvini, ma la cui attuazione era stata rinviata di un anno) è giusta anche se il governo (precedente) aveva giurato che sarebbe entrata in vigore solo dopo la riforma della giustizia e invece la riforma non c’è. Alla scelta di Di Maio e Conte si oppongono con tenacia i penalisti e - in Parlamento - Forza Italia. Mara Carfagna ha definito scellerata la scelta del governo di consacrare l’eternità del processo. I penalisti hanno deciso una azione di protesta che durerà dal 2 al 7 dicembre con una maratona oratoria dalla mattina alle 9 fino alla sera alle 8 davanti alla Cassazione, a Roma. Il Presidente delle Camere penali, Gian Domenico Caiazza, ha definito la norma che Conte vuole salvare una norma sciagurata, perché mette in discussione i diritti costituzionali dei cittadini. Perché Conte ha deciso di andare al braccio di ferro? Probabilmente per aiutare Di Maio, che in questo momento è in fortissima difficoltà politica, e forse immagina di poter recuperare qualche posizione premendo l’acceleratore sulla pista giustizialista. Questa accelerata può spingere il Pd verso la rottura e la crisi? Può darsi, ma in questo momento è difficile capire chi, nei partiti italiani, sia favorevole e chi contrario alla crisi. Il Pd potrà accettare questo schiaffo, che travolge un principio essenziale dello Stato di diritto? Speriamo di no. Nessuna persona responsabile, oggi, si augura la crisi di governo. L’Italia non ne ha bisogno. Ma se il prezzo deve essere quello di compiere un nuovo passo, lunghissimo, sulla strada della democrazia autoritaria e giudiziaria, beh, è un prezzo inaccettabile. Abolire la prescrizione in assenza di riforma della giustizia è una follia, e forse una provocazione. Se la si accetta non si può più sapere quale sarà il prossimo passo. Penalisti-Di Maio, duello via social sulla prescrizione di Errico Novi Il Dubbio, 26 novembre 2019 Parte la campagna dell’Ucpi. Il capo M5S risponde. Se ancora oggi il ministro Bonafede considera “una sconfitta” l’eventuale titolo con cui “il giorno dopo i quotidiani direbbero che ha perso sulla prescrizione”, se il governo sulla giustizia è in bilico per un messaggio politico prima che per la forza di un diritto, è perché “resiste nell’opinione pubblica la mistificazione secondo cui la prescrizione sarebbe il privilegio di pochi che si possono permettere avvocati in grado di far morire i processi”. A dirlo è il presidente dell’Unione Camere penali Gian Domenico Caiazza, che al punto arriva dopo un percorso iniziato un anno fa, quando in Parlamento s’è affacciata l’idea dello stop al termine che estingue il reato. Da ieri i penalisti afferrano direttamente il toro per le corna: non solo “l’astensione dalle udienze”, prevista per l’intera settimana prossima, ma anche “una campagna social per la verità sulla prescrizione. Con un approccio studiato, scientifico”, spiega il leader dell’Ucpi. Che a fianco, in conferenza stampa, ha Andrea Camaiora, direttore dell’agenzia di comunicazione “The Skill”, incaricata dall’Unione di curare l’iniziativa. “L’obiettivo è convincere i cittadini che la prescrizione riguarda loro, le persone comuni”, spiega Camaiora. Da qui una serie di post che nei prossimi giorni verranno rilanciati sui social network. Ai cronisti ne vengono mostrati alcuni: in una vignetta un preoccupato viaggiatore è associato alla didascalia “Prenderesti un treno senza sapere quando arriverai a destinazione? Abolendo la prescrizione, i processi diventeranno così”. Messaggio depurato dalla drammatizzazione politica, insomma. Come l’altro: “La prescrizione senza fine è come un ospedale con liste d’attesa interminabili”. Si evoca un concetto familiare per il cittadino utente, legato alle disavventure vissute all’ombra del servizio sanitario. L’hashtag su twitter e dintorni sarà “#ostaggipersempre”. Bene, la controparte cosa fa? Schiera proprio su facebook il carico da novanta, Luigi Di Maio. Stavolta è lui, con un post pomeridiano, ad auspicare che col Pd al posto della Lega “la musica sia cambiata”. Colpisce la suggestione scelta: il solito “Berlusconi” che, sostiene Di Maio, “proprio grazie alla prescrizione l’ha fatta franca innumerevoli volte”. Con la stoccata a effetto dritta al cuore del nuovo alleato: “Il Pd ai tempi di Berlusconi al governo, ma anche all’inizio della scorsa legislatura, diceva di interrompere la prescrizione ancor prima della sentenza di primo grado, già al rinvio a giudizio”. Ed ecco, in un botta e risposta social durato lo spazio di un pomeriggio, la verità ultima sul romanzo mediatico della prescrizione: se si tratta di “un tema completamente falsato agli occhi dell’opinione pubblica”, come dice Caiazza, è esattamente perché per un quarto di secolo il centrosinistra, con gran parte dei giornali, ha taciuto alcune verità (gli illeciti contestati a Berlusconi erano speso di rilievo modesto rispetto all’enormità della macchina inquirente messa in campo, e puntualmente arrivava la prescrizione) e ha detto agli italiani che l’estinzione del reato era un trucco dello spregiudicato Cavaliere. Ebbene, tanto per dire a che punto la contraddizione politica è arrivata, Caiazza riconosce che “da alcune settimane si sono compiuti passi inimmaginabili fino a poco tempo fa” proprio grazie al Pd e a Italia viva che “ventilano di votare la legge abrogativa della nuova prescrizione, presentata da Enrico Costa, e con i dem che propongono la prescrizione processuale. Vedremo come finirà”. Il Pd deve rimettere assieme i cocci lasciati da anni di campagna antiberlusconiana sulla giustizia. “Il ministro Bonafede non è un nemico ma un ostacolo”, spiega Caiazza. Che fornisce dettagli anche sulla “Maratona oratoria” allestita in coincidenza con la settimana di astensione dalle udienze: “Ad oggi siamo a 1000 avvocati che hanno chiesto di alternarsi sul palco davanti al palazzo della Cassazione, dalle 9 alle 20 ininterrottamente da lunedì 2 a sabato 7 dicembre. Racconteranno storie di processi infiniti, per far capire cosa significa”. Idea lanciata al congresso Ucpi di Taormina, “e che viene da un mio trauma di militante radicale: parlai nel cuore della notte da solo, come chiesto da Marco Pannella”, racconta Caiazza. È la goccia che scalfisce il muro delle verità precostituite, che non ammettono contraddittorio. A furia di vedere mille avvocati che intervengono da un palco per un’intera settimana, ai cittadini potrebbe venire il dubbio che hanno qualche ragione dalla loro parte. Esempio spasmodico di lotta nonviolenta. Che, almeno nel caso di Pannella, più di una volta ha fatto miracoli. Manette agli evasori, intesa nel governo. Le pene detentive saranno ridotte di Roberto Petrini La Repubblica, 26 novembre 2019 Alleggerimento delle pene detentive per chi evade; deburocratizzazione delle norme per evitare appalti-pirata che resteranno in vigore solo per i contratti sopra i 200 mila euro; salta l’imposta municipale sulle piattaforme marine. Sono questi i punti d’intesa raggiunti ieri, durante una lunga riunione al ministero dell’Economia, tra il viceministro Misiani, il sottosegretario Baretta, e i relatori del decreto fiscale. Si tradurranno in un pacchetto di emendamenti pronti per essere presentati dal governo direttamente, o attraverso la relatrice e presidente della Commissione Finanze della Camera, Carla Ruocco. Ieri sera intanto il governo ha presentato un primo antipasto di emendamenti tra i quali sono da segnalare i 180 milioni per gli straordinari di forze di polizia e vigili del fuoco e l’esenzione da parte degli obblighi della fatturazione elettronica per gli 007. In primo piano la questione delle cosiddette manette agli evasori previsti dall’articolo 39. La norma fortemente voluta dai Cinque stelle prevede un abbassamento delle soglie di imponibile evaso e un aumento delle pene detentive che salgono fino 8 anni. La norma è stata fortemente contrastata dai renziani e ieri, durante la riunione, Luigi Marattin ha posto nuovamente il problema dell’arresto e dei sequestri nel corso di un accertamento. Di conseguenza si è sviluppato un braccio di ferro con i Cinque stelle: il governo e il Pd hanno tentato una mediazione che ha coinvolto anche il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che, alla fine, si è impegnato a formulare una nuova proposta con una riduzione delle pene detentive. Soluzione anche sull’articolo 4, la norma volta ad evitare che in caso di appalti a forte tasso di manodopera la società che ha ricevuto la commessa chiuda i battenti e non paghi le ritenute Irpef ai lavoratori. Per evitare questa situazione la norma prevedeva che a pagare le ritenute Irpef fosse la società che ha dato in appalto i lavori e che ogni mese la società che ha avuto l’appalto comunicasse alla ditta “madre” una dettagliata distinta con codice fiscale, orari e retribuzione di ciascun lavoratore. La norma era stata supportata soprattutto da Leu e avversata da Italia Viva. Anche in questo caso il governo ha trovato una soluzione di mediazione: le norme resteranno ma solo per i contratti che superano il valore di 200 mila euro, per i contratti di minore entità ci saranno solo maggiori controlli e sarà dunque evitata la responsabilità in solido tra le due società coinvolte nei confronti del Fisco. Viene poi eliminato l’articolo 38 del decreto fiscale che aveva istituito la nuova tassa municipale sulle piattaforme marine per l’estrazione di idrocarburi, una sorta di Imu marittima. La tassa, che sarebbe partita dal 2020, prevedeva un aliquota del 10,6 per mille attribuita al Comune di riferimento. Troppe proteste e difficoltà sul piano giuridico e il governo ha deciso di fare retromarcia. “Un’emergenza pubblica la violenza contro le donne” di Adriana Pollice Il Manifesto, 26 novembre 2019 La Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. La denuncia del capo dello Stato. E uno studio dell’Istat mette a nudo gli stereotipi più comuni sui ruoli di genere. Il 7,4% degli italiani ritiene accettabile che “un ragazzo schiaffeggi la sua fidanzata perché ha flirtato con un uomo”, il 6,2% che in una coppia ci scappi uno schiaffo ogni tanto. Più del doppio (il 17,7%) ritengono accettabile che un uomo controlli abitualmente il cellulare o l’attività sui social network della moglie o compagna. Sono i dati della rilevazione statistica sugli stereotipi, sui ruoli di genere e l’immagine sociale della violenza realizzata dall’Istat e diffusa ieri, nella Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Gli stereotipi più comuni tra gli italiani sono: “Per l’uomo, più che per la donna, è molto importante avere successo nel lavoro” (32,5%), “gli uomini sono meno adatti a occuparsi delle faccende domestiche” (31,5%), “è l’uomo a dover provvedere alle necessità economiche della famiglia” (27,9%). Il meno diffuso è “spetta all’uomo prendere le decisioni più importanti riguardanti la famiglia” (8,8%). Persiste il pregiudizio che addebita alla donna la responsabilità della violenza sessuale subita. Il 39,3% della popolazione ritiene che una donna è in grado di sottrarsi a un rapporto sessuale se vuole. Elevata anche la percentuale di chi pensa che le donne possano provocare la violenza sessuale con il loro modo di vestire (23,9%). Il 15,1%, inoltre, ritiene che una donna che subisce violenza quando è ubriaca o sotto l’effetto di droghe sia almeno in parte responsabile. Per il 10,3% della popolazione spesso le accuse di violenza sessuale sono false (il 12,7% degli uomini, il 7,9% delle donne); per il 7,2% “di fronte a una proposta sessuale le donne spesso dicono no ma in realtà intendono sì”, per il 6,2% le donne serie non vengono violentate. Per finire con l’1,9% secondo cui non si tratta di violenza se un uomo obbliga la propria moglie o compagna ad avere un rapporto sessuale contro la sua volontà. Il 63,7% della popolazione considera causa della violenza le esperienze violente vissute in famiglia durante l’infanzia, il 62,6% ritiene che alcuni uomini siano violenti perché non sopportano l’emancipazione femminile mentre il 33,8% associa la violenza ai motivi religiosi (in particolare al Centro-Nord). Sui motivi che possono scatenare la violenza, il 77,7% l’attribuisce al fatto che gli uomini considerano le donne oggetti di proprietà (84,9% donne e 70,4% uomini), il 75,5% dà la colpa all’abuso