La vera fotografia di un fallimento del nostro sistema penitenziario di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 novembre 2019 Sovraffollamento, suicidi, carcerazioni anche per pene brevissime e trasferimenti. Mentre vengono rilanciate proposte repressive, come l’allargamento del 4bis (l’articolo che vieta la concessione di benefici) nei confronti dei detenuti che vengono scovati con un cellulare, il sistema penitenziario risulta oramai al collasso. Le cause principale sono da attribuirsi a sovraffollamento, suicidi tentati e realizzati, ricorso troppo facile alle celle di isolamento, riduzione delle opere trattamentali e lavoro. A questo si aggiunge la scarsità di operatori sanitari, mettendo in difficoltà gli stessi agenti penitenziari che non possono avere le competenze per rapportarsi con i detenuti con problemi psichiatrici. Sempre su quest’ultimo punto, va ricordata la mancata approvazione di un decreto attuativo della riforma originale. La norma prevedeva la realizzazione di unità interne con carattere realmente sanitario, oltre al fatto che andrebbe richiesto un maggiore impegno da parte delle Aziende sanitarie territoriali e alle Autorità regionali. Situazioni che inevitabilmente generano violenza e le prime vittime sono gli stessi agenti penitenziari. In cella per droga al primo posto in Europa - Mentre si diffonde sempre di più l’idea che da noi esiste una sorta di lassismo e la mancata “certezza della pena”, i numeri dicono ben altro e che mettono l’Italia al primo posto tra i paesi dell’Unione Europea per incremento della popolazione detenuta tra il 2016 e il 2018, in controtendenza rispetto al resto del continente. L’ultimo rapporto di Antigone ha analizzato attentamente questi dati e ha evidenziato che le carceri italiane sono più affollate della media dei paesi europei, con un tasso del 115%, a fronte di una media europea del 93%. Ciò vuol dire che in Italia, laddove dovrebbero stare al massimo 100 persone, ce ne sono 115. Una delle prime cause dell’eccessiva presenza di persone detenute è da ricercare nell’inefficace e repressiva legislazione sulle droghe, che rappresenta una dei motivi principali di ingresso e permanenza in carcere. Al 31 gennaio 2018, il 31,1% delle persone detenute era ristretto per violazione del Testo Unico sulle droghe: circa un terzo del totale. La media europea è del 18%, 13 punti percentuali in meno. In Germania i detenuti per droga erano il 12,6%, in Francia il 18,3% e in Spagna il 19%. Solo Grecia e Lettonia facevano peggio di noi. Primi per pene lunghe, ma anche brevissime - Come se non bastasse siamo al primo posto per quanto riguarda le pene lunghe da scontare. L’idea secondo cui in Italia ci sarebbero pene troppo lievi e permanenze in carcere di brevissima durata è platealmente smentita dai dati: le persone detenute che scontano la pena dell’ergastolo rappresentano il 4,4% dei condannati, contro una media europea del 3,5%. Le condanne comprese tra i 10 e i 20 anni riguardano poi il 17% dei detenuti con condanna definitiva: ben 6 punti percentuali in più della media dei paesi europei (dell’11%). E ancora: il 27% di chi sconta una condanna in carcere ha una pena compresa tra i 5 e i 10 anni, a fronte di una media europea del 18%, di 9 punti percentuali in più bassa. Ciò vuol dire - come ha sottolineato sempre Antigone - che in Italia si sta in carcere più che negli altri paesi. Siamo anche il primo Paese con i più alti tassi di persone detenute senza una condanna definitiva (ovvero, stando alla Costituzione, di persone innocenti in carcere): ad oggi rappresentano il 34,5% della popolazione detenuta. La media europea è del 23%, oltre 10 punti in meno. Ma non solo. Abbiamo anche il primato per quanto riguarda le persone che scontano in carcere pene brevissime, mente negli altri Paesi usano misure alternative. Secondo il Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma, in carcere ci sono 22.870 persone che hanno ancora da scontare meno di tre anni, mentre 5 mila detenuti sono in carcere perché condannati a una pena inferiore ai due anni. Teoricamente sono persone che ne potrebbero usufruire, ma a causa della loro condizione sociale, non hanno gli strumenti per accedervi. Lo ha spiegato molto bene sempre Mauro Palma durante la sua presentazione dell’ultimo rapporto. Ha rivelato che l’aumento della popolazione detenuta “non è ascrivibile a maggiori ingressi, bensì a minore possibilità di uscita”. Sottolineando che questo dato deve far riflettere “perché può essere determinato da più fattori: l’accentuata debolezza sociale delle persone detenute che non le rende in grado di accedere a misure alternative alla detenzione, per scarsa conoscenza o difficile supporto legale; la mancanza soggettiva di quelle connotazioni che rassicurino il magistrato nell’adozione di tali misure; o, infine, un’attenuazione della cultura che vedeva proprio nel graduale accesso alle misure alternative un elemento di forza nella costruzione di un percorso verso il reinserimento”. La girandola dei detenuti - Se in alcune carceri si registrano esplosioni di violenza, una delle problematiche riguarda il continuo trasferimento dei detenuti problematici e alcune carceri diventano un contenitore del disagio fino ad esplodere. È successo recentemente al carcere umbro di Capanne. Sono stati trasferiti i detenuti più problematici, come quelli con provvedimenti disciplinari o con problemi di salute mentale. Con questi continui trasferimenti progressivamente il carcere scelto come meta di destinazione diventa un contenitore di persone problematiche e non è attrezzato per gestirle. Complice una circolare del Dap che ha disposto la possibilità di traferire i detenuti per motivi di sicurezza. Succede quindi che si rimanda il problema ad altri. Oppure, come sta accadendo in questi mesi, decine di detenuti ergastolani vengono trasferiti in alcune carceri, come quelli di Parma, già sovraffollati e non adeguati a sistemare i reclusi in celle singole: da lì le proteste e quindi maggiori disagi per tutti. Telefonini, evasioni e droga. emergenza? - L’emergenza del momento sembra essere il discorso del numero dei telefonini sequestrati e le evasioni. Nei primi nove mesi di quest’anno sono stati eseguiti 587 sequestri di sostanze stupefacenti e 1.412 telefonini. Sequestri importanti, ma ricordiamo sempre che parliamo di numeri su una popolazione di quasi 61 mila detenuti. In Francia, dove esiste - come d’altronde in tutti i Paesi del mondo il discorso dei traffici dei cellulari, hanno pensato di risolvere il problema non con la repressione, ma con la realizzazione di un telefono fisso per ogni cella, in maniera tale che i detenuti possano avere la possibilità di rimanere in contatto con i familiari. Da noi invece ogni detenuto ha 10 minuti di tempo alla settimana e solo per la famiglia. Con ovvie conseguenze, tipo appunto il traffico di cellulari. La riforma dell’ordinamento penitenziario, in gran parte disattesa, prevedeva che si allungassero i tempi. Per quanto riguarda le evasioni dal carcere, invece, non esiste alcuna emergenza. Nel 2018, 44 sono quelle tentate, mentre 110 sono le evasioni riuscite. Numeri, considerata la popolazione detenuti, con percentuali da prefisso telefonico. Senza contare che chi evade, poi viene subito ripreso grazie alla professionalità degli agenti. I convegni di oggi e domani - Problemi reali che però trovano come risposta più repressione, allontanandosi sempre di più dallo spirito iniziale degli Stati generali sull’esecuzione penale dove venne partorita la riforma dell’ordinamento penitenziario, poi disattesa. A tal proposito, oggi alle ore 11, l’Università Sapienza di Roma ospiterà presso l’Aula Calasso della Facoltà di Giurisprudenza il Convegno “Carcere. Rimettersi in cammino verso la Costituzione”. Domani, alle ore 10, sarà convocato un tavolo di consultazione sul tema delle “Sinergie per una cultura costituzionale dell’esecuzione penale”, al quale parteciperanno, tra gli altri, anche rappresentanti di Antigone, Comunità Sant’Egidio, Garante Nazionale delle persone private della libertà, Coordinamento Nazionale Magistrati di Sorveglianza. La relazione introduttiva del Convegno sarà affidata al professor Glauco Giostra. Riforma della giustizia: e l’emergenza carceri? di Rosa Nuzzo periodicodaily.com, 22 novembre 2019 La condizione dei detenuti rappresenta una delle principali emergenze del nostro Paese. Nei progetti di riforma nessun accenno all’ordinamento penitenziario, nessun interesse rivolto all’esecuzione penale, nessuna attenzione per la vera crisi del sistema italiano. In questi giorni di acceso dibattito sulla riforma della giustizia, con il Ministro Bonafede che continua ad attirare l’attenzione su prescrizione e ragionevole durata del processo, è doveroso far luce su un aspetto del nostro ordinamento che più di tutti necessita di un intervento positivo, ma sul quale vige un silenzio assoluto, il problema carceri. La Riforma dell’Ordinamento Penitenziario sembra ben lontana dagli interessi del governo e della politica in generale. Tuttavia, se un’emergenza c’è nel nostro ordinamento, è proprio quella della condizione dei detenuti. Purtroppo, come segnalato anche nella relazione presentata dai Responsabili dell’Osservatorio Carceri dell’Ucpi, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario dei penalisti italiani nello scorso febbraio, i trattamenti inumani e degradanti, a cui sono sottoposti i detenuti nelle carceri italiane, sono oggi ancora più preoccupanti che in passato. Sovraffollamento, suicidi, decessi innaturali, scarsa tutela della salute, nessuna attenzione per il diritto all’affettività e alla territorialità, l’assenza di forme dignitose di trattamento, sono solo alcune delle questioni su cui caldamente si richiede di intervenire. Ma la politica e il governo sembrano ancora fare orecchie da mercante. Certo, è difficile mettere mano alla disciplina dell’esecuzione penale, ma è altrettanto necessario iniziare a porsi domande su quali nuovi istituti potrebbero prendere forma o quali, tra quelli esistenti, abbisognino di interventi che possano rendere la pena più umana. Oggi la detenzione va oltre i limiti della legalità costituzionale, è un dato di fatto più spesso denunciato. Le statistiche e i numeri delle carceri italiane - Volendo riportare i dati statistici forniti dall’Osservatorio carceri Ucpi, ricordiamo che il 2018 passa alla storia come l’annus horribilis del sistema carcerario. “67 suicidi e 100 decessi, 59.655 detenuti presenti a fronte di 50.581 posti regolamentari (con una presenza media pari a 58.872, la più alta dopo la sentenza Torreggiani e con 1/3 non definitivi), 52 bambini in cella, un tasso di sovraffollamento medio, sulla carta, pari a 117,94% (in realtà molto di più considerato che, per come ammesso dal capo del Dap di recente, esistono ulteriori 4.600 posti regolamentari per nulla utilizzabili) sono numeri emblematici del drammatico stato dell’Esecuzione penale in Italia”. Basti pensare che la capienza regolamentare già nel 2018 si era ridotta a 50.550 posti (a cui bisogna togliere almeno altri 4.600 non utilizzabili). Il tasso di sovraffollamento, quindi, ha toccato quindi l’anno scorso il 118,94%. A fare il punto sulla situazione attuale è il rapporto sulle condizioni di detenzione pubblicato dall’associazione Antigone. Al 30 settembre sono stati calcolati oltre 60.000 reclusi, con un tasso di sovraffollamento del 120% (nello specifico, 60.785 detenuti in meno di 47.000 posti letto). “Tra questi 60.000 detenuti più di un terzo sono stranieri, uno su tre sono persone affette da disturbi psichiatrici, mentre due su tre sono tossicodipendenti o alcoldipendenti” denuncia Aldo Di Giacomo, sindacalista del Corpo di Polizia Penitenziaria. Come è possibile immaginare, sono soggetti che vivono in condizioni non gestibili in un carcere. Necessitano di trattamenti, detentivi e sanitari, appropriati ma le carenze strutturali del sistema impediscono di fare quanto necessario. E ciò avviene nell’indifferenza di chi potrebbe almeno iniziare a pensare di far qualcosa. La vera condizione delle carceri italiane - Tutto ciò si pone poi in una posizione di netto contrasto con le affermazioni della politica sulla necessità di aggravare le pene e ridurre all’osso l’accesso ai benefici penitenziari. Ormai è convinzione radicata che il nostro ordinamento debba garantire più carcere a chi si macchia di un illecito penale. Poco importa dei princìpi costituzionali che restano scritti in quella Carta che dovrebbe invece regolamentare in veste suprema le materie dell’intero ordinamento giudiziario, soprattutto quando i valori in gioco sono la vita e la libertà personale. E non è un caso che Mauro Palma, Garante dei diritti del detenuto, non molto tempo fa ha chiaramente affermato che adesso occorre un po’ di equilibrio. La situazione delle carceri e delle condizioni in cui vivono i detenuti è allarmante come mai. Occorrerebbe quindi intervenire sull’esecuzione penale, costruendo un vero e proprio progetto volto alla tutela della persona privata della libertà. Cosa ne pensa la politica - Molto spesso, quando si discute del problema con esponenti della politica e del governo viene fuori l’idea di voler affrontare la drammatica emergenza carceraria con la costruzione di nuove carceri. Dicono bene i Responsabili dell’Osservatorio, Gianpaolo Catanzariti e Riccardo Polidoro, “è una follia che va immediatamente fermata anche sollecitando un nuovo intervento della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo”. Ma la strada che l’Italia si avvia ad affrontare è proprio quella di parte chiamata in causa da chissà quanti detenuti che avranno la capacità e la voglia di avviare un ricorso dinanzi alla Cedu che ha già condannato l’Italia con la sentenza Torreggiani e più volte ha ammonito il nostro Paese ad adeguarsi al dictum della Corte in casi che hanno visto lo Stato italiano come parte soccombente. Detenuti e guardie carcerarie - Occorre a questo punto ricordare che a subire un forte peggioramento non sono solo le condizioni di vita dei detenuti, ma anche quelle di lavoro dei poliziotti penitenziari. Al drammatico aumento del numero dei suicidi tra i reclusi, bisogna aggiungere quello delle guardie carcerarie, con casi frequenti di liti, abusi e violenze, detenuti in possesso di telefoni cellulari che gli permettono di avere contatti con l’esterno e di commettere altri reati. Anche la detenzione di sostanze stupefacenti, l’ingresso di farmaci, soprattutto psicofarmaci utilizzati spesso come merce di scambio, sono problemi gravi che passano erroneamente in secondo piano. E Aldo Di Giacomo dice una cosa importantissima “se metti insieme detenuti con problematiche diverse, il sistema non funziona. L’intera macchina smette di funzionare”. Chi meglio di lui che fa parte del corpo di polizia penitenziaria può avere una visione più chiara del funzionamento del sistema? In più riferisce “Data l’attuale situazione delle carceri italiane, servirebbe prendere come modello il carcere di Rimini. Una struttura detentiva che ha permesso non solo di far rispettare la pena ma anche di curare i tossicodipendenti. E questo ha aiutato notevolmente, perché ha permesso di far calare la recidiva dopo la scarcerazione del 98%”. Vuol dire che in Italia ci sono istituti che rispondono a quell’idea di pena rieducativa, mancano però i fondi da investire per il miglioramento e la riorganizzazione delle strutture. Le domande senza risposta - A questo punto ci chiediamo: perché il ministro Bonafede, nella riforma della giustizia, non considera lo stanziamento di fondi per il recupero delle