Ufficio lavoro detenuti, l’interfaccia che incrocia domanda e offerta di Marzia Paolucci Italia Oggi, 25 novembre 2019 Nasce l’Ufficio centrale per il lavoro dei detenuti, “Mi riscatto per... il futuro”: così l’amministrazione giudiziaria eleva a sistema Paese un modello virtuoso nato localmente. Presentato il 13 novembre scorso presso l’aula universitaria del carcere romano di Rebibbia, questa nuova realtà chiude il cerchio dei 70 protocolli cittadini “Mi riscatto per...” che hanno permesso l’avviamento al lavoro di circa 4.500 detenuti italiani. Numeri diffusi dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede intervenuto alla presentazione dell’Ufficio con il capo Dap Francesco Basentini. Ora, dal particolare, si passa al nazionale creando, ha detto Bonafede, “un ufficio che monitori il territorio nazionale per incrociare domanda e offerta di lavoro”. “La missione è quella di fare da interfaccia tra il mondo economico produttivo fuori dal carcere e i detenuti che vogliono lavorare per mettersi a disposizione del territorio”, ha aggiunto Basentini che ha ricordato l’esportazione del progetto in Messico per essere replicato in uno o più istituti penitenziari messicani. Nel suo discorso, il ministro Bonafede è uscito fuori da quello che ha definito “il perimetro fisico di un’aula giudiziaria di tribunale o di un carcere. La dimensione più alta della giustizia”, ha detto, “è invece quella che non ha perimetri a cominciare dalla prevenzione con progetti scolastici di legalità per investire in una nuova generazione che rispetti le regole per scelta e non per imposizione. Ma questo riguarda”, ha allargato il concetto, “anche la fase esecutiva della pena su cui deve valere il principio della certezza della pena con il quale deve viaggiare quello della sua funzione rieducativa garantita dall’articolo 27 della Costituzione. E quindi”, ha sottolineato, “quale migliore rieducazione del detenuto è il lavoro e attraverso questo la possibilità di intraprendere un percorso di reinserimento sociale fatto di esperienza e competenza che faccia da ponte verso una nuova vita fuori dal carcere”. E parole di riconoscenza del valore della polizia penitenziaria, hanno chiuso l’intervento del ministro: “Di fronte a uno Stato che ha pensato alla polizia penitenziaria come un corpo di serie B”, ha riconosciuto, “questo corpo specializzato ha saputo reinventare il proprio ruolo servendo lo Stato in ogni occasione possibile anche andando ben al di là dello stretto adempimento dei propri doveri”. Papa Francesco alla pastorale carceraria: “siate vicini alle famiglie dei detenuti” di Simone Baroncia korazym.org, 25 novembre 2019 Nei giorni scorsi Papa Francesco i responsabili della pastorale carceraria in occasione dell’incontro sullo Sviluppo Umano Integrale e la Pastorale Penitenziaria Cattolica, denunciando la grave situazione dei carcerati: “Molte volte la società, mediante decisioni legaliste e disumane, giustificate da una presunta ricerca del bene e della sicurezza, cerca nell’isolamento e nella detenzione di chi agisce contro le norme sociali, la soluzione ultima ai problemi della vita di comunità. Così si giustifica il fatto che si destinino grandi quantità di risorse pubbliche a reprimere i trasgressori invece di ricercare veramente la promozione di uno sviluppo integrale delle persone che riduca le circostanze che favoriscono il compimento di azioni illecite”. Il Papa ha denunciato la repressione: “E’ più facile reprimere che educare e direi che è anche più comodo. Negare l’ingiustizia presente nella società è più facile e creare questi spazi per rinchiudere nell’oblio i trasgressori che offrire pari opportunità di sviluppo a tutti i cittadini. È una forma di scarto, scarto educato, tra virgolette. Inoltre, non di rado i luoghi di detenzione falliscono nell’obiettivo di promuovere i processi di reinserimento, senza dubbio perché non dispongono di risorse sufficienti che permettano di affrontare i problemi sociali, psicologici e familiari sperimentati dalle persone detenute, e anche per il frequente sovrappopolamento delle carceri che le trasforma in veri luoghi di spersonalizzazione. Al contrario, un vero reinserimento sociale inizia garantendo opportunità di sviluppo, educazione, lavoro dignitoso, accesso alla salute, come pure generando spazi pubblici di partecipazione civica”. Poi ha delineato i compiti della comunità cristiana: “Fratelli, in questo incontro avete già condiviso alcune delle numerose iniziative con cui le Chiese locali accompagnano pastoralmente i detenuti, quanti hanno concluso la detenzione e le famiglie di molti di loro. Con l’ispirazione di Dio, ogni comunità ecclesiale va assumendo un cammino proprio per rendere presente la misericordia del Padre a tutti questi fratelli e per far risuonare una chiamata permanente affinché ogni uomo e ogni società cerchi di agire in modo fermo e deciso a favore della pace e della giustizia”. Ed ha chiesto l’intercessione di Nostra Signora della Mercede: “Siamo certi che le opere che la Misericordia Divina ispira in ognuno di voi e nei numerosi membri della Chiesa dediti a questo servizio sono veramente efficaci. L’amore di Dio che vi sostiene e v’incoraggia nel servizio ai più deboli, rafforzi e accresca questo ministero di speranza che ogni giorno realizzate tra i detenuti. Prego per ogni persona che, dal silenzio generoso, serve questi fratelli, riconoscendo in loro il Signore. Mi congratulo per tutte le iniziative con cui, non senza difficoltà, si assistono pastoralmente anche le famiglie dei detenuti e si accompagnano in questo periodo di grande prova, affinché il Signore benedica tutti”. Anche alla delegazione dell’Esercito della Salvezza ha parlato della misericordia come forza creativa: “La santità che si manifesta in azioni concrete di bontà, di solidarietà e di guarigione parla al cuore e attesta l’autenticità del nostro discepolato. Su tale base, cattolici e membri dell’Esercito della Salvezza possono aiutarsi a vicenda e collaborare sempre di più con rispetto reciproco, anche nella vita di santità”. La testimonianza è convincente: “L’amore gratuito che ispira i gesti di servizio verso i bisognosi non è solo il lievito, ma anche la fragranza del pane appena sfornato. Attira e convince. I giovani in particolare hanno bisogno di sentire questa fragranza, perché in molti casi essa manca nella loro esperienza quotidiana. In un mondo in cui egoismi e divisioni abbondano, è proprio il gusto nobile dell’amore incondizionato che serve come antidoto e apre la strada al significato trascendente della nostra esistenza”. Musicoterapia nelle carceri: una petizione al Ministro della Salute Roberto Speranza di Daniela Sacchi ilformat.info, 25 novembre 2019 Musicoterapia nei penitenziari per migliorare la qualità della vita dei detenuti lungo il percorso di espiazione della pena, per favorire il recupero, la riabilitazione e il reinserimento socio-lavorativo. È l’oggetto di una petizione al Ministro della Salute Roberto Speranza, presentata in occasione del concerto “Musipax - Quando le sette note regalano la libertà”. La manifestazione, che ha registrato una straordinaria partecipazione di pubblico, si è svolta domenica 24 novembre nella Basilica parrocchiale di San Gioacchino di Piazza dei Quiriti a Roma. Il concerto ha voluto rievocare la riorganizzazione umana e sociale dopo la Prima Guerra Mondiale, in un appello ecumenico “contro le guerre e tutte le miserie, per i poveri e con i poveri, per la salute di tutti”. A tal fine, Monsignor Andrea Lonardo, Direttore del Servizio per la Cultura e l’Università nella Diocesi di Roma, ha rievocato la “tregua di Natale” del 1914: una spontanea e ostinata ricerca di pace. La manifestazione è stata organizzata da C & G Academy, che sostiene una bellissima realtà socio-umanitaria nel Benin, tra i Paesi più poveri d’Africa: la Onlus “Colette’s Children”, nata dall’impegno personale di Carla e Roberto Savio. La Onlus ha fatto costruire un padiglione pediatrico a Tanguiet, all’interno di un ospedale gestito dall’Ordine Fatebenefratelli di S. Giovanni Calbita. Negli anni 70, Carla Savio è stata una delle fondatrici della musicoterapia in Italia. Confrontandosi con le esperienze svolte in altri Paesi, in particolare Francia, Inghilterra e Austria, dove la musicoterapia è riconosciuta da tempo, la Savio ha sperimentato le tecniche musicali in ospedali e cliniche italiane, applicandole su malati disabili, fisici e psichici. Grazie al potere liberatorio della voce, si possono correggere alcuni disturbi mentali che nascondono conflitti non risolti e recuperare le proprie attitudini, identità personale e capacità relazionale. Ricco e intenso il programma del concerto: un Canto Gregoriano, brani di Giovanni Pierluigi da Palestrina, Johann Sebastian Bach, Alessandro Stradella, Pergolesi e Perosi, fino al Te Deum di Verdi e l’Hallelujah di Händel. Giustizia e civiltà, la riforma che divide di Andrea Valesini L’Eco di Bergamo, 25 novembre 2019 La riforma della giustizia penale divide la maggioranza giallorossa. Le parti stanno lavorando a un compromesso che pare ostico. Il convitato di pietra è invece il cambiamento del sistema penitenziario, che sarebbe altrettanto urgente: dal sovraffollamento al sostegno delle pene alternative, al lavoro in carcere al prendere consapevolezza di una tensione crescente nelle celle (prova ne siano le quattro inchieste aperte per aggressioni e violenze su detenuti da parte di agenti di polizia penitenziaria, da tempo sotto organico, in altrettanti istituti di pena). Ma questa seconda riforma richiederebbe coraggio: non è il tempo. Intanto dal 1° gennaio prossimo saranno in vigore i nuovi termini di prescrizione voluti dai 5 Stelle e votati dalla maggioranza precedente, che congelano il decorso del processo dopo il verdetto di primo grado. In Italia, secondo i dati del ministero della Giustizia, il 62% dei processi penali non arriva in aula, ossia cade in prescrizione durante lo svolgimento delle indagini. Altro che primo grado. Negli ultimi dieci anni le prescrizioni si sono ridotte del 40%, dagli oltre 213 mila procedimenti estinti nel 2004 ai circa 132 mila nel 2014. Su cento procedimenti 9,5 si prescrivono: 5,7 nella fase delle indagini preliminari, 3,8 nel corso dei tre gradi di giudizio. Con i nuovi termini un imputato rischia di restare nel processo per anni. Al punto che già ora c’è chi arriva a patteggiare, pur non avendo commesso il reato contestato, pur di lasciarsi alle spalle le aule di giustizia. Il Pd ha messo a punto una proposta - al centro del duro confronto con il Guardasigilli Alfonso Bonafede (5 Stelle) - per un compromesso: predeterminare, fase processuale per fase processuale e con particolare attenzione all’appello, termini certi, il cui mancato rispetto porterebbe alla decadenza dell’azione penale, proprio per non allungare a dismisura i termini dei processi. Nella bozza di riforma del ministro è prevista una durata massima dei processi penali, tarata sulla complessità dei procedimenti, da un massimo di 6 anni a un minimo di 3. Per il giudice che non li rispetta scatta l’illecito disciplinare Ma il ricorso a questa leva è ritenuto insufficiente dai due maggiori azionisti di governo: da una parte è considerato troppo timido, dall’altra non tutti i ritardi possono essere addebitati a negligenze o a trascuratezze dei magistrati, ma anche a imputati che cercano di dilatare i tempi. Nel testo di riforma è poi previsto per la prima volta un intervento sul patteggiamento, elevando a 8 anni il limite della pena che può essere oggetto di accordo. Viene favorito anche il ricorso al rito abbreviato. La discussione si concentra sulla durata dei processi ed è già un obiettivo importante. Ma non affronta temi altrettanto rilevanti come l’eccessivo ricorso alla carcerazione preventiva, sotto la voce ingiusta detenzione, e gli errori giudiziari, ben documentati dall’Associazione italiana vittime di malagiustizia. L’ultimo caso di malagiustizia risale a martedì scorso, quando l’agenzia Ansa ha dato conto dell’avvocato di una banca in attesa da quasi tre anni e mezzo delle motivazioni con le quali i giudici hanno condannato un direttore di istituto a nove anni di reclusione, al termine di un’inchiesta per truffa, sostituzione di persona, costruzione di falsi profili creditizi. La banca è parte civile: i risarcimenti richiesti, se le motivazioni non verranno rese note a breve, potrebbero rimanere lettera morta. Allo stesso condannato, peraltro, è impossibile, in questa situazione, fare appello per cercare di ottenere il ribaltamento della decisione di primo grado. Altra questione che non viene affrontata nel complesso del disegno di legge è la gogna mediatico-giudiziaria, che