Carceri, foto di un fallimento di Conchita Sannino La Repubblica, 21 novembre 2019 È stato l’anno orribile delle carceri italiane. Evasioni clamorose, ribellioni, un numero altissimo di telefonini sequestrati ai detenuti di ogni pericolosità sociale, e un’escalation di aggressioni: oltre mille episodi di violenza contro gli agenti di polizia penitenziaria tra l’inizio del 2018 e i primi sei mesi del 2019. Così nel Paese che ha pagato il sacrificio più alto alla lotta antimafia, oggi, stando ai dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e alle parole di un procuratore della Repubblica, i penitenziari sono letteralmente “fuori controllo”. Parliamo degli stessi Istituti che, dopo la recente e discussa pronuncia della Consulta, dovrebbero aprire le porte per singoli eventuali benefici anche ai criminali condannati all’ergastolo ostativo, coloro che si sono macchiati di stragi e gravissimi crimini. È una contraddizione che pesa sulle esili spalle della giustizia italiana. Per rieducare i minori va abolito il carcere minorile di Daniele Priori Il Riformista, 21 novembre 2019 La campagna del Partito Radicale sugli Istituti penali minorili: “Privare un minore della libertà significa impedirgli di compiere un percorso di reinserimento. Occorre anzitutto far prevalere l’interesse del minore che non può essere garantito all’interno delle mura di un carcere”. Parole chiare, quelle di Irene Testa, tesoriera del Partito Radicale Transnazionale. impegnata in prima fila nella intensa battaglia in punta di diritto - pienamente conforme alla tradizione radicale - per l’abolizione delle carceri minorili. Concetti limpidi come il cielo sereno e il colore blu scelto dall’Unicef per riaffermare, nel trentesimo anniversario dalla firma in sede Onu, avvenuta il 20 novembre del 1989, tutti i valori contenuti nella Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Il Partito Radicale, seguendo pedissequamente il metodo dello storico leader, Marco Pannella, ovviamente ha portato l’impegno alle conseguenze estreme, fino ad arrivare nel buio delle celle dedicate a quei ragazzi che compiono reati prima di aver compiuto il diciottesimo anno di età. Nonostante il carcere minorile sia la extrema ratio tra le pene attuabili - e quindi il sistema vigente basato sul criterio della residualità - nei diciassette istituti penali minorili, distribuiti sul territorio nazionale, i detenuti attualmente ristretti sono 390. Quelli di età dai 14 ai 18 anni sono meno di 200. La gran parte di essi, provengono dal sud, e in particolare dalla Sicilia e dalla Calabria. Poco più del 41% ha meno di diciotto anni, i restanti, pur avendo compiuto il reato da minorenni, possono rimanere negli istituti minorili fino al compimento del venticinquesimo anno di età. Così come avviene nelle carceri per adulti, molti minori si trovano in regime di custodia cautelare in attesa di un giudizio definitivo. I reati più comuni sono quelli contro il patrimonio: furti, rapine, estorsioni, riciclaggio. Dai dati forniti dal Ministero della Giustizia emerge che i delitti a carico dei minorenni e dei giovani adulti entrati negli Istituti penali minorili per l’anno 2019 sono 1.430: il 15% sono reati contro la persona e il 13% per violazione della legge sulle droghe. C’è un sacerdote, è don Ettore Cannavera, che per ventidue anni è stato cappellano del carcere minorile sardo di Quartucciu, vicino Cagliari, fino a dimettersi per protesta e per dimostrare quanto quel luogo non servisse in realtà a nulla. Don Cannavera dallo scorso febbraio è addirittura membro del Consiglio generale del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito che, anche in coerenza con la sua presenza, ha scelto di occuparsi a tempo pieno della tematica. Da qui la scelta di organizzare nel congresso della “sezione” italiana degli iscritti al PR, tenutosi a inizio novembre a Napoli, una tavola rotonda incentrata proprio sull’utilità (o meno) dei centri di detenzione per giovani minorenni. Tra gli uditori presenti il presidente della Camera, Roberto Fico. “Privare un minore della libertà, degli affetti, significa impedirgli di poter compiere un reale percorso di reinserimento e di poter godere del diritto all’educazione, che in molti casi, non per sua colpa ma per il contesto che li ha portati a compiere il reato, gli è stato negato” ci ha spiegato la dirigente radicale Testa. “La risposta civile che oggi noi possiamo dare a questi ragazzi è quella di chiedere alle istituzioni di farsene carico, attraverso quelle che sono le indicazioni della Costituzione, dei codici e delle convenzioni internazionali”. Vale la pena, dunque, andare a consultare un po’ di dati e capire quali sono questi strumenti. “Riteniamo che occorra una grande mobilitazione politica, culturale e istituzionale per superare non il concetto di pena, che pure deve essere espletata, ma la carcerazione all’interno delle prigioni” spiega ancora Testa che conclude: “Con il partito radicale e insieme a Don Ettore Cannavera ci siamo impegnati in questa iniziativa perché abbiamo l’obbligo di dare risposte educative, così come chiede l’articolo 27 della Costituzione, che parla di pena e non di carcere: una pena che tenda alla rieducazione e al reinserimento sociale”. Stefano Cucchi e i suoi 20.000 fratelli in cella di Piero Sansonetti Il Riformista, 21 novembre 2019 In Italia il 35 per cento dei detenuti è in prigione per violazione delle norme sulle droghe. Che ci stanno a fare? Ilaria Cucchi ha detto che ora finalmente suo fratello può riposare in pace. Ora che sono stati condannati (seppure solo in primo grado) i carabinieri ritenuti responsabili del pestaggio che poi ha provocato la sua morte. Non credo che Stefano Cucchi possa riposare in pace. Provo a spiegarvi perché. Per due ragioni, la seconda è la più importante. La prima ragione è che non sono convinto che una condanna possa rasserenare qualcuno. Quando una persona viene condannata a molti anni di prigione, quando una persona entra in prigione, io non festeggio mai. Altra cosa è l’accertamento della verità. Che invece è molto importante, perché ci aiuta a capire, a correggere, a giudicare. So però di essere molto isolato su questa posizione, e dunque, oggi, non insisto. La seconda ragione riguarda il motivo vero per il quale Stefano Cucchi ha perso la vita. Il motivo vero è semplicissimo: il suo arresto. Ed è l’aspetto di tutta questa vicenda del quale si parla meno. È chiaro che pestare un detenuto è una cosa orribile. Per la debolezza del detenuto, per la violazione delle regole della civiltà, oltre che del codice penale, per la vigliaccheria del gesto. Ed è chiaro che diventa una cosa ancora più orribile se provoca danni gravissimi al detenuto, o addirittura la morte come è stato nel caso di Stefano Cucchi. E per queste ragioni l’atteggiamento dei leader politici - penso a Salvini, ma non solo a lui - che cercano di ridimensionare la gravità di questo delitto, è per me non solo sbagliatissimo, ma soprattutto assolutamente irrazionale. Non c’è nessuno che può razionalmente ritenere che non sia grave e indegno massacrare di botte un detenuto, o comunque usare violenza fisica nei suoi confronti. Specialmente se - come è avvenuto - questa violenza è del tutto ingiustificata, non è una reazione a un atteggiamento aggressivo della vittima. E tuttavia a me pare che il problema di fondo resti quello del carcere. Perché Stefano Cucchi è stato arrestato? Aveva in tasca qualche grammo di marijuana e due o tre dosi di coca. Sicuramente non era un narcotrafficante. Era un consumatore di droghe. Che senso ha mettere in prigione chi consuma droga? È pericoloso per la società? Ha danneggiato qualcuno? No. Qual è l’idea che sta dietro il suo arresto? L’idea che la nostra società deve richiedere ai suoi componenti un comportamento che risponda a un certo schema etico; e chi non rispetta questo schema etico deve essere punito. Punire una persona perché si droga è una regola molto simile a quelle imposte da chi pensa che vada punito chi pratica il sesso omosessuale, o chi commette adulterio, o chi consuma alcool o cibi proibiti. Noi giustamente ci indigniamo con chi usa la legge per colpire i comportamenti che le autorità ritengono non rispondenti a una certa regola o alle norme di una religione, o di una setta, o di una gerarchia. Come succede in alcuni Paesi islamici. Perché allora scriviamo nella nostra legge che chi viene trovato con in tasca qualche grammo di marijuana o qualche dose di cocaina deve essere messo in manette e punito? E poi c’è la questione del carcere preventivo. Cioè della punizione immediata, senza processo. La nostra legge prevede che possa essere imprigionato, prima della condanna definitiva, chi minaccia la fuga, o di inquinare le prove della sua colpevolezza o chi potrebbe reiterare il reato. Naturalmente le prime due condizioni non esistevano nel caso di Stefano Cucchi e in nessun caso analogo. Esisteva invece la terza condizione, la reiterazione del reato, se si considera reato l’uso della droga, che però non è considerato reato dal codice penale. Il problema è che le persone nelle stesse condizioni di Cucchi, e cioè imprigionate per uso della droga o per il piccolo spaccio (che non ha niente a che vedere con il narcotraffico) sono migliaia. Riempiono le nostre carceri. Anzi, sono la ragione fondamentale del sovraffollamento delle carceri. Vi cito i dati degli anni scorsi. Al 31 dicembre del 2017 i tossicodipendenti in prigione erano 14.706 su una popolazione di 57.608 detenuti. Cioè i tossicodipendenti erano più del 25 per cento. Al 31 dicembre dell’anno successivo, cioè del 2018, le cose erano peggiorate. I detenuti in prigione per violazione delle norme sugli stupefacenti erano più di 21mila su poco meno di 60 mila detenuti. Quindi la percentuale era salita al 35 per cento. Sono i numeri e le percentuali più alte d’Europa. In Europa i detenuti per droga sono mediamente il 18 per cento della popolazione carceraria. Il Paese con più detenuti per droga, dopo l’Italia, è la Spagna con meno del 20 per cento. Lo scarto è impressionante. Naturalmente anche in Europa il problema è serissimo. 10 mila tossicodipendenti in prigione in Francia o in Germania sono comunque tantissimi. Chi scriverà la storia, tra un secolo, resterà a bocca aperta di fronte a queste cifre. L’idea che nella civilissima e spocchiosa Europa, nel 2020, restasse in vigore una legislazione antidroga molto simile alla Sharia, sembrerà una stranezza inspiegabile. Non è un problema secondario. E’ decisivo per misurare il grado di sviluppo della nostra civiltà. Prima di tutto perché se si abolissero le leggi che rendono reato, di fatto, l’uso delle droghe, si risolverebbe il problema del sovraffollamento delle carceri, che rende del tutto illegale la situazione delle prigioni in Italia. E in secondo luogo perché nelle leggi che prevedono l’arresto e la detenzione dei tossicodipendenti si rispecchia un’idea di fondo di giustizia. Quale idea? Quella che immagina la giustizia come un fatto essenzialmente vendicativo e di controllo sociale. E che dunque prevede ferocia e spietatezza nei confronti di chi non risponde a un modello di comportamento definito. Non c’è nessuna ragione di sicurezza che possa spingere all’incarcerazione dei tossicodipendenti. C’è solo la ragione del bisogno di punire e di normalizzare. Stefano Cucchi è finito in mano ai suoi aguzzini per questo. Per queste leggi inumane. Per la infame cultura proibizionista che è ancora largamente maggioritaria dell’opinione pubblica. Lo dico con grande affetto e quasi con commozione a sua sorella Ilaria: no, Ilaria: Stefano non potrà riposare in pace finché saprà che 20 mila suoi fratelli, ragazzi come lui, stanno marcendo in una cella. Per i detenuti sedativi e psicofarmaci a gogò di Valter Vecellio lindro.it, 21 novembre 2019 “Ottenere una terapia è facilissimo. Ed è più facile trovare un sedativo che una tachipirina”, Siamo abituati, a cadenza quotidiana, a essere diffusamente informati sul ‘dire’ e sul ‘fare’ di papa Francesco. Con qualche eccezione. Come se sia scattata una sorta di parola d’ordine, osservata un po’ da tutti, il messaggio papale in occasione dell’incontro con i seicento penalisti provenienti da tutto il mondo non ha molta eco. Una ‘botta’ di laicità perlomeno curiosa. Di cosa parla, il Pontefice? Di ‘legittima difesa’, che “non può essere un pretesto per giustificare crimini”; aggiunge poi che “non si può abusare della carcerazione preventiva”; conclude dicendo che “gli istituti di pena devono sempre ‘avere una finestra’ e occorre ripensare l’ergastolo perché si tratta di fare giustizia alla vittima, non di giustiziare l’aggressore”. Beh, si può capire che sia trattato come un Marco Pannella qualsiasi. Del resto, perché no? Il silenzio è il modo migliore per non affrontare e non discutere di questioni spinose; non ci si inimica la potente corporazione di quella parte di magistratura che conduce le sue inchieste anche facendo sapientemente filtrare a giornali e giornalisti informazioni di nessuna rilevanza penale, ma che contribuiscono a creare un ‘clima’ favorevole; non si mette in discussione quella che Leonardo Sciascia chiama la ‘terribilità della legge’ che nulla serve dal punto di vista pratico e sostanziale, visto che spesso e volentieri si traduce in una sorta di manzoniana ‘grida’; si può infine tranquillamente derogare dall’articolo 27 della Costituzione: sapete, quell’articolo secondo il quale le pene non devono essere un qualcosa di vendicativo, non devono soddisfare belluini sentimenti, devono invece tendere, almeno provare, ad avere un fine rieducativo; un articolo che dice anche che la pena deve seguire e non anticipare il processo; che ognuno e senza eccezione ha diritto alla dignità. Un qualcosa, pensate, che risale a Cesare Beccaria e al suo ‘Dei delitti e delle pene’; un qualcosa che dice anche che la giustizia, per essere tale, deve essere tempestiva, rapida, certa, nella sua esecuzione. Altro che la prescrizione abolita, come dicono tanti magistrati che d’abitudine si prodigano a creare la legge, invece di limitarsi ad applicarla… Dice questo, il Papa venuto da quasi la fine del mondo; e che ci sia bisogno di un Pontefice a insegnare a chi siede in Parlamento il senso e il significato della Costituzione su cui hanno giurato fedeltà, induce a riflessioni amare; tanto più che sono in pochi a farle; e solitamente non chi dovrebbe, per mestiere, se non per vocazione, farle… Anche perché dal pianeta carcerario si susseguono notizie e informazioni inquietanti. Per esempio: si estende a macchia d’olio la dipendenza da sedativi, ansiolitici e benzodiazepine: creano più dipendenza del metadone; migliaia di pillole che ogni giorno vengono ingerite dai detenuti. Abusa di psicofarmaci un detenuto su due: più di un terzo sono ansiolitici. Un grave problema denunciato tra gli altri da Francesco Ceraudo, un’esperienza quarantennale di dirigente sanitario dell’ospedale penitenziario Don Bosco, per 25 presidente dell’Associazione nazionale dei medici dell’amministrazione penitenziaria: “Nelle carceri italiane si entra puliti e si esce dipendenti”. Un’indagine dell’Agenzia regionale della sanità Toscana su 57 strutture detentive (il 30 per cento di quelle italiane), cinque regioni (Toscana, Lazio, Umbria, Veneto, Liguria) e Asl di Salerno: 15.751 detenuti rivela che “il 46 per cento dei farmaci prescritti sono psicofarmaci. La quasi totalità di questi (95,2 per cento) appartiene al gruppo di molecole che agisce sul sistema nervoso, con gli ansiolitici (37,8 per cento) fanno la parte del leone. Percentuale che sale vertiginosamente se si considera la fascia d’età 18-29 anni. Ottenere una terapia è facilissimo. Ed è più facile trovare un sedativo che una tachipirina”. Molti detenuti, spiega Ceraudo chiedono ansiolitici perché “trascorrono diciotto ore al giorno in cella, non si stancano, e quindi non riescono a prendere sonno. Il rumore in carcere è onnipresente, non smette mai, neppure di notte. I detenuti sono così privati anche dei sogni”. Il 23,7 per cento dei detenuti entra in carcere con alle spalle una storia di tossicodipendenza da stupefacenti. Dipendenza indotta dall’adattamento e precedente abuso di sostanze, ma c’è anche un terzo fattore che spinge la diffusione di psicofarmaci nelle carceri: il controllo