La cultura rende liberi? di Giada Ceri* La Repubblica, 20 novembre 2019 La cultura rende liberi? Sì? Bene: allora potrebbe aprire anche le porte di un carcere? All’inizio ho formulato la domanda come una provocazione, perché lo scambio fra lettura e libertà mi sembrava poco convincente. Ne lessi sui giornali nel 2014, quando l’assessore alla Cultura della Regione Calabria propose un’idea ispirata al brasiliano Reembolso através da leitura, programma di recupero approvato nel Paraná e nel Ceará nel 2012 e realizzato poi in altri Stati della repubblica federale. Il Reembolso permette, a determinate persone detenute, uno sconto di pena pari a 4 giorni in un mese per ogni libro letto fino a un totale di 48 giorni in un anno. La lettura, da svolgersi in un mese, viene verificata attraverso un colloquio e una recensione scritta sulla base di parametri prestabiliti e per ottenere lo sconto della pena occorre conseguire almeno un punteggio minimo pari a sei. La possibilità di accesso al Reembolso dipende comunque da una valutazione dai giudici che tiene conto del reato commesso. Nel 2014 la Giunta Regionale della Calabria approvò una proposta di legge ispirata al metodo brasiliano, poi fermatasi in Parlamento, mentre già nell’aprile 2013 la Corte di giustizia dello Stato di San Paolo annunciava la possibilità di concedere ai detenuti la “pena della lettura”: espressione che può far storcere il naso ma a me non pare peggiore di altre, utilizzate magari con le migliori intenzioni, come “promozione dell’amore per i libri e della cultura”. Lo scorso ottobre a Rebibbia in un incontro organizzato dal garante Stefano Anastasia, l’idea è stata discussa e la mia provocazione è stata presa sul serio. Dunque: pensiamo che la cultura possa rendere liberi? Io credo che la questione sia più complessa, ma dico: perché non sperimentare il Reembolso (mutatis mutandis) anche nei nostri istituti a cominciare da Sollicciano? La riabilitazione delle persone detenute si fonda su meccanismi di punizione ma anche di premialità; allora rendiamo schietto lo scambio con l’amministrazione penitenziaria e orientiamone la strumentalità in una direzione più costruttiva, fosse anche “solo” quella di ridurre il danno che il carcere arreca. Nel frattempo si dovrà riprendere a ragionare senza ipocrisie su questa formidabile coppia, rieducazione e cultura, chiederci se la cultura possa e debba rendere migliore l’individuo e se il carcere debba avere come fine quello di trattare le persone detenute, se debba formare buoni detenuti o buoni cittadini. Si dovrà chiarire che cosa intendiamo per buono e se quello delle valutazioni morali non sia un ambito dal quale il diritto, in definitiva, dovrebbe astenersi. *Giada Ceri, autrice, lavora attualmente a Firenze nell’ambito di un progetto di educazione linguistica rivolto a persone in esecuzione penale esterna. Il suo ultimo libro è “La giusta quantità di dolore” (Exorma 2018), un reportage narrativo sul carcere No al cambio di gerarchia tra Direttori e Polizia penitenziaria nelle carceri di Nicola Galati extremaratioassociazione.it, 20 novembre 2019 Nelle scorse settimane il Consiglio dei ministri ha approvato lo schema di Decreto Legislativo correttivo del riordino delle carriere delle Forze di Polizia adesso sottoposto all’esame delle Commissioni parlamentari. Vi è un aspetto della proposta che ha scatenato polemiche: la modifica della gerarchia interna agli istituti di pena con il conferimento di maggiori poteri ai vertici della Polizia penitenziaria rispetto ai direttori. Numerose critiche sono state mosse dagli stessi dirigenti (circa 100 dirigenti hanno scritto al Capo del D.a.p. ed al Ministro della Giustizia per manifestare la loro contrarietà), dalla Conferenza dei Garanti dei detenuti, dall’Osservatorio carcere dell’Unione delle Camere penali italiane, dall’associazione Antigone, dal Partito Radicale e infine anche dal Conams, il coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza. È stato avanzato il timore che la riforma possa comportare un ritorno al passato con una “militarizzazione” del carcere. ?Ad oggi sono i direttori, che sono dei civili, a gestire le carceri, ricoprendo un ruolo super partes tra le varie figure che cooperano all’interno degli istituti e garantendo l’equilibrio tra le istanze di sicurezza e la funzione rieducativa della pena. Il direttore si occupa della gestione contabile, ha competenza circa le sanzioni del richiamo e della ammonizione (art. 40 o.p.) ed a lui spetta l’ultima valutazione nei casi di impiego della forza ed uso dei mezzi di coercizione (art. 41 o.p.). Con la riforma, ad esempio, il direttore perderebbe il potere conferito dall’art. 41 o.p. così come la valutazione professionale e disciplinare degli appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria. ?Ciò che non si comprende è l’esigenza di una tale riforma di cui non si sente alcun bisogno. Le nuove norme (che si collocano all’interno di un intervento riguardante legittime richieste riguardanti miglioramenti economici e di carriera del Corpo di polizia penitenziaria) non risolvono alcuno dei problemi