Il carcere deve avere una finestra di Marcello Matté settimananews.it, 23 novembre 2019 “Le carceri devono avere sempre una “finestra”, cioè un orizzonte. Guardare ad un reinserimento. E si deve, su questo, pensare a fondo al modo di gestire un carcere, al modo di seminare speranza di reinserimento; e pensare se la pena è capace di portare lì questa persona”. Con questa citazione della prof.ssa Severino, Papa Francesco conclude il Discorso ai partecipanti al XX Congresso mondiale dell’Associazione internazionale di diritto penale (15/11). Una proiezione nel futuro al termine di un’analisi lucida e forte sulla condizione presente del sistema penale. L’ossimoro: una giustizia sperequativa - L’osservazione più severa colpisce la distanza tra i nobili ideali della giustizia, alla quale si ispira il duro lavoro dei penalisti, e la realtà che interpreta troppo sovente la giustizia come restituzione del male fatto, la pena come una ritorsione. In molti passaggi si può riconoscere un riferimento esplicito alle distorsioni che il sistema penale subisce anche in Italia: “espansione dell’ambito della penalità, criminalizzazione della protesta sociale, abuso della reclusione preventiva”. “Una delle frequenti omissioni del diritto penale, conseguenza della selettività sanzionatoria, è la scarsa o nulla attenzione che ricevono i delitti dei più potenti, in particolare la macro-delinquenza delle corporazioni. Non esagero con queste parole. … Si tratta di delitti che hanno la gravità di crimini contro l’umanità, quando conducono alla fame, alla miseria, alla migrazione forzata e alla morte per malattie evitabili, al disastro ambientale e all’etnocidio dei popoli indigeni”. A fronte di un accanimento contro il reato minore - per quanto incisivo sul malessere sociale - allo scopo di blandire la rabbia sociale. “Fenomeni massicci di appropriazione di fondi pubblici passano inosservati o sono minimizzati come se fossero meri conflitti di interesse”. L’eterogenesi dei fini: il carcere crea problemi - Con ciò non si vuole invocare “più carcere per tutti”. Anzi, con il papa smascheriamo la superficiale legittimazione di “una corrente punitivista che pretende di risolvere attraverso il sistema penale i più svariati problemi sociali”. Il carcere, presentato come la soluzione dei problemi di sicurezza sociale, crea problemi ed è un problema. Ancor più se si tollerano gli abusi del potere sanzionatorio. Le derive: ingiustizia, violenza, odio - “L’uso improprio della custodia cautelare”. “Le persone in custodia cautelare in carcere continuano ad essere in calo, ma l’Italia resta tra i Paesi in Europa che maggiormente ricorrono al carcere prima della sentenza definitiva, soprattutto quando gli imputati sono stranieri”, riassume il XV Rapporto di Antigone. “Al 31 dicembre 2018 i detenuti in custodia cautelare in carcere erano 19.565, per una percentuale di detenuti ancora in attesa di una sentenza definitiva pari al 32,8% del totale della popolazione carceraria. La custodia cautelare in carcere colpisce maggiormente i soggetti socialmente più deboli che incorrono nelle maglie della giustizia”. “L’involontario incentivo alla violenza. In diversi Paesi sono state attuate riforme dell’istituto della legittima difesa e si è preteso di giustificare crimini commessi da agenti delle forze di sicurezza come forme legittime del compimento del dovere. È importante che la comunità giuridica difenda i criteri tradizionali per evitare che la demagogia punitiva degeneri in incentivo alla violenza o in uno sproporzionato uso della forza. Sono condotte inammissibili in uno Stato di diritto e, in genere, accompagnano i pregiudizi razzisti e il disprezzo verso le fasce sociali di emarginazione”. “La cultura dello scarto e quella dell’odio. La cultura dello scarto, combinata con altri fenomeni psico-sociali diffusi nelle società del benessere, sta manifestando la grave tendenza a degenerare in cultura dell’odio”. La contraddizione: tra fine dichiarato e fine perseguito - Non è un appello morale, quanto civile, quello che, a partire da una cultura evangelica, spinge a superare una concezione retributiva della giustizia penale, fin qui gestita, in Italia più che in altri Paesi europei, come vendetta della società ferita dal reo. L’ideologia che si condensa nell’invocazione a “buttare via la chiave” è, appunto, ideologia che non trova riscontro nemmeno nella statistica. L’aumento delle pene, l’equazione pervasiva pena=carcere, la funzione deterrente della ritorsione penale nella convinzione che più carcere significhi più sicurezza non reggono al confronto con gli esiti effettivi. L’art. 27 della Costituzione, al quale si ispirano fa gli altri il Diritto penale e l’Ordinamento penitenziario, stabilisce che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Scopo primario delle pene (il carcere non è la sola ma quella preponderante) è dunque la rieducazione, oggi interpretata come “reinserimento” nella società, risocializzazione. Vi è una contraddizione palese tra il fine (il recupero alla vita sociale) e il mezzo attraverso il quale si persegue (l’esclusione dalla vita sociale). Fatta salva la necessità di mettere la collettività al riparo dai violenti, ma posto che nessuno è la sua colpa e che la pena vuole restituire alla società dei “buoni vicini”, resta comunque da spiegare come mai la conduzione delle carceri - cioè dello strumento - sia affidata principalmente al personale di polizia. Secondo il XV Rapporto Antigone, “sono 60.439 i detenuti presenti nelle carceri italiane al 30 aprile 2019”. Tra il personale operativo, la polizia penitenziaria (con compiti primariamente custodiali, anche se poi di fatto svolgono preziose mansioni di rapporto diretto con i detenuti) conta 31.332 agenti effettivamente in servizio, “vale a dire quasi un agente ogni 2 detenuti”. Gli operatori giuridico-pedagogici (educatori) si vedono invece affidati ciascuno 78 detenuti. Per quanti correttivi si debbano applicare a questi parametri sommari, non si giustificherà mai, davanti al dettato costituzionale, la distanza tra il fine dichiarato (rieducazione) e perseguito (custodia). E purché la custodia non diventi afflizione. Davanti alla Costituzione, nessuna qualifica, nemmeno la colpa, può giustificare una discriminazione. Un carcere afflittivo riconsegna alla società persone che hanno sviluppato un vittimismo di risulta, spinte a cercare compensi surrogati. Se si assomma la stigmate indelebile che il carcere lascia, pregiudicando l’accesso al lavoro e all’autonomia abitativa, si può comprendere perché la recidiva per chi esce dal carcere senza essere stato accompagnato lungo un percorso di risocializzazione sia tentato per più dei due terzi dalla recidiva. L’invito: verso una giustizia riparativa - “In ogni delitto c’è una parte lesa e ci sono due legami danneggiati: quello del responsabile del fatto con la sua vittima e quello dello stesso con la società. Ho segnalato che tra la pena e il delitto esiste una asimmetria e che il compimento di un male non giustifica l’imposizione di un altro male come risposta. Si tratta di fare giustizia alla vittima, non di giustiziare l’aggressore” (Papa Francesco). Un recente convegno promosso dalla Regione Emilia-Romagna ha fotografato l’andamento sul territorio delle esperienze di giustizia riparativa (o restaurativa - restorative justice). Che non può e non vuole proporsi come modello sostitutivo dell’esecuzione penale (se non altro perché si fonda su presupposti di volontarietà), ma chiede di essere annoverato, a titolo non soltanto sperimentale, fra i modelli di procedura e di esecuzione penale. Se ne parla sempre più, ma i percorsi effettivi restano ancora benemeriti isolati. “Le nostre società sono chiamate ad avanzare verso un modello di giustizia fondato sul dialogo, sull’incontro, perché là dove possibile siano restaurati i legami intaccati dal delitto e riparato il danno recato. Non credo che sia un’utopia, ma certo è una grande sfida. Una sfida che dobbiamo affrontare tutti se vogliamo trattare i problemi della nostra convivenza civile in modo razionale, pacifico e democratico”. “La giustizia riparativa è un percorso volontario lungo il quale vittima e colpevole arrivano a un incontro dove la vittima possa sentirsi riconosciuta e riparata del male subito e il responsabile possa assumere consapevolezza del male inferto” (G. Colombo): “Prima sapevo di essere un omicida, ora so di aver ucciso una persona”. La giustizia forense toglie la parola alla vittima e al colpevole, per consegnarla agli avvocati. La giustizia riparativa mira invece a fare incontrare le persone, al riconoscimento reciproco. “Voglio spere perché mi hai fatto questo”: la risposta data personalmente a questa domanda è molto più riparatoria di ogni vendetta esercitata dallo Stato sul colpevole in nome della vittima. La giustizia retributiva appiattisce le vittime sul cliché umiliante di assetati di vendetta anziché di giustizia. La giustizia riparativa riconosce alla vittima la dignità della sua sofferenza che cerca un di più di bene anziché di male. La conclusione: non c’è giustizia senza civiltà - I percorsi di giustizia riparativa nuotano in acque sempre più inquinate e rarefatte. La maggior parte dell’opinione pubblica non crede alla consapevolizzazione del responsabile e, senza una precisa volontà civico-politica, non si libera dallo schema rigido del contrappasso. È sotto gli occhi di tutti che il carcere afflittivo non funziona per restituire alla società dei “buoni vicini”, e tuttavia si continua a invocare più carceri e più carcere. “È difficile rendere ragionevole il sentire” (Colombo). Le fragilissime esperienze di giustizia riparativa arrancano contro il pregiudizio, irrazionale ma dominante, che il carcere funzioni anche come prevenzione, per la sua forza deterrente. Non si produrranno mai abbastanza tabulati statistici per dimostrare l’infondatezza del presupposto. Assistiamo anzi a una preferenza crescente per le politiche di sicurezza basate sulla repressione piuttosto che sulla prevenzione. Agli inizi degli anni Novanta si cominciava a parlare nell’Europa continentale di “nuova prevenzione”, cioè “l’insieme delle strategie orientate a diminuire la frequenza di certi comportamenti, siano o meno essi considerati punibili dalla legge penale, attraverso l’uso di strumenti diversi da quelli penali” (P. Robert). La “nuova prevenzione” si propone come base delle politiche di sicurezza, affidate non tanto agli organi penali dello Stato quanto a soggetti quali gli enti locali, i servizi sociali, il volontariato, i comuni cittadini. La “mediazione penale”, come forma alternativa alla giustizia forense ispirata a modelli concettuali analoghi a quelli della giustizia riparativa, è più consona al raggiungimento degli obiettivi della “nuova prevenzione”. Il modello non è riuscito a performare le politiche sociali e ha visto in questi ultimi anni la giustificazione data dall’opinione pubblica alla ricerca della sicurezza attraverso politiche repressive. La parabola italiana culminata nei Decreti sicurezza voluti dal ministro Salvini consegna definitivamente le politiche di sicurezza alle strategie repressive, reintroducendo anche quelle misure penalistiche alle quali le politiche di sicurezza dovevano essere alternative. “Recuperare la prevenzione sociale e le misure di giustizia riparativa nelle politiche di sicurezza urbana garantirebbe un recupero dello spirito e dei concetti originari della sicurezza come diritto per tutti, garantendo approcci non punitivi e probabilmente più efficaci” (R. Selmini). “È compatibile il carcere duro per un malato terminale?” di Valentina Stella Il Dubbio, 23 novembre 2019 Interrogazione di Roberto Giachetti ai Ministri Bonafede e Speranza. Roberto Giachetti di “Italia Viva” ha presentato una interrogazione a risposta scritta ai ministri Bonafede e Speranza sul caso di Antonino Tomaselli, malato terminale per un tumore ai polmoni, detenuto in custodia cautelare in regime di 41bis presso il carcere di Opera. Per un malato oncologico con una aspettativa di vita ridottissima è compatibile il carcere e in particolare modo il regime duro? Il parlamentare evidenzia che “Tomaselli non è imputato, né mai lo è stato in passato, per fatti di sangue” ma per il riesame e la Cassazione “le condizioni di salute in cui versa il Tomaselli non risultano modificate in peggio malgrado la gravissima malattia da cui l’indagato è affetto” e quindi sono compatibili con la detenzione al 41bis. Giachetti, dunque, si chiede se tutto questo rispetti l’articolo 1 del decreto legislativo che riordina la medicina penitenziaria per cui “i detenuti e gli internati hanno diritto, al pari dei cittadini in stato di libertà, alla erogazione” delle stesse prestazioni sanitarie. Come ci dice infatti uno dei suoi legali, l’avvocato Eugenio Minniti, che lo segue insieme a Giorgio Antoci: “Abbiamo censurato l’assoluta inefficienza della dirigenza sanitaria del carcere di Opera in quanto è stato omesso ogni protocollo terapeutico finalizzato a preservare le condizioni di salute del signor Tomaselli sulla scorta inoltre di quanto disposto dal tribunale della libertà di Catania che aveva previsto tutta una serie di cautele da adottare per tamponare la situazione drammatica in cui versa l’uomo a cui resta un anno di vita. Noi chiediamo che venga trasferito in un centro specializzato per fronteggiare le gravissime condizioni di salute. Ad oggi viene lasciato morire in carcere un soggetto che è in custodia cautelare preventiva e non accusato di reati omicidiari”. La questione era stata sollevata proprio su Il Dubbio dall’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini che commenta così oggi: “I fanatici e i cretini, diceva Sciascia più di trent’anni fa, credono che la terribilità delle pene (compresa quella di morte), la repressione violenta e indiscriminata, l’abolizione dei diritti dei singoli, siano gli strumenti migliori per combattere certi tipi di delitti e associazioni criminali come la mafia. Quando lo Stato, violando i diritti umani, utilizza gli stessi metodi dei peggiori assassini, moltiplica il male fatto contagiando con il virus della violenza l’intera società” Riforma della giustizia: o c’è il giusto processo o noi del Pd non votiamo di Franco Mirabelli* Il Riformista, 23 novembre 2019 Con la legge “spazza-corrotti” il governo precedente ha introdotto la norma che prevede, dal 1 gennaio 2020, che dal grado d’appello sia bloccato l’istituto della prescrizione, che quindi resterebbe in vigore solo per il primo grado di giudizio. La prescrizione è certamente uno strumento imperfetto, che ha consentito non arrivassero a sentenza alcuni processi, ma è anche lo strumento con cui fino ad ora si è cercato di dare concretezza al principio costituzionale che garantisce ai cittadini una durata ragionevole del processo. L’art. 111 della Costituzione prescrive che la decisione definitiva intervenga in tempi, appunto, ragionevoli, cioè determinati, per non abbandonare la vicenda giudiziaria e l’iter processuale ad una sorta di sine die. Ciò a tutela sia dell’imputato sia della vittima del reato. L’imputato ha il diritto a non essere soggetto a un procedimento di durata indefinita e di essere giudicato entro un lasso congruo di tempo. La vittima ha diritto dì ricevere una adeguata tutela da parte dell’ordinamento. Se non c’è questa garanzia si profila il rischio dell’ingiustizia. Con la necessità di riformare l’istituto della prescrizione, che funziona oggettivamente male, ci siamo misurati tutti. Recentemente, nella scorsa legislatura, lo ha fatto lo stesso ex ministro Andrea Orlando. Ma lo scenario che abbiamo di fronte, quello prospettato dall’attuale ministro Bonafede, è ben diverso da quello di una riforma: si blocca la prescrizione senza essere intervenuti in alcun modo per riformare il processo penale al fine di garantire tempi certi e rapidi. Il tema di oggi è questo. Non si tratta di difendere la prescrizione, perché ogni processo che non si conclude costituisce un fallimento per lo Stato, ma si tratta di creare le condizioni perché ci siano tempi certi a garanzia e tutela di tutti. D’altra parte questa è la ragione che aveva portato lo scorso governo a rimandare al gennaio 2020 la sospensione della prescrizione dopo il primo grado, con l’impegno a riformare il processo penale. Così non è stato e il rischio è che entri in vigore la norma senza che ci sia nulla a garantire il diritto alla ragionevole durata del processo. Da qui dobbiamo partire per dare ordine alla discussione di questi giorni: il tema non è difendere la prescrizione ma garantire tempi certi e giusti per i processi. Questo significa intervenire sul funzionamento dei tribunali, sugli organici, su un uso intelligente e ragionevole degli strumenti telematici, sui tempi certi delle indagini. Su questo siamo tutti d’accordo, ma non basta. Serve definire i tempi delle diverse fasi del processo e decidere cosa succede se non vengono rispettati. È soprattutto su questo che le posizioni del ministro Bonafede non ci convincono. Non è sufficiente, anche se utile e necessario, pensare a indennizzi per chi subisce processi troppo lunghi. E anche l’idea, pure condivisa, di creare una corsia preferenziale per chi è assolto in primo grado non