Carceri, polemiche sul Decreto legislativo per il riordino delle Forze dell’ordine di Marco Procopio Il Fatto Quotidiano, 24 novembre 2019 Antigone: “Troppo potere agli agenti”. Dap: “Più organizzazione”. Il decreto legislativo sul riordino delle forze dell’ordine attualmente al vaglio delle Commissioni parlamentari assegna alcune funzioni che in passato spettavano al direttore al comandante degli agenti penitenziari. I 5 stelle difendono la riforma mentre Leu chiede modifiche. No comment di Fiano (Pd) relatore del decreto. Sostituisce due parole: dove c’è “direttore” comparirà “comandante di reparto”. In questo modo sarà modificato l’ordinamento penitenziario italiano. L’effetto che avrà? Alcune funzioni che in passato spettavano al primo ora passeranno al secondo. Come il compito di sanzionare gli agenti che si comportano in modo scorretto o quello di autorizzare l’uso delle armi all’interno delle carceri. A prevederlo è il decreto legislativo sul riordino delle forze dell’ordine attualmente al vaglio delle Commissioni parlamentari. Secondo il Dipartimento di amministrazione penitenziaria (Dap) il testo è pensato in un’ottica di “funzionalità organizzativa” e corregge una stortura segnalata da anni anche dai sindacati. Per l’associazione Antigone, invece, rischia di trasformare gli istituti di detenzione in luoghi di “mera custodia, non più votati al reinserimento sociale dei reclusi”. Allarme in parte condiviso anche dall’Unione camere penali, dai Garanti territoriali di tutta Italia, dai magistrati di sorveglianza e da oltre 130 dirigenti penitenziari. Questi ultimi hanno chiesto a Palazzo Chigi di fare un passo indietro e mettere mano alla riforma. Una spaccatura che si riflette anche in Parlamento, con il Movimento 5 stelle, il Pd e LeU che non hanno ancora deciso come muoversi. I nodi più controversi del provvedimento, voluto dal governo gialloverde e confermato da quello attuale, riguardano le modifiche che vengono apportate al decreto legislativo n. 449 del 1990 sulle sanzioni agli agenti penitenziari e al regolamento n. 551 del 1992 in materia di armi. In entrambi i casi il potere decisionale passa dal direttore (che per legge non deve appartenere ad alcun corpo dello Stato) al comandante di reparto “con qualifica di primo dirigente”. Sarà lui quindi a decidere quando un agente che ha usato in modo immotivato la violenza deve essere multato o quando è opportuno ricorrere alle pistole per garantire la sicurezza degli istituti. La senatrice pentastellata Bruna Piarulli, in passato alla guida del penitenziario di Trani, chiarisce in una nota che “la figura rieducativa e risocializzante della pena resta il macro-obiettivo della legalità e il direttore resta il vertice del carcere”. Per il Coordinamento dei magistrati di sorveglianza, invece, si tratta di “disposizioni che paiono esorbitare dagli obiettivi di mera riorganizzazione perseguiti” dal decreto. L’Unione camere penali si spinge addirittura oltre, denunciando il rischio che ci sia “una vera e propria militarizzazione del carcere” a discapito “del trattamento dei detenuti”. “La nostra paura”, aggiunge il coordinatore dell’Osservatorio sulle carceri di Antigone Michele Miravalle, “è che in futuro possano prevalere altre logiche rispetto a quelle attuali. Magari danneggiando realtà che oggi sono all’avanguardia”. Come la casa circondariale di Bollate, nel milanese - considerata una delle più avanzate d’Italia - dove i detenuti si occuperanno del tema nel prossimo numero del loro giornale Carte Bollate. A sollevare ulteriori polemiche, però, è anche un altro punto della riforma. L’articolo 29, intervenendo direttamente sulla legge che istituì negli anni Novanta il corpo di polizia penitenziaria, specifica che gli agenti hanno doveri di subordinazione gerarchica nei confronti del direttore dell’istituto solo “se il comandante del reparto riveste la qualifica inferiore a primo dirigente”. Raggiunto questo rango, la dipendenza diventa di “carattere funzionale”. Cosa significa? Secondo Miravalle è un “ulteriore indebolimento” della figura del direttore, il quale dovrebbe fare da “garante” alle diverse aree professionali presenti in carcere “così come prescritto dalla Costituzione e dalle Regole penitenziarie europee”. In base a quanto dichiarato dal capo del Dap Francesco Basentini durante la sua audizione al Senato, invece, “è stata fatta una scelta di coerenza amministrativa e giuridica”. Il perché lo chiarisce al fatto.it il segretario generale del sindacato Osapp Leo Beneduci: “I direttori non hanno qualifiche di polizia né di sicurezza e non appartengono alla stessa carriera degli agenti penitenziari, ma possono comunque dare ordini. È un paradosso che non esiste negli altri corpi dello Stato”. A suo parere, quindi, “basterà la dipendenza funzionale affinché continuino ad esercitare la responsabilità massima negli istituti. Tutte queste polemiche testimoniano solo un desiderio di potere”. La parola spetta ora ai parlamentari, chiamati dal governo a esprimere un parere sul decreto e a suggerire eventuali modifiche prima del via libera finale. Ma nella maggioranza rischia di aprirsi un nuovo scontro: mentre il Movimento 5 stelle si dice favorevole alla riforma, la senatrice di Liberi e uguali Loredana De Petris spiega che il testo “ha colto tutti di sorpresa”, viste le sue “evidenti sfumature figlie del precedente governo. Vorrebbe sanare la progressione di carriera della polizia penitenziaria, ma al suo posto offre un contentino che produce solo danni”. Preferisce non parlare, invece, il dem Emanuele Fiano, nonostante sia il relatore del decreto in Commissione Affari costituzionali a Montecitorio. I chiarimenti, è stato assicurato al Fatto.it, arriveranno dopo che verranno sentite in audizione tutte le parti in causa. Assistenza sanitaria in carcere, Sifo: “Garantire diritti” agenziadire.com, 24 novembre 2019 Al congresso dei farmacisti ospedalieri il punto sull’assistenza sanitaria nelle carceri. “Il diritto alla salute deve essere garantito su tutto il territorio nazionale, senza alcuna limitazione”, dice la presidente Serao Creazzola. “Siamo stati tra i primi a confrontarci pubblicamente sui temi dell’assistenza sanitaria in carcere. L’abbiamo fatto negli ultimi due anni con workshop, documenti e approfondimenti specifici, proprio perché siamo attenti al diritto alla salute in ogni condizione e verso ogni persona. È con grande soddisfazione quindi che anche al Congresso di Genova abbiamo voluto realizzare un confronto tra specialisti ed operatori, affinché il Dpcm-2008 e i riferimenti normativi successivi non rimangano una formula vuota e priva di applicazione. Il diritto alla salute deve essere garantito su tutto il territorio nazionale, senza alcuna limitazione: ne va del nostro stato di diritto”: così Simona Serao Creazzola - presidente Sifo - ha commentato la sessione sull’“Assistenza ai pazienti nel contesto carcerario”, che ha fatto oggi il punto sul diritto alla salute nelle carceri italiane, a circa 11 anni dal Dpcm “Modalità e criteri per il trasferimento al Servizio sanitario nazionale delle funzioni sanitarie, dei rapporti di lavoro, delle risorse finanziarie e delle attrezzature e beni strumentali in materia di sanità penitenziaria”. La sessione giunge tempestivamente a due giorni dal lancio da parte dell’Organizzazione mondiale della sanità del Rapporto Oms sullo stato di salute nelle carceri nella Regione europea, testo che ha offerto fotografia dello stato dei sistemi sanitari delle carceri per 39 paesi d’Europa. Il Rapporto ha stimato che 6 milioni di persone vengono incarcerate ogni anno in Europa. “Dopo il rilascio, i tassi di recidiva e di ritorno in prigione sono elevati- ha evidenziato l’Oms. Il ciclo non coerente tra carcere e comunità porta purtroppo a cure sanitarie spesso sconnesse e inefficaci al di fuori degli ambiti di reclusione. Durante i primi giorni del rilascio, aumenta il rischio di suicidio, autolesionismo e overdose di droga”. Il rapporto ha concluso con una considerazione importante: “Una pena detentiva toglie la libertà alle persone; non dovrebbe anche togliere la loro salute e il loro diritto alla salute”. Gli elementi di preoccupazione sono stati confermati dalle relazioni al Congresso Sifo, presentate da Massimo Clerici (Docente di psichiatria a Milano Bicocca) e Antonella Calcaterra (avvocato, esperta di diritti delle persone recluse), e Silvia Scalpello (farmacista ospedaliera), mentre Patrizia Orcamo (Direzione Salute e Servizi Sociali, Regione Liguria) ha presentato le esperienze di “presa in carico” sul territorio ligure, evidenziando però come a livello nazionale “non tutte le Regioni si siano attrezzate per star dietro alle normative, soprattutto per il recepimento del Piano prevenzione suicidi”, pubblicato in Gazzetta Ufficiale (189-14.8.2017). Nella sessione Sergio Libianchi (presidente di Conosci, Coordinamento nazionale degli Operatori per la Salute nelle Carceri italiane) ha presentato il protocollo di intesa Sifo-Conosci firmato nei mesi scorsi a Roma. “Si tratta - ha detto Libianchi - di un documenti di grande importanza nel quale gli operatori sanitari che lavorano nelle carceri e i farmacisti ospedalieri hanno messo a fattor comune una serie di azioni destinate ad avviare progetti di ricerca, di formazione e confronto, e pubblicazioni sui temi coerenti con l’ambito penitenziario”. Sifo e Conosci hanno poi condiviso la necessità di lanciare iniziative di informazione e documentazione utile all’aggiornamento degli operatori e approfondimento dei temi sulla salute in ambito penitenziario, anche attraverso campagne di sensibilizzazione, divulgazione e di creazione di nuovi modelli gestionali da mettere a disposizione delle autorità sanitarie competenti. Giorgio Lattanzi: “La Costituzione ancora attuale, ma oggi è poco condivisa” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 24 novembre 2019 Il presidente uscente della Consulta: “La Costituzione è ancora attuale, ma oggi è poco condivisa. La criminalità esiste, ma non deve diventare un’ossessione. È una malattia di ogni società, se diventa un’ossessione il rischio è affidarsi a improbabili guaritori”. Tra un paio di settimane il presidente Giorgio Lattanzi lascerà la Corte costituzionale, dopo nove anni di appartenenza e quasi due trascorsi alla sua guida. Un periodo nel quale le decisioni della Consulta hanno avuto grande impatto politico e sociale, suscitando in alcuni casi reazioni polemiche: dalle sentenze sulle leggi elettorali a quella sul “fine vita”, fino alla recentissima pronuncia sui permessi premio ed ergastolo ostativo. Presidente, come sta la Costituzione italiana? “Direi bene. Dopo oltre settant’anni di vita conserva grande attualità, continuando a esprimere principi che, anche grazie al lavoro della Corte, sono in grado di governare fenomeni che non esistevano o erano inimmaginabili quando è stata scritta. Penso all’ambiente, alla bioetica, ma anche all’evoluzione dei rapporti tra poteri dello Stato: per esempio governi deboli con Parlamenti forti e viceversa, diverse interpretazioni del ruolo del capo dello Stato”. Tutto a posto, dunque? “Non proprio, perché ho la sensazione che talvolta all’osservanza della Costituzione non corrisponda altrettanta condivisione dei suoi contenuti. È come se certi principi venissero vissuti come fonte di obblighi, senza quell’adesione convinta ai valori che li hanno ispirati. Per tanto tempo la Costituzione è stata un fondamentale e condiviso punto di riferimento ideale, ora non è più così. Come se col passare del tempo si fosse creata una distanza culturale e direi anche sentimentale”. Può fare qualche esempio di questa distanza? “Basta guardare alle reazioni provocate dalla nostra decisione sui permessi e l’ergastolo ostativo. Quasi nessuno s’è soffermato sul principio costituzionale della risocializzazione del detenuto. È sancito dall’articolo 27 della Costituzione, nato dalla penna di chi aveva conosciuto il carcere ai tempi del fascismo. I Costituenti dissero “Mai più un carcere così”, mentre da qualche anno si dice “Buttiamo la chiave” o “Marciscano in galera”; l’opposto della cultura costituzionale che produsse, negli anni ‘70-80, riforme storiche all’insegna di un carcere dei diritti e finalizzato al reinserimento sociale”. Vi hanno accusato di indebolire le politiche della sicurezza. Che cosa risponde? “Che è falso. La Corte non ha cancellato l’ergastolo ostativo, come è stato detto e ripetuto, né ha eliminato la presunzione di pericolosità per i mafiosi che non collaborano con