endemici che affliggono il sistema penitenziario né rispondono ad una emergenza in corso. La proposta sembra l’ennesima manifestazione di in un diffuso approccio carcerocentrico e securitario: dal successo di slogan quali “buttare la chiave” e “marcire in galera” alla retorica sulle carceri quali hotel a 5 stelle, dal tormentone sulla certezza della pena alla sfiducia nelle misure alternative, dall’affossamento della riforma dell’ordinamento penitenziario frutto del lavoro degli Stati generali fino alle recenti polemiche sulle decisioni della Corte Costituzionale e della Corte Edu sull’ergastolo ostativo. Si mette in discussione la funzione rieducativa della pena garantita dalla Costituzione in favore di una visione punitiva e vendicativa della pena che si riflette in un modello carcerario di sola custodia e vigilanza. I Magistrati di Sorveglianza difendono il loro ruolo nel rispetto della Costituzione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 novembre 2019 Duro comunicato del Coordinamento nazionale. I Magistrati di Sorveglianza respingono la campagna mediatica sulla sentenza della Consulta sull’ergastolo ostativo che “rischia di compromettere le fondamenta stesse dello Stato costituzionale di diritto”. Duro il comunicato da parte del Coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza (Conams), che riunito in Assemblea annuale, ha chiarito che “l’esercizio del potere discrezionale costituisce un connotato essenziale della giurisdizione rieducativa ed è patrimonio storico della Magistratura di sorveglianza fin dalla sua istituzione”. Inoltre stigmatizza l’espressione “semplici magistrati di sorveglianza” utilizzata in alcuni contributi giornalistici, sottolineando che sia in veste monocratica che collegiale, “hanno sempre esercitato tale discrezionalità in casi molto difficili, ad alto rischio e sotto elevata pressione ambientale, con senso di responsabilità e senza lasciarsi condizionare da indebite interferenze di qualsivoglia provenienza, rispondendo al proprio mandato istituzionale ed obbedendo alla propria coscienza e deontologia professionale”. In sostanza, i magistrati ricordano che il loro compito era comunque già rischioso prima della sentenza che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4bis, comma 1, dell’Ordinamento penitenziario nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia. Il Conams sottolinea anche che la decisione della Corte costituzionale, secondo quanto già emerge dal comunicato stampa, “rimette alla giurisdizione della Magistratura di sorveglianza il potere di valutare, mediante la necessaria acquisizione di note informative complete e di pareri adeguatamente motivati, in ossequio all’articolo 27 della Costituzione il percorso rieducativo del condannato, rigorosamente vincolato al positivo accertamento dell’ interruzione di ogni collegamento con le associazioni criminali di appartenenza, in un numero ulteriore di casi ora sottratti alla sue valutazioni di merito”, ma con accertamento che ogni giorno “tale magistratura già compie in materia di concessione dei benefici penitenziari ai condannati per uno dei reati contemplati dall’articolo 4bis e di valutazione in sede di reclamo sull’applicazione o proroga del 41bis”. Il Coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza auspica quindi che “il pieno rispetto della professionalità e del rigore di una magistratura che da più di quarant’anni sovrintende all’esecuzione della pena detentiva, nel pieno ossequio della Costituzione e delle leggi, si accompagni alla riaffermazione dei principi fondamentali del diritto e del processo penale, consacrati nella tradizione dello Stato costituzionale di diritto”. Infine auspica che ogni progetto di revisione del sistema penitenziario valorizzi e rafforzi il ruolo e le funzioni della Magistratura di sorveglianza “quale garante sia della dignità e dei diritti dei detenuti nonché della finalità rieducativa della pena, sia della doverosa tutela delle esigenze di sicurezza, nel quadro di un più efficace contrasto corale dei molteplici e complessi fenomeni di criminalità organizzata”. “Io, ex ergastolano, dico: questa sentenza fa paura alla mafia” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 novembre 2019 Carmelo Musumeci, da agosto in liberazione condizionale, sulla decisione della consulta. “Dopo le sentenze della Corte Europea e della Corte Costituzionale sulla “Pena di Morte Viva”, che hanno dato fiato alla speranza ad alcuni ergastolani, le mafie tremano perché hanno paura di rimanere senza esercito”, così spiega a Il Dubbio l’ex ergastolano Carmelo Musumeci che ad agosto scorso è riuscito ad ottenere la liberazione condizionale attraverso l’accertamento della cosiddetta “collaborazione impossibile”. Ha varcato la soglia del carcere fin dal 1991 con una condanna all’ergastolo ostativo. La scadenza della pena è fissata al 31 dicembre 9999, mentre anni fa si scriveva: fine pena mai. Il che vuol dire la stessa cosa. Entrato in carcere con la licenza elementare ha conseguito due lauree, una in Giurisprudenza e una in Sociologia. Ha scritto “L’urlo di un uomo