risolve il problema. Per noi il tema non può essere quello di punire i magistrati responsabili di processi troppo lunghi, cosa su cui pure si deve ragionare, ma garantire il diritto dei cittadini a processi in tempi ragionevoli. Non dobbiamo pensare che tutto possa esaurirsi qui: bene riconoscere la responsabilità di chi deve garantire i tempi nelle diverse fasi del processo, ma questo non risolve la questione, perché mette comunque in conto che un cittadino possa anche subire un processo infinito o debba aspettare sine die una sentenza se è parte offesa. Qui sta il punto: per noi la riforma del processo deve prevedere tutto ciò che il ministro propone per velocizzare i processi, ma è necessario ci sia una norma che estingua il processo dopo tempi congrui. Si può ragionare sui tempi e sulle fasi del processo per non rischiare di perpetuare i difetti dell’attuale prescrizione, tenendo conto che, se le misure previste dalla riforma per accelerare i procedimenti funzioneranno, non si arriverà mai all’estinzione. La questione fondamentale è garantire ai cittadini un processo giusto e in tempi certi. Quello del blocco della prescrizione dall’appello rischia di essere un provvedimento puramente ideologico che, tra l’altro, si scontra con una realtà che racconta che la stragrande parte dei reati prescritti lo sono in primo grado. Se entrasse in vigore la legge Bonafede che interrompe la prescrizione senza una riforma del processo penale coerente con questi principi ci troveremmo di fronte ad un vulnus davvero preoccupante: sia sul piano delle garanzie che su quello della Costituzione e del diritto. Per questo ci stiamo confrontando col ministro e nella maggioranza per presentare una riforma del processo penale che rispetti i principi che ho provato a descrivere e finalmente dia efficacia ed efficienza al nostro sistema giudiziario. Allo stesso tempo, proprio per le ragioni dette, pensiamo che non possa essere interrotta, in assenza della riforma, alla data del 1 gennaio 2020, la prescrizione. La strada maestra, quella più pulita, per noi è far entrare in vigore contemporaneamente le due norme e, comunque. deve essere chiaro che per il Pd questa è questione dirimente: lavoreremo perché, senza un accordo sulla riforma del processo penale, l’abolizione della prescrizione venga sospesa. *Vice presidente dei senatori Pd Prescrizione, resa dei conti alla Camera: il Pd inserirà i “correttivi” nel ddl penale di Errico Novi Il Dubbio, 23 novembre 2019 Trattativa senza sbocchi con Bonafede: cambia la strategia dem. Due segnali chiari. Il primo lo invia Alfonso Bonafede. Con l’ampia intervista al Sole 24 Ore di ieri disegna i contorni del nuovo processo civile. L’altra metà del cielo, quello non coperto dalle nubi del dissenso. “Andrà in Consiglio dei ministri la settimana prossima”, conferma il guardasigilli. Vuol dire che sul nuovo rito per le cause dinanzi al giudice monocratico, che introduce limiti alle parti pur senza precludere in assoluto le loro istruttorie, si potrà discutere a breve in Senato. È l’implicita dichiarazione di impraticabilità per il campo più accidentato, quello della riforma penale: se il ministro della Giustizia si dispone a mandare in Parlamento il dossier meno controverso, è perché l’altro, il penale, ora è davvero devastato dalle tensioni. Il secondo segnale viene dal Pd. Da Andrea Orlando e non solo da lui. Si deve partire dall’intervista che il predecessore di Bonafede e numero due del Nazareno ha concesso giovedì a Repubblica. Dice testualmente che “il rinvio” della norma Bonafede “conviene a tutti perché sennò si rischia di discutere la riforma in aula senza una posizione comune sulla prescrizione”. E ancora, sempre sull’opportunità di fermare ora i giochi e trovare un accordo su un processo dai “tempi certi”, Orlando si chiede: “Conviene rischiare di andare divisi su un tema che si riproporrà nell’approvazione della riforma del processo?”. È il dettaglio un po’ sottovalutato di tutta la partita. Vuol dire che il partito di Zingaretti e Orlando non voterà la legge Costa, presentata dal deputato di FI per abrogare tout court la nuova prescrizione di Bonafede. Non lo farà per non lasciarsi additare come il partito scivolato dal conflitto con Berlusconi sulla giustizia al sostegno di una proposta berlusconiana sulla prescrizione. E ancora, dal punto di vista del Nazareno neppure avrebbe senso inserire il rinvio della prescrizione nel Mille Proroghe. Se non si trova la convergenza con Bonafede su un limite insuperabile per la durata delle fasi processuali, il Pd lascerà che il ddl penale venga deliberato in Consiglio dei ministri e presentato a Montecitorio. Ed è lì - come già lascia intuire Orlando - che i dem proporranno la prescrizione processuale rifiutata dai 5 Stelle. La voterebbero con l’opposizione, certo. E sarebbero comunque accusati di intelligenza con il nemico berlusconiano. Con una differenza: a quel punto l’alleato grillino non potrebbe accusare i democratici di negare agli italiani la riforma che velocizza i processi. Sarebbe piuttosto il Movimento a dover scegliere se approvare un ddl che ha intanto assorbito i correttivi del Pd al blocca-prescrizione. Sarebbero i 5 Stelle, a quel punto, a doversi assumere la responsabilità di cestinare una riforma disegnata, per il resto, proprio da un loro ministro, ossia da Bonafede. È una sfida tattica a sfinire l’alleato. Dietro la stessa mossa con cui Bonafede ha deciso di separare il destino della riforma civile dal ddl delega sul penale s’intravede anche la consapevolezza del ministro che sul secondo dei due dossier può finire in minoranza alla Camera. Poi certo, quando, all’inizio del nuovo anno la nuova prescrizione sarà entrata in vigore e i dem tenteranno la rivincita postuma, l’ombra della crisi di governo potrebbe allungarsi di nuovo. Ma il Pd, in queste ore, ha capito che difficilmente il premier Giuseppe Conte metterà nell’angolo Bonafede sulla prescrizione. E che dunque la partita andrà comunque regolata più avanti. Il guardasigilli a sua volta mostra serenità e anzi ha parole distensive persino per chi, come l’Unione Camere penali, è fiero oppositore del blocca- prescrizione. Da un convegno su “Le Corti fiorentine” organizzato ieri dalla Camera civile del capoluogo toscano, assicura di rispettare “l’opinione dei penalisti” ma anche di conoscerne la “divergenza di opinioni sulla prescrizione. Anche con le Camere penali”, ricorda, “ho cercato di lavorare sui punti su cui potevamo trovarci d’accordo: la riforma penale è frutto di un tavolo con avvocati e magistrati che ha coinvolto anche le Camere penali, con cui non ho mai smesso di cercare il dialogo perché ho nei loro confronti grande rispetto e stima”. Conferma che Bonafede è tanto integralista nelle opzioni politiche quanto aperto al dialogo. Il che certo non disarma la battaglia dell’Ucpi, che lunedì a Roma presenterà una campagna social sulla prescrizione insieme con l’agenzia di comunicazione “The Skill”. “Speriamo di convincere Bonafede e Conte a sospendere l’entrata in vigore della norma”, spiega in una nota l’associazione presieduta da Gian Domenico Caiazza. Ma a questo punto è più probabile che l’impegno dei penalisti fornisca ulteriori argomenti al Pd per la sfida in arrivo, tra qualche settimana, direttamente in Parlamento. Violenza di genere, diminuiscono i reati. Ma è femminicidio il 49% degli omicidi di G. Mau. Il Manifesto, 23 novembre 2019 I dati della Polizia di Stato. Oggi a Roma corteo di “Non una di meno”. L’analisi e lo studio della violenza sulle donne mostra ora con dati certi, provenienti dalla Polizia di Stato, che il fenomeno è in diminuzione nel biennio 2018-2019. Aumentano le denunce, soprattutto al nord, ma calano del 16,7% le violenze sessuali (nel 2017 erano in aumento del +14%), del 2,9% i maltrattamenti in famiglia, del 12,2% gli atti persecutori. Dunque, parlare di “emergenza” è abbastanza improprio, per una questione che è piuttosto il sintomo di una società poco evoluta, gretta e violenta, senza distinzione di sesso. Un fenomeno per arginare il quale non occorrono barricate o muri, ma cure. Per quanto riguarda le uccisioni, i dati diffusi dalla Direzione Centrale Anticrimine nel dossier “Questo non è amore 2019”, in occasione della Giornata internazionale contro la violenza di genere che si celebra lunedì (ma oggi a Roma si sono date appuntamento le femministe di Non Una di Meno per un corteo che parte alle 14 da piazza della Repubblica), parlano di una diminuzione del 4% (dal 38% al 34%) del numero di vittime di sesso femminile sul totale degli omicidi nel periodo gennaio-agosto 2019, rispetto all’anno precedente. Di questi, secondo la Polizia, un po’ meno della metà (49% a fronte del 37% dello scorso anno) è riconducibile al cosiddetto “femminicidio”, ossia l’omicidio di una donna in quanto tale da parte di un uomo che nutre per la vittima sentimenti di possesso. La maggior parte delle vittime (il 67%) è straniera, l’arma più usata è quella da taglio e nel 61% dei casi l’autore del “femminicidio” è il partner. Secondo l’esperienza maturata da quando è stato applicato il Protocollo Zeus, sottoscritto nel 2018 dalla Divisione anticrimine della Questura di Milano con il Centro Italiano per la Promozione e la Mediazione (Cpm), gli uomini violenti ammoniti dal questore tendono a reiterare il reato molto meno: nel 2018 le recidive per i soggetti ammoniti per atti persecutori si attestano sul 20% mentre salgono al 30% per gli ammoniti per violenza domestica. E solo il 10% dei soggetti trattati dal Cpm ha commesso di nuovo un simile reato dopo l’ammonimento. Orfani di femminicidio, una “svista” odiosa lunga 22 mesi di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 23 novembre 2019 È dal febbraio 2018 che la legge istitutiva di un fondo per gli orfani di femminicidio attende il regolamento che la faccia funzionare. Nel frattempo ai ragazzi sono negati i soldi che servono per riprogettare il futuro una delle promesse non mantenute dai politici. Forse la più odiosa. Perché riguarda i bambini, i figli delle vittime di femminicidio. Alcuni hanno il padre in carcere, altri sono orfani di entrambi i genitori perché dopo il delitto l’uomo - come talvolta accade - si è suicidato. Vengono affidati agli zii, ai nonni, ad altri parenti. Molti sono invece trasferiti in “casa famiglia”, perché non hanno nessuno che possa prendersi cura di loro. Tutti hanno comunque bisogno di sostegno, soprattutto economico. Un aiuto per studiare, per costruirsi un futuro. Ma anche un appoggio psicologico che nella maggior parte dei casi rappresenta una speranza. E invece niente, tutto è bloccato. Le inchieste avviate in tutta Italia sui delitti in famiglia evidenziano come sia proprio questo uno degli aspetti più gravi da affrontare: salvare i piccoli dalla follia dei grandi. Non a caso la legge ha previsto una serie di tutele per i ragazzi come “l’accesso al gratuito patrocinio, l’assistenza medico-psicologica, la sospensione della pensione di reversibilità all’omicida, la possibilità di modificare il cognome”. Ma soprattutto “borse di studio, formazione, inserimento lavorativo” oltre ai contributi per le famiglie affidatarie. Il programma indispensabile però si scontra con una serie di ostacoli che appaiono tuttora insormontabili. I regolamenti attuativi non sono stati varati e dunque i fondi sono stati bloccati. Fermi anche i soldi necessari a risarcire chi ha subito atti persecutori, e aggressioni: 25mila per la violenza sessuale; 25mila euro per lesioni gravissime; 10mila per eventuali spese mediche assistenziali. Una situazione assurda, un intoppo inaccettabile. Il 25 novembre, tra due giorni, è la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Al di là dei proclami, delle buone intenzioni, delle nuove promesse che non saranno mantenute, basterebbe raccogliere l’appello che arriva da tutte le associazioni di volontariato, prima fra tutte Sos Villaggi dei Bambini che da anni si occupa degli orfani, ma anche delle mamme in difficoltà perché devono nascondersi per sfuggire alla furia del partner. E garantire che un futuro per questi ragazzi è davvero possibile. Magistrati in rivolta di David Allegranti Il Foglio, 23 novembre 2019 L’incredibile storia di 251 magistrati che hanno vinto un concorso ma sono tenuti in ostaggio dallo Stato che non li fa lavorare. Hanno finito il concorso, bandito nel 2017, nel maggio scorso; la prima graduatoria è stata pubblicata a luglio; la seconda (caso eccezionale, ma c’era da sciogliere una riserva su una candidata) a metà ottobre. Il tempo tuttavia continua a passare inutilmente: duecento cinquantuno neo magistrati, come ha spiegato il Foglio la settimana scorsa, attendono ancora di iniziare a lavorare. Dopo la pubblicazione dell’articolo, abbiamo contattato il ministero della Giustizia per sapere che fine abbia fatto il decreto di nomina che per legge deve essere firmato dal ministro della Giustizia, in questo caso Alfonso Bonafede, entro venti giorni dalla pubblicazione della graduatoria. Dall’ufficio stampa fanno sapere che non esiste alcun decreto di nomina. Anche all’Ufficio centrale di bilancio presso il ministero dicono che da loro non è passato niente da vistare. Eppure i neo magistrati, giustamente esasperati dalle lungaggini, si sono attivati e hanno cercato di reperire informazioni. Una situazione surreale, visto che stiamo parlando di un concorso pubblico e che la trasparenza dovrebbe essere totale. Specie visto che al governo ci sono alcuni presunti paladini dello streaming. Finora però è accaduto tutto il contrario: i neo magistrati si sono dovuti ingegnare raccogliendo informazioni per conto proprio e, in base alle notizie da loro raccolte, il decreto sarebbe stato firmato il 13 novembre ma già il 14 novembre sarebbe stato rimandato indietro al ministro e al suo capo di gabinetto dalla direzione generale del Bilancio. La Ragioneria, secondo quanto ricostruito dai partecipanti al concorso, avrebbe negato il visto. “La nota che ho visionato diceva che il visto non poteva essere apposto perché nel decreto di nomina si faceva riferimento, ai fini della copertura finanziaria, a una norma inidonea (in sostanza un capitolo nel quale non c’erano soldi)”, spiega al Foglio uno dei magistrati che hanno partecipato al concorso. “Si diceva quindi che il decreto doveva essere modificato ed integrato facendo riferimento all’articolo 48 della legge di Bilancio 2020”. Insomma, dice un altro candidato che ha partecipato e vinto il concorso, “hanno bandito un concorso ma poi non avevano i soldi per assumerci. Ma perché non ce l’hanno detto per tempo? Alcuni di noi hanno lasciato il lavoro che facevano. Altri hanno preparato questo esame per anni, potendo contare sull’impegno delle loro famiglie”. Ma che cosa, c’è scritto nell’articolo 48 della legge di Bilancio 2020, che fa parte del Capo II, “misure in materia di giustizia”? “La disposizione consente al ministero della Giustizia di assumere i magistrati vincitori del concorso per 320 posti bandito con decreto ministeriale 31 maggio 2017, le cui procedure si concluderanno nel corso dell’anno 2019. Si prevede che l’immissione in servizio dei nuovi magistrati avverrà a decorrere dal 1° gennaio 2020 e si prevede un totale di 250 vincitori”. Insomma, la legge di Bilancio che deve ancora essere approvata prevede l’assunzione per il 2020 dei 250 (in realtà 251 magistrati) che hanno superato il concorso e impegna le risorse economiche per farli lavorare. Questi magistrati però potevano già essere assunti nel 2019. Solo che nessuno gliel’ha detto e hanno dovuto ricorrere a informazioni parziali o di seconda mano. La situazione è diventata ancora più assurda perché, nel frattempo, è stato indetto, pochi giorni fa, un nuovo concorso per la copertura di 310 posti di magistrato ordinario. E, in più, il ministro Bonafede da giorni si vanta dei risultati straordinari raggiunti dal suo ministero. “Rivendico con orgoglio lo storico risultato che abbiamo già raggiunto ampliando di ben 600 unità il ruolo organico della magistratura grazie alla previsione contenuta nella legge di bilancio per il 2019”, ha detto il ministro Bonafede in un question time alla Camera. “Si tratta probabilmente di un incremento senza precedenti di cui vado particolarmente fiero, perché segna una svolta reale per il ripristino dello stato di salute degli uffici giudiziari di tutto il territorio”. Senz’altro è vero che con la legge di Bilancio 2019 Bonafede ha aumentato il ruolo organico del personale della magistratura per il triennio 2020-2022, ma lascia a casa - per ora - i 251 magistrati che hanno finito quest’anno, a maggio, le prove del concorso bandito nel 2017 da Andrea Orlando, le cui coperture economiche erano state previste durante la precedente legislatura. Il problema è che i vincitori del concorso finito nel maggio 2019 non inizieranno a lavorare prima dell’anno prossimo e ancora non si è capito se questo decreto di nomina esiste per davvero oppure, per evitare una figuraccia sulle mancate coperture, si continua a far finta che non ci sia. Da leghista dico: la tortura è un’infamia di Gianna Gancia Il Riformista, 23 novembre 2019 Egregio direttore, tante, tantissime, forse troppe cose si son dette e si possono dire in tema di tortura. Personalmente, mi piace riandare a una esclamazione semplice, quasi banale, eppure tanto cara a un intellettuale come Leonardo Sciascia: “C’è ancora un giudice a Berlino!”