la giustizia; l’ha soltanto trasformata da assoluta in relativa. Il che significa dare la possibilità di dimostrare che è venuta meno l’appartenenza all’organizzazione criminale, attraverso una valutazione del magistrato di sorveglianza, che tra l’altro coinvolge gli operatori penitenziari, le forze di polizia, la Procura antimafia, l’autorità giudiziaria, i comitati per l’ordine e la sicurezza. Lo ha ricordato anche un recente comunicato della magistratura di sorveglianza. Quindi nessun “liberi tutti”, è stato creato un allarmismo ingiustificato”. Qualche politico ha parlato di sentenza diseducativa, o addirittura disgustosa... “Dipende da che cosa si considera diseducativo... Ovviamente anche le nostre pronunce sono criticabili, ma una cosa è criticarle e un’altra è svilirle, offendendo e aggredendo la Corte. E mi chiedo se questo può considerarsi educativo”. Si è pure detto che la Corte vive scollegata dal Paese, incurante della specificità della mafia. “E non è vero. La Corte è consapevole, eccome, ma il suo compito è anche quello di imporre dei limiti. Sono stato all’Ufficio legislativo del ministero della Giustizia ai tempi del sequestro Moro, quando c’era una fortissima esigenza di sicurezza, ho lavorato alle leggi antiterrorismo, e ricordo che il ministro Francesco Bonifacio si preoccupava anzitutto del rispetto della Costituzione. Aggiungo che la criminalità esiste, ma non deve diventare un’ossessione. È una “malattia” di ogni società, ma se diventa un’ossessione c’è il rischio di affidarsi a improbabili guaritori”. A parte il tema del carcere, da dove misura la maggiore distanza tra i valori costituzionali e il comune sentire che si sta diffondendo? “Dal diverso valore che alcuni tendono a dare alla persona, a seconda che sia cittadino o straniero. La persona è alla base della nostra Costituzione e costituisce un valore assoluto. È lo Stato che deve essere costruito in funzione della persona, e non viceversa. Anche il sovranismo mi sembra un indizio di spostamento del baricentro”. Per l’altra recente decisione sull’aiuto al suicidio nel “caso Cappato-Dj Fabo” siete stati accusati di esservi sostituti al Parlamento. “In realtà abbiamo sospeso l’udienza per un anno, per consentire al legislatore di intervenire, ma non è accaduto nulla, come dopo altri moniti diretti a far cessare situazioni di incostituzionalità. Il ritardo ha dimostrato le difficoltà del Parlamento, e l’intervento della Corte non era rinviabile per evitare che una norma incostituzionale portasse alla condanna di una persona, in attesa della legge che dovrà disciplinare compiutamente la materia, come ricorda la sentenza”. Ma così la Corte non finisce per “fare politica”, come si dice da più parti? “No, perché con le sue decisioni la Corte non prende parte alla contesa politica, anche se si tratta di decisioni che hanno rilevanza politica. La Corte è un arbitro, e come un arbitro che assegna un rigore può decidere l’esito di una partita, anche con implicazioni politiche. Questo è il suo ruolo, e va rispettato”. Resta dell’avviso che è meglio lasciare la Costituzione così com’è, piuttosto che lanciarsi nelle riforme ciclicamente riproposte? “Sì, e penso sia stato un bene che per due volte le riforme approvate dal Parlamento siano state bocciate dai referendum popolari. Il solo annuncio di modifiche da parte dei governi e delle maggioranze che si alternano finisce di per sé per svalutare la Costituzione, come se fosse una legge qualsiasi. Così si rischia di far venir meno quel patriottismo costituzionale che garantisce una lunga vita ad ogni Costituzione”. Negli ultimi anni la Corte ha intrapreso un “viaggio in Italia”, cominciato nelle scuole e arrivato nelle carceri. Che esperienza è stata? “Molto positiva. Ci ha dimostrato che il sentimento costituzionale non è morto ma va rilanciato. A me sembra che soprattutto i giovani siano pronti a farlo”. Prescrizione, no di Ermini: prima il nuovo processo di Simone Canettieri Il Messaggero, 24 novembre 2019 Il vicepresidente del Csm: “La riforma del Consiglio ha un aspetto punitivo, ho diverse perplessità”. “Il Csm aveva già dato un parere, e aveva detto che era un errore una norma che entra in vigore nel 2020 per fare la riforma del processo penale. Se poi quella riforma non si fa? Creerà problemi di tipo pratico e giuridico, l’Italia non se lo può permettere”, afferma il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura David Ermini, durante la Festa del Foglio a Firenze. Che sull’ipotesi di riforma del Csm aggiunge: “Io qualche perplessità ce l’ho, anzi più di una. Riguardo al sorteggio, che secondo me svilirebbe completamente, anche rispetto all’assetto costituzionale, la funzione del Csm”. La “sensazione” espressa da Ermini è che “la riforma del Csm abbia un aspetto punitivo e questa cosa non la gradisco. Non abbiamo ancora visto proposte ufficiali, solo delle veline che circolavano quando c’era il governo precedente Lega-Cinque Stelle e adesso con il governo Pd-M5s non abbiamo nemmeno quelle”. Tra i dubbi sollevati dal vicepresidente c’è la possibilità di non permettere ai parlamentari di candidarsi al Csm: “La Costituzione parla di incompatibilità, quindi un parlamentare si dimette quando va al Csm, ma non parla di incandidabilità. Se una norma ordinaria tocca una norma costituzionale, qualche dubbio di costituzionalità lo avrei”. Il vicepresidente, reduce da “un’estate a cinquanta gradi”, è convinto che “non si debba svilire un organo di rilievo costituzionale che ha dimostrato, nonostante le difficoltà, di reggere in modo così perfetto. Non abbiamo perso un giorno, abbiamo lavorato con sei consiglieri in meno, compreso il procuratore generale che non c’era più. Abbiamo lavorato da matti. L’istituzione è stata salvaguardata e con essa l’intera magistratura”. Poi il tema delle correnti: “E importante e giusto che ci sia una discussione tra le correnti. Una volta però che un magistrato è eletto, il cordone ombelicale con la corrente deve essere reciso. Per cui quando io sento parlare di destra o si sinistra, non ci sto. I consiglieri lavorano bene se sono liberi e non hanno pressioni”. Luca Palamara ha detto che anche Ermini è arrivato alla vicepresidenza grazie a delle trattative: “Non rispondo, Palamara è un soggetto attualmente incolpato, dunque non posso parlarne. Dico solo che non è un mistero che quella del vicepresidente sia una nomina di natura politica. Ci sono accordi, si parla. Poi però tutto si fa in autonomia”. Prescrizione, Bonafede gioca con i diritti di Sergio Moccia Il Manifesto, 24 novembre 2019 Con lo scontro nella maggioranza sulla prescrizione, la questione giustizia torna all’ordine del giorno nel dibattito politico. Ed è giusto che sia così. Non è questione di aridi tecnicismi, ma di offesa o difesa di diritti fondamentali, sanciti in Costituzione e nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo. C’è da meravigliarsi che il nostro, sempre ridens, ministro della giustizia non abbia utilizzato per questa riforma quella formula tanto “elegante” già riservata alla disciplina della corruzione, che avrebbe potuto contrassegnarsi come “spazza-prescrizione”. Dal momento che, almeno per una parte dei processi, non viene introdotta una mera sospensione della prescrizione come, molto erroneamente, è scritto nel testo proposto per il nuovo articolo 159 comma secondo del codice penale, ma si tratta evidentemente della fissazione del termine finale della prescrizione dopo la sentenza di primo grado. Se si fosse trattato di una sospensione, com’è ben noto agli studenti di giurisprudenza, sarebbe stato consequenziale che il corso della prescrizione, prima o poi, potesse riprendere. Ma non è così, in realtà siamo di fronte ad un vero e proprio blocco della prescrizione. Bloccare la prescrizione dopo il primo grado di giudizio, anche in rapporto a imputati assolti con formula piena, significa calpestare elementari garanzie, senza produrre peraltro alcun effetto positivo in termini di efficienza della giustizia penale. La prescrizione del reato, lungi dal costituire un mero espediente difensivo o un cavillo formalistico, rappresenta un istituto dal nitido fondamento costituzionale. Innanzitutto sul piano della funzione della pena, da intendersi in termini di prevenzione generale e speciale positiva: perché con il passare del tempo il fatto cade progressivamente nell’oblio ed anche il suo autore non rimane lo stesso. Solo in una prospettiva giustizialista, ciecamente vendicativa, si può pensare ad un processo di durata potenzialmente interminabile. Va anche posto nel debito rilievo che, quanto più il fatto oggetto di imputazione diventa lontano nel tempo, tanto più difficile diviene per l’imputato esercitare il diritto di difesa, costituzionalmente sancito. Ed ancora, non si può pensare di assoggettare per un tempo infinito l’imputato alla sofferenza insita nel processo. La ragionevole durata del processo, costituzionalmente sancita, è anzitutto garanzia di libertà e dignità della persona accusata. E allora, stabilire che il reato non possa più prescriversi dopo il primo grado di giudizio vuol dire far sì che il processo continui per anni e anni, nonostante il venir meno di esigenze di prevenzione e a costo di prolungare considerevolmente la sofferenza dell’imputato, al quale viene indebitamente addossato l’intero peso della lentezza della giustizia penale. A ciò si aggiunga che anche le ragioni della vittima risultano ingiustamente sacrificate in un processo sine die. Ma, oltre a violare elementari garanzie della persona, la riforma risulta deleteria sullo stesso piano dell’efficienza. Infatti, per un verso essa incide in misura ridotta sul fenomeno della prescrizione, che, come è noto, si realizza soprattutto nella fase delle indagini preliminari. E, per altro verso, tra le verosimili conseguenze della riforma vi sarà proprio un allungamento dei tempi della giustizia penale, visto il venir meno del rischio della prescrizione del reato. Con grave pregiudizio, ancora una volta, del principio costituzionale della ragionevole durata del processo. In realtà sono altri i rimedi da mettere in campo per un miglioramento dell’efficienza del processo penale che non vada a detrimento dei diritti fondamentali della persona. Primo fra tutti, quello di una coraggiosa depenalizzazione, che libererebbe l’amministrazione della giustizia di carichi inutili ed insostenibili. A questo punto si pone un problema politico: la sinistra si trova a dire la stessa cosa della destra. Ma questo non deve preoccupare, se una cosa è vera non diventa meno vera quando a dirla sono i nostri avversari. All’opportunismo della reticenza va, sempre, contrapposto il coraggio della verità. Caro Travaglio, ora ti spiego che cosa è la prescrizione di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 24 novembre 2019 Il direttore Marco Travaglio è ormai l’ultimo giapponese disposto a sfidare il ridicolo sostenendo che la prescrizione sia la causa della durata irragionevole dei processi. A lui non interessa che tutti, ma proprio tutti coloro che si occupano di processi penali - Csm, docenti di diritto e di procedura penale non uno escluso, oltre che gli odiati avvocati - affermano e certificano l’esatto contrario. Un magistrato non sospettabile certo di indulgenza verso le posizioni delle Camere Penali come Giuseppe Cascini ha recentemente detto che abolire la prescrizione dopo il primo grado è come togliere lo sperone al cavallerizzo: il cavallo se la prende comoda, o addirittura si pianta lì. Niente da fare: dato che questa bufala sulla prescrizione che stimola le impugnazioni gliel’ha detta Davigo, non gli farà cambiare idea nemmeno il Padreterno. Qui mi limiterò ad elencarvi le ragioni - facilmente comprensibili, d’altronde - per le quali l’interesse ad impugnare una sentenza di condanna sia del tutto indifferente alla prospettiva della prescrizione. 1. Vengo condannato in un processo nel quale mi protesto innocente: impugnerò in Appello per essere assolto, che sia sospesa o meno la prescrizione del reato. 2. Vengo condannato in un processo nel quale riconosco di aver commesso il fatto, ma ritengo che sia errata la sua qualificazione giuridica (sono condannato per estorsione, ma ritengo di avere commesso tutt’al più un esercizio arbitrario delle mie ragioni). Ho interesse ad impugnare per vedere corretta la qualificazione giuridica del fatto, ed essere conseguentemente condannato ad una pena assai meno grave, che sia sospesa o meno la prescrizione del reato. 