strutture esistenti o per la costruzione di altre completamente nuove, invece di promettere semplicemente 9.000 letti in più in 5 anni? Ma poi, dove sarebbero inseriti questi posti letto? In celle dove già si soffre per sovraffollamento? In celle che avrebbero bisogno di ristrutturazione per le critiche condizioni strutturali, causa anche di problemi di salute di chi le occupa? In strutture già di per sé fatiscenti? In strutture dove non c’è possibilità di creare nuovi spazi e attività ricreative? In strutture dove già si vive in condizioni tanto critiche, malsane, anguste e antigieniche nelle quali si aggiunge dolore a dolore, maltrattamento a maltrattamento, malessere a malessere, criminalità a criminalità? Perché si sa, lasciare che i detenuti vivano in condizioni quali sono quelle denunciate dalle diverse associazioni che si occupano di carcere, vuol dire imbruttire e criminalizzare chi già soffre di questa “patologia”. Il vero significato della rieducazione - Il principio della rieducazione della pena, art. 27 comma 3 Cost., ha una storia lunga e importante. Parlare di rieducazione vuol dire navigare in un mondo variegato e con tante sfaccettature. È il caso di precisare che rendere la pena rieducativa non vuol dire premiare il detenuto, vuol dire consentirgli di ripartire da zero nella costruzione del rapporto con la società e con i suoi simili, ma prima di tutto vuol dire dargli la possibilità di imparare a conoscere sé stesso e l’animo umano. Non è un caso che già nel lontano 1956 la Corte di Cassazione parlava di umanizzazione della pena. Aveva precisato che quando si parla di trattamento viene chiamato in causa il principio di umanizzazione dell’esecuzione della pena, concepito come contemperamento della finalità ad essa riconosciuta, con netto rifiuto di qualsiasi comportamento ripugnante per la coscienza civile ed incompatibile con la dignità dell’uomo. In sostanza, la pena non doveva in alcun modo degradare l’individuo. Piaccia o non piaccia alla politica, la pena nel nostro ordinamento non è riconosciuta come retribuzione per il male commesso, non vige la legge del taglione, neanche vige la pena di morte. Carcere a tutti i costi, inasprimento delle pene, divieto di misure alternative anche laddove non se ne ravvisa la necessità, punizione esemplare, sono tutti sinonimi di criminalizzazione, esattamente l’opposto di quello che dovrebbe essere la pena. Giudici, perché non vi ribellate alla prigione? di Iuri Maria Prado Il Riformista, 22 novembre 2019 Le leggi sono leggi. E prevedono il carcere, che è un’infamia. I magistrati non possono far altro che applicarle. Giusto. Però potrebbero anche esprimere un’opinione o indignazione. Non vi pare? Non è colpa dei magistrati se le leggi sono ingiuste, e non è colpa dei magistrati se i loro ordini di arresto e le loro sentenze rinchiudono le persone in un luogo infame. Perché questo è il carcere: un luogo infame, di sopraffazione, di abbrutimento, di violenza. Un luogo di morte. frequentemente. L’atto di giustizia che irroga la pena del carcere non determina unicamente la privazione della libertà, perché a questa privazione si aggiunge quel carico di afflizione supplementare: il vivere in spazi malsani e sovraffollati. l’esposizione al sopruso, la negazione di diritti che la nostra società garantisce già agli animali. Condannare al carcere significa condannare a tutto questo. E appunto: non è colpa del magistrato se ci sono comminazioni che una politica diversa potrebbe abrogare, così come non è colpa sua se esse si realizzano sulla pelle dei condannati in quella forma incivile. Ma una cosa nessuno, e dunque nemmeno il magistrato. può dire: che non sia vero o che non si sappia che la realtà del carcere è perlopiù quella. Ci si potrebbe domandare come faccia a prendere sonno serenamente chi sa che la propria decisione di giustizia infierisce con tanta violenza sulla vita di una persona, condannandola non solo alla mancanza della libertà ma all’immondizia di quella segregazione. Ci sarà ben qualcuno cui tutto questo ripugna. no? Ci sarà ben qualcuno preso dall’angoscia. dal rimorso, dalla rivolta, davanti alla certezza che il suo provvedimento affiderà chi ne è vittima a quel dispositivo di degradazione. E allora come mai non sentiamo mai da nessuno venire questo lamento? Tanto spesso si rivendica in favore dei magistrati, e tanto spesso alcuni di loro rivendicano, il diritto di opinione su qualsiasi faccenda di giustizia, un diritto che si esercita ormai su ettari di interviste e quotidianamente nel corso di applauditissime trasmissioni televisive. Ma da quelle tribune non viene mai quel lamento. quella protesta. Mai che si dica: siamo obbligati ad applicare la legge del carcere. ma non ci piace, ci fa orrore, e desidereremmo tanto che i nostri provvedimenti non arrecassero tanta ingiusta sofferenza. Perché non lo dicono? Perché non adoperano il diritto di opinione, che pure rivendicano ed esercitano senza sosta, per far sapere ai cittadini e a chi fa le leggi che loro non ne possono più di dover mandare la gente in quel carnaio? Eppure li abbiamo visti e sentiti. in più occasioni, manifestare la loro indignazione verso leggi a loro giudizio sbagliate. In quelle occasioni si è trattato di comportamenti sostanzialmente sediziosi ed eversivi, mentre qui sarebbe tutt’altro perché la situazione del carcere. nonché ingiusta, è anche illegale. E denunciarla facendo sapere che è intollerabile essere costretti a mandarci la gente - spesso anche prima del processo - rappresenterebbe un omaggio di legalità oltre che un segno di vigore civile. Non compete ai magistrati il miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti. Ma il miglioramento potrebbe venire se i magistrati usassero la loro influenza (diciamolo: il loro potere) per reclamare una amministrazione della giustizia meno ingiusta. Sei stato in galera? Niente casa popolare per te e per i tuoi familiari di Giulia Merlo Il Dubbio, 22 novembre 2019 La proposta della giunta leghista della Provincia di Trento. “Si tratta di una misura educativa”, ha spiegato ieri in aula il presidente della Giunta provinciale di Trento ed esponente della Lega, Maurizio Fugatti. Proprio a sua firma, infatti, è stato depositato un Disegno di legge provinciale che riforma i criteri di assegnazione delle case popolari in Trentino: non più solo il reddito, ma anche la fedina penale propria e dei propri familiari. L’articolo 14 del disegno di legge provinciale 36/ 2019, infatti, prevede “l’assenza da parte del richiedente e dei componenti del nucleo familiare, nei dieci anni precedenti la data di presentazione della domanda, di condanne definitive per i delitti non colposi per i quali la legge prevede la pena della reclusione non inferiore a cinque anni, nonché per i reati previsti dall’articolo 380, comma 2, del codice di procedura penale”. Tradotto: non può chiedere un alloggio popolare chi è stato condannato per reati per cui il codice penale prevede una pena di almeno cinque anni (la condanna effettiva, però, potrebbe essere anche inferiore), oltre che per i reati come il furto aggravato, la rapina, tutti i reati che riguardano sostanze stupefacenti e i maltrattamenti. Non solo, però: anche chi ha la fedina penale intonsa si vede privato del diritto di chiedere la casa popolare se un componente della sua famiglia è stato condannato per uno di questi reati nei dieci anni precedenti la domanda. Infine, la sopravvenienza di una condanna all’assegnatario o a uno dei suoi familiari provoca la revoca della casa popolare o, nel caso, il mancato rinnovo dell’assegnazione. “Chi usufruisce di un alloggio pubblico deve avere un comportamento il più possibile onesto e trasparente. Mi rendo conto che è una norma forte, ma la riteniamo giusta”, è stata la spiegazione di Fugatti davanti agli attacchi dell’opposizione - Partito democratico, la lista civica Futura e il Partito autonomista trentino - poi ha ribadito: “Io devo essere nella condizione di evitare che negli appartamenti ci sia chi delinque”. Un verbo al presente che, tuttavia, non terrebbe in considerazione che la norma si applica a chi già è finito tra le maglie della giustizia ed è stato condannato, dunque sta scontando o ha già scontato la pena e dunque per lo Stato è riabilitato. In difesa della previsione è arrivata anche la consigliera leghista Mara Dalzocchio, la quale ha invitato a “leggere l’articolo senza coinvolgimenti emotivi ed a cogliere la ratio della norma, che risponde alla necessità della tutela della pubblica amministrazione dal rischio che gli immobili pubblici possano essere usati per scopi illeciti, immorali e delittuosi”. Partendo, appunto, dal presupposto che chi è stato trovato in fallo una volta ragionevolmente tornerà a delinquere, magari proprio servendosi degli immobili pubblici. I tre consiglieri dell’opposizione - il dem Giorgio Tonini, l’autonomista Ugo Rossi e Paolo Ghezzi - hanno sollevato il problema della potenziale incostituzionalità della norma rispetto all’articolo 27 della Costituzione e in particolare al principio che la responsabilità penale è personale, visto che l’articolo 14 farebbe ricadere su genitori, figli o coniugi gli effetti negativi di una condanna penale. “Ma ha chiesto un parere legale?”, ha chiesto Ghezzi. “No - ha risposto Fugatti - perché una norma del tutto simile è già in vigore in un’altra regione e non è stata impugnata”, dunque “ha già superato i dubbi sulla costituzionalità”. In realtà, il vaglio di costituzionalità di una legge è sempre attivabile in via diretta o in via incidentale senza alcun limite di tempo e dunque potrebbe essere sollevato in qualsiasi momento dai legittimati (per esempio, un cittadino che si veda privato dell’alloggio per un delitto commesso da un parente e che ricorra davanti a un giudice). La norma, inoltre, potrebbe venire valutata anche rispetto al terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione sulla funzione riabilitativa della pena, che verrebbe meno nel caso in cui, a condanna scontata, i suoi effetti continuassero a prodursi indirettamente sul cittadino che ha esaurito il suo debito con lo Stato, incidendo un diritto come quello alla casa. Oltre a un vaglio di costituzionalità, tuttavia, la legge è destinata a produrre nella pratica un effetto distorsivo, in particolare nel caso dei maltrattamenti. Se la famiglia risiede in un alloggio popolare, la moglie denuncia il marito per maltrattamenti in famiglia e quest’ultimo viene condannato, il risultato paradossale sarebbe la perdita di requisiti per l’alloggio anche della stessa moglie e dei figli. “Se si individuano delle formule che escludano di colpire i soggetti non coinvolti siamo pronti a parlarne”, ha assicurato Fugatti. “Non comprendo come”, ha risposto Tonini, che ha parlato di norma che “così com’è formulata rischia di aggiungere disgrazia a disgrazia”. Secondo questa logica, ha rincarato Rossi, “lo stesso si dovrebbe far valere anche per gli artigiani che prendono un contributo e che hanno un figlio che spaccia, o per un albergatore che gode di contributi pubblici e ha un figlio che delinque, o per chi riceve un contributo all’affitto ed ha un figlio criminale. Cerchiamo di stare nel solco di riferirsi all’utilizzo dell’alloggio, dunque, altrimenti rischiamo fare una norma che penalizza le persone”. In realtà, il sospetto è che la norma - che evidentemente restringe la platea degli aventi diritto ad una casa popolare sia stata introdotta per fare il paio con un’altra previsione contenuta nel pacchetto di disegni di legge collegati alla manovra di bilancio trentino 2020. Nel bilancio di previsione, alla voce edilizia residenziale pubblica, vengono stanziati per gli investimenti (per ristrutturare o costruire nuove case), 157,7 milioni di euro: 71 milioni in meno rispetto all’anno in corso, con un taglio del 31% all’edilizia popolare trentina. Dunque, meno aventi diritto, meno necessità di fondi. L’altra regione in cui è presente una legge simile è l’Abruzzo, dove il 15 ottobre di quest’anno la Giunta guidata da Marco Marsilio, di Fratelli d’Italia, ha modificato la legge esistente (che già estendeva ai parenti gli esiti negativi di una sentenza penale), abbassando il limite di condanna a due anni (rispetto ai precedenti cinque) per perdere il diritto all’assegnazione di una casa popolare. Non solo, nella versione abruzzese, il divieto di assegnazione della casa scatta addirittura con la sentenza di primo grado (dunque senza attendere il suo passaggio in giudicato) nel caso in cui i reati riguardino le violenze domestiche. Quel Paragone sbagliato di Gad Lerner Venerdì di Repubblica, 22 novembre 2019 Aiuto. Invano ho consultato un amico criminologo, un’altra che fa l’educatrice in carcere, e un paio di amici ex detenuti. Ho pure consultato su Google alcuni glossari per decrittare il gergo della mala e il gergo della galera. Ma non ne sono venuto a capo. Mi arrendo, quindi, di fronte all’autorità indiscussa di Gianluigi Paragone, all’epoca non ancora senatore del M5S ma già promettentissimo tribuno del popolo, che in diretta Facebook nell’estate 2016 pensò bene di esprimere il suo sdegno contro un giovinastro che aveva malmenato un disabile fuori da una discoteca in Sardegna, con le seguenti parole: “Questa è gente di merda, non si può parlare di bullismo, devono finire in carcere e starci dentro sette anni. E quando sono dentro devono fare la “mamma” di qualcuno, per chi capisce il gergo”. Il detenuto in questione, lui forse avendo compreso cosa significhi, in gergo, “fare la mamma di qualcuno”, ha ritenuto di querelare Paragone e un altro giornalista per istigazione a delinquere, accusandoli di aver sollecitato gli altri carcerati a riservargli un trattamento non commendevole. Trovo interessante che Eugenio Piccolo, avvocato difensore del nostro tribuno del popolo, nella sua arringa, abbia voluto spiegare al giudice monocratico del Tribunale di Varese che si tratterebbe di “frasi da inserire in un contesto di profonda indignazione e che si innestano in un lessico politico generale modificato negli ultimi tempi”. L’argomento è risultato convincente, tanto che gli imputati sono stati assolti. Non ho rilievi da opporre alla sentenza. Motivata anche dalla testimonianza della direttrice del carcere di Sassari, la quale ha spiegato che il giovane aveva subito intimidazioni dagli altri detenuti prima, e non dopo, la raccomandazione di Paragone. Dunque mi guardo bene dall’intromettermi nella decisione del magistrato. Però mi resta la curiosità. Dobbiamo noi accettare serenamente questa evoluzione del “lessico politico generale” fino al punto di ammiccare al gergo della mala? Non più solo raccomandando che il delinquente “marcisca in galera”, non prima di aver “gettato via le chiavi”, e magari prescrivendogli i “lavori forzati”, ma addirittura riservandogli un trattamento fisico di sottomissione ad opera dei suoi compagni di cella? Ho smesso da tempo di illudermi che la nostra classe politica si impegni ad adoperare un linguaggio consono di fronte all’opinione pubblica, anziché camuffarsi essa stessa da “popolo”. Nego, peraltro, che il gergo della mala possa essere spacciato per genuina espressione dei sentimenti popolari. Ma mi limito a chiedere: cosa direbbe Paragone, e cosa direbbe la sua mamma, se qualcuno gli augurasse nella foga polemica di subire non meglio spiegate angherie. Prescrizione all’ultima curva. La Camera voterà a dicembre di Wanda Marra Il Fatto Quotidiano, 22 novembre 2019 Chiesta l’urgenza per la proposta di Costa (Fi). Il Pd, senza un accordo, potrebbe dire sì. La proposta di legge di Enrico Costa per abrogare la norma