allestisce processi ed emette sentenze in tv o sui giornali. Ma per fermare questa dolorosa (per i presunti colpevoli) deriva si stanno attrezzando le singole Procure. Dopo Roma e Torino, è la volta di Napoli. Il procuratore capo Giovanni Melillo ha infatti adottato un ordine di servizio per disciplinare criteri e modalità di rilascio di copia dei provvedimenti giudiziari ai media. Secondo il codice di procedura penale “durante il procedimento e dopo la sua definizione, chiunque vi abbia interesse può ottenere il rilascio a proprie spese di copie, estratti o certificati di singoli atti”. Ora questa facoltà viene riconosciuta anche ai giornalisti, in particolare per gli atti compiuti nella fase delle indagini preliminari e non più coperti da segreto. L’obiettivo principale è garantire un accesso paritario e regolamentato ai provvedimenti evitando così che pochi cronisti “selezionati” continuino a ottenere le carte sottobanco, e spesso in maniera parziale, grazie alla benevolenza di inquirenti, investigatori o avvocati. Il documento si premura di stabilire criteri attraverso cui evitare che dagli uffici giudiziari escano notizie prive di rilevanza penale o potenzialmente lesive della riservatezza delle persone coinvolte e dell’andamento delle indagini. Sarà il procuratore stesso a valutare quali provvedimenti possono essere rilasciati. Già nel 2016 la stessa procura aveva imposto alla polizia giudiziaria di non inserire le intercettazioni irrilevanti per le indagini nei verbali delle operazioni. Non è censura, è civiltà. La giustizia migliora, ma non è ancora uguale per tutti di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 25 novembre 2019 Sarebbe facile la tentazione di sostenere che la giustizia si è fermata a Vallo della Lucania. E tuttavia è ancora un’Italia divisa quella che emerge dall’indagine del Sole 24 Ore sulla durata della giustizia civile. Una divisione che corre tra Nord e Sud e tra controversie stesse. Dove la domanda di giustizia ha risposte molto diverse, quanto a tempi, da ufficio giudiziario a ufficio giudiziario. Con conseguenze non proprio banali in termini di accesso alla giurisdizione. Quest’ultimo, infatti, dovrebbe essere a tutti assicurato senza distinzioni. Tanto meno quelle fondate sul luogo di amministrazione della giustizia. Ora, i dati dell’indagine mettono in evidenza che la realtà è assai diversa. Da un tribunale all’altro, la medesima causa ottiene soluzione in tempi assolutamente distanti. Il che introduce, nelle valutazioni dei cittadini sulla volontà o meno di procedere in giudizio, considerazioni inedite. Se infatti i tanto contestati (dall’avvocatura) costi di accesso alla giustizia, cristallizzati nei continui aumenti del contributo unificato, sono almeno uniformi sul territorio, avariabile cronologica e il suo impatto su costi non è affatto omogenea. E allora, purtroppo, rientra quasi nell’ovvietà il tattiche il cittadino di Vallo della Lucania piena di procedere ad avviare una causa si interroghi, come tutti a dire la verità, su quanto durerà la causa e quanto costerà. E poi, magari, deciderà di soprassedere. Conclusione sicuramente aderente al principio di realtà per cui se l’accesso alla giurisdizione è a tutti garantito, la sua amministrazione è invece una risorsa scarsa, che deve essere utilizzata con criterio e forse, parsimonia. Il fatto è che però alla conclusione di desistenza giudiziaria, da leggere forse anche come minima àncora di salvezza del sistema, non arriverà (probabilmente), nella stessa situazione, il cittadino di Ferrara. Qualche domanda allora il legislatore dovrete porsela per assicurare nei fatti uniformità delle condizioni di amministrazione della giustizia. Sarebbe ingeneroso non riconoscere che non siamo all’anno zero e che, nel tempo, passi avanti ne sono stati fatti e, soprattutto, risultati ne sono stati ottenuti. A cambiare, negli anni, è stata innanzitutto la propensione alla conoscenza e poi all’intervento. Così il ministero della Giustizia ha avviato, con fatica all’inizio, poi con maggiore successo, un meritorio lavoro di mappatura delle reali condizioni degli uffici giudiziari. Lavoro di cui va riconosciuto merito ai diversi responsabili del Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria via via succedutisi e che ha permesso, per esempio, di procedere a interventi veramente di sistema come la revisione della geografia giudiziaria oppure l’accertamento delle sedi più esposte al rischio di cause risarcibili da legge Pinto. Lavoro poi non solo accademico, dal momento che, con fatica certo e con percentuali non certo a doppia cifra, lo stock di cause arretrate è andato diminuendo in maniera costante. Come pure è stata limata la durata media. Tra pochi giorni, forse tra poche ore, in consiglio dei ministri approderà un ambizioso (almeno nelle intenzioni) disegno di legge che, modificando il Codice di procedura, punta a un drastico taglio dei tempi, accompagnato da una predeterminazione della durata massima di ogni giudizio (6 anni oppure 4 per le controversie in materia di lavoro e famiglia), con possibile illecito disciplinare quando il magistrato ha sforato i limiti di tempo in più di un quinto dei fascicoli che gli sono assegnati. Della ricetta fa parte anche un piano di 9mila assunzioni nel personale amministrativo, con una quota già avviata, e l’estensione della pianta organica dei magistrati. Infine, a migliorare la situazione potrebbero contribuire anche misure di natura ordinamentale. A venire rafforzate nelle valutazioni di professionalità saranno, per esempio, ancora di più le capacità organizzative, introducendo nuove forme di illecito anche per i vertici degli uffici che, per negligenza, siano responsabili di disfunzioni significative. La strada certo è ancora lunga e, per molti versi, impervia. E, tuttavia, quella distanza tra Ferrara e Vallo della Lucania non è ineluttabile che debba aumentare. Ugo Intini: “I pm fanno politica? Ormai è quasi un bene” di Pietro De Leo Il Tempo, 25 novembre 2019 Parla il portavoce del Psi ai tempi di Craxi: “Coi partiti pietosi di oggi la supplenza giudiziaria non è nemmeno un male”. “Distruggere la prima repubblica fu un peccato mortale”. “Ero seduto al mio tavolo di lavoro, nella redazione de L’Avanti. Scrivevo un articolo. Sentii dei passi dietro di me, era Pietro Nenni. Mi disse: hai deciso il titolo? Gli risposi che l’avrei scritto una volta finito il pezzo. E lui mi riprese: male, il titolo va deciso all’inizio, perché così si hanno le idee chiare”. Più che di aneddoti, Ugo Intini è una miniera di fotografie che aiutano meglio a capire il presente. “Ecco, questo per dire che una volta esisteva una staffetta generazionale. Gli anziani passavano il testimone ai giovani”, spiega colui che fu nella cabina di comando, da portavoce, nel Psi di Bettino Craxi. E oggi? “Ho scritto un libro che si chiama “Lotta di classi”, nel senso di classi di età. Oggi in Italia ci sono troppi vecchi, pochi giovani e male istruiti, non si fanno figli, e non si vogliono gli immigrati. Mi pare non ci sia una gran prospettiva. La dico chiara e impopolare, tanto ormai non devo fare mica campagne elettorali. Bisogna fare più figli, formare meglio i nostri giovani, e fare entrare un po’ più immigrati, ma quelli giusti. Un Paese efficace se li sa scegliere, da noi invece vengono i peggiori. Però sono percorsi da costruire da qui a vent’anni, e non lo fa nessuno, perché la politica oramai guarda solo al momento attuale”. Lei nei ruggenti anni 80 è stato portavoce del Psi, un partito che guardava molto alla tecnologia. Oggi, la tecnologia ha fatto irruzione nella politica… “Sì, e tutto questo ha causato un fenomeno particolare: c’è maggior ventaglio di conoscenza e minore capacità di approfondimento”. E siamo anche ad un linguaggio completamente distorto. “Una terza fase, direi. Nel 900 i leader erano grandi giornalisti. Da Mussolini a Nenni e Pertini, fino allo stesso Beffino Craxi. Poi si passò ai grandi comunicatori Tv che divennero leader politici, pensiamo a Reagan che era il segretario del sindacato attori, e qui da noi Berlusconi. Oggi, i leader sono quelli che sanno utilizzare meglio i social. Ma non ha giovato alla qualità politica”. Situazione anche figlia dello scadimento della forma partito… “I partiti erano il cemento dell’unità nazionale. Un comunista veneto e un comunista siciliano, per fare un esempio, erano prima comunisti, e poi veneto e siciliano. Erano i luoghi in cui il leader si incontrava con il semplice militante, il ricco con il povero. Distrutti i partiti, è stata tolta anche questa spina dorsale”. Qual è il limite della politica di oggi? “Oggi è tutto globale: innanzitutto la finanza, poi lo sport, lo spettacolo, persino il crimine. Tranne la politica”. In che senso? “Nel secolo scorso, un terzo dell’umanità abitava in Europa. Oggi, meno del 7%. Dunque l’ambito minimo in cui contare politicamente è quello europeo. E l’Europa deve riuscire a contare nel mondo”. Craxi, però, in un’intervista espresse molta preoccupazione sul processo di integrazione europea… “Craxi era preoccupato perché vedeva avanzare l’unità europea soltanto sul piano economico e non politico. E questo è un grande limite del processo. Io stesso lo sottolineai alla Camera intervenendo sull’introduzione della moneta unica. Ero favorevole, ma avvisai: mai si era vista una moneta appesa al nulla. Se la moneta è appesa al nulla, prima o poi cade”. L’accelerazione verso il progetto unitario europeo è avvenuta all’inizio degli anni 90, quasi contestualmente alla fine della Prima Repubblica. C’è una qualche correlazione? “La fine della Prima Repubblica ha una correlazione più che altro con la caduta del Muro. Il nostro sistema politico era stato concepito per affrontare la Terza Guerra Mondiale, che era la Guerra Fredda. Finita quella, evidentemente andava cambiato. Bisognava farlo in modo razionale, è stato fatto in modo traumatico”. I partiti, allora, erano solidi. Perché non c’avete pensato voi, a cambiare quel sistema? “Perché non ci si accorge subito dei grandi eventi, non abbiamo tratto subito le conseguenze”. E perché la politica non riuscì ad affermare il primato sulla magistratura? “Craxi in realtà prese di petto la questione, con quel famoso discorso alla Camera sul finanziamento illecito ai partiti. Però lo schema dei partiti del 900 post bellico aveva contro molte forze. Alcune interpretazioni vogliono che anche ambienti di intelligence statunitensi abbiano spinto per il ricambio. D’altronde, i comunisti erano stati sconfitti e dunque non serviva più quel sistema che li aveva contrastati per quasi mezzo secolo. E poi c’era chi voleva comprarsi, dall’esterno, tutti i maggiori asset italiani”. L’onda lunga del 1993, la magistratura che prevale sulla politica, c’è ancora oggi? “La magistratura italiana è come l’esercito turco, a volte si sostituisce al potere politico. Nelle condizioni pietose in cui si trova oggi la politica, direi che in qualche caso non è neanche un male”. Allora, però, fu un dramma. Avevate sottovalutato la portata di Mani Pulite? “Probabilmente sì”. C’è stato un momento preciso in cui avete pensato: qui è finito tutto? “Ho rimosso molto di quel che avvenne, sul piano emotivo, in quel periodo. Però non escludo ci sia stato”. Da lì in poi fu la “diaspora”. Nella seconda metà degli anni 90, dopo che Craxi andò in esilio ad Hammamet, ci fu un momento in cui sembrò che lei potesse prendere sulle spalle l’eredità del Psi. Poi perché non si riuscì a realizzare quel progetto? “Ci provai con tutte le forze, ma i problemi erano due. Da un lato, il bipolarismo aveva spaccato i socialisti. Dall’altro, c’era la criminalizzazione molto forte dei socialisti presso l’opinione pubblica”. Lei come visse il Craxi di Hammamet? “Lui non approvò il mio tentativo di creare una nuova forza socialista. Poi andai in Tunisia e ci chiarimmo”. A gennaio saranno i 20 anni dalla morte. Ricorda quel giorno? “Seppi che era morto dalla radio, e cominciarono ad arrivare telefonate dei giornalisti che mi chiedevano delle interviste. Ricordo che fu molto difficile commentare e parlare”. Quel periodo, oggi, torna anche nella cultura di massa. Ci sono state le fiction sul 1992, 1993 e 1994. E sta arrivando il film di Amelio su Craxi… “Le fiction non le ho viste, perché non voglio fermarmi a riflettere su quanti anni siano passati. Il film di Amelio lo vedrò senz’altro”. Voi socialisti, negli anni d’oro, eravate anche associati ad un certo modo “leggiadro” di intendere la vita. Quanto si favoleggiò sul vostro edonismo? “Sicuramente ci fu anche strumentalizzazione. Ma devo dire che certi ambienti romani non mi piacevano e non li frequentavo. Un mio amico una volta mi disse che la capacità