3. Vengo condannato per un reato che ho pienamente confessato, ma ad una pena che reputo esagerata: proporrò l’appello per ottenere una pena più equa, che sia sospesa o meno la prescrizione del reato. 4. Vengo condannato per un reato che ho pienamente confessato e alla pena edittale minima, ma non mi sono state concesse le attenuanti generiche: proporrò appello per ottenerne la concessione, che sia sospesa o meno la prescrizione del reato. 5. Sono reo confesso, la pena edittale è minima, mi sono state concesse le attenuanti generiche ma non fino alla misura massima di un terzo della pena: ho interesse ad impugnare la sentenza per risparmiare anche solo una settimana o un giorno di carcere, che sia sospesa o meno la prescrizione del reato. 6. Sono reo confesso, ho ottenuto il minimo della pena e le generiche in misura massima. Qui non ho aspettative modificative della decisione, ma ho interesse a che la pena vada in esecuzione il più tardi possibile, cercherò di sistemare al meglio la mia vita e quella della mia famiglia prima di pagare il mio debito con la giustizia, nella speranza che possa magari intervenire con il tempo qualche provvedimento clemenziale e qui sì, finalmente, anche - dico: anche nella speranza che possa maturare la prescrizione (ovviamente, se parliamo di reatucci di modestissimo rilievo, perché ormai i termini di prescrizioni dei reati di maggiore allarme sociale oscillano tra i 15 ed i 45 anni e più). Questa è la semplice realtà, la pura e banale verità, che per il direttore Travaglio è tuttavia notoriamente un optional. Ci si dica in quale delle ipotesi sopra elencate l’abolizione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado mi convincerà a non proporre appello. D’altronde, non a caso il 75% delle prescrizioni maturano prima della pronuncia della sentenza di primo grado. Ma Travaglio, si sa, piuttosto che studiarli, i numeri preferisce darli. Ultima avvertenza anti-bufale: quando proponi un ricorso per Cassazione manifestamente inammissibile, dunque solo per guadagnare tempo, la prescrizione del reato retroagisce al momento della proposizione dell’appello; dunque, non è possibile ottenere alcun risultato prescrittivo proponendo ricorsi per Cassazione senza capo né coda. Qualcuno lo spieghi a Travaglio, ed ai suoi (consapevoli) suggeritori. Killer di donne in aumento: più carcere non serve a niente di Angela Azzaro Il Riformista, 24 novembre 2019 Nei giorni scorsi i dati resi noti dall’Eures sono stati una doccia fredda: i femminicidi in Italia sono in aumento. Nel 2018 ci sono state 142 vittime: crescono in particolare le donne uccise all’interno dell’ambito familiare: sono passate da 112 a 119, più 6,3 per cento. In questi anni non si è stati con le mani in mano: sono stati fatti diversi interventi legislativi ma alla fine l’unica iniziativa che è stata messa in moto davvero è l’aumento delle pene. I soldi ai centri antiviolenza arrivano in ritardo, spesso non arrivano e non sono adeguati alle esigenze che sono tante. Nei centri si accolgono le donne, si dà loro assistenza psicologica e legale, le si accoglie in case protette. I fondi non si vedono neanche per gli orfani di femminicidio. Ma non è solo una questione di fondi. In questi anni il populismo penale, o idealismo penale come lo ha chiamato papa Francesco, ha fatto credere che tutti i problemi, anche quello che riguarda la violenza sulle donne, si potessero risolvere con l’inasprimento delle pene. Nel caso della violenza sulle donne, le misure cautelari come l’allontanamento del coniuge violento possono salvare la vita. Ma sono proprio quelle di più difficile applicazione. Quello che sicuramente funziona a livello di opinione pubblica è però l’idea che più pene possano essere un deterrente. I fatti e i dati dimostrano ancora una volta il contrario. Non è solo un fatto di inefficacia. Ragionare in termini di aumento delle pene ha un doppio effetto: si asseconda la convinzione popolar-populista “dell’occhio per occhio” e si sposta l’attenzione dalla vera sfida. Questo è vero sempre, per qualsiasi problema che riguardi il codice penale. Ma lo è ancora di più quando parliamo di “femminicidio”: la violenza degli uomini sulle donne avviene per la maggior parte dei casi all’interno della coppia, cioè dentro un modello di relazioni che si ha paura di mettere in discussione. Come ha scritto Lea Melandri anche su questo giornale: uccidere non è amore, ma l’amore c’entra. E quella idea di amore, che ha radici storiche profonde, va messa in discussione in ogni ambito. È una sfida che parte dalla scuola, attraversa la società e mette in gioco i rapporti uomo-donna. Chi governa o chi ci rappresenta nelle istituzioni non può certo farsi carico di cambiamenti epocali, ma non può neanche pensare di usare lo schermo del carcere per non affrontare le questioni in maniera più strutturata e utile. Le cose da fare sono tante: i soldi ai centri, l’educazione nelle scuole, i fondi per le donne che decidono di lasciare il marito o il fidanzato violento: per farlo serve una casa, un lavoro, una macchina. Altrimenti anche quando si è a rischio di perdere la vita, non si riesce a fare il passo dovuto. Anche il “Codice Rosso” è nato dentro la logica punitiva: alcune norme possono essere valide, ma la cultura di fondo è sempre quella che non riesce a pensare lo Stato se non come autore di interventi punitivi o burocratici. Inutile punire, dopo: quando la donna è già morta. Aiutiamo chi fa prevenzione e chi, giorno dopo giorno, aiuta le donne. Femminicidi in aumento ma i fondi latitano di Alessandra Pigliaru Il Manifesto, 24 novembre 2019 Solo in Italia, ogni 72 ore una donna viene uccisa. L’ultima, trovata morta ieri in Sicilia, aveva 30 anni. Secondo gli ultimi dati Istat, strutture con meno di 1 euro per ogni donna accolta e a rischio chiusura. Ieri a Roma la grande manifestazione di Non Una Di Meno. L’ultimo femminicidio è avvenuto poche ore fa, alla vigilia della grande manifestazione organizzata da Non Una Di Meno a Roma in cui a convergere sono state associazioni, centri antiviolenza, movimenti, donne e uomini che hanno ribadito il proprio no alla violenza maschile contro le donne. Si chiamava Ana Maria Lacramioara Di Piazza e aveva 30 anni (si attende l’esito dell’autopsia ma pare fosse incinta), a ucciderla l’uomo con cui aveva una relazione da circa un anno, sposato che, dopo aver tagliato la gola alla donna e averla bastonata sul capo, ha ripulito le tracce, occultato il corpo tra le frasche e cominciato la sua giornata di lavoro di imprenditore, con una pausa pomeridiana dal barbiere. A Partinico, in Sicilia, è successo tuttavia ciò che è riconoscibile ad altre latitudini, non d’Italia ma del mondo, con un copione simile nella sua dinamica simbolico-patriarcale: quando cioè le donne esplicitano la propria libertà, che sia l’uscita da un ruolo di clandestinità (come a quanto pare era risolta a fare Ana Maria) o decidano di separarsi e lasciare chi fino a quel momento le aveva destinate a un preciso compito. La violenza arriva fino all’eliminazione fisica, siano essi ex o attuali compagni, mariti, padri, fratelli, essere situati in piccoli paesi, che siano al sud come al nord, in Italia o fuori dal territorio nazionale. Quando dunque si riportano i dati bisogna considerarli sia nella incidenza numerica (ogni 72 ore, solo in Italia, una donna viene uccisa - tre volte su quattro in casa) che nella sostanza: l’istinto proprietario maschile che è comune denominatore delle violenze, sì di genere visto il carattere soverchiatore e fallocentrico di un unico genere su un altro. In questo scenario non serve urlare all’emergenza considerato che il fenomeno è, nella sua totale gravità, strutturale - ovvero sistemico, culturale e politico oltre che sociale - eppure i centri antiviolenza, presidi tra i più preziosi della libertà femminile, per le donne e i propri figli, sono in una inaccettabile sofferenza. Solo pochi giorni fa Lella Palladino, presidente di Di.Re (Donne in rete contro la violenza), anche loro in piazza ieri, segnalava quanto pochi e mal distribuiti siano geograficamente i centri e quanto residuali siano i sostegni pubblici (Mariangela Zanni, consigliera D.i.Re, leggendo i recenti rilevamenti Istat relativi al 2017, dichiara che, suddividendo la cifra totale, ogni donna accolta dalle strutture ha avuto a disposizione 76 centesimi al giorno). Nei confini del “codice rosso”, non sembra inoltre esserci possibilità di assumere soluzioni all’apparenza elementari come per esempio quella di rendere più agevole lo svincolo dei quattrini, già esigui, che giacciono talvolta nelle casse dei Comuni: capita all’associazione “Thamaia” di Catania, ormai al collasso, che solo pochi giorni fa ha chiesto pubblicamente alle istituzioni competenti che fine abbiano fatto i 70 mila euro destinati al centro antiviolenza; stessa cosa per “L’albero di Antonia” di Orvieto a rischio operatività per ritardo di fondi; altrettanto però si verifica a Potenza, lo raccontava venerdì al manifesto la presidente di “Telefono Donna”, Cinzia Marroccoli. Ecco allora che in un paese che ama l’allarme sguaiato, quando non l’odio inferocito contro il vivente, così come la rassicurante esistenza delle famiglie tradizionali - di cui anche il femminicida di Partinico è un esemplare - bisogna proseguire a presidiare: nelle piazze, nelle librerie, nelle scuole fino ai tribunali con associazioni femministe costituitesi parti civili nei processi - a Ravenna ma anche all’Aquila, ad Alghero e in molti altri luoghi è già in essere. Bisognerà stabilire infine che il dato che risuona dalla piazza femminista e transfemminista di ieri è il contrasto alla violenza maschile e di genere, non solo in Italia ma nel mondo. Riconoscendo che il femminismo (e le sue pratiche), nel suo movimento e nelle sue ondate, non è un intervallo conciliativo bensì un pungolo esperienziale radicale di irriducibilità, capace tuttavia di restare generativo: contro una cultura della morte, sfondo di un neoliberismo narcisista e sfrenato. Sembrerebbe una guerra se non fosse invece esercizio ostinato di una pratica che batte con decisione, come in quei telai antichi, una trama che si cuce - e scuce - ogni giorno, in ogni anfratto o paraggio più o meno visibile. Questi tessuti sono i panuelos argentini per la legalizzazione dell’aborto, come quelli fucsia e festosi di Ni Una Menos, le maschere delle luchadoras di Lucha y Siesta fino ad altre stoffe che sono quelle della complessa relazione tra donne. Non è facile tenere il punto in un orizzonte che tende a diminuire quando a screditare o smantellare i luoghi delle donne, a partire dalle proprie parole. Ecco perché la rivolta deve continuare nella sua marea inesorabile e non negoziabile. Riguarda tutte e tutti. Don Ciotti, una vita (sotto scorta) contro le mafie e la droga di Gian Paolo Ormezzano Corriere della Sera, 24 novembre 2019 Parla il fondatore di Libera e del Gruppo Abele: “C’è una droga di cui nessuno parla, ma che produce effetti non meno devastanti: il potere”. C’è la Torino buona dei santi operai (Bosco, Cafasso, Allamano...) contro diavoletti e spiritelli utili per sedute medianiche acchiappa gonzi e finte messe nere, del miracoloso Cottolengo contro la pubblicizzata beneficenza pelosa dei riccastri, del Sermig pro migranti contro il razzismo residuo (questi terroni...) o rinascente. E del Gruppo Abele (dal 1965, primo nome Gioventù Impegnata) con oltre cinquanta attività diciamo di servizio, ergo contro gli ipocriti dell’assistenza, del bla-bla-bla del dire tanto senza fare nulla. Abele come quel buono che si sa, con il cattivo Caino che diceva “sono forse io il custode di mio fratello?”, fondatore ancorché non ancora “don” Luigi Ciotti (Pieve di Cadore, 10 settembre 1945), famiglia operaia, all’inizio degli Anni 50 emigrata a Torino per lavoro, prima residenza il capannone del cantiere dove il padre di Luigi lavorava come muratore. Devo passare alla prima persona, spero un bel po’ singolare. Il giovane giornalista sportivo che incontra il giovane seminarista, e nasce un’amicizia forte che sta per compiere il mezzo secolo. Il giornalista che ha la prima figlia e la seconda e ha don Ciotti cioè l’amico Luigi o Gigi che gli manda in casa a fare da perfette baby sitter le ragazze strappate alla strada, alla prostituzione. Il battesimo, padrino don Ciotti, del terzo figlio del giornalista officiato in un capannone industriale fra giovani che hanno lasciato la droga, cantano, brindano con vino rosso delle vigne di Bersellini allenatore del Torino. Forse è per tutto questo che posso fare a don Luigi