che - a partire dal primo gennaio 2020 - elimina la prescrizione dopo il primo grado di giudizio, potrebbe arrivare in aula alla Camera in dicembre. Di certo arriverà un voto sull’urgenza di questa proposta: se passa, Montecitorio si esprimerà prima dell’entrata in vigore della norma Bonafede. Enrico Costa, l’autore della proposta, ha depositato la dichiarazione d’urgenza a nome del gruppo Forza Italia - Berlusconi. Dunque, il 27 novembre la conferenza dei capigruppo dovrà votare su tale urgenza. E se non ci sarà l’unanimità, come è probabile, toccherà all’aula di Montecitorio esprimersi sull’urgenza a sua volta. Se passa, la legge si vota l’11 dicembre. Come dice lo stesso Costa, “il Pd dovrà decidere da che parte stare”. L’accelerazione di Forza Italia arriva dopo il vertice di martedì notte sulla giustizia, finito con un muro contro muro tra il Guardasigilli, Alfonso Bonafede, che non ha alcuna intenzione di tornare indietro sulla prescrizione e i Dem, che chiedono di rimandare l’entrata in vigore della norma, senza garanzie sulla durata dei processi. Se la maggioranza non trova un accordo politico, l’aula si troverà a esprimersi comunque sulla questione. Il Pd minaccia di votare la proposta Costa. Che in questo momento, dunque, funziona come un’arma di pressione sui 5Stelle. Ieri sui giornali italiani sono andati all’attacco dello stop alla prescrizione quelli che per ilPd stanno seguendo il dossier: Alfredo Bazoli, Michele Bordo, Andrea Giorgis, Franco Vazio. Mentre Andrea Orlando è intervenuto prima su Repubblica e poi sull’Huffington nel pomeriggio: “Senza un accordo su come accelerare il processo, diventa inevitabile il rinvio della legge di Bonafede sulla prescrizione. Se la prescrizione viene bloccata dopo la sentenza di primo grado, lo Stato si deve assumere l’onere di garantire ai cittadini tempi certi del processo”, ha detto l’ex Guardasigilli. E poi, ancora: “Si sapeva che c’erano difficoltà e si stanno facendo delle proposte che mirano a ridurre le distanze. E credo che sia interesse di Bonafede trovare un accordo, altrimenti in aula quel punto sarà cambiato inevitabilmente”. Ma “non salterà il governo”, assicura. Sarà. Stefano Ceccanti, Base Riformista, per dire, è un po’ meno convinto sul punto: “Il terreno più esplosivo nella maggioranza resta quello della giustizia. È evidente che se il ministro Bonafede insiste sulla non negoziabilità dell’entrata in vigore del blocco della prescrizione dopo il primo grado, varata a suo tempo dal precedente governo, il governo rischia”. Lo stesso Costa, però, denuncia: “Il Pd abbaia ma non morde. Minaccia tuoni e fulmini sulla prescrizione, ma è destinato a calare le braghe accucciandosi ai piedi di Bonafede. Gli esponenti del Pd, visto che il Guardasigilli terrà duro, si accontenteranno di qualche pannicello caldo per dimostrare di esistere, e non otterranno nessun rinvio”. Una visione interessante. Quanto realistica? Difficile capirlo a questo punto della storia. Quello che è vero è che il Pd sta cercando di convincere il ministro della Giustizia a introdurre una variabile, nel secondo grado di giudizio: ovvero introdurre un termine indipendente dalla prescrizione, oltre il quale il processo si estingue. Il tentativo, insomma, è quello di introdurre un limite massimo alla durata dei processi. Il Pd sta ragionando anche su diversi termini per diverse tipologie di reato. E sarebbe pronto a rinunciare allo sconto di pena davanti a processi che durano troppo, un’altra delle proposte fatta durante il vertice. Finora Bonafede ha detto di no. E ha proposto per gli assolti in primo grado una corsia preferenziale in appello e una più facile agevolazione per la possibilità di accedere all’indennizzo, che già esiste, qualora ci sia uno sforamento dei termini”. Il Pd ha detto no. Chilo sa se la minaccia della legge cambierà qualche equilibrio? Prescrizione. I dem: rinvio con il decreto Milleproroghe di Emilio Pucci Il Messaggero, 22 novembre 2019 Il rinvio per decreto. È questa l’exit strategy del Pd qualora il Guardasigilli Bonafede decidesse di non accogliere le proposte sulla necessità di determinare tempi certi dei processi. “Bonafede - è la posizione del Pd - non pensi di fare melina fino al 31 dicembre, non accetteremo mai la riforma della prescrizione senza correttivi”. Lo strumento in cui chiedere la sospensione potrebbe essere il dl Milleproroghe. Proroga dei termini della disposizione legislativa: bastano poche righe per fermare il treno. Altrimenti il 1 gennaio entra in vigore la norma inserita nello Spazza-corrotti. Per la maggioranza c’è anche la spada di Damocle del ddl del forzista Costa che impone lo stop e riprende la riforma Orlando. Il 27 novembre sarà la capigruppo di Montecitorio a decidere l’iter del provvedimento. Quasi sicuramente non passerà la richiesta della via d’urgenza. Ma senza unanimità potrebbe pronunciarsi lo stesso l’Aula e il Pd è tentato di dare il via libera, ovvero di anticipare il confronto nell’emiciclo di Montecitorio il 13 dicembre. La proposta di legge dell’ex ministro azzurro resta così una preziosa arma di pressione sui pentastellati. La strada indicata dai dem al ministero di via Arenula è quella della legge delega alla riforma del processo penale. Inserire delle misure ad hoc come la cosiddetta prescrizione processuale, ovvero l’estinzione dell’azione penale nel momento in cui un processo dura oltre il tempo dovuto. Altrimenti la strategia è quella delle mani libere. Processi sui mass-media, così muore la Giustizia di Paola Giordano Quotidiano di Sicilia, 22 novembre 2019 Indagati alla gogna ma poi silenzio “colpevole”. Intanto, si arena la riforma: c’è un’intesa sul processo civile, fumata nera però su penale e soprattutto sulla prescrizione. L’art. 27, comma 2, della nostra Costituzione stabilisce che “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. La realtà, però, ci racconta molte volte tutta un’altra storia perché le sentenze di condanna arrivano sempre più spesso dalle pagine dei giornali, dalle televisioni e dal web, dove quasi quotidianamente si celebrano processi a danno di questo o quell’indagato, peggio ancora se si tratta di un personaggio noto all’opinione pubblica. Se poi questi risulta innocente, quegli stessi salotti televisivi e quegli stessi giornali che hanno già emesso la sentenza di condanna sembrano dimenticare di dare il giusto spazio alla conclusione delle indagini o dei processi, se favorevoli all’indagato o all’imputato. La riforma della giustizia annunciata dal ministro Alfonso Bonafede, intanto, rimane arenata. Le forze politiche che compongono il governo Conte hanno raggiunto proprio ieri un’intesa sulla riforma del processo civile che verosimilmente approderà in Consiglio dei ministri la prossima settimana. Fumata nera, invece, sul processo penale e prescrizione. Eppure le tante storture del sistema sono sempre lì, note a tutti ma ancora irrisolte: errori giudiziari, ingiusta detenzione, durata irragionevole del processo, per citare i più eclatanti. Quest’ultimo, insieme alla riforma del Csm, finito nel caos dopo il “caso Palamara”, è uno dei punti cardine della riforma che Bonafede ha nel cassetto ormai da mesi. Lunghezza processi. Il testo della riforma del ministro Alfonso Bonafede prevede una durata massima di sei anni per i processi sia nel civile sia nel penale, superati i quali i giudici rischiano un illecito disciplinare. Prescrizione. La legge cosiddetta “Spazza-corrotti” prevede che con la sentenza di primo grado non decorrano più i termini della prescrizione. Il blocco dei termini entrerà in vigore dal prossimo 1 gennaio. Ciò vuol dire che la prescrizione si fermerà solo entro i termini del giudizio di primo grado, mentre non decorrerà più e quindi non verrà applicata nei successivi gradi del giudizio, e ciò sia che si tratti di assoluzione sia che si tratti di sentenze di condanna. Riforma Csm. Per superare l’attuale sistema legato alle correnti, è prevista l’introduzione del sorteggio tra i candidati al Consiglio superiore della magistratura prima della elezione vera e propria. Nell’attesa che si sciolgano questi nodi, gli ultimi dati di errorigiudiziari.com, relativi al 2018, parlano di 895 casi di ingiusta detenzione, 136 dei quali si sono verificati nella nostra Isola, e di quasi 48 milioni di euro sborsati dallo Stato a titolo di risarcimenti per ingiusta detenzione (5,75 dei quali erogati in Sicilia). Numeri spaventosi che insieme a tanti altri indicatori mostrano quanto oggi più che mai sia improrogabile una seria riforma. Violenza sulle donne, per la ministra Bonetti è “emergenza” di Gilda Maussier Il Manifesto, 22 novembre 2019 Una donna su tre nel corso della vita ha subito una qualche forma di maltrattamento - dallo schiaffo allo stupro - da parte di un uomo. “Una ragazza su 10 della Generazione Z dichiara di aver subito molestie sessuali”, secondo il rapporto di Terres des Hommes. La responsabile delle Pari opportunità annuncia un “micro-credito di libertà”. “A livello mondiale, ogni anno un miliardo e duecento milioni di donne subiscono violenza e cinquantamila vengono uccise da componenti della propria famiglia”, denuncia la “We World Onlus” presentando il dossier “Making the Connection” alla Camera dei deputati, in vista della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne che si celebrerà lunedì 25 novembre. Vuol dire che una donna su tre al mondo (3,6 miliardi è la popolazione femminile globale) subisce violenza da parte di un uomo. Un dato che potrebbe sembrare poco credibile ma naturalmente bisogna tener conto della metodologia adottata nella ricerca, del tipo di campione scelto e, soprattutto, delle domande poste nel corso del rilevamento. Nel caso del dossier della “We World”, lo studio è il risultato di “una ricognizione di studi esistenti - spiega Greta Nicolini, portavoce della onlus -: i dati Istat del 2015 per l’Italia e per il resto del mondo i dati dell’Oms del 2013. Per “violenza” si intende dallo schiaffo allo stupro, qualsiasi atto che una donna subisce da un uomo nell’arco della propria vita”. Anche da parte del proprio padre. D’altra parte, partendo dalla definizione data dall’Organizzazione mondiale della sanità, la violenza può essere “fisica, sessuale, psicologica, oppure può riguardare la privazione (es.: violenza economica) e l’incuria”. In ogni caso, secondo la onlus, la violenza degli uomini sulle donne “è riconducibile sostanzialmente al modello patriarcale”. Si legge ancora nel documento: “Spesso i maltrattamenti sulle donne si consumano davanti ai figli: si stima che a livello globale circa 3 bambini su 4 (pari a circa il 75%) siano stati vittime nell’anno precedente di almeno una forma di violenza”. Inoltre, ogni 10 donne uccise, l’autore dell’omicidio è un familiare o un ex familiare per 8 casi, in Italia, e 6 nel mondo. Per fortuna però la situazione, precisa lo stesso studio di “We World”, “è in lento miglioramento a qualsiasi livello, mondiale, europeo e nazionale”. Però le donne denunciano di più: secondo il Censis, nel 2018 in Italia sono stati denunciati alle forze dell’ordine 4.887 violenze sessuali, il 90% delle quali subite da una donna e in 397 casi a subire è stato un minore di 14 anni. Nella classifica del numero di querele e denunce presentate, il nord è in vantaggio: al primo posto c’è Milano con 481 denunce, seguita da Roma con 411 e Torino con 215. Nel rapporto presentato nell’ambito del progetto “Respect-Stop Violence Against Women”, realizzato dal Censis con il contributo del dipartimento per le Pari opportunità della Presidenza del consiglio, si legge anche che la prima provincia per numero di violenze sessuali denunciate in rapporto alla popolazione residente è Trieste, seguita da Rimini e Bologna. Nell’ambito italiano, altri dati vengono invece dall’Osservatorio Indifesa - un progetto di Terre des Hommes e ScuolaZoo nato per sensibilizzare l’opinione pubblica, e soprattutto le ultime generazioni, sul tema - che ha intervistato “oltre 8 mila ragazzi e ragazze delle scuole secondarie in tutta Italia”: “Il 10% delle ragazze della “Generazione Z” - ha spiegato Paolo Ferrara di Terre des Hommes - cioè le nate tra la seconda metà degli anni ‘90 e la fine degli anni 2000, dichiara di aver subito molestie sessuali e il 32% ha ricevuto commenti non graditi a sfondo sessuale online. Il 7% ha subìto rispettivamente stalking e ricatti o minacce relative alla circolazione di proprie foto o video a sfondo intimo, mentre l’8,4% ha ricevuto minacce di violenza”. Ed è di nuovo “emergenza”: “Il Paese riconosce l’emergenza di un fenomeno a cui dobbiamo dare risposte - ha commentato la ministra per le Pari opportunità e la Famiglia Elena Bonetti presentando la campagna #liberapuoi - I dati sulla violenza maschile sulle donne sono allarmanti perché ogni volta che c’è un +1, c’è una vita intera che si sta giocando. Di fronte a questo abisso la prima cosa è accendere una luce nel buio e dirci che siamo tutti parte di questo fenomeno, colpevoli se restiamo in silenzio e se non mettiamo in atto politiche efficaci”. Per questo l’esponente del Pd ha annunciato: “Il dipartimento investirà un milione di euro per le vittime di violenza, per ricostruirsi una vita dopo essere usciti da percorsi di violenza, per dare fiducia e investire su di loro”. Lo ha chiamato “micro-credito di libertà”. Nicola Gratteri: “La nuova ‘ndrangheta è feroce, ma molto fragile” di Virginia Piccolillo Sette-Corriere della Sera, 22 novembre 2019 La ‘ndrangheta tutta capre e sequestri non è mai esistita. Sin da quando nell’isola di Favignana, a fine 800, mescolarono in carcere politici e criminali, si è data un tono, un’organizzazione simil-nobiliare, riti e linguaggi esoterici e prospettive imprenditoriali. Ma ora c’è un cambiamento epocale. La google-generation ha modificato consuetudini e codici d’onore. Spietati, ma dai piedi d’argilla, i nuovi boss sono attratti dal potere, ma anche dal lusso, dalle amicizie glamour, dalle Ferrari, dai casinò e dalle vacanze. E, se catturati squarciano il velo sull’organizzazione criminale più impenetrabile. A fornirne una fotografia puntuale e appassionante il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, nel saggio scritto con Antonio Nicaso: “La rete degli invisibili”. Procuratore Gratteri com’è la ‘ndrangheta 2.0? “Perfettamente integrata. Si muove come noi. Frequenta gli stessi luoghi. Ha le stesse abitudini. A partire dai social”. Ma è possibile tracciare un identikit dei componenti? “Certo, anche psichiatrico”. Psichiatrico? “Finora sono stati descritti dal punto di vista sociologico, noi, grazie ad amici psichiatri, abbiamo indagato il lato oscuro della psiche mafiosa”. E cosa emerge? “Una sindrome paranoica. Sono feroci, ma con una grande fragilità. I figli dei boss, sin da piccoli sono costretti a imparare il rispetto per i capi, l’odio per lo Stato e per i traditori. E devono sapere che le offese si lavano col sangue e ci si sposa solo con donne di mafia”. E loro obbediscono ancora? “Non sempre. Il boss Luigi Bonaventura racconta come “pativa ad essere all’altezza delle aspettative del padre e dei maschi del clan”. E invece adesso nelle intercettazioni si comincia a sentir parlare dell’omosessualità nei clan”. Accettata? “Mai. Anche se un fido luogotenente invia al boss Giovanni De Stefano lettere appassionate. E un altro, intercettato, parla delle sue “avventure omosessuali”. Il mito dell’uomo di ghiaccio con le donne che cadono ai suoi piedi si frantuma, in segreto”. Nella ‘ndrangheta non parlava nessuno. Ora c’è chi si pente. Perché? “Nessuno si pente. Collaborano perché reggono sempre meno il carcere. Non ce la