. Cara a Sciascia perché, nella leggenda, era l’urlo liberatorio di un povero contadino prussiano, ingiustamente espropriato da un feudatario. Sì, c’è ancora un giudice a Berlino! Non importa se tu sei il più potente tra i potenti ed io l’infimo tra gli infimi. C’è un giudice a Berlino che applicherà la legge. La quale è uguale per tutti, potenti e meschini! Ed io riavrò il mio podere, perché è un mio diritto. E ancora: lo Stato liberale, con i suoi apparati, ha sì il diritto di interrogarmi, ma mai quello di pestarmi a sangue per estorcermi confessioni. È la differenza, non banale, tra stato di diritto e stato di polizia. Una differenza che distingue anche il corrispondente ruolo apicale, quello del ministro dell’interno in una democrazia liberale dal ministro di polizia nei regimi autocratici. Una differenza che coincide con la legge e con il diritto, che nulla hanno a che spartire con la tortura la quale, come ci insegnava Beccaria, manda assolti i potenti colpevoli e condanna i deboli innocenti. La tortura è il sopruso, la sopraffazione del più debole da parte del più forte. La legge, invece, è il diritto, è la legalità, che punisce un reo solo a seguito di equo processo. Ecco, essere contro la tortura significa essere contro i soprusi e le sopraffazioni, sempre. E a favore del diritto e della legge. Dalla parte dei contadini prussiani di ieri, di oggi e di domani. Abolire il reato di tortura? A piccoli passi verso l’inciviltà di Chiara Formica 2duerighe.com, 23 novembre 2019 Uno Stato civile, il cosiddetto stato di diritto, sarebbe tale se non necessitasse di una legge contro la tortura, ma come definire uno Stato in cui viene auspicata la cancellazione della legge che punisce il reato di tortura? Il 19 novembre il segretario della Lega, Matteo Salvini, intervenendo al Congresso nazionale del Sap (Sindacato Autonomo di Polizia) a Rimini, ha ribadito la sua contrarietà al reato di tortura, promettendo l’abolizione della legge appena tornerà al governo. “Ormai lo sport preferito da alcuni detenuti è la denuncia immotivata di violenza o tortura da parte di donne e uomini in divisa. Bisogna rivedere quella normativa perché c’è l’avvocato “gratis”, all’infinito, non per i poliziotti ma per i delinquenti e quindi qua c’è qualcosa che non funziona” commenta l’ex ministro degli Interni, aggiungendo: “quando torniamo al governo dobbiamo rivedere questa legge perché non si può lavorare col terrore di non poter garantire la propria sicurezza e l’altrui sicurezza”. Il reato di tortura, in Italia, è stato introdotto soltanto due anni fa, con estremo ritardo rispetto a molti altri Paesi ed è stato un barlume di civiltà politica perché orientato a tutelare i diritti dei più deboli. Appena approvata la legge nel luglio 2017, l’Onu l’aveva definita incompleta e inapplicabile. Lo stesso firmatario, il senatore Luigi Manconi, dopo la serie di emendamenti e rimbalzi tra Camera e Senato, al momento della votazione aveva preferito astenersi, non riconoscendovi più i principi che l’avevano ispirata. A mettere in luce le criticità delle affermazioni di Salvini è anche Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone: “quello di Salvini sulla tortura è un messaggio che si pone contro il buon senso, la giustizia, l’umanità e i diritti umani. Un messaggio contro la legalità, un messaggio che spacca il Paese […] Salvini vorrebbe probabilmente l’impunità di chi usa violenza e invece sarebbe importante che tutti quegli operatori delle carceri e delle forze dell’ordine che lavorano nel rispetto della legge e dei diritti delle persone arrestate - e sono la stragrande maggioranza - reagiscano a questo tipo di messaggio che tendenzialmente non condanna l’uso arbitrario e truce della violenza, fisica o psichica”. SI recenti fatti di cronaca giudiziaria stanno dimostrando la necessità di una legge che contrasti seriamente la tortura, eppure il segretario leghista ha scelto proprio questo momento storico per rinnovare il suo dissenso rispetto al reato in questione. Pochi giorni dopo la condanna dei due carabinieri che uccisero Stefano Cucchi prendendolo a botte e dopo gli arresti domiciliari dei 6 agenti di polizia penitenziaria del carcere di Lorusso e Cutugno. È vero che i carabinieri condannati per l’omicidio Cucchi non sono stati condannati per tortura, ma è anche vero che all’epoca dell’apertura del processo questo reato non era previsto dal codice penale, come spiegato anche da Associazione Antigone. Coerente con la volontà di eliminare il reato di tortura, la posizione di Salvini in merito alla vicenda dei 6 agenti di polizia penitenziaria sottoposti agli arresti domiciliari per il reato di tortura. “Uno Stato civile punisce gli errori, se uno sbaglia in divisa sbaglia come tutti gli altri. Però che la parola di un detenuto valga gli arresti di un poliziotto a me fa girare le palle terribilmente. Quindi la mia massima solidarietà a quei sei padri di famiglia”, questo il commento di Matteo Salvini. Secondo l’accusa gli atti di violenza degli agenti nei confronti dei detenuti sarebbero avvenuti dall’aprile 2017 fino al novembre 2018. Dalla ricostruzione dei fatti si evince che gli agenti avrebbero picchiato i detenuti con calci e pugni, indossando guanti in modo da non lasciare tracce e colpendoli allo stomaco, così che i lividi fossero meno visibili. Le violenze sarebbero avvenute nelle stanze prive di videocamere di sorveglianza, nei corridoi, sulle scale e nei passaggi tra una sezione e l’altra. Dalle carte del pm risultano minacce, schiaffi e sputi nei confronti di detenuti che venivano malmenati, denudati e insultati. Alla violenza fisica infatti si sarebbe aggiunta anche quella psicologica: dal versare detersivo per piatti sul letto di un detenuto al leggere ad alta voce, davanti agli altri reclusi, i capi di imputazione dei detenuti riportati negli atti del processo. 22 anni in celia, innocente. Il Governo: non lo risarciamo di Nicola Biondo Il Riformista, 23 novembre 2019 I legali dell’esecutivo: “non ha prove”. Torturato, picchiato, scarcerato per un delitto mai commesso dopo 38 anni di processi, Giuseppe Gulotta ha citato per danni il premier Conte e i ministri. Ma gli avvocati dello Stato dicono: “Non le dobbiamo niente”. L’avvocato del popolo Giuseppe Conte sa che cosa scrivono i suoi legali? Probabilmente no. Eppure questa storia lo riguarda da vicino. C’è un uomo di 61 anni, si chiama Giuseppe Gulotta e ha passato più della metà della sua vita nei tribunali, ha scontato 22 anni di carcere, è stato torturato in una caserma dei carabinieri di Alcamo, in Sicilia, affinché confessasse un delitto atroce mai commesso, aver ucciso due carabinieri, Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. Il processo che lo ha spedito all’ergastolo insieme ad altri quattro compagni di sventure era basato su una lunghissima serie di prove false e di abusi, una frode processuale. Dopo trentotto anni Gulotta è stato riabilitato, una sentenza di Cassazione gli ha ridato l’onore e la libertà. Gulotta è un timido. Finisce in tv in prima serata a raccontare la sua vita randagia e il miracolo che l’ha salvata, ma non si monta la testa, mai una parola fuori posto: è stato un detenuto modello e da libero è un modello di moderazione. Ringrazia i giudici, ricorda sempre le vittime della strage di Alcamo e ha un piccolo sogno nel cassetto: che le istituzioni gli mandino un segnale. un gesto di conciliazione, di solidarietà. La sua storia, arrivata fino al salotto tv di Fabio Fazio, non ottiene però davvero le luci dei riflettori mainstream che avrebbe meritato. Non si fa vivo nessuno. Perché mai? Probabilmente perché quella di Gulotta è una storia “maledetta”. Maledetta come tutte le storie di mafia e di antimafia. A capeggiare il nucleo che tortura e manda Gulotta all’ergastolo, insieme ad altri quattro ragazzi di cui due minorenni, è infatti il colonnello Giuseppe Russo, braccio destro di Carlo Alberto Dalla Chiesa. Russo viene ucciso nel 1977, l’anno successivo ai fatti di Alcamo che costano la prigione a Gulotta. Anno in cui la sua squadra si macchia di un altro orribile episodio. A seguito della morte del loro capo, ucciso per mano mafiosa a Ficuzza, torturano tre pastori analfabeti. Ma torniamo a Gulotta e alla sua solitudine. Che qualcosa non funzioni viene percepito anche dalla Suprema Corte. Mentre la Cassazione chiede la sua assoluzione, l’avvocatura dello Stato va giù durissima: Gulotta è colpevole, non è mai stato torturato, vi sta prendendo in giro. “Per chi lavorate voi?”, sbotta in aula il Procuratore Generale rivolgendosi ai legali dello Stato. Incredibile vero? La Corte condanna l’Avvocatura a una pena pecuniaria. hanno portato avanti una lite temeraria. Soldi pubblici, ovvio (e scusate la retorica). È l’inizio del cortocircuito. Due anni dopo la stessa avvocatura si oppone al risarcimento per l’ex-ergastolano, “non merita nulla, è colpevole”. Le sentenze della Cassazione per questi principi del Foro sono evidentemente carta straccia: un colpo di Stato contro lo Stato di diritto. Siete sicuri di essere al sicuro? Per tornare alla nostra storia, il risarcimento per Gulotta arriva ma è parziale: 6 milioni di euro per 22 anni in carcere e 36 di processi. La Corte che lo accorda aggiunge che Gulotta “avrebbe dovuto agire con una tipica azione aquiliana verso i militari responsabili dei fatti di reato che assume essere stati causa della sua ingiusta condanna evocando in giudizio pure i competenti Ministeri con cui quei militari si trovavano in rapporto di immedesimazione organica”. E siamo ad oggi. Martedì si apre a Firenze un processo per risarcimento danni, a essere citato è il vertice del Governo: da Conte ai ministri della Difesa e Interno, Guerini e Lamorgese e con loro il Comando generale dell’Arma e i tre carabinieri che operarono abusi e torture. È la prima volta, mai nessuno aveva “osato tanto”. Ma di nuovo per gli avvocati del governo nulla è dovuto. E la faccia feroce che ancora una volta lo Stato mostra a Gulotta riesce anche a piegarsi in un ghigno che in confronto il Marchese del Grillo appare San Francesco. Non solo secondo gli avvocati del governo “non ci sono prove degli abusi”, ma ammesso che ci siano stati i reati sono prescritti si parla di tortura e prove false, non di una mancata notifica) e quindi è prescritto l’eventuale risarcimento. E si arriva agli insulti in carta bollata e con le stimmate del governo: Gulotta, scrivono gli avvocati di Conte “ha prodotto in questo processo solo carte” per provare il danno ricevuto. E che cosa avrebbe dovuto produrre secondo gli azzeccagarbugli del Governo, fiaschi di vino e stracotto di asino? Attenzione, questo punto riguarda tutti non solo Gulotta. Perché quelle che vengono definite solo “carte” sono sentenze di Cassazione, sentenze di tribunali, indagini compiute da Procure. Come può lo Stato far finta che non esistano, come può negarle? Può capitare a chiunque. Non basta. Secondo l’Avvocatura Gulotta ha già ricevuto “una macroscopica cifra”. Della serie, che cosa vuole ancora? Alzi la mano chi farebbe a cambio, chi baratterebbe la propria vita, 22 anni di carcere e 38 di processi con 5 milioni? E siamo alla fine. Martedì prossimo si apre a Firenze il processo di risarcimento, da una parte una vittima conclamata, dall’altra lo Stato, l’Arma dei Carabinieri, il vertice del Governo. È la prima volta: perché Gulotta, e i suoi avvocati Pardo Cellini e Saro Lauria, sono coraggiosi e testardi. Qualsiasi sia l’entità del risarcimento c’è un principio da ribadire: non siamo sudditi. E se questo fosse un film l’avvocato del popolo Giuseppe Conte si presenterebbe in aula e prenderebbe posto accanto a Giuseppe Gulotta. al cittadino modello Giuseppe Gulotta. Che lo Stato ha lasciato sempre solo. Lo lasceranno solo anche i parlamentari di questo Paese? Sicuri che vogliano arrendersi a un simile abominio? Liguria. Garante per i detenuti, l’attesa sta per terminare di Michela Bompani La Repubblica, 23 novembre 2019 Durerà probabilmente ancora poco, dopo un’attesa di anni, il record negativo della Liguria in ambito di organizzazione del sistema carcerario. La nostra regione è l’unica in Italia insieme alla Basilicata a non avere un garante regionale dei detenuti, né un testo che lo istituisca. Dopo le accuse degli addetti ai lavori e, nell’edizione di ieri, l’appello lanciato dalle colonne di Repubblica dal garante nazionale delle persone detenute Mauro Palma, “entro l’anno salvo sorprese la legge dedicata arriverà in Consiglio regionale”. A confermare lo sblocco della situazione è Gianni Pastorino, consigliere ligure di Linea Condivisa (ex Rete a sinistra), primo firmatario della proposta di legge sul tema, ferma in commissione da mesi. “Nelle prossime settimane si troverà la convergenza sui testi delle diverse proposte di legge già avanzate a riguardo, la nostra e quella del Pd, e - è il suo annuncio - nella seduta del Consiglio del prossimo 17 dicembre se ne discuterà in aula”. Da tempo in stand by, nonostante un sostegno assolutamente trasversale (dalla sinistra a Forza Italia, Pd e M5S compresi), la proposta di legge necessaria per designare un garante dei detenuti da impegnare nelle carceri della Liguria si era arenata a inizio anno “a causa dell’ostruzionismo della Lega - continua Pastorino - che non permetteva la definizione dal punto di vista finanziario dell’istituzione dell’incarico. Arrivare in Consiglio sarà un passo decisivo, e il giusto frutto di un impegno in rete tra associazioni e istituzioni di settore che va avanti dall’inizio della legislatura”. Bologna. Si uccide in carcere ex affiliato della banda di Igor Corriere di Bologna, 23 novembre 2019 Costantin Fiti, romeno di 27 anni, era stato condannato all’ergastolo per l’omicidio di Pier Luigi Tartari nel corso di una rapina. Si è ucciso giovedì poco dopo le 22, impiccandosi nella sua cella del carcere bolognese della Dozza, Costantin Fiti, romeno di 27 anni condannato all’ergastolo per l’omicidio di Pier Luigi Tartari, pensionato di 73 anni ucciso a settembre 2015 ad Aguscello, nel Ferrarese nel corso di una rapina da parte della banda di Ivan Pajdek. Era un gruppo di rapinatori seriali spietati che in quegli anni seminarono razzie e violenze nelle campagne tra Ferrara e Rovigo, con i quali operava anche Norbert Feher, alias Igor il russo. Tartari fu massacrato di botte, torturato e ucciso, lasciato agonizzante in un casolare in campagna. Per puro caso quella notte anche Feher non era con la banda, accertarono le indagini, da cui si era allontanato per degli screzi sulla divisione del bottino. Costantin Fiti, che sarebbe stato in cella di isolamento, era stato processato assieme a Patrik Ruszo e al capo della banda Ivan Pajdek, condannati rispettivamente all’ergastolo e a 30 anni di reclusione. Solo pochi giorni fa il sindacato di polizia penitenziaria Sinappe aveva sollevato alcune criticità dovute al sovraffollamento all’interno della struttura, con una lettera alla direzione del carcere e al provveditorato dell’amministrazione penitenziaria di Emilia-Romagna e Marche. La direzione ha risposto confermando in una nota le problematiche che impediscono, ad esempio, di rispettare i tempi per le dimissioni dei detenuti ricoverati in infermeria. Almeno due detenuti ad alto rischio suicidiario, inoltre, sono stati sottoposti a sorveglianza speciale. Un altro suicidio nel carcere di Bologna, di Antonio Ianniello* Si è verificato il secondo suicidio nel corso del 2019 nel carcere di Bologna nel giro di qualche mese. Questa volta si è trattato della tragica vicenda personale di un ragazzo condannato all’ergastolo e in isolamento diurno che ha deciso di spezzare la propria vita difficile. C’è grande sconforto personale e istituzionale al cospetto di questi tragici accadimenti, anche considerando che, nell’attuale contesto penitenziario, le condizioni detentive delle persone e le condizioni lavorative degli operatori sembrano tendere a un progressivo deterioramento alla luce del numero sempre meno sostenibile delle presenze in carcere. Riguarda il recente periodo l’evidente peggioramento delle condizioni detentive presso gli spazi dell’Infermeria del carcere di Bologna (arrivata a contare la presenza di 100 persone), e in particolare di quelli destinati all’accoglienza delle persone che fanno ingresso in carcere dove stanno sino a 3 persone per cella, anche per non brevi lassi temporali, chiuse 20h su 24h. In simili frangenti emerge l’inadeguatezza del complessivo sistema che deve tendere al recupero della persona e che, invece, non di rado, può anche degradare verso trattamenti inumani. Pur nell’attuale complessità della situazione, e nella pratica impossibilità di poter presidiare le (non poche) situazioni che possono essere potenzialmente stressanti in un contesto di privazione della libertà personale, risulta urgente rendere più incisivi gli interventi orientati alla prevenzione delle condotte suicidarie in carcere, attraverso il coinvolgimento di tutti i soggetti, istituzionali e non, che fanno parte della comunità penitenziaria, e anche chiedendo l’ausilio delle persone detenute, addestrate, attraverso