corruttrice di Roma era un dato storico: cadevano in tentazione, da secoli, cardinali di tutto il mondo. Figuriamoci se non ci dovessero cadere i politici! Intorno ai socialisti si era costruita una cattiva fama. Andreotti ad esempio, che si alzava all’alba, diceva: quando vi svegliate, io vi ho già fregato”. L’omaggio dell’Ucpi al Presidente della Corte Costituzionale, Giorgio Lattanzi camerepenali.it, 25 novembre 2019 Il “patriottismo costituzionale” è il testimone che il presidente uscente della consulta offre al paese: la politica e le istituzioni sappiano essere all’altezza di raccoglierlo. i penalisti italiani rendono omaggio al Presidente Giorgio Lattanzi al termine del suo mandato. A due settimane ormai dal termine del suo mandato di Giudice e poi di Presidente della Corte Costituzionale, Giorgio Lattanzi in una splendida intervista al Corriere della Sera ha reso ben chiaro - a chi voglia intenderlo - il valore irrinunciabile ed anzi salvifico del patto sociale fondativo della nostra democrazia costituzionale. I valori costituzionali vanno condivisi ed applicati, non omaggiati come un vuoto atto d’obbligo: questo è il preoccupato monito del Presidente Lattanzi, il quale non a caso si sofferma a lungo sulle reazioni alla recente sentenza sull’ergastolo ostativo, denunciando senza mezzi termini la “falsità” delle conseguenze allarmistiche per la sicurezza sociale da più parti attribuite ad una decisione peraltro ancora non conosciuta nelle sue motivazioni. L’Unione delle Camere Penali ha dal primo momento denunziato l’inaudita gravità di quegli attacchi rozzi e sconsiderati ad una sentenza che ha semplicemente rimesso in linea la legge ordinaria con il principio di finalità rieducativa della pena sancito nell’art. 27 della Costituzione. Dal surreale giudizio di “stravaganza” formulato dal frastornato segretario di un partito al Governo del Paese, alla immediata ricerca di possibili iniziative di contrasto annunziate dal Ministro di Giustizia, fino all’inaudito invito da parte di magistrati della Repubblica, perfino componenti del Consiglio Superiore della Magistratura, perché il legislatore intervenisse a porre rimedio agli effetti preconizzati come catastrofici di quella decisione, lo spettacolo andato in scena a seguito della sentenza sull’ergastolo ostativo ha rappresentato la fotografia desolante ed anzi allarmante dell’analfabetismo costituzionale di una intera classe dirigente del Paese. Il richiamo forte, appassionato e ad un tempo allarmato del Presidente Lattanzi al “patriottismo costituzionale”, cioè alla necessità di operare nella vita pubblica e nei comportamenti privati in nome di una reale, consapevole e non retorica condivisione dei principi fondativi del nostro patto sociale, rappresenta il formidabile testimone che una politica sempre più immiserita e pavida farebbe bene a raccogliere, ove mai ambisse a dare un segno di reazione e di riscatto dalla ammorbante rozzezza dell’imperante populismo giustizialista. I penalisti italiani, che sono sempre stati e continueranno ad essere i “patrioti costituzionali” di cui questo Paese ha vitale necessità, rendono omaggio al magistero di un Presidente della Consulta che, giungendo perfino a portare i giudici della sua Corte a toccare con mano la dura realtà delle carceri italiane, ha saputo dire, non a parole ma per fatti concludenti, che la Costituzione è ancora viva, e rappresenta la guida cui affidare il Paese con fiducia e coraggio. La Giunta dell’Unione delle Camere Penali Italiane “La Commissione Moro ha nascosto la verità” di Gianni Barbacetto Il Fatto Quotidiano, 25 novembre 2019 “Uno scandalo veramente senza fine”. È il caso Moro, secondo Sergio Flamigni, ex senatore e infaticabile ricercatore che da anni indaga sulla P2, sul terrorismo italiano, sul sequestro del presidente della Dc. Il suo ultimo lavoro, “Rapporto sul caso Moro” (Kaos Edizioni), presenta il suo contributo ai lavori della seconda Commissione parlamentare d’inchiesta sul sequestro di Aldo Moro (2014-2017). Ma rende pubblica anche una denuncia secca per come il presidente della Commissione, il Pd Giuseppe Fioroni (preferito al più esperto Miguel Gotor), ha condotto i lavori. “In modo autocratico e disordinato”, “abusando della secretazione”, lavorando “quasi solo attorno all’agguato di via Fani, senza affrontare il nodo del 18 aprile, ossia la scoperta del covo di via Gradoli e il falso comunicato del Lago della Duchessa”. Risultato finale: “Mantenere il delitto Moro un enigma irrisolto”. Eppure alcuni elementi raccolti dalla Commissione sono riusciti a confermare “che la verità di Stato sul delitto Moro - confezionata dalla Dc di Francesco Cossiga insieme agli ex Br Valerio Morucci e Mario Moretti e avallata dalla magistratura romana - è una colossale menzogna”. Flamigni segnala “tre dati di fatto che sbugiardano quella versione dall’inizio (strage di via Fani) alla fine (uccisione di Moro)”. Il primo dato accertato è che subito dopo la strage di via Fani, la mattina del 16 marzo 1978, i terroristi delle Brigate rosse si sono rifugiati con l’ostaggio in uno stabile di via Massimi 91 di proprietà dello Ior (la banca del Vaticano), su cui non è mai stato fatto alcun approfondimento. Non ci sono stati - come raccontato “dalla menzognera versione di Stato” - trasbordi del rapito in piazza Madonna del Cenacolo; non c’è stata una tappa successiva nel sotterraneo del grande magazzino Standa dei Colli portuensi; e non c’è stato l’approdo finale nel covo-prigione di via Montalcini. Il secondo dato accertato dalla Commissione è che “sono una sequela di menzogne” anche il luogo e le modalità dell’uccisione del presidente della Dc raccontate dai brigatisti. Secondo la loro versione, Aldo Moro sarebbe stato ammazzato nel box auto di via Montalcini, nel baule della Renault rossa, con 11 colpi sparati alle 6-7 del mattino. Con successivo trasporto del cadavere per alcuni chilometri, da via Montalcini fino invia Caetani, al centro di Roma. Falso, secondo Flamigni: “Le vecchie e le nuove perizie hanno definito improbabile il luogo, ben diverse le modalità, e falso l’orario del delitto indicato dalla versione brigatista avallata dalla magistratura romana”. Il terzo dato di fatto è che la “verità ufficiale” sulla prigionia e sull’uccisione di Moro in via Montalcini (quella del “memoriale Morucci”) è stata confezionata in carcere dal brigatista dissociato Valerio Morucci con la regia del Sisde, il servizio segreto del Viminale, con “la fattiva collaborazione della Dc cossighiana”. “Il sequestro del presidente della Dc è rimasto un delitto senza verità”, scrive Flamigni. “Infatti a distanza di più di quarant’anni non c’è alcuna certezza sul luogo (o i luoghi) dove Moro fu tenuto segregato per quasi due mesi, né si sa chi, come e perché lo abbia ucciso”. Secondo Flamigni, “è certo che alla strage di via Fani partecipò un tiratore scelto”. Ne parla anche uno dei testimoni oculari, il benzinaio Pietro Lalli, pratico di armi: raccontò di “aver visto sparare un esperto e conoscitore dell’arma in quanto con la destra la impugnava, e [teneva] la sinistra guantata sopra la canna in modo che questa non si impennasse”. Per scoprire gli eventuali professionisti in via Fani, “la Commissione avrebbe dovuto occuparsi dell’aereo libico, diretto a Ginevra, che nel tardo pomeriggio del 15 marzo 1978 (vigilia della strage di via Fani) atterrò invece a Fiumicino con quattro persone a bordo, e che ripartì l’indomani mattina alle ore 10,05 (un’ora dopo la strage) alla volta di Parigi. Un volo fortemente sospetto di avere trasportato uno o più killer di una particolare struttura di addestramento e supporto per organizzazioni terroristiche formata a Tripoli (Libia) dagli americani Edwin P. Wilson e Frank Terpil, entrambi ex agenti della Cia”. Flamigni segnala come “episodica eccezione” al “quarantennale disastro giudiziario relativo al delitto Moro” il lavoro del procuratore generale di Roma Luigi Ciampoli, che avocò un’indagine della Procura guidata da Giuseppe Pignatone. La requisitoria di Ciampoli dell’11 novembre 2014 “ha confutato la versione di Stato del duo Morucci-Moretti sulla dinamica dell’agguato e della strage. E non ha mancato di menzionare la `protratta inerzia’ del pubblico ministero romano che lo aveva indotto a esercitare il potere di avocazione”. La “protratta inerzia” ha riguardato anche la figura e il ruolo dell’americano Steve Pieczenik (insediato al Viminale per conto del Dipartimento di Stato Usa durante il sequestro Moro). Venne mandato a Roma da Washington - secondo Ciampoli - per quella che era una vera e propria operazione di “guerra psicologica” con tre obiettivi: garantire l’uccisione dell’ostaggio; recuperare le registrazioni degli interrogatori e degli scritti di Moro; ottenere il silenzio dei terroristi. Ciampoli ha riferito anche di aver indagato sulla presenza in via Fani di due uomini dei servizi segreti, a bordo di una moto Honda, al comando del colonnello Camillo Guglielmi. E si è detto convinto che “in via Fani vi fosse la presenza anche di servizi segreti di altri Paesi interessati, se non a determinare un processo di destabilizzazione dello Stato italiano, quantomeno a creare del caos”. È stata secretata l’audizione in seduta segreta del 29 luglio 2015 di Luca Palamara, sostituto procuratore a Roma e membro del Consiglio superiore della magistratura: riguardava l’interrogatorio di Pieczenik svolto per rogatoria da Palamara il 27 maggio 2014. “Da allora”, commenta Flamigni, “la posizione giudiziaria di Steve Pieczenik si è inabissata, col suo carico di segretezza, nel porto delle nebbie”. “Il caso Franceschi deve essere riaperto”. L’italiano morto in un carcere francese di Martina Del Chicca La Nazione, 25 novembre 2019 L’interrogazione del senatore del M5s Ferrara al ministro Di Maio: “Dove sono finiti gli organi del giovane carpentiere morto in cella?”. Le autorità francesi sostengono che Daniele Franceschi sia morto stroncato da un infarto. Era il 25 agosto 2010. A ritrovarlo “a terra con il viso verso il suolo, tutto rosso”, fu il compagno di cella, nel carcere francese di Grasse. Si chiama Abdel il giovane franco-algerino che due giorni dopo la tragedia scrisse una lettera a mamma Cira. “Daniele - raccontò Abdel - negli ultimi tre giorni stava molto male e nessuno era venuto a visitarlo, nonostante le continue richieste di aiuto, fatta eccezione per una volta in cui fu portato in infermeria dove gli dettero semplicemente delle pastiglie”. Per la morte di Daniele - deceduto in attesa di un processo, per il presunto utilizzo di una carta di credito falsa in un casinò di Cannes - è stato condannato a un anno per omicidio involontario il medico del carcere Jean Paule Estrade, ritenuto colpevole di non aver curato il giovane carpentiere. Di cui si è perso il cuore, che poteva raccontare qualcosa; si sono persi i polmoni, i reni, la milza. Nessun organo di Daniele Franceschi, dopo l’autopsia all’ospedale di Pasteur, è stato restituito alla famiglia, che per questo non ha potuto avere una perizia di parte. Una contro-verifica, con uno specialista di fiducia. “Il caso Franceschi deve essere riaperto”, scrive a distanza di nove anni in un’interrogazione parlamentare il senatore Gianluca Ferrara, del Movimento Cinque Stelle, al ministro degli esteri Luigi Di Maio. “Sulla morte in carcere del giovane carpentiere - prosegue Ferrara - la famiglia non ha mai avuto risposte chiare dalle autorità francesi”. Alla famiglia non sono stati mai restituiti gli organi, nonostante le ripetute richieste ufficiali dell’avvocato Aldo Lasagna. E non sono mai arrivati spiegazioni ufficiali. Poi, all’inizio dell’anno mamma Cira ha ricevuto un biglietto, che ha aperto un inquietante pista. Una lettera anonima che lascia intendere che gli organi di Daniele, oltre 8 anni fa, potrebbero essere stati espiantati e trapiantati in altri corpi. “Che fine hanno fatto gli organi?” chiede ancora Ferrara. “Una domanda che rimane senza risposta, e nel rapporto fra due stati che fanno parte dell’Unione Europea questa è una situazione inaccettabile”. “La lettera anonima - prosegue il senatore - introduce nuovi elementi al caso che andrebbe riaperto. A distanza di molti anni è necessario chiudere questa vicenda assicurando giustizia e risposte certe ai familiari della vittima”. La battaglia di mamma Cira Antignano ha trovato una nuova voce, sperando che la richiesta e l’interrogazione non rimangano inascoltate. Un’altra volta. La mamma di Penati: “Filippo, mio figlio, morto senza niente e tradito dal partito” di Candida Morvillo Corriere della Sera, 25 novembre 2019 Intervista a Elena, 89 anni, madre dell’ex presidente della Provincia di Milano morto il 9 ottobre: “Andrò con i miei