fanno a restare in silenzio in un buco per 40 anni come i loro bisnonni patriarchi. Nell’ultimo anno quattro figli di boss hanno parlato. È un punto di vulnerabilità e con un sistema giudiziario più performante potremmo sfruttarlo per fare passi da gigante. Per questo la politica non deve sgretolare la legislatura antimafia”. Vuole dire che non va abolito l’ergastolo ostativo? “Esatto. Dalle mafie si esce o da morti o perché si collabora. Chi tace va esaudito quindi è sempre pericoloso”. Lei descrive una ‘ndrangheta “meno sangue e più trame segrete”. Quali trame? “Ci sono mondi diversi uniti da un comune vincolo massonico e da obbedienze di varia natura e dal legame a ordini cavallereschi e logge deviate. Nicola Femia, “riservato” del clan Mazzaferro dice di aver portato in Vaticano soldi destinati all’acquisto di droga in Colombia. Virigilio, massone, parla di una sorta di P2 dove avrebbe incontrato generali, ministri, politici. Parlano di processi aggiustati. Come disse il sindacalista Sebastiano Altomonte alla moglie: “C’è la visibile e l’invisibile e noi siamo nell’invisibile e la conoscono in pochi”. Non si uccide più, perché? “Non serve. Si compra. C’è un abbassamento dell’etica generale. E le amministrazioni pubbliche sono sempre più permeabili, prone e corruttibili”. Da Tangentopoli non è cambiato nulla? “Sì, in peggio. Si è arrivati all’assuefazione. Si frequenta il boss perché è ricco, potente, magari è sponsor o proprietario di una squadra di calcio. E si fa finta di nulla”. Magari, fuori dalla Calabria, non si sa chi è… “Ce lo dicono gli imprenditori indagati al Nord. Ma se ottieni ribassi del 40% lo sai. E poi la pagherai. Come dice Nicodemo Filippelli, del “locale” di Legnano all’imprenditore usurato: “Io ti ho sistemato e io ti distruggo a cazzotti”. È ancora l’organizzazione criminale più potente? “In Colombia compra la cocaina a 1.000 euro al Kg. Gli altri a 1.800. Si vende a 50 euro al grammo. Per prima investì in droga i soldi dei sequestri, mandò decine di broker in Sudamerica con le loro famiglie, ha avuto rapporti addirittura con le Farc guidate dall’italiano Salvatore Mancuso e per inviare le banconote di pagamento ha contatti frequenti con i terroristi islamici salafiti. Ma ora c’è un salto di qualità”. Ovvero? “Da spettatrice vuole diventare protagonista della politica”. Tra poco si vota in Calabria. La ‘ndrangheta su chi punta? “I patti indecenti si fanno nelle ultime 48 ore. Quando scatta la paura di non farcela si è più disposti a incontrare il boss. E quando un capomafia indica un sindaco lo votano. Poi, per la legge Bassanini, questi nominerà i tecnici”. Per dare appalti ad amici? “Non solo. Il boss Francesco Oliverio racconta come ha sgomberato un campo rom: “Glielo abbiamo detto 1, 2, 3 volte. Poi gli abbiamo messo una stecca di dinamite sotto una roulotte disabitata. La mattina erano andati via. La ‘ndrangheta col popolo ci sa fare”. Da procuratore di Catanzaro lei sta facendo crollare il tabù dell’omertà dei calabresi. Come? “Non sono né omertosi né masochisti. Non sanno con chi parlare. Un giorno alla settimana dalle 14 alle 22 ricevo tutti: usurati, estorti, concessi, una quota di pazzi. In coda ne ho 200. Vengono da altre regioni, anche dall’estero. Li ascolto e li smisto dai miei collaboratori carabinieri, poliziotti e finanzieri. Non è bello?”. Bellissimo come il suo ottimismo. Pensa che la ‘ndrangheta si possa distruggere? “Bisogna indagare sulle “teste pensanti”. Finalmente si fa, anche in Calabria. Servono cambiamenti normativi, ponendo mano ai codici nella consapevolezza di trovare una forte convergenza politica su una battaglia di civiltà. Poi dovrà pensarci la scuola”. Hanno smesso di minacciarla? Ride. “Cerchiamo di stare attenti”. Processo tributario, riforma condivisa dai protagonisti di Maria Carla De Cesari Il Sole 24 Ore, 22 novembre 2019 La riforma del processo tributario, con giudici professionali a tempo pieno e giudici onorari, potrebbe riuscire a riscuotere la condivisione di gran parte dei parlamentari. L’analisi comparativa dei progetti di legge presentati da M5S (Martinciglio), Lega (Centemero), Bartolozzi (Fi, con l’appoggio anche degli avvocati tributaristi dell’Uncat) fa emergere come molti cardini siano comuni. La comparazione è stata condotta da Livia Salvini, ordinario di diritto tributario alla Luiss di Roma nel corso del convegno sulle prospettive della riforma, promosso, a Roma, dall’Istituto per il governo societario e dall’Accademia romana di Ragioneria Giorgio Di Giuliomaria, presieduta da Paolo Moretti, con l’Ordine degli avvocati di Roma. L’incontro è stata l’occasione per presentare la proposta di riforma elaborata dall’Istituto per il governo societario. Il progetto si caratterizza per essere un disegno di legge delega: a differenza dei testi parlamentari la regolazione minuta avverrà sulla base dei principi direttivi con decreti legislativi, attraverso cui saranno possibili anche le correzioni, con un passaggio molto più veloce rispetto a una nuova legge. La riforma sul processo tributario non prevede modifiche costituzionali, per tutti progetti si tratta di una giurisdizione speciale affidata alla presidenza del Consiglio (non più al Mef). Si prevedono due gradi e quindi il giudizio di legittimità in Cassazione: la proposta dell’Istituto per il governo societario individua il primo grado con competenza provinciale, per il secondo si privilegia il distretto di Corte d’appello. I giudici onorari, secondo la proposta, hanno competenza per le controversie inferiori a 3mila euro, intorno a questa cifra sono anche attestate le altre proposte. La competenza dell’organo monocratico arriva fino a 30mila euro (50mila nel progetto di FI, mentre il M5S prevede che solo l’onorario possa decidere da solo). Fin qui la proposta dell’Istituto, illustrata da Massimo Basilavecchia, ordinario di tributario a Teramo. Le attuali commissioni tributarie - ha precisato Giancarlo Tattoli, giudice tributario di Roma - avranno il compito di esaurire i giudizi pendenti. Angelo Gargani, garante dei contribuenti del Lazio, ha sollecitato a valorizzare la collegialità. Fiorenzo Sirianni, direttore della Giustizia tributaria del Mef, ha ricordato gli investimenti del processo telematico che supera le esigenze di prossimità territoriale e ha difeso l’ attribuzione al ministero dell’Economia. Pasquale Saggese, responsabile fisco della Fondazione nazionale dei commercialisti, ha posto l’accento sulla necessaria specializzazione del giudice, togato o meno, e sul ruolo dei professionisti. Maurizio Leo, professore presso la Scuola nazionale dell’amministrazione, ha sottolineato come il contenzioso nasca troppo spesso da leggi farraginose e dal corto circuito tra legislatore e giurisdizione. Un esempio? Dopo il contenzioso e le correzioni interpretative sull’articolo 20 della legge di Registro (si tassa l’atto, non la finalità), la Cassazione qualche settimana fa ha chiamato in causa la Corte costituzionale. Niente tenuità del fatto per episodi violenti di nonnismo di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 22 novembre 2019 Corte di Cassazione - Sezione I - Sentenza 21 novembre 2019 n. 47291. Nessuna particolare tenuità del fatto per i militari che impongono, spacciandole per “nonnismo”, condizioni umilianti e degradanti ai colleghi arrivando fino alle percosse. La cassazione con la sentenza 21 novembre 2019 n. 47291 ha precisato che in questo caso non si può parlare di “scherzi”, di “goliardia” o di “nonnismo”. Il caso esaminato dalla Cassazione coinvolgeva alcuni militare del reggimento paracadutisti Folgore. Alcuni soldati sono stati condannati per diffamazione, ingiurie e percosse ai danni di alcuni commilitoni perché condotte accertare andavano “oltre ogni possibile consuetudine goliardica, essendo state inferte con modalità gravemente lesive della dignità, dell’onore e della reputazione dei militari presi di mira, tanto più che uno veniva mortificato con l’inflizione di umilianti percosse”. Inoltre tramite WhatsApp sono state diffuse le immagini delle persone offese nell’atto di subire le condotte degradanti. La tenuità del fatto, secondo i magistrati di legittimità, è quindi esclusa per la carica offensiva e la pluralità dei fatti. Rubare la custodia di un cellulare può costare sei anni di carcere di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 22 novembre 2019 Niente particolare tenuità del fatto se la pena lievita perché l’oggetto è esposto alla pubblica fede. Il tentato furto della custodia di un cellulare può costare sei anni e otto mesi di carcere, se l’oggetto è esposto alla pubblica fede. Sfuma così la possibilità di ottenere la non punibilità per la particolare tenuità del fatto, subordinata a una pena massima di 5 anni di reclusione. La Corte di cassazione (sentenza 47237) ha così accolto il ricorso del Pubblico ministero contro la decisione del tribunale che aveva assolto l’imputato applicando l’articolo 131-bis del Codice penale, che scatta quanto il fatto commesso è particolarmente lieve. La sentenza - L’imputato era stato condannato per tentato furto aggravato, per essersi impossessato, dopo aver manomesso la vetrina, della custodia di un cellulare esposta alla pubblica fede. Per la pubblica accusa, la pena lievitava per effetto delle aggravanti. E la Suprema corte è d’accordo, codice alla mano. I giudici della quinta sezione penale ricordano, infatti, che la pena massima per il furto, nel caso ci siano due o più aggravanti, è di 10 anni, nello specifico da ridurre di un terzo. Il risultato è una pena edittale di 6 anni e 8 mesi, alla quale va aggiunta una pena pecuniaria che può variare dai 206 euro ai 1.549. Siamo dunque fuori dal raggio d’azione della norma sulla particolare tenuità del fatto. Nel caso esaminato è proprio il caso di dire che il furto non paga, ma paga decisamente il ladro che, nel caso esaminato, la custodia l’aveva dovuta restituire al legittimo proprietario perché il “colpo” non era andato a buon fine. Falso in atto pubblico per il professore che altera il registro di classe di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 22 novembre 2019 Corte di cassazione - Sezione V - Sentenza 21 novembre 2019 n. 47241. Falso ideologico in atto pubblico a carico di professori, presidi e proprietari della scuola parificata che alterano i registri di classe facendo risultare presenti allievi che non ci sono e “barano” sui programmi di studio svolti. Per la Cassazione il registro è un atto pubblico. I giudici della quinta sezione penale, hanno così confermato la responsabilità, per associazione a delinquere e falso in atto pubblico, reati prescritti, a carico di amministratori e soci di una Srl che gestiva istituti scolastici, oltre che degli insegnati e del preside. Agli amministratore era stato contestato il ruolo di mandanti, per aver fornito alla segreteria e al corpo docente, concorrenti nei reati, indicazioni univoche per compilare i registri di classe e dei professori. L’obiettivo era far risultare presenti studenti che non c’erano, e svolti degli argomenti mai trattati. I ricorrenti avevano messo in piedi - spiega la Cassazione - un sistema capillare illecito, in Sicilia e in Calabria, che consentiva di far apparire fittiziamente, come alunni interni di istituti parificati, numerosi soggetti, che venivano poi ammessi a dare l’esame presso un preciso istituto. La Suprema corte respinge la tesi della difesa che negava la natura di atto pubblico “fidefacente” del registro, declassandolo a strumento ad uso interno, per la comunicazione reciproca tra insegnanti. I giudici precisano invece che il registro di classe è un atto pubblico con il conseguente reato di falsità ideologica in atto pubblico. Avellino. È un carcere o un manicomio? Diario di una visita alla Casa circondariale di luigi romano napolimonitor.it, 22 novembre 2019 “Direttore, quanti detenuti assumono psicofarmaci?”. “Sono sincero… tutti”. L’appuntamento con la direzione della casa circondariale di Avellino è alle nove del mattino. Il carcere - come spesso capita con gli istituti di nuova generazione - è fuori dal centro città, in una contrada nel paese di Bellizzi Irpino. Chi viene da Napoli e non dispone di un’auto, deve prendere almeno un paio di autobus per raggiungerlo. La posizione degli istituti di pena è questione delicata: la collocazione di una struttura detentiva, oltre a restituire la storia e l’idea di pena che si vuole perseguire, ci racconta della capacità di intessere e mantenere i rapporti tra il “dentro” e il “fuori”. La Casa di reclusione “Antonio Graziano” è stata costruita poco prima del terremoto del 1980 e inaugurata quattro anni dopo. Il carcere è immerso tra le colline di noci e castagni a ridosso delle montagne che circondano la città. La struttura di cemento e mattoncini rossi - che ricordano quelli di un’antica casa di correzione inglese - è protetta da una doppia cinta difensiva, la prima con ringhiere di ferro arrugginite, la seconda fatta di muro spesso e vetri di protezione. Subito dopo il primo check point (dove un’edicola di San Basilide, protettore degli agenti di custodia, accompagna l’ingresso ai metal detector) ci sono gli uffici dell’amministrazione, e dopo un altro cancello le sezioni di reclusione: alta sicurezza (As3), detenuti comuni, detenuti protetti, reparto femminile. “Il carcere sta diventando un manicomio!”, mi dice un agente di penitenziaria mentre attraversiamo la sezione di “isolamento disciplinare”, che in realtà somiglia più a un serbatoio di casi disperati: detenuti che si cospargono di feci, che manifestano manie persecutorie, che compiono atti di autolesionismo… È la punta d’iceberg di una sofferenza strutturale che non trova alcuna attenzione da parte del Dipartimento di salute mentale territoriale. Gli psichiatri arrivano in carcere - se va bene - una volta al mese, mentre gli psicologi sono a disposizione dei seicento detenuti solo per diciannove ore totali. Le “gocce” per dormire, invece, vengono date indiscriminatamente e in assenza di diagnosi. L’isolamento carcerario racconta per lo più storie di uomini travolti da disagi psichici intercettati solo al loro culmine: la marginalità diventa fattore di criminalità, semplificando in maniera elementare il piano delle contraddizioni nelle nostre relazioni sociali. I reati sono per lo più violenze in famiglia, aggressioni, oltraggio a pubblico ufficiale. La sfera penale ha il compito di fornire la soluzione più semplice e immediata al problema. Qualcuno ha oltrepassato la linea e va punito con il carcere. Il reparto di isolamento si trova alla fine di uno dei bracci della struttura “a palo telegrafico” (un unico corridoio in cui si innestano diversi moduli). È stato da poco ristrutturato, per cui non ci sono più i bagni a vista e sono state eliminate le infiltrazioni nelle celle. La risistemazione dell’edificio, strappata a fatica dal bilancio dell’istituto, ha coinvolto anche altre sezioni con l’obiettivo di introdurre le docce in stanza. Ne rimangono sprovvisti soltanto il femminile e l’alta sicurezza. È nella prassi, d’altronde, che si testano le nuove tecniche di tenuta della sicurezza interna. Nell’ultimo triennio, per esempio, quasi tutti gli istituti hanno iniziato a dotarsi di una sezione destinata ai detenuti “articolo 32”, ovvero quelli che hanno mostrato particolare avversione al regime detentivo. Lo spiega in maniera chiara, in una circolare datata giugno 2019, lo stesso Dipartimento di amministrazione penitenziaria: “Come è noto, il Dipartimento - condividendo alcune delle argomentazioni rappresentate dal personale della polizia penitenziaria per tramite