attività di gruppo fra area penitenziaria e area sanitaria, a offrire vicinanza e supporto sociale ai soggetti a rischio. E sin da subito andrà dedicata grande attenzione alle persone comunque coinvolte in questo tragico evento (personale e altre persone detenute), prevedendo uno spazio in cui possa essere rielaborato emotivamente l’evento, secondo quanto indicato dal Piano nazionale per la prevenzione delle condotte suicidarie in carcere. Persiste la necessità che la società esterna perseveri nella costruzione di relazioni di prossimità con il carcere, coltivando buone prassi all’interno insieme a chi lì vive con grande senso di responsabilità, insieme a chi lì lavora con grande senso del dovere, insieme a chi lì opera in attività di aiuto con grande generosità. *Garante per i Diritti delle persone private della Libertà personale del Comune di Bologna Parma. Il Governo: “Carcere, in arrivo soluzioni anche per l’organico” Gazzetta di Parma, 23 novembre 2019 “Bene la risposta del Governo di questa mattina alla Camera in merito al Carcere di Parma”. A dirlo è il deputato 5 Stelle Davide Zanichelli, autore di una interrogazione parlamentare in cui sollevava diverse criticità che riguardano il penitenziario di via Burla, “in particolare riguardo all’aumento di 200 detenuti a seguito dell’apertura di un nuovo padiglione, che costituisce una positiva estensione dell’edilizia penitenziaria volta a superare il problema del sovraffollamento”. Questa mattina è arrivata la risposta del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Gianluca Castaldi che ha dichiarato espressamente che “le problematiche sono in via di risoluzione”, in particolare l’aspetto dell’organico, grazie a un recente concorso per 2.851 nuovi sovrintendenti che potrà costituire un ulteriore un bacino a cui attingere per un ulteriore potenziamento rispetto al recente aumento di 13 unità dell’organico di luglio 2019. “Anche per quanto riguarda la direzione, la prossima emanazione di un decreto interministeriale che individua l’assunzione di 45 nuovi dirigenti penitenziari potrà contribuire a tamponare la situazione - scrive in una nota Zanichelli. La vicinanza rispetto agli operatori di polizia penitenziaria è rappresentata inoltre dalle recenti misure del primo Governo Conte, che ha innalzato ulteriormente il livello di tutela penale per gli operatori di pubblica sicurezza, escludendo l’applicabilità dell’esimente della particolare tenuità prevista dall’art. 131 bis del codice penale proprio rispetto ai reati di violenza, resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale. Inoltre è anche garantita la copertura per gli interventi finalizzati all’abbattimento delle barriere architettoniche interne all’istituto, così come la predisposizione di una nuova cucina aggiuntiva in vista dell’apertura del nuovo padiglione per i primi mesi del 2020. Infine, risale ad aprile l’istituzione di un Gruppo di lavoro, composto da operatori penitenziari esperti nel settore, con il compito di individuare nuovi modelli organizzativi finalizzati a una migliore gestione degli eventi critici in ambito penitenziario. Sappiamo che le carceri vivono situazioni difficili, sia per il personale della polizia penitenziaria, che per i detenuti. Anche per questo motivo il 29 Ottobre il ministero ha disposto la sospensione per due mesi le assegnazioni ad “Alta Sicurezza 3? al carcere di Parma. Resta infatti ferma intenzione di questo Governo intervenire per contrastare il problema del sovraffollamento delle carceri con l’obiettivo di garantire agli operatori un contesto lavorativo più sicuro”. Pistoia. Riabilitarsi alla vita attraverso il lavoro diocesipistoia.it, 23 novembre 2019 Il progetto “Grappoli 2019” proposto dalla Cooperativa in Cammino ha offerto esperienze lavorative a minorenni segnalati dalla magistratura e a detenuti a fine pena. Una proposta di riscatto che porta frutto. Con il mese di ottobre la Cooperativa In Cammino ha concluso il progetto “Grappoli 2019” che ha attivato percorsi di inclusione lavorativa nei sei mesi da aprile a ottobre 2019. Il progetto - illustrato dalla Cooperativa in un comunicato stampa- è stato possibile grazie al finanziamento della fondazione Caript sul Bando socialmente 2018, della Caritas diocesana e della Fondazione Un Raggio di luce. Il progetto ha attivato delle esperienze lavorative vere e proprie nel settore della carpenteria in ferro e nell’orticultura ed è rivolto a ragazzi giovanissimi seguiti dal tribunale dei minorenni (nel laboratorio) e persone che sono nella fase finale-semiliberi, in arresti o detenzione domiciliare, in affidamento in prova di un loro percorso giudiziario (negli orti). Pur avendo caratteristiche e condizioni di età differenti, quanti seguono il progetto sono purtroppo accomunati da un modo negativo di pensare il lavoro, mirato esclusivamente a un riscontro economico, mistificando tutti quegli aspetti positivi che il lavoro porta con sé, primo fa tutti un effettivo inserimento sociale. Quanti sono stati coinvolti nel progetto - si legge nel comunicato - “hanno svolto la loro attività sotto la guida di un istruttore che ha curato l’aspetto organizzativo e l’acquisizione di competenze specifiche in un contesto in cui si assumono le regole e i comportamenti richiesti dal normale mercato del lavoro”. Un aspetto, quest’ultimo che resta determinante per la Cooperativa In Cammino, in quanto favorisce: “una situazione nella quale è possibile verificare, correggere, stimolare quegli atteggiamenti che stanno alla base di un effettivo inserimento lavorativo positivo e di andare a intervenire sulle mentalità che generano marginalità”. Il progetto ha poi previsto un contributo economico di presenza per andare incontro alle legittime necessità delle persone inserite. La cooperativa In Cammino ha effettuato 16 inserimenti della durata media di tre mesi nel laboratorio di carpenteria in ferro e 22 inserimenti della durata media di tre mesi negli orti che la Cooperativa ha in affitto nei pressi della sede in via Seiarcole. Al termine del corso è stata senz’altro più facile la ricerca di un’occupazione stabile; “alcuni hanno trovato impiego in aziende del territorio, altri sono ancora alla ricerca di un’occupazione all’altezza delle necessità”; in ogni caso la cooperativa ha accompagnato diverse persone al loro fine pena, mettendole nella condizione di poter cercare un lavoro liberi dai condizionamenti e dai possibili preconcetti legati alla loro storia di detenzione. Le attività proposte nel progetto “Grappoli” - si legge nel comunicato - “sono da considerarsi una sorta di “palestra” nella quale migliorare le proprie capacità lavorative, ma anche misurarsi con sé stessi e attivare quelle risorse e attitudini che rendono capaci di collaborare, progettare, costruire insieme”. Consistente, infine, il numero di giovanissimi in carico al tribunale dei minorenni, per i quali un approccio concreto con un lavoro manuale ha costituito motivo di rinnovato interesse e di partecipazione tale da mutare il loro atteggiamento di fronte alla vita e alla società. “Cogliamo l’occasione - conclude la Cooperativa in cammino - per ringraziare quanti, con il loro finanziamento, hanno reso possibile questo progetto”. Info: incamminocooperativa.org. Lucca. Detenuti al lavoro, buoni risultati al “San Giorgio” luccaindiretta.it, 23 novembre 2019 “Liberi dentro” è il progetto che coinvolge i detenuti del carcere di San Giorgio e gli ospiti della Casa San Francesco di Lucca e ha visto la realizzazione in queste due sedi di laboratori permanenti per la digitalizzazione dei documenti amministrativi Asl. Il percorso è stato sviluppato dall’Asl Toscana nord ovest con alcuni partner che hanno creduto fin da subito nella rilevanza dell’iniziativa: l’Arcidiocesi di Lucca - ufficio pastorale Caritas, la casa circondariale San Giorgio di Lucca ed il Gruppo volontari carcere di Lucca. Oltre all’azienda sanitaria, che ha investito quasi 21mila euro, hanno finanziato l’intervento la Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca (40mila euro), la Caritas diocesana (oltre 28mila euro) e la Regione Toscana (quasi 16mila euro), per un costo totale superiore ai 100mila euro. Un primo bilancio del progetto, innovativo a livello nazionale, è stato fatto ieri (21 novembre) durante un convegno che si è tenuto nella cappella Guinigi del complesso di San Francesco, nel corso del quale i detenuti della casa circondariale e gli ospiti della casa di San Francesco di Lucca hanno anche raccontato la loro esperienza di lavoro, che consiste essenzialmente nella digitalizzazione di documenti amministrativi attraverso la scansione, la categorizzazione e l’inserimento di dati in un programma on line. L’importanza ed il carattere innovativo del percorso, attivato un anno fa, sono stati evidenziati dall’assessore regionale al diritto alla salute Stefania Saccardi, dal direttore amministrativo dell’azienda Asl Toscana nord ovest Gabriele Morotti, insieme anche al capo staff della direzione Alessandro Iala e alla responsabile del progetto per l’Asl Giuliana Martinelli, dall’arcivescovo di Lucca monsignor Paolo Giulietti, dal presidente Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca, Marcello Bertocchini, insieme alla vice presidente Lucia Corrieri Puliti, dal sindaco di Lucca e presidente della conferenza zonale sindaci della Piana di Lucca, Alessandro Tambellini, dal sindaco di Viareggio e presidente della conferenza zonale dei sindaci della Versilia, Giorgio Del Ghingaro, dal sindaco di Borgo a Mozzano e presidente conferenza zonale dei sindaci della Valle del Serchio, Patrizio Andreuccetti, dal direttore dell’ufficio detenuti e trattamento del Provveditorato regionale amministrazione penitenziaria Toscana-Umbria, Angela Venezia, dal direttore della Caritas di Lucca Donatella Turri, dal direttore della casa circondariale di Lucca, Santina Savoca e dal presidente Gruppo volontari Carcere, Gabriele Ferro. Il progetto è caratterizzato da un alto valore sociale ma presenta anche una grande utilità pratica, visto che l’Azienda sanitaria potrà sostituire una parte dell’archivio amministrativo cartaceo con uno digitale, più facile da consultare, liberando così anche alcuni spazi. L’aspetto più importante, comunque, è sicuramente quello legato all’inclusione attiva dei detenuti, ai quali viene offerta un’opportunità di impiego che continua nel tempo e si fornisce una piccola fonte di guadagno e competenze specifiche che potranno essere utilizzate quando avranno scontato la pena. L’obiettivo generale di Liberi dentro è infatti quello di contribuire - all’interno di un più vasto programma di azioni formative - alla riabilitazione dei detenuti, o comunque di persone che hanno avuto l’esperienza del carcere, per definirne il percorso verso la futura autonomia e il reinserimento nel mondo del lavoro. Treviso. Polemica sulle carceri, i Sindaci: “tutti dentro”. Il pm Dalla Costa: “non si può” di Giorgio Barbieri La Tribuna, 23 novembre 2019 I primi cittadini chiedono pene severe, immediate e certe. Il procuratore: “Celle già sovraffollate e senza personale”. “La prevenzione serve ed è utile, ma l’unico modo per mettere fine ai furti è punire i responsabili. Basta carceri con porte girevoli, i colpevoli stiano in cella da subito”. A dirlo sono i sindaci, tutti, dal Pd alla Lega, testimoni dell’ennesimo raid d’autunno dei ladri in provincia. Ma a rispondere è direttamente il procuratore della Repubblica di Treviso: “Non si può, le carceri sono già oltre i limiti”. “In carcere” - “Io so che periodicamente in questo periodo arrivano gli incursori, e so che le denunce e le statistiche descrivono il fenomeno fino ad un certo punto, la realtà è che abbiamo una pattuglia per tre comuni. La battaglia è persa in partenza” dice il sindaco di Santa Lucia di Piave Riccardo Szumski, “soprattutto con questo sistema legislativo: se per mandare in carcere un ladro dobbiamo aspettare la Cassazione siamo morti.... Prendere i ladri sul fatto è impossibile, ma se il carcere è carcere, allora magari qualcuno ci pensa due volte, e se aggiungessimo magari prevenzione e più pattuglie allora qualcosa cambierebbe”. Gli fa eco Pieranna Zottarelli da Roncade, sindaco Pd che già l’anno scorso dovette assistere ad un vero e pesantissimo assedio di ladri nelle sue frazioni: “Il ladro preso in flagranza è una rarità, ma non per inefficienza della rete, che c’è ed è capillare, ma per rapidità di esecuzione dei furti e altrettanto rapida fuga. La soluzione? Pene certe, detenzione immediata. non servono a nulla le carceri con le porte girevoli. I ladri devono trovarsi nella condizione che non sia più conveniente continuare”. E aggiunge: “Pensare di difendere tutte le case, ovunque, è materialmente impossibile. Schierarsi tutti dalla stessa parte e lavorare per prevenzione e attenzione aiuta”. Dal capoluogo il sindaco Mario Conte prima sottolinea come “i dati siano in netto miglioramento”, poi prosegue: “Bisogna lavorare per tenere alta l’attenzione. Cercare di aiutarsi è utile, prevenire è l’unica strada; presidiare tutto il territorio è impossibile, la battaglia è squilibrata anche perché le bande si sentono tutelate per l’incertezza della pena. Servono leggi più severe. Non sono state fatte: dove c’erano i ministri Cinque Stelle siamo al disastro”. La giustizia - Le esigenze dei sindaci però si scontrano con la realtà dei fatti. “Il problema è complesso”, afferma il procuratore Michele Dalla Costa, “e si è aggravato nel corso degli anni perché si sono inserite norme punitive mentre la legislazione non consente di usare questo strumento. E il problema è che non si cambiano le leggi perché le carceri sono sovraffollate, non all’altezza con le esigenze repressive né con la tutela del detenuto. Non c’è personale per la vigilanza e non ci sono momenti di vera e propria rieducazione. Il paradosso che è meglio non mandare gente in galera perché chi ci va ha un tasso di recidiva estremamente elevato”. Per il capo della Procura di Treviso i dati sono però in calo. “Ma per quanto riguarda la repressione le forze non sono sufficienti”, aggiunge Dalla Costa, “capisco che ci sia del malcontento generalizzato, la i dati indicano un calo dei processi”. Sassuolo (Mo). Detenuti al lavoro per pulizie e manutenzioni, accordo Comune-carcere di Annalisa Servadei modenatoday.it, 23 novembre 2019 Stimolare il reinserimento nella società di quei detenuti che sono giunti alla fine della loro pena, attraverso lavori socialmente utili alla comunità. Ecco la convenzione tra Comune di Sassuolo e Casa circondariale di Modena. Tinteggiare gli edifici, sistemare i marciapiedi e le aiuole, spalare la neve e pulire le strade, sono solo alcune delle attività socialmente utili in cui i detenuti potranno cimentarsi grazie ad una convenzione tra il Comune di Sassuolo e la Casa Circondariale di Modena per realizzare un progetto lavorativo di reinserimento sociale. Tale convenzione avrà durata di un anno, con possibilità di rinnovo previa richiesta di una delle due parti prima della naturale scadenza. Le persone individuate svolgeranno, sotto il coordinamento di Sgp, lavori di piccola manutenzione nelle strade, nei parchi e negli edifici cittadini. “Il Comune di Sassuolo e la Casa Circondariale di Modena, valutata la positiva esperienza pregressa - si legge nella delibera - hanno proceduto alla stipula di una nuova convenzione per l’avvio di progetti di pubblica utilità ai sensi della normativa succitata, promuovendo la realizzazione di un progetto volto ad offrire una opportunità di recupero sociale per un gruppo di soggetti ristretti sul territorio del Comune di Sassuolo, comportante nella fattispecie il coinvolgimento di detenuti da impiegare in interventi di pulizia di aree cittadine pubbliche e patrimoniali e/o di edifici del patrimonio comunale compresi piccoli lavori di manutenzione, nonché in operazioni di trasloco su richiesta dei servizi comunali”. I soggetti saranno individuati e messi a disposizione dalla Casa Circondariale di Modena ed i lavori potranno riguardare: piccoli interventi manutenzione stradale sui marciapiedi, o la copertura di buche e di edifici pubblici come tinteggiature e piccole riparazioni, o ancora la pulizia di aiuole, aree verdi e parchi; o infine gli interventi resi necessari a seguito di particolari eventi atmosferici quali la rimozione della neve dalle aree pubbliche comunali dai marciapiedi, scuole, parcheggi; la sistemazione di panchine, cestini. “Un’opportunità che ci sembra giusto offrire - sottolinea il Sindaco di Sassuolo Gian Francesco Menani - a chi sta terminando la pena ed abbia intenzione di reinserirsi, anche dal punto di vista lavorativo, nel nostro tessuto sociale. Chi ha sbagliato ed ha pagato per l’errore commesso, è giusto abbia l’occasione di riprendere la propria vita iniziando proprio dal rendersi utile nei confronti della comunità. Le cose da fare, in città, sono tante e non sempre il personale è sufficiente a compiere, in maniera tempestiva e puntuale, tutti gli interventi necessari: grazie a questa convenzione Sgp, e quindi il Comune di Sassuolo, avrà la possibilità di avere a disposizione un’ulteriore persona idonea a svolgere i lavori necessari”. Siena. “Messa alla prova”, protocollo d’intesa per i detenuti con pene