nipoti alla cerimonia dell’Ambrogino d’oro alla memoria. Per pagare gli avvocati, ho venduto la casetta comprata col Pep, mio marito”. Questa è la storia di una madre che sopravvive al figlio, lei 89 anni e malata da tempo, lui 67, che se ne va il 9 ottobre scorso, portato via da un cancro che lo colpisce al culmine di anni di processi finiti in niente. Filippo Penati, già sindaco di Sesto San Giovanni, poi presidente della Provincia di Milano, braccio destro di Pier Luigi Bersani, era stato indagato per corruzione, concussione e altri reati, in parte assolti, in parte prescritti. Questa è anche la storia di un mondo di lotte antifasciste e operaie tramandate di generazione in generazione, e di speranze che non sopravvivono né alla madre né al figlio, se non cristallizzate nell’autobiografia di una famiglia che lui si siede a scrivere negli ultimi mesi. “L’uomo che faceva le scarpe alle mosche” esce postumo per La nave di Teseo giovedì. Elena Penati ha appena letto le bozze. Sta seduta con le spalle curve e lo sguardo indomito nel salottino del suo bilocale a Sesto. Sulla parete, decine di foto dell’unico figlio, col grembiule alle elementari, con la fascia tricolore… Sapeva che il suo Filippo lavorava a un libro, non che avrebbe scritto la storia sua e di suo marito, il Pep, e insieme la storia di una cittadina e di un secolo. S’inizia con lo sciopero generale del 1920 dove s’incontrano i suoi nonni paterni, Teresa e Pippo, che morirà in un campo di concentramento, si prosegue coi nonni materni, Turiddu e Melina, emigrati dalla Sicilia nel 1946, primi “terroni” in tutto il circondario, si atterra nel dolore degli ultimi giorni. Elena fissa il piccolo televisore spento. Dice: “Ormai non guardo più i telegiornali, non m’interesso più. Da quando hanno indagato mio figlio, ho perso la fiducia”. In cosa l’ha persa? Nella giustizia? “Nel partito. Il partito gli ha chiesto subito indietro la tessera e si è costituito parte civile contro di lui”. Penati con il padre Giuseppe Penati con il padre Giuseppe Lei aveva la tessera del Pd? “No, ma era qualcosa in cui credevo. Mio marito ha avuto il padre ucciso a Mauthausen perché aveva scioperato alla Breda controllata dai nazisti. Vennero a prenderlo, gli dissero: Penati è venuta la tua ora. Filippo stesso ricordava sempre con orgoglio che il nonno s’era rifiutato di nascondersi e s’era fatto trovare a casa, pronto e vestito di tutto punto”. Suo figlio, nel luglio 2018, annunciando di avere un tumore, disse che era conseguenza delle vicende giudiziarie. “Così è. Aveva fiducia nella giustizia, ma la politica l’aveva addolorato e si arrabbiava perché la verità non veniva fuori. Cercava di resistere. Diceva “sono forte”. Anch’io lo dico, ma ora che lui non c’è più, la mia testa funziona e il corpo sento che mi abbandona di momento in momento”. Il libro si apre con suo figlio che l’accompagna dal medico. “Sono stata ricoverata due volte, ma finché lui c’era, tenevo duro. Sono stata io a capire che stava male: l’ho visto a Telenova e gli ho sentito un fischio nella voce. Gli ho prenotato una visita. Dopo la diagnosi, passava a trovarmi e faceva la battuta: mamma, facciamo come quelli della Lega… Teniamo duro”. Che pensò quando lo seppe indagato? “Fu uno shock, ma ero sicura al cento per cento della sua innocenza. È stato un bravo bimbo, un bravo giovanotto, un bravo sindaco… È morto senza niente. Stava in affitto in 50 metri qui a Sesto. Per pagare gli avvocati, ho venduto la casetta comprata col Pep a Rapallo e i soldi non sono bastati”. Il 7 dicembre avrà l’Ambrogino d’oro alla memoria. “Caspita se ci andrò. E coi miei due nipoti, che sono i suoi figli, due gioielli”. Com’è stato leggere il libro? “Ho pianto. Di più quando lui racconta che mi vede nella sala d’aspetto del dottore, minuta, curva, ma in ordine e coi capelli fatti. Ho pianto quando mi chiama “la terrona del ‘30”“. La prima “terrona” di Sesto. “Al Pep, per sicurezza, dissi che ero toscana. Poi, lo portai a casa e mi fece: però tuo papà l’è terùn. E io: lui sì, io no. Mio padre, prima di conoscerlo, invece, aveva preso informazioni. Gli dissero: è comunista. E lui: allora, è un bravo ragazzo”. Quanto era comunista il Pep? “Quando la Garelli andò in crisi, lo chiamarono alla Ercole Marelli. Passò tutte le selezioni, poi fu convocato da un dirigente che gli chiese che quotidiano leggesse e lui: l’Unità. Poi disse “scusi ingegnere, perché me lo chiede? Abbiamo lottato vent’anni per la libertà e ognuno legge il giornale che vuole”. Non lo presero”. Lei non se ne rammaricò? “No: era nel giusto. Lo era anche quando, chiamato alle armi dalla Repubblica di Salò, disertò, per non andare con chi gli aveva ucciso il padre. Stette mesi nascosto nella paglia e perciò soffrì di fegato tutta la vita. Ci sposammo il 28 ottobre 1950, ma abbiamo sempre fatto l’anniversario il 29, per non festeggiare il giorno della marcia su Roma. E il 25 aprile, a casa nostra, era come Natale: col pranzo e tutto”. Sfumata la Marelli, suo marito che fece? “Io vendetti la casa ereditata al paese e aprimmo una latteria. Poi dovemmo chiuderla e aprimmo una cartoleria. Filippo aveva 16 o 17 anni e, d’estate, vendeva i nostri prodotti ai negozi: s’era fatto clienti che gli compravano di tutto. Era bravo. Gli abbiamo insegnato sincerità, lavoro e onestà”. Chi gli ha raccontato le cose scritte nel libro? “Il papà, finché c’è stato. È mancato nel 1999, a 73 anni. Aveva nei polmoni la polvere dell’acciaieria, ma aveva amato tanto la fabbrica. Era un operaio specializzato. Si vantava dicendo che, col tornio, faceva pure le scarpe alle mosche. Più di recente, Filippo mi chiese di raccontargli bene: il giorno della Liberazione in cui fui presa ostaggio col mitra da un soldato canadese e il giorno del 1945 in cui il Pep venne inseguito e sparato da due fascisti che, invece, colpirono e uccisero un vecchio che passava di lì; mio padre che aveva perso i denti e io, ragazzina, che a pranzo, gli portavo la zuppa con la bici; i vestiti che cucivo da sarta già a 13 anni e poi “la curt del Cairo”, dove il Pep era nato e dove anch’io andai a vivere. La chiamavano così perché era zeppa di gente. Era favolosa per l’umanità e la solidarietà che c’era”. Com’è adesso Sesto San Giovanni? “Non ci sono più le fabbriche, ma la gente è ancora bella e sana. Il mio vicino, Mosè, egiziano, ha la moglie velata, ma ha quattro figli molto educati. Quando Filippo stava in ospedale, mi ci accompagnava ogni volta che volevo. Non m’aspettavo che Filippo morisse, non me l’aspettavo neanche quando a tutti diceva: io muoio tranquillo”. La Corte dei Conti chiede 167mila euro a Petrilli, ex presidente dell’Aret Il Centro, 25 novembre 2019 La Corte dei Conti bussa a soldi e chiede a Giulio Petrilli, ex presidente dell’Aret, di pagare 167mila euro (162mila se la cifra verrà pagata entro i termini stabiliti). Una cartella esattoriale dal titolo “Recupero spese dello Stato sentenza Corte dei Conti” è stata recapitata a Petrilli, che ha scritto una nota per raccontare la sua vicenda personale ed esprimere, così, tutto il suo disappunto”. “Io”, scrive Petrilli, “chiedo il risarcimento per sei anni di ingiusta detenzione. Acclarata da sentenze definitive. Accusa: banda armata. Poi assolto, tredici carceri speciali in sei anni. Attendevo una risposta in tal senso da parte della presidenza del Consiglio dei ministri, dopo l’ultima delle mie richieste. Speravo e spero. Ma invece oggi mi viene recapitata una lettera dall’Agenzia delle Entrate nella quale mi si comunica che devo pagare 167.000 euro in quanto da presidente Aret avevo stabilizzato cinque dipendenti e ridotto fortemente l’indennità del direttore da 110.000 mila euro annui a 39.000. Sono senza parole. La Costituzione”, conclude amaramente Petrilli, “che stabilisce il diritto al lavoro e l’inviolabilità della libertà personale, nel mio caso sei anni di carcere ingiusto, non vale nulla”. Il curatore fallimentare può chiedere revoca del sequestro e impugnare gli atti cautelari di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 25 novembre 2019 Cassazione - Sezioni Unite penali - Sentenza 13 novembre 2019 n. 45936. Il curatore fallimentare è legittimato a chiedere la revoca del sequestro preventivo a fini di confisca e a impugnare i provvedimenti in materia cautelare reale. Lo hanno detto le sezioni Unite penali con la sentenza 13 novembre 2019 n. 45936. L’appello verso le ordinanze di sequestro preventivo - A supporto la Corte valorizza il disposto dell’articolo 322-bis del codice di procedura penale, che, nel disciplinare l’appello avverso le ordinanze in materia di sequestro preventivo, indica quali soggetti legittimati a proporre l’impugnazione, oltre al pubblico ministero, all’imputato e al difensore di questi, anche “la persona alla quale le cose sono state sequestrate e quella che avrebbe diritto alla loro restituzione” (disposizione, questa, peraltro già dettata nel precedente articolo 322, in materia di riesame del decreto di sequestro preventivo, e puntualmente riportata nel successivo articolo 325, a proposito del ricorso per cassazione avverso le ordinanze che decidono nelle procedure di riesame e di appello). Questa formulazione normativa, secondo le sezioni Unite, rende evidente il riferimento del legislatore alla persona alla quale le cose sono state sequestrate e a quella che avrebbe diritto alla loro restituzione, come soggetti diversi e non coincidenti, derivandone la legittimazione in capo anche a quest’ultima, da identificare nella persona che, anche senza vantare un diritto reale sul bene, sia tuttavia titolare di una situazione di fatto tutelata dall’ordinamento tale da dare luogo a una posizione giuridica autonoma del soggetto rispetto al bene: la persona avente diritto alla restituzione della cosa sequestrata, legittimata all’impugnazione dei provvedimenti dispositivi o confermativi del sequestro, è dunque identificabile in ragione della “disponibilità autonoma e giuridicamente tutelata del bene”. E una disponibilità rispondente a queste caratteristiche, secondo il giudice di legittimità, è senza dubbio esistente in capo al curatore rispetto ai beni del fallimento, giacché, come disposto dall’articolo 42, comma 1, della legge Fallimentare “la sentenza che dichiara il fallimento priva dalla sua data il fallito dell’amministrazione e della disponibilità dei suoi beni esistenti alla data di dichiarazione di fallimento”, trasferendosi tale disponibilità, da quel momento, dal fallito proprio agli organi della procedura fallimentare (tra essi, il curatore fallimentare, incaricato dell’amministrazione della massa attiva nella prospettiva della conservazione della stessa ai fini della tutela dell’interesse dei creditori). Con la propria decisione le sezioni Unite procedono così a integrale revisione di quanto in precedenza sostenuto dalla sentenza delle stesse sezioni Unite, 25 settembre 2014, Uniland, che si era espressa invece nel senso della mancanza di legittimazione del curatore fallimentare a proporre impugnazione avverso il provvedimento di sequestro preventivo funzionale alla confisca del beni della società fallita; superando, nel contempo, anche quell’orientamento che aveva già limitato il principio della sentenza Uniland alla sola ipotesi in cui il sequestro preventivo fosse stato adottato in epoca anteriore alla dichiarazione di fallimento (cfr. sezione III, 12 luglio 2106, Amista). Per il titolare di posizione di garanzia non scatta addebito di responsabilità colposa di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 25 novembre 2019 Cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 28 ottobre 2019 n. 43652. La titolarità di una posizione di garanzia non comporta, in presenza del verificarsi dell’evento, un automatico addebito di responsabilità colposa a carico del garante imponendo il principio di colpevolezza la verifica, in concreto, sia della sussistenza della violazione, da parte del garante, di una regola cautelare (generica o specifica), sia della prevedibilità ed evitabilità dell’evento dannoso che la regola cautelare violata mirava a prevenire (cosiddetta “concretizzazione del rischio”), sia della sussistenza del nesso causale tra la condotta ascrivibile al garante e l’evento dannoso. Lo precisa la Cassazione con la sentenza 28 ottobre 2019 n. 43652. La responsabilità colposa - In quest’ottica va inoltre sottolineato che la responsabilità colposa non si estende a tutti gli eventi che comunque siano derivati, ma è limitata ai risultati che la norma stessa mira a prevenire. Inoltre il profilo causale della colpa più strettamente aderente al rimprovero personale implica che l’indicato nesso eziologico non si configura quando una condotta appropriata (il cosiddetto “comportamento alternativo lecito”) non avrebbe comunque evitato l’evento: infatti, in tema di reati colposi, l’addebito soggettivo dell’evento richiede non solo che l’evento dannoso sia prevedibile, ma altresì che lo stesso sia evitabile dall’agente con l’adozione delle regole cautelari idonee, non potendo invece essere ascritto per colpa un evento che, con una valutazione ex ante, non avrebbe potuto comunque essere evitato. Il principio applicato dalla Corte - La Corte ha fatto applicazione del principio ormai consolidato in tema di reato colposo, secondo cui l’applicazione del principio di colpevolezza esclude qualsivoglia automatico addebito di responsabilità, a carico di chi pure ricopre la posizione di garanzia, imponendo la verifica in concreto della violazione da parte di tale soggetto della regola cautelare (generica o specifica) e della prevedibilità ed evitabilità dell’evento dannoso che la regola cautelare mirava a prevenire (la cosiddetta “concretizzazione” del rischio). Infatti, l’individualizzazione della responsabilità penale impone di verificare non soltanto se la condotta abbia concorso a determinare l’evento (ciò che si risolve nell’accertamento della sussistenza del “nesso causale”) e se la condotta sia stata caratterizzata dalla violazione di una regola cautelare, generica o specifica (ciò che si risolve nell’accertamento dell’elemento soggettivo della “colpa”), ma anche se l’autore della stessa (in ipotesi, il titolare della posizione di garanzia in ordine al rispetto della normativa precauzionale che si ipotizzava produttiva di evento lesivo mortale) potesse “prevedere” ex ante quello “specifico” sviluppo causale e attivarsi per evitarlo. In quest’ottica ricostruttiva, occorre poi ancora chiedersi se una condotta appropriata (il cosiddetto “comportamento alternativo lecito”) avrebbe o no “evitato” l’evento: ciò in quanto si può formalizzare l’addebito solo quando il comportamento diligente avrebbe certamente evitato l’esito antigiuridico o anche solo avrebbe determinato apprezzabili, significative probabilità di scongiurare il danno (tra le tante, sezione IV, 6 novembre 2009, Morelli; nonché sezione IV, 15 novembre 2018, Castellano e altri): infatti, non sarebbe razionale pretendere, fondando poi su di esso un giudizio di rimproverabilità, un comportamento che sarebbe comunque inidoneo a evitare il risultato antigiuridico (cfr. sezioni Unite, 24 aprile 2014, Espenhahn). In un tale ambito ricostruttivo, in definitiva, la violazione della regola cautelare e la sussistenza del nesso eziologico tra la condotta e l’evento non sono sufficienti per fondare l’affermazione di responsabilità, giacché occorre anche chiedersi, necessariamente, se l’evento derivatone rappresenti o no la “concretizzazione” del rischio che la regola stessa mirava a prevenire e se tale evento fosse evitabile. La doppia ed autonoma ingiustizia nel reato di abuso di ufficio. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 25 novembre 2019 Reati contro la P.A. - Abuso di ufficio - Doppia ingiustizia - Della condotta e del vantaggio patrimoniale conseguito. Il reato di abuso d’ufficio di cui all’art. 323 c.p. ha natura pluri-offensiva, in quanto oltre a ledere l’interesse al buon andamento ed alla trasparenza della Pubblica amministrazione, pregiudica il concorrente interesse del privato a non essere turbato nei propri diritti costituzionalmente garantiti dalla condotta illegittima ed ingiusta posta in essere dal pubblico ufficiale. In tale evenienza il privato danneggiato può proporre opposizione alla richiesta di archiviazione. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 8 novembre 2019 n. 45526. Pubblica amministrazione - Reati contro la P.A. - Abuso d’ufficio - Elementi costitutivi - C.d. doppia e autonoma ingiustizia. Il delitto di abuso d’ufficio è integrato dalla doppia e autonoma ingiustizia, sia della condotta - che deve essere connotata da violazione di norme di legge o di regolamento - che dell’evento di vantaggio patrimoniale conseguito, che deve risultare non spettante in base al diritto oggettivo. • Corte di cassazione, sezione III, sentenza 30 agosto 2019 n. 36686. Reati contro la pubblica amministrazione - Abuso d’ufficio - Doppia ingiustizia - Vantaggio patrimoniale. Il reato di abuso d’ufficio è caratterizzato dalla doppia e autonoma ingiustizia, sia della condotta, che deve essere connotata da violazione di norme di legge o di regolamento, che dell’evento, che deve essere costituito da un vantaggio patrimoniale non spettante in base al diritto oggettivo, con la conseguente necessità di una duplice distinta valutazione in proposito, non potendosi fare discendere l’ingiustizia del vantaggio dalla illegittimità del mezzo utilizzato e, quindi, dall’accertata illegittimità della condotta. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 30 maggio 2019 n. 24186. Reati contro la pubblica amministrazione - Delitti - Dei pubblici ufficiali - In genere - Abuso d’ufficio - Violazione di legge - Sviamento di potere - Configurabilità - Fattispecie. In tema di abuso d’ufficio, la violazione di legge cui fa riferimento l’art. 323 cod. pen. riguarda non solo la condotta del pubblico ufficiale in contrasto con le norme che regolano l’esercizio del potere, ma anche quelle che siano dirette alla realizzazione di un interesse collidente con quello per quale il potere è conferito, ponendo in essere un vero e proprio sviamento della funzione. (Fattispecie in cui il sindaco di un Comune aveva disposto la revoca dell’incarico dirigenziale ricoperto da un dipendente candidatosi in una lista contrapposta, apparentemente giustificato tale scelta con esigenze di contenimento della spesa senza che, tuttavia, fosse stata previamente deliberata una diversa organizzazione degli uffici). • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 4 maggio 2018 n. 19519. Indagini preliminari - Chiusura delle indagini - Archiviazione - Richiesta del pubblico ministero - Opposizione della persona offesa - Abuso di ufficio finalizzato ad arrecare ad altri un danno ingiusto - Reato pluri-offensivo - Configurabilità - Privato danneggiato - Qualità di persona offesa dal reato - Sussistenza - Opposizione alla richiesta di archiviazione - Ammissibilità - Fondamento. Il reato di abuso di ufficio finalizzato ad arrecare ad altri un danno ingiusto ha natura pluri-offensiva, in quanto è idoneo a ledere, oltre all’interesse pubblico al buon andamento e alla trasparenza della P.A., il concorrente interesse del privato a non essere turbato nei suoi diritti dal comportamento illegittimo e ingiusto del pubblico ufficiale. Ne consegue che il privato danneggiato riveste la qualità di persona offesa dal reato ed è legittimato a proporre opposizione avverso la richiesta di archiviazione del P.M. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 11 febbraio 2016 n. 5746. Puglia. Emergenza psichiatrica nelle carceri, Damascelli (Fi): “La Regione rispetti la legge” bitontolive.it, 25 novembre 2019 Il Consigliere regionale di Forza Italia ha depositato un’interrogazione diretta al presidente Emiliano. “Una situazione esplosiva, che compromette la sicurezza degli agenti di polizia penitenziaria e la stessa funzione rieducativa della pena: la Regione deve immediatamente intervenire, in quanto ente competente, per far fronte all’emergenza psichiatrica nelle strutture detentive presenti sul nostro territorio ed è per questo che ho depositato un’interrogazione consiliare diretta al presidente-assessore alla Sanità, Emiliano. Nelle carceri pugliesi, secondo gli ultimi dati ufficiali, il tasso di sovraffollamento è del 65,3% e siamo tristemente la prima regione d’Italia in questo. Nel frattempo, però, si registra una drammatica insufficienza dell’organico della Polizia penitenziaria, che è sceso da circa 2.400 unità nel 2001 a meno di 1.900. E, se da un lato il numero di detenuti è alle stelle e quello degli agenti continua, invece, a diminuire; dall’altro c’è una vera emergenza: sono sempre più frequenti gli episodi di scompenso psichico nel corso dell’espiazione della pena. Detenuti con gravi problemi di salute mentale ricevono un’assistenza specialistica carente e per giunta sono allocati in sezioni comuni, a stretto contatto con la restante parte della popolazione carceraria. Il risultato è immaginabile: esiste un pericolo concreto per l’incolumità degli agenti di polizia penitenziaria, sotto organico e spesso in difficoltà anche a garantire la sicurezza ordinaria. Negli ultimi anni si sono registrate numerose aggressioni in danno del personale di sorveglianza e sanitario. L’ultima qualche giorno fa a Bari, e a farne le spese sono stati due agenti. Dal 2008 la nuova normativa nazionale ha affidato alle Regioni e alle Asl la competenza in materia di sanità penitenziaria, eppure in Puglia non è stato dato seguito alle nuove prescrizioni in quasi tutte le strutture carcerarie. In particolare, le novità viaggiano su due binari: la realizzazione di reparti psichiatrici, la cui gestione in capo al personale medico e infermieristico in tutte le strutture circondariali, e la sistemazione dei pazienti con disturbi in aree dedicate esclusivamente a loro. Ciò per tutelare gli agenti di polizia e tutti coloro che operano nelle strutture, ma anche gli stessi pazienti problematici che spesso si abbandonano ad episodi di autolesionismo o addirittura a tentativi di suicidio, perché non adeguatamente assistiti”. Venezia. “Bambino di 6 anni tolto alla mamma”, i volontari lasciano carcere della Giudecca di Angela Pederiva Il Gazzettino, 25 novembre 2019 Da oggi l’Associazione “La Gabbianella” interrompe l’attività svolta per tre lustri a favore dei figli delle detenute. Come il romanzo di Luis Sepúlveda, per vent’anni ha raccontato una storia di amore e di coraggio, dimostrando che si può imparare (e insegnare) a volare al di là dei legami di sangue. Ma oggi La gabbianella lascerà il carcere femminile della Giudecca a Venezia, che insieme a Milano è una delle due città in Italia a ospitare un Istituto a custodia attenuata per madri (Icam) ed è oltretutto l’unico dove i figli delle detenute restano non fino ai 3 bensì ai 6 anni di vita. L’associazione, impegnata dal 1999 nel settore delle adozioni e dell’affidamento, da tre lustri a questa parte si è occupata anche di quei piccolini, accompagnandoli alla scuola materna e alle visite specialistiche, portandoli a pranzo alla domenica e in spiaggia d’estate: “Ma adesso non ce la sentiamo più di continuare”, dice a malincuore la presidente Carla Forcolin. Gli accordi - All’origine dello scoramento viene indicata una mancanza di programmazione, culminata a fine ottobre in un episodio doloroso per i volontari. “Da ben sette anni spiega la signora Forcolin abbiamo firmato degli accordi importanti, di carattere interistituzionale, che hanno avuto alterne vicende, ma non sono stati mai applicati e questo ha logorato il rapporto, che una volta era davvero buono, con gli operatori. Il protocollo d’intesa prevedeva molte cose belle, tra cui la costituzione di un gruppo di lavoro formato da cinque soggetti, con noi tra questi, che facessero dei progetti sui bambini, assieme alle loro madri. Ma tutto ciò non si è fatto mai in termini concreti, e lo dimostra, purtroppo, il fatto che, quando uno di questi bimbi ha compiuto i fatidici 6 anni, età in cui si deve lasciare il carcere, è stato posto in affidamento presso una famiglia sconosciuta a lui e alla madre, senza alcuna preparazione. Il bambino è stato portato presso la nuova casa senza nemmeno dare alla madre il tempo di fargli la valigia. Noi non abbiamo potuto accompagnarlo, anche se avremmo potuto mitigare il passaggio da una situazione all’altra”. Perché si è arrivati a tanto? “Per una serie di circostanze complicate risponde la presidente ma anche perché non si è voluto ragionare a sufficienza con la famiglia del bambino circa tutti gli scenari possibili al compimento dei suoi 6 anni. Io volevo tanto ragionare con sua madre, assieme agli assistenti sociali ed educatori, ma non si è voluto e non mi sono mai state date vere spiegazioni in merito a questo divieto”. Ecco dunque il problema: il mancato dialogo con le istituzioni. “Dopo 15 anni siamo diventati degli intrusi confida Forcolin e più abbiamo chiesto l’applicazione degli accordi, più siamo diventati dei rompiscatole invece che dei collaboratori com’era un tempo”. La petizione - In questi due decenni, La gabbianella si è occupata di circa 130 bimbi, di cui 5 in affido dal carcere. “Tutto è cominciato dal mio stesso affidamento di due gemellini che uscivano ricorda la presidente e che ora sono diventati maggiorenni”. Ma che sarà ora dei figlioletti delle detenute? “Dovrebbe occuparsene