da parte della stessa polizia penitenziaria. Costantemente sotto organico e con un problema gestionale dovuto al sovraffollamento, sono gli operatori stessi a incoraggiare l’assunzione di psicofarmaci. È una realtà confermata da ogni operatore penitenziario, dagli educatori ai cappellani. Di fatto drogati di pillole per tenere calma la situazione. “La dipendenza da psicofarmaci fa comodo a tutti”, osserva Ceraudo. E’ ‘utile’ che il detenuto stia tutto il giorno accucciato sul materasso tranquillo, non urli, sia passivo. Un quadro fosco, quello tracciato da Ceraudo: schiavo della ‘terapia’ il detenuto chiede all’infermiere dosi maggiori; pur di ottenerle fa rumore di notte, si taglia, ingoia oggetti, aggredisce agenti e compagni di cella. Nascono anche così i 50 suicidi e i 6.000 casi di autolesionismo che si registrano in media ogni anno. Molti detenuti, in astinenza, ricercano lo stordimento con il gas dei fornellini, quelli che l’amministrazione penitenziaria dovrebbe sostituire da anni per evitare che “su 50 suicidi l’anno, dieci siano involontari e dovuti all’inalazione con un sacchetto infilato in testa”. A proposito di suicidi: è morto in ospedale a Cagliari, dopo quasi un mese di ricovero, il detenuto di 32 anni che il 26 ottobre scorso aveva tentato di togliersi la vita in carcere, a Uta. L’uomo, bielorusso, era stato trovato con il cappio al collo nella sua cella dagli agenti penitenziari; dopo i primi soccorsi, il trasferimento all’ospedale Brotzu di Cagliari, dove è rimasto ricoverato per tre settimane in Rianimazione. L’altro giorno, nel pomeriggio, il suo cuore ha smesso di battere. ‘Evasione’ definitiva riuscita. La Presidente del Senato Casellati: “mille detenzioni all’anno sono illegittime” Il Riformista, 21 novembre 2019 “Dal 1992 a oggi, sono oltre 26mila, quasi 1.000 all’anno, gli individui che hanno subito una illegittima detenzione prima di essere definitivamente assolti con sentenza passata in giudicato. Numeri pesanti che ci obbligano a una scrupolosa riflessione sulla efficacia degli strumenti normativi finora predisposti per tutelare il massimo rispetto del diritto alla libertà personale e per preservare il nostro sistema dal rischio di errori suscettibili di produrre conseguenze nefaste sulla vita degli imputati e delle loro famiglie”. Lo ha detto nel corso della lectio magistralis tenuta ieri all’Alma Mater di Bologna la Presidente del Senato Elisabetta Casellati. “Non dimentichiamolo mai - ha aggiunto - dietro a ogni singolo caso di errore giudiziario o di ingiusta detenzione vi è un dramma umano. Vi sono donne e uomini illegittimamente privati della propria libertà, della propria dignità; la cui vita affettiva, sociale e lavorativa è stata fortemente pregiudicata”. Inoltre, ha proseguito Casellati, dati “allarmanti sono quelli relativi alla durata dei processi: secondo gli ultimi monitoraggi pubblicati dal ministero della Giustizia, circa il 20% dei procedimenti incardinati nei Tribunali e oltre il 40% di quelli presso le Corti d’Appello sarebbe infatti a rischio di legge Pinto”. “E qui l’anomalia è ancora più grave ha aggiunto - perché non coinvolge solo i diritti dell’imputato. Anzi, il mancato rispetto del principio costituzionale della ragionevole durata del processo nuoce soprattutto alle aspettative e ai diritti parti offese. Vittime del reato tanto quanto di un sistema giudiziario incapace di dare una risposta rapida alla loro legittima domanda di giustizia. Certo, la Costituzione e le leggi ordinarie riconoscono e assicurano tutele risarcitorie - ha sottolineato Casellati - ma dobbiamo essere consapevoli che dare attuazione alle garanzie costituzionali, riconoscerle come diritti inviolabili degli individui, significa prima di tutto assicurarne la loro piena efficacia”. Se il bambino va in carcere ad incontrare un familiare recluso di Rosalba Miceli La Stampa, 21 novembre 2019 Le visite dei bambini al familiare in carcere rappresentano esperienze ad alto impatto emotivo, potenzialmente traumatico: preoccupazioni, ansia, imbarazzo, paura, ma anche attesa e gioia si alternano e si compenetrano durante quei brevi momenti di incontro tra bambini e detenuti. Alcuni sanno già cosa aspettarsi perché la visita al familiare in carcere è ormai un appuntamento fisso, per altri invece è la prima volta che varcano la soglia del carcere. Come sostenere e tutelare i minori che entrano in contatto con la realtà penitenziaria? Come evitare che venga compromesso il loro sviluppo psico-affettivo? Il progetto Bambini e Carcere, sviluppato da “Telefono Azzurro” in collaborazione con il Ministero della Giustizia e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap), nasce nel 1993 a Milano presso la Casa Circondariale di San Vittore, con l’obiettivo di tutelare i diritti di quei bambini che accedono al carcere per fare visita a un loro genitore o parente detenuto. Il progetto intende mettere in pratica il principio sancito dall’articolo 9 della Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia secondo cui “il bambino i cui genitori, o uno dei due, si trovano in stato di detenzione, deve poter mantenere con loro dei contatti appropriati”. Contatti che alimentano la relazione di attaccamento reciproco, mantenendo i legami affettivi. Di recente l’accordo con il DAP è stato rinnovato con la firma del protocollo di intesa che regola le attività di “Telefono Azzurro” nelle strutture carcerarie di tutta Italia. Portato avanti dall’impegno dei volontari e dai consulenti di “Telefono Azzurro”, il progetto attualmente è operativo in 24 Istituti penitenziari italiani. Nello specifico, il progetto Ludoteca prevede la creazione di spazi e di tempi a favore dei minori con lo scopo di creare un clima sereno e accogliente e di facilitare la relazione e l’espressione delle emozioni tra bambino e genitore o parente detenuto. I volontari rappresentano una presenza sensibile e discreta che accompagna i minori in tutte le fasi, dai controlli preliminari fino al momento di entrare, durante i colloqui e al momento della separazione. La fase di pre-accoglienza è precedente all’incontro con il familiare detenuto: in questi momenti carichi di aspettative, i volontari cercano di allentare la tensione che si crea con le procedure di entrata nel carcere; segue l’incontro con il familiare in ludoteca o nella sala colloqui. I volontari che gestiscono questa fase animano alcuni momenti, in modo particolare i laboratori, creando occasioni significative per la crescita psico-affettiva del minore. Dopo il colloquio giunge il momento del distacco. È un momento molto delicato. Le aspettative iniziali sono state in qualche modo soddisfatte? O rimane ancora qualcosa da dire, da fare, un ultimo abbraccio, un ultimo saluto... In questi momenti il bambino viene aiutato a concludere positivamente l’incontro e a salutare il familiare detenuto. Oltre a mitigare nei bambini l’impatto con la realtà carceraria, i volontari di “Telefono Azzurro” si impegnano con i genitori o parenti reclusi per favorire il recupero degli affetti familiari, mediante “gruppi di parola”, laboratori di scrittura e colloqui individuali. Giustizia, lo scontro non va in prescrizione di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 21 novembre 2019 Passano giorni e i vertici, si avvicina il 1 gennaio 2020, ma la maggioranza non trova un accordo sul processo penale. Le proposte di Bonafede danno per acquisito il danno sulla durata dei processi provocato dalla riforma. Alleati ai ferri corti. Il Pd: qualche passo in avanti, ma non ci siamo ancora. La maggioranza è ancora impantanata sulla prescrizione e nemmeno il vertice notturno di martedì con Conte è servito a sbloccare l’annunciatissima riforma del processo penale. La prescrizione è l’istituto giuridico che cancella un reato penale dopo che per un certo numero di anni lo stato non è riuscito a giudicare definitivamente il presunto colpevole. Più grave il reato, più lunga la prescrizione. Dal prossimo primo gennaio - mancano dunque quaranta giorni - troverà applicazione la riforma della prescrizione che i 5 Stelle e la Lega avevano approvato all’inizio di quest’anno nella legge anti corruzione cosiddetta “spazza-corrotti”. Prevede che la prescrizione smetta di decorrere, in pratica venga cancellata come istituto, dopo la sentenza di primo grado, che sia di proscioglimento o di condanna. Anche la precedente maggioranza gialloverde sapeva che cancellare la prescrizione avrebbe esposto tutti i processi a una durata infinita: i tribunali, infatti, usano il calendario delle prescrizioni per stabilire delle priorità negli affollatissimi ruoli delle udienze. Senza più la tagliola della prescrizione, i processi potranno trascinarsi all’infinito. E gli imputati saranno in eterno presunti colpevoli o presunti innocenti, a seconda dell’esito del giudizio di primo grado. Proprio per questo la maggioranza 5 Stelle-Lega aveva rinviato l’applicazione della riforma della prescrizione di un anno, al 1 gennaio 2020 appunto, dando tempo al ministro della giustizia di preparare una riforma del processo penale che, accelerando la definizione dei giudizi, avrebbe potuto tamponare i guasti provocati dalla cancellazioni della prescrizione. Ma - un po’ come nel caso della riforma costituzionale che ha tagliato i parlamentari - i 5 Stelle si sono preoccupati di approvare la loro legge bandiera, lasciando poi a dopo (e ad altri) il compito di rimediare ai pesantissimi effetti collaterali. Dal Conte uno al Conte due il ministro della giustizia è rimasto lo stesso, ma Alfonso Bonafede non è riuscito né prima né dopo - dunque per 538 giorni, gli ha ricordato ieri il deputato di Forza Italia Enrico Costa - a portare la sua riforma del processo penale in Consiglio dei ministri (se non una volta, inutilmente, quando l’alleanza con la Lega stava precipitando). E oltretutto si tratta di una legge delega, che dunque andrà approvata dal parlamento e poi tradotta in pratica con i decreti dal governo. adesso tutti gli alleati dei 5 Stelle, Pd e Italia viva e anche Leu, fanno muro, perché chiedono a Bonafede di fermare la cancellazione della prescrizione fino a che non si sarà trovato il modo per accelerare davvero i processi. C’è anche un disegno di legge a firma proprio di Costa che il Pd minaccia altrimenti di votare. Bonafede, che dopo l’inutile vertice notturno di mercoledì con Conte ieri ha risposto al question time alla camera, dice che lui si è “dato il timing” e che adesso “devono darselo anche le altre forze della maggioranza”. Alle quali ha proposto due rimedi che sembrano al contrario dare per acquisito il danno dell’allungamento dei processi: la possibilità per gli assolti in primo grado di chiedere una corsia preferenziale per l’appello (penalizzando gli altri) e la possibilità per chi inevitabilmente dovrà rinunciare alla costituzionale “ragionevole durata del processo” di chiedere, alla fine, un indennizzo. Il Pd ha parlato di “passi in avanti” ma ha detto che “ancora non ci siamo”. La proposta dei dem è di rinviare di 6 mesi la cancellazione della prescrizione. Oppure di stabilire da subito le durate massime dei vari gradi di giudizio. Come aveva fatto la riforma Orlando, che Bonafede ha cancellato. Tanti dubbi sul blocco della prescrizione ma un altro processo (più veloce) è possibile di Bartolomeo Romano* Il Dubbio, 21 novembre 2019 La discussione sulla prescrizione è diventata (o, forse, lo è sempre stata) una occasione di continua polemica politica, un campo di confronto tra opposte visioni della giustizia: quasi tra garantisti e giustizialisti, tra innocentisti e forcaioli. Ma non dovrebbe essere così. Nel mio precedente intervento, pubblicato sul Dubbio del 15 novembre, ho cercato di indicare le ragioni per le quali la prospettata sospensione (rectius, abolizione) della prescrizione dopo il primo grado di giudizio, a far data dal 1° gennaio 2020, addirittura pure in caso di assoluzione, non sia una soluzione ragionevole e, dal mio punto di vista, costituzionalmente legittima. Lo ribadisco nuovamente, per evitare che letture superficiali possano fraintendere e strumentalizzare la mia posizione: quando interviene la prescrizione si verifica una sconfitta per lo Stato, una mancata tutela per le persone offese, un grave danno per tutti i soggetti indagati o imputati, non colpevoli (articolo 27, comma secondo, Cost.) o innocenti (articolo 6, comma secondo, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo), sino alla (eventuale) sentenza definitiva di condanna. Ma i rischi per la libertà personale e le stesse libertà politiche di tutti noi sono troppo grandi e concreti per immaginare di eliminare, semplicisticamente, la prescrizione. Inoltre, e forse soprattutto, tale “rimedio” non cura la malattia, ma ne elimina esclusivamente gli effetti più evidenti. Mi spiego meglio. La riforma Bonafede incide solo sulla fase successiva all’intervenuta decisione di primo grado: ma, in realtà, la prescrizione che interviene, oggi, dopo tale fase (e senza che abbia ancora dispiegato i suoi effetti la riforma Orlando, che ha aumentato, di fatto, la prescrizione di tre anni dopo la sentenza di condanna di primo grado), è una piccolissima parte di tutte le prescrizioni che riguardano i reati. Infatti, secondo i dati forniti dallo stesso ministero della Giustizia, nel 2018 i procedimenti penali prescritti in Corte d’appello e Cassazione (per cui opererebbe il blocco) sono stati 29.862: certo, comunque troppi. Ma la fase nella quale si concentra il maggior numero di prescrizioni è quella delle indagini preliminari (circa il 41%), e il 75% delle prescrizioni matura entro il primo grado di giudizio: non verrebbe, quindi, toccato dalla riforma. Peraltro, il blocco della prescrizione dopo il primo grado avrebbe conseguenze molto differenti sul territorio nazionale, perché la percentuale di prescrizione cambia molto da una Corte d’appello all’altra: dal 40% (circa) a Roma, Catania, Venezia, Torino, al 10% (circa) di Milano, Lecce, Palermo, Trieste, Caltanissetta e Trento. Con la conseguenza, paradossale, che chi è lento lo sarebbe ancora di più, poiché su quelle realtà si affastellerebbero circa 30.000 procedimenti in più ogni anno, con un vulnus evidente al principio costituzionale di eguaglianza (articolo 3 Cost.), che la Repubblica dovrebbe, invece, garantire, rimuovendo gli ostacoli alla sua affermazione. Cosa fare, allora? Per quanto riguarda gli aspetti riconducibili al diritto penale sostanziale, credo che la via maestra per abbreviare i tempi del processo possa essere rappresentata dalla riduzione della sfera del penalmente rilevante: è evidente che la macchina giudiziaria non regge il carico. Ma deve essere il legislatore a effettuare le opzioni di fondo, con la abrogazione o con la depenalizzazione; altrimenti, ci si deve affidare alle discrezionali scelte del pubblico ministero, in materia di selezione del materiale, e del giudice, con gli sdrucciolevoli istituti della sospensione del processo con messa alla prova e, soprattutto, della “particolare tenuità del fatto”. Poi (come già sostengo da anni) ci si potrebbe limitare, per evitare un eccessivo favor rei nel quadro di un istituto già mitigatore, quale la continuazione di reati nel nostro Paese, a tornare alla disciplina di decorrenza del termine della prescrizione vigente prima della modifica dovuta alla ex Cirielli nel 2005, in modo che il termine della prescrizione decorra dal giorno in cui è cessata la continuazione (e non più, come oggi, dalla consumazione del singolo reato): su questo punto, la mia proposta coincide con quella prevista dalla legge del 2019, a testimonianza, credo, del fatto che le mie non sono scelte ideologiche. Nel campo processuale, si potrebbero (tra le varie misure possibili) prevedere sempre notifiche telematiche, imponendo a tutti i soggetti comunque coinvolti nel procedimento penale - quindi, persone informate sui fatti, testimoni, consulenti - di attivare, dopo la prima notifica, una Pec (magari a spese dello Stato). Inoltre, si dovrebbe limitare ulteriormente il dibattimento ai soli casi di ampia valutazione, incentivando in misura più decisa l’accesso ai riti alternativi. In tal senso, forse occorrerebbe ampliare lo sconto di pena per l’accesso ai riti (in particolare per il patteggiamento, che è “fino” a un terzo, mentre per l’abbreviato