inferiori ai 4 anni radiosienatv.it, 23 novembre 2019 La misura consente agli imputati di accedere a un programma di trattamento riabilitativo alternativo alla pena. È stato presentato ieri, 22 novembre, nei locali del palazzo dell’amministrazione provinciale di Siena, il Protocollo di Intesa per l’attivazione dell’iniziativa “messa alla prova” per detenuti con pene inferiori ai 4 anni. Anche in diversi Comuni del senese si potrà ricorrere, dunque, alla cosiddetta “messa alla prova”, ovvero la misura che consente agli imputati puniti con la sola pena pecuniaria o con la pena detentiva non superiore a quattro anni, di accedere a un programma di trattamento riabilitativo alternativo alla pena. Ciò è stato reso possibile con la firma della Convenzione con il Ministero di Giustizia e del Protocollo di intesa fra Società della Salute Senese, Fondazione Territori Sociali Altavaldelsa (Ftsa), la Società della Salute Altavaldelsa, l’Ufficio di Esecuzione Penale Esterno (Uepe di Siena e Grosseto), la Casa Circondariale di Siena, la Casa di Reclusione di San Gimignano, l’Associazione “Aleteia - Studi e ricerche giustizia riparativa e mediazione” e l’Associazione “Apab”. Il programma prevede come attività obbligatorie: l’esecuzione di lavori di pubblica utilità presso i Comuni che hanno aderito all’accordo, l’attuazione di condotte riparative, finalizzate a eliminare le conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, il risarcimento del danno cagionato e, ove possibile, l’attività di mediazione con la vittima del reato. “Dopo due anni di lavoro finalizzati al raggiungimento dell’accordo - sottolineano i responsabili delle Associazioni Aleteia, Apab e “Il Telaio delle Idee”, che svolgono la preziosa attività di promozione e facilitazione della misura - siamo veramente lieti della sottoscrizione di questo Protocollo d’Intesa che, da un lato, permette, di rendere più efficace il percorso di reinserimento sociale e di responsabilizzazione di coloro che hanno commesso un reato, consentendo loro di accedere, in ogni fase del procedimento penale, a servizi di giustizia riparativa e, dall’altro, di conferire risorse per contribuire al miglioramento dei vari servizi offerti da enti locali e da associazioni”. “È un passo importante - aggiunge Giuseppe Gugliotti, presidente della Società della Salute Senese - che testimonia l’attenzione delle nostre Società della Salute e dei nostri Comuni nei confronti di progetti di reale promozione delle persone e, allo stesso tempo, ne evidenzia la capacità di cogliere opportunità per coinvolgere risorse nelle attività di servizio alla comunità”. Viterbo. Testimoni di Geova in prima linea contro i suicidi in carcere tusciaweb.eu, 23 novembre 2019 La congregazione sulle iniziative che coinvolgono i detenuti di Mammagialla. Secondo le statistiche nel 2018 sono stati 67 i suicidi nelle carceri italiane: un numero al-larmante, tra l’altro costantemente in crescita. Questo drammatico fenomeno ha destato la preoc-cupazione degli educatori e l’attenzione delle autorità che in alcune regioni hanno istituito un piano per la prevenzione delle “condotte suicidarie”. Coerentemente con questo piano, nei mesi scorsi i Testimoni di Geova hanno promosso una campagna su tutto il territorio nazionale, distribuendo in tutti gli istituti penitenziari d’Italia una edizione speciale della Torre di Guardia dal tema “Che senso ha vivere?”. In molte carceri sono state organizzate anche conferenze e sessioni individuali di approfondimento che hanno illustrato quali principi morali indicati nelle Sacre Scritture possono dare uno scopo alla vita e promuovere il recupero emotivo e sociale dei detenuti. Questa iniziativa ha coinvolto con successo anche la Casa Circondariale di Viterbo: gli otto ministri di culto dei Testimoni di Geova che da anni sono impegnati in questo istituto, d’accordo con la Direzione del carcere, hanno allestito nel teatro della struttura viterbese una conferenza con la presentazione della rivista “Che senso ha vivere?” e la proiezione di alcuni video pertinenti all’argomento tratti da jw.org, il sito ufficiale dei Testimoni di Geova. Trenta le persone presenti, ventisette detenuti e tre agenti di polizia penitenziari, oltre alla dottoressa Natalina Fanti, Responsabile degli Educatori: un suo intervento ha aperto i lavori. Il successo dell’iniziativa è frutto di un lungo e fruttuoso lavoro di collaborazione e fiducia tra i vertici dell’istituto (che non dimentichiamo è un carcere di massima sicurezza e ospita circa 560 detenuti) e i ministri di culto Testimoni. Ai Testimoni di Geova, già due anni fa erano stati concessi due locali adibiti a Sale del Regno (una nel reparto Penale, l’altra nel Reparto Giudiziario, entrambe con regolari adunanze), ma questa era la prima volta che veniva concesso l’uso di un grande locale in cui poter ospitare, insieme, i detenuti del reparto giudiziario e del reparto penale. A riprova di questa fattiva collaborazione, la stessa dottoressa Fanti ha osservato: “In questa Casa circondariale, da molti anni opera la Congregazione Cristiana dei Testimoni di Geova. I ministri di Culto, che fanno regolarmente ingresso nei vari reparti, illustrano a tutti i detenuti interessati i principi biblici, utili per un eventuale cambiamento volto a un recupero sociale. La Direzione ha messo anche a disposizione due locali (Sale del Regno) dedicate alla loro attività. La loro opera rende sicuramente costruttiva la detenzione di alcuni soggetti, che mostrano la volontà di voler modificare il proprio stile di vita”. Attualmente sono undici i detenuti che stanno studiando la Bibbia nel carcere di Viterbo. Parma. Per i giudici non è un mafioso, ma è detenuto ancora al 41bis di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 novembre 2019 Può accadere che al regime del 41bis, la frontiera massima dell’intervento punitivo dello Stato, vi sia rinchiuso un detenuto che non appartiene alla criminalità organizzata e tantomeno al terrorismo? La risposta è sì. Si tratta di un calabrese settantenne, Nicola Antonio Simonetta, che rimane ancora al 41bis nel carcere di Parma, nonostante la presenza di due sentenze che escludono la partecipazione al sodalizio mafioso. In sostanza il 41bis gli viene considerato applicabile anche se due sentenze processuali hanno reso evidente l’assenza di coinvolgimenti in contesti mafiosi. La più importante, di secondo grado, c’è stata il 28 ottobre scorso che ha riformato la precedente, proprio quella che gli ha fatto scattare il 41bis: da promotore di associazione semplice (e non mafiosa) a mero reato di partecipante all’associazione per lo spaccio prevista dall’art. 74 dpr 309/ 90, escludendo anche l’aggravante mafiosa. Infatti da 27 anni di carcere, la pena è stata ridotta a 13. L’altra, relativa ad altro procedimento, è stata pronunciata in primo grado e lo ha assolto dal vincolo associativo. Il suo avvocato difensore Maria Elisa Lombardo, del foro di Locri, ha fatto quindi istanza direttamente al ministro della Giustizia per chiedere l’immediata revoca del regime del carcere duro visto che non ci sono più i presupposti. A questo si aggiunge anche la sua delicata condizione di salute: ha il morbo di Crohn. Se trasferito nel centro clinico di altro regime, infatti, potrà con maggiore facilità essere curato. Del caso è stata informata anche a Rita Bernardini del Partito Radicale. L’avvocata Lombardo spiega a Il Dubbio che il ministro non solo non ha disposto la revoca, ma non ha dato alcuna risposta in merito. “Dovrebbe essere un atto dovuto, così come ad esempio è accaduto con Massimo Carminati - spiega la legale - quando essendo decaduta l’associazione mafiosa, giustamente gli è stato prontamente revocato il 41bis. Non comprendo perché ciò ancora non sia avvenuto con il mio assistito”. L’avvocata Lombardo sottolinea anche il fatto che non può fare nulla, nemmeno una istanza alla magistratura di sorveglianza di Roma competente per il 41bis, visto che non ha ottenuto ancora nessuna risposta formale dal ministero della Giustizia. Una situazione singolare che nasce da un procedimento giudiziario molto complesso e che l’avvocata è riuscita, in parte, a decostruirlo in appello. Il procedimento più importante, per il quale Simonetta è stato condannato al 41bis, riguarda la famosa operazione “new bridge” e prende le mosse da una ampia indagine internazionale, nella quale la Dda di Reggio Calabria, in collaborazione con l’Fbi americana, ha investigato con lo scopo di mettere a fuoco eventuali collegamenti tra esponenti legati alla famiglia mafiosa dei Gambino di New York e soggetti italiani legati, o appartenenti, alle famiglie mafiose della ‘ndrangheta calabrese. L’indagine parte e si concentra intorno alla figura di Franco Lupoi, un italo- americano che vive a Brooklyn, con qualche precedente penale, considerato attiguo alla famiglia dei Gambino, al quale verrà presentato un’agente provocatore, tale Jimmy, che si fingerà interessato a traffici illeciti. L’avvocata Lombardo che difende Simonetta, spiega che tutto l’impianto accusatorio nasce da due fondamentali e mai provati presupposti: uno, che Lupoi appartenesse alla famiglia dei Gambino di New York, ma in dibattimento è emerso che abbia fatto solo da autista per un certo periodo di tempo. Due, che l’agente provocatore Jimmy si “inserisce” in una pianificazione di compravendita di eroina per raccogliere riscontri investigativi, ma, non è mai emersa, né tantomeno è mai stata dimostrata, la realtà di un preesistente traffico di sostanze stupefacenti tra l’Italia e l’America nel quale Lupoi fosse coinvolto. Cosa c’entra Simonetta in tutto questo? Lupoi è suo genero in quanto ne ha sposato l’unica figlia. La prima severa condanna, poi riformata in appello, nasce dalla convinzione dei giudici di primo grado che Simonetta sia stato il “regista occulto” del traffico internazionale di sostanze stupefacenti organizzato da Lupoi e Jimmy. L’avvocata Lombardo riesce a decostruire l’impianto accusatorio evidenziando che il coinvolgimento emerge sostanzialmente da un unico episodio, datato 20aprile 2012, in cui Simonetta, Jimmy e Lupoi hanno un fugace incontro di pochi minuti. Le indagini porteranno a monitorare due soli episodi di cessione di sostanza stupefacente avvenuti tra Reggio Calabria e New York tra Lupoi e Jimmy. Da tutto ciò si pianificava che si sarebbe dovuto avviare un intenso e continuativo traffico che però non è mai partito. “Tant’è che nell’inerzia delle parti - sottolinea l’avvocata Lombardo -, le autorità stanche di attendere ulteriori sviluppi, decidono di chiudere l’operazione nel febbraio 2014”. In sostanza, in primo grado, Simonetta è stato condannato a 27 anni di reclusione perché avrebbe - pur non comparendo mai - occultamente coordinato il traffico che altri (Jimmy e Lupoi) stavano organizzando. Poi è arrivata la sentenza di secondo grado che ha derubricato il reato in capo al Simonetta in una mera partecipazione ad una associazione semplice. Rimane il dato oggettivo che Simonetta non ha nessuna condanna per mafia, non risulta appartenente a nessuna ‘ndrina, ma è tuttora al 41bis. L’avvocata Maria Elisa Lombardo chiede la revoca immediata, altrimenti non rimane che ricorrere alla Corte Europea di Strasburgo. Piacenza. La Casa di accoglienza per detenuti di Cadeo è un segno di umanità di Erika Negroni ilnuovogiornale.it, 23 novembre 2019 La Casa accoglienza di Cadeo, dedicata a coloro che possono beneficiare delle misure alternative alla detenzione e guidata dalla Caritas Diocesana, si presenta alle Istituzioni del territorio e alla Diocesi. La Casa, offrirà alle tre persone che saranno ospitate la possibilità di vivere per un periodo prefissato in una dimensione comunitaria, con un accompagnamento educativo e avvalendosi di preziosi strumenti quali il lavoro e l’animazione della comunità accogliente. “Questa iniziativa è rivolta a situazioni di quasi “ex detenuti” a cui si dà la possibilità attraverso un percorso di rientrare nella società”, così ha aperto la mattinata di presentazione Mario Idda, direttore della Caritas di Piacenza-Bobbio. Un progetto nato grazie ad un grande lavoro di squadra, come sottolineato dalle parole del vescovo mons. Gianni Ambrosio: “Qui la Chiesa di Piacenza-Bobbio è riuscita a mettere a frutto l’impegno e l’esperienza di tutti noi e a dare segno di una buona umanità”. Impegno realizzato da più partner: Parrocchia di Roveleto, Comune di Cadeo, Rotary, Opera Pia, Fondazione di Piacenza e Vigevano, Mcl, Centro di Solidarietà Piacenza e i docenti dell’Università Cattolica di Piacenza (per assistenza tecnica e formativa). La Casa di accoglienza ha trovato dimora nell’area rurale tra Cadeo e Carpaneto, in un fabbricato dell’Opera Pia dove sono stati ricavati due appartamenti e un laboratorio. “Cadeo è un territorio che, come ci tramanda la storia, è nato con la vocazione all’accoglienza - così è intervenuto Bricconi, primo cittadino di Cadeo. Un’accoglienza oggi non facile per tutti e per la quale noi Istituzioni dobbiamo aiutare i cittadini a fare un percorso di comprensione, senza lasciarsi guidare dalla paura”. Rieducare, non punire. “Questo è uno di quei luoghi in cui lo Stato deve stare - ha spiegato Maurizio Falco, prefetto di Piacenza - Se non abbiamo la grandezza del riscatto non avremo mai utilità della condanna. “Il poter accedere a pene alternative è una norma prevista dallo Stato, ha aggiunto Giovanni Marro, segretario regionale dell’Organizzazione sindacale autonoma di Polizia penitenziaria”. Una Casa che punta alla rieducazione e all’accompagnare il detenuto a fine pena a rientrare nella società, come ricordato la dott.ssa Sandrolini di Udepe: “Qui costruiremo percorsi di inclusioni sociale. Si lavorerà sull’uomo e non solo sull’errore”. “Quante occasioni di riscatto ha offerto Gesù agli uomini del suo tempo? Ecco, stare in questo solco ci ha fatto dire sì - ha spiegato don Umberto Ciullo, parroco di Roveleto -. Questa è una di quelle occasioni straordinarie in cui siamo chiamati a salire di un gradino e a dare il meglio di noi stessi”. Bologna. Giustizia ripartiva: il carcere della Dozza ospita Marisa Fiorani di Marco Mangianti bandieragialla.it, 23 novembre 2019 È una storia che sconvolse il Salento quella di Marcella di Levrano, quando il 5 aprile 1990, all’età di 25 anni, in un bosco fra Mesagne e Brindisi venne ritrovato il suo corpo privo di vita, sfigurato da violenti colpi di pietra e abbandonato da più di dieci giorni. Sua madre, Marisa Fiorani, oggi, 12 novembre 2019, dopo più di 29 anni, è qui davanti a noi detenuti per raccontarci quei fatti che sconvolsero la sua già tortuosa vita e tutta la comunità salentina. Marisa ha deciso con grande forza d’animo che la storia di sua figlia non doveva essere dispersa nel tempo, per mantenerne vivo il ricordo e per ridare speranza a chi come noi vive in una condizione opposta a quella della vittima, aiutandoci a confrontarci apertamente su quei percorsi che fino ad oggi le istituzioni hanno per lo più ignorato, e cioè le strade di riconciliazione e di consapevolezza su cui ognuno di noi dovrebbe camminare per guardare la sofferenza delle vittime dei reati e per vivere così pienamente il senso della pena che stiamo scontando. L’incontro è stato realizzato grazie all’associazione “Libera” ed alla Prof.ssa Emanuela Tarantini che da tempo collabora con l’area educativa dell’istituto per realizzare incontri fra noi e la società esterna. Mamma Marisa già da ragazza vive sulla sua pelle la crudeltà di una relazione crudele, decidendo dopo anni di soprusi e vessazioni di crescere da sola le sue tre bambine, allontanandosi dal marito e da una Brindisi ostile e tropo retrograda per una donna sola. Si stabilisce a Mesagne, a 25 km dal capoluogo salentino. Nonostante le difficoltà economiche riesce a non fare mancare nulla alle sue figlie, impartendo loro una corretta disciplina e avviandole a percorsi scolastici a cui lei, in passato, aveva dovuto rinunciare e che proprio per questo non vuole manchino anche a loro. Tutto sembra funzionare, e le ragazze emergono nella vita e nello studio grazie alle loro capacità e ai sacrifici della mamma. Ma qualcosa comincia a non andare: Marcella, la secondogenita, ragazza fino a quel momento “modello”, al secondo anno di scuola superiore, una sera non torna a casa, venendo ritrovata due giorni dopo completamente fatta di eroina. Nonostante gli sforzi e le inascoltate richieste di aiuto della madre, Marcella viene cacciata da scuola, entrando in un vortice che la inghiottisce velocemente, e la fa entrare in contatto con elementi di spicco della malavita locale, della cui organizzazione viene via via a stretta conoscenza. Il calvario di madre e figlia si trascina per quattro lunghi anni, fino a che Marcella, rimasta incinta, decide di “ripulirsi” dalla droga per il bene della bambina, che nasce nel 1984. La storia passata sembra solo un brutto capitolo chiuso, ma l’ombra della droga riavvolge Marcella quando il “padre” di sua figlia dimostra di non avere nessuna intenzione di essere un vero padre per la bimba appena nata, diventando anche violento nei confronti della compagna. Dopo un periodo trascorso ancora una volta nel “tunnel”, Marcella capisce che è necessario tagliare di netto con quel mondo, per il bene suo