di droghe o alcol, 75% al bisogno di sentirsi superiori. Infine per il 70,6% dipende dalla difficoltà degli uomini a gestire la rabbia. A una donna che ha subito violenza il 64,5% consiglierebbe di denunciare, il 33,2% di lasciare il compagno. Il 20,4% indirizzerebbe la donna verso i centri antiviolenza e il 18,2% verso servizi pubblici o professionisti (ad esempio consultori, psicologi, avvocati). Il 58,8% della popolazione tra i 18 e i 74 anni, senza differenze tra uomini e donne, si ritrova negli stereotipi di genere. Il fenomeno aumenta al crescere dell’età (65,7% dei 60-74enni e 45,3% dei giovani) e tra i meno istruiti. Gli stereotipi sono più frequenti al Sud (67,8%), in particolare in Campania (71,6%), e meno diffusi al Nord-est (52,6%), con il minimo in Friuli Venezia Giulia (49,2%). Sardegna (15,2%) e Valle d’Aosta (17,4%) presentano i livelli più bassi di tolleranza verso la violenza; Abruzzo (38,1%) e Campania (35%) i più alti. “La violenza sulle donne non smette di essere emergenza pubblica - ha commentato ieri il presidente Sergio Mattarella -. Le donne sono oggetto di molestie, vittime di tragedie palesi e di soprusi taciuti perché consumati spesso dentro le famiglie o perpetrati da persone conosciute”. Basta leggere le cronache. Ieri, ad esempio, un trentenne di Portici è stato arrestato mentre picchiava la compagna davanti al figlio di 9 anni. A Massa domenica notte è stata divelta la statua che ricorda Cristina Biagi, massacrata dall’ex marito. Si tratta del sesto episodio di danneggiamento in due anni. Contro la violenza. Parità uomo donna, ecco cosa manca di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 26 novembre 2019 Retribuzione, carichi familiari, codice rosso: l’Italia ancora indietro rispetto agli altri Paesi europei. “Contrastare sia la violenza fisica sia economica, a partire dall’introduzione della parità di genere nelle retribuzione” è questo l’impegno il ministro del Lavoro, Nunzia Catalfo, preso via twitter nella giornata contro la violenza sulle donne. “Una piaga sociale - scrive Catalfo - che dobbiamo combattere tutti insieme e con ogni mezzo”. Molto si è fatto, ma i dati di una donna colpita ogni 15 minuti, e 220 uccise nel 2019, mostrano che la rivoluzione deve essere soprattutto culturale. Un bilancio per capire cosa resta da fare va tentato. Eccolo. Fermare la strage - Per far fronte all’urgenza femminicidi sono state varate le norme sul Codice Rosso. Entro tre giorni la donna che denuncia deve essere ascoltata da un magistrato. Con la conseguenza che il violento viene spesso arrestato. Ma questo non basta a fermare la strage. Perché? Secondo le vittime il problema è che dopo quell’accelerata tutto si fermi in attesa del processo che magari inizia dopo un anno e mezzo. Nel frattempo il violento viene mandato ai domiciliari dove continua a perseguitare la vittima. C’è chi, in attesa di processo, ha persino ucciso. “Occorre ridurre i tempi sia delle indagini che dei dibattimenti perché attualmente dopo pochi mesi (in assenza di sentenza) vittima e carnefice si ritrovano faccia a faccia”, concorda l’autrice della norma, l’ex ministro Giulia Bongiorno. Ma avverte: “Per far ciò niente scorciatoie: non vorrei che per far presto si svuotasse il dibattimento privilegiando patteggiamento e abbreviato. A che serve inasprire le pene e poi si ampliano i riti alternativi che le svuotano, come mi dicono voglia fare Bonafede?”. Necessari gli interventi annunciati in favore dei bambini che nei femminicidi perdono sempre mamma e papà. E il finanziamento del fondo di sostegno a favore delle associazioni e delle strutture a sostegno delle vittime di maltrattamenti. Disparità di genere - Nel Gender Equality Index 2019, l’indice delle diseguaglianze uomo-donna calcolato in base a dati del 2017 riguardo a lavoro, ricchezza, conoscenza, tempo, potere e salute, siamo sotto la media Europea: la parità è stata raggiunta al 63% contro il 67,4% degli altri Paesi Ue. Se in Europa lavorano due donne su tre, da noi poco più della metà (53%). Il tasso di occupazione più basso dopo la Grecia. E chi lavora, in un anno, guadagna il 43,7% in meno di un uomo. Contratti meno stabili, prestazioni interrotte per ragioni di welfare familiari, minore possibilità di carriera. Soprattutto ai livelli dirigenziali. Le donne nei board sono il 32,6%, nei Cda il 28,5%. Era molto peggio la situazione prima della legge Golfo-Mosca: nel 2011 le donne nei Cda erano il 7%. Nel 2005 avevamo il più ampio divario nel potere politico ed economico ora siamo al 13esimo posto. Nonostante le donne conseguano risultati migliori degli uomini nei settori scientifici, con più ampia possibilità di impiego e di retribuzione, stereotipi ancora fanno sì che poche bambine siano avviate alle materie Stem (Scienza, Tecnologia, Ingegneria, Matematica). Carichi familiari - La maternità in un Paese in deficit di nascite è ancora un ostacolo per le donne che lavorano. Una su quattro è costretta a lasciarlo dopo il secondo figlio. Solo un uomo su 4 si occupa quotidianamente, anche solo per poco tempo, delle faccende domestiche e solo 2 padri su 3 si occupano quotidianamente dei bambini. In più pesa sulle spalle delle donne la cura degli anziani e delle persone disabili. Qualcosa è stato fatto per aiutare nella conciliazione famiglia-lavoro, ma è ancora troppo poco. Quote rosa - Scarsa la media delle donne anche in Parlamento. Tuttavia attualmente sono il 35%, ovvero 334, di cui 225 alla Camera e 109 al Senato, più della media dei Paesi Ue-28, che é pari al 29,4%, indice del fatto che le norme promozionali della parità funzionano soprattutto come incentivo culturale. Donne imprenditrici - Sarà che l’opzione imprenditoriale a volte é l’unica concessa, ma le donne imprenditrici aumentano. Sono circa 700mila. Nel 2016 eravamo già sopra la media Ocse con circa il 16% che avevano scelto un lavoro autonomo, contro il 10 di Francia, Regno Unito e Germania. Strage di piazza Fontana, la memoria che resiste di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 26 novembre 2019 Per troppo tempo hanno avuto diritto di parola solo i carnefici: pubblicati dagli editori, invitati in tv, quasi mitizzati. Poi finalmente la parola l’hanno presa le vittime. La notizia alla radio di un bambino amputato. È il ricordo di piazza Fontana che un altro ragazzino di mezzo secolo fa, Gianrico Carofiglio, ha affidato al Corriere. Il bambino si chiama Enrico Pizzamiglio. Ora ha 62 anni. Quel pomeriggio era alla banca nazionale dell’Agricoltura per pagare una bolletta, insieme con sua sorella Patrizia, di tre anni più grande. Il padre aveva affidato loro la commissione, perché non poteva assentarsi dall’edicola che mandava avanti. Enrico e Patrizia hanno fatto gli edicolanti in via Lorenteggio, Milano, per tutta la vita. Entrambi hanno superato un lungo calvario, in particolare il più piccolo, che ha subito amputazioni parziali ai piedi e ha imparato a convivere con le protesi. Hanno fatto con amore un lavoro duro, che in questi anni è diventato ancora più difficile. Appartengono in qualche modo alla grande comunità del Corriere, ma non hanno mai parlato di piazza Fontana, e anche in questo cinquantenario non se la sono sentita di raccontare un dolore che resta soltanto loro. Il presidente dell’associazione dei familiari delle vittime, Carlo Arnoldi, nella strage ha perso il padre. Racconta che, per quanto ne sa, non ci sono superstiti tra le donne e gli uomini rimasti feriti cinquant’anni fa. Molti erano adulti, qualcuno già anziano. È possibile che si sbagli. Qualcuno che quel 12 dicembre l’ha vissuto sulla propria persona dovrebbe ancora essere vivo. Aspettiamo la sua testimonianza. Perché è troppo angosciante pensare che di quel giorno, relativamente vicino e così importante per l’Italia e per Milano, non sia rimasto davvero nulla. Colpevoli certi non ce ne sono. In carcere non c’è nessuno. Non esiste una verità storica incontestata, e quindi condivisa. Esiste una verità giudiziaria, che si può così sintetizzare: estremisti di destra - forse infiltrati tra gli anarchici, certo coperti dai servizi segreti - hanno colpito innocenti per provocare una svolta reazionaria. Che cosa sanno di tutto questo i nostri figli e nipoti? Non molto più di nulla. Eppure riannodare il filo della memoria non è impossibile. In questi giorni è stato giustamente ricordato l’assassinio di Antonio Annarumma, un poliziotto di ventidue anni ammazzato con un tubo di ferro dagli estremisti di sinistra a Milano il 19 novembre 1969. Un delitto negato e occultato per molti anni. Anche di piazza Fontana è importante che si parli. Le iniziative non mancano. Il Comune farà senz’altro la sua parte, come le associazioni. La giornalista Anna Migotto ha girato un documentario sulla reazione dei milanesi che sarà presentato il 15 dicembre, anniversario dei funerali. Il regista Marco Tullio Giordana ha chiesto alla Rai di trasmettere il film Romanzo di una strage, che tra l’altro difende la memoria di Giuseppe Pinelli e del commissario Luigi Calabresi, anche loro in modo diverso vittime delle conseguenze di quell’evento terribile. Sono tanti segnali, che però andrebbero legati da un disegno comune. Rivolto in primo luogo ai nostri ragazzi. Piazza Fontana non è soltanto un posto in cui sono morte e sono rimaste ferite troppe persone in modo assurdo e ingiusto. È anche l’inizio di anni drammatici per la convivenza civile. Anni in cui le giovani generazioni mimarono la guerra civile combattuta dai padri tra il 1943 e il 1945. In cui la fedeltà al patto costituzionale fu violata sia da bande armate rosse e nere, sia da apparati dello Stato. Non è sempre facile districarsi tra gli eccessi ideologici, tra i dietrologi di professione e tra i negazionisti, tra chi esagera pensando che non si sappia nulla e chi esagera pensando che si sappia tutto. Ma custodire e trasmettere il ricordo è un dovere. Per troppo tempo hanno avuto diritto di parola solo i carnefici: pubblicati dagli editori, invitati in tv, quasi mitizzati. Poi finalmente la parola l’hanno presa le vittime. Libri come Spingendo la notte più in là di Mario Calabresi e Come mi batte forte il tuo cuore di Benedetta Tobagi hanno avvicinato i giovani a una vicenda che non conoscono, ma che li riguarda. De te fabula narratur, di noi parla la storia. Piazza Fontana dovrebbe essere ricordata - a cominciare dai nomi e dalle biografie delle vittime - in tutte le scuole di Milano. Che in questi anni sta tornando capitale morale; e quindi può essere anche la capitale della memoria. Mio padre, morto suicida, era innocente di Giorgio Mannino Il Riformista, 26 novembre 2019 Il giudice Cesare Vincenti era indagato per corruzione. Parla il figlio avvocato, anche lui coinvolto nell’inchiesta. Tre settimane fa, la pensione del genitore: non c’era quasi nessuno. “Non ce la faccio più. non posso più andare avanti così, ma credetemi non è per l’indagine”. Tra le poche righe scritte su un biglietto con la solita indecifrabile calligrafia, spicca questa frase nelle parole di addio, lasciate su carta, ad una vita nell’ultimo anno devastata da un mal di vivere insopportabile. Ha deciso di andarsene così. lucidamente. il giudice Cesare Vincenti, ex capo dell’ufficio gip di Palermo, togliendosi la vita giovedì scorso verso le 12. Il salto dal quinto piano della sua abitazione in via Sciuti non gli ha lasciato scampo. Stimato professionista, cultore del diritto, magistrato infaticabile e dalle spiccate doti umane. Vincenti era andato in pensione da poche settimane al termine di una carriera durata 43 anni. sempre lontana dal clamore mediatico. E macchiata, lo scorso giugno, da un’inchiesta partita dagli uffici della procura di Caltanissetta. Vincenti era finito sotto indagine, insieme al figlio avvocato e professore di diritto commerciale Andrea, per corruzione e abuso d’ufficio nell’ambito del caos giudiziario che ha travolto la società Palermo Calcio. Secondo l’ipotesi dei pm nisseni. il magistrato avrebbe rivelato la notizia di custodia cautelare nei confronti dell’ex patron del Palermo Maurizio Zamparini che, grazie alla presunta soffiata del giudice, avrebbe poi lasciato ogni incarico nel cda della società per evitare l’arresto. Il giudice in cambio avrebbe chiesto per il figlio