ombra” e altri libri sul fine pena. Musumeci ha attraversato dure prove durante gli anni di prigionia. Il 41bis, le celle di isolamento a causa della sua ribellione al sistema carcerario, si è trovato a combattere non solo contro l’istituzione penitenziaria, ma anche contro diversi detenuti che, appartenendo alla cultura mafiosa, mantenevano l’ordine, quello di subire e basta, senza rivendicare i diritti. Un percorso che l’ha portato a creare relazioni con il mondo esterno, quello della cultura e della politica. Da anni ha intrapreso delle lotte per l’abolizione dell’ergastolo ostativo ed è contento per la sentenza della Consulta che ha aperto un varco alla speranza. Ma come fa a dire che la mafia ha paura di questa sentenza? “Perché molti “soldati” (la manovalanza, ndr), specialmente arrestati quando erano giovani, con una speranza di rifarsi una vita sarebbero stimolati ad uscire, anche culturalmente, dalle loro organizzazioni”. Però c’è chi dice il contrario e infatti c’è stata una indignazione generale... “Sì, dai salotti televisivi e dalla carta stampata si sono scatenate tante polemiche, come se la mafia fosse solo tutta in quei 700 detenuti condannati al carcere duro e in un migliaio, poco più, di ergastolani ostativi, in carcere da 20, e anche 30, anni. Si è detto che potrebbero uscire i condannati per le stragi di mafia, dimenticando di dire che la stragrande maggioranza di loro sono diventati collaboratori di giustizia. Si è detto che il carcere duro non va abolito perché c’è il rischio che i mafiosi diano ordini dal carcere, dimenticando di dire che arrestato un boss ce n’è subito un altro che prende il suo posto”. Lei dice spesso che l’ergastolo aggiunge ingiustizia ad ingiustizia... “Certo, per questo i rivoluzionari francesi nel 1789 avevano mantenuto la pena di morte e abolito la pena dell’ergastolo. Penso che il carcere senza speranza sia una fabbrica di mostri e in tutti i casi la pena non dovrebbe essere una vendetta, ma piuttosto una malattia da cui si può, e si deve, guarire. La vendetta individuale è comprensibile, invece quella collettiva è disumana. Dopo dieci, venti, trent’anni di carcere un uomo, senza più vedere un tramonto, un’alba, un albero, un fiore, senza più sentire le voci dei bambini, non è più un uomo normale. Non è facile vivere senza futuro. Non è umano! Solo i morti possono vivere senza futuro. La giustizia potrebbe, anche se non sono d’accordo, ammazzare un criminale quando è ancora cattivo, ma non dovrebbe più tenerlo in carcere quando non lo è più, o farlo uscire solo quando baratta la sua libertà con quella di qualcun altro, collaborando, e spesso usando la giustizia”. Quindi un ergastolano che ha ucciso per mafia ha il diritto di una seconda possibilità? “Se la pena è solo vendetta, sofferenza e odio come può questa fare bene o far guarire? Se siamo umani non possiamo stare prigionieri tutta una vita. Molti ergastolani sono nati già colpevoli, per il contesto sociale dove venuti al mondo, e non meritano di morire in carcere, in particolar modo i ragazzi che hanno subito la condanna all’ergastolo all’età di diciotto, diciannove e vent’anni. Penso che la pena dell’ergastolo sia una pena stupida e inutile, che distrugge il presente e il futuro a chi lo sconta e non dia vita a nessuna vita. È disgustoso essere contro l’abolizione dell’ergastolo per solo consenso sociale o politico e citare in modo strumentale le vittime, perché come dice Agnese Moro, figlia di Aldo Moro: “La sofferenza dei colpevoli non allevia il dolore delle vittime”. E quindi, cosa propone? “Credo che alle vittime dei reati interesserebbe di più far uscire ai colpevoli il senso di colpa per il male fatto e penso che questo sia più facile con una pena che faccia bene e che dia speranza, altrimenti il carnefice si sentirà a sua volta vittima, senza chiedersi mai quanto dolore ha inferto, ma rimanendo perennemente concentrato sul suo”. Nuova fumata nera sulla riforma della prescrizione. Via libera al processo civile di Liana Milella La Repubblica, 20 novembre 2019 Maggioranza ancora divisa nel vertice notturno a Palazzo Chigi. Ma il ministro Bonafede lancia due soluzioni per “venire incontro al Pd”. Nuova fumata nera sulla giustizia. La prescrizione divide sempre la maggioranza. Il Guardasigilli Alfonso Bonafede non cede sull’entrata in vigore della sua legge (prescrizione “morta” dopo il primo grado) a gennaio 2020. E non accetta la controproposta del Pd. Altrettanto fanno i Dem che rifiutano la sua mediazione. Passa solo il nuovo processo civile, “una riforma che dimezza i tempi del processo” dice Bonafede. Ma il nodo resta la prescrizione. Bonafede lancia due soluzioni “per venire incontro al Pd”. Le spiega così: “Per gli assolti in primo grado ci sarà una corsia preferenziale in appello, una trattazione urgente, che durerà solo pochi mesi”. Ancora: “Sarà agevolata la possibilità di accedere all’indennizzo, che già esiste, qualora ci sia uno sforamento dei termini”. È un niet deciso alla prescrizione processuale chiesta dal Pd. Che da ieri, con una proposta di legge alla Camera, chiede anche il responsabile