e della figlia che sta crescendo. Riprende il percorso di disintossicazione e nel frattempo inizia a collaborare con la Polizia, fornendo informazioni sul giro che prima frequentava e che ora si sente in dovere di contrastare. Le persone coinvolte erano nel frattempo diventate membri della Sacra Corona Unita, e per questo il rischio diventa elevatissimo. Marcella ha l’abitudine di segnare tutto su un’agendina sin da quando era ragazzina. Forse per questo qualcuno decide di intervenire, per evitare che i fatti, gli orari ed i nomi lì appuntati finiscano nelle mani sbagliate. Viene quindi prelevata dalla propria abitazione e condotta nel bosco, in contrada “Lucci”, a circa metà strada fra Mesagne e Brindisi. Viene uccisa a colpi di pietra in volto ed abbandonata, perché questa è la morte riservata agli infami. “Non fa niente per me, ma ti prego, dopo pensa alla mia bambina…” Queste le parole lasciate nell’agenda di una vita, segno di una storia terribile e di un delitto atroce, avvenuto nel salentino a fine anni 80. Marisa, al termine del racconto dell’omicidio della figlia, rimane in piedi davanti a una platea di detenuti attoniti e ammutoliti, fiera, in assoluta compostezza; con gli occhi lucidi esorta tutti a prendere coscienza del male e ad attivarci per ristabilire il nostro futuro, con la semplicità e la dolcezza con la quale una madre esorta i propri figli. I riscontri positivi, da parte nostra, non tardano ad arrivare, e dopo un lungo applauso di stima, tanti di noi si avvicinano al palco per esprimere cordogli ma soprattutto ammirazione, e lo fanno anche per quelli che rimangono in silenzio non riuscendo a esprimere le emozioni che li attraversano. Anche il dr. Ziccone, responsabile dell’area educativa, sale sul palco per un intervento, visibilmente commosso per la storia e per come è stata raccontata, sottolineando che ognuno di noi è chiamato ad impegnarsi per riappropriarsi della propria dignità morale e sociale, con percorsi di responsabilizzazione e mai dimenticando le vittime dei reati. Molti detenuti, al termine dell’incontro, hanno abbracciato Marcella come fosse la loro mamma; la tristezza è accompagnata dalla voglia di ricominciare, con la speranza di una vita migliore, grazie a questa testimonianza potente che Marisa ci ha regalato. Napoli. Riconoscere l’Islam radicale: ecco la guida per le carceri Corriere del Mezzogiorno, 23 novembre 2019 L’Orientale pubblica il “Sillabo” destinato agli agenti di custodia per capire i detenuti. Se un detenuto di fede islamica si adombra perché qualcuno ha adagiato un altro libro sulla copia del suo Corano, non è un pericoloso estremista ma solo un seguace fedele dei precetti religiosi. Essi infatti impongono che il libro sacro venga riposto “in un luogo pulito e dignitoso, mai sul pavimento o in bagno e sul Corano non va appoggiato alcun altro oggetto”. È una delle informazioni disponibili nel “Sillabo”, documento in 102 pagine sugli usi e costumi islamici messo a punto dall’Università L’Orientale di Napoli (in collaborazione con il ministero della Giustizia) ad opera di un gruppo di ricerca guidato dal professor Michele Bernardini. Della pubblicazione se n’è parlato durante un convegno nel mese di ottobre. La sua finalità rappresenta una novità assoluta. Il Sillabo è infatti destinato agli agenti penitenziari di tutto il Paese nell’ambito del Training project europeo che servirà valutare “il rischio di radicalizzazione all’interno degli istituti penitenziari”. Insomma, gli agenti grazie al Sillabo saranno in grado di intendere meglio usi e tradizioni dell’Islam e anche di accorgersi con maggiore efficacia di possibili atteggiamenti dei detenuto che denotino radicalizzazione. Le abitudini, i rituali di preghiera, il dress code, ma pure i divieti e i limiti imposti dalla religione e tutti quei comportamenti che è difficile mettere in atto all’interno di una cella. Per esempio, tornando al Corano, quasi nessuno sa che esiste un vero e proprio rituale anche solo per disfarsi di una copia che risulti usurata, strappata o comunque non più leggibile. È assolutamente vietato gettarla nei rifiuti. La tradizione prescrive che vada avvolta in un panno e deposto in una buca, insomma seppellita; in alternativa si può abbandonarla in un corso d’acqua. Scrive in premessa il professor Bernardini: “Vogliamo offrire uno strumento per quanti, operando nei penitenziari, intendano affrontare con spirito costruttivo un atteggiamento diffuso di contrapposizione che identifica nel mondo occidentale il nemico da abbattere”. Prima di redigere il “catalogo”, i ricercatori dell’Orientale hanno tenuto numerosi incontri con gli agenti di custodia “per comprendere - aggiunge Bernardini - i problemi che insorgono in un contesto in cui la convivenza è obbligatoria; si va dall’assolvimento dei riti al pudore, dall’uso del Corano all’alimentazione, dal modo di pregare alla gestione del denaro”. Tutte situazioni potenzialmente conflittuali. Ovviamente tra i momenti più a rischio tensione c’è la preghiera i cui orari possono variare. Perciò ogni musulmano praticante - detenuti compresi - dovrebbe avere la possibilità di conoscere l’ora esatta. Dato per scontato l’utilizzo del tappetino dove inginocchiarsi, viene ribadito che non si può disturbare l’orante con foto, video, voci, suoni o musica e chi prega non va interrotto se non per gravi motivi. Inoltre, anche un prigioniero deve essere in grado di orientarsi per potersi rivolgere verso La Mecca. Quasi superfluo ricordare che durante il Ramadan, mangiare, bere o fumare davanti a un digiunante viene considerata una mancanza di rispetto. E a proposito di cibi vietati, se è nota a tutti al proibizione per alcol e carne di maiale, meno conosciute sono le interdizioni per altri cibi haram ossia “impuri”. Un islamico osservante non potrà mai mangiare carne d’asino, di uccelli rapaci o di serpenti. Infine, un divieto curiosissimo ai nostri occhi di occidentali è il caso dei crostacei e dell’intera classe di invertebrati che hanno una conchiglia. Quindi niente gamberi per capirci. Ma per un detenuto islamico potrebbe persino essere vietato consumare merendine o altri prodotti dolciari confezionati. Anche qui il motivo è quello della “contaminazione” da grassi animali tra cui potrebbe esserci il grasso di maiale. Sempre per motivi religiosi i musulmani osservanti non amano avere cani come animali da compagnia. Il quadrupede che venga a contatto con oggetti o alimenti li rende impuri. Alcune limitazioni tra i musulmani di pensiero salafita riguardano anche l’abbigliamento degli uomini. Questi ultimi “non possono lasciare scoperta l’awra, ossia la zona del corpo compresa tra l’ombelico e le ginocchia, nemmeno di fronte ad altri maschi. Altro motivo di possibile tensione riguarda l’obbligo di lasciarsi crescere la barba e tagliare i baffi. Negli Usa un detenuto musulmano si è opposto fermamente alla richiesta del direttore del carcere di accorciare la barba per motivi igienici. Ovviamente nel Sillabo viene ribadito che le detenute musulmane che indossano il velo provano molto imbarazzo nel toglierlo per controlli, soprattutto quando la richiesta arriva da agenti maschi. È sempre opportuno che vi sia personale femminile per questo tipo di richieste. Milano. “Recuperando il cielo, voci e immagini dentro e fuori il carcere” milanotoday.it, 23 novembre 2019 Martedì 26 novembre ore 18.00: inaugurazione della mostra fotografica, dentro e fuori il carcere, promossa da Attraversamenti luoghi, Arti e Culture in collaborazione con Consorzio Viale dei Mille. “Recuperando il cielo. Voci e immagini dentro e fuori il carcere” è la nuova iniziativa promossa da Attraversamenti luoghi Arti Culture in collaborazione con Consorzio VialedeiMille di Milano. L’evento si svolgerà presso il negozio del Consorzio - il primo dedicato interamente all’economia carceraria - in viale di Mille 1 (angolo Piazzale Dateo), martedì 26 novembre dalle 18.00 alle 20.00 e vedrà protagonisti i linguaggi della fotografia e della poesia, in linea con l’approccio già sperimentato per altri eventi organizzati a partire dal maggio 2018 da Attraversamenti Luoghi Arti Culture. In particolare, il Consorzio ospiterà dal 26 novembre al 15 dicembre una mostra fotografica curata da Giovanna Gammarota - Recuperando il cielo - composta da tre sezioni: “Qui dentro”, “Là fuori”, “Recuperati” che presenta alcuni lavori realizzati da detenuti delle Carceri di San Vittore e Bollate nel corso dei laboratori tenuti dalla critica e storica dell’arte Gigliola Foschi e dal direttore della Galleria San Fedele Andrea Dall’Asta, tra il 2003 e il 2005. Le immagini selezionate ruotano intorno alla dialettica dentro/fuori che connota la condizione carceraria ma mettono a fuoco anche l’istanza del recupero, sociale e individuale, dei detenuti, molto spesso considerati invece come scarti. I linguaggi artistici e i loro immaginari possono contribuire a “[…] riconoscere la consapevolezza del proprio stato e accompagnare le persone verso un percorso di riscatto” (Giovanna Gammarota). Anche per questo insieme alla mostra, le testimonianze degli ospiti si alterneranno a quelle di detenuti ed ex detenuti sulle loro esperienze creative e soprattutto, alla lettura di poesie scritte dai partecipanti ai laboratori di poesia condotti nella Casa di Reclusione di Milano - Bollate negli anni da Maddalena Capalbi (che per questa sua attività ha ricevuto l’Ambrogino d’oro dal Comune di Milano). Alla serata saranno presenti oltre a Gigliola Foschi e a Maddalena Capalbi, Nino Iacovella (poeta e tra i fondatori del blog di poesia “Perigeion”), Francesco Capizzi Cisky-Mck (poeta e rapper) e gli ideatori del progetto Attraversamenti Sergio Di Giorgi e Giovanna Gammarota. A conclusione dell’incontro si svolgerà l’inaugurazione della mostra accompagnata da un aperitivo (con contributo libero dei partecipanti) che vedrà protagonisti i prodotti eno-gastronomici in vendita presso il concept store di viale dei Mille. Attraversamenti Luoghi Arti Culture è un format interdisciplinare che vuole mettere in dialogo diversi linguaggi artistici e artisti di differenti discipline intorno a temi di forte impatto sociale, ponendo l’arte al centro dell’intervento sul territorio. Tra i presupposti del progetto vi è la constatazione che le arti possono oggi favorire il superamento di confini e muri, spesso simbolici e invisibili, tra le persone e far emergere l’individualità - unica e irripetibile propria di ogni essere umano - in opposizione alle logiche mediatiche prevalenti. Il Consorzio Viale dei Mille è un Consorzio di cooperative che si occupano di economia carceraria, nato grazie alla lungimiranza del Comune di Milano che ha scelto di sostenere un carcere migliore, che aiuta a non commettere gli stessi errori. Obiettivo del Consorzio è comunicare l’essenza del lavoro negli istituti di pena, portando “fuori” la professionalità e la qualità dei prodotti artigianali realizzati “dentro”. Lo spazio del Consorzio, in Viale dei Mille 1 a Milano, è un luogo di vendita ma soprattutto di incontro virtuoso tra il mondo del carcere e il territorio. Si ringrazia la Galleria San Fedele e la Fondazione San Fedele per aver concesso l’uso delle immagini. Benevento. Al via un progetto di fitness in realtà virtuale per i detenuti ntr24.tv, 23 novembre 2019 Il 27 novembre alle ore 12 si terrà presso la casa circondariale di Capodimonte a Benevento la conferenza stampa per la presentazione di un innovativo corso ricreativo destinato ai detenuti. Infatti con la generosa collaborazione della Keiron SRl sarà possibile offrire ai ristretti un corso di fitness in realtà virtuale con l’utilizzo di innovativi visori e software all’avanguardia. La proposta, comunque innovativa, costituisce un ulteriore valida offerta di attività trattamentale volta al miglioramento del benessere psicofisico della persona in un ambiente particolarmente carente di spazi come il carcere. L’attività ha già superato un primo test presso la sezione femminile dell’istituto suscitando interesse e curiosità nelle detenute che hanno subito mostrato di apprezzare, e di padroneggiare, l’ambiente virtuale proposto per gli esercizi ritenendolo particolarmente adatto viste le privazioni di spazi e movimento subite per la mancanza della libertà. Milano. Al carcere minorile “Beccaria” si impara a recitare di Anna Alberti Gente, 23 novembre 2019 Apre al pubblico il primo teatro europeo collegato a un Istituto di pena. Al Beccaria i ragazzi imparano le regole, un mestiere e la gioia di stare insieme e pensare al futuro. “Ci sono voluti 25 anni per aprire questo luogo al pubblico, superando mille ostacoli, ma finalmente siamo al debutto”. Cerchiamo 2.800 persone da portare in carcere, si legge sul cartellone. La provocazione è del team di Puntozero, l’associazione culturale che opera all’interno del Beccaria di Milano, il carcere minorile. “Lo sappiamo che è un messaggio forte, ma puntiamo in alto: siamo quasi pronti al debutto di Romeo & Juliet Disaster, libera elaborazione dell’opera di Shakespeare, il prossimo 8 dicembre. Ma soprattutto abbiamo terminato i lavori e ottenuto tutti i permessi per aprire il teatro al pubblico”, dice il regista Beppe Scutellà. Lui e la compagna Lisa Mazoni, attrice e presidente dell’associazione (momentaneamente impegnata a stirare un abito di scena), sono anima e fac totum di questa compagnia, oltre che riconosciuti professionisti spesso in scena al Piccolo e in altri teatri milanesi: “Ci abbiamo messo quasi 25 anni di impegno incessante per raggiungere questo obiettivo, superando mille ostacoli burocratici, ma finalmente ci siamo: questa è la prima sala teatrale indipendente all’interno di un carcere minorile in Europa. Un teatro vero, in cui i nostri ragazzi si misureranno ogni sera con un pubblico pagante. Logico che cerchiamo di farci pubblicità: i milanesi li vogliamo tutti qui”. E Milano qui c’è, eccome. A partire dalle sedie, le quinte, il sipario e i tendaggi donati dalla Scala (che ha ceduto parte dei vecchi arredi del Piermarini). Per continuare con il contributo del Piccolo Teatro, delle Fondazioni Marazzina, Comunità di Milano, Cariplo e di tante altre associazioni che hanno reso possibile l’impresa insieme con benefattori privati. Un’impresa che di per sé è già uno spettacolo: “La compagnia è composta da giovani detenuti ed ex detenuti di otto nazionalità diverse, più volontari, studenti liceali e universitari. Tutti insieme per portare avanti un’idea di rieducazione fondata sul recupero culturale, sociale, e anche affettivo di questi ragazzi. Un’idea che era quella di Antonio Salvatore, storico e lungimirante direttore del carcere minorile, che per i giovani detenuti aveva voluto una teatro e una chiesa”. Del cappellano di questa chiesa, don Gino Rigoldi, molti hanno sentito parlare. Ora è arrivato il momento della ribalta anche per la compagnia teatrale, alla sua prima stagione indipendente con lo spettacolo shakespeariano in scena dall’8 al 22 dicembre, e con un nuovo cartellone che proseguirà nel 2020. “I ragazzi qui imparano a stare alle regole, ma anche a fidarsi gli uni degli altri, degli adulti di riferimento”, dice ancora Lisa Mazoni, che tra una telefonata e un rammendo cerca di rispondere alle nostre domande. “E poi apprendono un mestiere che servirà loro in futuro: scenografia, riprese video, illuminotecnica, regia, sartoria teatrale, oltre che recitazione. Grazie alle competenze acquisite, una volta liberi avranno poi accesso a tirocini alla Scala, al Piccolo e in altri teatri”. Un percorso non facile né scontato, ci spiega ancora Beppe Scutellà, capocomico, regista e all’occorrenza anche cuoco, quando i giovani attori si fermano a pranzo o a cena. “All’inizio i ragazzi sono diffidenti, recalcitrano: recitare non è certo una cosa da “duri”. Poi negli anni succede che alcuni chiedono al magistrato di turno di poter continuare a recitare in teatro da esterni, una volta fuori. Accade anche a molti studenti che iniziano giovanissimi a frequentare il laboratorio teatrale. Crescono con noi, restano”. Lo conferma Camilla Ponti, volontaria, attrice e studentessa di psicologia che presto si laureerà con una tesi sul teatro nel carcere. “Quando li ho conosciuti, cinque anni fa, mi sono subito innamorata della voglia di rivalsa di questi ragazzi, del loro desiderio di imparare, di immaginare un futuro diverso. E qui ho capito che la rieducazione non è solo sbarre, deve passare anche dalla cultura, dal coinvolgimento affettivo. Puntozero abbraccia fino al midollo questi principi: dà a tutti la possibilità di esprimersi, di tirare fuori il meglio. D’altronde non si può provare a cambiare se non si hanno a disposizione stimoli diversi dalla strada”. Per lei, come per altri volontari, l’esperienza al carcere minorile ha rappresentato anche un’occasione di crescita personale: “Sul palcoscenico ho scoperto qualcosa di me, le mie paure, ma anche i miei punti di forza. Perché il teatro smuove cose che non ti aspetti: ricordi, difese, conflitti. È un incredibile motore di cambiamento. Tutto questo oggi è soprattutto una passione, ma spero che potrà diventare parte del mio lavoro, in un prossimo futuro”. È il momento di smetterla con le chiacchiere: il regista richiama tutti sul palcoscenico, si spengono le luci, e