è di un terzo”) e aumentare il limite di 5 anni attualmente previsto per il ricorso al patteggiamento. Naturalmente, si potrebbe intervenire anche sui profili ordinamentali, gestendo cioè più razionalmente le esigue risorse esistenti, e sperabilmente sul versante della copertura di tutti gli organici ancora vuoti, sia per quel che attiene ai magistrati che per quel che concerne il personale amministrativo: ma occorrerebbe spendere, mentre, more solito, anche la riforma Bonafede (articolo 1, comma 29) afferma che “dall’attuazione della presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”. Tutte queste misure mi sembra potrebbero incidere sulla durata ragionevole del processo (articolo 111, secondo comma, Cost. e articolo 6, primo comma, Cedu), senza violare i diritti inviolabili della difesa (articolo 24, comma secondo, Cost.). Ma occorrerebbe ragionare e ipotizzare riforme che offrano frutti effettivi, sebbene non immediati, e durino nel tempo… cioè non si prescrivano, come talune recenti ipotesi, nello spazio di un mattino, dopo notti insonni. *Ordinario di Diritto penale nell’Università di Palermo Salvini contro il reato di tortura. L’ex ministro vorrebbe rivedere la legge di Alessio Scandurra Il Riformista, 21 novembre 2019 È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”. Così recita la Costituzione italiana all’articolo 13 ed è l’unico caso, in tutta la Costituzione, in cui si cita il verbo punire. In altre parole dunque, per la nostra carta fondamentale, l’unico reato che un paese democratico non può non punire è proprio il reato di tortura. Ogni atto di violenza fisica e morale sulle persone private della libertà, soprattutto se commessa da rappresentanti delle istituzioni repubblicane, offende la civiltà democratica e quelle stesse istituzioni. Non a caso la legislazione che regola tutti i contesti in cui si esercita la privazione della libertà, e la formazione degli operatori che ci lavorano, contiene innumerevoli norme e procedure mirate proprio a prevenire quella violenza. E per fortuna nelle forze dell’ordine del nostro Paese questa cultura è largamente maggioritaria. Eppure in Italia la tortura non è stata reato per lunghissimo tempo, in barba all’art. 13 della Costituzione ed in barba agli obblighi e alle convenzioni internazionali, di cui pure l’Italia era parte, che imponevano che il reato di tortura entrasse nel nostro codice penale. E non perché nessuno si fosse posto il problema (la prima proposta di legge di Antigone in materia risale al 1998) ma perché fino a due anni fa il parlamento della Repubblica ha ritenuto che in Italia la tortura non dovesse essere reato. Pare incredibile ma è così che stanno le cose, e quando finalmente il reato è stato introdotto, lo si è fatto con un compromesso. Ci si è allontanati dalla definizione prevista dalla Convenzione ONU, secondo la quale la tortura è un crimine proprio di un pubblico ufficiale, e si è inoltre previsto che ci debba essere crudeltà, che la condotta debba essere reiterata (violenze e non violenza) e che questa debba cagionare acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico. Tutte restrizioni che nella definizione Onu non ci sono. Eppure, per approvare questa norma, il dibattito parlamentare e nella società è stato aspro e lacerante. Le resistenze molto forti. Non sorprende dunque che, a due anni dalla approvazione, per alcuni sia già ora di rivedere la legge. E non sorprende che a dirlo sia il segretario della Lega Matteo Salvini, intervenendo al Congresso nazionale del Sap a Rimini. Non nuovo ad affermazioni di questo tipo, Salvini afferma “quando torniamo al Governo dobbiamo rivedere questa legge perché non si può lavorare col terrore di non poter garantire la propria sicurezza e l’altrui sicurezza”. Perché c’è sempre stato, e continua ad esserci, il partito di quelli che stanno con le forze dell’ordine sempre e comunque, ignorando il fatto che, in uno stato di diritto, nessuno può essere al di sopra della legge, men che mai chi esercita legittimamente l’uso della forza a tutela di tutti noi. E ben lo sanno le forze dell’ordine stesse, che ogni giorno devono garantire la sicurezza dei cittadini nel pieno rispetto delle leggi, anche quando a violarle sono dei colleghi. Il paradosso è evidente. Da un canto le istituzioni repubblicane, con le forze di polizia in testa, impegnate, a volte con fatica, al rispetto delle leggi e della Costituzione. Dall’altro, per assecondare gli appetiti di parte dell’elettorato, c’è chi si professa al loro fianco di fatto delegittimando e screditando questo impegno. Si vorrebbe schiacciare la realtà su una semplificazione grottesca. Da un lato i criminali, che hanno sempre torto, e dall’altro le polizie, che hanno di conseguenza sempre ragione, dimenticando che i primi si definiscono per avere violato le leggi, mentre i secondi sono chiamati ad applicarle. In uno stato di diritto non ci sono crimini e non ci sono sanzioni se non tassativamente previsti dalle leggi. Salvini da neo ministro ha giurato “di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi”. E si augura di rifare lo stesso giuramento a breve. Si tratta dello stesso giuramento che fanno i neo agenti di polizia. Questi ultimi sanno bene cosa quel giuramento significhi. Chiaramente l’ex ministro Salvini no. Riforma della giustizia, la proposta del Coordinamento familiari vittime stragi Il Riformista, 21 novembre 2019 “Siamo uomini e donne meno fortunati di altri, siamo tanti e ogni anno, purtroppo, destinati a crescere perché i disastri italiani continuano a ritmo incessante. La vita ci ha messo alla prova togliendoci gli affetti più cari, scomparsi sul lavoro, per l’amianto, sotto le macerie di un terremoto, dentro le loro case incendiate da un treno carico di Gpl, sotto il crollo di un ponte o di una scuola elementare. Passiamo anni dentro le aule dei Tribunali e sopportiamo processi lunghi e dolorosi. Tutte le associazioni che fanno parte della nostra Rete Nazionale aspettano una giustizia che stenta ad emergere, un diritto sacrosanto che il nostro Stato dovrebbe rispettare perché sancito dalla nostra Costituzione”. Comincia con queste parole il messaggio diffuso in rete dal Comitato Nazionale Familiari Vittime Stragi. Come si può dedurre dal nome, il Comitato è composto dai parenti delle vittime delle stragi creato ai fini di ottenere giustizia. In questi ultimi giorni si è molto discusso in merito alla Riforma della Giustizia, in particolar modo sulla legge relativa alla prescrizione. I parenti delle vittime colpite dalle stragi hanno voluto diffondere questo comunicato per cercare di trovare una soluzione: “Abbiamo incontrato più volte il Ministro della Giustizia che ci ha ascoltati, ha accolto le nostre richieste sintetizzate in un documento dove chiediamo 4 punti fondamentali che possono portare un contributo alla Riforma della Giustizia. Uno di questi è la prescrizione che finalmente è diventata legge ed entrerà in vigore dal primo gennaio, congelando il decorso una volta chiuso il giudizio di primo grado. La prescrizione ha colpito duramente i processi di molte nostre associazioni e lo farà con altre nel prossimo futuro, cancellando di fatto molti capi di imputazione per cui gli imputati dovrebbero essere giudicati. Per i familiari delle vittime questa legge rappresenta un traguardo importante, è una garanzia per il giusto riconoscimento delle nostre ragioni. Quindi seguiremo con attenzione il dibattito parlamentare dei prossimi giorni, sostenendo il Ministro Alfonso Bonafede, riservandoci di essere presenti davanti alle sedi opportune, nel caso in cui questo importante risultato venga distorto o perda di credibilità”. Il Coordinamento nazionale “Noi non dimentichiamo”, presieduto da Gloria Puccetti, conta 18 affiliati tra comitati e associazioni: Comitato Matteo Valenti, associazione Vittime della scuola di S. Giuliano di Puglia, Associazione familiari vittime Thyssen Krupp, Associazione 140 familiari Vittime Moby Prince, Comitato familiari Vittime casa dello studente L’Aquila, Il Mondo che vorrei Viareggio, Associazione vittime Salvemini, Associazione 309 martiri dell’Aquila, Comitato ricordo vittime Ponte Morandi, Associazione Ilvadi Taranto, Adele Chiello (crollo torre Genova), Associazione Anna Aloysi incidente ferroviario Andria e Corato, Comitato Emilia Vite scosse, Associazione Il sorriso di Filippo, Fondazione 6 aprile per la vita L’Aquila, Comitato vittime di Rigopiano, Associazione per la memoria del Vajont, Genitori generazione Erasmus 20 marzo 2016. Tutti si sono uniti per far sì che non vengano dimenticati i loro parenti e le perdite che hanno dovuto subire. La Puccetti racconta che l’organizzazione si sta ampliando in quanto “stanno arrivando email di adesioni da associazioni e singoli genitori, madri, padri che si sono visti crollare il mondo addosso per una delle tante stragi d’Italia”. Femminicidi, 142 donne uccise nel 2018 Il Dubbio, 21 novembre 2019 In aumento le denunce. A Roma sabato 23 novembre si svolgerà la manifestazione “contro la vostra violenza, la nostra rivolta” della rete trans-femminista “Non una di meno”. Ancora una volta i numeri accompagnano la cronaca per restituirci un quadro allarmante: la violenza sulle donne registrata in Italia nel 2018 ha raggiunto i massimi storici, a crescere è soprattutto il numero di femminicidi commessi in contesti affettivi e familiari. Nello scorso anno si contano 142 donne uccise da uomini: secondo il Rapporto Eures 2019 su “Femminicidio e violenza di genere” in termini relativi rappresenta il valore più alto mai censito, con il 40,3% di vittime femminili rispetto al 35,6% del 2017. La percentuale più alta dei femminicidi familiari è commessa all’interno della coppia, con 78 vittime pari al 65,6% del totale, in 59 casi si è trattato di coppie “unite” (coniugi o conviventi) mentre 19 vittime sono state uccise da un ex partner. Cresce anche il numero di vittime della criminalità comune, mentre diminuiscono gli omicidi maturati negli ambiti “di prossimità” (donne uccise in contesti lavorativi o di vicinato). La tendenza si conferma nei primi dieci mesi del 2019 in cui si registra quasi un femminicidio ogni tre giorni, per un totale di 94 vittime. Nell’anno segnato dal caso di Elisa Pomarelli, uccisa quest’estate a Carpaneto Piacentino, il principale movente degli omicidi si conferma quello della gelosia e del possesso (impropriamente definito “passionale”), mentre le armi da fuoco sono lo strumento di morte più utilizzato. Ma dallo scenario fornito dal rapporto emerge un ulteriore dato preoccupante sul numero di segnalazioni per stalking e minacce: sul totale dei casi monitorati nel 2018, il 28% era già noto a terzi per precedenti maltrattamenti a danno delle vittime “confermando come il femminicidio rappresenti l’ultimo anello di una escalation di vessazioni e violenze che la presenza di una efficace rete di supporto potrebbe invece riuscire ad arginare”. L’analisi conferma la difficoltà da parte delle istituzioni di affrontare in maniera strutturale un fenomeno che è soprattutto sociale e culturale, nonostante gli sforzi prodotti in ultimo con la legge approvata dal primo governo Conte in materia di violenza domestica e di genere, il “Codice rosso”. Le nuove disposizioni innovano e modificano la disciplina penale, corredandola di inasprimenti di sanzione, ma resta la difficoltà pratica di gestire l’alto numero di segnalazioni e di estrapolare i casi più gravi, come sottolineato dal Procuratore capo di Milano Francesco Greco a seguito dell’uccisione di una donna da parte dal marito denunciato 4 giorni prima per aggressione. Intanto contro la violenza maschile sulle donne torna a mobilitarsi la rete transfemminista “Non Una di Meno”, che sabato 23 novembre scende in piazza a Roma con una manifestazione dal titolo “Contro la vostra violenza, la nostra rivolta”, seguita dall’assemblea nazionale del movimento il giorno seguente al Nuovo Cinema Palazzo di Roma. La violenza sulle donne ai raggi X di Maria Novella De Luca La Repubblica, 21 novembre 2019 Le radiografie in mostra a Milano. “L’orrore quotidiano nelle sevizie che vediamo al pronto soccorso”. “Le donne, spesso, non hanno la forza di raccontare. Ma i corpi e le lesioni parlano per loro, rivelano vertigini di orrore quotidiano. Per questo ho deciso di mostrare la violenza domestica come la vediamo noi al pronto soccorso: ossa rotte, nasi spaccati, occhi pesti, mani fratturate, polsi slogati, gambe rotte, coltellate, bruciature, morsi, segni di strangolamento, ferite da torture con pezzi di vetro. O addirittura un pugnale nella schiena. Lo scenario di una guerra nascosta nelle mura di casa che i numeri non riescono a raccontare”. Maria Grazia Vantadori, 59 anni, è una coraggiosa chirurga dell’ospedale San Carlo di Milano che ha deciso di esporre “l’invisibile” delle sue pazienti. Ossia le loro radiografie (anonime) che raccontano le sevizie subite da mariti, ex mariti, compagni, fidanzati. Una mostra estrema e tragica, organizzata per la Giornata contro al violenza sulle donne del 25 novembre, insieme alla Fondazione Pangea, che sarà inaugurata oggi nell’atrio dell’ospedale San Carlo. Qui dove Maria Grazia Vantadori non soltanto fa la chirurga da 26 anni (“mi raccomando - dice - chirurga non chirurgo”) ma è la referente del Casd, centro ascolto soccorso donna. “In tutti questi anni di prima linea, ho visto centinaia e centinaia di radiografie di donne con lesioni di ogni tipo, anche gravissime. Anche di fronte all’evidenza - dice Vantadori - molte continuavano a negare che gli autori di quelle sevizie fossero i loro mariti e familiari. Per paura, vergogna, timore di perdere i figli. Pur nel rischio di essere uccise”. Una negazione della violenza domestica drammatica, che però i corpi martoriati invece rivelano. Fino all’estremo di una donna arrivata al San Carlo con un pugnale conficcato nella schiena. “Sì, quella donna è sopravvissuta, anzi una sopravvissuta. Perché la sfida del nostro centro - dice Vantadori - è non solo soccorrere, ma anche aiutare le pazienti a uscire da quella schiavitù. Chi le accoglie deve saper decodificare i loro silenzi, comprendere quelle le lesioni incompatibili con quanto le donne narrano”. Segni di strangolamento sul collo, insomma, sono ben difficili da giustificare con una caduta sulle scale, ma possono essere invece, proprio per la parte del corpo aggredita, dice Vantadori, “la pericolosa anticamera del femminicidio”. Quindi il secondo passaggio, dopo il pronto soccorso, è quello del centro di ascolto dell’ospedale stesso, dove le donne trovano un percorso: verso una casa rifugio, verso una separazione, verso un sostegno psicologico. Una mostra dura, innovativa, ma emblematica, che ha messo insieme l’ospedale San Carlo di Milano, l’associazione Pangea e Reama, un network di mutuo aiuto tra associazioni e soggetti per il contrasto alla violenza sulle donne. Perché è soltanto trovando una rete che ci si può affrancare da prigioni come quelle che raccontano (o tacciono) le donne che arrivano nei pronto soccorso. Spiega Simona Lanzoni, vicepresidente di Pangea: “Con la rete Reama abbiamo voluto creare intorno alle donne un circuito in grado di supportarle, ma anche chiedere la reale applicazione della Convenzione di Istanbul”. La violenza sulle donne, ha ricordato Matteo Stocco, direttore dell’azienda socio sanitaria Santi Paolo e Carlo “è una grave violazione dei diritti umani”. Ricorda Vantadori: “Ho visto donne dell’alta società massacrate dai loro mariti e immigrate poverissime con le ossa rotte. La violenza domestica non ha censo né razza, colpisce tutte. Molte grazie all’accesso pronto soccorso si sono poi salvate, alcune, purtroppo no. Ed è a loro che penso”. Mafie. Un baraccone di inquirenti incapaci e pentiti bugiardi di Alberto Cisterna (Magistrato) Il Riformista, 21 novembre 2019 C’è un pullulare di ultime file delle cosche alla ricerca di un reddito dal Servizio di protezione o d’uno sconto di pena. Inquinano le indagini con scenari immaginifici. E ci sono magistrati arrangiati, spesso non in grado di orientarsi in un fiume di balle. Le transizioni sono sempre difficili da misurare: come stabilire quando il bianco diventa nero, quando la luce diviene buio. Eppure esiste un attimo, spesso impercettibile, in cui un raggio verde che dura pochi