Giustizia di Forza Italia Enrico Costa che la battezza “processo breve” proprio come ai tempi del governo Berlusconi. Sua anche la richiesta di bloccare la prescrizione del ministro. Che il Pd potrebbe anche votare. C’è questo sul tavolo della giustizia tra M5S, Pd, Italia viva e Leu, gli alleati di governo che cercano di evitare, davanti al premier Conte, l’ennesimo scontro stavolta sulla giustizia, giunti ormai al terzo vertice notturno a palazzo Chigi. Con l’obiettivo di convincere Bonafede a rinviare la sua prescrizione diventata legge con la Spazzacorrotti. Ma lui spiazza gli alleati e propone l’obbligo di trattare con urgenza gli appelli degli assolti. Il Pd insiste. Vuole prima garanzie di un processo rapido, pretende che la legge Bonafede sia fermata. Il ministro fiuta la trappola, ripete “i cittadini non possono più aspettare, ormai è il momento di partire”. Il Pd insiste sulle due prescrizioni. La prima, oggi in vigore, fissa per ogni reato un tempo per esercitare l’azione penale. I Dem vogliono aggiungere una prescrizione “processuale”, per cui l’appello non potrà durare più di due anni e quello in Cassazione un solo anno. Con una distinzione in caso di condanna o assoluzione. Nel primo caso il condannato, se il suo appello dura più di due anni, ottiene uno sconto di pena. Chi è assolto è libero definitivamente. Ma il Pd pretende la contestualità, la Bonafede passa, “solo” se passa la sua prescrizione processuale. E arriva il niet del Guardasigilli. Bonafede: “Prescrizione, indietro non si torna”. Ma garanzie per accorciare l’appello di Luca De Carolis Il Fatto Quotidiano, 20 novembre 2019 Il tempo è poco e i rischi parecchi, per le sue riforme e per il governo tutto. Perché la prescrizione potrebbe essere la miccia perfetta per i non pochi giallorossi che ne cercano una. Così prima della riunione serale a Palazzo Chigi il Guardasigilli a 5Stelle invoca, quasi pretende una soluzione: “Spero che il vertice di serale sulla riforma della giustizia sia risolutivo, sarà l’ennesimo momento di confronto ma ora è il momento di partire”. Bisogna chiudere, scandisce Alfonso Bonafede prima di incontrare il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e i rappresentanti dei partiti della maggioranza. Ma per uscire dalla palude dei veti incrociati bisogna superare l’unico, quanto ingombrante ostacolo, la prescrizione. Ed è per questo che Bonafede si presenta alla riunione per la prima volta per delle controproposte per Pd e renziani, uniti dal dire no all’entrata in vigore da gennaio della nuova prescrizione, quella già approvata invia definitiva con la legge Spazza-corrotti. Il ministro della Giustizia non voleva e non vuole fare passi indietro: lo stop alla decorrenza dei termini dopo la sentenza di primo grado deve diventare operativo con il nuovo anno, “e no totale anche alla prescrizione del processo”, precisano fonti del ministero prima della riunione, come a rintuzzare subito un’idea degli altri partiti già finita sul tavolo. Però prova a concedere qualcosa Bonafede, innanzitutto ai dem che chiedono un decreto con cui rendere certi i tempi dei processi. E così al tavolo a Palazzo Chigi propone “una corsia preferenziale” per gli assolti in primo grado, cioè l’obbligo di svolgere con urgenza i processi di appello rispetto agli altri procedimenti. Di fatto un meccanismo premiale, studiato da Bonafede con i tecnici di via Arenula alla vigilia del vertice. La carta con cui il ministro prova a scalfire il muro del Pd, da cui in giornata tirano in ballo bruscamente Conte: “È tempo che si sporchi anche lui le mani su questa vicenda, ci aspettiamo che faccia finalmente delle proposte”. Insomma vogliono che faccia da mediatore, convincendo Bonafede a fare qualche vero passo indietro. Magari indicando tecnicamente la via d’uscita, da avvocato qual è. Perché il ragionamento di partenza dei dem resta quello: “Abbiamo accettato cose come il taglio dei parlamentari, e ora è tempo che i 5Stelle facciano qualche rinuncia”. Tradotto, il Pd ha urgenza di qualche trofeo da esibire, per sostenere poi di non aver donato troppo sangue al patto di governo con il M5S. E figuriamoci i renziani di Italia Viva, che in queste settimane “non hanno mandato una riga di proposta”, come ha lamentato lo stesso Bonafede nel difficile vertice della scorsa settimana, dove si era parlato unicamente di prescrizione. Quasi nulla sulle riforma del processo penale e di quello civile, e neppure sulle nuove norme per il Csm, su cui il ministro ha già mostrato voglia di trattare, rinunciando quasi subito al sorteggio per l’elezione dei suoi membri. “C’è una buona convergenza sulla riforma dei processi e del Csm” assicurava ieri, ed è sostanzialmente esatto. Il vero imbuto è la decorrenza dei termini. Con i dem che rilanciano un’altra proposta, rinviare l’entrata in vigore della nuova prescrizione legandola al varo dei decreti attuativi. In sintesi, un modo per farla slittare di almeno un anno. D’altronde è con scetticismo reciproco e cattivi pensieri che i delegati dei partiti entrano nel vertice attorno alle 21.30, dopo il rientro di Conte da