dal caos in un attimo magicamente emerge l’ordine. La grande bellezza. Per scoprirla, non resta che cominciare a prenotare. Lamezia Terme. Trebisacce, partito il progetto “Rispetta la legge, ne vale la pena” lameziainstrada.com, 23 novembre 2019 Partito il progetto “Rispetta la Legge, ne vale la Pena”, promosso dall’Amministrazione comunale di Trebisacce ed ideato dall’Assessore all’Istruzione Roberta Romanelli. L’idea progettuale, che mira a rafforzare il concetto di rispetto della legalità, si pone quale obiettivo principale quello di promuovere tra gli adolescenti la cultura della legalità, del rispetto delle regole e del senso di responsabilità verso sé stessi e i cittadini. L’obiettivo potrà essere raggiunto permettendo agli studenti di toccare con mano le conseguenze del violare le norme giuridiche. A tal fine, mercoledì 20 novembre, nel CineTeatro Gatto ha avuto luogo un partecipato ed emozionante incontro tra le classi quinte degli Istituti d’Istruzione Superiore di Trebisacce, a cui hanno partecipato il sindaco di Trebisacce, Avv. Franco Mundo, l’assessore all’istruzione, Avv. Roberta Romanelli, il responsabile dell’area socioculturale Dott.ssa Carmela Vitale, il Dott. Giuseppe Carrà, Direttore Penitenziario Casa Circondariale R. Sisca, il Dott. Carmine Di Giacomo, Comandante di Reparto Polizia Penitenziaria Casa Circondariale “R. Sisca”, la Dott.ssa Maria Pia Barbaro, Responsabile Area Trattamentale Casa Circondariale “R. Sisca”. Nel corso dell’incontro, gli studenti hanno ascoltato la testimonianza di tre detenuti della casa circondariale, le cui parole sono arrivate potenti al cuore dei tanti ragazzi presenti. Interagendo attraverso una serie di domande con coloro che stanno scontando una pena per i propri reati, gli studenti hanno creato un rapporto empatico di interlocuzione che ha aperto loro una visione importante sulle prospettive del domani, sulle conseguenze delle proprie scelte e del proprio agire. Questo primo incontro funge da prologo alla visita che gli studenti compiranno, nelle prossime settimane, presso l’istituto penitenziario di Castrovillari, a conclusione di un percorso di comprensione che abbracci un’esperienza complessa e istruttiva. “È stata un’esperienza emozionante - ha dichiarato l’Assessore all’Istruzione Roberta Romanelli, deus ex machina del progetto - che sicuramente ha lasciato il segno in tutti i presenti. Sono certa che questo progetto legalità produrrà frutti importanti nella coscienza e nella consapevolezza degli alunni. Dobbiamo imparare dagli errori che sono stati commessi, ma è importante anche capire che anche quando sbagliamo, se troviamo in noi stessi la forza di volontà per pagare i nostri errori e ricominciare, possiamo farcela. Come Amministrazione comunale continueremo ad investire sulla formazione esperienziale dei cittadini di domani, perché è attraverso esperienze istruttive come quella che derivano da questo progetto che si forgiano gli uomini e le donne di domani. Sono doverosi e sentiti i ringraziamenti a tutti coloro che hanno permesso la realizzazione di questa iniziativa: al direttore della casa circondariale di Castrovillari Dott. Carrà, alla resp. dell’area trattamentale Dr.ssa Barbaro, al Comandante della polizia penitenziaria Dott. Di Giacomo, al funzionario educativo Dott. Bloise e, soprattutto, ai detenuti che, per essere con noi e raccontare la propria esperienza, hanno rinunciato alla possibilità di sfruttare il proprio permesso altrove. La loro è stata un’importante testimonianza di come nella vita si possa sbagliare e si debba pagare ma anche della necessità di non mollare mai. Solo se non si molla si può cercare di recuperare. Grazie ai ragazzi, attenti e partecipi e ai docenti che ci hanno supportato”. Il sindaco di Trebisacce, Avv. Franco Mundo, nel suo intervento ha dichiarato: “L’evento di oggi ribadisce un concetto importante: non bisogna cercare scorciatoie per ottenere ciò che vogliamo, ma piuttosto dobbiamo lavorare duramente, con impegno, studiando, imparando e non avendo paura delle sfide, se pur complesse che il domani ci propone. Al tempo stesso dobbiamo ricordarci che, anche se si è sbagliato, ci si può redimere, riconoscendo i propri errori e operando per pagare il proprio debito con la società. Sono lezioni importanti e siamo fieri di averle condivise con gli alunni degli Istituti d’istruzione superiore di Trebisacce”. Eutanasia. La Consulta: “Garantire il diritto del malato di liberarsi dalle sofferenze” di Simona Musco Il Dubbio, 23 novembre 2019 Per la Consulta “esiste una circoscritta area in cui l’incriminazione dell’aiuto al suicidio non è conforme alla Costituzione”. “L’esigenza di garantire la legalità costituzionale deve prevalere su quella di lasciare spazio alla discrezionalità del legislatore”. È quanto si legge nelle motivazioni depositate ieri dai giudici della Consulta in merito all’incostituzionalità parziale dell’articolo 580 del codice penale, questione sollevata nel corso del processo al radicale Marco Cappato per l’aiuto al suicidio di Fabiano Antoniani, alias Dj Fabo, avvenuto il 27 febbraio 2017. Una decisione alla quale Fabo era arrivato autonomamente, dopo lunghe sofferenze causate da un incidente stradale che lo aveva lasciato tetraplegico e totalmente cieco, pienamente capace di intendere e volere ma in una condizione di dolore e priva, per il suo sentire, di dignità. E la Consulta, che già nel 2018 aveva invitato, inutilmente, il Parlamento a colmare il vuoto normativo, è intervenuta per conciliare il diritto all’autodeterminazione e la necessità di evitare abusi nei confronti delle persone più vulnerabili. Sebbene, dunque, “l’incriminazione dell’aiuto al suicidio”, non possa ritenersi di per sé in contrasto con la Costituzione, la norma contiene “una circoscritta area di non conformità costituzionale”, nei casi in cui l’aspirante suicida si identifichi in una persona affetta da una patologia irreversibile e fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti capace di prendere decisioni libere e consapevoli. In casi del genere, dunque, “l’assistenza di terzi nel porre fine alla sua vita” può presentarsi al malato come l’unico modo per sottrarsi “a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare” per Costituzione. Ovvero proprio come nel caso di Dj Fabo, sottolineano i giudici. È lo stesso malato a poter scegliere di porre fine alla propria vita, con l’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale e la sedazione profonda continua, in forza della legge sul testamento biologico. Ma in assenza di leggi che consentano medicalmente la morte, il paziente sarebbe costretto a “subire un processo più lento e più carico di sofferenze per le persone che gli sono care”. Nei limiti considerati, dunque, “il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per limitare ingiustificatamente nonché irragionevolmente la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze - scrive la Consulta -, imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita”. Ma essendo necessario evitare situazioni di abuso - da qui il no ad un annullamento “secco” della norma incostituzionale - è necessario ricavare “criteri di riempimento”. L’aiuto al suicidio non è dunque reato nei casi in cui il paziente si trovi ad affrontare una patologia irreversibile che comporta grave sofferenza fisica o psicologica, che lo porti a dipendere da trattamenti di sostegno vitale mantenendo, comunque, la capacità di prendere decisioni libere e consapevoli. Presupposti la cui verifica rimane in capo a strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale, coadiuvate dai comitati etici territorialmente competenti, per garantire la tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità. La decisione della Consulta riguarda, però, solo i fatti successivi alla sentenza, mentre i casi precedenti, come il caso Cappato, occorrerà che l’aiuto al suicidio sia stato prestato con modalità che diano garanzie equivalenti. I confini del suicidio assistito: “Nessun obbligo per i medici” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 23 novembre 2019 Le motivazioni della Consulta sul caso Cappato-dj Fabo. “Urgente una legge”. La sentenza della Corte costituzionale sul “fine vita” non è un via libera al suicidio assistito, come qualcuno paventava, e le 19 pagine di motivazione che accompagnano la decisione presa il 25 settembre scorso sul “caso Cappato- dj Fabo” lo sottolineano in maniera esplicita. “Questa Corte ha escluso che l’incriminazione dell’aiuto al suicidio, ancorché non rafforzativo del proposito della vittima, possa ritenersi di per sé in contrasto con la Costituzione”, scrivono i giudici della Consulta. E ne spiegano il motivo: la necessità di tutelare le persone, soprattutto le “più deboli e vulnerabili, che l’ordinamento intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile” come quella di togliersi la vita; anche per scongiurare “interferenze di ogni genere” in momenti di “difficoltà e sofferenze”. L’articolo del codice penale che punisce chi istiga o aiuta al suicidio resta dunque in vigore, ma la Corte ha sancito la non punibilità di fronte a situazioni limitate e particolari che corrispondevano al caso specifico del dj Fabiano Antoniani il quale, rimasto cieco e tetraplegico, nel 2017 chiese aiuto all’esponente radicale Marco Cappato per andare a morire in Svizzera. In quella vicenda ricorrevano le condizioni che la Consulta ha posto come necessarie perché l’assistenza al suicidio non sia considerata reato: la persona che chiede coscientemente di essere aiutata a morire dev’essere “affetta da patologia irreversibile e fonte di sofferenze fisiche e psicologiche” per lui “assolutamente intollerabili”, “tenuta in vita da mezzi di sostentamento vitale” e tuttavia “capace di prendere decisioni libere e consapevoli”. Dentro questi confini la Consulta ritiene che “il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per limitare ingiustificatamente, nonché irragionevolmente, la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita”. La via tracciata dai giudici costituzionali è la stessa imboccata dal Parlamento con la legge che lascia liberi i malati di chiedere l’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale e la sedizione profonda continuata, tuttavia nella sentenza la Corte non manca di “ribadire con vigore l’auspicio che la materia formi oggetto di sollecita e compiuta disciplina da parte del legislatore”. Del resto nel 2018 l’udienza al palazzo della Consulta venne sospesa per dare tempo alle Camere almeno di cominciare a discutere una normativa che regolasse il suicidio assistito, tenendo conto di alcuni principi già indicati in un’ordinanza della Corte, ma non accadde nulla. Trascorso un anno, i giudici sono dovuti intervenire “per rimuovere il vulnus costituzionale” che si annidava nella punibilità assoluta e senza deroghe. Ulteriori cautele sono la prescrizione di rivolgersi, per le “modalità di esecuzione”, al Servizio sanitario nazionale e il parere necessario del Comitato etico locale. E l’obiezione di coscienza viene garantita dalla precisazione che dalla non punibilità dell’aiuto al suicidio (nei casi delimitati) non derivano obblighi: “Resta affidato alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi o no a esaudire la richiesta del malato”. Migranti. Il governo greco chiude i campi-profughi nelle isole di Alessandra Briganti Il Manifesto, 23 novembre 2019 Grecia. Lesbo, Chios e Samos. Verranno sostituiti da strutture fisse per il rimpatrio. Erano diventati l’emblema dell’incapacità dell’Europa di gestire la crisi dei migranti. Ora i campi profughi della vergogna di Lesbo, Chios e Samos verranno chiusi. Ad annunciarlo il governo greco di centrodestra guidato dal premier Kyriakos Mitsokatis. I migranti accampati sulle isole verranno trasferiti in centri per l’identificazione, il ricollocamento e il rimpatrio che potranno accogliere fino a un massimo di 5mila persone. Ammesso che il termine accogliere sia il più adeguato. Ai richiedenti asilo, infatti, sarà vietato muoversi liberamente dentro e fuori dai centri e dovranno restare chiusi per il tempo necessario all’esame della richiesta d’asilo al termine del quale potranno essere trasferiti dai centri o rispediti indietro in Turchia. La decisione rappresenta la fine di un incubo, quello che vede ammassati in condizioni disumane circa 27mila migranti nelle tre isole dell’Egeo. Nel solo hotspot di Moria sull’isola di Lesbo se ne contano più di 15mila in una struttura progettata per 3mila persone. “Una situazione esplosiva al limite della catastrofe” l’aveva definita Dunja Mijatovic, commissaria dei diritti umani del Consiglio d’Europa quando tre settimane fa aveva visitato le isole di Lesbo e Samos, chiedendo “misure urgenti per migliorare le disperate condizioni in cui vivono migliaia di esseri umani”. Decongestionare le isole era del resto uno degli obiettivi del governo. Mitsotakis aveva promesso di trasferire 20mila migranti dalle isole alla terraferma entro l’inizio del prossimo anno. Una strategia che finora ha incontrato l’opposizione della popolazione locale e che ha suscitato le perplessità di organizzazioni internazionali come l’Oim, secondo cui i centri sulla terraferma sarebbero già al pieno delle loro capacità. La fine di un incubo inoltre sembra il preludio di un altro. A fronte della chiusura dei campi profughi sulle isole saranno creati dei “centri chiusi pre-partenza”, come li ha chiamati il portavoce del governo Stelios Petsas, che renderanno più facile il controllo dei movimenti dei migranti. Un messaggio chiaro, come ha precisato lo stesso portavoce, diretto a quanti “non hanno diritto d’asilo ma che comunque stanno pensando o pianificando di entrare nel Paese clandestinamente”. Saranno soldi buttati quelli dati ai trafficanti, è l’avvertimento di Atene che cerca così di scoraggiare le partenze, in aumento dallo scorso luglio. Solo nell’ultima settimana si sono registrati 1450 arrivi in Grecia, uno dei picchi più alti dalla crisi del 2015 quando dal Paese transitarono oltre un milione di profughi diretti in Europa. Il governo greco ha poi annunciato una stretta sulle ong. Verranno fissati dei nuovi requisiti e sulla base di questi sarà permesso alle sole ong che li soddisfano di proseguire le loro attività in Grecia. In quest’ottica all’inizio del mese il Parlamento ha approvato una controversa riforma del sistema d’asilo che rende più difficile l’ottenimento della protezione internazionale e ha promesso un rafforzamento dei controlli delle frontiere marittime, specie nel sud dell’Egeo. “Non può andare avanti così” ha tuonato il premier greco Mitsokatis in un’intervista al giornale tedesco Handelsblatt. Il capo dell’esecutivo ellenico si è scagliato contro l’Europa che “considera gli Stati membri che controllano le frontiere esterne dei luoghi dove parcheggiare i migranti”. Oltre questo rimpallo di accuse, c’è poi la realtà. Una realtà ai limiti dell’umana sopportazione, fatta di sofferenze e di morte, come quella di un bambino di appena nove mesi deceduto qualche giorno fa per una grave disidratazione nell’hotspot di Moria. Una realtà che l’Europa si ostina a non vedere. Stati Uniti. Quei bambini prigionieri si ricorderanno di te, Donald di Eraldo Affinati Il Riformista, 23 novembre 2019 Il rapporto Onu: 103mila baby profughi in cella. Donald Trump, questa goffa ma drammatica caricatura di Ciclope planetario incredibilmente eletto presidente della nazione più ricca del mondo, aveva annunciato già la scorsa estate che presto avrebbe annullato il limite massimo di venti giorni imposto da una legge del suo Paese per la detenzione dei piccoli migranti che, da soli o con i genitori, tentano di passare il famigerato confine dal Messico agli Stati Uniti. Detto fatto. Un report dell’Onu, stilato con tutti crismi dal professor Manfred Nowak lo ha appena confermato: in questo momento, in palese violazione del diritto internazionale, in barba alla sempre più vana e non rispettata Convenzione sui Diritti dei Bambini, sono 103.000 i minori non accompagnati, impietosamente separati dai genitori, che restano a marcire nelle galere americane. I giuristi definiscono questo periodo “stato di custodia” ma soltanto chi, come il sottoscritto, ha qualche esperienza educativa riguardo alla formazione dei bambini e degli adolescenti sa cosa può significare per loro una segregazione di tale portata. È la fine traumatica del sogno infantile: veleno dentro il pozzo della coscienza collettiva, se è vero, come gli psicologi dell’età evolutiva hanno dimostrato, che le crudeltà inferte alle personalità ancora acerbe, specialmente quelle più fragili e insicure, sono destinate a trasformarsi nel tempo in tragici boomerang pronti a tornare indietro verso chi li ha lanciati, come fatali rendiconti. A me lo insegnò un ragazzo rumeno che aveva visto i draghi dell’abbandono ed era sopravvissuto, quando mi disse: “Professore, se fai del bene a qualcuno, prima o poi lo riceverai anche tu, non direttamente dalla persona che ne ha beneficiato, bensì da un altro da cui magari nemmeno te lo aspettavi”. Si fermò un attimo per gustarsi la mia sorpresa, sinceramente da lui, spesso distratto e poco concentrato, non me lo sarei mai immaginato; poi, dall’alto della sua precoce esperienza