Andrea un ruolo nell’organismo di vigilanza della società rosa nero, guidata dall’allora presidente Giovanni Giammarva. Un incarico da 6 mila euro lordi all’anno per tre anni. Accuse tutte da dimostrare ma che a livello mediatico hanno fatto scoppiare una bomba dagli effetti devastanti: “Mio padre visse molto male la notizia. Nella sua lucidità era consapevole che il sua malessere non gli avrebbe consentito di sfruttare appieno le sue capacità mentali”, spiega il figlio Andrea. “Sapeva - aggiunge - che l’indagine non avrebbe avuto seguito perché infondata, ma se fosse stato rinviato a giudizio, la sua paura era quella di non potersi difendere a causa della malattia. Questa cosa lo deprimeva ancora di più e si corrodeva giorno dopo giorno nonostante le mie rassicurazioni”. La malattia da un lato e l’isolamento dall’altro. Tre settimane fa. in occasione del pensionamento, Vincenti aveva organizzato nel suo ufficio una piccola festa di commiato. Tra quelle mura, però, erano pochissimi i magistrati: “E vero, sicuramente c’erano pochi colleghi di mio padre”, conferma il figlio Andrea. “C’era tutto il personale tecnico-amministrativo, molti avvocati, ma tutto sommato non c’è stata una partecipazione massiva. L’indagine a suo carico, in tal senso, avrà influito ma credo che questo derivi anche dal fatto che mio padre fosse schivo, abbia vissuto il suo lavoro con una serietà tale da renderlo avulso da logiche che non fossero fermamente legate allo svolgimento del suo mandato. Questo lo ha reso, forse, poco parte di un sistema”. Un sistema che, tuttavia, si è stretto attorno alla figura del giudice solo dopo la sua morte. Tra le panche in legno della gremita chiesa San Francesco di Paola - dove venerdì scorso hanno avuto luogo i funerali - la rappresentanza di avvocati e magistrati è stata nutrita. E le frasi pronunciate dal prete Antonio Porretto, durante l’accorata omelia, hanno avuto il sapore di un amaro ammonimento: “Non sei l’unico morto, chissà quanta gente qui non sa amare, non sa perdonare”, tuona rivolgendosi al feretro del giudice. “Ricordati - aggiunge - anche di quelli che in vita non ti hanno voluto tanto bene, hanno tempo per convertirsi. Perché c’è luce oltre il puzzo della morte”. Nei giorni scorsi in tanti hanno lacrimato parole di cordoglio e di vicinanza nei confronti della famiglia di Cesare Vincenti. L’avvocato Stefano Giordano su Facebook ha scritto che “il gesto del galantuomo presidente Vincenti sembra essere un gesto di un uomo d’altri tempi, che si ribella contro l’ipocrisia di un mondo in cui lui era controcorrente”. Un altro avvocato, Antonio Tito, lo ha ricordato come “un ottimo magistrato, un uomo integerrimo e perbene”. Il presidente del tribunale del capoluogo. Salvatore Di Vitale ha definito la scomparsa di Vincenti “un grave lutto per la magistratura italiana”. La Camera penale di Palermo, invece, ha morso: “Tale evento costituisce la conseguenza di un perverso circuito mediatico-giudiziario che travolge vita e affetti senza alcun discernimento. Il principio costituzionale di non colpevolezza è un segno di civiltà che dev’essere richiamato e ribadito in simili momenti drammatici”. Adesso. in caso di rinvio a giudizio. toccherà al tiglio Andrea difendersi e difendere la memoria del padre: “C’è stato un certo accanimento nei confronti della mia famiglia. E, in fondo, sono contento di essere indagato perché, se si andasse a processo, dimostrerò la mia innocenza e quella di mio padre. Se non fossi stato indagato anche io, il procedimento, con la morte di mio padre, si sarebbe estinto e qualche malpensante avrebbe potuto legare il gesto all’indagine. Per fortuna ci saranno tempi e luoghi per rendere giustizia. la stessa alla quale mio padre ha creduto per tutta la sua vita”. Fino alla resa ad una malattia “che l’aveva profondamente cambiato”. Veneto. “Duecento detenuti per mafia nelle carceri regionali, 100 solo a Vicenza” di Raffaella Ianuale Il Gazzettino, 26 novembre 2019 I primi sessanta sono già stati trasferiti, ma entro fine mese ne arriveranno altri quaranta. Cento condannati per mafia che sconteranno la loro pena nella Casa circondariale Filippo del Papa di Vicenza. Considerato che il padiglione di massima sicurezza, inaugurato quattro anni fa, ha una capienza di duecento posti per il sindacato di polizia penitenziaria Uspp qui si verranno a breve a concentrare duecento condannati per 416 bis, accusati cioè di associazione a delinquere di stampo mafioso. “Tutti affiliati a mafia, ndrangheta, sacra corona unita e camorra” dice Leonardo Angiulli segretario per il Triveneto dell’Uspp. In una regione che, come dimostrano le ultime inchieste, è stata colonizzata in alcune sue aree strategiche proprio dalla criminalità organizzata di stampo mafioso. Il caso è già finito sul tavolo del comitato per la sicurezza e l’ordine pubblico e “come sindacati di categoria abbiamo incontrato il prefetto di Vicenza”. Oltre a questo c’è un’interrogazione dell’onorevole vicentina Maria Cristina Caretta che proprio ieri ha incontrato gli agenti di polizia penitenziaria. “Ho presentato un’interrogazione al ministro della giustizia per informarlo delle condizioni in cui versa il carcere e per sapere come intenda intervenire” dice la deputata di Fratelli d’Italia che aveva già incontrato le principali sigle della polizia penitenziaria Sappe, Cnpp e Cgil. Tra le emergenze sovraffollamento, personale insufficiente, pochi blindati e mancanza di un direttore reggente. Fabrizio Cacciabue, attuale responsabile, è infatti a scavalco tra il carcere Due Palazzi di Padova e quello di Vicenza dove riesce a garantire la sua presenza per due giorni alla settimana. “Alcune sezioni del carcere restano inabitate a causa della carenza di personale, questo elemento sommato all’affollamento contribuisce a rendere le condizioni di lavoro problematiche e ad alto rischio” spiega la parlamentare. Sono 331 i detenuti attualmente accolti a cui si sommano i cento ad alta sicurezza già assegnati. Gli agenti di polizia penitenziaria in servizio sono 190 “la carenza di personale è stimata di circa sessanta unità a dimostrarlo il fatto che in un anno hanno accumulato circa 50mila ore di lavoro straordinario, oltre a questo - prosegue Caretta - dispongono di soli due blindati vecchi e spesso in riparazione e anche il sistema di sorveglianza è insufficiente”. Una situazione che rischia di degenerare con l’arrivo dei detenuti di alta sicurezza per i quali parla di “turismo penitenziario” il sindacalista Angiulli. “Servono uomini e mezzi per garantire gli spostamenti di questi detenuti che per il 95% provengono dal Sud e sempre al Sud hanno commesso i loro reati - spiega - quindi devono attraversare l’Italia anche solo per le udienze dei processi. Non stiamo parlando di autori di piccoli reati, ma di 416 bis che hanno bisogno di personale e mezzi ad ogni spostamento quando aumenta il rischio di fughe ed evasioni”. Parlando di stime al rialzo il carcere di Vicenza potrebbe accogliere fino a 470 detenuti. “Impensabile - per l’Uspp - già ora abbiamo avuto da inizio anno ad ora 687 eventi critici, che coinvolgono aggressioni tra detenuti, al personale e danneggiamento alle strutture e cinque nostri agenti sono finiti al pronto soccorso con prognosi talvolta serie”. Un affollamento delle carceri che non riguarda solamente la casa circondariale di Vicenza, ma che attanaglia tutte e nove le strutture detentive venete che complessivamente accolgono 2.525 detenuti, dei quali 1.407 stranieri. I sindacati di categoria hanno stimato che a Padova ci sia un sovraffollamento del 60%, nel carcere di Santa Maria Maggiore a Venezia del 45%, al Santa Bona di Treviso del 35%, mentre a Verona il Montorio è addirittura al 66%. Anche quest’ultimo è infatti oggetto di un’interrogazione al ministro della giustizia dell’onorevole leghista Paolo Tosato. Per il carcere di Vicenza i rappresentanti di categoria, anche per far fronte ai nuovi arrivi, chiedono quindi potenziamento del personale, un maggior contingente che non coinvolge solo gli agenti, ma anche gli ispettori e i sovrintendenti, e un direttore fisso in pianta organico. “Queste problematiche devono trovare una soluzione nel più breve tempo possibile - conclude Caretta - per evitare che la situazione degeneri e porti a complicazioni e situazioni gravissime”. Calabria. “Violenza contro le donne, serve concretezza” di Mario Nasone* Corriere della Calabria, 26 novembre 2019 Sarà presentato il 16 dicembre al consiglio regionale il primo rapporto sulla violenza di genere in Calabria promosso dall’osservatorio regionale sulla violenza di genere e curato dalla prof. Giovanna Vingelli dell’Università della Calabria e dai dirigenti Maria Picci e Domenico Tebala dell’Istat. Un servizio a costo zero per la Regione che per la prima volta, con le poche risorse disponibili, ha cercato di fare una fotografia del fenomeno della violenza sulle donne che in Calabria costituisce, dopo la ndrangheta, una questione criminale e sociale che colpisce migliaia di donne e bambini. Un rapporto che ha avuto sul piano regionale la collaborazione delle Procure Generali di Reggio e Catanzaro e delle Questure e che si è dovuto scontrare con la mancanza di un sistema informativo strutturato in grado di potere fornire dati omogenei e tempestivi. Un lavoro che rappresenta da questo punto di vista l’inizio di una azione di monitoraggio sui bisogni e sulle risorse in grado di offrire dati numerici e qualitativi più completi ed esaustivi. Un rapporto che ha fatto emergere, accanto alle tante buone prassi, anche le gravi criticità che impediscono alla nostra regione di disporre di un sistema di prevenzione e di protezione delle donne in grado di contrastare il fenomeno. Meritoria l’azione delle forze dell’ordine che stanno lentamente facendo riacquistare alle donne fiducia nelle istituzioni, come conferma il dato dell’aumento delle denunce. Positiva l’azione del sistema scolastico che vede molte scuole impegnate non in iniziative spot ma in progetti che prevedono percorsi formativi strutturati che vedono gli studenti protagonisti, come il percorso sperimentale adotta la storia di una vittima di femminicidio voluto dall’osservatorio e dal Miur. Rimane invece precaria la situazione dei centri antiviolenza e delle poche case rifugio che ricevono finanziamenti a singhiozzo e insufficienti a reggere i costi del servizio, con zone come la Locride e la Piana ancora sprovvisti di centri accreditati. Inapplicata la legge regionale 20/2007 anche nella parte che impone ai comuni di assegnare alloggi alle donne che denunciano, considerato anche l’aumento del patrimonio immobiliare a loro disposizione grazie alle confische dei beni ai mafiosi. Carenze evidenziate anche dalle forze dell’ordine che fanno una grande fatica a trovare una sistemazione abitativa alle donne dalle quali hanno raccolto la denuncia. Con situazioni paradossali di alcune di esse che, in mancanza di soluzioni, sono dovute ritornare con i figli minori nella casa dalla quale si erano allontanate. Costrette a riprendere la convivenza con il compagno violento che avevano denunciato. Lo stesso accade per la formazione professionale e l’inserimento lavorativo delle donne che vorrebbero acquistare una autonomia economica e che solo raramente trovano sbocchi occupazionali o sostegni a fare impresa. A fronte di queste criticità gravi l’auspicio è quello di vivere il 25 novembre, giornata internazionale della violenza sulle donne, come uno stimolo per tutti, soprattutto della politica regionale che si sperava riuscisse a approvare la nuova normativa, il progetto di legge 285 fermo da mesi in terza commissione. Dare concretezza alle tante riflessioni e manifestazioni che si stanno organizzando in tutta la regione, offrire riferimenti, assumersi la propria quota di responsabilità è la risposta che le donne che vivono questa condizione drammatica attendono. *Coordinatore Osservatorio regionale sulla violenza di genere Ivrea (To). Detenuto 35enne si toglie la vita in carcere Ansa, 26 novembre 2019 Si è impiccato domenica pomeriggio. Stava scontando una pena definitiva. Un detenuto nel carcere di Ivrea si è tolto la vita domenica pomeriggio. Si tratta di Giovanni F., 35 anni, residente nel Torinese, che stava