Ciotti, adesso più noto in Italia come fondatore di Libera (1995) contro le mafie, un’intervista magari un po’ diversa da quella quasi rituale del giornalista arrembante con e se del caso contro il personaggio celebre. La prima domanda è preoccupata: ti voglio un bene pieno di riconoscenza e mi preoccupa la tua salute. Che ne è delle minacce di morte che accompagnano il tuo lavoro per Libera? Ti so scortatissimo, e una volta mi mettesti a parte di un piano circostanziato e terribile... “Sono tenuto a non rendere pubblico questo risvolto del mio impegno. Posso dire che nel corso degli anni c’è stata una escalation grave ed allarmante, culminata con l’ordine di uccidermi emesso dal boss di Cosa Nostra Totò Riina, intercettato in carcere. Parlo di escalation, perché già negli anni Settanta il Gruppo Abele, impegnato anche contro le mafie della droga, riceveva minacce”. Accetteresti una carica politica? “Me l’hanno offerta alcune volte: mai avuto dubbi a rifiutare. Politica è per un cristiano mettersi al servizio del bene comune, diretta conseguenza del servizio a Dio. Paolo VI definì la politica come “la più alta ed esigente forma di carità”. Per questo nel mio piccolo ho sempre cercato di saldare Cielo e Terra, riconoscendo il volto di Cristo nei tanti “poveri cristi” incontrati nel mio cammino. Papa Francesco ha detto che la religione non esiste solo per preparare le anime al Cielo”. Cosa pensi delle Madonne e dei rosari di Salvini? “Una bestemmia, un sacrilegio, un uso della religione offensivo, totalmente inaccettabile. Chi si professa credente e poi respinge i “poveri cristi” chiudendo porti e costruendo muri, calpesta lo spirito e l’essenza del Vangelo. Oltre che della Costituzione”. Tu, come Sandro Ciotti, celebre radiocronista, siete del Cadore: per nascita tu, per avi lui. Là c’era nel Medioevo una compagna di mercenari privi di anagrafe, per chiamarli dicevano “ehi tu” che in dialetto veneto fa “ciò-ti”. Da qui compagnia dei Ciò-ti, dei Ciotti, e il vostro cognome. Una premonizione? La vocazione religiosa è una chiamata... “Vocazione più che scegliere è essere scelti, strumenti di un disegno nel quale riconosciamo la nostra essenza. La mia la comprese il cardinale Pellegrino che, facendomi sacerdote, mi affidò come parrocchia la strada, dove Terra e Cielo spesso s’incontrano e si abbracciano”. Abbiamo un amico comune, Gianfranco Caselli, grande magistrato. Tu blando tifoso juventino assisteresti a un derby strizzato fra noi due supergranata? “Ero ragazzo quando, inizio anni Sessanta, ho messo piede in uno stadio. Poche volte e stop. Penso che lo sport tutto e il calcio in particolare dovrebbero essere ripensati alla base, in funzione del loro valore sociale e del loro enorme potenziale educativo. Invece troppo spesso gli stadi diventano luoghi non di sport ma di insulti, di aggressione e persino d’infiltrazione mafiosa”. Liberalizzazione delle droghe leggere. A che punto siamo? “È un tema delicato che non ammette semplificazioni. Occorre porsi il problema della domanda, non solo quello dell’offerta. Senza contare che le droghe sono già di fatto liberalizzate: il mercato è “affare” delle mafie, in concorso o lotta fra loro, secondo appunto logiche di mercato. Bisogna puntare su educazione, cultura, lavoro. Il problema della droga è quello di una società frantumata, diseguale, che deruba il futuro delle persone, ridotte a strumenti di profitto. E c’è poi una droga di cui nessuno parla, ma che produce effetti non meno devastanti: la droga del potere”. Te ne offro una dose teorica: hai a disposizione un atto di potere, e cosa fai? “Niente. Non credo nel potere e dunque meno che mai nel potere assoluto. Credo nel costruire le cose insieme, nel noi. Bisogna liberarsi dall’io, che nel potere trova uno strumento di affermazione e di distruzione, ponendosi al di fuori ed al di sopra della vita. La vita non è in funzione dell’io, ma l’io della vita”. Guido Ceronetti scriveva che i torinesi, e tu ormai lo sei, fanno cose anche buone ma a condizione che non si sappia, per paura, nobile ma comoda, di dare disturbo. Io sono amico di Giampiero Boniperti, gloria juventina: lo dicono avaro, è generosissimo, guai se lo si sa... “Si può vivere la propria ricchezza come un mezzo e non un fine. Come uno strumento per limitare diseguaglianze e ingiustizie sociali. Insomma è possibile non avere problemi economici ed essere generosi. Come Giampiero Boniperti”. Per non finire col calcio, come spesso a Torino accade: don Ciotti sa che io so che tanti anni fa una malattia era planata su di lui, eravamo preoccupati, lui ringrazia i medici, ma io dico che chi crede ai miracoli è autorizzato a pensarci su. D’altronde è un miracolo Libera nel Paese della supermafia, è un miracolo ormai “lungo” il Gruppo Abele, che è case, comunità, servizi di accoglienza, società editrice (due riviste, tanti libri), progetti in Africa e una sede in una vecchia fabbrica ristrutturata offerta da Gianni Agnelli, che apprezzò assai la vicinanza di don Ciotti al suo povero figlio suicida Edoardo, “fragile e profondo” secondo il sacerdote. Cucchi, una famiglia in lotta per tutti noi di Roberto Saviano L’Espresso, 24 novembre 2019 È stata una vittoria importante quella dei parenti di Stefano. Perché combattuta con grande coraggio, e soprattutto ottenuta attraverso il Diritto. “Se tu vuoi vietare l’esercizio di una facoltà umana praticata a livello di massa, tu fallirai e sarai costretto all’illusione autoritaria del potere che colpisce il “colpevole” e lo colpisce a morte”, scrisse Marco Pannella nel 1973. In queste parole come fare a non leggere ciò che ha significato per l’Italia la vicenda Cucchi? La vicenda Cucchi, sì, perché non riguarda solo Stefano, ma anche la sua famiglia, una famiglia che non è arretrata, che non ha avuto paura, o che forse ne ha avuto, ma si è comunque aggrappata con una determinazione incredibile a tutto il coraggio che aveva a disposizione. Pannella, nella frase che ho ricordato, usa le virgolette per la parola “colpevole” e lo fa perché spessissimo si punisce la vittima, credendola qualcos’altro. Si punisce la vittima spacciandola per colpevole o peggio: la vittima è vittima, ma una volta morta, deve diventare qualcos’altro per evitare che il nostro sistema di “valori” vada in frantumi. I Radicali si sono negli anni occupati di tutti quei casi, che poi sono persone, in cui “colpevoli” hanno perso la vita mentre erano affidati alle cure o alla tutela dello Stato; quindi so che se non racconto qui ciò che è accaduto a Federico Aldrovandi, a Giuseppe Uva e a Riccardo Magherini sto omettendo una parte importante della storia della difesa dello Stato di Diritto, sto omettendo informazioni che per voi che leggete potrebbero essere importanti per comprendere come si arrivi al caso Cucchi; per comprendere fino in fondo con quale senso di ingiustizia ci siamo specchiati nel volto tumefatto di Stefano che Ilaria ha avuto il coraggio di mostrarci. In quel volto abbiamo visto i nostri volti perché sappiamo di non essere al riparo, perché non crediamo di essere migliori, immuni, lontani; ci siamo specchiati perché siamo uomini e sappiamo che ciò che accade a uno di noi, può accadere a tutti. E Ilaria ha mostrato il corpo martoriato di Stefano sapendo bene almeno due cose: che avremmo ricordato suo fratello così e non come in quelle foto, in cui sono insieme, fratello e sorella, e sorridono. E che chi ha in famiglia persone cadute nella rete della tossicodipendenza è solo. Le famiglie dei tossicodipendenti sono sole, sole a gestire problemi troppo più grandi di loro. Sole e spaventate, tra l’incudine e il martello. E nessuno, se non poche, pochissime persone, a tendere una mano. Non è facile lottare per avere giustizia dopo la morte di un familiare che ha avuto problemi di droga, decidere che nonostante quello che penseranno le persone, nonostante quello che diranno, avere giustizia è l’unico modo per non perdere fiducia in tutto. “Da oggi potrai riposare in pace”, dice Ilaria Cucchi pensando a suo fratello, lei che dieci anni fa aveva fatto una promessa e, agendo nel Diritto, l’ha mantenuta. Aveva promesso che avrebbe lottato perché sulla morte di Stefano emergesse la verità, e cioè che Stefano non è morto per droga - perché “tossico”, “drogato”, “spacciatore”, sì, così negli anni lo hanno chiamato - ma perché picchiato a morte. Servirebbe un trattato per dire quanto la lotta della famiglia Cucchi nel Diritto sia preziosa per il nostro Paese perché ha portato alla luce, una volta per tutte, un fatto che deve essere chiaro: chi è affidato allo Stato deve sentirsi al sicuro e non minacciato. E, per corollario, che chi fa uso di droghe, va curato e non punito. Mi ha commosso la foto di Ilaria Cucchi in Tribunale, mi ha commosso vedere la sua mano stretta nella mano del maresciallo presente in aula, che l’ha portata alla bocca e l’ha baciata: “Finalmente dopo 10 anni è stata fatta giustizia”, ha detto quel carabiniere mentre compiva un gesto antico. Dal 2006 vivo tra carabinieri e so che questa sentenza ti rompe dentro se sai che qualcuno, con la tua stessa missione, ha tradito ciò in cui credi. Ma so anche che i carabinieri che conosco non permetterebbero mai che un colpevole si nascondesse dietro la loro divisa. La verità sulla tua morte, caro Stefano, è importante per te e per la tua famiglia, ma è fondamentale per noi, perché è l’affermazione dello Stato di Diritto. E oggi sappiamo che non c’è divisa sotto la cui protezione i colpevoli potranno trovare riparo. Mai più. Napoli. Dal carcere alla cybersecurity grazie a Cisco: “In cella l’occasione per cambiare” di Rossella Grasso Il Riformista, 24 novembre 2019 “Prima di entrare nel carcere di Secondigliano non sapevo cosa fosse la Cisco. Adesso lo so e per me significa anche una occasione per il futuro”. A raccontarlo è Igor Aleksic, 40 anni, serbo, che dopo tre anni nel penitenziario sta scontando gli arresti domiciliari. Da quando è iniziata la sua vicenda carceraria il suo mondo è stretto in 4 mura, ma lo studio prima e le connessioni poi, gli hanno aperto sterminati orizzonti grazie alla Cisco Academy. Si tratta di local academy che la grande multinazionale delle connessioni ha attivato in luoghi insoliti come le scuole o nei penitenziari. E diventa così l’occasione per imparare e cambiare la prospettiva di vita. Proprio come è successo a Igor che, comunque vada la sua vita, sa già bene cosa vuole fare quando sarà libero: “Voglio lavorare come tecnico in una grande azienda dove serve la sicurezza di rete”. Igor ci riuscirà perché figure professionali con la certificazione “Cisco Ccna Routing & Switching” come la sua, sono molto ricercate. “Appena finirà la parte ‘security’, il livello successivo della sua certificazione, praticamente lo andranno a prendere a casa per farlo lavorare - dice Lorenzo Lento, il Teacher Local Academy Cisco che lo ha seguito negli studi - Igor e gli altri detenuti che come lui hanno fatto l’Academy non dovranno cercare lavoro, sarà il lavoro a cercare loro. Stamattina uno dei miei colleghi mi ha detto che gli servivano 7 persone certificate Cisco Ccna. Io gli ho detto che ne conoscevo ma che si trattava di detenuti. Lui mi ha risposto di portarli a fare un colloquio. Non mi ha chiesto nulla, vuole solo farli lavorare”. Cisco dal 2000 fornisce tutte le attrezzature necessarie per aprire le local Academy in varie carceri, tra cui a La Spezia, a Milano Opera e Bollate, a Firenze presso l’istituto per minori, a Napoli a Secondigliano, poi Monza e Regina Coeli. Lorenzo Lento, che da poco è stato nominato Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica da Mattarella, dal 2013 al 2018 ha attivato 160 classi, frequentate da circa 10 -15 studenti per corsi di vario livello. Entra ed esce dalle carceri per la sua energica attività formativa e per questo preferisce non essere ripreso in volto. “La Cisco Academy è un’organizzazione di formazione instaurata da Cisco dove una serie di curriculum su specializzazione di networking, hardware e software, vengono distribuite su una piattaforma in e-learning. All’interno del carcere i detenuti partecipano al corso ma quando escono mi contattano e vogliono continuare a studiare. Così io attivo per loro la piattaforma e gratuitamente continuano la loro formazione a distanza. Poi fanno gli esami per le certificazioni. E ottengono sempre ottimi risultati”. Così è stato anche per Igor che una volta trasferito agli arresti domiciliari ha continuato a studiare. “Non avevo il Pc e ho studiato dal mio smartphone - racconta - Ho