Berlino. “Non vedo come si possa colmare la distanza” sussurra uno dei partecipanti. Perché i giallorossi sono sfilacciati e la giustizia è uno specchio, delle differenze. Prescrizione. I giuristi del M5S contro la riforma Bonafede di Ugo Grassi* Il Riformista, 20 novembre 2019 Chi si oppone allo stop alla prescrizione è bollato dai vertici come “difensore dei delinquenti”. Falsità. Il punto è che la Carta e la Consulta dicono che i processi non possono durare sine die, come vorrebbero loro. Com’è noto il M5s ha fortemente voluto, con la cosiddetta legge “spazzacorrotti”, l’inserimento nel nostro ordinamento di una norma (la cui efficacia è rinviata al l° gennaio 2020) che dispone la sospensione del corso della prescrizione penale “dalla pronuncia della sentenza di primo grado o del decreto di condanna fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o della irrevocabilità del decreto di condanna”. Malgrado i molteplici sforzi di molti (tra cui io stesso) per far comprendere che tale soluzione è ad alto rischio di incostituzionalità. i vertici del Movimento si sono ostinati nel difendere la norma, facendo passare il messaggio che chi contrastava la modifica voleva difendere ladri e delinquenti. Ovviamente così non è perché il legislatore non è certo costretto a scegliere tra il “punire” ladri e delinquenti e il rispettare la Costituzione. Com’è ormai noto il tema della disciplina della prescrizione viene in rilievo all’esito della nota “sentenza Taricco” della Corte di Giustizia europea (Grande Sezione), 8 settembre 2015, C 105/14 (seguita poi nel 2017 da una sentenza similare in ordine al contenuto principale). Nell’occasione l’ordinamento della Stato italiano è stato. censurato nella parte in cui assumeva in sé un regime prescrizionale conformato in modo da impedire “di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi”. In altri termini la Corte europea ci ha rimproverato di prevedere regole prescrizionali irragionevoli rispetto all’obiettivo di rendere effettive le sanzioni penali. Considerata la sentenza Cedu, appare dunque evidente che si dovesse intervenire, ma a me appare ancora ancora più evidente che si dovesse intervenire con una norma conforme a Costituzione: una eventuale pronuncia di segno negativo della Consulta avrebbe effetti disastrosi perché ricondurrebbe la prescrizione del reato sotto il regime previgente, con intuibili effetti a catena. Partiamo da un dato: sebbene la norma discorra di prescrizione siamo in realtà di fronte a un evento - la sentenza di primo grado - che determina l’imprescrittibilità del reato: il processo può durare tutto il tempo che gli aggrada senza che mai il reato si prescriva. I sostenitori di questa soluzione sottolineano che essa è presente in altri ordinamenti e ciò dovrebbe bastare per accoglierla senza timori. Ad esempio 11 § 78b dStGB (Deutsches Strafgesetzbuch, Codice penale tedesco) stabilisce al comma 3 che “Se è stata emessa una sentenza prima della scadenza del termine di prescrizione, il termine di prescrizione non scade prima della data in cui il procedimento è stato legalmente concluso”. A parte che pure in Germania tale norma è ancora oggi oggetto di severe critiche, di rilievo è la diversa collocazione delle regole prescrizionali in quel sistema giuridico. Esse, infatti, vengono considerate di natura processuale o processual-sostanziale; in Italia, al contrario, l’istituto della prescrizione è stato, dal nostro giudice delle leggi, considerato sottoposto al principio di legalità penale sostanziale enunciato dall’art. 25, secondo comma, Cost., il quale impone che tutta l’area di ciò che è penalmente illecito sia esattamente determinata. Dunque gli argomenti invocati in Germania a sostegno della soluzione qui criticata non sembrano validi anche rispetto al nostro ordinamento. Vero è che un illustre autore, Francesco Viganò, adesso giudice della Corte Costituzionale, ha difeso in un noto saggio la soluzione adottata dal Movimento, ma non si richiama poi l’attenzione sulla circostanza che l’Autore ha poi anche chiarito che per evitare alcuni effetti collaterali deprecabili il legislatore dovrebbe introdurre dei correttivi. quali, ad esempio, uno sconto di pena da calcolarsi sull’eventuale eccessiva durata del processo (mi chiedo però quale “compensazione” attribuire a chi dovesse essere assolto, magra consolazione essendo quella risarcitoria), nonché una attenuazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale. Agevole chiedersi, considerato che questi correttivi sono il prezzo da pagare per introdurre una simile regola, se il gioco valga la candela. Torniamo, dunque, al tema iniziale: quale potrebbe essere il futuro giudizio della Corte Costituzionale? A me pare, in realtà, che la Corte abbia già indicato il perimetro entro cui il legislatore debba e possa intervenire. Infatti con la sentenza n. 115 del 2018,1a Corte ha affermato che la prescrizione “deve essere considerata un istituto sostanziale, che il legislatore può modulare attraverso un ragionevole bilanciamento tra il diritto all’oblio e l’interesse a perseguire i reati fino a quando