scontando una pena definitiva. Secondo quanto è trapelato, si è suicidato impiccandosi. Siena. Un’intesa per la messa alla prova dei detenuti quinewssiena.it, 26 novembre 2019 Protocollo tra Società della salute, istituzioni e associazioni per la messa alla prova dei detenuti con pene inferiori ai quattro anni. Anche in diversi Comuni del senese si potrà ricorrere alla messa alla prova, ovvero la misura che consente agli imputati puniti con la sola pena pecuniaria o con la pena detentiva non superiore a quattro anni, di accedere a un programma di trattamento riabilitativo alternativo alla pena. Lo rende noto la Società della salute senese. L’iniziativa è frutto di una convenzione con il ministero della giustizia e di un protocollo di intesa fra Società della Salute Senese, Fondazione Territori Sociali Altavaldelsa (Ftsa), la Società della Salute Altavaldelsa, l’Ufficio di Esecuzione Penale Esterno (Uepe di Siena e Grosseto), la Casa Circondariale di Siena, la Casa di Reclusione di San Gimignano, l’associazione Aleteia - Studi e ricerche giustizia riparativa e mediazione e l’associazione Apab. Il programma prevede come attività obbligatorie: l’esecuzione di lavori di pubblica utilità presso i Comuni che hanno aderito all’accordo, l’attuazione di condotte riparative, finalizzate a eliminare le conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, il risarcimento del danno cagionato e, ove possibile, l’attività di mediazione con la vittima del reato. “Dopo due anni di lavoro finalizzati al raggiungimento dell’accordo - sottolineano i responsabili delle associazioni Aleteia, Apab e Il Telaio delle Idee, che svolgono la preziosa attività di promozione e facilitazione della misura - siamo veramente lieti della sottoscrizione di questo Protocollo d’Intesa che, da un lato, permette, di rendere più efficace il percorso di reinserimento sociale e di responsabilizzazione di coloro che hanno commesso un reato, consentendo loro di accedere, in ogni fase del procedimento penale, a servizi di giustizia riparativa e, dall’altro, di conferire risorse per contribuire al miglioramento dei vari servizi offerti da enti locali e da associazioni”. “È un passo importante - aggiunge Giuseppe Gugliotti, presidente della Società della Salute Senese - che testimonia l’attenzione delle nostre Società della Salute e dei nostri Comuni nei confronti di progetti di reale promozione delle persone e, allo stesso tempo, ne evidenzia la capacità di cogliere opportunità per coinvolgere risorse nelle attività di servizio alla comunità”. Campobasso. Ricoverato per oltre 60 giorni isolato e senza ricambio d’aria di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 novembre 2019 I risultati della visita della delegazione del Garante nelle carceri molisane. Il detenuto era nel reparto di “medicina protetta” dell’ospedale di Campobasso senza televisore, esposto tutto il giorno al sole e senza climatizzatori. Anche le carceri molisane, e non solo, sono state sotto la lente di ingrandimento del Garante nazionale delle persone private della libertà. La visita a Campobasso, Isernia e Larino dal 23 al 27 luglio 2018, è stata effettuata dalla delegazione composta da Mauro Palma e Daniela de Robert, rispettivamente presidente e componente del Collegio del Garante, e da Fabrizio Leonardi, Gilda Losito (per i primi due giorni), Antonio Martucci e Claudia Sisti, dell’Ufficio del Garante. La delegazione si è avvalsa della consulenza di Daniele Piccione, in qualità di esperto. In particolare l’autorità del Garante ha ravvisato criticità sulla tutela della salute. “Come è noto - si legge nella relazione-, la Regione Molise ha nominato un Commissario ad acta per l’attuazione del piano di rientro dai disavanzi del servizio sanitario molisano. Tale situazione, che si protrae da diversi anni, comporta una inevitabile ricaduta anche sul sistema sanitario negli Istituti di pena, con tagli sulle risorse umane e materiali”. In particolare, è emersa una scarsa presenza dei medici specialisti negli Istituti, con lunghi tempi di attesa per le analisi e le visite e un numero elevato di visite non programmate in ospedale con accompagnamento da parte della scorta. “Tutto ciò - relaziona il Garante - crea un corto circuito tra esigenze di tutela della salute e esigenze di sicurezza che richiedono una soluzione condivisa”. Tra le varie criticità, una che salta inevitabilmente all’occhio, è quella che riguarda il reparto di “medicina protetta” dell’ospedale “Antonio Cardarelli” di Campobasso. Le camere presentano finestre ad ante fisse che non possono essere aperte per il necessario ricambio di aria. Tale circostanza è aggravata dall’assenza di aria climatizzata e dall’esposizione al sole della camera per la maggior parte della giornata. “Tale situazione - osserva il Garante -, nel rispetto delle esigenze di sicurezza e prevenzione di possibili atti autolesivi o suicidari, appare in contrasto non solo con le regole penitenziarie europee del Consiglio d’Europa, ma anche con regole di vivibilità nel caso di prolungate degenze”. Il piccolo reparto risulta non munito di alcun locale diverso dalla stanza di degenza, ove avvengono anche i colloqui con i familiari, né di alcuno spazio esterno ove trascorrere, quando le condizioni di salute lo consentono, almeno un’ora al giorno - ciò anche in considerazione dell’impossibilità di aprire le finestre. Inoltre, non vi è un televisore e neppure un telefono per comunicare con familiari o avvocati. In sintesi, le persone detenute non godono di fatto dei diritti riconosciuti negli Istituti dall’ordinamento penitenziario. “Alla condizione di detenzione e di malattia - si legge sempre nella relazione - si aggiunge di fatto una condizione di solitudine oggettiva e di impotenza aggravata dall’assenza di diritti”. La delegazione del Garante, sempre nel reparto, ha incontrato una persona proveniente dall’Istituto di Larino, S. I., che era ricoverata da ben 62 giorni, ininterrotti. Si tratta di un detenuto in regime di alta sicurezza (AS3), sottoposta a cicli di radio terapia a seguito di neoplasia alla gola, con evidenti e gravi difficoltà di comunicazione a causa della patologia, ricoverato in quel Reparto dal 21 maggio e sottoposta a divieto di incontro (con la persona eventualmente ricoverata e detenuta nell’altra stanza). Ciò vuol dire che la persona, per mesi, è stata ininterrottamente ricoverata in un ambiente chiuso, senza ricambio d’aria, senza televisore, esposto tutto il giorno al sole e senza condizionatori d’aria. Aspetti che sono stati valutati dal Garante “offensive della dignità della persona ricoverata e, come tali, possibilmente sintetizzabili in quel concetto di “trattamento inumano o degradante” vietato inderogabilmente dall’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”. Bologna. Ricchezza e povertà in carcere di Maurizio Bianchi bandieragialla.it, 26 novembre 2019 In carcere, le diseguaglianze sociali assumono un significato particolare. Nel carcere di Bologna i più fortunati, circa il 15% della popolazione presente, hanno l’opportunità di lavorare, fissi o a rotazione, e quindi possono permettersi un reddito per soddisfare i propri bisogni, aggiungendo risorse proprie a ciò che passa l’amministrazione penitenziaria per la minima sopravvivenza. Fra l’altro la situazione economica di ognuno di noi non è protetta da privacy, dal momento che ogni detenuto può guardare, attraverso il modello 100, lo stato del conto corrente di tutti i compagni di sezione. La questione del lavoro, quindi, nella vita detentiva è centrale in relazione alla disuguaglianza; molti detenuti, soprattutto stranieri, per ottenere un’occupazione lavorativa, arrivano addirittura a compiere atti di autolesionismo pur di ottenere una mansione lavorativa retribuita. Diverse volte abbiamo visto che ad atti di autolesionismo è seguita l’ammissione al lavoro e per questo viene da pensare che i criteri di ammissione alle attività remunerate non sono poi così certi e che queste azioni vengano commesse strumentalmente per conquistare quel “di più” che consente di vivere la detenzione in modo meno pesante. I posti di lavoro sono pochi ed alcuni sono, come detto, a rotazione: alcuni sono assunti Mof (Manutenzione Ordinaria Fabbricati), altri alla Fid (l’officina meccanica “fare impresa Dozza”), altri ancora alla lavanderia o in cucina; ci sono poi i lavori di ordinaria amministrazione, in cui vengono impegnati addetti alle pulizie dei vari reparti, alla manutenzione di aree verdi e gli “spesini”, che si occupano di raccogliere l’elenco delle spese dei detenuti e distribuire i generi alimentari e non venduti da imprese esterne per il sopravvitto. Sono proprio gli “spesini” che accedono alle informazioni sui conti correnti e hanno quindi il termometro della ricchezza e della povertà in carcere: ciò che si ha nel conto corrente diventa quindi anche qui un’etichetta, con cui si è ascritti al catalogo dei poveracci o di quelli che, invece, possono permettersi i “lussi” da detenuto abbiente. Non so se si può sostenere che in carcere vi siano solo poveri, ma una cosa è certa: la povertà non si misura solo con i soldi, perché proprio in un posto come questo ci si rende conto che si può essere poveri e ricchi al tempo stesso. La ricchezza che ogni detenuto conserva nell’anima è la speranza di riuscire a uscire al più presto da questo incubo, ricostruendo la propria vita in modo positivo per sé e per i propri cari. Bergamo. L’arte per “evadere”: le opere di 15 detenuti in mostra alla Gamec di Michela Offredi Corriere della Sera, 26 novembre 2019 Lib(e)ri è il progetto che ha coinvolto la casa circondariale di via Gleno. 15 libri in formato A5, realizzati a mano. Sette detenuti hanno anche avuto la possibilità di visitare la mostra “Libera. Tra Warhol, Vedova e Christo”. Dalle sbarre del carcere alla libertà dell’arte, che consente di evadere con la mente e il corpo. E di portare la propria voce anche fuori dalle mura. È accaduto a 15 detenuti, di diversa età, della casa circondariale di Bergamo. Negli scorsi mesi hanno partecipato al progetto Lib(e)ri e ora si preparano ad esporre alla Gamec. Da domani al 6 dicembre lo spazio Servizi educativi della Galleria accoglierà una mostra con 15 opere, realizzate durante il percorso nato dalla collaborazione fra le due realtà. “La bontà dell’iniziativa è testimoniata dal fatto che ormai da più di 10 anni viene proposta con regolarità. A richiederla sono gli stessi ospiti che hanno la possibilità di esprimersi in un modo diverso - spiega Anna Maioli, responsabile dell’Area trattamentale della casa circondariale -. Quest’anno a 7 di loro è stata data la possibilità di visitare il museo e la mostra “Libera. Tra Warhol, Vedova e Christo”. Un’occasione per riflettere sul concetto di legalità, ma anche per conoscere l’istituzione museale e il mondo dell’arte che “devono essere accessibili a tutti, indipendentemente dalla propria condizione”, osserva Giovanna Brambilla, responsabile dei Servizi educativi della Gamec. A essere presentati sono 15 libri in formato A5, realizzati a mano e stampati con un vecchio tirabozze a caratteri mobili e in metallo. Custodiscono pensieri, appunti, disegni dei detenuti. E dimostra-no come la libertà della scrittura superi le barriere e “come è sempre possibile sottolineare il valore della propria umanità”, prosegue Brambilla. A fare da guida all’esposizione (aperta tutti i giorni, escluso il martedì, dalle 10 alle 18, ingresso libero) saranno gli alunni dell’istituto Vittorio Emanuele II, che hanno fatto visita ai detenuti, li hanno intervistati sul senso delle opere e hanno poi scritto i testi del catalogo. Per la chiusura, il 6 dicembre è in programma un workshop di formazione dal titolo “Lib(e)ri: il senso di un dialogo tra museo, carcere, scuola e territorio”, che vedrà la partecipazione delle figure coinvolte nel progetto ma anche di alcuni assessori del Comune. “Racconteremo il nostro percorso e inviteremo i presenti ad aprirsi a questo luogo che, contrariamente a quello che si crede, è parte integrante della città”, conclude Brambilla. La vera pace è disarmata di Raniero La Valle Il Manifesto, 26 novembre 2019 “Appena un istante, tutto venne divorato da un buco nero di distruzione e di morte”. Così il papa ad Hiroshima. Ma lui è l’unico che resta ancorato a quel buco nero e che mette in gioco la sua autorità di leader per parlare da quel buco nero a un mondo che sembra volere sprofondarvi di nuovo. Chi ha colto fin dal suo sorgere l’inaudita novità del pontificato di Francesco, non si stupirà delle sue fermissime parole da Hiroshima e Nagasaki. DA “queste terre che hanno sperimentato come poche altre la capacità distruttiva cui può giungere l’essere umano” per condannare le armi nucleari come “un crimine” e il pensiero stesso che le ha concepite. Un papa che ha cominciato a Lampedusa (“Vergogna!” salvare le banche e non i naufraghi), che nel memoriale della Shoà in Israele ha rinominato il peccato originale come il peccato non dell’Adam, ma di Caino, che ha aperto l’Anno santo non a Roma ma a Bangui, che ha convocato la Chiesa intera al capezzale dell’Amazzonia morente per il fuoco appiccato dagli uomini, non poteva non salire a quel buco nero. Vi è salito come al vero nuovo altare su cui l’umano, e insieme anche il divino, sono bruciati per il sacrificio. E ha detto queste parole: “Con convinzione desidero ribadire che l’uso dell’energia atomica per fini di guerra è, oggi più che mai, un crimine, non solo contro l’uomo e la sua dignità, ma contro ogni possibilità di futuro nella nostra casa comune. L’uso dell’energia atomica per fini di guerra è immorale, come allo stesso modo è immorale il possesso delle armi atomiche, come ho già detto due anni fa. Saremo giudicati per questo… Come possiamo parlare di pace mentre costruiamo nuove e formidabili armi di guerra?”