delle organizzazioni sindacali - ha sentito il bisogno di proporre nuovi modelli di gestione della popolazione detenuta, unitamente a nuovi e più attuali progetti di definizione delle piante organiche degli istituti. Proprio nel solco delle proposte di riassetto gestionale […] deve innestarsi il contributo degli uffici provveditoriali per ciò che concerne l’individuazione di nuovi spazi detentivi di Alta o Media sicurezza, ovvero per ciò che riguarda l’ottimizzazione dei circuiti detentivi all’interno degli istituti. Le informazioni in possesso del Dipartimento permettono di affermare che: a) sussisterebbero soluzioni sfruttabili, idonee ad attuare azioni di parziale alleggerimento delle quantità e delle presenze detentive nelle carceri; b) potrebbero essere adottate proposte di diversa classificazione, con il recupero di nuovi spazi, pur nel rispetto della territorialità della pena o delle esigenze trattamentali o sanitarie”. Una delle possibilità di questo riassetto sta nel fatto che le celle di isolamento disciplinare manterranno solo in via residuale il loro fine storico, quello di raddrizzare la schiena del “detenuto irascibile”. Negli istituti che non hanno articolazioni psichiatriche, potranno con facilità, se necessario, essere trasformate in bracci assai più simili a quelli manicomiali. Continuo ad attraversare l’istituto accompagnato dalla penitenziaria. La configurazione cambia da un braccio all’altro, ma ci sono alcune costanti. Quella principale è il ferro, che riporta alla mente l’era delle carceri d’oro di inizio anni Ottanta, quando con la costruzione dei nuovi edifici si realizzarono profitti enormi. Ancora oggi gli scheletri di ferro pesante si poggiano a incastro sui cortili interni che dividono le aree delle sezioni, ma di ferro arrugginito sono anche alcune parti del vecchio padiglione (quello dove sono imprigionati i detenuti che non mostrano una progressione trattamentale, in particolar modo dal punto di vista della socializzazione e della “rieducazione”). Nel femminile sono recluse trenta donne. Per ragioni di sicurezza il reparto si raggiunge soltanto dall’esterno (“Maschietti e femminucce hanna sta’ divisi…”), anche perché l’edificio è separato dagli altri. Incrocio gli occhi di una ragazza che avevo conosciuto all’istituto di Pozzuoli in uno degli incontri dello sportello di Antigone. Sopraggiunge un po’ di imbarazzo tra me e lei per la presenza del Comandante, ma ci capiamo con uno sguardo e le immagini dei nostri colloqui irrompono in silenzio, in un istante: le richieste per mantenere le relazioni con la famiglia, il bisogno di gestire la tossicodipendenza, il desiderio di andare via da Pozzuoli. Ad alcune di queste istanze siamo riusciti a fornire delle sponde, poi una volta trasferita la donna, ognuno ha ripreso a rincorrere la propria vita. Siamo nel reparto. Una ragazza un po’ agitata si avvicina per chiedere udienza al Comandante. Dice di aver bisogno di modulare nuovamente la terapia perché non riesce a dormire: “Tengo l’ansia, e il dottore non si fa vedere da sei mesi”. Spesso ho sentito descrivere dai detenuti il proprio stato emotivo con la parola “ansia”, un modo unico per raccontare l’arcipelago infinito delle emozioni sofferte: il dolore di una morte non salutata, la separazione da un compagno o una compagna, la nostalgia di un figlio o la voglia di averlo, il desiderio (a volte ossessivo) di fare l’amore. Tutto è ansia e per l’ansia servono le gocce. Se è vero che il sovraffollamento rallenta ogni procedura di gestione interna, l’elemento più fragile di questa complessa macchina è proprio quello sanitario. Patologie cancerogene lasciate alla gestione dei medici di guardia (duecentoquaranta ore mensili), disabilità articolari, malattie infettive sepolte nel quotidiano assordante e ossessivo del recluso. Il punto è talmente critico che qualche magistrato di sorveglianza ha ritenuto di inviare un fascicolo alla Procura della Repubblica. La sanità campana è in ginocchio, ma il fardello maggiore è scaricato sugli ultimi, e tra questi ci sono i detenuti, i quali a differenza di altri non possono che attendere. Poche e isolate sono le spinte per la creazione di un coordinamento regionale tra i direttori delle Asl, le direzioni degli istituti e le rappresentanze del corpo detenuto, così come per la predisposizione di strumenti idonei a concretizzare il superamento della vecchia medicina penitenziaria. Basti pensare, per avere un’idea di quanto il piano della vita reale all’interno degli istituti sia lontano da quello normativo, che sono serviti undici anni per creare un sistema di prenotazione delle visite specialistiche (con attesa minima di circa otto mesi) interno al carcere. Sono quasi le due di pomeriggio quando lascio il carcere. Di fronte all’istituto un piccolo capannello di gente è al chiosco che offre caldarroste e riparo in attesa dei colloqui. Il quotidiano dei familiari racconta di un inverno rigido in arrivo, bambini che non fanno i compiti e “vogliono solo giocare a pallone”. Mi allontano mormorando un saluto, lasciando le persone e le loro storie in compagnia delle colline a ridosso del Partenio. Palermo. Si è suicidato l’ex capo dei Gip, Cesare Vincenti di Francesco Patanè La Repubblica , 22 novembre 2019 L’avvocato: “L’indagine su di lui non c’entra, era depresso”. Il giudice, da pochi mesi in pensione, era indagato a Caltanissetta per la fuga di notizie a vantaggio dell’ex patron rosanero Zamparini. Il giudice Cesare Vincenti, ex presidente dell’ufficio del gip di Palermo, si è suicidato lanciandosi da una finestra del palazzo in cui abitava, in via Rapisardi. La notizia ha gettato nello sconforto tutto il palazzo di giustizia: dai colleghi gip ai magistrati della procura, ai giudici del tribunale e della corte d’appello. Solidarietà e vicinanza alla famiglia arriva anche dall’Ordine degli avvocati. Vincenti era andato in pensione il 19 giugno con un enorme peso sul cuore. Una settimana prima la casa del magistrato era stata perquisita nell’ambito di un’indagine della procura di Caltanissetta. Vincenti aveva ricevuto un avviso di garanzia per una fuga di notizie relative alla richiesta di misure cautelari nei confronti di Maurizio Zamparini, ex patron del Palermo calcio, e per una presunta corruzione legata al figlio Andrea (anche lui indagato), messo a capo del comitato etico della fallita Us Città di Palermo creato dall’ex presidente rosanero Giovanni Giammarva. Sull’indagine la procura nissena mantiene il più stretto riserbo, ma da quanto è filtrato nei mesi scorsi i pm sospettavano che Vincenti avesse anche fatto pressioni su un giudice civile di Palermo, sollecitandolo a firmare subito un provvedimento che riguardava una vendita immobiliare cui era interessato il figlio. Cesare Vincenti era andato in pensione il 19 giugno scorso, così come previsto da tempo. Due settimane fa aveva organizzato una festa di commiato per il suo pensionamento al palazzo di giustizia. Alla cerimonia aveva partecipato però solo il personale amministrativo del suo ufficio. Il giudice soffriva di depressione da oltre un anno ed era seguito da uno specialista. L’avvocato Paolo Grillo, a nome di tutta la famiglia, ha sottolineato che “l’indagine di Caltanissetta che lo riguardava non ha avuto alcun peso nella decisione del presidente. Era sereno e sicuro di essere innocente, esattamente come il figlio Andrea”. Le indagini sul suicidio sono affidate ai carabinieri della compagnia San Lorenzo, coordinati dal sostituto procuratore Federica La Chioma. Subito dopo la tragedia, sono arrivati in via Rapisardi il procuratore Francesco Lo Voi, il questore Renato Cortese e il capo della squadra mobile Rodolfo Ruperti. Presenti anche il comandante provinciale dei carabinieri Arturo Guarino e il comandante del reparto operativo Mauro Carrozzo. Il pm nelle prossime ore deciderà se disporre l’autopsia. I carabinieri hanno acquisito le immagini dell’impianto di videosorveglianza del palazzo. Vincenti, che abitava al terzo piano, si sarebbe buttato dal pianerottolo del quinto piano da una finestra del vano scale che dà sul parcheggio interno. La Camera Penale di Palermo ricorda il presidente Cesare Vincenti, avendone apprezzato il tratto signorile ed il ruolo di terzietà del giudice, rispettoso di tutte le parti del processo ed esprime il proprio cordoglio ai suoi cari congiunti, “non sottacendo che questo evento costituisce la conseguenza di un perverso circuito mediatico-giudiziario che travolge vita e affetti senza alcun discernimento. L’ex capo dei Gip suicida era indagato per corruzione e violazione di notizie riservate. “Il principio costituzionale di non colpevolezza, unico strumento di contrasto alla gogna mediatica, è un segno di civiltà che deve essere richiamato e ribadito in momenti drammatici come questo - dicono i penalisti - Una tragedia che si consuma subito dopo il trentennale della scomparsa di Sciascia, che della nostra terra contemporanea ha saputo evidenziarne tratti, contraddizioni e crudeltà”. Salerno. Malore in carcere poi la morte all’Ospedale “Ruggi”, tre medici a processo di Viviana De Vita Il Mattino, 22 novembre 2019 Il detenuto aveva dolori addominali, i sanitari: “Solo una colica”. Ma era una perforazione intestinale. L’?accusa: omicidio colposo. Si trasforma in processo la tragedia nella quale nell’aprile 2018, perse la vita il 50enne di Angri Aniello Bruno detenuto a Fuorni e deceduto nel reparto di rianimazione del Ruggi per un’ischemia acuta intestinale. A deciderlo, ieri, è stato il gup del tribunale di Salerno Ubaldo Perrotta che, all’esito dell’udienza preliminare, ha rinviato a giudizio tre medici del carcere e uno del pronto soccorso del nosocomio di via San Leonardo accusati tutti di omicidio colposo in relazione alla morte del 50enne. Dovranno presentarsi davanti ai giudici per il processo tre medici della Casa circondariale e il medico operante al pronto soccorso dell’ospedale cittadino. Si sono invece già costituiti parte civile, con l’avvocato Pierluigi Spadafora, i familiari del detenuto. La vicenda risale alla primavera dello scorso anno quando il 50enne, recluso in una cella del carcere di Fuorni, cominciò a stare male e le sue condizioni sembravano aggravarsi sempre più con continui episodi di vomito. Nonostante ciò, nessuno dei sanitari interni al carcere, prescrisse adeguati esami per accertare le reali cause del suo malessere. Solo dopo dieci lunghi giorni nel corso dei quali le condizioni del 50enne peggiorarono sempre più, i sanitari della casa circondariale predisposero il trasferimento del detenuto al nosocomio di via San Leonardo. Giunto al pronto soccorso, è anche in questa fase che la Procura individua colpe ed omissioni, il detenuto fu visitato dal medico Giuseppe De Nicola che, sottovalutando la sintomatologia del paziente, concluse con una diagnosi di una banale colica renale e lo dimise facendolo tornare in cella. Al rientro in carcere, però, le sue condizioni peggiorarono ulteriormente tanto che durante un colloquio con la moglie, non sarebbe riuscito più a parlare dai dolori, preferendo tornare in cella. Solo tre ore dopo i sanitari del carcere predisposero un nuovo trasporto in ospedale. Qui immediatamente drammatiche apparvero le sue condizioni. Il paziente fu operato d’urgenza per una perforazione dell’intestino. Ma non servì a salvarlo Treviso. A processo gli otto detenuti che protestarono per le condizioni della cella di Milvana Citter Corriere del Veneto, 22 novembre 2019 Otto carcerati sono stati rinviati a giudizio per la rivolta del 17 febbraio del 2013. Si erano organizzati con olio bollente e bombole di gas da campeggio minacciando di farle esplodere, per aggredire gli agenti di polizia penitenziaria e tentare di coinvolgere anche gli altri detenuti in una sommossa di tutto il carcere di Santa Bona. Scatenando attimi di vero panico all’interno dell’istituto di pena trevigiano. Una rivolta finita per nove detenuti con la cella d’isolamento e una denuncia. In quegli scontri, infatti, sette guardie carcerarie erano rimaste ferite. E ora, a distanza di 6 anni da quei fatti, su richiesta del pubblico ministero Barbara Sabattini, otto di loro, che oggi hanno tra i 31 e i 47 anni di nazionalità marocchina e tunisina, finiranno a processo con le accuse di resistenza, lesioni e danneggiamento aggravati. La posizione di un altro imputato, nel frattempo espulso dal Paese, è stata invece stralciata. A scatenare la rivolta dei detenuti reclusi nella cella numero 12, la sera del 17 febbraio 2013, sarebbero state le condizioni di detenzione ritenute precarie dagli imputati. Che dopo alcune rimostranze lecite con il personale di sorveglianza e i dirigenti del carcere, avevano deciso di passare alle vie di fatto e inscenare la rivolta. Tutti i detenuti di quella cella, avevano iniziato a rovesciare le brande e rompere mobili e suppellettili. A scagliarli contro i muri, facendo intervenire gli agenti penitenziari. Ma contro di loro era pronto un vero e proprio piano d’attacco. E appena le guardie avevano tentato di entrare nella cella, avevano scagliato loro addosso olio bollente, riscaldato sulle bombolette a gas da campeggio che tenevano in cella, e che avevano poi avvolto in stracci imbevuti di liquido infiammabile. Minacciando di farle esplodere e far saltare in aria l’intero carcere. Una vera e proprio sommossa che ha rischiato di degenerare. Perché dopo il lancio di oggetti, i detenuti avevano colpito gli agenti che cercavano di riportare la calma, scalciando e tirando pugni a destra e a manca. Gli operatori, seppur contusi, erano riusciti a bloccarli ma non era ancora finita, perché vistisi bloccati i detenuti della cella 12 avevano tentato di incitare i compagni delle altre celle a ribellarsi e continuare la rivolta in tutta la struttura. Fortunatamente non c’erano riusciti ed erano finiti in isolamento. Mentre gli agenti feriti venivano accompagnati in ospedale per essere visitati, medicati e dimessi con prognosi da 5 ai 10 giorni per le contusioni e lievi ustioni causate dall’olio bollente. Per quei fatti tutti e nove erano stati denunciati e ora, a sei anni di distanza dovranno affrontare un processo. Anche se alcuni di loro, hanno completamente cambiato vita e oggi sono fuori dal carcere, lavorano e hanno una famiglia. La giustizia però, presto o tardi presenta il conto e per loro è arrivato ieri mattina quando, assistiti dagli avvocati Carlo Cianci, Diego Melioli, Paola Miotti, Luca Motta e Valentina Sartor, sono comparsi davanti al Gup Bruno Casciarri per l’udienza preliminare. Su richiesta della procura, tutti sono stati rinviati a giudizio, il processo inizierà il 20 ottobre del 2020. Agrigento. Abusi al carcere “Di Lorenzo”? Musumeci scrive a Bonafede agrigentonotizie.it, 22 novembre 2019 Il Presidente della Regione siciliana Nello Musumeci ha inviato una nota al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. La delicata situazione in cui versa il carcere “Pasquale Di Lorenzo” di Agrigento è al centro di una nota che il presidente della Regione Siciliana Nello Musumeci ha inviato al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. In particolare, il governatore fa riferimento alla notizia delle violenze che sarebbero state perpetrate nei confronti dei detenuti ospitati nel reparto di isolamento, che ha indotto la Procura della Repubblica ad avviare un’inchiesta, nonché a quella delle rimostranze degli agenti di polizia penitenziaria in servizio presso la casa circondariale, che lamentano il grave stato di criticità organizzativa in cui versa la struttura, legato all’esiguo numero di agenti in servizio. “A ciò si aggiungono - scrive