l’allarme sociale indotto dal reato non sia venuto meno (potendosene anche escludere l’applicazione per delitti di estrema gravità), ma sempre nel rispetto di tale premessa costituzionale inderogabile”. Dunque due sono i capisaldi del nostro ordinamento: a) la prescrizione è istituto di natura sostanziale e come tale essa deve rispettare il principio di legalità e determinatezza, ed è altresì come tale b) necessariamente immanente nel sistema, vale a dire modulabile ma non eliminabile in radice, giacché solo i reati più gravi possono essere previsti come imprescrittibili. Alla luce di tali premesse si può senza dubbio osservare che la norma che stiamo esaminando è, con elevatissima probabilità, in contrasto con i principi costituzionali già indicati dalla nostra massima Corte. Il redigente, infatti, non si è avveduto di aver adoperato in modo improprio la nozione di -sospensione”, la quale, per come è configurata, dando vita a un sorta di “tautologia del decorrere dei termini” origina, in realtà, una norma che dispone la imprescrittibilità di qualunque reato dopo la sentenza di primo grado. Perché correre il rischio di introdurre nel sistema una norma incostituzionale quando esistono altre soluzioni non meno efficaci? lo, ad esempio. avevo proposto di abrogare la legge n. 251/2005 (cd. legge Ciriai); di ripristinare il testo previgente dell’art. 157 c.p. (molto più chiaro e di facile applicazione) con adeguamento dei termini di prescrizione, soprattutto per evitare che possano entrare in vigore, per taluni reati, termini più brevi di quelli attuali: e di stabilire infine che la sentenza di condanna, sia essa di primo o secondo grado, valga come interruzione (e non già sospensione) della prescrizione di modo da far ripartire il decorso del termine. il quale avrebbe comunque una sua definita durata. La soluzione descritta avrebbe il pregio di assegnare comunque alla potestà punitiva dello Stato dei puntuali confini temporali, e ciò in coerenza con l’affermata natura sostanziale e non processuale della prescrizione, come tale sottoposta all’applicazione del principio costituzionale di legalità e del suo corollario qual è il principio di determinatezza. Nello stesso tempo la proposta qui formulata, determinando una vera interruzione del tempo prescrizionale trascorso, seguita dalla ripresa di un conteggio temporale di eguale durata di quello proprio del reato, consentirebbe allo Stato di disporre di tutto il tempo necessario per rendere effettive le sanzioni. Superfluo aggiungere che molte altre soluzioni egualmente efficaci sono prospettabili. Vale la pena raggiungere la meta per mezzo di un viottolo scosceso e a strapiombo quando poco più in là vi è una comoda scaletta con solido corrimano? *Senatore M5S, avvocato, già direttore Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università “Parthenope” Meno leggi, più giustizia di Michele Ainis La Repubblica, 20 novembre 2019 A Lecce la giustizia è stata mite: dopo 9 anni, 2 condanne e 3 gradi di giudizio, un uomo è stato assolto per il tentato furto d’una melanzana in un campo coltivato. Più severa, viceversa, la procura di Salerno, che ha fatto ricorso in Cassazione chiedendo 10 euro in più sulla sanzione decisa da un giudice di pace, dopo una condanna per minacce. Gli stessi 10 euro che a Napoli sono costati il posto al dipendente d’un supermercato. Aveva rubato delle caramelle: licenziamento giustificato per il tribunale, la Corte d’Appello, la sezione Lavoro della Cassazione. E quanto vale una pigna? A Roma uno straniero è stato processato per averne raccolto, fra le erbacce, 22. Mentre a Milano hanno impegnato 5 anni, 18 magistrati e 6 gradi di giudizio per un piccione ucciso. La giustizia è cieca, stando alla celebre incisione di Albrecht Durer. Ma in realtà acceca i politici italiani. Specie all’interno di questa strana maggioranza, dove ciascuno è in minoranza rispetto agli alleati. Capita, sulla giustizia, ai 5 Stelle. Oggetto del contendere: la prescrizione dei reati. Una ghigliottina che taglia 130 mila processi l’anno (un milione e mezzo nell’ultimo decennio). Altrettanti delitti senza castigo, avrebbe detto Dostoevskij. Tuttavia è un castigo pure la durata estenuante dei giudizi. Secondo l’ultimo Rapporto Cepej - redatto dal Consiglio d’Europa - un processo civile dura in media 8 anni, un processo amministrativo 5. E la giustizia penale? 