attimi separa il giorno dalla notte, un momento in cui le tenebre stanno per prendere il sopravvento sulla luce sempre più fioca che, però, non si rassegna ancora a scomparire. Tre decenni or sono la storia del terrorismo subì una svolta epocale con l’arrivo dei primi pentiti. Le prime defezioni, i primi cedimenti. Lo Stato, a fronte del terribile spiegarsi della violenza delle cellule rosse e nere, trovava un’insperata via d’uscita nella collaborazione di uomini e donne di primo rilievo del Br o di Prima Linea o dei Nar Quasi negli stessi anni, in quella temperie anche la mafia siciliana e la camorra campana conoscevano le prime, importanti defezioni. Anche lì boss di un certo rilievo sceglievano la via della resa e del pentimento offrendo agli inquirenti squarci imprevisti nel velo del silenzio. Magistrati di primissimo livello (Falcone, Borsellino, Vigna, Maddalena, D’Ambrosio, Pomarici e qualche altro) erano il suggello e la garanzia che deviazioni e depistaggi sarebbero stati evitati anche in quella terra cosi infida e paludosa. Le grandi professionalità messe in campo erano, al contempo, un argine e un deterrente per mistificatori, calunniatori o semplici profittatori dell’emergenza giudiziaria a caccia di qualche beneficio. Il numero dei sedicenti pentiti messi alla porta, arrestati per menzogne varie. sbugiardati e allontanati dagli stessi giudici che li interrogavano è stata la cifra oscura, e rimasta oscura, di un presidio di competenze che rassicurava e rendeva il processo penale uno strumento ovviamente sempre impreciso, sebbene con un coefficiente ancora tollerabile e tollerato. La spinta vitale di quella stagione, protrattasi sino alla fine del secolo scorso anche grazie all’olocausto del 1992, si fondava nella profonda conoscenza che quegli inquirenti avevano dei fenomeni criminali e delle loro dinamiche; loro fiutavano il vero e il falso, le chiacchiere e la verità, la pista e il depistaggio. Il candidato alla collaborazione passava da un filtro severo, stava a bagnomaria per mesi prima di entrare in un’aula di giustizia. Certo c’erano anche allora innocenti accusati ingiustamente (Tortora tra tutti), ma il sistema aveva al proprio interno un patrimonio di conoscenze, di prudenze, di diffidenze che mitigavano i danni, lenivano le ferite più profonde. Sono passati due decenni e innanzi agli occhi si stende un deserto con poche oasi. Un vuoto pressoché assoluto di collaboratori di rilievo. Un pullulare di terze, quarte e anche ultime linee delle cosche - qualche volta alla ricerca di un reddito di cittadinanza dal Servizio di protezione per poter sopravvivere o di uno sconto di pena per uscire delle celle - inquina le indagini con chiacchiere in libertà, scenari immaginifici, racconti da romanzi gialli di quart’ordine, teorie complottistiche variopinte. A fronteggiare questo profluvio di banalità pochissimi inquirenti che abbiano ancora capacità professionali adeguate allo scopo. Qua e là si scorgono le nubi scure di inquirenti arrangiati che raccolgono narrazioni e chiacchiere di seconda e terza mano in fiumi di verbali in cui non riescono a muovere un obiezione, a sollevare una contestazione. Appaiono ciechi e muti al cospetto di ciarlieri di vario genere che parlano di cose che chi li ascolta non conosce e, quindi, non controlla. Così le tenebre sono calate e il raggio verde che ancora distingueva il giorno dalla notte è stato sopraffatto. L’esperienza di decenni, il sacrificio di tanti appare tante e troppo volte immiserito a un fenomeno da baraccone, corrotto dal solito convegno, dalla solita intervista, dal solito libro che nessuno ormai acquista. Dichiarazioni roboanti e fantasmagoriche si stagliano come lampi e risultano solo buone per qualche articoletto sui giornali del giorno dopo e presto finiscono nell’oblio: indimenticabile ancora l’annuncio delle certe connessioni tra l’Isis e la ndrangheta lanciato da una titolata toga qualche tempo or sono e che costrinse il ministro dell’Interno a un’immediata smentita. L’emblema stesso dei nuovi tempi di cui il Csm o la Procura generale della Cassazione avrebbero fatto bene a chieder conto. Il tutto al cospetto di giornalisti troppe volte parimenti sprovveduti e impreparati, quando purtroppo non embedded nei corpi di spedizione inquirenti con la promessa di qualche scoop e con la speranza di qualche compiacente pentito disposto a darne per imminente il pericolo di vita per la loro coraggiosa attività di denuncia (con Pippo Fava o Beppe Alfano o Mario Francese a rigirarsi nella tomba). Le tenebre sono calate su quel mondo pulsante, magmatico, ma sempre vitale e indispensabile che erano le collaborazioni di giustizia del secolo passato, Prosciugate le conoscenze, squalificate le competenze, annacquate le speranze resta la desolazione dì chi si consente di dire - senza provare alcuna vergogna perché non ha alcuna reale consapevolezza di quanto afferma - che “la mafia esiste, ma non si vede”, come gli spiriti, come i marziali, come gli dei, come l’anima, come un virus che contagia. Una generazione di saggi magistrati si è trasformata in un’ortodossia con la sua Santa Inquisizione sempre vigile per mettere al rogo l’apostata, il miscredente, il dubitante, l’eretico che non cede al nuovo credo anti-mafioso e alle sue stucchevoli (e spesso corrotte) liturgie. Messa alla prova superata, stop alla confisca di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 21 novembre 2019 L’esito positivo della messa alla prova blocca la confisca per equivalente disposta nei confronti dell’evasore fiscale. Con la sentenza 47101, depositata ieri, la Cassazione accoglie il ricorso contro la decisione del tribunale, che dava il via libera alla confisca per equivalente delle somme oggetto di sequestro preventivo, pur avendo dichiarato di non doversi procedere per il reato di omesso versamento dell’Iva perché estinto grazie all’esito positivo della messa alla prova. Una scelta contestata, con successo, in Cassazione. Ad avviso della difesa, infatti, la confisca, prevista dalla legge sui reati tributari (articolo 12-bis del Dlgs 74/2000), può essere disposta solo in presenza di una sentenza di condanna o in caso di patteggiamento. Ma deve essere esclusa nell’ipotesi, come nella vicenda esaminata, di estinzione del reato grazie al superamento della messa alla prova, istituto previsto dall’articolo 168-ter che sospende il processo in attesa dei risultati raggiunti dall’imputato, salvo poi riprenderlo in caso di esito negativo. Sul punto il codice penale chiarisce che il superamento della prova non pregiudica l’applicazione delle sanzioni amministrative accessorie. E certamente, come precisa la Suprema Corte, la confisca per equivalente non è una sanzione amministrativa accessoria. La misura ablatoria, confermano i giudici della quinta sezione penale, può essere disposta, per espressa previsione normativa, solo se c’è una sentenza di condanna o l’applicazione della pena su richiesta delle parti. Ipotesi diverse dalla sentenza che dichiara l’estinzione del reato quando la “riparazione” sociale - alla quale è finalizzata questa forma alternativa di definizione del processo - è andata a buon fine. A differenza del patteggiamento e del verdetto di condanna, infatti, con la messa alla prova si prescinde dall’accertamento della responsabilità penale. Per la Corte di cassazione resta dunque ferma, come indicato dal codice penale, solo la possibilità di applicare le sanzioni amministrative accessorie, nel caso siano previste dalla legge. Triveneto. Focus group-workshop sullo stress di contesto nelle carceri di Domenico Alessandro De Rossi Ristretti Orizzonti, 21 novembre 2019 A seguito dei tragici fatti di cronaca recente, che hanno visto ancora una volta personale della Polizia penitenziaria dare segnali di grave sofferenza, ricorrendo talvolta senza apparenti segni di preavviso anche ad atti violenti e/o autolesionistici, per iniziativa del sindacato Cgil, grazie all’attiva collaborazione del Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per il Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige, si sono tenute il 16,17,18 ottobre u.s., tre giornate di lavoro presso i penitenziari di Trento, Rovigo ed Udine volte a conoscere la presenza di eventuali fattori causali dello “stress di contesto nelle carceri”. Gli incontri hanno visto la partecipazione di numerosi professionisti appartenenti non solo alla Polizia Penitenziaria nelle sedi coinvolte: Trento (n. 7), Rovigo (n. 47) e Udine (n. 12) con la compilazione di n. 4 questionari anonimi e strettamente riservati alla Commissione. La decisione di avviare un percorso di conoscenza, sostenuto da metodologie scientifico/multidisciplinari, è stato motivata dalla urgenza di non ritardare ulteriormente l’individuazione dei possibili fattori che possano compromettere il benessere e l’integrità di coloro che lavorano negli istituti carcerari. Il protocollo operativo messo a punto da uno staff di specialisti del settore si è potuto realizzare grazie alla collaborazione di operatori della Polizia Penitenziaria, dei funzionari giuridico-pedagogici e degli assistenti sociali che hanno attivamente partecipato ai focus group. Per approfondire le cause degli elementi esogeni stressanti e potenzialmente dannosi per il benessere del personale di Polizia, attraverso indagini caratterizzate da specifiche metodologie di rilevamento, il sindacato ha richiesto il contributo del C.S.P. Centro Studi Penitenziari di Roma, gruppo multidisciplinare che si occupa del contesto penitenziario e delle sue diverse problematiche. Lo psichiatra dr. Pier Luigi Marconi per le neuroscienze, il dr. Sandro Libianchi specialista in medicina interna, responsabile medico nel carcere di Rebibbia di Roma, il prof. Domenico Alessandro De Rossi esperto di architettura penitenziaria, già consulente del Dap, hanno gentilmente messo a disposizione le loro risorse professionali garantendo l’articolato supporto scientifico destinato al rilevamento dei dati della modellistica e dei criteri di valutazione. I professionisti sono membri di organizzazioni di alto valore scientifico ed umanitario, quali la Fidu (Federazione Italiana Diritti Umani), la Artemis Neurosciences ed il Co.N.O.S.C.I. (Coordinamento Nazionale Operatori per la Salute nelle Carceri Italiane) di cui il dr. Libianchi è presidente p.t. Nelle tre giornate di lavoro precedenti il convegno di Padova è stato avviato un primo livello di indagine pilota circa il complesso argomento dello stress negli ambienti destinati alla detenzione. La metodologia impiegata è basata su criteri multidisciplinari con strumenti di osservazione validati a livello internazionale. Una comparazione relativa alle eventuali criticità presenti nel contesto lavorativo e sulla loro relazione con il senso di benessere o di malessere percepito ha completato l’indagine. Nelle giornate di lavoro che hanno visto un’interessata ed attiva partecipazione del personale impegnato presso i penitenziari delle provincie coinvolte, sono state sviluppate tematiche destinate alla esplorazione del delicato rapporto malessere/benessere relazionale oltre che tecnico-ambientale, per la prevenzione dell’eventuale danno lavorativo e della valutazione diretta dello stress di contesto. Il Provveditorato del Triveneto, unitamente ai corpi intermedi sindacali hanno saputo dimostrare in questa occasione grande sensibilità e lungimiranza in merito alla gestione delle delicate questioni delle problematiche di coloro che operano in alcuni particolari settori, quali sono quelli della complessa realtà penitenziaria. L’osservazione promossa dal Sindacato, anche se limitata per ovvi motivi organizzativi al solo “focus” del Triveneto, rappresenta oggi un innovativo approccio pilota che, ai fini della conoscenza più estesa della situazione lavorativa interessante la Polizia penitenziaria, meriterebbe una non più rinviabile estensione esplorativa per disporre di dati differenziati utili a comporre una valutazione del quadro nazionale nelle sue diverse realtà territoriali. Visti i significativi risultati ottenuti che hanno offerto obiettivi elementi per future azioni organizzative ed operative all’interno della organizzazione nel suo complesso, fattore auspicabile è quello di poter procedere in futuro - nell’interesse del personale e del buon funzionamento dell’amministrazione tutta - ad una azione sistematica di un più vasto rilevamento, capace di offrire un quadro esaustivo della situazione penitenziaria nel Paese. Parma. Non può camminare, protesta e finisce in una cella “liscia” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 novembre 2019 L’ergastolano Francesco Zavota, che è stato trasferito da Voghera a Parma, soffre di diverse patologie tanto da avere una piastra di ferro in una gamba, dovrebbe dormire su un materasso ortopedico come gli era stato prescritto dai medici, ma si ritrova in una cella liscia, senza suppellettili né televisione, e con un materasso inadeguato. Parliamo di uno degli ergastolani trasferiti da Voghera a Parma e che si ritrovano nella “sezione Iride” come sanzione disciplinare. Il motivo è già stato riportato da Il Dubbio. Provenienti dal carcere di Voghera, reduci dello smantellamento delle sezioni 1 e 3 del circuito AS3, sono stati sanzionati disciplinarmente per essersi rifiutati di andare in celle poco più grandi di tre metri quadrati per starci in due. Per punizione sono stati mandati nella sezione di isolamento denominata Iride, e alcuni denunciano di essere stati sistemati in quattro celle lisce. Uno di loro, l’ergastolano Francesco Zavota è colui che ha problemi di deambulazione, tanto che nel carcere di Voghera veniva assistito da un piantone. Ora però a Parma la situazione si è ulteriormente aggravata. L’avvocato Giuseppe Annunziata ha denunciato la sua situazione direttamente al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e alla direzione del carcere. “Dal colloquio - si legge nella lettera - è emersa una situazione di forte sofferenza del detenuto, fortemente debilitato anche dall’acuirsi degli effetti legati alle patologie di cui soffre (l’impossibilità di dormire bene su di un materasso non idoneo ed i dolori alle protesi causati dalla crescente umidità)”. L’avvocato Annunziata, inoltre, denuncia che il suo assistito gli ha riferito “di non essere stato ancora autorizzato all’uso del materasso ortopedico che aveva comprato a Voghera e che era stato consigliato dal fisioterapista e che pure aveva chiesto che gli venisse consegnato”. Sottolinea che “quella cella è priva di tv è di suppellettili, che è umida e non idonea ad una detenzione per un periodo prolungato; anche il tempo dedicato al passeggio è confinato in un piccolo spazio adiacente a quella cella senza condivisione con altri”. Per capire meglio il motivo della protesta dei detenuti, sanzionata disciplinarmente, viene in aiuto la stessa lettera dell’avvocato dove chiede che il suo assistito venga trasferito in una cella singola. Spiega che nel caso di specie è in corso una violazione dell’art. 6 comma 5 legge n. 354 del 26- 7- 75 L. dell’Ordinamento penitenziario che recita “fatte salve diverse contrarie prescrizioni sanitarie e salvo che particolari situazioni dell’istituto non lo consentano è preferibilmente consentito al condannato alla pena dell’ergastolo il pernottamento in camere ad un posto ove non richieda di essere assegnato a camere a più posti”. Anche se non è un obbligo, ma una preferenza, l’avvocato Annunziata sottolinea che tale disposizione ha trasfuso in norma giuridica, “una consuetudine o prassi consolidata negli anni e presente negli istituti carcerari per cui agli ergastolani vengono sempre assegnate camere singole”. Nel caso del suo assistito è poi una vera e propria necessità. “Considerate le patologie di cui è affetto - scrive l’avvocato - (lo stesso uso della turca in bagno crea non pochi problemi di movimento), il mancato rispetto della prescrizione de quo si ripercuote in concreto ed immediatamente sulla salute del detenuto al quale è stato negato, altresì, l’uso del materasso ortopedico”. In via subordinata chiede che venga disposto il trasferimento in altra struttura carceraria in modo tale da consentire “al detenuto di espiare la propria pena in una camera singola cosi come previsto anche in considerazione delle patologie