Musumeci - le segnalazioni di carenze e criticità strutturali di diversa natura, nonché quelle riconducibili al sovraffollamento della struttura, che ospita un numero di soggetti maggiore rispetto a quello previsto”. Il governatore ha segnalato la situazione anche al provveditore dell’Amministrazione penitenziaria della Sicilia “per le valutazioni di competenza e gli interventi che riterrà di avviare per il superamento delle criticità in argomento”. “Ritengo doveroso - conclude il presidente nella lettera al guardasigilli - informarla personalmente della problematica, certo dell’attenzione che riserverà alla medesima e confidando al riguardo in ogni suo autorevole intervento”. Pesaro. “Dentro il lavoro”: seminario sulla formazione professionale in carcere csvmarche.it, 22 novembre 2019 Comunicato dell’associazione Bracciaperte: focus sul ruolo del lavoro nel periodo della detenzione. La formazione professionale in carcere è un tema di grande attualità, visto che le principali statistiche affermano che i casi di recidiva calano bruscamente per quei detenuti che hanno vissuto parte della detenzione lavorando. Per questo il servizio svolto dall’associazione di volontariato Bracciaperte all’interno della Casa Circondariale di Pesaro (e di altri penitenziari delle Marche) assume grande valore, poiché getta le basi per una formazione di base in vari ambiti di lavoro. Il presidente di Bracciaperte Mario Di Palma ha lanciato un corso di formazione per aspiranti volontari, che si articolerà nei pomeriggi di venerdì 22 e venerdì 29 novembre, anticipato da un seminario che si è già tenuto sabato 16 novembre nella Sala Rossa del Comune di Pesaro. Al seminario inaugurale interverranno, oltre a Di Palma, Massimiliano De Simone (regista dei video “Artigiani dentro”), Enrichetta Vilella (coordinatrice dell’Area Pedagogica-Trattamentale della Casa Circondariale di Villa Fastiggi), Sara Mengucci (assessore alla Solidarietà del Comune di Pesaro), concludendo la mattinata con l’intervento del consigliere regionale Andrea Biancani. In apertura di incontro saranno proiettati i video tutorial “Artigiani dentro” realizzati nella sezione femminile del carcere di Pesaro nel corso del 2019, grazie all’impegno del regista De Simone. “Questa iniziativa è staa pensata per sensibilizzare la cittadinanza - spiega Mario Di Palma, presidente di Bracciaperte - al tema, quanto mai attuale, della formazione professionale nel periodo della detenzione, che rappresenta la chiave di cambiamento delle vite di tante persone. Ci tengo a ringraziare alcune realtà locali che hanno sostenuto questo evento, come le aziende Tecnowool ed Emmedipiservice, il Banco Alimentare e la Fondazione Wanda Di Ferdinando”. Nel corso dell’incontro del 16 novembre, sarà presentato il corso di formazione organizzato da Bracciaperte insieme all’associazione “Isaia - Volontari col carcere”. Il corso, aperto a chiunque desideri conoscere meglio la complessa realtà di un istituto penitenziario, si svolgerà il 22 e 29 novembre nei locali del Quartiere Muraglia-Montegranaro in via Petrarca 18. Il corso è rivolto a volontari già in servizio, operanti in Bracciaperte o in Isaia, oppure a persone intenzionate ad iniziare il servizio in una delle due associazioni. Appuntamento dalle ore 17.30 alle 20.30 con le seguenti tematiche: venerdì 22 novembre “Gestione dell’adattamento psicologico da restrizione” e venerdì 29 novembre “La carcerazione: vissuti e disagi”. In generale, si tratteranno tutte le tematiche correlate alla gestione di persone detenute con problemi psichiatrici e tossicodipendenze. Il corso fa seguito ad un’analoga iniziativa formativa organizzata nel dicembre 2018 dall’associazione “Isaia”, che ha visto alcune persone iniziare il servizio di volontariato all’interno della locale Casa Circondariale. Queste iniziative formative sono state rese possibili grazie ai patrocini del Ministero della Giustizia e del Comune di Pesaro ed al contributo del Centro Servizi Volontariato delle Marche. Per informazioni è possibile telefonare al 0721.491006, oppure scrivere a bracciapertepesaro@libero.it oppure ad isaiapesaro@libero.it. Genova. Marassi, uno spettacolo teatrale per le famiglie dei detenuti di Eloisa Moretti Clementi Il Secolo XIX, 22 novembre 2019 Una cornice di legno, un funambolo elegante e un po’ datato e infine, a sorpresa, una cascata di palloni giganti: è la semplice scenografia dello spettacolo “Un libro”, interpretato dall’attore Agostino Corioni e resa speciale dalla presenza, nella platea del teatro dell’Arca nella Casa circondariale Marassi di Genova, di decine di famiglie con bambini di ogni età. Un’immagine serena, un pomeriggio di svago autunnale in una giornata di pioggia, che tuttavia racconta molto altro: l’iniziativa, promossa alla vigilia della Giornata mondiale dei diritti dell’infanzia, fa parte del progetto “La barchetta rossa e la zebra” per contrastare la povertà educativa e, soprattutto, aiutare i papà detenuti a Marassi e le mamme rinchiuse a Pontedecimo a trascorrere dei momenti di qualità insieme ai propri figli, nelle preziose occasioni di incontro. “Siamo diverse associazioni che lavorano in rete. Cerchiamo di offrire un presidio di umanità all’interno del contesto carcerario, aiutando le famiglie che vivono un momento molto delicato di separazione - spiega Valentina Tricerri, educatrice di Arci Genova - Un supporto ai detenuti e ai loro figli, attraverso colloqui extra come in questo caso, in cui il bambino è finalmente al centro dell’attenzione e i genitori si possono sperimentare in un contesto diverso. In primavera-estate abbiamo svolto attività all’aperto, nel campo da calcio, mentre oggi abbiamo proposto questo spettacolo teatrale in cui crediamo molto, dove la dimensione del gioco rompe gli schemi di tutti con una conclusione a sorpresa e la cascata di palloncini, emblema della leggerezza che, al momento, a queste famiglie manca”. Il progetto “La barchetta rossa e la zebra”, che rischia di doversi concludere nel 2020, è finanziato dal bando prima infanzia (0-6 anni) e approvato dall’impresa sociale Con i Bambini. La fondazione Francesca Rava N.P.H. Italia ne è promotore e partner principale, capofila Il cerchio delle relazioni. Grazie a questo bando, dal 2018 le associazioni del terzo settore (cooperativa sociale Il Biscione, Veneranda compagnia di misericordia, centro medico psicologico-pedagogico LiberaMente, Arci Genova e Ceis Genova) hanno riqualificato gli spazi resi a misura di bambino all’interno delle Case circondariali Marassi e Pontedecimo di Genova, dove i figli dei detenuti hanno la possibilità di svolgere attività ludico-formative con la supervisione degli educatori, in attesa di incontrare i genitori. Il mese prossimo verranno inaugurate le nuove aree di accoglienza allestite nel carcere femminile di Pontedecimo, già attive a Marassi. Il progetto è sostenuto da: gruppo EcoEridania, Ikea Genova, Federfarma Roma, Farma & Friend e Perrigo. Roma. Lavoro coi detenuti, la critica teatrale premia Ludovica Andò di Antonella Barone gnewsonline.it, 22 novembre 2019 “I suoi spettacoli sono stati presentati in diverse edizioni di Destini Incrociati, il Festival nazionale di teatro in carcere, e impastano meravigliosamente alta letteratura e vita reale, concreta e intima, di chi vive recluso lasciando emergere nuovi sensi ai testi originari mentre gli interpreti recitano con la tranquilla convinzione degli attori professionisti, una partecipazione motivata, intensa, consapevole”. È parte della motivazione del Premio della Critica 2019 a cura dell’Associazione Nazionale Critici di Teatro - Anct e della Rivista europea “Catarsi-Teatri delle Diversità, assegnato a Ludovica Andò e alla Compagnia AdDentro del carcere di Civitavecchia. I prestigiosi riconoscimenti Anct vengono assegnati ogni anno, sulla base di un doppio giro di segnalazioni, a personaggi, iniziative, spettacoli, eventi che si sono distinti nella stagione appena trascorsa. Ludovica Andò dal 2008 si è specializzata in interventi artistico-formativi negli istituti penitenziari di Civitavecchia (Casa di Reclusione e Casa Circondariale N.C.) portando avanti laboratori teatrali, di canto popolare e di disegno e pittura rivolti alla popolazione detenuta maschile e femminile. “Una vera maestra di teatro dunque Ludovica Andò - si legge ancora nella motivazione - di cui si ricordano opere tratte da Sciascia, Schiller, Buzzati. Fresca di debutto con “Il campo” ispirato a “I ragazzi della via Pál” di Molnár. Al Palladium di Roma ha emozionato profondamente il pubblico con Fortezza, tratto da “Il deserto dei Tartari” e portato in scena dai detenuti della casa di reclusione di Civitavecchia, per le molteplici affinità tra le esperienze di vita militare di Giovanni Drogo e la vita in carcere, per il tempo vuoto, le tetre mura, le nostalgie, le lettere a casa, la solitudine”. Ludovica Andò insieme a Emiliano Aiello ha diretto anche il film tratto dallo spettacolo teatrale “Fortezza” presentato il mese scorso alla XIV edizione della Festa del Cinema di Roma. Milano. Recuperando il cielo. Voci e immagini dentro e fuori il carcere wikieventi.it, 22 novembre 2019 “Recuperando il cielo. Voci e immagini dentro e fuori il carcere” è la nuova iniziativa promossa da Attraversamenti luoghi Arti Culture in collaborazione con Consorzio VialedeiMille di Milano. L’evento si svolgerà presso il negozio del Consorzio - il primo dedicato interamente all’economia carceraria - in viale di Mille 1 (angolo Piazzale Dateo), martedì 26 novembre dalle 18.00 alle 20.00 e vedrà protagonisti i linguaggi della fotografia e della poesia, in linea con l’approccio già sperimentato per altri eventi organizzati a partire dal maggio 2018 da Attraversamenti Luoghi Arti Culture. In particolare, il Consorzio ospiterà dal 26 novembre al 15 dicembre una mostra fotografica curata da Giovanna Gammarota - Recuperando il cielo - composta da tre sezioni: “Qui dentro”, “Là fuori”, “Recuperati” che presenta alcuni lavori realizzati da detenuti delle Carceri di San Vittore e Bollate nel corso dei laboratori tenuti dalla critica e storica dell’arte Gigliola Foschi e dal direttore della Galleria San Fedele Andrea Dall’Asta, tra il 2003 e il 2005. Le immagini selezionate ruotano intorno alla dialettica dentro/fuori che connota la condizione carceraria ma mettono a fuoco anche l’istanza del recupero, sociale e individuale, dei detenuti, molto spesso considerati invece come scarti. I linguaggi artistici e i loro immaginari possono contribuire a “riconoscere la consapevolezza del proprio stato e accompagnare le persone verso un percorso di riscatto” (Giovanna Gammarota). Anche per questo insieme alla mostra, le testimonianze degli ospiti si alterneranno a quelle di detenuti ed ex detenuti sulle loro esperienze creative e soprattutto, alla lettura di poesie scritte dai partecipanti ai laboratori di poesia condotti nella Casa di Reclusione di Milano - Bollate negli anni da Maddalena Capalbi (che per questa sua attività ha ricevuto l’Ambrogino d’oro dal Comune di Milano). Alla serata saranno presenti oltre a Gigliola Foschi e a Maddalena Capalbi, Nino Iacovella (poeta e tra i fondatori del blog di poesia “Perigeion”), Francesco Capizzi Cisky-Mck (poeta e rapper) e gli ideatori del progetto Attraversamenti Sergio Di Giorgi e Giovanna Gammarota. A conclusione dell’incontro si svolgerà l’inaugurazione della mostra accompagnata da un aperitivo (con contributo libero dei partecipanti) che vedrà protagonisti i prodotti eno-gastronomici in vendita presso il concept store di viale dei Mille. Busto Arsizio. Tra teatro e cucina: che successo le cene con delitto recitate dai detenuti di Raul Leoni gnewsonline.it, 22 novembre 2019 Difficile immaginare un palcoscenico più adatto, per una “cena con delitto”, dell’ambiente carcerario. È su questa ambientazione evocativa che l’associazione di Promozione Sociale L’Oblò Onlus Liberi Dentro ha puntato per coinvolgere i detenuti della casa circondariale di Busto Arsizio in un esperimento di mediazione artistica. L’iniziativa, nata nel 2016, ha avuto successo e ha portato nell’istituto penitenziario lombardo quasi 400 persone, sulla scorta della popolarità crescente di cui gode questo genere di spettacolo, una specie di gioco di ruolo a squadre. La formula è collaudata: una cena a teatro e, tra una portata e l’altra, il pubblico può assistere a una pièce “gialla”. I convitati, sollecitati dagli indizi che il copione lascia trapelare, possono calarsi nei panni dei detective, dalla valutazione delle prove all’interrogatorio dei sospettati, e alla fine chi scopre il colpevole si aggiudica il premio della serata. I detenuti di Busto Arsizio partecipano sia come interpreti, sia come cuochi e camerieri al servizio del pubblico di commensali: ma l’aspetto più originale, e in fondo più divertente, è che si tratti di una “cena in galera” e che sotto le spoglie dei personaggi da indagare ci siano degli “esperti”, come gli organizzatori amabilmente evidenziano. “Il pubblico sperimenta una dimensione di convivialità nuova e antica insieme - spiega Elisa Carnelli, presidente dell’associazione Oblò - L’iniziativa è nata nel 2016 quasi per gioco, anno dopo anno la gente tornava e la voce si è sparsa in fretta: l’anno scorso abbiamo dovuto programmare una data aggiuntiva perché le tre date organizzate erano andate sold-out in pochi giorni. Crediamo che il successo di Una sera in galera stia proprio nell’occasione di passare una serata coinvolgente sperimentando una modalità di socializzazione che paradossalmente fuori dal carcere non sempre si riesce a trovare e contribuendo allo stesso tempo a sostenere l’impegno sociale della rieducazione carceraria”. Lo spettacolo di quest’anno si intitola “Il cerchio delle bande nere” e occuperà il cartellone del teatro del carcere nella prima del 29 novembre, cui seguiranno gli spettacoli del 13 dicembre 2019, 17 e 24 gennaio 2020. Trento. “Liberi da dentro 2019”: cena a tema con storie dal carcere ladigetto.it, 22 novembre 2019 Giovedì 5 dicembre alle ore 20.00 la prima “Cena galeotta” presso il ristorante Panorama in Viale Venezia 19 a Calceranica al Lago. Nell’ambito del progetto “Liberi da dentro 2019”, cofinanziato da Fondazione Caritro, si terrà la prima “cena galeotta” trentina, un evento culinario e culturale per avvicinarsi in maniera atipica e stimolante ai temi del reinserimento sociale di detenuti ed ex-detenuti. La rete di soggetti vede impegnate le Associazioni Apas, Dalla Viva Voce, Trentino Arcobaleno, Microfinanza e Sviluppo Onlus, il Museo Diocesano Tridentino e Scuola di Preparazione Sociale nell’organizzazione di eventi culturali. Gli enti pubblici partner sono la Provincia Autonoma di Trento e i Comuni di Trento, Riva del Garda e Rovereto. La data prevista per “Sapori di libertà”, questo il titolo dell’evento, è giovedì 5 dicembre alle ore 20.00 presso il ristorante Panorama, gestito dalla cooperativa sociale Lievito Madre, in Viale Venezia 19 a Calceranica al Lago. Tre studenti, che hanno frequentato il corso dell’Istituto Alberghiero di Levico Terme, all’interno del carcere, si uniranno allo chef e allo staff del Panorama per preparare la cena. Durante la serata i volontari delle Associazioni partner cureranno alcune letture autobiografiche e testimonianze di vita di persone detenute, col fine di sensibilizzare e informare i partecipanti all’evento. Dopo gli eventi di biblioteca vivente e dell’esperienze di economia carceraria in occasione della fiera Fa’ la cosa giusta, “Liberi da dentro 2019” prosegue, grazie alla preziosa collaborazione con la cooperativa sociale Lievito Madre. La Società Cooperativa Sociale Lievito Madre è una cooperativa di tipo B per l’inserimento lavorativo, costituitasi il 23 aprile 2012 su progetto condiviso dalla Comunità di San Patrignano (allora in sede a S. Vito di Pergine), dall’Istituto di Formazione Professionale Alberghiero di Rovereto e Levico Terme e da altre realtà, con l’obiettivo di offrire opportunità di crescita personale e lavorativa a giovani sia provenienti da situazioni di svantaggio sociale, che da percorsi di formazione professionale. A partire dal 2016 Lievito Madre ha iniziato una nuova avventura progettuale e lavorativa attraverso l’apertura e la gestione del Ristorante Pizzeria Panorama di Calceranica al Lago, un locale situato in uno dei luoghi più suggestivi del lago di Caldonazzo, disponendo di un’ampia terrazza direttamente sul lago stesso. La compagine sociale è formata da sei soci e dal presidente, Roberto Postal, socio fondatore di Delta Informatica. Per partecipare a “Sapori di libertà” è necessario prenotare al 349 5547182. Liliana Segre: “Sono pronta a guidare la commissione contro l’odio” di Alessia Rastelli Corriere della Sera, 22 novembre 2019 La senatrice: stanca ma non mi arrendo. Insulti, scorta: la mia vita cambiata a 89 anni. “La tentazione di abbandonare il campo ogni tanto si affaccia. Se a quasi 90 anni finisci bersagliata da insulti, sotto scorta, senza più la vita semplice e riservata di prima, credo sia normale chiedersi “ma chi me l’ha fatto fare?”