superato gli esami con un punteggio molto alto e ne sono molto felice”. Superati i primi livelli base, gli allievi dell’Academy devono affrontare 45 difficili esami in lingua inglese. “Si impegnano moltissimo - continua Lento - e alla fine agli esami riescono a ottenere punteggi molto alti. Spesso questi ragazzi hanno a malapena la licenza media e non hanno mai acceso un Pc in vita loro, eppure studiano tanto e riescono benissimo. C’è gente che proviene da situazioni carcerarie precedenti veramente terribili, anche dall’alta sicurezza, eppure si sono messi in gioco. Hanno una grandissima volontà. Molti mi dicono che lo fanno per i loro figli, perché quando escono vogliono insegnargli qualcosa di diverso da ciò che è stato il loro passato”. Tutto questo è fatto spesso off-line perché l’unico carcere dove esiste un laboratorio di informatica connesso (con le limitazioni di circostanza) è Bollate. Solo in occasione degli esami il tutor, autorizzato dalla direzione, porta con sé una chiavetta internet. “È stato difficile senza avere connessioni studiare - racconta Igor - A un certo punto ho anche chiesto di trasferirmi a Bollate per continuare meglio gli studi in un laboratorio di informatica vero. Nonostante tutto ci sono riuscito”. “In carcere non c’è quasi niente da fare - continua Igor - L’Academy è stato un buon modo per passare il tempo duro del carcere. Non è stato per nulla facile studiare e superare gli esami però avevo molto tempo per poter approfondire”. La qualità dell’iniziativa è testimoniata dai numeri: “Nessuno dei detenuti che hanno frequentato il nostro corso è rientrato in carcere - spiega con orgoglio Lorenzo - Recidiva zero”. Lorenzo ha aiutato Igor a compilare il suo Curriculum Vitae per le aziende. “Ovviamente c’è un buco di anni in cui c’è solo Corso Cisco Ccna e poco altro però questa cosa viene sopperita dalla professionalità di questo tipo di formazione che non ha assolutamente altri prerequisiti. La sicurezza informatica oggi è uno di qui requisiti per entrare nel mondo del lavoro. C’è una richiesta incessante. In questo momento Igor è ai domiciliari e non può muoversi ma appena sarà libero ci saranno delle offerte di lavoro per lui”. Napoli. I detenuti di Secondigliano e il Golfo dietro le sbarre di Marco Di Caterino Il Mattino, 24 novembre 2019 Nel grigio cortile dell’ora d’aria all’opera venti carcerati-studenti. Pavimento azzurro e sulle pareti il paesaggio coloratissimo della città. Dal grigio scuro del cemento armato all’azzurro del mare del golfo di Napoli con vista sui Faraglioni di Capri. E se lo sguardo poi spazia a 360 gradi dal Maschio Angioino a Castel Sant’Elmo e fino a Castel dell’Ovo, sotto l’ombra meravigliosa e terribile del Vesuvio, per un’ora, quella del “passeggio”, i detenuti del carcere di Secondigliano si immergono in una realtà sorprendente. Terapeutica. Che educa al colore, al bello, e che riesce a dare “un’anima dei luoghi” anche a un carcere. Accade nel penitenziario di Secondigliano, dove un progetto interdisciplinare rivolto ai corsisti del Cpia Napoli Città 1 della sede carceraria (i cosiddetti corsi serali) ha coinvolto venti detenuti dei reparti Adriatico e Tirreno, iscritti al percorso che porta alla licenza di scuola media. I detenuti hanno ridato vita al cortile destinato all’ora d’aria dipingendo sulle pareti il paesaggio di Napoli, quello che finché sconteranno la loro pena non potranno vedere nella realtà. Ma il lavoro che ha portato a questo risultato è stato lungo e articolato: “I corsisti - racconta la professoressa Mariangela Cimma, responsabile dell’iniziativa - dopo aver elaborato schemi grafici e disegni, hanno realizzato un modello in cartone in scala 1:50 del passeggio, con la riproduzione dei disegni sulle tre pareti e sul pavimento, per poi passare alla realizzazione pratica con vernici e colori”. Un percorso sviluppato “al fine di favorire un processo di educazione ambientale e di educazione al bello - sottolinea Ciurma - con positive ricadute sul benessere fisico e psicologico non solo dei corsisti detenuti, così impegnati anche in attività di tipo manuale e laboratoriale, ma di tutti gli altri fruitori dell’ambiente carcerario, dagli agenti agli educatori, dagli psicologi al personale medico-sanitario”. Il golfo di Napoli dietro le sbarre è stato presentato e inaugurato dalla direttrice del carcere di Secondigliano, Giulia Russo, con Claudia Nannola, direttrice del reparto Adriatico, alla presenza del dirigente scolastico del Cipia Napoli Città 1, Gennaro Rovito, dei docenti della sede carceraria, e da quattro emozionatissimi detenuti, con ancora pantaloni e giubbini “graffiati” da sbuffi di vernice fresca. “Un’iniziativa lodevole, da implementare dove è possibile - ha detto la direttrice del carcere - al fine di attuare quei percorsi di risocializzazione reale dei detenuti. Per questo devo complimentarmi con i docenti. Sono convinta che il carcere debba essere una casa di vetro e interagire con la società esterna che deve essere poi in grado di accogliere le persone che escono dal carcere”. Soddisfatto il preside Rovito: “La scuola, come il carcere è uno specchio, e spetta ai docenti e agli operatori carcerari trasformare quello specchio in una finestra. Oggi, grazie a questo progetto, abbiamo aperto più di una finestra”. Agrigento. Carcere Petrusa, il Garante dei detenuti scrive al Ministro Bonafede grandangoloagrigento.it, 24 novembre 2019 “Poco personale, una grave situazione infrastrutturale e carenze nell’assistenza sanitaria”. Il garante regionale dei detenuti Giovanni Fiandaca, ha inviato ieri una lettera al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede sottolineando “l’esigenza improcrastinabile di rimediare alle gravi e molteplici carenze di svariata natura da tempo riscontrabili nella casa circondariale Pasquale Di Lorenzo di Agrigento”. Nella lettera, Fiandaca fa il punto su tutte le carenze riscontrate nell’istituto penitenziario e sulle segnalazioni fatte nel tempo dal suo ufficio e, in ultimo, dal nuovo provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Cinzia Calandrino. Primo passo deve essere l’avvio di “una manutenzione straordinaria ad ampio raggio della struttura carceraria”. “Assai opportuno - sottolinea il garante - che lo stesso presidente della Regione abbia ritenuto di dovere unire la sua voce per ribadire la necessità che tutti i soggetti istituzionalmente responsabili realizzino, in tempi ragionevoli, gli interventi necessari per migliorare le condizioni strutturali e di funzionamento, insieme con le condizioni di vita detentiva, all’interno dell’istituto Pasquale Di Lorenzo di Agrigento”. Carinola (Ce). Lavori di pubblica utilità, convenzione con Comune di Cancello ed Arnone Ristretti Orizzonti, 24 novembre 2019 La Direzione dell’istituto penitenziario di Carinola, da sempre attenta a sollecitare e promuovere la piena adesione dei detenuti al percorso trattamentale, vanta diverse convenzioni con enti pubblici per lo svolgimento di lavoro di pubblica utilità. Questo strumento rappresenta una modalità di riparazione e risarcimento del danno causato alla società attraverso la commissione del reato, attraverso lavori con finalità sociali. Nella giornata del 21.11.2019 è stata firmata una nuova convenzione tra il sindaco del Comune di Cancello ed Arnone ed il Direttore dell’istituto di Carinola, dott. Brunetti, per lo svolgimento di lavori di pubblica utilità. Si tratta oramai di una esperienza consolidata che sta raccogliendo sempre più adesioni; la collettività accoglie i detenuti che prestano lavoro gratuito e si riappropriano di momenti di quotidiano scambio. Il Direttore, dott. Carlo Brunetti Lanusei (Nu). Carcere a rischio, legali in assemblea di Giusy Ferreli La Nuova Sardegna, 24 novembre 2019 Gli avvocati discutono sulla paventata chiusura del “San Daniele”. Nessuna nuova, buona nuova. Almeno per il momento. Nella scrivania di Maurizio Veneziano, provveditore regionale alle carceri, non è arrivato alcun provvedimento che decreta la chiusura del carcere di Lanusei. Lo riferisce il sindaco Davide Burchi all’indomani dell’incontro con la massima autorità dell’amministrazione penitenziaria in Sardegna. “Tutto ciò - commenta l’amministratore comunale - fa ben sperare perché chiudere un istituto di pena e organizzare il trasferimento dei detenuti non è un’impresa di poco conto”. Il primo cittadino, nella sua duplice veste di amministratore e avvocato del Foro ogliastrino, incassa le rassicurazioni del funzionario statale, incontrato mercoledì sera a Cagliari, ma continua a tenere alta la guardia dopo le indiscrezioni sulla possibile chiusura della casa circondariale rilanciate dal deputato e segretario regionale della Lega, Guido De Martini, prima e dall’assessore regionale ai Trasposti, l’ogliastrino Giorgio Todde, poi. “È chiaro - chiosa il sindaco Burchi - che una scelta di questo genere avrebbe ripercussioni immediata anche sul Tribunale, già in affanno per la mancanza di giudici, e di conseguenza sull’intero territorio che non può sopportare ulteriori ridimensionamenti dei servizi”. I due scottanti argomenti saranno al centro dell’assemblea straordinaria delle toghe convocata per questa mattina da Gianni Carrus, presidente del Consiglio dell’ordine degli avvocati. Dalla riunione potrebbero scaturire nuove proteste in difesa del carcere che, già nel 2017 era finito sotto la lente d’ingrandimento del Ministero della giustizia. Allora ci fu una mezza sommossa popolare che fermò ogni velleità di chiusura. A preoccupare gli operatori della giustizia e gli amministratori comunali, tuttavia, non è soltanto la ventilata(ma mai confermata) chiusura del carcere di san Daniele ma anche la carenza di organico nel presidio di giustizia ogliastrino. Qui, i procedimenti, sia quelli penali sia quelli civili, stanno subendo innumerevoli rinvii a causa della mancanza di giudici e il timore è che non si riesca ad assicurare tempi ragionevoli per la celebrazione dei processi. Il terzo tassello della vertenza sui servizi riguarda, infine, la sanità. Anche in questo caso l’incertezza regna sovrana con l’ospedale ridotto ai minimi termini per mancanza di medici. Mantova. “Il carcere ha fallito”, il movimento No Prison individua altre soluzioni Gazzetta di Mantova, 24 novembre 2019 “Il carcere è un luogo di odio e cattiveria, l’ultimo avamposto manicomiale del nostro Paese. Un baraccone che costa allo Stato ogni anno tre miliardi di euro. Un luogo che ha fallito nella sua missione e che andrebbe chiuso”. Livio Ferrari, scrittore, cantautore ed esperto di politiche penitenziarie, ha presentato al centro culturale Baratta il libro “Basta dolore e odio. No Prison”. Il volume raccoglie interventi di intellettuali europei, tra i quali lo stesso Ferrari, nei quali sono elencate le motivazioni secondo le quali il sistema carcerario non sarebbe parte della soluzione al problema del crimine. Ferrari, con lo scomparso Massimo Pavarini, è l’autore del manifesto No Prison che, dopo sette anni di gestazione, ha visto l’11 ottobre a Roma la nascita del movimento omonimo. “La prigione ha fallito sulla prevenzione e non si è dimostrata un deterrente. Stesso discorso sulla rieducazione. In più non restituisce nulla alle vittime ed è uno spazio dove accadono atti di violenza. Molti ritengono che un mondo senza carceri sia utopico. Un secolo fa si diceva lo stesso di chi voleva eliminare la pena di morte, prima ancora per le punizioni corporali”. “Più del 90% delle persone che sono oggi in carcere, potrebbero essere ben diversamente responsabilizzate e controllate in libertà attraverso opportunità pedagogiche ed assistenziali, modalità lavorative e formative, risposte economiche, opportunità risarcitorie. Invece chi esce dal carcere, oggi, viene marchiato per anni, anche una volta scontata la condanna”. L’evento, organizzato da Csc, Centro solidarietà del carcere di Mantova, e dal Baratta, rientra nelle iniziative del Festival dei Diritti. Trani (Bat). “Le parole del carcere e della comunità”, domani tavola rotonda Giornale di Trani, 24 novembre 2019 Innanzitutto la dignità. E poi anche responsabilità, inclusione, territorio, sicurezza, salute e operatori. Sono “Le parole del carcere e della comunità”. Ovvero l’iniziativa della Funzione pubblica Cgil Bat organizzata per discutere delle difficoltà del personale sia della Polizia penitenziaria che dell’area amministrativa e trattamentale ma anche per approfondire le progettualità messe in campo all’interno delle strutture penitenziarie di Trani e quindi del rapporto con il