il Comune. Purtroppo temo che nessuno riuscirà a dare cose come la spiaggia per tre giorni interi a settimana ai bambini, senza chiedere un soldo di finanziamento”. Ma l’impegno dell’associazione non finirà qui. “Abbiamo un mucchio di progetti annuncia Forcolin e il primo tra questi è sensibilizzare il Parlamento affinché sia rivista la legge che ha di fatto imprigionato i bambini in modo indiretto fino a 6 anni, invece che fino a 3, togliendo loro tutta la prima infanzia”. Sarà così lanciata su Change.org una petizione per chiedere una riforma della norma del 2011 che ha disciplinato gli Icam ma ha anche allungato da 3 a 6 anni l’età di reclusione dei piccini. Crotone. Il Tavolo per il reinserimento socio-lavorativo dei detenuti è fermo al palo di Federico Ferraro* calabria7.it, 25 novembre 2019 Ancora nessun riscontro positivo dalle realtà imprenditoriali locali: un’occasione persa”. All’inizio del mese di luglio è stato promosso dall’Ufficio del Garante comunale di Crotone dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà personale, in sinergia con la Direzione del Carcere, un tavolo istituzionale volto al reinserimento sociale e lavorativo per i detenuti. L’obiettivo, è stato quello di consentire un effettivo impiego in attività lavorativa delle persone recluse, sulla base della disponibilità da parte della Direzione della Casa circondariale di Crotone a concedere, in comodato d’uso gratuito, le serre ed i laboratori a quella realtà imprenditoriale o cooperativa sociale, disposta ad assumere anche a tempo determinato, alcune unità di detenuti. La legge Smuraglia ha previsto in proposito anche degli incentivi di carattere fiscale a beneficio dell’impresa che assume. Obiettivo posto all’inizio della “missione” è stato quella di coinvolgere le imprenditorialità del territorio affinché possano favorire il reinserimento nel contesto sociale dei detenuti attualmente presso la Casa circondariale di Crotone. Il tutto volto ad evitare che chi ha sbagliato nei confronti della giustizia, torni a delinquere a motivo della mancanza di lavoro e di sostentamento economico. Presso la struttura circondariale esistono già laboratori per la lavorazione del ferro e di falegnameria dove i detenuti possono specializzarsi e negli scorsi mesi sono stati fatti anche laboratori di legatoria e di vetreria e molti detenuti sono impegnati anche nella cura del verde e stanno realizzando un campo sportivo a testimonianza della funzione rieducativa della Casa circondariale. Il reinserimento lavorativo dei detenuti rappresenta non solo una giusta causa sociale da sostenere ma anche una opportunità per le stesse imprese. Il tentativo mira a realizzare un progetto di ampio respiro che possa risultare utile sia per il reinserimento dei detenuti nel contesto sociale sia per la collettività. Purtroppo, a distanza di diversi mesi, nonostante un interessamento iniziale di alcuni rappresentanti di categoria, legati all’imprenditoria locale, ad oggi non è stata presentata alcuna proposta concreta o quantomeno una comunicazione di disponibilità utile a predisporre una forma di collaborazione con la Casa circondariale di Crotone. Certamente la complessa situazione economica che caratterizza il periodo storico di riferimento e le difficili situazioni occupazionali che affliggono anche i non detenuti hanno inciso e incidono quotidianamente sulla riuscita di tali progetti, sebbene animati dai migliori intenti. Tuttavia, la mancanza oggi di un riscontro positivo impedisce a tutt’oggi di utilizzare al meglio quegli spazi della casa circondariale che potrebbero essere utilmente impiegati in attività produttive e portatrici di utilità sociale ed economica, e di mettere a sistema quella forza lavoro (dei detenuti) inespressa, prevenendo concreti pericoli di un loro ritorno ad attività illecite, specie a motivo della mancanza occupazionale. Con rammarico devo constatare che, per mancanze di proposte imprenditoriali, non è stato possibile attivare efficacemente il progetto previsto dal tavolo istituzionale e dunque si è persa un’ importante opportunità di crescita sociale e di impiego di risorse produttive. Preciso che l’invito a tutte le realtà legate al mondo della produzione delle imprenditorialità è sempre valido. Pertanto torno a formulare un forte appello a considerare la realtà della Casa circondariale di Crotone e chi vi risiede come un possibile e valido interlocutore per progettualità di lavoro e valorizzazione delle abilità tecniche - manuali. *Garante comunale dei diritti dei detenuti Reggio Calabria. Pettorine per le toghe “made in San Pietro” di Marzia Paolucci Italia Oggi, 25 novembre 2019 Un progetto coinvolge 40 donne ristrette nel carcere. Centosettanta pettorine, i tradizionali “bavaglini”, altrimenti dette “pazienza” confezionate in carcere e indossate sulle toghe da magistrati e avvocati reggini durante le udienze. A farle, al prezzo di vendita di 25 euro l’una, un gruppo di detenute del regime di media e alta sicurezza del carcere San Pietro di Reggio Calabria. Le prime 70 sono state consegnate a giugno scorso ai magistrati che ne hanno finanziato la prima raccolta fondi servita ad acquistare le prime macchine da cucire e le successive cento sono arrivate ora, a novembre, per gli avvocati che con il locale Consiglio dell’Ordine, si sono uniti all’iniziativa. Il progetto nato un anno fa, ha coinvolto circa 40 donne detenute del carcere San Pietro su di un totale di 180 detenute. Lo racconta l’avvocato Agostino Siviglia, Garante regionale dei diritti dei detenuti della Regione Calabria che con la corrente di magistratura Area democratica della Giustizia e la comunità gesuita CVX, ha partecipato alla raccolta fondi per comprare macchine da cucire e materiale necessario a confezionare la pettorine per gli operatori giudiziari, tutte uguali. “L’iniziativa”, racconta Siviglia, “nasce dal progetto “Le voci di dentro, conversazioni in carcere su giustizia e legalità” avviato l’anno scorso tra dicembre 2018 e maggio 2019, siamo andati in carcere sulla scia del viaggio che la Consulta ha fatto nelle carceri italiane incontrando i detenuti per parlare di Costituzione. Noi l’abbiamo fatto qui a Reggio, nei due istituti penitenziari San Pietro e Arghillà, incontrando le detenute che ci hanno rappresentato problemi ed esigenze di vita carceraria, a cominciare da quelle lavorative. Ed ecco spiegato il perché della raccolta fondi”. Ora l’auspicio è quello di “implementare il progetto attraverso altre attività per riuscire a strutturare un collegamento all’esterno quale potrebbe essere una cooperativa sociale per iniziare una nuova vita lavorativa dentro e un domani, anche fuori dal carcere”. San Severo (Fg). Massima attenzione per la nostra Casa circondariale di Desio Cristalli lagazzettadisansevero.it, 25 novembre 2019 Da tempo si rincorrono voci maligne sulla nostra Casa circondariale. Sostengono che questa nostra Istituzione possa essere chiusa per chissà quale assurda logica, atteso che il carcere di Porta Torremaggiore svolge una importante funzione nel piano strategico degli istituti di pena di Capitanata. E’ infatti anche una valvola di sfogo importante visto il sovraffollamento spropositato della Casa Circondariale di Foggia ma anche dell’altro vicino carcere di Lucera, spesso storicamente affiancato a San Severo quanto alla Direzione. Alcuni decenni or sono - erano i tempi della felice Direzione del dr. Umberto Solimene - San Severo fu privata quasi senza preavviso di questa importante struttura penitenziaria. Chi firma questo Editoriale seguì all’epoca molto da vicino quella (triste) faccenda in qualità di corrispondente dalla Capitanata del quotidiano Il Tempo di Roma. Il Direttore Solimene, colonna portante di quella importante battaglia, chiese ed ottenne senza riserve tutto l’appoggio possibile della Stampa nazionale, interregionale e locale per la crociata che portò poi alla riapertura della nostra Casa Circondariale. La crociata vide in prima fila, all’epoca, a livello locale e nazionale, non solo Il Tempo, che oltre al sottoscritto contava allora come corrispondente anche l’avv. Dante Azzarone, ma anche La Gazzetta del Mezzogiorno, Rappresentata all’epoca a livello locale dai compianti Colleghi corrispondenti Giuseppantonio Tardio ed Elio Bisceglie. Fu una vittoria passata alla storia di questa Città anche per la spinta esercitata su Roma dalle Amministrazioni comunali e dalle segreterie locali di alcuni partiti governativi. Ora quella triste pagina non deve tornare d’attualità perché questa volta sarebbe forse impossibile ottenere una riapertura del carcere sanseverese per un modo ormai molto diverso (in senso negativo) di vedere e gestire le cose carcerarie. Tutto questo discorso punta ad ottenere da subito un occhio attento del nostro Comune, dei Parlamentari e di tutta la Stampa di questa terra ma anche di tutti i Sindacati di categoria per il grave pericolo che corrono tanti posti di lavoro. Non ci facciamo trovati spiazzati da decisioni improvvise, preveniamole con tutta l’attenzione sociale possibile al fine di non piangere dopo, come sul dirsi, sul latte versato. Naturalmente, nella scia di questo impegno, va inclusa anche l’attenzione meticolosa di quanti operano nel carcere cittadino e che potrebbero anticiparci certe voci prima di chiunque altro, attraverso i loro sindacalisti nazionali. Nel caso maledetto, noi ci saremo sulla barricata ancora una volta e sempre in difesa di tutto il patrimonio pubblico di questa terra. E ricordiamoci che alle fregature che ci riguardano se non ci pensiamo noi non ci pensa nessuno. Catania. Inaugurata “Artificium”, mostra d’arte dei giovani detenuti catanianews.it, 25 novembre 2019 L’evento è stato organizzato dall’Associazione Culturale La Poltrona Rossa che dal 2013 collabora con i due istituti detentivi. Sabato 23 novembre, a Catania, al Museo Emilio Greco e Belliniano, è stata inaugurata la mostra “Artificium”, un’esposizione collettiva delle opere d’arte prodotte dalle detenute e dai detenuti degli Istituti Penali per Minorenni Bicocca di Catania e Pontremoli (Ms). L’evento è stato organizzato dall’Associazione Culturale La Poltrona Rossa che dal 2013 collabora con i due istituti detentivi attraverso laboratori creativi, artistici e artigianali per i/le detenute. Questo è reso possibile grazie ai Fondi Otto Per Mille della Tavola Valdese, il Ministero della Giustizia - Dipartimento per La Giustizia Minorile e di Comunità e i Centri per la Giustizia Minorile di Palermo e Torino. Tra le tematiche affrontate dagli artisti ristretti, quella che è emersa con maggior enfasi è la condizione della donna, la sua debolezza, il suo coraggio e il suo riscatto. Non è un caso, infatti, che l’evento sia stato programmato proprio durante la settimana in cui si celebra la giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Al taglio del nastro e sul tavolo degli interventi erano presenti: l’assessore alla Cultura del Comune di Catania Barbara Mirabella, che ha reso possibile questo evento offrendo le sale dei due musei civici di Catania; Alessandra Reitano del Museo Civico Emilio Greco e Belliniano; il Direttore dell’Istituto Penale per Minorenni Bicocca di Catania Maria Randazzo; il Pastore Francesco Sciotto della Chiesa Valdese e per dell’Associazione La Poltrona Rossa la sua presidente Ivana Parisi, che ha portato anche i saluti del Direttore dell’Istituto Penale per Minorenni di Pontremoli Mario Abrate, e Vanila Privitera, operatrice. All’apertura dell’evento hanno inoltre partecipato il Commissario Marzia Calcaterra, dell’Istituto Penale per Minorenni Bicocca di Catania, il Dirigente Penitenziario Letizia Bellelli e il Magistrato di Sorveglianza Emma Seminara. Infine, la cerimonia inaugurale, patrocinata dal Comune di Catania, è stata arricchita dalla presenza dello scrittore e storico dell’arte Davide Sciuto, il quale ha svolto una coinvolgente lezione di storia dell’arte con la proiezione delle opere prodotte dalle ragazze e i ragazzi dell’istituto. Anche quest’anno gli operatori de La Poltrona Rossa svilupperanno nuovi laboratori creativi per i ristretti della Sicilia e della toscana con i progetti approvati dall’Ufficio Otto per Mille della Tavola Valdese. Le attività riprenderanno, dunque, sul tema della “violenza sulle donne” e in particolare a Catania, i ragazzi detenuti, produrranno disegni e pensieri che verranno esposti al Museo Emilio Greco e Belliniano da martedì 26 novembre. La Mostra propone, inoltre, la collezione “Galea”, omaggio ai grandi artisti della storia dell’arte come Monet, Van Gogh, Degas, Mondrian, Rotcho, Lichtenstain e altri e sarà fruibile fino al 1 dicembre presso il Museo Civico Emilio Greco Belliniano in Piazza S. Francesco