. Come sono lontani i vescovi americani che al Concilio, per assolvere la strategia della deterrenza e l’equilibrio del terrore, impedirono che si condannasse anche il solo possesso delle armi nucleari! Ora la Chiesa, finché il papa è il papa, ne condanna oltre al possesso anche la fabbricazione e il commercio, perché la corsa agli armamenti, egli ha detto appena è arrivato a Nagasaki, “spreca risorse preziose che potrebbero invece essere utilizzate a vantaggio dello sviluppo integrale dei popoli e per la protezione dell’ambiente naturale. Nel mondo di oggi, dove milioni di bambini e famiglie vivono in condizioni disumane, i soldi spesi e le fortune guadagnate per fabbricare, ammodernare, mantenere e vendere le armi, sempre più distruttive, sono un attentato continuo che grida al cielo”. Ed ha aggiunto una nuova definizione alla pace, dopo quella di Giovanni XXIII (“la pace è fuori della ragione”) dicendo che “la vera pace è disarmata”: o è disarmata o non è, ossia non può esserci: “Le armi, ancor prima di causare vittime e distruzione, hanno la capacità di generare cattivi sogni, esigono enormi spese, arrestano progetti di solidarietà e di utile lavoro, falsano la psicologia dei popoli. La vera pace può essere solo una pace disarmata”. Essa non sta solo in un non fare (non fare la guerra) ma in un costruire continuo nella giustizia il bene di tutti. Giustamente noi ci siamo scandalizzati al sapere che pochi ricchi hanno tanta ricchezza quanto la metà più povera della terra, ma ancora di più dovremmo indignarci al sapere che la grottesca enormità della spesa per gli armamenti (giunta, dicono gli analisti, a 1800 miliardi di dollari l’anno scorso) non solo toglie ogni speranza ai poveri, ma impedisce di porre mano alla vera emergenza che minaccia un altro buco nero per il mondo intero: la devastazione degli ecosistemi e la fine stessa della storia. Perché tutto si tiene. “È un grave errore pensare che oggi i problemi possano essere affrontati in maniera isolata senza considerarli come parte di una rete più ampia”, ha detto papa Francesco a Tokyo. E non a caso parlando al recente Congresso mondiale del diritto penale, ci ha tenuto a dire che sta per mettere nel Catechismo della Chiesa cattolica un nuovo peccato, quello ecologico, che grida anch’esso, come la guerra, contro Dio e gli uomini. Perché se il sistema politico non giunge a metterlo tra i crimini, lui intanto lo ascrive al peccato; e si sa come nella storia i due termini si siano, anche fortunosamente, intrecciati. La verità è che siamo arrivati a quella svolta epocale per la quale la salvezza dell’umanità e del mondo non è più solo l’argomento delle religioni e delle Chiese, ma è l’urgenza stessa della politica e del diritto. Le due salvezze si incontrano, diventano una sola, fede e storia, grazia e libertà, sono portate dai fatti a incontrarsi in una sintesi nuova, escono dalla dialettica degli opposti. Eppure proprio ora l’irrompere dei particolarismi, dei nazionalismi, dei sovranismi sta distruggendo quel tanto di ordine internazionale che con tanta fatica si era cominciato a costruire dopo la prova della seconda guerra mondiale. Nel messaggio di Nagasaki sulle armi nucleari il papa ha denunciato proprio questo rovesciamento che è in corso, che si manifesta nello “smantellamento dell’architettura internazionale di controllo degli armamenti. Stiamo assistendo a un’erosione del multilateralismo, ancora più grave di fronte allo sviluppo delle nuove tecnologie delle armi; questo approccio sembra piuttosto incoerente nell’attuale contesto segnato dall’interconnessione e costituisce una situazione che richiede urgente attenzione e anche dedizione da parte di tutti i leader”. Ormai gli appelli, le denunce, e anche milioni di voci che si levano dalle piazze non bastano più. Va ripresa con coraggio la strada gloriosa dell’internazionalismo, la costruzione del multilateralismo. Questo, oggi, è il vero “stato d’eccezione” su cui ieri si insediavano i vecchi sovrani. Ma per fare questo occorre tornare alla politica per promuovere una politica per la Terra; occorre fondare un diritto capace di dettare regole impegnative per tutti, un costituzionalismo mondiale e un sistema di garanzie che lo renda efficace, occorre una Costituzione per la Terra. “L’atomica immorale e criminale”. Silenzio bipartisan sul Papa di Manlio Dinucci Il Manifesto, 26 novembre 2019 L’Italia istituzionale tace, ma a Ghedi e ad Aviano sono stoccate 70 ogive nucleari Usa. E ne stanno per arrivare di nuovissime. Silenzio di tomba nell’arco istituzionale italiano, sempre loquace sul Papa, sulle parole pronunciate da Francesco il 24 novembre a Hiroshima e a Nagasaki: “L’uso dell’energia atomica per fini di guerra è, oggi più che mai, un crimine. È immorale il possesso delle armi atomiche”. Parole imbarazzanti per i nostri massimi esponenti istituzionali che, come i precedenti, sono responsabili del fatto che l’Italia, paese non-nucleare, invece ospiti e sia preparata a usare atomiche statunitensi, violando il Trattato di non-proliferazione a cui ha aderito, che proibisce agli Stati militarmente non-nucleari di ricevere armi nucleari e di averne il controllo direttamente o indirettamente. Responsabilità ancora più grave perché l’Italia, come membro Nato, si è rifiutata di aderire al Trattato sulla proibizione delle armi nucleari votato a grande maggioranza dall’Assemblea generale dell’Onu: che impegna gli Stati firmatari a non produrre né possedere atomiche, a non usarle né a minacciare di usarle, a non trasferirle né a riceverle direttamente o indirettamente, con l’obiettivo della loro totale eliminazione. Imbarazzante per i governanti la domanda che papa Francesco fa da Hiroshima: “Come possiamo parlare di pace mentre costruiamo nuove e formidabili armi di guerra?”. In Italia le bombe nucleari attualmente stimate sono in circa 70, tutte del modello B61, ma stanno per essere schierate sul territorio italiano le nuove e più micidiali bombe nucleari Usa B61-12 (in numero ancora sconosciuto) al posto delle attuali B-61. La B61-12 ha una testata nucleare con quattro opzioni di potenza selezionabili: al momento del lancio, viene scelta la potenza dell’esplosione a seconda dell’obiettivo da colpire. A differenza della B61 sganciata in verticale sull’obiettivo, la B61-12 viene lanciata a distanza e guidata da un sistema satellitare. Ha inoltre la capacità di penetrare nel sottosuolo, anche attraverso il cemento armato, esplodendo in profondità per distruggere i bunker dei centri di comando e strutture sotterranee, così da “decapitare” il paese nemico in un first strike nucleare. Altrettanto imbarazzante è l’altra domanda del papa: “Come possiamo proporre la pace se usiamo continuamente l’intimidazione bellica nucleare come ricorso legittimo per la risoluzione dei conflitti?”. L’Italia, quale membro della Nato, ha avallato la decisione di Trump di cancellare il Trattato Inf che, firmato nel 1987 dai presidenti Gorbaciov e Reagan, aveva permesso di eliminare tutti i missili nucleari a gittata intermedia con base a terra schierati in Europa, compresi quelli installati a Comiso. Gli Usa mettono a punto nuovi missili nucleari a raggio intermedio con base a terra, sia da crociera che balistici (questi capaci di colpire gli obiettivi in pochi minuti dal lancio), da schierare in Europa, di certo anche in Italia, contro la Russia e in Asia contro la Cina. La Russia ha avvertito che, se verranno schierati in Europa, punterà i suoi missili nucleari sui territori in cui saranno installati. Le potenze nucleari posseggono complessivamente circa 15.000 testate nucleari. Oltre il 90% appartiene a Stati Uniti e Russia: ciascuno dei due paesi ne possiede circa 7 mila. Gli altri paesi in possesso di testate nucleari sono Francia (300), Cina (270), Gran Bretagna (215), Pakistan (120-130), India (110-120), Israele (80), Corea del Nord (10-20). Altri cinque paesi - Italia, Germania Belgio, Olanda e Turchia - hanno insieme circa 150 testate nucleari statunitensi dispiegate sul proprio territorio. La corsa agli armamenti si svolge ormai però non sulla quantità ma sulla qualità: ossia sul tipo di piattaforme di lancio e sulle capacità offensive delle testate nucleari. E quando Papa Francesco afferma che l’uso dell’energia nucleare per fini di guerra è “un crimine non solo contro l’uomo e la sua dignità, ma contro ogni possibilità di futuro nella nostra casa comune”, che mette in pericolo il futuro della Terra, ecco che non dovrebbe tacere chi è impegnato nella difesa dell’ambiente: perché la più grave minaccia per l’ambiente di vita sul pianeta è la guerra nucleare, ed è prioritario l’obiettivo della completa eliminazione delle atomiche. Sarà ora recepito l’avvertimento di papa Francesco nella Chiesa e tra i cattolici - che in Giappone sono in prima fila contro ogni riarmo e riforma della Costituzione di pace? L’antisemitismo che l’Europa non sa vincere di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 26 novembre 2019 È necessario partire dalla straordinaria valenza simbolica acquisita dall’Ebraismo agli occhi degli europei, costruita su due capisaldi: Cristianesimo e Shoah. Per capire la realtà profonda dell’antisemitismo, oggi più forte che mai, che cosa in esso si nasconda davvero in Italia come altrove, è necessario innanzi tutto partire da un dato: dalla straordinaria valenza simbolica acquisita dall’ebraismo agli occhi degli europei. Una tale valenza si è costruita su due capisaldi, il Cristianesimo e la Shoah. Grazie a essi l’Ebraismo oggi si presenta virtualmente come il momento iniziale e al tempo stesso il punto d’arrivo dell’intera storia d’Europa, in certo senso l’alfa e l’omega di tale storia, il principio e la fine. Il principio, allorché l’emanazione religiosa neotestamentaria del giudaismo uscì dalla Palestina e si diffuse su questo continente dando forma e sostanza a quella civiltà europea che è ancora la nostra; e insieme però anche il punto terminale della vicenda che ebbe allora inizio. La fine da cui l’Europa non si risolleverà più, segnata dal suo suicidio storico tra le fiamme dell’Olocausto. Per l’Europa, insomma, l’Ebraismo è divenuto una sorta di luogo simbolico dell’Origine e contemporaneamente della Catastrofe. Non basta. Proprio in ragione della Shoah, l’Ebraismo ha assunto - oggi soprattutto - anche il carattere di luogo simbolico di un giudizio sull’Europa che evidentemente non può che essere di irrimediabile condanna. Un giudizio che dal 1945 in avanti - e ben a ragione - esso ha rivendicato ed espresso in una molteplicità di forme. Attraverso le innumerevoli testimonianze autobiografiche, i tanti racconti, le smaglianti analisi e i bellissimi