di cui soffre”. Trento. Primo “ok” all’incredibile norma che toglie la casa Itea alle famiglie dei condannati di Davide Leveghi ildolomiti.it, 21 novembre 2019 Il capogruppo della Lega, Mara Dalzocchio: “Tuteliamo gli onesti”. Le opposizioni: “Inqualificabile e vergognoso”. E’ stato approvato in Quarta Commissione il Ddl che contiene il discusso articolo sulla modifica dei requisiti di ingresso e permanenza nelle case Itea. Una norma che appare illogica, disumana e anche incostituzionale, visto che non riconosce la responsabilità individuale ma riversa sul nucleo familiare le colpe di un suo componente, aggiungendo disagi e sofferenza. C’era una volta lo Stato di diritto. Potrebbe essere questo l’inizio della “favola” - più somigliante a un incubo, a dir la verità - concernente la storia dell’articolo 14 del disegno di legge 36/XVI approvato oggi dalla Quarta commissione con cui si introducono misure di restrizione all’accesso e alla permanenza all’interno degli alloggi Itea. Ddl che attende ora di passare in Consiglio per la votazione. La “favola”, se letta, fa accapponare la pelle. Alla proposta di “implementare i requisiti soggettivi richiesti per l’accesso agli alloggi di edilizia residenziale pubblica”, infatti, si lega la possibilità non solo di escludere la relativa domanda a coloro che, negli ultimi dieci anni, sono stati condannati per delitti non colposi per i quali la legge prevede la pena detentiva non inferiore a cinque anni nonché per i reati particolarmente gravi quali i delitti contro l’incolumità pubblica”, ma pure di ampliare la misura all’intero nucleo familiare del richiedente l’alloggio. Ma non solo. “La modifica normativa interessa anche coloro che sono già inseriti all’interno di alloggi di edilizia pubblica”. Tradotto in soldoni, chi occupa un appartamento Itea potrebbe essere sfrattato laddove un componente del nucleo familiare venisse riconosciuto colpevole di una dei suddetti reati: “riduzione in schiavitù, pornografia minorile, sfruttamento della prostituzione minorile, violenza sessuale, furto, rapina, delitti concernenti le sostanze stupefacenti o psicotrope, delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine costituzionale” o qualsiasi condanna superiore ai 5 anni. A leggere “delitti di eversione dell’ordine costituzionale”, a questo punto, verrebbe pure da sorridere - seppur amaro - visto che la stessa Costituzione contiene all’articolo 27 una chiara contraddizione con il contenuto dell’articolo proposto dalla Giunta leghista. “La responsabilità penale è personale”, “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”, tutti principi esclusi da una misura che non solo riversa sull’intero nucleo familiare, già scosso dall’incarcerazione di un suo componente, le colpe del singolo, ma che pure se ne frega alla grande dell’estinzione del “debito con la società” scontato dal soggetto scarcerato, lasciandogli appiccata la stigma di delinquente e impedendogli di ottenere l’aiuto pubblico attraverso l’accesso all’edilizia popolare per ripartire. Come se non fosse abbastanza l’articolo 14 prevede che la famiglia colpita possa essere sfrattata pure in virtù di crimini con pene inferiori ai 5 anni, come lo spaccio o il furto, almeno fino a quando non vengono rilevate le attenuanti e il fatto considerato di lieve entità. In sintesi: in attesa di capire se tuo figlio, il padre o la madre siano dei criminali, statevene fuori di casa. Nonostante le palesi illogicità e incostituzionalità dell’articolo 14 del Ddl, in Commissione gli esponenti leghisti l’hanno difeso a spada tratta. “Il regolamento attuale prevede già che un nucleo possa perdere l’alloggio per il mancato pagamento dell’affitto o la mancanza osservanza del regolamento condominiale - ha affermato la capogruppo della Lega in Consiglio provinciale Mara Dalzocchio - quindi l’articolo si colloca in questo solco. Gli immobili Itea sono stati costruiti con i soldi pubblici e quindi si deve richiedere un comportamento corretto. L’articolo può scuotere le coscienze ma va anche a tutela del vicinato, perché c’è il rischio di un uso illecito o immorale degli alloggi”. E dopo aver mescolato piani che nulla che hanno a che fare l’uno con l’altro, la consigliera del Carroccio ha continuato: “Sui diritti di chi ha commesso reati devono prevalere quelli delle persone oneste, magari dei padri o delle madri separati, che non riescono ad avere una cosa o che ne hanno una di una sola stanza. Chi sceglie di delinquere ne deve pagare le conseguenze”. Poco importa che a farlo siano pure i famigliari, automaticamente trasformati in molestia per il vicinato. Chi vorrebbe vivere, d’altronde, accanto a una famiglia con un figlio o un genitore criminale?! Argomento ribadito dall’assessora alle politiche sociali - o meglio, alle politiche sociali? - Stefania Segnana, che non solo ha affermato che la norma sia stata introdotta a seguito “delle molte segnalazioni” ma che pure ha sostenuto che sia stata “fatta per dare serenità ai condomini”. Di diverso avviso le opposizioni, che per bocca di Lucia Coppola (Futura), Luca Zeni (Pd) e Paola Demagri (Patt), hanno espresso una netta contrarietà. Se la prima ha bollato come “incostituzionale, inqualificabile e insopportabile” l’articolo, auspicando di evitarsi la vergogna di vederlo arrivare in Consiglio provinciale, gli altri due hanno fatto notare come questo finisca per ripercuotersi inevitabilmente su persone deboli, come ad esempio le vittime di maltrattamenti - quale genialata sfrattare una donna, magari con figli, dopo che il marito è stato condannato per averli maltrattati! E non a caso qualche perplessità arriva pure dai banchi della maggioranza. “Anche se l’ho votato - ha dichiarato il consigliere Claudio Cia (Agire) - ho dei dubbi più che politici di coscienza, perché una famiglia che si trova di fronte al dramma di un familiare nei guai per la giustizia diventa così doppiamente disgraziata. Si potrebbe capire se ci fosse una connivenza o complicità della famiglia ma in questo modo si rischia di mettere in campo un esercizio muscolare e poco concreto”. Il rischio? Trasformare il Trentino in “una fabbrica di problemi sociali”. D’altronde questa proposta con primo firmatario il presidente di Giunta Maurizio Fugatti “puzza” oltre che di incostituzionalità anche di “Legge del taglione”. Aprendo un libro di storia giuridica bisogna infatti risalire al Codice di Hammurabi di più di 3700 anni fa, in cui veniva sancita la possibilità di punire persone appartenenti alla stessa famiglia per colpe attribuite ad un soggetto terzo. Un principio superato dalla Bibbia - nel Deuteronomio si proibisce la punizione dei figli al posto dei genitori - e ampiamente trasgredito in tempi di guerra, come quando i nazifascisti colpivano i familiari dei partigiani che non si consegnavano alle autorità. Roma. Università in carcere, rinnovata l’Intesa con Garante e Provveditorato italpress.it, 21 novembre 2019 E’ stato rinnovato il protocollo d’intesa tra l’Ateneo di Roma “Tor Vergata”, il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Regione Lazio e il Provveditorato regionale Lazio-Abruzzo-Molise dell’Amministrazione Penitenziaria. La firma è avvenuta presso la Macro-area di Lettere e Filosofia dell’ateneo, nell’ambito dell’incontro “In carcere oggi-Rieducazione, Ordinamento penitenziario, Ergastolo ostativo”. Viene così consolidata la collaborazione, iniziata oltre dieci anni fa, che ha dato l’avvio all’iniziativa “Teledidattica-Università in Carcere”, grazie alla collaborazione dell’allora Garante dei diritti dei detenuti della Regione Lazio, Angiolo Marroni, e la Casa circondariale di Rebibbia, con l’allora direttore del carcere Carmelo Cantone, oggi Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria. La firma è avvenuta alla presenza di Marina Formica, responsabile del progetto “Università in carcere” per l’Università Roma “Tor Vergata”. All’incontro, al quale hanno partecipato numerosi studenti, sono intervenuti Paolo Canevelli, magistrato della Procura generale della Corte di cassazione, già presidente del Tribunale di Sorveglianza di Perugia ed esperto di Diritto penitenziario; Stefano Anastasia, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Regione Lazio; Carmelo Cantone, provveditore delle regioni Lazio-Abruzzo-Molise del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria; Angiolo Marroni, avvocato, già Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Regione Lazio, che ha presentato il volume “Passami a prendere, racconti sul carcere scritti in collaborazione con Stefano Liburdi, Marta Mengozzi, docente di Istituzioni di Diritto pubblico, Università Roma “Tor Vergata, tutor nel progetto “Università in carcere” e Giacomo Silvano, detenuto laureato di “Tor Vergata”, oggi in regime di semilibertà, che ha presentato il libro “Dal calcio al carcere”, racconto-testimonianza del suo personale di crescita personale e culturale che lo ha portato nel 2014 a laurearsi in Giurisprudenza, con una tesi sull’ articolo 27 della Costituzione e gli aspetti problematici delle sanzioni penali. Giacomo Silvano è stato il primo laureato magistrale col progetto Università in Carcere a “Tor Vergata”. L’incontro è stata l’occasione per affrontare temi di grande attualità come la risocializzazione dei detenuti, la cosiddetta “rieducazione”, la riforma del diritto penitenziario e l’introduzione di pene alternative, la funzione di difesa civica e di mediazione esercitata dalla figura del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale e la questione dell’ergastolo ostativo. E proprio il giorno in cui la Corte Costituzionale, poche settimane fa, anticipava in un comunicato stampa la pronuncia di incostituzionalità dell’ergastolo ostativo, nel teatro della Casa Circondariale di Rebibbia Nuovo Complesso, Filippo Rigano, studente detenuto iscritto all’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, si laureava in Giurisprudenza, con una tesi in Diritto Costituzionale dal titolo “Sopra la Costituzione… l’ergastolo ostativo: per chi ha sete di diritti”. “Alla discussione della tesi - ha raccontato Cristina Gobbi, ricercatrice e cultore della materia in “Diritto penale”, tutor nel progetto “Università in carcere” e presente oggi alla firma del Protocollo - ha assistito anche il gruppo degli altri detenuti del reparto Alta Sicurezza, iscritti presso l’Università Roma ‘Tor Vergata’, che formano una piccola ma vivace comunità studentesca all’interno della struttura penitenziaria”. “L’Università Roma ‘Tor Vergata’ è stata tra i primi poli universitari in Italia ad aver aperto le porte ai detenuti - ha detto Formica -. Da quando è iniziato, in via sperimentale, pur tra innumerevoli difficoltà finanziarie, il progetto non solo ha continuato a vivere ma ha preso gradualmente corpo grazie al coinvolgimento, sempre più partecipato, di numerosi docenti, volenterosi neolaureati e dottorandi di ricerca e, soprattutto, all’impegno costante di altrettanti numerosi detenuti. Grazie poi all’esperienza di ‘Università in carcere’ - ha proseguito - l’Ateneo di ‘Tor Vergata’ nell’anno accademico 2018-2019 ha avviato il Master di I livello, ‘Mediatori del disagio penitenziario’, rivolto a tutte quelle figure professionali impegnate nel lavoro nel mondo carcerario per accrescerne le competenze e offrire strumenti idonei ad affrontare le relative complessità e le diverse forme di disagio che si manifestano nelle carceri. A breve, partirà la seconda edizione, prevista per l’a.a. 2020-2021”. Il tema del diritto allo studio e delle attività di formazione universitaria in carcere sarà oggetto di un convegno “Libertà di studiare: l’Università in carcere”, organizzato dalla Crui, la Conferenza dei Rettori delle Università Italiane (il prossimo 28 novembre), al quale parteciperà anche l’Università di Roma “Tor Vergata” e dove sarà presente la Conferenza Nazionale dei Delegati dei Rettori per i Poli Universitari Penitenziari (Cnupp), istituita presso la Crui. Le macro-aree/facoltà coinvolte nel progetto “Università in carcere” all’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” sono: Giurisprudenza, con i corsi di laurea in Giurisprudenza (laurea magistrale a ciclo unico) e Scienze dell’Amministrazione e delle Relazioni Internazionali (laurea triennale); Lettere e Filosofia, con i corsi in Beni Culturali, Lettere (laurea triennale), Scienze dell’Informazione, della comunicazione e dell’editoria, Musica e Spettacolo (laurea magistrale); Economia, con i corsi in Economia e Management ed Economia e Finanza (laurea triennale); Medicina e Chirurgia con il corso di laurea triennale in Scienze Motorie. I detenuti della Casa Circondariale di Frosinone possono accedere, almeno per il momento, soltanto al corso di laurea triennale in Lettere (Macro-area di Lettere e Filosofia), e al corso di laurea in Scienze Motorie (Medicina e Chirurgia). Nell’anno accademico 2018/2019, che si è appena concluso, si sono iscritti 59 detenuti iscritti all’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, di cui 50 in regime di detenzione presso la Casa Circondariale di Rebibbia e 9 presso quella di Frosinone. Firenze. Scrittura d’evasione, ritorna il corso per i detenuti di Sollicciano gonews.it, 21 novembre 2019 “Scrittura d’evasione”, il corso di scrittura creativa promosso da Arci Firenze, giunto alla sua quinta edizione. Il progetto di animazione sociale e culturale rivolto alla popolazione carceraria, ideato e condotto dalla scrittrice Monica Sarsini, torna dopo i successi delle passate edizioni ed anche quest’anno porterà nelle aule della scuola carceraria di Sollicciano scrittori, giornalisti e documentaristi in un ciclo di 20 incontri settimanali che da gennaio fino a maggio coinvolgerà un gruppo formato da detenuti e partecipanti esterni. Per questa quinta edizione il motore della narrazione richiesta ai partecipanti sarà il tema del Viaggio con tutte le sue numerosissime implicazioni, dirette ed indirette, presenti nella vita di ognuno di noi. Il tema sarà sviluppato attraverso lezioni frontali e laboratori in cui si lavorerà sui testi elaborati dai partecipanti, ma anche incontri con scrittori, attori e docenti universitari, per offrire ai partecipanti una grande opportunità di confronto, formazione e crescita: uno strumento prezioso per imparare ad ascoltare se stessi e gli altri, per poi raccontare e raccontarsi. Tra i nomi degli ospiti di questa edizione lo scrittore romano Tommaso Giagni, la giovane scrittrice di romanzi già premiata col Premio Brancati Giulia Caminito ma anche Augusta Brettoni ed il giornalista ed esperto di comunicazione Gioacchino De Chirico. In seguito all’esperienza del laboratorio di scrittura creativa nella sezione femminile, dal 2016 Monica Sarsini insieme ad Arci Firenze ha progettato un corso di scrittura creativa anche nella sezione maschile del carcere di Sollicciano, dove questa attività non era ancora stata prevista in modo continuativo. La successiva ulteriore idea di aprire il corso anche a persone esterne ha creato uno scambio attivo ed importante per i due mondi separati, partendo dal principio base che la lettura e la scrittura non sono attività solitarie e isolate, ma creano la possibilità di una riflessione collettiva. Un progetto, quello di “scrittura d’evasione”, su cui il Comitato fiorentino di Arci crede ed investe da anni con convinzione, proprio per la sua capacità di coniugare quei valori di inclusione, umanità, solidarietà, cultura e partecipazione su cui l’Associazione si fonda. Il corso sarà gratuito per tutti i partecipanti. Una novità rispetto agli scorsi, grazie anche al contributo del Comune di Firenze nell’ambito del progetto “realizzazione attività di animazione culturale e socializzazione a favore della popolazione carceraria del Nuovo Complesso Penitenziario di Sollicciano e della Casa Circondariale maschile Mario Gozzini” realizzato in Rti con Cat (Capofila) e Arci Firenze (partner). Il progetto è realizzato grazie alla collaborazione e al sostegno dell’Istituto Cpia 1 Firenze, dei suoi docenti e della scuola carceraria. Come nelle passate edizioni, l’emittente fiorentina Novaradio di cui Arci Firenze è editore, trasmetterà al termine del corso degli estratti dai racconti. Chi è l’autrice Monica Sarsini è nata a Firenze e vive nelle campagne vicino alla città. Scrittrice