territorio e la città in termini di inclusione. Il tema sarà al centro di una tavola rotonda organizzata nell’auditorium di San Luigi a Trani, lunedì 25 novembre, a partire dalle ore 15.30. Ad introdurre i lavori sarà la segretaria generale della Fp Cgil Bat, Liana Abbascià. Seguiranno i saluti della segretaria della Fp Cgil Puglia, Patrizia Tomaselli e del direttore generale della Asl Bat, Alessandro Delle Donne. Interverranno: Adriana Bottiglieri, coordinatore regionale Dap Fp Cgil Puglia; Giuseppe Altomare, direttore degli istituti penali di Trani; Amedeo Bottaro, sindaco di Trani; Biagio D’Alberto, segretario generale Cgil Bat; Piero Rossi, garante regionale dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale; Gennaro Ricci, coordinatore polizia penitenziaria Fp Cgil Puglia; don Raffaele Sarno, cappellano del carcere di Trani. A concludere l’iniziativa sarà Florindo Oliviero, segretario nazionale Fp Cgil. Modera la giornalista Michela Alicino. “Abbiamo organizzato questa iniziativa perché ci sembrava giusto riflettere su uno spaccato molto importante del nostro comparto e della società in generale, quello delle carceri. Non solo in termini esclusivamente sindacali che riguardano la situazione degli operatori all’interno della struttura ma anche intrecciando questo aspetto a quello più umano e relazionale che investe la relazione con ciò che c’è fuori il penitenziario e dunque il territorio e le famiglie stesse dei detenuti, a partire dai minori. Questa tavola rotonda segue una visita che abbiamo fatto all’interno del carcere di Trani all’inizio di ottobre in cui ci siamo resi conto di grandi difficoltà ma anche di importanti sforzi fatti dall’amministrazione penitenziaria. Serve fare molto ancora ma siamo convinti che serva anche il coinvolgimento di tutte le istituzioni perché tanti sono i temi in ballo e li abbiamo voluti sintetizzare in alcune parole chiave il cui significato (e intreccio) tenteremo lunedì di spiegare”, commenta la segretaria generale della Fp Cgil Bat, Liana Abbascià. Palermo. “Spunti di Cambia-Menti”, domani convegno al carcere Pagliarelli lettera32.org, 24 novembre 2019 Proseguono, avendo sempre ben presente l’importanza di un intervento che dal semplice ascolto passi ai fatti, gli incontri e le iniziative che “Amorù. Rete territoriale antiviolenza” ha messo in cantiere per raccontare di un percorso di sinergie nell’ambito del progetto, promosso dall’Organizzazione Umanitaria “Life and Life” con il sostegno di Fondazione con il Sud. Una serie di eventi, promossi in occasione della “Giornata Internazionale per l’eliminazione della Violenza contro le Donne”. Alle 10 di lunedì 25, ci si ritroverà nel Teatro della Casa Circondariale “Antonio Lo Russo Pagliarelli” per il seminario dal titolo “Spunti di Cambia-Menti”, rivolto proprio alla popolazione detenuta. L’iniziativa, giunta quest’anno alla terza edizione, sarà condotta dalla psicologa dell’ Asp, Claudia Bongiorno, e si svolgerà con la messa in scena di alcuni monologhi recitati dall’attrice Arianna Scuteri e di alcuni canti interpretati da Eliana Campanella, accompagnata musicalmente da Franco La Iuppa, che suggeriranno spunti di riflessione per il dibattito con la popolazione detenuta e i professionisti, psicologi ed educatori. Interverranno il giornalista, Ismaele La Vardera, la vice presidente della Life and Life e responsabile della Rete Antiviolenza Amorù, Valentina Cicirello, la responsabile della struttura per donne e bambini vittime di abusi e maltrattamenti “Casa Al Bayt”, Maria Grazia Amato, e le psicoterapeute del Centro di Accoglienza Padre Nostro, Valeria Mandalà, Roberta Taverna e Silvia Conti. Concluderà la giornata Pamela Villoresi, direttore del Teatro Biondo di Palermo. Milano. Rap e retorica, a San Vittore i detenuti “sfidano” gli studenti universitari di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 24 novembre 2019 I docenti sono l’attore e regista Enrico Roccaforte e il noto rapper Amir Issaa, che a sua volta ha avuto a lungo il padre in carcere. “Se la libertà significa qualcosa, è il diritto di dire anche quello che l’altro non vuole sentire”. In un’aula studio del carcere di San Vittore ci sono persone sedute in cerchio, uomini e donne che vivono ristretti. Alcuni non si erano mai parlati prima, appartengono a raggi diversi, hanno pene da pochi mesi a più di vent’anni. Tutti insieme però partecipano ad un progetto, queste sono le prove generali di una gara di retorica e rap in programma sabato alla casa circondariale: squadra di detenuti contro squadra di studenti della Statale. L’adrenalina corre, nella stanza. Ci si allena nella disputatio di medioevale memoria, si formano sottogruppi che difendono opinioni contrapposte. Pino, occhi profondi e tatuaggi sul collo, sul cranio, sulle braccia, sceglie di leggere la citazione di George Orwell sulla libertà e aggiunge che anche a lui nella vita è capitato di pronunciare parole un po’ scomode, ad esempio con suo figlio, “ma ci credevo, erano per il suo bene, non tornerei indietro”. Gianluca riporta al nocciolo della questione: “Con gli studenti dovremo dibattere sul tema se l’opinione pubblica è il sale della democrazia oppure il dominio del populismo”, ricorda. I docenti, l’attore e regista Enrico Roccaforte e il noto rapper Amir Issaa (che a sua volta ha avuto a lungo il padre in carcere), danno inizio al duello. Intervengono con parole a ritmo di rap Elisa e Suleyman, e poi Manuel, Young Gozden Bull (“Ecco grazie, metta il mio nome d’arte”). Subito si alza Edo: “La libertà di parola, ad esempio in rete, significa lasciare incontrollato il razzismo, guardate le minacce contro Liliana Segre”. Nel gioco delle parti combatte con Andrea: “Ma tutti devono potersi esprimere, il caso di Stefano Cucchi non avrebbe avuto sviluppi se la gente non si fosse mossa”. Interviene Stefania, tanti anni di prigione sulle spalle: “Bisogna avere il coraggio di tirare fuori la voce - riflette con una consapevolezza nuova -. Pensate alle donne maltrattate: otto vittime su dieci stanno zitte e non avranno mai giustizia”. Ribatte Alessandro: “Ormai la gente si fida di quello che legge in rete più di quello che vede con gli occhi”. E Tiziano: “Ma allora staresti muto, per non sbagliare?”. Attualità ed esperienze personali sj mescolano in quest’aula del carcere guidato dal direttore Giacinto Siciliano: qui si studia, ci si informa, si fa gruppo. Ci si prepara al confronto coi ragazzi che vanno all’università. “È così importante creare un ponte, un rapporto di parità tra dentro e fuori, un dialogo - considera Flavia Trupia, docente e ideatrice del progetto Raptorical - Guerra di parole con l’associazione PerLaRe, l’Unione delle Camere penali e altri -. Nell’arte oratoria non conta solo la parola ma anche la capacità di usare il linguaggio del corpo, suscitare empatia”. I ristretti vanno fortissimo: “Siamo pronti al confronto”. Roma. Evento culturale per il ventennale del Servizio Biblioteche in Carcere Ristretti Orizzonti, 24 novembre 2019 Il 23 novembre 1999 fu firmata in Campidoglio la nostra convenzione tra il Sindaco di Roma e il Ministero della Giustizia: ricorre dunque in questi giorni il ventennale del nostro Servizio Biblioteche in Carcere. Per questo motivo, per il pomeriggio di lunedì 25 novembre, nel Teatro della Casa Circondariale di Roma Rebibbia Nuovo Complesso, abbiamo organizzato un evento così articolato: - proiezione di un video “Biblioteche in carcere - Spazi di libertà” (circa 15 min.) realizzato dal nostro Servizio Mediateca Roma all’interno delle biblioteche dei 5 carceri romani: testimonianze di detenuti e di operatori sul valore della lettura e della biblioteca in carcere. - le “Donne del muro alto”, la compagnia di teatro organizzata dalla ass.ne “Per Ananke” all’interno della sezione di Massima Sicurezza di Rebibbia Femminile, portano in scena il loro ultimo lavoro: “Il Postino - Omaggio a Massimo Troisi” (circa 1 ora) che ha già riscosso un notevole apprezzamento e successo. - concludiamo con un dolce e un brindisi (rigorosamente analcolico!) a cura della Coop. di inserimento lavorativo di detenuti Men at Work. - all’inizio e alla fine, qualche breve saluto istituzionale. In sala, il maggior numero possibile di detenuti, e pochi selezionati amici e operatori ospiti dall’esterno, perché vuole essere una festa offerta e dedicata ai nostri utenti ristretti. Operatori e amici già autorizzati all’ingresso sono i benvenuti Info: Fabio De Grossi, Resp.le Servizio Biblioteche in carcere, f.degrossi@bibliotechediroma.it, biblioincarcere@bibliotechediroma.it, 0645460.261 - 349.6452.180. La sentenza della Consulta sul caso Cappato: il diritto a morire con dignità di Francesco Barra Caracciolo Il Mattino, 24 novembre 2019 Per chi da anni ha scritto con passione sul fine vita, sul Mattino nel 2007 per Welby (e la necessità del testamento biologico introdotto solo dieci anni dopo) sulla sentenza della Cassazione che diede sostanzialmente ragione ad Englaro; su quella Travaglino che riconosceva il diritto al malformato ai danni verso il medico per colpa della mancata amniocentesi, la sentenza di ieri della Corte Costituzionale è motivo di grande gioia. E una sentenza che possiamo definire storica (questa volta l’aggettivo è pertinente) e ciò per varie ragioni: la sentenza ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 580 c.p. nella parte che equiparava - con pene fino a 12 anni - sia l’istigatore al suicidio, sia colui che, invece, si limitava ad agevolare la sua libera determinazione di porre fine ad una vita di sofferenze atroci, prive di qualsiasi speranza di miglioramento e fonte di sofferenze fisiche e psicologiche intollerabili. Purché la volontà si fosse liberamente e consapevolmente formatasi. E noto che, innanzi al Tribunale di Milano, Marco Cappato è imputato ex art. 580 c.p. per avere agevolato la morte di dj Fabo. Il Tribunale (ricorderete il pianto del pm) rimise gli atti alla Corte Costituzionale ravvisando numerosi profili di incostituzionalità dell’art. 580 c.p. La Corte, con ord.207/2018, aveva in qualche modo chiaramente espresso la propria valutazione di incostituzionalità rispetto a varie norme della Costituzione. In particolare la Corte aveva, però - e giustamente - affermato il ruolo centrale del Parlamento invitandolo ad assolvere la sua funzione che è quella di stabilire lui quali siano le condizioni che in concreto rendono lecito il suicidio agevolato. Ma il Parlamento è rimasto inerte di talché la Corte ha dovuto, con parziale supplenza (ed è un altro merito di questa sentenza) porre lei le condizioni per le quali il suicidio agevolato non è reato. Nel contempo ha “ingiunto” (il virgolettato è nostro) al Parlamento di legiferare sulle “condizioni” nelle quali è lecito il suicidio agevolato: in particolare il Parlamento dovrà emanare una legge che precisi quando va rispettata la volontà suicidaria del paziente, autonomamente e liberamente formatasi, quando sia tenuta in vita con trattamento di sostegno vitale, affetta da patologie irreversibili fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che ella reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli. La verifica di tali condizioni verrà operata (a discrezione del Parlamento) da strutture pubbliche, il Servizio Sanitario Nazionale, previo parare del Comitato Etico territorialmente competente. Solo allora sarà possibile somministrare farmaci idonei a provocare la morte rapidamente e senza dolore. Ha aggiunto la Corte che restano vigenti, nelle more, gli art. 1 e 2 del Dat (Disposizioni Anticipate di Trattamento). Nel comunicato stampa della Corte, emesso in pari data, era scritto: “non è possibile, ai sensi dell’art.580 c.p., a determinate condizioni, punire chi agevola il suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente affetto da patologia irreversibile e tenuto in vita artificialmente con sofferenze psichiche e fisiche che egli (e sottolineo egli) reputa intollerabili”. A seguito dell’inerzia del Parlamento, la Corte, con sentenza depositata il 22/11/2019, ha statuito (con complessi ragionamenti che in questa sede possiamo solo sintetizzare) che la morte potrebbe, in astratto, essere già presa dal malato a mezzo della richiesta di interruzione dei trattamenti di sostegno vitale in atto e di contestuale sottoposizione a sedazione profonda continua. Ciò in forza della legge 22/12/2017 numero 219 (in materia di consenso informato e di Disposizioni Anticipate di Trattamento) che recepisce e sviluppa le decisioni alle quali era già pervenuta la giurisprudenza