d’Assisi n. 3 - Catania. Ingresso gratuito. La difesa dimenticata dei diritti umani di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 25 novembre 2019 Ci commuoviamo per le immagini spettacolari delle proteste a Hong Kong, ma ci giriamo dall’altra parte quando apprendiamo che circa un milione e mezzo di esseri umani appartenenti alla popolazione musulmana degli uiguri è stato deportato nei campi di concentramento detti di “rieducazione”. Ricordare e denunciare le violazioni sistematiche dei diritti umani nel mondo oramai sembra diventato un esercizio patetico, un’invocazione velleitaria destinata allo scacco. La difesa dei diritti fondamentali è sparita dall’agenda dei governi, in primis di quegli europei che pure ipocritamente agitano la bandiera dei valori non negoziabili, delle istituzioni internazionali (come il dispendioso ed inutile ente denominato Nazioni Unite), dai sentimenti dell’opinione pubblica ed è rimasta appannaggio di pochi resistenti, a cominciare da Amnesty International e Human Rights Watch. Dei curdi eroici nella battaglia contro l’Isis e ora abbandonati nelle grinfie di Erdogan ci siamo già dimenticati. Oblio totale sulle centinaia di migliaia di civili siriani sterminati da Assad. Indifferenza assoluta sul massacro mostruoso di circa cento morti assassinati dai cecchini del regime iraniano durante le manifestazioni che stanno scuotendo Teheran e silenzio generale sulle ragazze che in Iran hanno avuto il coraggio di strapparsi di dosso il velo obbligatorio e gettate in chissà quale antro delle torture. Nessuna richiesta all’Arabia Saudita sul corpo del giornalista Jamal Khashoggi fatto letteralmente a pezzi, con ferocia mafiosa, nel consolato saudita in Turchia. Ci commuoviamo per le immagini spettacolari delle proteste a Hong Kong, ma ci giriamo dall’altra parte quando apprendiamo che circa un milione e mezzo di esseri umani appartenenti alla popolazione musulmana degli uiguri è stato deportato nei campi di concentramento detti di “rieducazione”. E che ne è dell’attenzione pubblica per le proteste contro la dittatura di Maduro in Venezuela? Prima titoloni, proclami, risoluzioni. E poi? Svanita, cancellata persino dai notiziari, azzerata. Nessuna istituzione sportiva ufficiale che dica una sola parola sulla discriminazione delle donne negli stadi del Qatar, solo la tv spagnola e quella tedesca hanno promesso che non vorranno trasmettere le partite dei Mondiali del 2022 giocate negli stadi in cui è vietato l’ingresso libero delle donne: silenzio in Italia, ovviamente. E parliamo delle torture nei campi in Libia solo in rapporto alle ondate migratorie e al pericolo che ce ne può venire, senza scandalizzarci per la cosa in sé, che richiederebbe un intervento immediato dell’Europa. Neanche per sogno. Meglio dimenticare. La sfida globale dei giovani contro i despoti e la corruzione di Gianni Riotta La Stampa, 25 novembre 2019 La morte è nemica dei conservatori. Non pensate all’affresco del Trionfo della Morte di Palermo del XV secolo o all’enigmatica Morte che gioca a scacchi col Cavaliere nel film classico di Bergman. Più pragmaticamente, uno studio dell’Università di Chicago, in corso dal 1972, dimostra come ogni anno, con la scomparsa delle vecchie generazioni, le nuove assumano posizioni più aperte in politica, religione, diritti civili, sessualità, cultura, scienza. Già nel XIX secolo i giovani patrioti romantici sfidarono i poteri assoluti, rivendicando libertà, giustizia, fratellanza: ricordate Silvio Pellico? Quello spirito, che sembrava spento nell’era della crisi, del cinismo nichilista e degli algoritmi, torna a soffiare possente, impaurendo despoti e irritando intellettuali pantofolai, ma incoraggiando, ovunque, donne e uomini liberi. Le elezioni per i Consigli Distrettuali a Hong Kong erano, da sempre, noiosa routine per decidere sull’uso dei clacson in strada, roba minore, ma ieri oltre un milione e duecentomila cittadini si son messi in fila per votare, il doppio del 2015. Sanno di poter eleggere solo una frazione dei 452 consiglieri, sanno che i lealisti al governo comunista cinese saranno in maggioranza tra i 1200 membri del Consiglio Legislativo, la Camera dell’ex colonia inglese, eppure rischiano in proprio per mandare due messaggi. Il primo, di solidarietà, agli studenti che da mesi chiedono il rispetto per la Basic Law, la costituzione locale, il secondo al presidente cinese Xi Jinping, perché imponga alla leader della città, Carrie Lam, di non soffocare nel sangue la battaglia per i diritti civili dei ragazzi, a lungo asserragliati al Politecnico. Giovani e giovanissimi seguono la Greta Thunberg nella crociata per un’economia verde, marciano in India contro il caroprezzi del nazionalista Modi, in Russia contro l’arroganza di Putin, in Sudan contro le cricche delle ruberie, in Egitto, nello spirito del povero Regeni, protestano per le brutalità della giunta militare, vanno in piazza in Tunisia, Algeria, Cile, Iraq, Libano, Kashmir. Da noi, le cosiddette “sardine” stanno battendosi contro la deriva nazionalista della destra, ribelli ai media petulanti e a una sinistra preda di giochi meschini. Ciascuno di loro ha obiettivi, culture e organizzazioni diverse, sarebbe sbagliato farne un 2019 eco globale de11968, hanno le app non il ciclostile. Ma il mondo non è mai stato così giovane, siamo 7,7 miliardi e il 41% ha meno di 24 anni! In Africa il 41% della popolazione ha meno di 15 anni: vero che Europa, Giappone, Usa e presto Cina, invecchiano, ma davvero pensiamo, come decrepiti Re, Imperatori e Zar dell’Ottocento, di ingabbiare la loro energia vitale? Davvero vogliamo delegare alla Morte il compito di cambiare il mondo, o vogliamo invece, noi figli del boom economico 1946-1964, ascoltare figli e nipoti? “Ok boomer”, “siete i soliti figli del boom”, è lo slogan con cui i giovani irridono noi padri. Non è una frusta guerra tra generazioni, si tratta di capire che il XXI secolo vuol progredire senza corruzione, repressione, ignoranza. L’ansia dispotica che Putin e i suoi vassalli scommettono dominante, sarà dunque sconfitta. Dove vuol schierarsi l’Italia in questa battaglia epocale, con le giovani libertà vittoriose o con i decrepiti spettri del passato perdente? I giovani svelano gli abusi sulle donne di Flavia Perina La Stampa, 25 novembre 2019 I ragazzi vedono più lontano di noi e hanno idee molto precise sull’escalation della violenza maschile contro le donne. Gli uomini picchiano le loro compagne perché sono ubriachi o drogati, oppure perché in famiglia sono stati educati a giudicare normale alzare le mani durante un litigio: così ottomila studenti della Generazione Z hanno risposto al sondaggio di Terres des Hommes e Scuola Zoo, realizzato in occasione del 25 novembre, la Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne. Le molte analisi del mondo adulto sulla persistenza del fenomeno - oltre ogni campagna, oltre ogni inasprimento punitivo, oltre ogni riforma - franano davanti alla semplicità divisione di questi studenti e alla loro estraneità alle categorie ideologiche su cui ancora si azzuffano i loro genitori e nonni. Non c’è riferimento al modello patriarcale, al portato divisivo dell’emancipazione femminile, e ci sono scarse tracce pure della vecchia polemica sugli effetti della nuova libertà conquistata dalle ragazze: solo il 16 per cento dei maschi pensa che una donna vestita in modo provocante “se la vada a cercare”. E tuttavia meno della metà degli intervistati, il 45 per cento, dichiara che segnalerebbe alla polizia un molestatore aggressivo: la percentuale precipita al 39 per cento se si considerano le sole risposte delle ragazze. Solo tre su dieci, poi, ne parlerebbero con “una persona di fiducia”: le femmine andrebbero quasi tutte dalla mamma, così come la metà dei maschi, o tutt’al più dagli amici. A pochissimi, solo il 23 per cento, verrebbe in mente di coinvolgere il papà, e anche qui si intravede uno strappo culturale importante perché i tradizionali riferimenti dell’auctoritas - lo Stato, il padre - sono palesemente scartati come possibili interlocutori in un momento di pericolo. La rilevazione ci racconta dunque un’alta consapevolezza del rischio-violenza insieme alla convinzione che affrontarlo sia responsabilità dei singoli. I giovani scartano entrambi i modelli proposti dalle generazioni precedenti: non convince la soluzione alla Sonny Corleone, col capofamiglia che risolve le brutalità domestiche subite dalla sorella pestando e terrorizzando il colpevole, ma ha scarso successo anche la modalità MeeToo della denuncia in commissariato e magari della pubblica gogna. È un fallimento delle campagne contro la violenza, l’ennesima conferma della scarsa fiducia di cui gode lo Stato o del declino del ruolo paterno? Forse no. Forse è solo il nuovo approccio di una leva anagrafica pragmatica e poco propensa alle battaglie di principio: per una ragazza/o su due, ci dice ancora il sondaggio, ciò che succede nella coppia è un fatto che va risolto in prima persona. L’individualismo della Generazione Z non è necessariamente una regressione, anzi è persino possibile che questo nuovo approccio funzioni se significherà più cautela e attenzione nelle relazioni personali e l’isolamento immediato di chi coltiva atteggiamenti violenti. L’autodifesa segna lo spirito dei tempi in tanti campi, spesso in modo negativo, ma in questo, se applicata fin da giovanissimi, può ottenere il duplice successo di proteggere le ragazze e circondare i violenti di quel discredito sociale che a vent’anni risulta punitivo quanto la galera. Egitto. Regeni, ecco la piattaforma anonima per raccogliere informazioni sull’omicidio di Carlo Bonini e Giuliano Foschini La Repubblica, 25 novembre 2019 Le segnalazioni trasmesse via web arriveranno in maniera sicura direttamente ai legali dei familiari di Giulio. Sono trascorsi 46 mesi. Quarantasei mesi da quando agenti della National security, il servizio segreto civile egiziano - oggi questo è possibile affermarlo con la certezza dell’indicativo - rapirono Giulio Regeni, ricercatore italiano all’università di Cambridge, al Cairo. Erano le 19:41 del 25 gennaio 2016 quando Giulio uscì di casa, nel quartiere residenziale di Dokki, per raggiungere un amico in piazza Tahrir. Giulio entrò nella metropolitana circa dieci minuti dopo: alle19:51 le celle telefoniche agganciarono per l’ultima volta il segnale del suo cellulare. Da quel momento Giulio entrò nel buco nero del regime di Al Sisi. Il suo corpo fu ritrovato nove giorni dopo, il 3 febbraio, abbandonato sul ciglio della strada che dal Cairo corre verso Alessandria, sul cavalcavia Hazem Hassan. Era senza vestiti e il suo corpo era stato usato come una lavagna dell’orrore: portava infatti i segni di giorni di tortura. Questi 46 mesi sono trascorsi nella ricerca, fin qui vana, della verità. I genitori di Giulio, Paola e Claudio, il loro avvocato, Alessandra Ballerini, non hanno mai mollato nemmeno un centimetro. Come i magistrati della procura di Roma, a partire dal sostituto procuratore Sergio Colaiocco che coordina le indagini; come i carabinieri del Ros, i poliziotti dello Sco, che non hanno smesso per un attimo di cercare di ricostruire quello che è accaduto. Le loro sono state indagini che hanno lavorato sulle bugie e i depistaggi arrivati dall’Egitto, isolandone dettagli che, inconsapevolmente, gli egiziani avevano fatto filtrare dagli atti e che si sono verificati cruciali. Il regime di Al Sisi non ha mai smesso di manipolare e dissimulare la verità, fino al punto di sacrificare, assassinandoli, cinque innocenti, falsamente accusati di aver partecipato all’omicidio di Giulio. Eppure, le informazioni che portano alla verità sono e restano soltanto in Egitto. Lo ha detto il presidente della Camera, Roberto Fico. Lo ha ribadito l’ex presidente del consiglio, oggi commissario europeo, Paolo Gentiloni. “Per arrivare alla verità sul sequestro, l’omicidio e la tortura di Giulio Regeni è necessaria la collaborazione dell’Egitto”. Repubblica insieme alla famiglia Regeni ha deciso per questo di offrire uno strumento che consenta di aprire una strada alternativa alla collaborazione istituzionale. Nasce per questo da oggi Regenifiles, una piattaforma dove chiunque, in modo anonimo e sicuro, potrà inviare informazioni o documenti utili all’accertamento della verità sull’omicidio di Giulio Regeni. La piattaforma (sviluppata sulla base di GlobaLeaks, un software sviluppato dalla no-profit italiana Hermes Center) è progettata in modo tale che neanche chi la gestisce o legge le segnalazioni possa identificare il mittente. Le segnalazioni arriveranno in maniera assolutamente anonima ai legali della famiglia Regeni, come già sperimentato dall’Autorità nazionale