libri dei suoi storici e intellettuali, aventi tutti per argomento la persecuzione e lo sterminio; così come attraverso una richiesta incessante di risarcimento simbolico che ha come momento centrale la rievocazione instancabile, l’enfasi sulla memoria. La medesima funzione ha avuto in un certo senso anche la presenza di Israele. Una presenza ingombrante, che tuttora condiziona ogni mossa dei Paesi europei in quell’area cruciale del mondo costringendoli a una continua scelta, sempre difficile e imbarazzante, tra l’obbligatorio ricordo del passato e le ragioni della realpolitik? presente. Una presenza, quella di Israele, che per giunta non si stanca di mortificarci contrapponendo alla nostra pavida debolezza una rude fiducia e familiarità con la forza per noi inconcepibili. In mille modi insomma l’Ebraismo sta lì, piantato come un fastidioso memento che impedisce all’Europa di dimenticare le proprie colpe legate indissolubilmente alla tragedia di un declino storico ormai a un passo dall’irrilevanza. Ma essere chiamati in giudizio non piace a nessuno. Anche se a farlo sono le Vittime, i Giusti per definizione: che proprio per questo, però, quasi sempre non sono amati per nulla, e anzi come si sa, risultano assai spesso antipatici. È per l’appunto questa sorda antipatia, è l’insofferenza per quanto detto finora, ciò che si muove nel fondo dell’odierno antisemitismo. Lo si può dire in un modo ancora più crudo: è l’insofferenza verso chi sentiamo aver acquisito una sorta di oggettiva superiorità morale ma a spese delle nostre disgrazie e delle nostre vergogne. Se un tale sentimento può avere lo spazio che ha, ciò avviene, tuttavia, anche per la responsabilità della cultura democratica europea. La quale, quasi vergognandosi di sé e della propria tradizione storicista, si è arresa ai canoni del multiculturalismo, dell’eticismo, del pacifismo di principio, dell’approccio “postcoloniale”, egemoni nelle università degli Stati Uniti e nella loro cultura. Sicché - a cominciare dalla fine della Seconda guerra mondiale e sempre di più avvicinandoci ai giorni nostri - essa ha offerto una narrazione della storia europea virata progressivamente in negativo. La terribile vicenda novecentesca con l’ombra cupa delle sue guerre e dei suoi massacri è stata in un certo senso proiettata all’indietro su tutto il nostro passato, finendo per costruirne una versione dominata di fatto dalla negatività. Soprattutto nei manuali scolastici, nella divulgazione e nel sentire comune, si è così affermata un’immagine della storia d’Europa - cioè alla fine un’immagine della nostra identità - fatta in massima parte di élite inadeguate, di risorgimenti falliti, di inutili stragi, di religioni causa per antonomasia di guerre e violenze, di disprezzo per le donne, di discriminazione nei confronti di ogni genere di diversità, di razzismo, di traffici di schiavi, di masse oppresse, di bellicismi sempre delittuosi, di sopraffazione e sfruttamento ai danni dell’universo mondo. In una prospettiva dove a prevalere sembra essere sempre stato il dato dell’interesse materiale. E dove, per converso, viene messa una sordina su tutta quella parte della storia che invece ha fatto dell’Europa odierna, guarda caso, il luogo dove milioni di dannati della terra cercano disperatamente asilo. Ne risulta che l’atteggiamento diciamo così censorio che l’Ebraismo non può non avere verso il passato europeo (o che comunque come ho già detto esso per così dire oggettivamente incarna agli occhi degli stessi europei) cada sul terreno già in precedenza concimato da una lezione di autostima negativa quotidianamente impartita agli abitanti del continente. È facile supporre allora come l’antisemitismo che oggi rialza la testa dappertutto, più che la manifestazione di un’effettiva avversione diretta nei confronti degli ebrei, rappresenti in realtà qualcos’altro. Vale a dire l’effetto aggressivo di un avvilimento, una forma di ottusa rivalsa per la capillare mortificazione che l’identità europea si trova a subire da tempo. Di rivalsa, e insieme diciamo pure d’invidia: nei confronti di un’identità storica che appare circonfusa della luce fulgida del martirio e della vittoria agli occhi di chi, invece, ha un’identità di cui non sa bene che cosa farsi e a proposito della quale sa solo che di certo non ha motivo di menare alcun vanto. È una sorta di antisemitismo “indiretto”, “di risulta”, ad alimentare il quale gioca - sto parlando in particolare dell’Italia - un ultimo fattore: l’uso politico dell’Ebraismo da parte dei non ebrei. Cioè l’uso che gli esponenti politici non ebrei - solo loro, solo e sempre esponenti della politica, e dunque perlopiù, ahimè, personaggi agli occhi dell’opinione pubblica largamente screditati - fanno spesso e volentieri dell’Ebraismo. Quando per attestare il proprio impeccabile status etico-ideologico si affrettano a cogliere strumentalmente la minima occasione per manifestare a gran voce la propria vicinanza/solidarietà/amicizia/stima, ecc., ecc. nei riguardi dell’Ebraismo. Mostrando quasi una sorta d’interesse personale a enfatizzare oltremisura ogni più insignificante miserabile gesto antisemita per esibire quanto su quel piano sia irreprensibile la propria immagine e reprensibilissima invece quella dei loro avversari. Che un comportamento di tal genere sia davvero di vantaggio alla lotta contro l’antisemitismo, anche di questo, però, mi pare lecito dubitare moltissimo. “Sui migranti accuso l’Europa di crimini contro l’umanità” di Flore Murard-Yovanovitch Il Manifesto, 26 novembre 2019 Intervista a Omer Shatz. Parla l’avvocato che denuncia all’Aja le colpe europee nei respingimenti in Libia. “In mare è in corso una guerra ma il nemico non sono gli Stati, bensì civili vulnerabili che preferiscono morire che tornare nei campi”. Lo scorso mese di giugno è stato presentato alla Corte penale internazionale (Cpi) un esposto che accusa l’Unione europea e gli Stati membri di “crimini contro l’umanità” per le politiche migratorie che hanno causato migliaia di morti in mare e respingimenti in Libia. La responsabilità europea nelle morti è dimostrata in un documento di 242 pagine che analizza ogni scelta, decisione, dichiarazione pubblica dei funzionari e dei politici dei Paesi membri e delle istituzioni comunitarie. Al cuore della denuncia, che prende in esame il periodo dal 2014 ad oggi, la consapevolezza delle autorità italiane e europee nella creazione di quella che è la “rotta migratoria più mortale del mondo” e delle conseguenze letali dei respingimenti sistematici dei migranti in Libia. I reati ipotizzati riguardano l’”omissione di soccorso” - l’Ue non avrebbe intenzionalmente salvato i migranti in difficoltà in mare per scoraggiare gli altri, nella consapevolezza del crescente numero di morti a seguito del passaggio dall’operazione “Mare nostrum” a “Triton” (2014-2016): quasi 20.000 morti; e “crimini per procura” - dopo che le navi delle Ong sono intervenute salvando i migranti e sbarcandoli in Europa, l’Ue ha delegato alla sedicente Guardia costiera libica l’intercettazione e il refoulement dei migranti nei campi libici, commettendo - secondo gli autori dell’esposto - crimini contro l’umanità di persecuzione, deportazione, detenzione, schiavitù, stupro, tortura e altri atti inumani (2016-2019): 50.000 i civili respinti in Libia. In particolare, vengono chiamati in causa i Paesi che hanno svolto un ruolo cruciale nella definizione della politica europea sulla migrazione, cioè Italia, Germania e Francia. Tra i nomi che compaiono negli atti d’accusa ci sono quelli dei primi ministri Matteo Renzi, Paolo Gentiloni, Emmanuel Macron e Angela Merkel. Ma anche quelli degli ex ministri dell’Interno Marco Minniti e Matteo Salvini. Ora l’ufficio della procura dell’Aia dovrà decidere se acquisire la denuncia, un primo passo che potrebbe portare all’apertura di una inchiesta. Tra gli avvocati che hanno preparato il caso ci sono l’esperto di diritto internazionale dell’Istituto di studi politici di Parigi, Omer Shatz, a cui il manifesto ha rivolto alcune domande, e l’avvocato franco-spagnolo Juan Branco, consigliere di WikiLeaks. I due esperti discutono oggi della loro tesi alle ore 14.30 all’Università Europea di Firenze (School of Transnational Governance). Avvocato Shatz, che esito prevede potrà avere il vostro esposto alla Cpi? Il risultato non potrebbe essere più certo. Legalmente non esiste uno scenario in cui funzionari dell’Ue e degli Stati membri non possano essere processati per i crimini contro l’umanità commessi in Libia e nel Mediterraneo centrale. Se la Corte continuerà ad indagare per gli stessi crimini solo gli attori africani, lasciando ai loro omologhi europei piena impunità, sarà per sempre percepita come uno strumento colonialista e un tribunale parziale. Quindi, in un certo senso, la Cpi deve scegliere se sacrificarsi per salvare l’Ue: una scelta difficile, visto che l’Ue è il principale finanziatore e sostenitore della Corte. Che conseguenze può avere la scelta della procuratrice Fatou Bensouda di indagare solo sui crimini commessi nei centri di detenzione contro migranti e rifugiati e di perseguire solo i trafficanti di esseri umani ed alcuni esponenti libici coinvolti nel traffico? La procuratrice sta indagando solo 3 o 4 individui, che non sono i principali responsabili, e tutti africani. Poiché la corte ha completamente fallito in otto anni di indagini, ha rinviato i suoi poteri ai singoli Stati che non hanno interesse a indagare su questi crimini; perché i governi - libici ed europei - sono i principali trafficanti di esseri umani. Infine, la Cpi ha condiviso le sue prove e informazioni-chiave con i principali sospettati, contaminando l’intera indagine. L’Italia ha appena rinnovato gli accordi con la cosiddetta guardia costiera libica, l’Ue prosegue la propaganda, l’inchiesta della Cpi evita di perseguire i più alti rappresentanti dell’Italia e della Ue… Come pensate di rompere questa impunità? Al di là delle gravi implicazioni sulla legittimità e la credibilità di questo tribunale, se la Cpi non vuole andare avanti con le indagini sugli attori dell’Ue noi procederemo con l’azione penale nei tribunali nazionali sulla base della giurisdizione universale. Prima o poi, alla Cpi o altrove, ci sarà un secondo tribunale di Norimberga, perché per la prima volta dalla seconda guerra mondiale l’Europa è direttamente implicata in crimini contro l’umanità. Il cuore della vostra tesi è che i politici europei avessero piena consapevolezza dei loro atti e delle loro conseguenze, sia nella creazione della “rotta migratoria più letale del mondo”, sia dei crimini perpetrati nei campi di prigionia in Libia... Stiamo assistendo a due fenomeni sorprendenti: il primo è il modo in cui l’Europa ha inventato dal nulla, con la disumanizzazione e la reificazione dei “migranti”, una categoria fittizia di civili, solo allo scopo di colpirli. Ciò che è iniziato con la discriminazione e la criminalizzazione, è diventato poi rigetto e in ultima analisi sterminio. Questa deriva è accaduta a piccoli passi, così il processo per il quale siamo arrivati a tollerare il massacro sistematico di 20.000 bambini, donne e uomini, e il trasferimento forzato e la schiavitù di 50.000 sopravvissuti nei campi di concentramento, è quasi “invisibile”. Il secondo fatto, è che descriviamo tutto questo come una “tragedia” o disastro naturale, mentre si tratta in realtà, in modo innegabile, di una decisione consapevole: una politica intenzionale, attentamente calcolata e pianificata con cura. Parliamo dei rappresentanti al più alto livello europeo, tra cui Commissionari Ue, direttori di Frontex, ex ministri dell’Interno come Marco Minniti e Matteo Salvini? Psicologicamente abbiamo difficoltà a percepire che l’Ue, una democrazia liberale, sia implicata in atroci crimini... Sono totalmente d’accordo. In risposta al nostro caso, la Commissione europea ha dichiarato che il suo “obiettivo primario è quello di salvare vite nel Mediterraneo”; ma se questo fosse vero, perché allora impediscono alle Ong di salvare vite in mare? Perché criminalizzano coloro che agiscono sulla base del diritto internazionale? Hanno anche detto che i campi in Libia devono essere chiusi e i sopravvissuti evacuati. Ma se fosse