310 giorni in primo grado (la media europea è di 138), oltre 2 anni in appello. Nessuno peggio di noi in Europa, ma d’altronde nessuno ha sul groppone i numeri del nostro arretrato. Il ministero della Giustizia li ha diffusi un paio di settimane fa: 3.312.263 processi civili e 1.493.253 processi penali pendenti. Sono i numeri di un fallimento, di un’emergenza giuridica e sociale. Però, coraggio: per arginarli la politica ha inventato la macchina del tempo. Da qui la riforma Orlando, timbrata nel 2017: la prescrizione viene sospesa dopo ogni sentenza, per un massimo di 36 mesi. Da qui la riforma Bonafede del 2019, che ha abrogato la riforma precedente: niente più prescrizione dopo la sentenza di primo grado, sia di condanna che d’assoluzione. E se un processo dura all’infinito? Tutto sommato l’antico istituto della prescrizione vanta le sue buone ragioni, perché dopo tanto tempo la memoria dei reati cade nell’oblio, e perché diventa sempre più difficile procurarsene le prove. Inoltre, senza lo spauracchio della prescrizione, nessun giudice avrà più fretta di concludere i propri giudizi. Sicché la riforma Bonafede, concepita per soddisfare la domanda di giustizia delle vittime, a conti fatti può frustrarla. Come prima, più di prima. La soluzione? Sempre la stessa: prendere tempo. La riforma Bonafede è stata differita al 2020, in attesa di un intervento strutturale sui processi. Siccome però di quest’intervento non si vede l’ombra, è già pronta una proposta di legge (firmata da Enrico Costa) per differire ulteriormente la nuova prescrizione: il rinvio del rinvio. Mentre gli altri tre partiti della maggioranza pretendono una legge che stabilisca i tempi massimi di durata dei processi: dalla prescrizione dei reati a quella dei giudizi. C’è insomma, a quanto pare, una gran fiducia nelle leggi, nelle loro doti taumaturgiche. Ma i tempi della giustizia non dipendono dalla penna del legislatore; altrimenti basterebbe scrivere nella Gazzetta ufficiale che ogni italiano ha diritto di vivere in eterno, e avremmo conquistato il Paradiso. Inoltre non si può curare un male (la lentezza dei processi) con un altro male (la prescrizione): ne ricaveremmo un doppio acciacco. In realtà questo punto è cruciale, nel senso che si situa al crocevia fra due valori costituzionali: la certezza delle pene e la ragionevole durata dei giudizi. Tuttavia, prima di baloccarci con una macchina del tempo processuale, faremmo meglio a esplorare rimedi più prosaici. Per esempio l’assunzione dei 9.000 cancellieri che mancano all’appello. L’uso di buone pratiche organizzative, come ha fatto il tribunale di Milano, dimezzando la durata dei processi. E soprattutto un paio di forbici, per sfoltire i 35 mila reati che affollano il nostro ordinamento, causando incertezze sulle ragioni e i torti, oltre che un’inflazione di liti in tribunale. Per guarire la giustizia italiana serve una legge in meno, non una legge in più. Il Sud in agonia sotto l’attacco di mafia, giornali e Pm di Piero Sansonetti Il Riformista, 20 novembre 2019 Il pizzo alle cosche, le interdittive, i sequestri. Le inchieste aperte da alcune Procure sulle attività della Mittal, e poi i sequestri e le nuove imputazioni - lo abbiamo scritto nei giorni scorsi - sono un tentativo, da parte dei settori più reazionari della magistratura, di assumere il comando della politica economica. Cioè di allargare le proprie competenze, dopo avere invaso largamente il campo della politica: in particolare quello del governo delle Regioni e degli enti locali, e poi quello delle competizioni elettorali e persino della definizione delle candidature. Esiste un aspetto di questo problema che riguarda la democrazia e la qualità della politica. È un aspetto del quale abbiamo parlato molte volte. Poi c’è un secondo aspetto, che è nuovo, e riguarda l’economia italiana e le prospettive della produzione di ricchezza e dell’orientamento dello sviluppo. In teoria queste materie sono di competenza in parte del mercato e in parte della politica. La discussione che da sempre si svolge, con risultati alterni, riguarda il rapporto di forza e di potere tra il mercato e la politica. Di solito la sinistra ritiene che il potere della politica debba essere prevalente sul potere del mercato, e la destra pensa il contrario. Entrambe però restano in questo ambito e ammettono che debba esserci un equilibrio tra politica e mercato (tranne le frange più estremiste della destra ultraliberista che vorrebbero tutto il potere al mercato, e le frange staliniste e stataliste che invece vorrebbero azzerare le competenze del mercato). La novità sta nell’invasione della magistratura che decide di delegittimare sia la politica che il mercato e di prenderne il posto. Il problema interessa tutto il Paese. Perché evidentemente si pone un’ipoteca molto seria sul funzionamento del sistema. Alle vecchie idee liberali e a quelle socialdemocratiche si sostituisce una idea piuttosto definita di repubblica delle Procure, governata dal potere giudiziario. Una questione, però, del tutto speciale è quella che investe il Mezzogiorno. Le scelte delle Procure, non contrastate dalla politica e sostenute attivamente anche dalla stampa, provocano, ovviamente, la fuga degli investitori. Non solo degli investitori stranieri ma anche degli italiani. Chi accetterebbe di rischiare una parte del suo patrimonio per avventurarsi in imprese imprenditoriali che possono essere spazzate via in un minuto dalla decisione di un giovane sostituto Procuratore? Una volta la dinamica era diversa. Il conflitto c’era, ed era una delle componenti del rischio di impresa del quale gli imprenditori tenevano conto. Ma il conflitto era tra i lavoratori e l’impresa. Tra i sindacati e il padrone. Se ne conoscevano le regole, le possibili ricadute, i probabili compromessi. A seconda dei rapporti di forza, anche