ordinaria (richiama la sentenza del Gup di Roma sul caso Welby e la sentenza Englaro della Cassazione del 2007). In particolare: a) ritiene possibile integrare le previsioni della legge 38/2010 (sulle cure palliative e la terapia del dolore con sedazione profonda continua per fronteggiare sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari) ; b) richiama la propria ordinanza 207/2018 che “non può non riferirsi anche alle sofferenze provocate al paziente dal suo legittimo rifiuto di trattamenti di sostegno vitali quali la ventilazione, l’idratazione o l’alimentazione artificiali” che innesca un processo il cui esito “non necessariamente rapido è la morte”. La legislazione vigente fa’ sì che il paziente “per congedarsi dalla vita” subisce un processo più lungo e carico di sofferenze per le persone che gli sono care. Di qui l’assistenza al suicidio: giacché Fabo era totalmente dipendente dal respiratore artificiale e la morte sarebbe sopravvenuta solo dopo un periodo di alcuni giorni. Una modalità che “egli reputava non dignitosa e che i propri cari avrebbero dovuto condividere sul piano emotivo”. E noto che la sedazione profonda continua, connessa all’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale (la sedazione rientra nel genus dei trattamenti sanitari) ha come effetto l’annullamento totale e definitivo della coscienza e della volontà del soggetto fino al momento del decesso. Con grande senso di umanità e del rispetto della concezione personalistica, la Corte riconosce “come la sedazione terminale possa essere vissuta come una soluzione non accettabile” ma vi è l’esigenza di proteggere le persone più vulnerabili come i malati irreversibili. Pertanto “non si vede la ragione per la quale la stessa persona, a determinate condizioni, non possa ugualmente decidere di concludere la propria esistenza con l’aiuto di altri”. La conclusione è che il divieto assoluto di aiuto al suicidio, finisce per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, con violazione degli art. 2, 13 e 32 della Costituzione. Afferma, però, che l’eventuale riserva esclusiva di somministrazioni di tali trattamenti competerebbe al SSN e riconosce la possibilità di obiezione di coscienza del medico. Richiama il parere 18 Luglio 2019 del Comitato Nazionale per la Bioetica che ha sottolineato, all’unanimità, che l’offerta di cure palliative sconta oggi “molti ostacoli e difficoltà specie nella disomogeneità territoriale dell’offerta del Ssn”. Nelle more dell’intervento del legislatore tale compito è affidato ai Comitati Etici territorialmente competenti investiti di funzioni consultive. Infine precisa che tali requisiti procedimentali valgono solo per il futuro mentre non possono essere richiesti per i fatti anteriori come quello del caso Cappato che precede la legge 219/2017. Ha inoltre cura di ribadire che il paziente sia stato adeguatamente informato anche in ordine alle possibili soluzioni alternative con riguardo all’accesso alle cure palliative ed eventualmente alla sedazione profonda continua e ciò è oggetto di valutazione del giudice nel caso concreto. Concludo con una riflessione molto bella di Pietro Rescigno, in ordine al modello americano del living well (ben precedente il testamento biologico del 2017): “Non temo la morte quanto piuttosto l’indegnità della degradazione, della dipendenza, del dolore senza speranza. Chiedo pietà affinché mi siano somministrate droghe contro le sofferenze allo stato terminale, persino se esse possano affrettare il momento della morte”. Suicidio assistito, l’Ordine dei medici cambia le regole deontologiche La Stampa, 24 novembre 2019 Effetti immediati della sentenza della Corte costituzionale che ha aperto il varco al suicidio assistito anche in Italia: l’Ordine dei medici chirurghi e odontoiatri valuterà le necessarie integrazioni al Codice deontologico per applicarla. “È una sentenza equilibrata”, premette il presidente Filippo Anelli. “Tutela gli assistiti definendo confini netti, prevedendo la non punibilità per l’aiuto al suicidio assistito solo in casi particolari: peri soggetti affetti da patologie irreversibili, con sofferenze intollerabili, dipendenti per le funzioni vitali da apparecchiature, e nelle condizioni di chiedere coscientemente questa opzione”. Le cure palliative L’Ordine dei medici è indubbiamente sollevato perché la sentenza rispetta il ruolo del sanitario, “non obbligandolo a porre in atto l’aiuto al suicidio e affidando alla coscienza del singolo medico la scelta se prestarsi o meno ad esaudire la richiesta del malato”. Al medico è infatti chiesto di attivare l’assistenza con cure palliative al fine di mantenere sotto controllo il dolore e di spiegare al paziente le scelte possibili: la redazione profonda e le cure palliative, oppure, in alternativa, le modalità con le quali si potrà eseguire il suicidio assistito. Sarà poi il paziente a decidere. La sua volontà, sottoposta alle valutazioni del Comitato etico, sarà infine recepita dalla struttura sanitaria e il medico potrà sempre fare obiezione di coscienza. Una sentenza, quella innescata dal caso del dj Fabo, che fu assistito dall’associazione radicale intitolata a Luca Coscioni, innescata da Marco Cappato, che ha affrontato un processo sperando proprio nella Corte costituzionale. E adesso le cose sono cambiate. Cappato auspica una nuova legge, ma intanto - dice - “da oggi è in vigore una nuova legge che autorizza il medico ad aiutare la morte volontaria del paziente, qualora ne abbia i requisiti. È chiaro che nessun consiglio disciplinare potrà prendere provvedimenti contro”. Alberto Gambino, presidente di Scienza e Vita, fondazione che lavora a stretto contatto con la Conferenza episcopale, avverte: “Il tema più significativo delle motivazioni è che un’eventuale scelta di fine vita del paziente debba essere preceduta dalla possibilità concreta di esercitare il percorso delle cure palliative e della terapia del dolore. Il diritto alle cure palliative e alle terapie del dolore diventa con questa sentenza inderogabile principio costituzionale. Il governo investa già in questa Legge Finanziaria”. Cittadinanza ai migranti, per il 56% degli italiani le urgenze sono altre di Nando Pagnoncelli Corriere della Sera, 24 novembre 2019 Elettori più favorevoli allo ius culturae. Prevalgono sui contrari 53% a 39%, e anche in questo caso il dato mostra una crescita di 3 punti rispetto a marzo. Il tema del riconoscimento della cittadinanza degli stranieri è tornato d’attualità dopo l’intervento di Nicola Zingaretti all’assemblea del Pd della scorsa settimana a Bologna. Si tratta di un tema divisivo che è stato oggetto di molte polemiche, anche all’interno del centrosinistra. Il sondaggio odierno evidenzia un aumento dell’”apertura” da parte degli italiani, anche se la maggioranza degli intervistati è del parere le priorità in questo momento siano altre, complice il fatto che il segretario del Pd ha avanzato la sua proposta nei giorni in cui l’attenzione era dedicata prevalentemente ad altre vicende, dall’Ilva, al Mose, all’Alitalia. Infatti, il 56% concorda con Di Maio che nei giorni scorsi si è dichiarato sconcertato definendo la proposta del segretario dem “uno slogan”, mentre il 27% dà ragione a Zingaretti il quale, sebbene vi siano temi più urgenti, ritiene sia giusto approvare entro la fine della legislatura una legge per estendere i diritti di cittadinanza. Le risposte degli elettori Pd e 5 Stelle sono diametralmente opposte: tra i primi il 74% è d’accordo con il segretario (ma quasi uno su cinque - il 19% - dissente); tra i secondi il 78% sta con il capo politico del Movimento, mentre il 16% è contrario. Tra tutti gli altri, con l’eccezione delle liste minori di sinistra e centrosinistra, prevale l’idea che oggi il governo si dovrebbe occupare di altro. Elettori M5S al bivio - In generale la normativa attuale - che prevede la concessione della cittadinanza a chi non è figlio di cittadini italiani solo in alcuni casi specifici (dopo il compimento della maggiore età e dopo 10 anni di permanenza ininterrotta nel nostro paese, oppure per matrimonio) e in assenza di procedimenti penali - è giudicata positivamente dal 56% degli italiani (in crescita di 3 punti rispetto allo scorso mese di marzo) e negativamente dal 34% (dato stabile). Lo ius soli, ossia la possibilità di estendere la cittadinanza ai figli di immigrati, se nati nel nostro Paese e con almeno un genitore che ha un permesso di soggiorno permanente in Italia, divide nettamente le opinioni 48% i favorevoli, 47% i contrari. Anche in questo caso si registra una crescita di 3 punti dei favorevoli. Diversi invece gli atteggiamenti nei confronti dell’ipotesi di concedere la cittadinanza a figli di immigrati, se nati in Italia (o arrivati entro i 12 anni), e abbiano frequentato regolarmente per almeno cinque anni le scuole nel nostro paese, cioè il cosiddetto ius culturae: i favorevoli prevalgono sui contrari 53% a 39%, e anche in questo caso il dato mostra una crescita di 3 punti rispetto a marzo. In termini di comportamento politico si conferma una sostanziale distanza tra le opinioni degli elettori di centrosinistra e quelli di centrodestra, mentre i pentastellati appaiono divisi al loro interno. Gli aspetti semantici - L’atteggiamento di maggiore apertura va ricondotto a due aspetti: innanzitutto la minore importanza attribuita alla questione immigrazione, basti pensare che oggi il 28% menziona il tema degli stranieri tra le priorità del Paese mentre un anno fa era il 45%; in secondo luogo il consolidamento della distinzione tra gli stranieri presenti in Italia e quelli che potrebbero arrivare. Rispetto ai primi che, come sappiamo, si identificano con le persone frequentate quotidianamente (dalla badante, ai bambini che frequentano le scuole dei propri figli o nipoti), prevale un atteggiamento di inclusione. Al contrario, permane una diffusa inquietudine sui possibili nuovi flussi di stranieri. Da ultimo una riflessione sugli aspetti semantici connessi alla cittadinanza: parlare di ius soli e ius culturae può suonare ostico e rappresentare una sorta di spauracchio per i più. Al contrario, quando i concetti vengono declinati nella realtà quotidiana, le reazioni dei cittadini sono diverse. È sorprendente che in un’epoca nella quale non mancano consulenti per la comunicazione e spin doctor, si sottovaluti il rischio che alcuni termini, oltre ad essere poco familiari, possano produrre effetti esiziali. Marijuana, flop delle imprese che hanno investito nell’”erba” legale di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 24 novembre 2019 Tasse alte, depositi pieni (e contrabbando florido), il business si è rivelato una bolla: persi 35 miliardi di dollari. Nell’ultimo anno i maggiori gruppi che avevano investito in questo settore hanno perso i due terzi del loro valore. Depositi zeppi di foglie di cannabis raccolte dai campi e invendute. Un mercato legale che non cresce come previsto mentre quello clandestino continua a prosperare. L’allarme marijuana parte dal Canada, il primo Paese che, un anno fa, ha legalizzato coltivazione, trasformazione e consumo di questa sostanza tanto a livello federale quanto nei singoli Stati. Ma le cose non vanno meglio negli Stati Uniti dove il consumo di marijuana è ormai legale in 11 Stati, dalla California alla capitale, Washington, mentre la sua assunzione come terapia medica è autorizzato in gran parte del Paese (33 Stati): il business del futuro nel quale centinaia di imprese avevano investito ingenti capitali si sta rivelando un flop. Nell’ultimo anno i maggiori gruppi che avevano investito in questo settore hanno perso i due terzi del loro valore. La battuta è facile: 35 miliardi di dollari andati in fumo. Eppure l’accettazione sociale della marijuana cresce, mentre le barriere legali si riducono: in Canada sono cadute del tutto mentre negli Usa commercio e consumo restano un reato a livello federale. Ma in Congresso la Camera ha appena votato (in commissione e presto andrà in aula) la legalizzazione. Al Senato, dove c’è una maggioranza repubblicana e il leader, Mitch McConnell, si oppone, alcuni parlamentari conservatori sembrano disposti a votare, su questo, coi democratici. Del resto i sondaggi (da Gallup al Pew) sono concordi nell’indicare che oltre i due terzi degli americani sono favorevoli alla liberalizzazione. E, tra questi, anche una maggioranza (55 per cento) di elettori repubblicani. Perché, allora, questo quadro fallimentare del mercato? Gli ottimisti sostengono che ci vuole tempo per trovare il giusto equilibrio: in America gli entusiasmi iniziali hanno prodotto una bolla di investimenti eccessivi che ora sta scoppiando. In Canada, che ha immensi territori agricoli e una popolazione molto limitata, la coltivazione di cannabis è cresciuta esponenzialmente mentre le strutture di trasformazione e distribuzione sono rimaste asfittiche: metà dei 560 negozi autorizzati sono in una provincia poco popolata, l’Alberta, mentre Quebec e Ontario, dove vivono due terzi dei canadesi, hanno appena 45 negozi. Ma non è solo un problema di speculazioni finanziarie o di ritardi amministrativi nelle concessioni. Tanto in Canada quanto negli Stati Uniti il principale fallimento riguarda quella che era stata la principale motivazione alla base della campagna per la legalizzazione: eliminare il mercato nero. Spazzare via un intero settore dell’economia criminale creando al tempo stesso un nuovo settore economico legale che produce lavoro ed entrate fiscali. Non è andata così: tanto in Canada quanto negli Usa la marijuana illegale continua a prevalere su quella che transita per i canali regolari. In sostanza il racket della droga si è dimostrato abile e reattivo nell’abbassare i costi del suo prodotto importato illegalmente, mentre la decriminalizzazione ha ridotto i rischi (una cosa è essere accusati di contrabbando ben altra essere incriminati per spaccio di sostanze potenzialmente mortali). Oggi molti gruppi criminali creano centrali direttamente negli Usa e in Canada anziché appoggiarsi su strutture intermedie in Messico. Gli Stati che hanno legalizzato la cannabis, poi, hanno deciso di applicare un’elevata tassazione come per altre attività “viziose”, dal fumo al gioco d’azzardo. Risultato: negozi costretti a pagare molto per la loro licenza e che vendono un prodotto legale altamente tassato devono imporre prezzi che a volte sono addirittura un multiplo di quelli del mercato nero. Spiegano gli stessi cittadini intervistati dai sondaggisti: “Abbiamo detto sì alla legalizzazione della marijuana, ma non abbiamo detto da chi vogliamo comprarla e qual è un prezzo accettabile”. Stati Uniti. Epstein, le ultime ore: “Tempesta perfetta di errori e scemenze” di Giuseppe Sarcina Corriere della sera, 24 novembre 2019 La ricostruzione del ministro della Giustizia, William Barr, che ha voluto visionare i filmati delle telecamere interne in prima persona. i dubbi di vittime e politici. Per il ministro della Giustizia, William Barr, la notte in cui Jeffrey Epstein si suicidò “ci fu una tempesta perfetta di scemenze, di cavolate”. In un’intervista all’Associated Press, Barr si esprime con franchezza e con un linguaggio poco istituzionale: “Posso capire le persone che immediatamente hanno pensato all’ipotesi peggiore, anch’io all’inizio ho avuto dei sospetti”. L’idea cioè che il finanziere pedofilo sia stato ucciso nella sua cella del Metropolitan correctional center di Manhattan, il 10 agosto scorso. Il suicidio per impiccagione sarebbe solo una copertura per occultare l’omicidio. Lo pensa la famiglia, innanzitutto. Ma anche Gloria Allred, avvocata star di New York, legale di molte donne vittime di Epstein, in una conferenza stampa di giovedì 21 novembre, ha affermato: “Ci sono ancora circostanze sospette che circondano la sua morte”. “Sospetti” e scetticismo corrono sui Social e sono condivisi da una buona parte dell’opinione pubblica, circa il 30%, stando a una rilevazione condotta da Eric Oliver, professore dell’Università di Chicago. Persino alcuni parlamentari hanno rilanciato i dubbi. Il deputato repubblicano Paul Gosar, per esempio, ha twittato per 23 volte: “Epstein non si è ucciso”. Il businessman venne arrestato il 6 luglio scorso per capi di imputazione punibili con 45 anni di prigione: traffico di minori e abusi sessuali. L’Fbi aveva trovato una mole imponente di indizi nella sua casa di New York, vicino a Central Park. La tana lussuosa in cui attirava decine, forse centinaia di ragazze, tutte minorenni: offriva un compenso di 100-200 dollari per “messaggio” che si trasformava poi in un assalto sessuale. Ma i dubbi e i veleni nascono dalle frequentazioni di “Jeffrey”. Sul suo jet privato, che chiamava “Lolita Express”, ci salivano tante celebrità. Uno dei più assidui era l’ex presidente democratico Bill Clinton. Epstein conosceva e frequentava Donald Trump e il principe Andrea, Duca di York, il terzogenito della Regina Elisabetta II, ottavo nella linea di successione. “Mi mangio le mani ogni giorno per essere stato ospite di Epstein”, ha dichiarato il principe alla Bbc il 16 novembre, e qualche giorno dopo ha annunciato “il ritiro da ogni impegno pubblico”. E allora qualcuno ha ucciso Epstein per evitare altri clamorosi scandali? La magistratura lo esclude seccamente. L’autopsia ha confermato la morte per asfissia e le indagini hanno portato martedì 19 novembre all’arresto di Tova Noel e Michael Thomas, le due guardie carcerarie incaricate di sorvegliare la cella. Quella notte uno dormiva, l’altro faceva shopping su Internet, consultando siti di mobili e di motociclette. I due avrebbero anche falsificato i registri delle ispezioni, ma davanti al giudice non hanno ammesso colpe. Barr ha detto all’Ap di aver voluto visionare in prima persona i filmati delle telecamere interne: nessuno entrò nello spazio che Epstein occupava da solo. Quel settore del carcere è protetto da una doppia barriera. La prima può essere sollevata solo elettronicamente dalla postazione centrale di controllo; l’altra si apre con la chiave assegnata all’agente di turno. Turchia. La prigione di Altan: pigiama, spazzolino, pillole di Antonio Ferrari La Lettura - Corriere della Sera, 24 novembre 2019 In Turchia può davvero accadere di tutto, anche l’inverosimile. Magari un personaggio pubblico, mettiamo il grande scrittore Ahmet Altan, famoso in tutto il mondo, va in televisione e dice qualcosa che il censore occulto (talmente occulto da essere quasi palese) ritiene “messaggio subliminale” per favorire un golpe e la gente ci crede, o è convinta a crederci. Il golpe poi diventa miracolosamente realtà, o magari parodia, a metà luglio del 2016. Illusione di poche ore, perché oggi a credere a un golpe ordito dal predicatore sunnita Fetullah Gülen, in esilio negli Stati Uniti, per rovesciare il suo ex sodale Recep Tayyip Erdogan, primo ministro turco dal 2003 al 2014 e da allora presidente della Repubblica, sono rimasti pochi ingenui, e molti interessati a mantenere rapporti (in affari) stretti con il grande accusatore. Parliamo del nuovo “sultano” Recep Tayyip Erdogan, malato di autoritarismo, feroce e vendicativo, lanciato contro l’ex amico fraterno Gülen, e pronto - dopo poche ore “pseudo-golpiste” - a fare arrestare decine di migliaia di oppositori, magistrati, funzionari, corpi speciali dell’antiterrorismo, giornalisti, scrittori, intellettuali, ufficiali, dipendenti pubblici. Insomma tutta quella marmaglia culturale che il sultano-dittatore ritiene responsabile dei mali del Paese. Nella rete, il primo a cadere è una delle voci più libere della Turchia, appunto Ahmet Altan. Un terrorista? “Ma certo, è un terrorista, agita le masse, è un cospiratore, è un serpente velenoso, merita l’ergastolo”, strilla la tv nazionalizzata. “Ha persino irriso il presidente Erdogan quando disse, a una riunione del suo partito Akp, che gli americani si erano inventati lo sbarco sulla Luna”. Meno male che la giustizia turca ha un sussulto, e il richiesto carcere a vita si restringe a 10 anni e 6 mesi e Altan, che oggi ha 69 anni (è nato il 2 marzo 1950 ad Ankara), torna in libertà il 4 novembre dopo 1.138 giorni trascorsi in galera. Ma non c’è neppure il tempo di esultare, la vacanza da uomo libero dura infatti poco più di una settimana, ed ecco che lo scorso 12 novembre tornano le manette per lo scrittore sovversivo, adesso nuovamente in galera. E pensare che sono le stesse corti, magari in quartieri diversi di Istanbul, a cambiare idea e a contraddirsi. Una tortura mostruosa soprattutto per l’imputato, che trascorre i pochi giorni di libertà frequentando la Casa della Letteratura, nel quartiere di Pera, a Istanbul, rilasciando qualche intervista e affidando al “Guardian” di Londra una memoria scritta della propria prigionia. Altanè colpevole di non si sa cosa, costretto a vive renella paura le poche o redi libertà: Amnesty Internati on al ha definito l’ intera vicenda “sconvolgente e ridicola”. Si pensi che neppure alla legale di Altan, l’avvocatessa Figen Calikusu, è stato notificato il nuovo provvedimento. Lo ha dovuto leggere sul quotidiano filogovernativo “Sabah”, informando subito il suo assistito. Racconta che Altan, “con estrema dignità e straordinario humour, ha atteso gli agenti in borghese, con l’ordine di cattura, nella sua casa, circondato dai familiari, con gli effetti personali già stivati nella sua borsa: pigiama, spazzolino da denti, qualche pillola che accompagna la vita negli anni più fragili”. L’ha richiusa con un amaro sorriso. Ahmet Altan non si è mai sentito in prigione. Nel suo celebre libro “Non rivedrò più il mondo” (pubblicato in Italia giusto un anno fa da Solferino con la traduzione di Alberto Cristofori), racconta che “uno scrittore fa le magie, e passa attraverso i muri. Potete mettermi in carcere - ripete nel testo - ma non potete tenermi in carcere”. Cile. Dopo “la Mimo” trovata uccisa anche la fotografa dei cortei di Claudia Fanti Il Manifesto, 24 novembre 2019 La denuncia di “Ni una menos” contro i carabineros, sono 70 le accuse a pubblici ufficiali. Il rapporto di Amnesty contro la repressione delle forze di Pineras è durissimo. Mentre il Cile è ancora scosso dal dolore e dall’indignazione per la morte di Daniela Carrasco, l’artista di strada nota come “el Mimo” trovata impiccata alla periferia di Santiago - “violentata, torturata e assassinata”, secondo la denuncia del movimento femminista Ni una menos - fa discutere nel paese il caso di un’altra donna, la 38enne Albertina Martínez Burgos, fotografa e assistente alle luci della rete televisiva Megavisión, trovata morta nel suo appartamento nella capitale con segni di percosse e di pugnalate. Fin dall’inizio della rivolta popolare contro il governo Piñera, la giovane fotografa aveva partecipato attivamente alle proteste, documentando in particolare casi di repressione e di abuso da parte dei carabineros e dei militari nei confronti delle donne impegnate sul fronte della comunicazione. “Esigiamo che vengano chiarite le cause della sua morte”, ha dichiarato Ni una menos, evidenziando come nel suo appartamento mancassero computer, macchina fotografica e qualunque traccia del suo lavoro sulle giornate di lotta. Due casi, quelli di Daniela e di Albertina, che gettano una luce inquietante sulla violazione dei diritti delle donne durante la crisi attuale. Non a caso sono arrivate a 70 le denunce di violenza sessuale a carico di pubblici ufficiali, come emerge dal durissimo rapporto di Amnesty International sull’azione delle forze di sicurezza sotto il comando del presidente Piñera, accusate di ricorrere alla violenza - fino alla repressione indiscriminata, al pestaggio selvaggio, alla tortura, allo stupro, all’omicidio - per dissuadere i manifestanti dal partecipare alle proteste. E mentre si attende il rapporto dell’Alto Commissario Onu per i diritti umani, la cui équipe ha concluso venerdì la sua visita ufficiale, è chiaro che le violente azioni repressive delle forze dell’ordine - durante le quali oltre 2.300 persone sono state ferite (1.400 per colpi di arma da fuoco) e 220 hanno subito gravi traumi agli occhi - non servono di certo a rendere più credibile l’accordo sul plebiscito per una nuova Costituzione raggiunto da tutte le forze politiche (ad eccezione del Partido Comunista e di quello Humanista). Che lo “storico accordo”, celebrato con grande ottimismo dalle classi dominanti, sia destinato appena a realizzare cambiamenti di facciata è risultato del resto subito evidente al movimento di protesta, secondo cui l’introduzione della maggioranza dei due terzi per l’approvazione degli articoli che dovrebbero comporre il nuovo testo costituzionale sarebbe già di per sé sufficiente a consentire alla minoranza conservatrice di bloccare ogni cambiamento reale, a partire dalla rinazionalizzazione del rame e del litio. Ed è proprio contro la trappola tesa dal governo - quella appunto di un processo costituente controllato dalle élite - e contro le violazioni dei diritti umani che le organizzazioni sindacali aderenti alla Mesa de Unidad Social hanno convocato per il 26 e il 27 novembre un nuovo sciopero nazionale.