. Però dura poco, non sono una che si arrende facilmente”. Quindi, senatrice Segre, sarà presidente della Commissione contro l’odio, nata su sua iniziativa? “Se me la propongono, sono dell’idea di dire sì. Sono stata in dubbio e certo il calendario degli anni non va indietro. Ma io credo in questa Commissione, dunque spero di reggere”. L’astensione del centrodestra proprio sulla “sua” Commissione lo scorso 30 ottobre. E poi lo striscione di Forza Nuova apparso a Milano vicino al teatro in cui stava parlando, l’assegnazione della scorta, i messaggi d’odio e le polemiche di chi li mette in dubbio, l’incontro con Matteo Salvini trapelato anche se sarebbe dovuto restare riservato. Sono state settimane faticose per Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz-Birkenau, dove fu deportata a 13 anni, senatrice a vita nominata da Mattarella il 19 gennaio 2018. Al Corriere rilascia la prima intervista dopo quasi un mese di silenzio. Come si sente dopo quello che è successo? “Sono esausta. Troppa esposizione, troppo odio, troppe polemiche, troppa popolarità, troppo tutto. Alla mia età mi trovo a condurre un’esistenza che non avrei mai immaginato”. La sua vita è cambiata con la scorta? “Né io né i miei familiari abbiamo chiesto nulla. Il Comitato per la sicurezza e l’ordine pubblico della Prefettura di Milano ha ritenuto di garantirmi una tutela, che è una forma di protezione più blanda della scorta. Naturalmente sono rimasta di stucco: a quasi 90 anni e per la sola colpa di essere una sopravvissuta alla Shoah e di esporre pacatamente i miei convincimenti, c’è bisogno che sia tutelata la mia sicurezza. È certo un condizionamento nella vita privata e mi disturba l’idea di essere un peso per lo Stato, però i carabinieri che mi accompagnano sono ragazzi meravigliosi che mi hanno adottata come una nonna, non solo con professionalità, ma anche con affetto”. Lei ha raccontato più volte nelle sue testimonianze la forza di continuare a vivere, ridotti a scheletri, nel gelido inverno del lager. Nasce da lì la forza di oggi? “Ho passato quarantacinque anni, dopo la guerra, a macerarmi nel rimorso di non riuscire a parlare. Poi a 60 anni ho trovato le parole per fare il mio dovere. Per decenni ho rivissuto gli incubi del passato pur di testimoniare nelle scuole, nella speranza che anche un solo studente accogliesse il mio doloroso dono. Oggi, grazie alla scelta stupefacente del presidente Mattarella di nominarmi senatrice a vita, posso raggiungere milioni di persone. Se smettessi avrei una vita più serena, ma non sarei in pace. E poi la darei vinta proprio agli odiatori”. Cosa risponde a chi critica la “Commissione Segre”? C’è chi parla di “bavaglio”. “Mi sembra una barzelletta: “Qual è il colmo per un’ebrea sefardita? Diventare il capo dell’Inquisizione spagnola”. Ma figuriamoci! Sono arrivati al paradosso di ribattezzarla con tono demonizzante “Commissione Segre-Boldrini” gli stessi partiti che nella passata legislatura, alla Camera, avevano approvato all’unanimità le conclusioni della Commissione Jo Cox, cioè la vera “Commissione Boldrini”. Siamo seri. La Commissione che ho proposto non può giudicare né censurare nessuno e non può cambiare le leggi. Si tratta di studiare un fenomeno, di avanzare proposte su un problema per cui tutti, anche gli esponenti dell’opposizione quando parlano a telecamere spente, si dichiarano allarmati. L’odio in rete dilaga. La convinzione di agire in una zona franca e nell’anonimato sta producendo un imbarbarimento, una sorta di bullismo su larga scala, che le leggi esistenti non riescono a contenere”. Anche Matteo Salvini e Giorgia Meloni dicono di essere bersagliati. “Colgo l’occasione per esprimere loro solidarietà. Sarò un’illusa, ma continuo ad auspicare che tutti si uniscano in un impegno bipartisan per prevenire le epidemie dell’odio. Io ho sperimentato i danni che possono produrre”. Da più parti, dopo l’astensione sulla Commissione contro l’odio, il razzismo, l’antisemitismo che lei ha proposto, il centrodestra ha ribadito l’”amicizia per Israele”. I due aspetti sono collegabili? “Sono argomenti separati. Mi ha fatto piacere ricevere il messaggio affettuoso del presidente Reuven Rivlin, anche se non potrò andare in Israele perché i viaggi lunghi mi affaticano. Succede spesso che mi chiedano di prendere posizione sul conflitto israelo-palestinese, ma non lo accetto. Non voglio mischiare temi diversi. Non sono un’esperta ed escludo di dover rispondere, in quanto ebrea, di quello che fa Israele. Il mio disagio fu espresso magistralmente da Clara Sereni in un articolo su l’Unità, La colpa di essere Ebrea, del 16 gennaio 2006. Raccontava di essere stata costretta a esprimersi sulla questione mediorientale e di avere dovuto quasi giustificarsi di essere ebrea. “Non dovrei più farlo”, sottolineava. Fatta questa premessa, anche io ho le mie idee: ho un grande rimpianto per Yitzhak Rabin e ho molto sperato di vedere la pace basata sul principio “due popoli, due Stati”. Ormai posso solo sperare che la vedano i miei figli”. Anche sui messaggi di odio contro di lei sono stati avanzati dubbi. “Sapevo poco di questi messaggi perché non sono iscritta ai social network e i miei figli avevano deciso di risparmiarmi tali miserie. Dopo il rapporto dell’Osservatorio antisemitismo del Centro di documentazione ebraica contemporanea, ho dovuto occuparmene ed è stato molto sgradevole. Per le oscenità che ho dovuto vedere. Ma anche perché, facendo leva sul numero dei messaggi, “200 al giorno”, scaturito da un’inesattezza giornalistica, si è scatenata una campagna negazionista in cui non solo veniva contestato quel numero, ma l’esistenza stessa delle espressioni di odio. Scopo: far passare tutti per visionari o speculatori”. Come stanno davvero le cose? “I messaggi non solo esistono, ma sono una valanga. Nessuno può dare numeri attendibili perché occorrerebbe monitorare milioni di pagine Facebook, Twitter, Instagram, siti, blog. Quello che emerge è un campione, la punta dell’iceberg. Sono stati registrati picchi in corrispondenza di una mia maggiore esposizione. Il meccanismo è questo: qualcuno inizia postando un attacco contro di me spesso veemente, non necessariamente di cattivo gusto, ma da lì parte la ridda dei commenti che si trasforma in una gara di esternazioni triviali, truci, immonde: decine, a volte centinaia, sotto ogni singolo post. Abbondano gli auguri di morte, gli insulti, il rammarico perché “i nazisti non hanno finito il lavoro”, l’accusa di essere una vecchia rimbambita e manovrata “dai comunisti”. Poi ci sono quelli più specifici”. Di cosa si tratta? “Ho ricordato di essere stata clandestina e mi hanno scritto: “Parli così fino a quando non trovi un immigrato che ti stupra vecchiaccia”. Ho ricordato lo sterminio dei rom e mi hanno augurato di avere la casa svaligiata dagli zingari. Poi ci sono i qualunquisti indignati per “un’altra da mantenere”, gli antisionisti fanatici che mi ritengono complice della “Shoah dei palestinesi”, perfino frange animaliste che postano la mia foto di vent’anni fa in pelliccia e dicono che sono come i nazisti perché approverei le torture sui visoni”. Si moltiplicano i Comuni che vogliono darle la cittadinanza onoraria. Ma ci sono anche amministrazioni che si rifiutano. “Tra le innumerevoli manifestazioni di affetto, ci sono le decine e decine di Comuni, retti da maggioranze di diverso orientamento, che mi vogliono conferire la cittadinanza. Mi dicono che alcune iniziative hanno risvolti strumentali. Io non me ne curo, presumo la buona fede. Così fin qui le ho accolte onorata, preoccupandomi solo - per non apparire maleducata - di avvisare che, alla mia età, non posso andare a ricevere gli attestati. Però anche questo sta diventando un nuovo terreno di battaglia di cui farei a meno”. A Sesto San Giovanni il sindaco ha detto che lei “non ha a che fare con la storia della città”. A Biella Ezio Greggio ha rinunciato alla cittadinanza onoraria dopo che era stata negata a lei. “Avere creato imbarazzo a quelle giunte mi dispiace. Il caso di Biella è stato però l’occasione di ricevere un fiore raro come il gesto di Greggio, che è molto più di una cittadinanza”. A Napoli lei stessa ha fatto un passo indietro... “In quel caso non c’è stata una proposta dell’amministrazione comunale, ma la strumentalizzazione di un’assessora. Per rispondere alle critiche sulle sue dichiarazioni di odio verso Israele, ha detto: “Allora facciamo la Segre cittadina onoraria”. Io amo moltissimo Napoli, la prima città italiana insorta contro i nazisti, ma non mi presto come scudo umano per levare dall’imbarazzo l’assessora”. Ieri ha accolto Giuseppe Conte al Memoriale della Shoah di Milano. Cosa vi siete detti? “Il premier ha voluto vedere tutto e ha sforato di almeno mezz’ora sui suoi programmi perché si è fatto spiegare ogni dettaglio”. L’avere votato la fiducia al governo giallo-rosso può aver pesato sulle critiche delle settimane scorse? “Non faccio parte della maggioranza, sono indipendente e decido volta per volta. Avrei preferito confermare l’astensione come per il primo governo Conte, ma ho sentito dentro di me un campanello d’allarme e ho deciso in coscienza per l’interesse del Paese”. Qual era l’allarme? “Si era creato un clima parossistico di continue forzature, con le emergenze artefatte a ogni arrivo di poche decine di disgraziati - questioni che oggi la ministra Lamorgese risolve con una telefonata -, con l’invocazione dei pieni poteri, con la preparazione di una specie di crociata. Credo che anche chi ha creato quel clima si sia poi reso conto di avere esagerato. Nella nuova ondata di odio che si è abbattuta su di me, mi hanno anche scritto: “Rispetta la nostra religione!”, quando sono l’Osservatore Romano e l’Avvenire a denunciare che è proprio l’abuso politico dei simboli religiosi a costituire una mancanza di rispetto”. Salvini è venuto a casa sua. Come è andato l’incontro? “Non voglio dire nulla perché ci siamo impegnati entrambi alla riservatezza per evitare strumentalizzazioni politiche. In ogni caso incontrarsi e parlarsi, a maggior ragione tra due colleghi senatori e concittadini milanesi, più che un gesto di civiltà dovrebbe essere considerato un fatto normale”. È stata proposta la sua candidatura a presidente della Repubblica. Lei ha declinato. “Ho grande stima per Lucia Annunziata e sono certa che abbia fatto quella proposta per manifestarmi apprezzamento e solidarietà. Tuttavia mi sono trovata, mio malgrado, ad essere già una figura sulla quale si concentrano fin troppi significati simbolici. Non è il caso di aggiungerne altri e di coinvolgermi in ambiti impropri. Alla presidenza della Repubblica deve stare un arbitro che abbia le energie per correre in mezzo al campo e che soprattutto abbia una sopraffina sapienza politica ed istituzionale, come il presidente Mattarella. Non una novantenne arrivata come una marziana sulla scena politica” Chi è nato qui e ha studiato fino alle medie si sente già italiano e ha diritto di diventarlo di Guido Neppi Modona Il Dubbio, 22 novembre 2019 Serve una disciplina precisa per definire i requisiti dello jus culturae: la legge può prepararla una Commissione mista Camera-Senato. Bene ha fatto il segretario del Pd Nicola Zingaretti a rilanciare il tema della cittadinanza degli immigrati, proponendolo come una delle esigenze di fondo dell’agenda di governo. In effetti il tema dovrebbe rientrare permanentemente tra gli obiettivi di interesse nazionale, al di là delle preoccupazioni elettorali di questo o quel partito o delle cautele di questo o quel governo, al di là di eventuali emergenze quali il caso Ilva e i purtroppo sempre più frequenti disastri ambientali. La concessione della cittadinanza italiana - e qui penso soprattutto ai giovani immigrati - costituisce infatti nello stesso tempo una premessa e la base di partenza di un loro corretto e positivo inserimento nel tessuto sociale, economico e culturale del paese. È presumibile che un figlio di immigrati nato in Italia, che ha frequentato scuola materna, scuola elementare e scuola media, ovvero, pur non essendo nato in Italia, ha conseguito il titolo della scuola media prima dei 18 anni, scriva e parli correttamente la nostra lingua, conosca la nostra storia e cultura come dovrebbero conoscerla i suoi coetanei italiani. Ebbene, questo giovane ha tutti i diritti di vedersi riconosciuta subito la cittadinanza italiana, a prescindere dal paese di provenienza e dal colore della pelle. In queste situazioni jus soli e jus culturae convergono entrambi nel sostenere il diritto alla cittadinanza. Sul terreno culturale e sociale quel giovane ha acquisito la medesima posizione di chi è per nascita cittadino italiano. Negargli il diritto alla cittadinanza anche prima dei 18 anni sarebbe contrario al principio di eguaglianza, solennemente sancito dall’art. 3 della Costituzione senza distinzione di lingua, razza o religione. Ha cioè le medesime possibilità di essere da adulto un buon cittadino di chi è nato cittadino italiano, anzi le possibilità sono forse maggiori perché presumibilmente proviene da contesti sociali e economici talmente disastrati da indurlo a mantenere e difendere la posizione di cittadino in un paese certamente più avanzato di quello di provenienza. Sulla base di queste premesse mi sembra che il tema del riconoscimento della cittadinanza italiana ai giovani immigrati, lungi dall’essere divisivo, dovrebbe incontrare una larga convergenza tra tutte le forze politiche. Certo, il tema solleva problemi demografici, economici, sociali, ed anche identitari, di grande rilievo e complessità, che rendono assai delicato il passaggio dal principio di fondo dell’accoglienza ad una disciplina legislativa che dovrà essere molto precisa e analitica nel definire i requisiti dello jus culturae, ed anche nel promuovere condizioni tali da garantire l’accesso ai vari livelli di istruzione. Muovendosi in questa direzione il problema della durata del soggiorno in Italia necessario ai fini della cittadinanza rimarrebbe assorbito dal titolo di studio, o comunque dalla frequenza scolastica per una durata pari agli anni necessari al conseguimento del titolo. Come si vede, la traduzione