e artista visiva, ha esposto in numerose personali e collettive, in Italia e all’estero, e ha realizzato installazioni, performance e scenografie per spettacoli teatrali d’avanguardia. Tra le sue numerose pubblicazioni: “Crepacuore” (1985); “Crepapelle” (1988); “Crepapancia” (1996) per l’edizione Scheiwiller. Tiene corsi di scrittura nella sezione maschile e in quella femminile del carcere di Sollicciano. Da questi ultimi sono nate ben tre raccolte: “Alice nel paese delle domandine” (2011) “Alice, la guardia e l’asino bianco” (2013) e l’ultimo appena uscito “Racconti dalla Casa di Nessuno” pubblicate dalla casa editrice Le Lettere. Quando? Le lezioni si svolgono nella scuola carceraria di Sollicciano, tutti i martedì dalle 10.30 alle 12.30, a partire dal 14 gennaio 2019. Le iscrizioni scadono giovedì 5 dicembre. Come iscriversi Tutte le informazioni sul calendario e in merito alle modalità di iscrizione si possono richiedere all’indirizzo: sociale@arcifirenze.it oppure chiamando Arci Firenze dalle ore 9 alle 18 al numero 055.2629721. La partecipazione per gli esterni è prevista fino a 10 iscritti. La scheda di partecipazione debitamente compilata e la copia del documento d’identità dovranno poi essere inviate all’indirizzo sociale@arcifirenze.it entro giovedì 5 dicembre, per i tempi necessari al rilascio dei lasciapassare da parte dell’autorità carceraria. Foggia. La poesia dalla scuola al carcere, il moto travolgente de “La voce del mare” immediato.net, 21 novembre 2019 Dopo il primo laboratorio con gli studenti, giovedì 21 novembre Daniela d’Elia e Maria Del Vecchio incontreranno i detenuti. Grande successo per il primo appuntamento di preparazione a “La voce del mare”, la rassegna di belle parole ideata da Daniela d’Elia - e organizzata da Comune di Foggia - Assessorato alla Cultura e Assessorato alla Pubblica Istruzione, Fondazione dei Monti Uniti di Foggia, Rotary Club Foggia, Biblioteca Magna Capitana, Casa d’Arte - Casa D’E, con il sostegno di Provveditorato agli Studi di Foggia, Confcommercio Foggia, L.I.P.S. (Lega Italiana Poetry Slam), Confcommercio Foggia e Federeventi - in programma dal 13 al 15 dicembre 2019 (e non dal 29 novembre al 1° dicembre, come precedentemente comunicato) nell’Auditorium Santa Chiara a Foggia. Il laboratorio di poesia, svoltosi il 15 novembre scorso nell’aula magna dell’istituto tecnico “Notarangelo-Rosati” di Foggia, ha visto la partecipazione di ben 250 ragazzi, guidati nella mattinata poetica dalle poetesse Daniela d’Elia e Maria Del Vecchio. “Per me la poesia è rivoluzione, sovverte, aiuta a far venir fuori la voce vera di ognuno di noi, anche degli adolescenti”, ha affermato Daniela d’Elia. E il moto travolgente, preparatorio a “La voce del mare”, continua giovedì 21 novembre, giorno in cui Daniela d’Elia e Maria Del Vecchio torneranno in carcere per dare continuità al progetto “La via d’uscita: la Poesia” che nei mesi di maggio e giugno scorso ha coinvolto 15 detenuti della Casa Circondariale di Foggia e diversi poeti del territorio. L’iniziativa, ideata da Daniela d’Elia, è stata resa possibile grazie all’esperienza della giornalista Annalisa Graziano, operatrice del Csv Foggia; alla sensibilità di Anna Paola Giuliani, Assessore alla Cultura del Comune di Foggia e alla disponibilità della responsabile dell’Area Educativa del carcere di Foggia, Giovanna Valentini. “Noi siamo molto felici di dare continuità a questo progetto nato per regalare, attraverso i componimenti poetici, momenti di “evasione” e analisi introspettiva che possano favorire nei detenuti una valutazione critica del vissuto e del proprio operato”, dichiara d’Elia. I componimenti dei detenuti saranno declamati durante la 2 edizione de “La voce del mare”. Linee guida di partecipazione a “La voce del mare”: i poeti che vorranno declamare un proprio componimento durante il Corteo Poetico del 13 dicembre devono inviare l’adesione a lavocedelmarefg@gmail.com con oggetto: “partecipazione al corteo poetico”; i poeti che vogliono partecipare alla Regata poetica in programma domenica 15 dicembre all’Auditorium Santa Chiara devono inviare la richiesta a lavocedelmarefg@gmail.com con oggetto: “partecipazione alla Regata poetica”. Saranno accolte le prime venti email (+10 in lista d’attesa). Matera. “Con lo guardo di dentro”, i detenuti e la cultura expartibus.it, 21 novembre 2019 Dal 22 al 24 novembre mostre fotografiche e pittoriche, film, opere teatrali, libri e percorsi di lettura, realizzati all’interno degli istituti penitenziari italiani. La manifestazione “Con lo sguardo di dentro”: Matera 2019, capitale europea della cultura. Diritto di accesso e partecipazione dei detenuti alla vita culturale della comunità, organizzata dal Cesp-rete delle scuole ristrette e Fondazione Matera Basilicata 2019 e il sostegno del Mibac, vuole essere la narrazione del percorso di ricerca compiuto dai docenti e dagli studenti della rete delle scuole ristrette nell’ambito dei Laboratori interdisciplinari e di Educazione diffusa che la rete ha progettato e realizzato. Le tre giornate seminariali, che si svolgeranno presso il Teatro Comunale Guerrieri di Matera il 22, 23 e 24 novembre prossimi, presentano mostre fotografiche e pittoriche, film, opere teatrali, libri e percorsi di lettura, realizzati all’interno degli istituti penitenziari di riferimento dei docenti della rete. Si inizia con le mostre, che rimarranno esposte nei locali del Teatro Comunale Guerrieri di Matera per le tre giornate. Mostre di pittura: i ritratti ad acquerello di detenuti e sorveglianti della Casa di Reclusione di Spoleto, dell’artista Paola de Rose, i cui ‘Sguardi, da dentro’ accompagnano gli spettatori nel viaggio e ‘I Tarocchi reclusi’, i 21 arcani maggiori delle carte, realizzati nella Bottega di Pittura del maestro Piero Sacchi, interna al penitenziario, dai detenuti della Casa di Reclusione San Michele di Alessandria. Una ricerca basata sulla presenza dei tarocchi come esperienza culturale nella vita dei detenuti e sulla necessità di individuare identità simboliche capaci di rappresentare il detenuto artista. Si prosegue con gli scatti di backstage e ritratti di Viniie Porfilio, ‘Lo sguardo di dentro’ realizzati durante lo spettacolo ‘Nessuno’ al 60’ festival dei 2 Mondi di Spoleto e le Fotocomposizioni di Bruno Appiani, Monica Dorato e Valter Ravera Tra il dentro e l’Inferno di Dante dei laboratori di Artiviamoci, che hanno riprodotto insieme agli allievi “ristretti” le parti più significative della Divina Commedia, realizzando ritratti che hanno interpretato i sentimenti dei canti danteschi. La mostra ‘Riscatti’ è invece frutto di un laboratorio che il fotografo pratese Andrea Abati ha condotto con i detenuti della Casa Circondariale La Dogaia durante l’attività didattica del Centro Provinciale Istruzione Adulti di Prato, nel corso del quale sono state selezionate opere di pittori appartenenti ad un periodo che va dal XV al XIX secolo, che sono diventate la base per un serio gioco di interpretazione e sostituzione, nel quale i detenuti si ritraggono nella stessa posa e con la stessa luce usata per il personaggio protagonista del dipinto da loro scelto. Si continua con la sezione proiezioni: la prima dedicata alle donne in carcere, come contributo e partecipazione della rete alla giornata internazionale contro la violenza sulle donne, con la proiezione del lavoro teatrale Desdemona non deve morire, della Compagnia gli Scatenati - Teatro dell’Arca - Teatro Necessario, realizzato dai detenuti della Casa di Reclusione di Marassi - Genova e, nella giornata successiva del 23 novembre, del Film Sezione Femminile, per la regia di Eugenio Melloni, film che nasce da un laboratorio di cinema tenutosi all’interno del Carcere femminile di Bologna, un’elaborazione artistica e toccante della prigionia e della solitudine. Accanto a queste Maria e la Luna di Egle Mazzamuto, viaggio tra la violenza e la poesia delle anime vaganti, nella quale Maria, anima che popola una delle tante zone fatiscenti di Palermo, delinea gli ultimi momenti della sua umile vita di ragazza richiusa in un “carcere” sociale in cui la sottomissione di genere e la violenza divengono pane quotidiano. In posizione centrale nelle produzioni della rete, si collocano poi le azioni teatrali, accesso con Passaporto per Matera 2019 e prenotazione, della Compagnia #SIneNOmine della Casa di Reclusione di Maiano / Spoleto, direttore artistico e regista Giorgio Flamini, che presenta due lavori, il ‘Cantico dei Cantici’ nella versione laica di Guido Ceronetti, con 3 detenuti, due attrici e musica registrata, un mezzosoprano e ‘Storia vera ‘e capite comm’è’, già rappresentato nell’ambito del Festival dei 2 Mondi da #SIneNOmine con un adattamento sul romanzo in due libri ‘La Storia Vera’, racconto fantastico scritto in forma immaginaria e autobiografica da Luciano di Samosata, unito a Pinocchio di Collodi e alle città invisibili di Calvino. Un contributo importante proviene dalla Fundacja Jubilo, Wroclaw - Polonia, capitale europea della cultura 2016, direttore artistico e regista Diego Pileggi che presenta, con attori detenuti del penitenziario di Wroclaw, Kain in Absentia - Installazione performativa presentata per la prima volta a Poznan nell’aprile 2019, all’interno del VI Festival nazionale polacco di teatro in carcere, accesso con Passaporto per Matera 2019 e prenotazione. Durante questa occasione l’installazione ha ricevuto una menzione speciale dalla giuria del Festival con la seguente motivazione: “Per la toccante interpretazione della tematica di ‘Caino e Abele’, la proposta di una forma alternativa alla presenza dal vivo ed il costante atteggiamento degli attori”. All’interno di questa cornice si svolgerà il seminario, che inizierà nel pomeriggio, con i docenti delle scuole della rete che faranno il punto sui laboratori formativi-interattivi, da quelli teatrali a quelli di lettura alle biblioteche carcerarie, con la presentazione del libro di un ergastolano, Pierdonato Zito, ‘Indimenticabile padre: ricordi di un ergastolano’, che sarà presente in sala, insieme al Magistrato di sorveglianza Margherita Di Giglio e la presentazione del teaser, del cast del docu-film ‘Lo cunto dei ristretti’ in corso di produzione, con finanziamento Monitor 440 2018-2019 Miur - Mibact Prodotto da Rete delle scuole ristrette e Cesp. Al termine del seminario la rete delle scuole ristrette dopo un anno vissuto all’insegna della cultura trarrà un Bilancio dell’attività della rete e traccerà le linee degli interventi futuri. Lì dove non specificato, l’accesso agli appuntamenti è libero fino ad esaurimento posti. La prenotazione degli spettacoli che richiedono il Passaporto per Matera 2019 è disponibile sul sito materaevents.it o presso L’Infopoint di Matera 2019. Brescia. “Avremo anche giorni migliori”, i quadri di Zehra Dogan in mostra fino al 6 gennaio bresciagiovani.it, 21 novembre 2019 Opere dalle carceri turche. Il Comune di Brescia e la Fondazione Brescia Musei, diretta da Stefano Karadjov, presentano per la prima volta in Italia, nella cornice del Museo di Santa Giulia, una personale dell’artista e giornalista curda Zehra Dogan. La mostra è un progetto originale curato da Elettra Stamboulis e costituisce la prima mostra di impianto critico curatoriale dedicata all’opera della fondatrice dell’agenzia giornalistica femminista curda “Jinha” e sarà aperta al pubblico da sabato 16 novembre 2019 al 6 gennaio 2020. Dopo il grande successo della performance organizzata lo scorso maggio presso la Tate Modern di Londra, città in cui Zehra Dogan ha scelto provvisoriamente di vivere il proprio esilio, l’artista è ora protagonista a Brescia di una potente esposizione, in occasione della sua partecipazione al Festival della Pace, organizzato dal Comune di Brescia e dalla Provincia di Brescia. L’arte di questa artista si interseca e intreccia con la vicenda personale e, inevitabilmente, con i drammatici eventi politici della più stringente attualità. La mostra fa luce sulla sua poetica, affrontandone le tematiche e i motivi ricorrenti, evidenziandone la complessità linguistica e mostrando l’ampia gamma di supporti e tecniche utilizzate per produrre opere d’arte: oggetti inconsueti, estremamente fragili, ma di grande potenza espressiva. Il percorso espositivo concepito da Elettra Stamboulis riunisce circa 60 opere inedite, tra disegni, dipinti e lavori a tecnica mista, che interessano tutto il periodo della detenzione dell’artista nelle carceri di Mardin, Diyarbakir e Tarso, dove Zehra è stata rinchiusa per 2 anni, nove mesi e 22 giorni con l’accusa di propaganda terrorista per aver postato su Twitter un acquarello tratto da una fotografia scattata da un soldato turco. Questo disegno digitale mostrava la città di Nusaybin distrutta dall’esercito nazionale nel giugno 2016 con le bandiere issate e trionfanti, e i blindati trasformati in scorpioni. Accanto alle immagini, anche brani del diario scritto durante la prigionia. Si tratta di riflessioni in cui Zehra Dogan più volte fa riferimento ad artisti che nel corso della storia hanno manifestato il proprio dissenso senza pagarne, almeno apparentemente, le conseguenze e a quegli artisti che invece si rifiutano di prendere una posizione. La mostra dà conto della necessità irrefrenabile di produrre e raccontare non tanto la propria, quanto l’altrui condizione con l’immagine e la parola. Dalla carta di giornale alle stagnole dei pacchetti di sigarette, dagli indumenti di uso comune ai frammenti di tessuto: ne emerge una amplissima gamma di strumenti e materiali, spesso legata alle particolari contingenze entro le quali le opere hanno trovato vita. Qualunque elemento tratto dal quotidiano incorre nella creazione, come il caffè, gli alimenti, il sangue mestruale o i più tradizionali pastelli e inchiostri, quando reperibili. Una prima sezione della mostra è dedicata alle macchie, forme generatesi dalla casuale sovrapposizione di materiale a un supporto scelto in quel momento come superficie creativa. A partire dalle macchie l’artista delinea un immaginario simbolico, dominato dalla figura umana sintetizzata nell’esaltazione di alcune componenti specifiche come gli occhi, le mani e gli attributi della femminilità. La figura femminile, quale singolo individuale o corpo collettivo, costituisce la seconda sezione di questo itinerario. Attivista femminista, tra i primi giornalisti internazionali ad avere raccolto le testimonianze delle donne Yazide scampate all’Isis, Dogan dedica alla rappresentazione della donna la parte più vasta della propria produzione. Il corpo rientra nella rappresentazione politica con scene di guerra in cui di nuovo incorre la predominanza della presenza femminile, a sottolineare come la prima delle battaglie da vincere sia quella contro il patriarcato. Pablo Picasso, quello di “Guernica” e dell’elaborazione di un linguaggio specifico della disperazione è, nelle parole dell’artista stessa, il punto di riferimento fondamentale per definire una narrativa del dolore. Conclude la mostra un nucleo di opere create dopo l’esperienza in carcere. Zehra Dogan è stata rilasciata il 24 febbraio 2019. La sua storia di artista dissidente ha da subito raccolto l’interesse e la solidarietà del mondo dell’arte internazionale, tanto che Ai Weiwei le ha scritto una lettera personale e, lo scorso anno, Banksy le ha dedicato il più ambito dei muri di Manhattan, il Bowery Wall, con un’opera che la raffigura dietro le sbarre, mentre impugna la sua arma più potente: una matita. In tutto questo periodo, l’artista non ha mai cessato la propria attività artistica e giornalistica, realizzando opere con materiale di recupero, collaborando con le compagne detenute nella costruzione di immagini e nella realizzazione di un giornale di bordo che documentasse la loro detenzione. La mostra “Avremo anche giorni migliori - Zehra Dogan. Opere dalle carceri turche” è affiancata da un ricco programma di attività di approfondimento per il pubblico adulto, per le famiglie e le scuole, a cura dei Servizi educativi della Fondazione Brescia Musei. Tra questi appuntamenti, anche un incontro aperto al pubblico in mostra con l’artista dedicato alla memoria di Hevrin Khalaf, in calendario sabato 23 novembre alle 16.00. La mostra è resa possibile grazie all’impegno del web magazine Kedistan (“Il Paese dei