italiana anticorruzione (Anac) che ha utilizzato questa piattaforma per raccogliere le segnalazioni dei whistleblower in materia di anticorruzione. Come dicono i genitori di Giulio, Paola e Claudio, nell’appello che pubblichiamo, la speranza è di rivolgersi a chi “sa e non ha ancora osato parlare”. La procura di Roma ha iscritto nel registro degli indagati cinque agenti della National security, coinvolti nel sequestro. Ma sono decine le persone che hanno indagato illegalmente e strumentalmente su Giulio, quando era ancora vivo. E che probabilmente lo hanno visto quando era detenuto illegalmente, poco prima di essere ammazzato. Un testimone ha raccontato alcuni mesi fa di aver ascoltato un agente egiziano confessare la partecipazione al sequestro. Il suo racconto è ora agli atti della procura di Roma. Che lo ha ritenuto attendibile. E che da mesi, senza fortuna, attende una risposta all’ennesima rogatoria inviata al Cairo. Regenifiles servirà anche a questo. A impedire al regime di Al Sisi di costringere al silenzio chi sa. Egitto. Quando il carcere è tortura: la storia di Aisha el-Shater di Riccardo Noury Corriere della Sera, 25 novembre 2019 Aisha el-Shater, 39 anni, è la figlia di un alto dirigente della Fratellanza musulmana, Khairat el-Shater, in carcere dal luglio 2013. Per le autorità egiziane, questa relazione di parentela e le sue denunce sulle violazioni dei diritti umani paiono motivi sufficienti per trattenerla in carcere, in condizioni inumane, da oltre un anno. Aisha el-Shater è stata arrestata il 1° novembre 2018 insieme a suo marito, Mohamed Abo Horira, e ad altre 17 persone. Dopo tre settimane di sparizione forzata - durante le quali, secondo quanto ha denunciato, sarebbe stata picchiata e sottoposta a scariche elettriche - è apparsa di fronte alla Procura suprema per la sicurezza dello stato e posta in detenzione preventiva con l’accusa di “appartenenza a un gruppo terroristico”. Da allora la detenzione è stata rinnovata più volte, da giudici e procuratori. Dal gennaio 2019 si trova nella prigione femminile di al-Qanater: deve rimanere 23 ore al giorno nella sua piccola cella d’isolamento, scarsamente ventilata, con un secchio per fare i bisogni dato che può recarsi al bagno solo due volte al giorno, per non più di un’ora in totale. Dal giorno dell’arresto le vengono negate le visite familiari e le comunicazioni con parenti e avvocati. Secondo fonti mediche, Aisha el-Shater soffre di anemia aplastica, una malattia rara e grave del sangue. In una occasione, quando perdeva molto sangue, è stata trasportata all’ospedale di al-Qasr al-Ainy dove è stata curata con una trasfusione di piastrine. Dovrebbe ricevere cure mediche intensive e specialistiche in una adeguata struttura medica, ma non le viene permesso. In questo modo, rischia di morire. Per il diritto internazionale questa si chiama tortura. Hong Kong. L’ondata pro democrazia schiaccia il fronte pro-Pechino di Filippo Santelli La Repubblica, 25 novembre 2019 Lam: “Ascolteremo con umiltà i cittadini”. Una valanga gialla, il colore del campo pro democrazia. Un messaggio a Carrie Lam e a chi l’ha scelta, cioè il Partito comunista lassù a Pechino: i cittadini di Hong Kong vogliono risposte alle cinque domande che da mesi gridano per strada. Vogliono scegliere chi li governa. Lo hanno ribadito ieri con il voto, l’unico pienamente democratico che è loro concesso. Il governo di Hong Kong ascolterà “certamente con umiltà le opinioni dei cittadini e rifletterà su di loro con serietà”. È l’impegno della governatrice Carrie Lam affidato a una nota, il primo commento dopo la pesantissima sconfitta del fronte pro-establishment. Il governo, ha assicura Lam, “rispetterà il risultato del voto”. Ma Pechino ribadisce: “Hong Kong è parte integrante della Cina, a prescindere dal risultato elettorale”. Lo ha detto il ministro degli Esteri cinese Wang Yi. “Qualsiasi tentativo di danneggiare il livello di prosperità e stabilità della città - ha aggiunto - non avrà successo”. Le elezioni distrettuali, nei quartieri, solitamente affare di verde pubblico e centri per anziani, si sono trasformate in un referendum sulla protesta di Hong Kong. Il trionfo dei gialli e il tonfo dei blu, il campo governativo e filo cinese, vanno oltre ogni attesa: dei 452 seggi in palio nei 18 quartieri, 388 sono andati a esponenti democratici, che raccolgono nel complesso il 57% dei voti. Un completo rovesciamento rispetto al precedente rapporto di forza, ma soprattutto il segno dell’avversione per il modo in cui Lam ha gestito il caos di questi mesi. Ignorando le richieste dei cittadini e lasciando solo la polizia a rispondere. Nonostante le violenze dei manifestanti più aggressivi, quelli con archi e molotov, non piacciano a tutti, la maggioranza silenziosa di Hong Kong ritiene che la responsabilità sia del governo e di Pechino. È stato un voto storico anche per il livello di partecipazione. Fin dal mattino davanti ai seggi si sono formate lunghe file ordinate. In certi quartieri i cittadini hanno aspettato anche due ore per votare. Alla fine il conto complessivo dell’affluenza supera il 70% (dei registrati), quasi tre milioni di persone, il più alto di qualsiasi elezione mai tenuta nell’ex colonia britannica (perfino superiore a quella per il Parlamento, che nonostante sia in parte bloccata a tutela del controllo di Pechino è ben più importante). Il campo democratico, e gli Stati Uniti che in queste settimane hanno supportato la protesta, esultano per la vittoria. Mentre sull’altro fronte, in attesa del commento ufficiale di Carrie Lam e di Pechino, i giornali di regime comunisti, che alla vigilia delle elezioni avevano invitato a votare “per fermare la violenza” (dei manifestanti), ora puntano il dito contro le interferenze straniere. Ma sono state delle elezioni “pulite”, conferma un gruppo di osservatori arrivato in città. Ai seggi la polizia in tenuta antisommossa è rimasta defilata, nessun disordine. E i presunti brogli del campo pro governo (come gli anziani portati con i bus a votare) non si sono visti, o comunque non sembrano aver condizionato il risultato. Eppure, al di là dei guadagni della Borsa di Hong Kong (vicini al 2%), l’effetto di questo voto è tutt’altro che scontato. La pressione su Carrie Lam da parte del suo campo aumenterà, il prossimo anno si tengono le elezioni per il consiglio legislativo, e un’altra sconfitta del genere sarebbe pesantissima. Le chiederanno di farsi da parte, o almeno di far tesoro della batosta e negoziare. La Chief executive però ha già mostrato di non avere alcuna autonomia da Pechino, né quella di andarsene né quella di trattare sulle richieste del movimento. In una escalation continua di violenze (prima della “tregua” elettorale vista negli ultimi giorni), il governo cinese ha definito i giovani in nero terroristi e la polizia locale usato un pugno sempre più duro. Lam ha di fatto ignorato enormi marce pacifiche, poi condannato la guerriglia, e così tra gli elettori democratici pochi si aspettano che ascolti la voce delle urne. Anche perché la piena democrazia è proprio ciò che la protesta chiede, e che Pechino non è disposta a concedere. Cile. Il mistero di “Bety”, trovata uccisa in casa dopo le foto alle proteste di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 25 novembre 2019 È giallo sulla morte di una fotografa freelance a Santiago del Cile. Albertina Martines Burgos, 38 anni, è stata trovata senza vita la notte del 21 novembre nel suo appartamento in centro. Sul corpo segni evidenti di percosse e ferite da taglio. E il gruppo “Ni una menos Chile” chiede che sia fatta chiarezza sul movente dell’omicidio: “Albertina stava documentando la situazione in Cile e partecipava attivamente come fotografa alle manifestazioni - scrive su Instagram il movimento femminista. Esigiamo che siano chiarite le cause della sua morte, senza dimenticare che né il suo pc né la sua macchina fotografica erano nell’appartamento quando è stata trovata. Non dimenticheremo il suo nome, non dimenticheremo il suo volto”. La donna lavorava per il canale televisivo Megavision, soprattutto come assistente luci, ma la sua vera passione era la fotografia. Negli ultimi giorni si era unita alle manifestazioni di protesta contro il governo di Sebastiàn Phiera. Le circostante del decesso, però, non sono ancora chiare. L’allarme lo ha lanciato la madre che, non avendo più notizie della figlia, con l’aiuto di un fabbro ha forzato la porta chiusa a chiave dell’appartamento. Dalla casa, oltre ai supporti fotografici, sono spariti anche degli oggetti preziosi, forse un tentativo di simulare una rapina. “Stiamo indagando su un caso di presunto omicidio”, ha fatto sapere la pm Débora Quintana. Gli amici, però, hanno invitato i mezzi di comunicazione a non dare risalto a ipotesi che, per ora, sono prive di conferma: “Siamo compagni e amici di Albertina. Vogliamo chiarire che ufficialmente non ci sono informazioni sulla morte - hanno scritto sui social network. Nel contesto delle rivolte di questi giorni sappiamo che era presente al corteo di giovedì 14 novembre per la prima volta e sappiamo che la nostra cara Bety aveva un po’ paura di assistere alle manifestazioni, quindi vogliamo chiarire che Albertina non stava registrando nulla. Chiediamo rispetto per la sua famiglia, i suoi amici e colleghi. In attesa di giustizia per la nostra amica”. La morte di Albertina segue quella di Daniela Carrasco, 36 anni, artista di strada travestita da clown che chiamavano “El Mimo” e che si esibiva fra Santiago e la sua città, il comune di Pedro Aguirre Cerda, nella periferia della capitale. La donna era stata trovata i120 ottobre impiccata ad una recinzione alla periferia di Santiago. All’inizio gli attivisti e il sindacato nazionale degli attori non volevano credere all’ipotesi del suicidio anche perché Daniela era stata arrestata proprio il giorno prima dalla polizia. Ma ieri una sua lettera ha confermato che Carrasco si è tolta la vita per motivi personali. È chiaro che, in un Paese attraversato da un mese di proteste contro le ineguaglianze, ogni morte provoca accuse e sospetti. Che la polizia stia usando tecniche repressive contro le “manifestazioni pacifiche” è stato accertato da Amnesty International che ha parlato di uso di armi letali e di gravi violazioni dei diritti umani. Dal 18 ottobre sono 23 le persone ufficialmente decedute, oltre a migliaia di feriti. Migliaia anche le denunce per maltrattamenti da parte della polizia e 70 quelle per violenza sessuale. Gran Bretagna. I medici scrivono al governo inglese: “Julian Assange rischia di morire” di Alessio Ribaudo Corriere della Sera, 25 novembre 2019 Il fondatore di Wikileaks, detenuto in un carcere britannico dallo scorso maggio, potrebbe morire in prigione senza cure “urgenti”. Lo scrivono 60 medici di diversi paesi in una lettera aperta indirizzata al ministro dell’Interno Priti Patel. “Senza cure urgenti Julian Assange potrebbe morire”. In sintesi è questo il contenuto di una lettera aperta indirizzata al ministro dell’Interno britannico, Priti Patel, da una sessantina di diversi Paesi che denunciano come il fondatore di Wikileaks soffra di problemi fisici e psicologici (tra cui la depressione), tali da dover essere curato in un ospedale “attrezzato e con personale esperto”. Assange, 48 anni, dallo scorso maggio è detenuto è detenuto nel carcere di Belmarsh, nel sudest di Londra, per aver violato i termini della libertà vigilata. Sta scontando una pena a 50 settimane e il 24 febbraio 2020, il tribunale di Westminister dovrà cominciare il dibattimento per sulla richiesta di estradizione presentata dagli Stati Uniti che lo hanno accusato di spionaggio. Fra i 18 capi d’imputazione c’è anche quello di aver messo a rischio fonti governative Usa con la pubblicazione di centinaia di migliaia di cablogrammi e documenti riservati sulle manovre dell’esercito americano in Iraq e in Afghanistan. Assange, dal 2012, si era rifugiato nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra che gli aveva concesso il diritto di asilo per evitare l’estradizione in Svezia. A febbraio inizieranno le udienze sulla richiesta di estradizione degli Usa. Secondo quanto riferito da Skynews il pool dei medici composto non solo da europei ma anche da australiani e Srilankesi, nella lettera diffusa da WikiLeaks, afferma che “da un punto di vista medico, sulle indagini attualmente disponibili, nutriamo serie preoccupazioni riguardo all’idoneità del signor Assange ad essere processato nel febbraio 2020” e “soprattutto è nostra opinione che necessiti di una valutazione medica urgente da parte di esperti sul suo stato fisico e psicologico”. Altrimenti, avvertono, “nutriamo serie preoccupazioni che possa morire in prigione”.