vero, perché continuano a rimandarci ogni giorno centinaia di persone? Con il suo collega Juan Branco ha letto migliaia di pagine di rapporti, fonti diplomatiche, documenti interni della Commissione europea, di Frontex: quale idea vi siete fatta della catena di comando dell’Unione europea? L’Ue è un apparato di potere molto burocratico, dove ogni parte del puzzle può razionalizzare al massimo il proprio processo decisionale. La dissonanza dell’Ue tra il suo discorso e la pratica è orwelliana, mentre si è arresa de facto alle teorie di destra populista sulla presunta “sostituzione etnica”. L’Ue paga le milizie libiche per eseguire i crimini che non può commettere da sola, ad esempio il respingimento e l’internamento nei campi di concentramento; mentre paga anche l’Unhcr e l’Iom per mantenere in vita i sopravvissuti e fargli accettare di tornare nei loro Paesi; l’Unione europea finanzia l’operazione Sophia per addestrare le milizie libiche e gestire i droni per monitorare il refoulement. Abbiamo quindi a che fare con un apparato di potere molto sofisticato, che utilizza mezzi materiali, finanziari, tecnologici e simbolici per razionalizzare al massimo le proprie azioni illecite, tenerle lontane dall’attenzione pubblica ed evitare le proprie responsabilità. Infatti, dal cuore della civiltà occidentale, rimandiamo esseri umani in campi paragonabili ai Lager…. siamo di fronte ad una chiara svolta storica: qual è il peso morale per tutti noi, cittadini di uno spazio politico dove sono commessi tali crimini? Ci siamo purtroppo abituati al modo in cui viene definita la popolazione bersaglio: i migranti come gruppo sono una invenzione degli ultimi anni. Prima parlavamo di “immigrati” o “emigranti”. A differenza degli Ebrei, Bosniaci, Uiguri, Yazidi, e Rohingya c’è poco di comune tra i membri di questo gruppo “migrante”, a parte la loro caratteristica di essere in movimento: provengono da diverse nazionalità, religioni, culture e contesti socioeconomici, le loro motivazioni per il transito sono diverse. L’unico elemento comune per perseguitarli è il loro desiderio di fuggire da un’area di conflitto armato. Come scriveva Saviano, c’è una guerra tranquilla nel Mediterraneo. Ma il nemico di questa guerra non sono Stati o combattenti, ma civili vulnerabili che preferiscono “suicidarsi” in mare per non soffrire ulteriormente nei campi. Sono nato sulle rive del Mediterraneo e come padre di un bambino penso ogni giorno a come si sia trasformato questo bellissimo Mare nostrum, nel più grande cimitero del mondo, pieno di bambini morti di cui non conosceremo mai il nome. Il male radicale o banale forse significa proprio questo: non riuscire a capire come una “cortese” Unione europea, sia coinvolta in un’impresa così letale. L’ironia è che costruendo muri per proteggere i valori dell’Europa - la nozione liberale di diritto dell’uomo, i principi dei diritti umani - essi stessi vengano distrutti in modo irreversibile. Non c’è mai stata una “crisi migratoria” ma una “crisi esistenziale dell’Europa”. Notizie pericolose, in Egitto. Al-Sisi assalta la redazione di Pino Dragoni Il Manifesto, 26 novembre 2019 Informazione nel mirino. Pesante avvertimento ai giornalisti di Mada Masr. La direttrice Lina Atallah: “È solo l’inizio”. Il raid delle forze di sicurezza sembra collegato a un’inchiesta pubblicata sul figlio maggiore del presidente e sulle tensioni all’interno dei servizi. La redazione di Mada Masr, sito di informazione indipendente egiziano, è stata attaccata domenica dalle forze di sicurezza. Diversi membri del giornale sono stati trattenuti per alcune ore e tre di loro, tra cui la direttrice Lina Atallah, sono stati portati in una stazione di polizia e rilasciati solo in serata. Appena il giorno prima era stato arrestato durante una perquisizione notturna in casa un altro redattore, Shady Zalat, detenuto per più di 24 ore in un luogo sconosciuto. Il raid è avvenuto intorno alle 13.30 di domenica, quando circa venti uomini in borghese hanno fatto irruzione negli uffici della redazione. Ai presenti sono stati immediatamente confiscati computer portatili e telefoni, poi ispezionati dagli agenti. Le forze di sicurezza hanno ripetutamente interrogato alcuni giornalisti nel corso del pomeriggio, mentre le comunicazioni con l’esterno venivano completamente interrotte e a nessuno, compresi gli avvocati, veniva concesso di accedere all’interno. Anche due collaboratori stranieri, un cittadino statunitense e una britannica, sono stati fermati, identificati e interrogati, mentre due giornalisti francesi arrivati per un’intervista con Atallah sono stati trattenuti e poi rilasciati in seguito a pressioni dei funzionari diplomatici arrivati sul posto. Alla fine, anche Shady Zalat è stato rilasciato, quando il sequestro della redazione era ancora in corso, abbandonato su un’autostrada nel deserto all’estrema periferia della capitale. L’arresto di Zalat sabato era suonato come un preoccupante avvertimento per i giornalisti di Mada. “È solo l’inizio - aveva commentato Atallah -, questo è un messaggio per dire che è arrivato il nostro turno”. In effetti Mada Masr, nonostante le difficoltà di questi anni, è stata una delle pochissime piattaforme di informazione riuscite a sopravvivere alla repressione e alle restrizioni della dittatura. Nata nel 2013, poco prima del colpo di stato, Mada viene fondata da un gruppo di giornalisti espulsi da una importante società di informazione e in poco tempo si afferma come uno dei siti più in vista del panorama egiziano. Senza cedere alla faziosità di una politica estremamente polarizzata, ma mantenendo sempre chiara la sua ispirazione e la vicinanza alle lotte civili, politiche, sociali e per i diritti umani, insieme a una grande professionalità, Mada Masr ha fatto del lavoro di inchiesta, di documentazione e ricerca una cifra del suo stile di informazione. Anche dopo l’oscuramento del sito in Egitto nel 2017 (insieme ad almeno altri 500 siti) ha continuato a operare, cercando di restare accessibile al pubblico egiziano attraverso alcuni stratagemmi che aggirano il blocco. Ma Mada Masr (pubblicato in arabo e in inglese) è anche una fonte imprescindibile di notizie, analisi e approfondimenti e punto di riferimento per la stampa straniera e i ricercatori di tutto il mondo. Il sito ha spesso pubblicato in esclusiva notizie provenienti dall’interno degli apparati di stato, senza mai paura di toccare argomenti tabù, come i servizi di sicurezza o l’esercito. Il raid di domenica sembra legato proprio a una di queste inchieste, uscita pochi giorni fa, che riguarda direttamente il figlio maggiore del presidente Abdel Fattah al-Sisi, Mahmoud. Secondo diverse fonti interne al Servizio di intelligence generale e un’altra fonte vicina alle autorità degli Emirati Arabi, il giovane Mahmoud al-Sisi (un ufficiale di alto livello nello stesso servizio di sicurezza) starebbe per essere rimosso dal suo incarico e inviato in una missione di lungo periodo a Mosca, come delegato militare. Non un declassamento dunque, ma comunque un modo per allontanarlo dagli apparati, dove il suo operato sembra aver generato tensioni e malessere, anche per l’influenza crescente esercitata sul padre-presidente. Nell’Egitto di al-Sisi, soprattutto negli ultimi anni, non è più chiaro quali siano le linee rosse da non superare, il potere agisce in modo arbitrario, spesso senza una logica prevedibile. Mada Masr in ogni caso non si arrende. Ieri in un messaggio pubblicato dalla pagina Facebook la redazione ha ringraziato per la solidarietà ricevuta, annunciando: “Siamo sani e salvi e pronti a tornare”. “La nostra unica opzione - scrive Atallah - è lottare per poter continuare a fare il nostro lavoro”. Iran. La violenza di Stato sulle donne di Loredana Biffo caratteriliberi.eu, 26 novembre 2019 Nella Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, vale la pena di ricordare le donne combattenti della Repubblica islamica dell’Iran, che conducono una lotta quarantennale contro l’oppressione del regime clericale fondato da Khomeini. Le donne della Resistenza iraniana, si trovano in prima linea nel conflitto provocato dalla dittatura teocratica e fortemente misogina instaurata da Khomeini nel 1979: si tratta dell’unico caso al mondo di opposizione a base femminile. La Resistenza ha denunciato la situazione politico-sociale di un paese che vive in condizioni drammatiche, e in cui si registra la costante violazione di qualsiasi diritto: politico, di stampa, sociale e umano. In particolare il regime teocratico fonda la sua essenza proprio sulla sottomissione delle donne, attraverso un’applicazione letterale della sharia. Ciò rende unica in tutto il mondo musulmano l’egemonia femminile sulla Resistenza iraniana, che non a caso vede a capo, nel ruolo di Presidente eletta, una donna: Maryam Rajavi. Le donne in Iran sono il motore del cambiamento, lo si vede chiaramente nel loro ruolo nelle proteste che da più di un anno scuotono il paese e che si sono intensificate negli ultimi giorni da quando il regime ha annunciato l’aumento del prezzo del carburante, fatto che ha intensificato la lotta legata ad un malessere generalizzato del popolo intero. La discriminazione di genere, e la segregazione a cui sono sottoposte, anziché indebolirle, hanno reso le donne sempre più forti e ribelli. Esse sono le vittime predestinate del governo degli ayatollah. L’abbassamento dell’età legale ed il matrimonio forzato per le bambine, la discriminazione nell’istruzione, la povertà e altri fattori hanno fatto si che decine di migliaia di queste abbandonino la scuola. Sono 77 i campi di studio vietati alle ragazze (quelle che appartengono alle classi medio alte e che riescono a portare avanti gli studi) molte università non danno l’accesso alle donne. Anche in campo sportivo subiscono pesanti limitazioni, nelle gare internazionali, dove devono gareggiare con il velo per non incorrere nell’arresto una volta rientrate in patria, inoltre non possono entrare negli stadi. È stato un fatto di cronaca recente che ha fatto il giro del mondo il caso di Sahar Khodayari, la 22enne che si è data fuoco per protesta a causa del divieto di entrare allo stadio. Non più di qualche mese fa un importante ayatollah ha dichiarato in seguito a proteste della comunità internazionale, che la “questione femminile non è negoziabile”. Le donne in Iran sono quelle che pagano il prezzo più alto per le proteste che portano avanti, vengono arrestate per “Atti contro la sicurezza nazionale”, torturate, violentate e uccise nelle famigerate carceri del regime. Raheleh Rahemipour: è stata arrestata il 10 settembre 2017 nella sua abitazione di Teheran. Colpevole di aver chiesto al regime notizie del fratello scomparso, Hossei Rahemipour e di sua nipote Golrou Rahemipur, nata in carcere da Reheleh Rahemipour detenuta per sedizione, la bambina è stata separata dalla madre a soli 14 giorni e fatta sparire. Mansoureh Behkish: condannata nel febbraio 2018 a 8 anni di reclusione per aver chiesto giustizia per 6 dei suoi fratelli e cognati giustiziati negli anni 80. Si tratta di una delle più note attiviste che chiedono giustizia per le vittime del grande massacro di prigionieri politici del 1988. Mryam Kalangari: di anni 65 prelevata dalla sua abitazione e reclusa nel carcere di Arak il 13 gennaio 2018 nonostante utilizzasse un deambulatore e soffra di varie patologie tra cui complicazioni cardiache, polmonari artrite reumatoide e non sia in grado di sopportare la condizione carceraria. Condannata a 5 anni di reclusione con l’accusa di “Propaganda contro lo Stato”. Sono innumerevoli i casi di donne vittime della ferocia del regime, ma il loro motto è “combattere l’oppressore fino alla morte”. La libertà delle donne iraniane, è indissolubile dalla libertà di quell’intero popolo. Algeria, una campagna elettorale di arresti di Stefano Mauro Il Manifesto, 26 novembre 2019 Dopo il 40mo venerdì consecutivo di proteste nelle strade, l’annuncio dello sciopero generale giovedì 28. 