gatti” in turco) che ha curato il salvataggio e il trasporto delle opere di Zehra Dogan dalla Turchia e che si occupa dell’archivio dell’artista e di Associazione Mirada, partner del progetto. “Un modello di giustizia fondato sul dialogo” di Carlo Marroni Il Sole 24 Ore, 21 novembre 2019 Papa Francesco sta cercando di mettere a punto una piattaforma di princìpi che coniughi l’agire morale con la sostenibilità economica perché “la persona fragile, vulnerabile, si trova indifesa davanti agli interessi del mercato divinizzato, diventati regola assoluta”. Quando il mercato diventa una divinità intoccabile è la democrazia stessa a essere a rischio. E innesca il meccanismo perverso della “irrazionalità punitiva”, un male da estirpare dentro le società democratiche. L’agenda economica di Papa Francesco si arricchisce di elementi nuovi e costruisce una cornice giuridica attorno al messaggio pastorale di un sistema economico inclusivo e sostenibile, che ribalti la deriva dell’usa e getta, dello scarto, non solo alimentare, ma anche umano. Negli ultimi giorni (e lo farà anche nel viaggio in Tailandia e Giappone, in corso) è tornato sui temi sociali, ed è chiaro come Bergoglio stia stringendo sull’agenda, facendone un vero e proprio “manifesto” in progressione, per il summit di Assisi del marzo 2020, che avrà l’obiettivo di riscrivere una grammatica economica inclusiva. L’obiettivo, che diventa sempre più chiaro via via che passa il tempo, non è solo ribadire i capisaldi della Dottrina sociale della Chiesa, declinati dal Papa nei vari documenti fondanti del pontificato - Evangelii gaudium, Laudato si’ e Oeconomicae et pecuniariae quaestiones - ma creare una piattaforma originale di princìpi che possa essere non solo buona e giusta, ma anche economicamente sostenibile. Nei giorni scorsi Francesco ha parlato agli oltre seicento partecipanti al XX congresso mondiale dell’Associazione internazionale di diritto penale, sul tema “Criminal Justice and Corporate Business” - guidati da Paola Severino, vicepresidente della Luiss e presidente dell’Aidp gruppo italiano - con un articolato discorso destinato a lasciare una traccia nella dottrina giuridica. “La persona fragile, vulnerabile, si trova indifesa davanti agli interessi del mercato divinizzato, diventati regola assoluta. Oggi, alcuni settori economici esercitano più potere che gli stessi Stati: una realtà che risulta ancora più evidente in tempi di globalizzazione del capitale speculativo. Il principio di massimizzazione del profitto, isolato da ogni altra considerazione, conduce a un modello di esclusione che infierisce con violenza su coloro che patiscono nel presente i suoi costi sociali ed economici, mentre si condannano le generazioni future a pagarne i costi ambientali. La prima cosa che dovrebbero chiedersi i giuristi oggi è che cosa poter fare con il proprio sapere per contrastare questo fenomeno, che mette a rischio le istituzioni democratiche e lo stesso sviluppo dell’umanità”, ha detto il Papa. Che su questo tracciato è andato oltre: “In concreto, la sfida presente per ogni penalista è quella di contenere l’irrazionalità punitiva, che si manifesta, tra l’altro, in reclusioni di massa, affollamento e torture nelle prigioni, arbitrio e abusi delle forze di sicurezza, espansione dell’ambito della penalità, la criminalizzazione della protesta sociale, l’abuso della reclusione preventiva e il ripudio delle più elementari garanzie penali e processuali”. Ai giuristi Bergoglio ha chiesto di lavorare nella direzione di “una giustizia penale restaurativa” visto che le società “sono chiamate ad avanzare verso un modello di giustizia fondato sul dialogo, sull’incontro”. Ecco la saldatura tra l’ingiustizia del sistema economico che produce la progressiva marginalizzazione e la reazione punitiva di chi detiene il monopolio della forza. E il pensiero qui va a quanto sta accadendo in molte parti del mondo, proteste di piazza macchiate di sangue che Bergoglio non può citare: Cile, Libano e Iran, per non parlare di Hotig Kong, solo per ricordare le più eclatanti di questi giorni. “Una delle maggiori sfide attuali della scienza penale è il superamento della visione idealistica che assimila il dover essere alla realtà. L’imposizione di una sanzione non può giustificarsi moralmente con la pretesa capacità di rafforzare la fiducia nel sistema normativo e nella aspettativa che ogni individuo assuma un ruolo nella società e si comporti secondo ciò che da lui ci si attende”. In qualche modo con l’incontro di Roma il Papa arruola nel percorso di ripensamento alla radici delle scienze economiche applicate anche i giuristi (penali, in questo caso) e Paola Severino accoglie l’invito: “Serve una giustizia che sia umanizzatrice e riconciliatrice” e che abbia una costante attenzione al carcere, consentendo “il possibile e pieno recupero del condannato all’interno della comunità di riferimento”. Parole sulla linea della pastorale papale, e che riportano rapidamente al cuore del “manifesto”, il danno sociale dei delitti economici. “Una delle frequenti omissioni del diritto penale, conseguenza della selettività sanzionatoria, è la scarsa o nulla attenzione che ricevono i delitti dei più potenti, in particolare la macro-delinquenza delle corporazioni. Il capitale finanziario globale è all’origine di gravi delitti non solo contro la proprietà ma anche contro le persone e l’ambiente. Si tratta di criminalità organizzata responsabile, tra l’altro, del sovra-indebitamento degli Stati e del saccheggio delle risorse naturali del nostro pianeta”. Quindi il diritto penale non può rimanere estraneo a condotte in cui, approfittando di situazioni asimmetriche, si sfrutta una posizione dominante a scapito del benessere collettivo: “Questo succede, per esempio, quando si provoca la diminuzione artificiale dei prezzi dei titoli di debito pubblico, tramite la speculazione, senza preoccuparsi che ciò influenzi o aggravi la situazione economica di intere nazioni. Si tratta di delitti che hanno la gravità di crimini contro l’umanità, quando conducono alla fame, alla miseria, alla migrazione forzata e alla morte per malattie evitabili, al disastro ambientale e all’etnocidio dei popoli indigeni”. Un diritto penale, quindi, dinamico verso uno scenario nuovo dell’economia globale, che deve al suo interno sviluppare modelli economici più equi “che consentano a ogni persona di avere parte delle risorse di questo mondo e di poter realizzare le proprie potenzialità”, ha detto ai membri del Consiglio per un capitalismo inclusivo - iniziativa nata all’interno del dicastero dello Sviluppo umano integrale, guidato dal cardinale Peter Turkson - tra cui anche l’imprenditore umbro Brunello Cucinelli, coinvolto con la sua azienda di Borgo di Solomeo in “Percorsi Assisi”, scuola di economia che due mesi fa è stata un po’ il preludio del grande incontro del prossimo marzo. “Uno sguardo alla storia recente, in particolare alla crisi finanziaria del 2oo8, ci mostra che un sistema economico sano non può essere basato su profitti a breve termine a spese di uno sviluppo e di investimenti produttivi, sostenibili e socialmente responsabili a lungo termine”, ha ribadito Francesco. “L’aumento dei livelli di povertà su scala globale testimonia che la disuguaglianza prevale su un’integrazione armoniosa di persone e nazioni. È necessario e urgente un sistema economico giusto, affidabile e in grado di rispondere alle sfide più radicali che l’umanità e il pianeta si trovano ad affrontare”. Bergoglio ha ricordato che “l’attività imprenditoriale è una nobile vocazione orientata a produrre ricchezza e a migliorare il mondo per tutti”, ma anche che “il vero sviluppo non può limitarsi alla sola crescita economica, ma deve favorire la promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo”. Questo significa “molto di più che far quadrare i bilanci, migliorare le infrastrutture o offrire una più ampia varietà di beni di consumo. Comporta piuttosto un rinnovamento, una purificazione e un rafforzamento di validi modelli economici basati sulla nostra personale conversione e generosità nei confronti dei bisognosi. Un sistema economico privo di preoccupazioni etiche non conduce a un ordine sociale più giusto, ma porta invece a una cultura “usa e getta” dei consumi e dei rifiuti”. In 18 mesi 12.000 minori dati in affido. Bonafede: “Niente allarmi, ma noi vigiliamo” di Simona Musco Il Dubbio, 21 novembre 2019 I risultati della squadra speciale del ministero della Giustizia. Parla il Guardasigilli: “Nessuno può insinuare che non ci sia volontà di parlare di questi argomenti. Per la prima volta c’è qualcuno che toglie la benda allo Stato”. È la “prima volta” che “lo Stato si toglie la benda che ha avuto finora e apre gli occhi per guardare a 360 gradi la situazione”. Lo ha detto il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, affermando che “sul tema degli affidi la maggioranza politica che oggi è al governo ha la massima concentrazione”. “In un momento in cui qualcuno osa insinuare che non ci sia volontà di parlare di queste tematiche, cancelliamo questo dubbio: la maggioranza politica ha concentrazione massima non solo per parlarne, ma anche per agire concretamente, tutti uniti e compatti”. Quello del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede sembra quasi una manovra per compattare la maggioranza, dopo gli scossoni degli ultimi giorni e in risposta a chi, fino a ieri, era al governo. Il pretesto, con due settimane di anticipo sulla tabella di marcia, viene dal “Caso Bibbiano”, con i primi risultati della Task Force voluta dal ministero per monitorare il sistema degli affidi. E i numeri grezzi della fase uno - per la “prima volta” in cui “lo Stato si toglie la benda” -, per quanto freddi “non sono allarmanti”, assicura Bonafede: nel periodo dal primo gennaio 2018 al 30 giugno 2019, i minori allontanati dai propri genitori sono stati, complessivamente, 12.338, circa 23 al giorno, su un totale di 9,8 milioni di bambini e adolescenti, dei quali 1540, poi, conclusi con un rientro nella famiglia d’origine, ovvero il 12,5%. Numeri, al momento, privi di valutazione qualitativa: “dobbiamo capire le condizioni di disagio sociale - ha sottolineato il guardasigilli. Ma è la prima volta che il ministero ha la possibilità di avere questi dati”. Ma cosa dice l’indagine circa i fatti dell’inchiesta “Angeli e Demoni”? E 12.338 affidi sono troppi o pochi? Impossibile, al momento, rispondere, giura il ministro. Ma un dato certo, dall’Emilia Romagna, viene dato dal presidente del tribunale dei minori di Bologna: nello stesso periodo monitorato dal ministero, in Emilia gli allontanamenti sono stati 249 e di questi circa la metà dei ragazzi sono rientrati in famiglia. “Numeri bassissimi”, ha commentato il giudice Giuseppe Spadaro. Il monitoraggio ha consentito di verificare anche la natura degli stessi affidamenti: 8.722 sono stati disposti da un tribunale, mentre la parte restante dagli altri uffici. E il collocamento in comunità dipende dalla mancanza di famiglie disposte ad accoglierli o su precisa richiesta degli stessi minori, in particolare gli adolescenti. Dati che arrivano da un monitoraggio su 213 uffici su 224, ossia il 95% del totale. Negli stessi 18 mesi, inoltre, sono state 5.173 le ispezioni ordinarie o straordinarie effettuate negli istituti di assistenza pubblici o privati, ossia a circa 9 al giorno. “La squadra si era data compiti importanti e ambiziosi - ha spiegato Bonafede - ovvero il monitoraggio dell’applicazione della normativa, la raccolta di proposte e la creazione di una banca data nazionale degli affidi”. Un monitoraggio che rischiava di essere interrotto dalla crisi di governo, “la mia più grande paura”, ha confidato Bonafede. Ma il ministro è riuscito a concludere ieri la fase uno, restituendo intanto l’entità del fenomeno. “Non agiamo per allarmare qualcuno”, anzi, “non è un dato allarmante ha spiegato -. Vogliamo, semmai, tranquillizzare i cittadini, dicendo che c’è una maggioranza politica che concentra l’attenzione, per la prima volta, proprio sui bambini, per garantire un sistema che protegge bambini e famiglie”. Le criticità riguardano l’eterogeneità delle esperienze e lo spezzettamento del percorso del minore, che risulta, così, non sempre sotto controllo. La fase due sarà perciò caratterizzata da un lavoro di riflessione sui numeri, sullo sviluppo della banca dati e sullo studio di nuove possibili linee d’azione per rendere l’attuazione delle leggi omogenea. “È necessario prevedere un termine di scadenza dell’affidamento, salvo proroghe, con un monitoraggio semestrale ha aggiunto. Serve una revisione della disciplina dei collocamenti, con una tempestiva valutazione da parte del tribunale dei minori e un protocollo normativo peri provvedimenti d’urgenza che non tolga il controllo allo Stato in nome dell’emergenza”. Migranti. Cambia il Decreto-Sicurezza. Protezione umanitaria e stop multe alle Ong di Alessandra Ziniti La Repubblica, 21 novembre 2019 La ministra Lamorgese: decreto entro Natale. Permessi, si allenta la stretta. E le sanzioni per le navi di soccorso passano da un milione a 50 mila euro. Il decreto sicurezza ter arriverà prima di Natale e spazzerà via le megamulte fino ad un milione di euro e le confische delle navi che Matteo Salvini aveva introdotto per mettere fuori gioco le Ong che avessero osato violare il suo divieto di ingresso in acque territoriali per sbarcare in Italia i migranti. Ma non solo: ripristinando quella che fonti del Viminale definiscono l’irrinunciabile “cornice degli obblighi costituzionali e internazionali” relativi al diritto d’asilo, si riaprono in qualche modo le maglie della protezione umanitaria ormai crollata dal 28 all’i per cento dei casi in esame. Questo, almeno, nelle intenzioni della ministra dell’Interno Luciana Lamorgese che, con gli uffici legislativi del Viminale, ha messo a punto le modifiche promesse sia al primo che al secondo decreto sicurezza, seguendo le precise indicazioni che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella aveva affidato alle lettere che hanno accompagnato la firma di entrambi i decreti. “È già pronto uno schema di provvedimento, ne devo parlare in Consiglio dei ministri. Posso già dire che nel testo saranno inserite modifiche connesse alle osservazioni pervenute dal presidente della Repubblica”, ha annunciato ieri la ministra in commissione Affari Costituzionali della Camera. Ben sapendo che la strada che dovrà portare il provvedimento in Consiglio dei ministri prima di Natale non sarà affatto facile. Lamorgese ha fatto il suo lavoro, tecnico-giuridico, ma la decisione ultima sarà collegiale e politica. E si prevede un confronto acceso tra le due anime del governo, con il Pd che vorrebbe scardinare l’impianto salviniano e il M5S che resiste. Per questo, prima di arrivare ad un testo, lo schema di modifiche proposto dal Viminale sarà oggetto di confronto con il premier Conte e i capidelegazione di Pd e M5S. La Lega va all’attacco: “Pronti alle barricate, in aula e in piazza”. “Sproporzionate rispetto ai comportamenti”, le aveva definite il Capo dello Stato nella lettera inviata al premier Conte e ai presidenti di Camera e Senato, Fico e Casellati firmando il decreto bis che, accogliendo un emendamento, aveva portato fino a un milione di euro le sanzioni. La modifica proposta è quella di ritornare alle multe previste nella originaria formulazione, da 10.000 a 50.000 euro e tornando a tenere in debita considerazione, per l’eventuale confisca delle navi, la reiterazione della violazione dell’eventuale divieto di ingresso in acque territoriale. Con una chiara tipizzazione dei mezzi che possono essere oggetto di multe e con il riferimento al dovere di soccorrere i naufraghi. Si corregge il tiro anche sul primo decreto sicurezza con il chiaro ripristino, nell’esame delle richieste di protezione, della cornice normativa della Costituzione italiana e del diritto internazionale. Non è il ritorno del permesso umanitario ma le commissioni dovranno tenere in debito conto il rispetto nei Paesi d’origine dei migranti delle libertà democratiche. L’oltraggio a pubblico ufficiale Torna la non punibilità per “particolare tenuità del fatto” che era stata abolita e soprattutto la differenza tra l’offesa rivolta ai tutori dell’ordine pubblico (e