di orfano, aggiunse: “Vale ancora di più se fai del male. Stai sicuro che questo ti ritornerà raddoppiato da un luogo imprevisto e non sarà per niente facile accettarlo per te e per chi ti starà vicino”. Se andiamo a rivangare nella storia personale dei terroristi, o più semplicemente nel passato degli individui disadattati, sempre sul punto di compiere reati, inevitabilmente scopriamo un vecchio sopruso, l’ingiustizia patita, il groviglio non sciolto. È la sindrome di Lee Harvey Oswald, l’assassino di John Fitzgerald Kennedy, sul quale Don DeLillo scrisse Libra (1988), uno dei suoi romanzi più belli; oppure di Sirhan Bishara Sirhan, il criminale giordano di origine palestinese che pose fine alla vita di Bob Kennedy, fratello minore del Presidente. Scandalizzare i più piccoli, lo spiega in modo inequivocabile il passo evangelico (Matteo, 18.6), è come gettare del napalm sulle generazioni future, distruggere i ponti di collegamento fra i pensieri e le azioni di chi diventerà adulto, fare terra bruciata intorno a se stessi. Poi c’è qualcosa di più. Quei bambini messicani oggi reclusi nelle prigioni statunitensi perché hanno cercato di sfuggire alla povertà, alla miseria, all’indigenza, non sono soltanto una dinamite sociale. L’oltraggio che stanno subendo chiama in causa tutti noi, in quanto loro incarnano il principio d’umanità violato: avete presente l’alba del pianeta Terra? Ecco, i mezzi lazarilli dagli occhi pesti, incarcerati così, chicos dietro alle sbarre, impediscono che sorga. Bloccano la Grande Ruota. Se è vero, come scrisse Kant, che in guerra bisogna evitare i gesti tali da rendere impossibile ogni futura riconciliazione, noi dovremmo avere il coraggio di credere che per garantire la pace è necessario stabilirne le condizioni: se queste non vengono rispettate nei consessi planetari, dovremmo alzare la voce. Spingere chi dice di rappresentarci, come italiani ed europei, a prendere posizione. Altrimenti, se la politica continua a essere un semplice siparietto televisivo, i Trump avranno sempre la meglio. Il “crimine” di Julian Assange: aver portato alla luce i crimini di guerra Usa di Manlio Dinucci Il Manifesto, 23 novembre 2019 Libertà di informazione. Dalla nascita all’arresto: la storia del fondatore di WikiLeaks. Julian Assange nasce nel 1971 a Townsville in Australia, da un’artista, Christine Assange, e un architetto, John Shipton. A sedici anni, sa già scrivere programmi informatici. Verso la fine degli anni Ottanta diviene membro di un gruppo di hacker noto come International Subversives. Nel 1991 subisce un’irruzione nella sua casa di Melbourne da parte della polizia federale australiana, con l’accusa di essersi infiltrato nel sistema informatico del Pentagono. Nel 1992 gli vengono rivolti ventiquattro capi di accusa per reati di “pirateria informatica”. Assange è condannato, ma in seguito è rilasciato per buona condotta, dopo aver pagato una grossa multa. A partire dal 2006 è tra i promotori del sito web WikiLeaks, di cui diviene caporedattore. WikiLeaks nel corso degli anni pubblica documenti da fonti anonime e informazioni segrete su politici corrotti, assassinii politici, repressioni e guerre. Il materiale pubblicato tra il 2006 e il 2009 attira sporadicamente l’attenzione dei media, ma è il caso Chelsea Manning che porta WikiLeaks, nel 2010. al centro dell’interesse internazionale. Chelsea Manning, attivista statunitense, è accusata di aver fornito a WikiLeaks migliaia di documenti riservati di cui era venuta a conoscenza lavorando quale analista di intelligence dell’Esercito Usa durante la guerra in Iraq. Viene per questo condannata a 37 anni di detenzione in un carcere di massima sicurezza. Rilasciata dopo 7 anni di carcere duro, sarà nuovamente incarcerata nel 2019 per essersi rifiutata di testimoniare contro Assange. Nel 2010 WikiLeaks rende di pubblico dominio oltre 250.000 documenti statunitensi, molti dei quali etichettati come “confidenziali” o “segreti”. Tra questi diversi video sulle stragi di civili compiute dagli Usa in Iraq e Afghanistan. WikiLeaks viene messa sotto inchiesta in Australia e Julian Assange rischia di nuovo l’arresto. Nello stesso anno, mentre Assange è in Gran Bretagna, il tribunale svedese di Stoccolma emette nei suoi confronti un mandato di arresto in contumacia, con l’accusa di aver avuto rapporti sessuali non protetti, seppur consenzienti, con due donne. Assange, presentatosi spontaneamente negli uffici di Scotland Yard, viene arrestato in forza di un mandato di cattura europeo. Assange viene rilasciato su cauzione, ma la Svezia ne chiede l’estradizione dalla Gran Bretagna, col chiaro intento di estradarlo negli Stati Uniti dove lo attende un processo per spionaggio che prevede l’ergastolo o la pena di morte. Nel 2012 la Corte Suprema britannica decreta la sua estradizione in Svezia. Assange si rifugia, a Londra, nell’Ambasciata dell’Ecuador che gli garantisce il diritto di asilo. Qui resta confinato per sette anni, nonostante anche una Commissione delle Nazioni Unite denunci il fatto che Assange è detenuto arbitrariamente e illegalmente in Gran Bretagna. Nel frattempo WikiLeaks prosegue la sua attività. Nel 2016 pubblica oltre 30.000 email e documenti inviati e ricevuti tra il 2010 e il 2014 da Hillary Clinton, Segretaria di Stato dell’Amministrazione Obama. Tra questi una email del 2 aprile 2011, la quale rivela il vero scopo della guerra Nato alla Libia perseguito in particolare da Usa e Francia: impedire che Gheddafi usasse le riserve auree della Libia per creare una moneta pan-africana alternativa al dollaro e al franco Cfa, la moneta imposta dalla Francia a 14 ex colonie. La crescente pressione internazionale, esercitata sull’Ecuador soprattutto da Stati Uniti, Gran Bretagna e Svezia, raggiunge il suo scopo. Privato dall’Ecuador del diritto di asilo, Julian Assange viene arrestato nell’aprile 2019 dalla polizia britannica, con l’imputazione di essersi sottratto al mandato emesso dalla Corte Suprema nel 2012. Il Responsabile Onu contro la tortura, Nils Melzer, dopo avergli fatto visita nel carcere britannico di massima sicurezza, dichiara: “Julian Assange è detenuto in un carcere di massima sicurezza, in condizioni di sorveglianza e isolamento estreme e non giustificate, mostra tutti i sintomi tipici di un’esposizione prolungata alla tortura psicologica. È necessario che il governo britannico lo liberi immediatamente per proteggere la sua salute e la sua dignità. È inoltre da escludere la sua estradizione negli Usa”. La vita di Julian Assange, di fatto rapito e detenuto in condizioni inumane (gli viene proibito perfino di vedere i figli), è sempre più in pericolo, sia per i lunghi anni di sofferenze che hanno deteriorato la sua salute, sia per la pericolosa situazione in cui si troverebbe se fosse estradato negli Usa. Qui sarebbe in mano a coloro che hanno tutto l’interesse a non farlo arrivare a un processo che, soprattutto se permettesse all’imputato di difendersi, sarebbe estremamente imbarazzante per l’establishment politico-militare. Siria. I bambini muoiono a migliaia sotto le bombe di una guerra che non finisce mai La Repubblica, 23 novembre 2019 Solo da gennaio a settembre 1.792 gravi violazioni contro i bambini. Uccisioni, ferimenti, reclutamenti e rapimenti di ragazzini, e poi attacchi a scuole e ospedali. I report di Unicef e Save The Children. “In Siria, solo quest’anno tra gennaio e settembre, le Nazioni Unite hanno verificato un numero assai preciso di gravi violazioni contro i bambini: ben 1.792. Sono omicidi, ferimenti, reclutamenti e rapimenti di ragazzini, e poi attacchi contro scuole e strutture sanitarie. L’omicidio e la mutilazione sono i principali oltraggi contro i minori nel Paese mediorientale, la cui popolazione sta soccombendo sotto il peso di una guerra cominciata 8 anni e 8 mesi fa, nel marzo 2011. I dati mostrano che i bambini in Siria continuano ad essere esposti agli stessi livelli di rischio del 2018. Lo scorso anno, 1.106 bambini erano stati uccisi nei combattimenti - il numero più alto in un solo anno, da quando la guerra ha avuto inizio. Questi sono solo i casi verificati dalle Nazioni Unite: i numeri reali potrebbero essere molto più alti. Siria Nordorientale. Nel Nord Est della Siria, circa 74.000 persone - compresi 31.000 bambini - restano sfollati. Oltre 15.000 persone sono scappate nel vicino Iraq. Almeno 10 bambini sono stati uccisi e 22 feriti a causa dei combattimenti. Ieri, altri 3 bambini sono stati feriti a causa di una bomba esplosa contro una scuola a Tal Abiad sud. Nella scuola vivevano 12 famiglie sfollate interne. Le ostilità hanno causato danni e chiusura di servizi essenziali di base che comprendono scuole, strutture sanitarie e idriche. La recente ondata di sfollamenti si aggiunge alle oltre 91.000 persone che risiedono nei campi per sfollati, oltre il 90% degli sfollati interni sono donne e bambini. Un bambino su 5 ha ritardi nella crescita. Nel nordest della Siria vivono alcuni dei bambini più vulnerabili nel paese. Nei governatorati di Der-ez-Zor e Al-Hasakeh 1 bambino su 5 ha ritardi nella crescita, la media nazionale è di 1 su 8; 1,6 milioni di persone nel Nordest del Paese ha urgente bisogno di assistenza idrica e igienico-sanitaria e più della metà dei bambini non frequentano le scuole. Circa 28.000 bambini stranieri di 60 paesi - di cui circa 20.000 dall’Iraq, sono intrappolati nel nord est della Siria, la maggior parte in campi per sfollati. Almeno 250 ragazzi, anche di 9 anni, sono detenuti, anche se il numero reale potrebbe essere molto più alto. Questi bambini e decine di migliaia di bambini siriani stanno lottando per sopravvivere nonostante le terribili condizioni nei campi e nei centri di detenzione nell’area. Tutti sono estremamente vulnerabili e hanno bisogno di protezione da ulteriori pericoli e supporto psicosociale. Siria Nordoccidentale. A Idlib e, più in generale nella Siria Nordoccidentale, gli scontri armati e le violenze hanno coinvolto in pieno la popolazione civile; 19 bambini sarebbero stati uccisi negli ultimi 17 giorni - e questo dato non include i bombardamenti avvenuti proprio ieri vicino al campo per sfollati interni sul confine turco, che hanno causato danni ad una vicina clinica ostetrica. Secondo l’indagine delle Nazioni Unite - che, ripetiamo, riporta dati per difetto - all’inizio di novembre, alcuni attacchi hanno danneggiato 4 diverse strutture sanitarie, compreso un ospedale per donne e bambini, oltre a un ospedale chirurgico, nella zona rurale meridionale di Idlib. Entrambi adesso sono fuori servizio. L’accesso alle strutture sanitarie per 185.0000 persone - di cui almeno 37.000 bambini - ha avuto gravi ripercussioni a causa degli attacchi. Questi ospedali erano gli ultimi centri sanitari per il parto in servizio utili per il sotto distretto di Ariha e Kafr Nabel. L’insediamento informale di Rukban. Al 18 novembre, circa 12.000 persone erano rimaste in insediamenti informali a Rukban, sul confine con la Giordania: la metà di questi sono bambini. La situazione umanitaria è disperata: cibo, servizi sanitari e acqua pulita sono estremamente scarsi. L’accesso da parte di chi con difficoltà sta organizzando forme di aiuto è molto ristretto. Da novembre 2018, l’assistenza umanitaria a Rukban è stata fornita attraverso 3 convogli interagenzie. I convogli più recenti hanno distribuito cibo e aiuti nutrizionali sufficienti per almeno 3.000 famiglie per un mese. Con l’arrivo dell’inverno è fondamentale che le parti in conflitto facilitino l’accesso a organizzazioni che intendono portare soccorso, per raggiungere i bambini che hanno bisogno di aiuto, ovunque essi siano nel Paese, a prescindere da chi controlli l’area in cui vivono. Il lavoro di Unicef in Siria, fino ad oggi. Ha raggiunto oltre 2 milioni di persone con aiuti idrici e 1 milione di persone con interventi di emergenza per l’acqua e i servizi igienico sanitari (che comprendono kit igienici per le famiglie, sapone e pastiglie per potabilizzare l’acqua). Oltre 1,2 milioni di bambini e membri di comunità sono stati formati sui rischi delle mine antiuomo e 11.751 bambini hanno ricevuto assistenza specializzata. Più di 7.400 bambini con disabilità hanno usufruito di servizi di gestione dei casi e assistenza in denaro. Per l’inverno 2019 - 2020 l’Unicef fornirà kit di abiti invernali a 356.000 bambini. Sono stati anche raggiunti 1,3 milioni di bambini con istruzione formale e 221.000 bambini con istruzione informale. Il report di Save The Children dal campo profughi di Qah. Almeno 8 bambini sono stati uccisi e decine di altri sono rimasti feriti nell’attacco al campo profughi di Qah, nel Nord-Ovest della Siria, che ospita 800 famiglie siriane sfollate più volte per fuggire alle violenze. In tutto sono rimaste uccise 12 persone, nel luogo dove avrebbero dovuto sentirsi al sicuro. È l’ennesimo attacco sulla popolazione civile nel Nord-Ovest del Paese. Solo in novembre 22 bambini uccisi negli attacchi. “Abbiamo sentito delle fortissime esplosioni - ha raccontato Hanan, 27 anni, maestra della scuola, che vive nel campo con i suoi 3 bambini - sono rimasta al buio con i miei figli, coperti dalla polvere, mentre cercavo di proteggerli con il mio corpo”. Poi ha aggiunto: “Ho visto le cose che bruciavano intorno e mi sono accorta che il telone che ci faceva da soffitto non c’era più. Sono corsa fuori con i miei bambini a cercare un rifugio e ho visto che stavano cercando di tirare fuori i nostri vicini dalle macerie, in mezzo a pezzi di corpi umani sparsi intorno”. Da quel campo sono dovuti scappare altre volte. “I bambini e le famiglie nel campo di Qah - racconta Sonia Kush, responsabile per la Siria di Save the Children - hanno dovuto già fuggire da violenze, più volte, e avevano trovato rifugio in un posto che doveva essere sicuro. La paura e lo shock che hanno subito in questo attacco è inimmaginabile. È fondamentale che la popolazione civile, e in particolare i bambini, vengano protetti come spettatori innocenti di una guerra che hanno solo subito”. In Libia resta solo la guerra. Haftar verso la battaglia finale di Gina Musso Il Manifesto, 23 novembre 2019 “Nessuna soluzione politica è possibile”. Si combatte per Tripoli e per i pozzi di petrolio. Le forze del generale di Bengasi annunciano anche l’abbattimento di un secondo drone italiano nei cieli libici. In Libia tornano a parlare solo le armi, mentre l’abbattimento in pochi giorni non di uno, ma di due droni MQ1-Predator italiani nei cieli libici da parte della contraerea del generale Khalifa Haftar non sembra scalfire più di tanto l’afasia del governo Conte. Che la guerra sia l’unica opzione, con buona pace dei confusi sforzi diplomatici delle potenze occidentali che proseguono anche in queste ore, lo dice chiaramente il portavoce di Haftar e dell’autoproclamato Esercito nazionale libico, Ahmed Al Mismari: “Non esiste alcuna possibilità di successo per una soluzione politica o economica della crisi in Libia se prima non vengono eliminate le milizie armate e i gruppi terroristici al servizio del capo del Consiglio presidenziale”. Insomma, nessun dialogo con il Governo di accordo nazionale (Gna) di Fayez al Sarraj, quello riconosciuto dall’Onu. Il conflitto che dal rovesciamento di Gheddafi insanguina il paese sembra così entrare in una nuova fase acuta. Se Misurata e il suo aeroporto - con annessa la base che ospita i 300 soldati italiani - resta sotto il tiro di Haftar, da giorni sono ripresi intensi i combattimenti anche a sud di Tripoli, dove il generale di Bengasi sta facendo convergere rinforzi in vista dell’ennesima presunta “battaglia finale”. Per contro - lo riferisce una fonte anonima a Agenzia Nova, un convoglio di unità fedeli al Gna starebbe avanzando verso la zona dei giacimenti petroliferi di Sharara - che nella mappa del conflitto libico ha i colori dell’Lna - sotto la guida del generale Ali Kanna, comandante dell’area militare di Sebha. Nella città di Ubari, non lontano dagli impianti, troveranno schierate le brigate che prendono il nome da questa città del sud-ovest libico, le quali ieri hanno ribadito il loro sostegno a Haftar “per liberare l’intera patria e ripristinare la dignità del cittadino”. Il petrolio resta elemento centrale della guerra, come dimostra indirettamente il duro scontro verbale avvenuto nei giorni scorsi a margine del Consiglio economico libico-britannico che si è tenuto a Tunisi, tra il presidente della compagnia petrolifera libica National Oil Corporation (Noc) Mustafa Sanallah e il governatore della Banca centrale della Libia, con sede a Tripoli, Sadik al Kabir. Al centro dell’alterco c’era proprio la ripartizione dei proventi del petrolio tra le forze in campo. La nuova impennata delle violenze e dei bombardamenti incentiva ovviamente le nuove partenze dei migranti dalla costa. L’ultima strage in mare ne è un effetto diretto. Su questo e sul resto si attende che il governo di Roma batta un colpo. Dopo l’abbattimento del primo velivolo senza pilota lo Stato maggiore della Difesa aveva fatto sapere che si trattava di un aereo impegnato nell’operazione “Mare sicuro” sfuggito al controllo radio. Doveva essere finito parecchio fuori rotta, perché Tarhouna, dove è stato intercettato, si trova nell’entroterra di Tripoli, sulle montagne, a 40 km dalla costa.