150 gli arresti in pochi giorni. Bisogna tornare al “decennio nero” degli anni ‘90 per assistere a una serie di arresti in massa come è avvenuto in quest’ultima settimana in Algeria. “Più di 150 persone arrestate in pochi giorni” secondo un primo bilancio pubblicato dal Comitato nazionale per la liberazione dei detenuti (Cnld) “con capi d’accusa come quello di “indossare l’emblema amazigh (berbero, ndr)” o quelli di attentato “all’unità nazionale” e “all’integrità dell’esercito” o al “divieto di adunata sediziosa”. A nove mesi dall’inizio delle proteste, di fronte a questa escalation il popolo algerino continua a contestare il regime e ad affermare la propria contrarietà alle presidenziali, previste per il 12 dicembre, visto che “si tratta più di una campagna di arresti che di una campagna elettorale”. Come effetto di questa dura repressione, le proteste si intensificano sempre più. A poco meno di tre settimane dalle elezioni, il livello della mobilitazione è intatto, come è sembrato evidente durante il quarantesimo venerdì consecutivo dell’hirak (movimento), che ha visto un fiume di persone sfilare nelle strade per chiedere il boicottaggio delle presidenziali, viste come l’ennesimo tentativo del regime di “riciclarsi”. Dal primo giorno di campagna elettorale, lo scorso 17 novembre, si sono moltiplicate anche le manifestazioni di dissenso nei confronti dei cinque candidati alle presidenziali. A Tlemcen centinaia di giovani hanno cercato di ostacolare l’incontro di Ali Benflis, presidente del partito Talai el Houriyat, con decine di persone arrestate e condannate in tempi rapidissimi. Stessa sorte è toccata al candidato islamista, ex ministro del Turismo, Abdelkader Bengrina, bloccato per ore in un hotel, con le immagini della sua “liberazione” da parte della polizia che hanno fatto il giro dei social. Il Cnld ha indetto lo sciopero generale questo giovedì, 28 novembre, per “chiedere il rilascio di tutti i detenuti dell’hirak e l’immediata cessazione della repressione giudiziaria”, con un appello rivolto a tutte le associazioni, i sindacati e agli esponenti della società civile. Lo stesso Cnld non esclude “l’annullamento dei risultati delle prossime elezioni presidenziali del 12 dicembre” perché il voto sarà totalmente boicottato in diverse wilaya (regioni, ndr), come in Cabilia, “compromettendo uno dei fondamenti della costituzione algerina: l’unità nazionale”. Nonostante gli incontri dei candidati senza pubblico e gli inviti al boicottaggio, il vero uomo forte del regime, il generale Ahmed Gaïd Salah, non pensa ad alcun rinvio delle elezioni, ma al contrario continua ad esprimere “la sua soddisfazione riguardo alla volontà degli algerini di andare massicciamente alle urne”. Le incertezze sul voto del 12 dicembre rimangono, come confermato dal diplomatico Abdelaziz Rahabi, intervistato dal giornale online Tsa. “Mi sarebbe piaciuto un clima diverso, con la liberazione dei detenuti di opinione e l’apertura dei media (…). L’unica certezza è che non è stato possibile raggiungere un accordo politico che consentisse alle elezioni di svolgersi in condizioni adeguate e che avrebbe incoraggiato gli algerini ad andare alle urne”. Cina, la verità dalla fuga di documenti. Come funzionano i “lager” per gli uiguri musulmani di Cristin Cappelletti open.online, 26 novembre 2019 I documenti ottenuti dall’International Consortium of Investigative Journalism rivelano un sistema di prigionia di massa. Un lavaggio del cervello sistematico per milioni di uiguri musulmani detenuti in Cina nella regione dello Xinjiang. È quanto rivelano i documenti ufficiali delle autorità cinesi di cui è entrato in possesso l’International Consortium of Investigative Journalists (Icij), a cui appartengono anche la Bbc e il The Guardian. I documenti classificati sono arrivati all’Icij attraverso una catena di uiguri esiliati. Il governo cinese sostiene però da tempo che i campi dello Xinjiang offrano istruzione e formazione volontaria contro l’estremismo alla minoranza uigura. Dai documenti trapelati, ribattezzati China Cables, emerge invece come Pechino abbia dato istruzioni precise su come gestire questi posti: cioè prigioni di massima sicurezza, con una rigida disciplina, punizioni e divieto di fuga, dove la vita dei detenuti viene monitorata continuamente. Negli ultimi due anni attraverso descrizioni, testimonianze di ex detenuti, e immagini satellitari è emerso un sistema di campi gestiti dal governo nello Xinjiang abbastanza grande da contenere un milione o più di persone. Ultima in ordine di tempo è la rivelazione fatta dal New York Times che attraverso documenti classificati ha svelato gli ordini impartiti dal presidente cinese Xi Jinping in merito alla repressione degli uiguri: “Nessuna pietà”. Ma quello messo in atto da Pechino è un sistema pensato nei minimi particolari, un sistema di massima sorveglianza orwelliana grazie al supporto di tecnologia super sofistica fornita, secondo diverse denunce, da aziende cinese come Huawei e da tecnologia statunitense super specializzata. Secondo Adrian Zenz, accademico tedesco esperto della regione e sui campi, quello che sta avvenendo in Cina “è probabilmente la più grande detenzione di minoranze etno-religiose dopo l’Olocausto”. Ma Pechino nega: “I documenti, i cosiddetti documenti di cui state parlando sono vere e proprie macchinazioni. Se volete noi possiamo fornire molta documentazione sul tipo di educazione vocazionale del centro detentivo. Non ascoltate le fake news, le fabbricazioni dei fatti”, ha dichiarato l’ambasciatore cinese a Londra, Liu Xiaoming. Campi di “rieducazione”: cosa dicono i documenti - A partire dal 2017 circa un milione di uiguri, secondo le stime del governo statunitense, sono stati rinchiusi in campi che Pechino definisce “centri di istruzione e formazione professionale”. Un programma che la Cina giustifica nel contesto della sua lotta contro il terrorismo islamico. In questi campi costruiti in tutto Xinjiang, la regione autonomia a nord ovest della Cina, i detenuti sono costretti a imparare il mandarino, a rinunciare a presunti pensieri “estremisti” e a sottoporsi a un indottrinamento quotidiano sul partito comunista cinese. Diversi ex detenuti hanno affermato di aver subito torture e abusi sessuali. Abduweli Ayup intervistato da Al Jazeera, ora esule a Istanbul, ha dichiarato di essere stato violentato da 20 uomini in una sola notte durante il suo periodo di internamento e di essere stato più volte umiliato torturato. Storie che si intrecciano con quelle che di donne che raccontano di essere state anch’esse violentate e perfino costrette ad abortire. I documenti classificati rivelano come ogni aspetto della vita di un detenuto venga monitorato e controllato: “Gli studenti devono avere una posizione fissa sul letto, un posto fisso in classe e una stazione fissa durante il lavoro, ed è severamente vietato che questo venga cambiato”. Linee guida rigide per garantire una sorveglianza ravvicinata 24 ore su 24. Regolamenti che stabiliscono anche “disposizioni per alzarsi, telefonare, lavarsi, andare in bagno, organizzare e fare le pulizie, mangiare, studiare, dormire, chiudere la porta e così via”. “Le porte del dormitorio - si legge - devono essere chiuse due volte per gestire e controllare rigorosamente le attività degli studenti per prevenire fughe durante le lezioni, i periodi di alimentazione, le pause del bagno, l’ora del bagno, le cure mediche, le visite della famiglia”. E proprio le famiglie rimangono per mesi all’oscuro del destino dei familiari, rastrellati per strada e deportati dall’oggi al domani. Ai detenuti non è permesso di tenere cellulari e le chiamate a madri, padri, figli, fratelli sono consentite solo una volta alla settimana, mentre le video chiamate sono concesse una volta al mese. Un modo, si legge nei documenti, “per rassicurare la famiglia e il detenuto sul suo stato di salute”. Oltre i confini cinesi: la longa manus della repressione di Pechino - Il file più lungo, il cosiddetto telegramma, istruisce inoltre il personale del campo su come prevenire le fughe, mantenere la totale segretezza sull’esistenza dei campi, sui metodi di indottrinamento forzato, come controllare le epidemie di malattia e quando consentire ai detenuti di vedere i parenti o persino usare il bagno. Il documento, che risale al 2017, mette inoltre a nudo un sistema di valutazione del comportamento per infliggere punizioni o ricompense per i detenuti. Un sistema che aiuta a determinare, tra le altre cose, se i detenuti possono entrare in contatto con la famiglia e quando vengano rilasciati. Ma l’azione di Pechino si estende anche oltre i suoi confini. I documenti descrivono le direttive esplicite volte ad arrestare anche gli uiguri con cittadinanza straniera e per rintracciare coloro che vivono all’estero attraverso l’aiuto di ambasciate e consolati cinesi. Tanti i cittadini kazaki di etnia uigura che sono stati trattenuti in Cina durante viaggi nello Xinjiang deportati in una dei campi di “rieducazione” con il tacito assenso dei rispettivi governi. La repressione di Pechino non ha colpito però solo gli adulti. Negli ultimi anni in parallelo al nascere di nuovi campi e strutture di internamento è aumentato anche il numero degli orfanotrofi. I bambini, strappati alle famiglie deportati nei campi subiscono lo stesso programma di indottrinamento in un tentativo da parte di Pechino di eliminare per sempre la cultura e l’identità uigura. Chi sono gli uiguri? - Minoranza turcofona di religione musulmana, gli uguri hanno vissuto prevalentemente in Asia centrale, in particolare nella regione ora conosciuta come Xjinjiang. Infatti è solo nel 1911 che l’allora Turkestan dell’Est, finisce sotto il controllo del governo cinese. Dopo alcune esperienze di autonomia governativa, nel 1949 viene creato uno Stato del Turkestan orientale. Avrà vita breve perché, nello stesso anno, lo Xinjiang diventerà ufficialmente parte della Cina comunista. Gli uiguri hanno dovuto a lungo affrontato l’emarginazione economica e la discriminazione politica come minoranza etnica, che ora rappresentano quasi 11 milioni di persone in un paese in cui quasi il 92% della popolazione di 1,4 miliardi è di etnia cinese Han. La maggior parte degli uiguri cinesi vive nello Xinjiang, una regione prevalentemente montuosa e desertica nell’estremo nord-ovest del paese. I problemi con Pechino - Le tensioni tra Uiguri, da un lato, e il governo e la popolazione cinese Han della regione, dall’altro, sono spesso sfociate nella violenza. Nel 2009, gli uiguri iniziarono delle rivolte nella capitale dello Xinjiang, Urumqi. In quegli scontri 200 persone rimasero uccise, vittime che per le autorità cinesi sarebbero state in prevalenza Han. La Cina ha incolpato i separatisti uiguri e ha promesso di eliminare l’ideologia islamica militante tra la popolazione uigura. In una dichiarazione al The Guardian, la Cina ha affermato che i campi sono uno strumento efficace nella sua lotta contro il terrorismo e non violano la libertà religiosa. Secondo l’ambasciata cinese nel Regno Unito “da quando sono state prese le misure, negli ultimi tre anni non c’è stato nessun singolo episodio di terrorismo. Lo Xinjiang si è trasformato di nuovo in una regione prospera, bella e pacifica”. “Le misure preventive non hanno nulla a che fare con l’eradicazione dei gruppi religiosi - scrive l’ambasciata. La libertà religiosa è pienamente rispettata nello Xinjiang”. Afghanistan. Denunciano una rete di pedofili e i servizi segreti li arrestano di Riccardo Noury Corriere della Sera, 26 novembre 2019 Musa Mahmudi e Ehsanullah Hamidi, due difensori dei diritti umani molto noti in Afghanistan, sono stati arrestati il 21 novembre da uomini della Direzione per la sicurezza nazionale mentre si stavano recando nella capitale Kabul per incontrare alcuni ambasciatori dell’Unione europea. Da allora, non si hanno più loro notizie. Nei giorni precedenti l’arresto, Mahmudi e Hamidi avevano denunciato alla stampa locale e internazionale l’esistenza di una rete di pedofili nella provincia di Logar. Nel corso delle loro ricerche avevano scoperto oltre 100 video di violenze sessuali ai danni di minori, alcuni dei quali sarebbero morti. Da lì erano iniziate le minacce di morte nei loro confronti, anche da parte di autorità della provincia: colpevoli di “aver disonorato la gente di Logar”. Un giorno prima della sua sparizione, Mahmudi aveva detto a un suo collega di sentirsi in pericolo e di ritenere che la Direzione per la sicurezza nazionale stesse per arrestarlo.