del principio dello jus culturae in una concreta disciplina legislativa comporterà la soluzione di numerosi e delicati problemi. La via migliore per agevolare il lavoro parlamentare potrebbe essere quella di affidare il compito di predisporre una bozza della nuova legge sulla cittadinanza ad una commissione mista di Camera e Senato, che potrebbe a sua volta avvalersi del bagaglio di conoscenza e di esperienza, anche comparata, di operatori sociali e di studiosi con specifiche competenze e professionalità in materia. Alla base di questo programma stanno evidentemente la convinzione condivisa e la scelta politica di fondo che i flussi migratori possono contribuire positivamente allo sviluppo economico, sociale, culturale ed anche morale del nostro Paese, contrastando le derive razziste che inevitabilmente si accompagnano a chi pensa di risolvere il problema della grandi migrazioni chiudendo i confini e respingendo lo straniero e il diverso. Russia. Giornalisti “agenti stranieri”, sì della Duma alla nuova legge di Giuseppe Agliastro La Stampa, 22 novembre 2019 Il Cremlino si prepara a infliggere un altro duro colpo alla libertà di stampa, in Russia già spesso calpestata. La Duma ha infatti approvato ieri in via definitiva degli emendamenti alla legge sui media che potrebbero presto permettere alle autorità russe di bollare blogger e giornalisti con l’infamante etichetta di “agente straniero”. Il progetto è stato sostenuto in aula da 311 deputati, solo quattro si sono astenuti e, come spesso avviene alla Duma, nessuno ha votato contro. Ora, per diventare legge, il provvedimento dovrà passare dal Senato e quindi dalla scrivania di Putin. Gli emendamenti proposti prevedono che una persona che partecipa alla creazione di notizie per testate inserite nella lista nera degli agenti stranieri o ricevendo denaro dall’estero possa essere a sua volta riconosciuto come “agente straniero” e costretto a presentarsi come tale al suo pubblico. Ma questa definizione, che tanto ricorda quella di “spia”, potrà essere affibbiata a chiunque diffonda queste informazioni. In pratica si tratta di una nuova spada di Damocle non solo per i giornalisti ma anche per gli utenti dei social media. Le proteste internazionali Il rappresentante dell’Osce per la libertà dei media, Harlem Désir, ha invitato i parlamentari russi a bocciare la proposta. “Potrebbe avere un effetto spaventoso sui giornalisti e sui blogger, sugli esperti e su altri individui che pubblicano informazioni, soprattutto online”, ha denunciato Désir. Una ferma condanna è giunta anche da Amnesty International, Reporter senza frontiere e altre Ong per la difesa dei diritti umani, che hanno definito il progetto “un ulteriore passo verso la limitazione dei media liberi e indipendenti”. Quello che il Cremlino ha in mente è di estendere anche ai singoli individui una legge che ha già suscitato tanta indignazione a livello internazionale. Questa norma, varata nel 2012 dopo un’ondata di proteste anti-Putin, dà al governo il potere di marcare come “agenti stranieri” le organizzazioni che ricevono fondi dall’estero e sono impegnate in “attività politiche”. Si tratta di una definizione ampia e porosa che consente di fatto al Cremlino di colpire qualunque ente reputi fastidioso costringendolo a severi controlli e a volte alla chiusura. Dal 2017 anche le testate giornalistiche possono finire nella black-list e un mese fa il bollino è toccato al Fondo Anticorruzione di Aleksey Navalny, il più carismatico degli oppositori di Putin. L’Italia tace sui diritti di Hong Kong di Gianni Vernetti La Stampa, 22 novembre 2019 La richiesta all’Occidente dei giovani di Hong Kong di proteggere i loro diritti non è rimasta inascoltata: l’approvazione unanime e bipartisan al Senato e alla Camera dei Rappresentanti statunitense del “Hong Kong Human Rights and Democracy Act”, rappresenta la definitiva “internazionalizzazione” della crisi. Primi firmatari del provvedimento sono stati il repubblicano Marco Rubio al Senato e il democratico Jim MacGovern alla Camera e, dopo la firma del Presidente Donald Trump, il provvedimento diventerà legge. Il voto unanime del Congresso Usa non è soltanto l’ennesimo capitolo che vede le due superpotenze americana e cinese contrapporsi e competere su quasi tutti i dossier, ma è qualcosa in più: l’affermazione di come sia illusorio pensare che si possa separare la libertà dei commerci dalla libertà degli individui. Peraltro questa è anche la vera sfida che ha di fronte a sé la Repubblica Popolare Cinese nei prossimi anni: diventare un attore serio, responsabile e protagonista di una comunità internazionale sempre più globalizzata e interdipendente, in grado anche di accettare la sfida della “Nuova Via della Seta”, lungo la quale non possono però correre solo “merci”, ma anche “diritti”. Il Foreign Office britannico ha rivolto un appello alle autorità di Hong Kong per la fine immediata delle violenze, condannando l’assalto al Politecnico e invitando al dialogo politico fra le parti, non dimenticando gli accordi del 1997, in base ai quali Londra restituì a Pechino la sovranità sulla città/stato con la “Basic Law”, che garantiva una vera autonomia, un sistema legislativo indipendente, libertà di parola, stato di diritto, pieno rispetto dei diritti umani. Le fondamenta, dunque, del modello “Un paese, due sistemi”. L’Unione europea ha condannato le violenze, denunciando anche il blocco all’accesso al campus di Hong Kong del personale medico e ricordando la necessita di garantire l’esercizio delle libertà fondamentali di espressione e di manifestare. La reazione di Pechino è stata fin qui molto negativa e ieri il portavoce del ministero degli Esteri Geng Shuang ha condannato con forza il provvedimento accusando gli Usa di ingerenza negli affari interni della Cina. In questo contesto colpisce il silenzio del governo italiano e soprattutto il suo allontanarsi dalla solidarietà europea e occidentale sul tema. Due settimane fa il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, a Shanghai in occasione della “China International Import Expo”, dichiarò sulla vicenda di Hong Kong che “in questo momento non vogliamo interferire nelle questioni altrui, quindi per quanto ci riguarda, noi abbiamo un approccio di non ingerenza nelle questioni di altri Paesi”. Una posizione, dunque, di estrema prudenza, peraltro ribadita in queste ore dal governo italiano che ha scelto di non esprimersi sugli ultimi sviluppi a Hong Kong, optando per il mantenimento di un profilo molto basso. La “non ingerenza” italiana sul rispetto dei diritti fondamentali è una novità che allontana il paese non soltanto dai partner tradizionali (Ue e Usa), ma anche da una parte rilevante della storia della nostra politica estera. Un mondo sempre più interdipendente è per sua natura fatto di molteplici “ingerenze” fra i tanti attori della comunità internazionale, che accettano, tanto negli accordi economici e commerciali, quanto nel rispetto della legalità internazionale e dei diritti umani, “limitazioni” e “regole sovranazionali”. L’Italia che promuoveva alle Nazioni Unite la campagna per la moratoria universale della pena di morte, non era solo più umana, ma anche più efficace. In Iran 40 anni di repressione, giustiziati anche i ragazzini di Elisabetta Zamparutti Il Riformista, 22 novembre 2019 Il popolo iraniano è oggi protagonista delle cronache per le rivolte che si sono estese a oltre 130 città a causa dei rincari del costo della benzina. Ci giungono notizie di centinaia di morti e migliaia di feriti per la cieca repressione in atto da parte dei Pasdaran, complice il black-out di internet e delle comunicazioni imposto dal regime. A ben vedere, in Iran la repressione è in atto da quarant’anni, da quando, nel 1979, la rivoluzione komeinista ha portato al potere un regime teocratico che ha fatto della sistematica violazione dei diritti umani la leva del suo dominio. Nella giornata mondiale dell’infanzia con Nessuno tocchi Caino abbiamo voluto far conoscere lo scempio di quella norma internazionale, una delle poche cogenti, che vieta le esecuzioni di minorenni e che pone l’Iran in aperta violazione della Convenzione sui Diritti del Fanciullo che pure ha ratificato. Nel 2019, sono stati impiccati almeno 6 minorenni al momento del fatto secondo quanto riportato da fonti non-ufficiali. Erano stati 7 nel 2018 (comprese due ragazze per l’omicidio del marito che erano state costrette a sposare a 13 e 15 anni), 5 nel 2016, 3 nel 2015 e almeno 17 nel 2014. La Fondazione Abdorrahman Boroumand ha documentato almeno 140 esecuzioni di minorenni in Iran dall’inizio del 2000. Nel Rapporto ufficiale dello Special Rapporteur delle Nazioni Unite per l’Iran Javaid Rehman, reso pubblico lo scorso 23 ottobre, vi sarebbero almeno 90 minorenni nei bracci della morte iraniani. L’Iran primeggia anche tra quei pochi altri Paesi in cui negli ultimi sei anni abbiamo registrato esecuzioni di minori, con un numero di ragazzi impiccati che è più del doppio di quanti mandati al patibolo da Arabia Saudita, Pakistan, Sudan del Sud e Yemen messi insieme. In base alla legge iraniana, le femmine di età superiore a nove anni e i maschi con più di quindici anni sono considerati adulti e, quindi, possono essere condannati a morte, anche se le esecuzioni sono normalmente effettuate al compimento del diciottesimo anno d’età. A seguito delle richieste della comunità internazionale, il regime iraniano ha dato ad intendere che il nuovo codice penale - approvato nella sua ultima versione dal Consiglio dei Guardiani nell’aprile 2013 - abolisce la pena di morte per gli adolescenti di età inferiore a 18 anni. Tuttavia, ai sensi degli articoli 145 e 146 del nuovo codice penale, l’età della responsabilità penale è ancora quella della “pubertà”, cioè nove anni lunari per le ragazze e quindici anni lunari per i ragazzi. Quindi, l’età della responsabilità penale non è cambiata affatto nel nuovo codice penale. Per i reati Hudud, come sodomia, stupro, fornicazione, apostasia, consumo di alcool per la quarta volta, moharebeh (fare guerra a Dio) e i reati Qisas, come l’omicidio, resta per i giudici il potere discrezionale di decidere se un bambino ha capito la natura del reato e, pertanto, se può essere condannato a morte. Sento dire che di fronte alle proteste di piazza c’è il rischio che alle prossime elezioni si affermino le forze conservatrici. Lo trovo ridicolo se penso che l’attuale Ministro della Giustizia del Governo “riformista” di Hassan Rohani è l’ultraconservatore Ebrahim Raisi, 60 anni, conosciuto per avere condannato a morte decine di migliaia di prigionieri politici negli anni Ottanta, ovvero durante il decennio successivo alla rivoluzione khomeinista. Non esiste il volto buono del regime, non esiste il “moderato” Rohani con il quale proseguire nella politica di appeasement, perché la natura di questo regime è sempre la stessa: quella che riconosce nella Guida Suprema il suo fondamento e nel disconoscimento dei diritti umani come internazionalmente riconosciuti la sua ragion d’essere. Per questo sconcerta il silenzio del Governo italiano sulle esecuzioni e le condanne a morte, a partire da quelle dei minori, che continuano in Iran, sconcerta l’assenza di una parola a sostegno del popolo iraniano e di condanna della repressione in atto, sconcerta la prosecuzione della politica di accondiscendenza che anziché sostenere un cambio democratico in Iran assimila, rendendoci indifferenti alle quotidiane atrocità a danno del popolo iraniano, i nostri regimi cosiddetti democratici sempre più a quello iraniano. Bolivia. Il nuovo governo dà carta bianca ai militari di Jesus Mesa Internazionale, 22 novembre 2019 Per le strade della Bolivia regna il caos. Anche se i protagonisti della crisi che attraversa il paese andino - l’ex presidente Evo Morales e il nuovo governo di destra - sostengono di voler “pacificare la Bolivia”, la realtà è diversa. Dal io novembre, quando Morales si è dimesso dopo quasi tredici anni al potere, la violenza è aumentata. E la formazione del nuovo governo “di transizione” guidato dalla senatrice dell’opposizione Jeanine Arie z, che il 12 novembre ha giurato come presidente ad interim davanti a un parlamento mezzo vuoto, ha fatto salire la tensione. La crisi è cominciata con le elezioni presidenziali dello ottobre, vinte di misura da Morales, ma giudicate irregolari dall’opposizione e dall’Organizzazione degli stati americani (Oas). All’inizio i manifestanti protestavano contro i brogli, mentre oggi criticano soprattutto il modo in cui Morales, il primo presidente indigeno del paese, si è dimesso (su invito del comandante delle forze armate) e ha lasciato in fretta la Bolivia per chiedere asilo in Messico. In tutte le città ci sono scontri tra le forze dell’ordine e i sostenitori di Morales. Nella zona cocalera di Cochabamba, il bastione dell’ex presidente nel centro del paese, la situazione è particolarmente grave. Secondo la Commissione interamericana per i diritti umani (Cidh), il 15 novembre sono morte nove persone, contadini e indigeni. Ancora più preoccupante è il decreto firmato da ikriez, che dispensa i militari da ogni responsabilità penale. La norma, che regola l’intervento delle forze armate a fianco della polizia, è stata approvata lo stesso giorno in cui a Cochabamba i sostenitori dell’ex presidente si sono scontrati con l’esercito e la polizia. Un articolo del decreto stabilisce che “il personale delle forze armate coinvolto nelle operazioni per ripristinare l’ordine interno e la stabilità sarà esente da responsabilità penali nel caso in cui, nel compimento delle proprie funzioni costituzionali, agisca per legittima difesa o necessità e nel rispetto dei princìpi di legalità, assoluta necessità e proporzionalità”. Precedente pericoloso L’ex presidente Morales ha criticato il decreto su Twitter e anche la Cidh ha e spesso un parere negativo. Secondo il Movimiento al socialismo (Mas, il partito di Morales), la misura è una “licenza di uccidere” e sarà usata per punire legalmente i dirigenti del movimento. Invece per Afiez e i suoi ministri, è solo uno strumento per contribuire “alla pace sociale”. L’ong Human Rights Watch e il suo direttore per le Americhe, il cileno José Manuel Vivanco, hanno chiesto ad Ariez di abrogare il decreto, perché rappresenta un precedente pericoloso: “Non rispetta gli standard internazionali e di fatto dà ai militari il messaggio, pericolosissimo, che hanno carta bianca per commettere abusi”, sottolinea Vivanco. Anche l’alto commissariato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha ricordato al governo provvisorio della Bolivia che i militari “non dovrebbero svolgere compiti di competenza della polizia. Se questo succedesse, la loro partecipazione dovrebbe essere soggetta alla legge internazionale sui diritti umani. Le forze dell’ordine devono rendere conto delle loro azioni, compreso l’uso della forza”, si legge in un comunicato. Per provare a smorzare la polemica, il ministro della presidenza boliviano Jerjes Justiniano Atala ha detto che il decreto “si limita a definire i compiti delle forze armate su base costituzionale per garantire la stabilità del paese”. Ma le proteste proseguono e il principale focolaio del conflitto è proprio a Cochabamba. Secondo la Cidh, con le vittime del 15 novembre a Cochabamba i morti dall’inizio delle proteste in Bolivia sono saliti a 23. La presidente Jeanine Ariez continua a ripetere che vuole convocare nuove elezioni il prima possibile, ma ancora non l’ha fatto. Il motivo, sostiene, è che prima di indire la votazione bisogna rinnovare completamente il tribunale supremo elettorale.