ai magistrati) rispetto a quella nei confronti di funzionari pubblici. Sono 7 milioni i bambini detenuti nel mondo Reuters, 21 novembre 2019 La denuncia arriva da uno studio delle Nazioni Unite che rileva inoltre come ogni anno 300.000 bimbi entrano nei centri per migranti di 80 Paesi. Oltre sette milioni di bambini nel mondo vivono in centri di detenzione per profughi, in luoghi di custodia come commissariati, in prigioni o altri luoghi di detenzione. “Privare della libertà un bambino significa negargli l’infanzia”, ha sottolineato l’esperto dell’Onu Manfred Nowak presentando un rapporto delle Nazioni Unite sul tema. Lo studio rileva inoltre come ogni anno 300.000 bimbi entrano nei centri per migranti di 80 Paesi. Bambini privati della libertà che diventano invisibili alla stragrande maggioranza della società e il cui destino rappresenta una grave violazione della Convenzione sui diritti del fanciullo. Si tratta di bambini che appartengono ai gruppi più vulnerabili, discriminati, esclusi e dimenticati nelle nostre società contemporanee. Provengono dai livelli più poveri della società, appartengono a minoranze etniche e religiose, popolazioni indigene, famiglie di migranti o rifugiati, sono bambini con disabilità mentali o fisiche, spesso separati o abbandonati dai genitori e costretti a vivere per strada. Questi bambini sono spesso vittime di abusi, negligenza e sfruttamento. “Invece di crescere con le loro famiglie o in un ambiente familiare nel contesto dei sistemi di protezione dei minori, vengono trattenuti in istituti di giustizia penale o in centri di detenzione e crescono senza libertà”, sottolinea il rapporto. È inoltre in grave aumento, secondo l’Onu, il numero dei bambini detenuti nei Paesi coinvolti in conflitti armati o dove permangono gravi problemi di sicurezza nazionale. Si tratta spesso di un aumento dovuto a misure antiterrorismo particolarmente dure “che includono il trattenere e perseguire i bambini per attività online, compresi i messaggi di Facebook e Twitter”. Più in generale, il rapporto sottolinea come almeno 410.000 bambini siano detenuti ogni anno in carceri e centri di detenzione in cui la violenza è “endemica”. Questa cifra non include il milione di bambini trattenuti, in molti paesi, ogni anno dalla polizia. Di questi molti sono accusati di reati come l’assenteismo scolastico, la disobbedienza e il consumo di alcol prima dell’età legale. Il rapporto delle Nazioni Unite segnala infine come la privazione della libertà peggiora la salute dei bambini, causando ansia, depressione, pensieri suicidi e stress post-traumatico. Stati Uniti. Oltre 100.000 minori detenuti per cause legate all’immigrazione. di Leonardo Cavaliere minoristranierinonaccompagnati.blogspot.com, 21 novembre 2019 Oltre 100.000 minorenni sono attualmente sottoposti a detenzione amministrativa negli Stati Uniti, per cause legate all’immigrazione, spesso in violazione del diritto internazionale. Questa è la triste verità che emerge dal rapporto Onu sui minori in stato di detenzione. L’autore del report, Nowak, ha affermato che la cifra si riferisce ai minori migranti, che hanno raggiunto il confine americano, attualmente in custodia negli Usa. Il dato si riferisce sia ai non accompagnati, sia ai minori detenuti con parenti o separati dai loro genitori prima della detenzione. “Il numero totale attualmente detenuto è di 103.000”, ha dichiarato Nowak, definendolo una valutazione “conservativa”, basata sugli ultimi dati ufficiali disponibili e su ulteriori fonti “attendibili”. A livello globale, almeno 330.000 bambini in 80 paesi sono detenuti per motivi legati alla migrazione, secondo lo studio globale lanciato lunedì, il che significa che gli Stati Uniti rappresenta quasi un terzo dei bambini in detenzione. Lo studio ha in parte esaminato le violazioni della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia, che impone che le detenzioni minorili vengano utilizzate “solo come misura di ultima ratio e per il periodo di tempo più breve”. “La detenzione legata alla migrazione per i minori non può mai essere considerata una misura di ultima ratio o nel migliore interesse del minore. Ci sono sempre alternative disponibili”, ha detto Nowak ai giornalisti a Ginevra. È utile ricordare, soprattutto in questa giornata, che gli Usa non hanno ancora ratificato la Convenzione dei diritti del fanciullo. Turchia. Nelle celle di Erdogan ci sono 120 reporter di Gianni Riotta La Stampa, 21 novembre 2019 Il presidente americano D onald Trump si avvia ad avere ormai un migliaio di tweet ufficiali contro “le fake news” dei giornalisti nell’account personale. I colleghi russi critici del Cremlino si imbattono spesso in tragici destini, come Maksim Borodin, precipitato dal balcone di casa dopo aver svelato i piani segreti di Putin in Siria. Il caso del blogger saudita Jamal Khashoggi, fatto a pezzi per aver diffuso informazioni sgradite alla casa regnante, ha fatto il giro del mondo. In un recente discorso a Brown University, A.G. Sulzberger, editore del New York Times, ha citato intimidazioni, repressioni, violenze contro la libera informazione in Libia, Egitto, Cina, Ungheria, Venezuela, Filippine, Myanmar, Cameroon, Malawi, Messico, Israele, Burundi, Iran. La lista è lunga, ma il triste record del pugno di ferro contro i media tocca alla Turchia dell’uomo forte Recep Tayyip Erdogan: secondo un rapporto dell’International Press Institute (Ipi), sostenuto dall’Unione europea, sono ancora 120 i giornalisti professionisti detenuti dal regime, con migliaia ad affrontare lunghi processi per accuse gonfiate ad arte. Erdogan usa le leggi speciali seguite al controverso “golpe” 2016, per arrestare, e mettere poi alla sbarra, decine di migliaia di oppositori, con una purga di 150.000 funzionari licenziati dall’amministrazione pubblica. Come ogni leader autoritario, Erdogan si accanisce contro stampa e media. Ha fatto titolo il caso del giornalista e scrittore Ahmet Altan, in galera per tre anni con il collega Nazli Ilicak e poi condannato a dieci di carcere duro, quindi liberato e, solo una settimana dopo, ancora arrestato con l’accusa di “terrorismo”. Altan, 69 anni, ha scritto in cella un romanzo amarissimo, “Non rivedrò il mondo”, persuaso che “si uccidono gli scrittori, li si mette in galera, li si tortura, ma non li si elimina come insetti. Uno scrittore non ha solo il corpo, più lo colpisci, più lo rendi grande … io spero di sopravvivere al potere politico turco di oggi...” (i libri di Altan, in italiano, Edizioni E/O). L’orgoglio di Altan, condiviso dalle dozzine di suoi fratelli e sorelle detenuti in Turchia è, dalla notte dei tempi, fonte del coraggio morale che oppone parola a forza bruta: la speranza che la luce della ragione prevalga sulle tenebre della violenza irrazionale. Ma questa battaglia, scorrete il rapporto Ipi per ricordarlo https://bit.ly/37qLfOw, non è mai vinta solo da un pugno di combattenti, serve loro il sostegno di ogni libera coscienza, in patria e, nel presente mondo globale, ovunque. Qui, purtroppo, come gli studenti patrioti di Hong Kong e i musulmani uiguri in Cina, i giornalisti turchi sembrano soli. Persuaso che Erdogan gli reggerà bordone in Medio Oriente, il presidente Trump gli lascia mano libera contro i curdi in Siria e non lo pressa dunque, come non pressa giunta egiziana o Cremlino, sulla libertà di stampa. L’Unione Europea fa quel che può, ma lo stile brutale anti-media ha fan anche nell’Ue, specie a Est. Gli anni dei social media, della disinformazione, delle grandi piattaforme occhiute sui profitti e distratte sulla libertà, del ritorno di populismo e nazionalismo, i due nemici storici della stampa, hanno, forse per la sorpresa di tanti, riscoperto come, silenziata la cultura del giornalismo professionale, critico e autorevole, la classe dominante degeneri presto in cricca senza scrupoli. La Turchia, nella Nato e alle porte dell’Europa, è dunque monito gravissimo: il premier Conte, il ministro Di Maio, la Federazione della Stampa, l’Ordine dei giornalisti, i cittadini di buona volontà, ricordino che la triste saga turca parla di noi e di oggi. Contro la giustizia lenta arrivano i giudici-robot: i casi di Cina ed Estonia Il Riformista, 21 novembre 2019 L’innovazione può aiutare la giustizia lenta, problema atavico italiano? A pensarla così sono sicuramente gli estoni. Il ministero della Giustizia del paese baltico nei mesi scorsi ha affidato ad un team di ricerca il compito di creare un sistema di intelligenza artificiale capace di svolgere la funzione di giudice, un robot per risolvere le controversie giudiziarie minori e smaltire le pratiche arretrate. Il caso estone - L’avvio del progetto è previsto per la fine del 2019: la macchina robotica potrà dirimere decisioni di minore valore, inferiori cioè a 7mila euro. Le sentenze che saranno emesse dall’intelligenza artificiale saranno comunque appellabili, sottoponendole al giudizio di un magistrato ‘umano’. Il piano cinese - Un progetto simile è stato sviluppato anche in Cina. A giugno la Corte di Internet di Pechino ha infatti lanciato un servizio online per le cause giudiziarie. Nel progetto è previsto un robot-ologramma con le sembianze di una donna particolarmente severa che, grazie ad una intelligenza artificiale, aiuterà il giudice ‘in carne e ossa’ a fare meglio il proprio lavoro, con il processo che potrà svolgersi tramite smartphone. La giustizia lenta in Italia - I progetti cinesi ed estoni farebbero il caso dell’Italia, dove i tempi della giustizia sono da sempre biblici. Secondo la Commissione europea nel 2016 ci volevano 514 giorni per arrivare ad una sentenza di primo grado, nel 2017 ce ne sono voluti in media 548, un mese in più, col dato più alto d’Europa. Il Belpaese è il peggiore anche per le sentenze di secondo e terzo grado, rispettivamente 843 giorni e 1299 giorni. L’Italia spende l’equivalente di 96 euro per cittadino nella giustizia, ma il 63% viene investito dallo Stato per coprire salare e costi del personale dei vari tribunali. Nonostante ciò siamo 23esimi su 27 per numero di giudici per 100mila abitanti, soltanto 10 contro i 43 della Croazia. Iran. Giustiziati 2 detenuti: uno era minore al momento del reato adnkronos.com, 21 novembre 2019 Due detenuti sono stati giustiziati nel carcere di Mashhad, nel sudest dell’Iran. Lo sostengono gli attivisti dell’Iran Human Rights (Ihr) e il giornale Khorasan. Secondo il sito Iran Online, un uomo di 26 anni identificato con l’iniziale J è stato impiccato domenica per aver ucciso una minorenne. L’omicidio risale al 24 novembre del 2010, per cui gli attivisti segnalano che l’uomo fosse minorenne al momento del reato. Iran Human Rights ha annunciato che sta indagando sul caso e che illustrerà l’esito il prima possibile. Il giornale iraniano Khorasan ha scritto che un secondo uomo, Javad A, 31 anni, è stato giustiziato sempre domenica per omicidio. L’Iran, da solo, ha messo a morte più del doppio delle persone di tutti gli altri Stati messi assieme. La banca dati di Nessuno tocchi Caino, realizzata fondendo i dati delle principali Ong per i diritti umani iraniane, registra ‘almeno 327’ esecuzioni nel 2018, e ‘almeno 254 nel 2019 alla data del 19 novembre’. Tra queste, ‘almeno 13’ hanno riguardato ragazzi e ragazze che al momento del reato ascritto sembra avessero meno di 18 anni. “Le esecuzioni di ‘minori’ pongono l’Iran in aperta violazione della Convenzione sui Diritti del Fanciullo che pure ha ratificato. E proprio oggi è la Giornata Internazionale dei diritti dell’Infanzia e del dell’adolescenza. Nel 2019 -rilevano da Nessuno Tocchi Caino - sono stati giustiziati almeno 6 giovani che, fonti indipendenti, hanno indicato come minorenni al momento in cui avevano commesso il reato. In alcuni casi i ragazzi sembra fossero minorenni anche al momento dell’esecuzione. Sette minori erano stati impiccati anche nel 2018 e due di loro erano ragazze, entrambe avevano ucciso il marito che erano state costrette a sposare a 13 e 15 anni”. Al 23 ottobre scorso nel ‘braccio della morte’ delle carceri iraniane sarebbero detenuti almeno 90 giovani che avevano meno di 18 anni al momento del reato. Dato fornito dalla Fondazione Abdorrahman Boroumand nel suo rapporto “Children, Yet Convicted as Adults” e secondo il rapporto ufficiale dello “Special Rapporteur” Javaid Rehman, l’Iran non sembra affatto intenzionata a cessare la pratica di giustiziare minori. I dati sono sempre approssimativi. Un rapporto di Amnesty International, basato su dati Onu che abbracciano il periodo 1990/2018, ha documentato 145 esecuzioni di minori autori di reati in 10 paesi: Cina, Repubblica Democratica del Congo, Iran, Nigeria, Pakistan, Arabia Saudita, Sud Sudan, Sudan, Stati Uniti e Yemen. Molti di questi Paesi hanno nel frattempo modificato le loro leggi, e l’esecuzione di minori non è più consentita. Brasile. Dalla Sardegna il progetto di suor Cristina per “salvare” le detenute di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 novembre 2019 L’obiettivo della religiosa è di costruire un carcere femminile. La consegna della struttura prevista per ottobre 2020, grazie al contributo delle comunità sarde sollecitate dal parroco del Sacro Cuore di Quartu Sant’Elena. Dalla Sardegna arriva un aiuto per le donne recluse in un carcere brasiliano, le quali sono costrette a scontare la pena assieme agli uomini e per questo subiscono violenze. L’iniziativa nasce grazie a suor Cristina Rodriguez, una religiosa che lavora sul campo senza sosta, la quale ha chiamato il parroco del Sacro Cuore di Quartu Sant’Elena, don Gabriele Casu, suo vecchio amico di missione proprio a Viana, nello stato del Maranhao, nel Nord est del Brasile, una delle zone più povere del Paese dove, appunto, sorge il carcere in questione. L’obiettivo è quello di costruire un carcere femminile e portare via le donne dalla struttura dove scontano la pena con gli uomini. Ma non solo. C’è anche quello di realizzare un panificio, pizzeria, pasticceria, per la formazione professionale, la panificazione e la lavorazione di prodotti da forno. Il progetto si chiama ‘ Dignità, sostegno e formazione: un panificio e una pizzeria per le carceri Apac di Viana in Brasile’. Il Comune di Quartu, che ha contribuito alla stesura del progetto e svolgerà compiti di monitoraggio, darà anche un contributo finanziario di 2.500 euro per le spese di trasferta in Brasile dei formatori professionali esperti nell’arte della panificazione. La Tecnocasa regionale collabora invece fornendo gli elaborati planimetrici e il progetto. La consegna della struttura è prevista per ottobre 2020. Si cercherà di formare almeno 20 detenuti/e che saranno poi delegati poi alla formazione di altri carcerati. Sulla produzione è stata fatta una stima: 200 kg di prodotti da forno giornalieri per il consumo e da destinare al mercato locale, per un guadagno di circa mille euro al giorno. “Sono rientrato due anni fa da Viana, dopo 12 anni da volontario lì, ma il mio cuore da missionario batte sempre forte per i Paesi come il Brasile e per le persone che hanno necessità del nostro supporto”, ha affermato don Gabriele. Un progetto ambizioso che aiuterà le donne recluse, le quali sono quelle che pagano di più: violenze, maltrattamenti e stupri. Solitamente il loro destino non migliora una volta scontata la pena, perché si trovano costrette a prostituirsi per sopravvivere. Il tutto in un Paese dove il numero complessivo dei detenuti brasiliani arriva a ben 812.564 unità. Sono dati presentanti a luglio scorso dal Consiglio nazionale di giustizia brasiliano, i quali confermano il Brasile come la terza più grande popolazione carceraria al mondo, dietro solo a Stati Uniti e Cina. Secondo il Dipartimento penitenziario del ministero della Giustizia, a giugno 2016 il Brasile aveva 726.700 detenuti, quindi il tasso annuo di crescita è stato dell’8,3%. Il sovraffollamento, inoltre, è sempre più crescente. Il rimedio del governo di Jair Bolsonaro? Costruzione di nuove carceri. Ma non solo. Nel contempo è in via d’approvazione un disegno di legge che prevede l’aumento della privazione massima della libertà dagli attuali 30 a 40 anni e termini più lunghi per la raccolta di prove contro chi è accusato di crimini. Entrambe le misure avrebbero ovviamente un impatto devastante sulla già disastrata popolazione carceraria brasiliana.