politici, l’accordo poteva alla fine essere un po’ più favorevole ai lavoratori, e ai salari, o più favorevole al profitto. Ma il recinto della battaglia era chiaro e nessuno aveva il potere assoluto sugli altri. In questa nuova fase di Repubblica delle Procure non è più così. E oggi, chiunque decida di investire al Sud sa di rischiare di finire in una morsa: da una parte la mafia, che impone il pizzo e rende più costosa l’impresa e dunque meno remunerativo l’investimento, dall’altra le Procure, che possono azzerare l’impresa e produrre danni economici esorbitanti per l’imprenditore. Oltretutto non sono solo le Procure, perché al fianco delle Procure, e con il loro avallo, agisce il sistema dei prefetti, che adopera il sistema delle interdittive in modo assai spavaldo, ed è molto più agile delle Procure. In che consiste una interdittiva? Il prefetto, con il placet della Procura, stabilisce che una certa azienda ha un qualche legame con le cosche. Per esempio, un operaio, o un geometra dipendente di quell’impresa che ha sposato la sorella di una persona imputata per mafia. Basta questo, scatta l’interdittiva, si perde l’appalto. Talvolta poi interviene direttamente la magistratura e sequestra l’azienda, nomina un commissario, il commissario gestisce l’azienda per alcuni anni poi, spesso, la restituisce al proprietario ma dopo averla fatta fallire e coperta di debiti. Qualcuno dei proprietari si dispera e diventa povero. Qualcun altro si suicida. I casi di suicidio sono molti. Le interdittive peraltro sono in continuo aumento. Nel 2016 furono 510, nel 2017 sono quasi raddoppiate arrivando a 972. L’anno dopo 1.279. Quest’anno sono 1.500. La situazione di una persona che decide di investire al Sud è questa. Mafia e Pm lo attaccano dai due lati. La mafia probabilmente gli chiederà un pizzo che semplicemente ridurrà i profitti. I Pm e i prefetti, se decidono di attaccarlo, lo annientano. E tutto questo, di solito, con l’appoggio fondamentale dei giornali e dei mezzi di informazione. Che spalleggiano le Procure e i prefetti e contribuiscono alla distruzione anche morale delle vittime. Voi pensate che in queste condizioni il Sud abbia qualche possibilità di riprendersi, di tornare a vivere? Evidentemente no: zero possibilità. Qualcuno reagirà a questo massacro? Capirà chi lo conduce? Proverà a fermarlo? Al momento le speranze sono poche poche. Cosa resta al Sud? L’unica via di salvezza è la fuga, l’emigrazione, come negli anni Cinquanta. Fondi ai Centri antiviolenza in ritardo di tre anni. “Dobbiamo arrangiarci” di Giusi Fasano Corriere della Sera, 20 novembre 2019 I dati: il 37% degli stanziamenti statali è bloccato dalle Regioni. Il caso degli sportelli chiusi per mancanza di soldi. Decine di presidi in difficoltà e la lunghezza degli iter. Francesca Innocenti dice che “navighiamo a vista”, che “la gestione del quotidiano è segnata dalla precarietà” e che “a volte dipendenti e operatrici si riducono l’orario di lavoro per risparmiare un po’ di soldi da usare per altro”. Lilith, il Centro Donna di Latina di cui lei è presidente, va avanti fra mille difficoltà con due case antiviolenza e un rifugio segreto per sette posti letto. E fa esattamente quello che fanno tutti gli altri: si arrangia. Se riesce a stare in piedi è perché - come succede ovunque - può contare sulla dedizione e la generosità di dipendenti e volontarie. Da un altro angolo d’Italia arriva la voce di Mariangela Zanni, fra le responsabili del Centro Veneto Progetti Donna, Padova. “Non sapere se e quando avremo i fondi regionali da una parte ci impedisce di programmare qualsiasi cosa, dall’altra ci costringe a rivolgerci ai privati: cittadini, associazioni filantropiche, fondazioni... L’anno scorso abbiamo dovuto chiudere uno sportello di ascolto antiviolenza periferico perché non finanziato. E tutto questo a fronte di un aumento costante delle donne che ci chiedono aiuto”. Da Cosenza Antonella Veltri non ci prova nemmeno a vedere il bicchiere mezzo pieno. Dopo 30 anni il suo Centro Roberta Lanzino è quanto mai in affanno. “Già anni fa abbiamo dovuto chiudere una casa rifugio a indirizzo segreto, ora rischiamo di chiudere del tutto. Siamo come quei marchi di moda che offrono vestiario basic. Ecco: noi garantiamo sostegno e aiuto basic, non riusciamo a fare di più. Operatrici, segreteria, consulenze, pulizia, utenze... hanno un costo. E come si fa se l’arrivo dei soldi non è mai certo?”. “Quest’anno ci finanzieranno?” - Il problema è tutto qui, nell’incertezza perenne. Quest’anno ci finanzieranno? Su quanto potremo contare? E quando? La promessa solenne della politica arriva sempre in una data vicina alla giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, il 25 novembre. L’annuncio è sempre uguale a quello dell’anno precedente: “Avrete più fondi”. E poi succede davvero, lo stanziamento diventa reale. Ma quanto impiega ogni singolo euro a percorrere la strada fra le casse dello Stato e gli enti locali ai quali è destinato? L’Ong internazionale Action Aid monitora da anni la filiera dei fondi statali destinati a istituire e potenziare case rifugio e centri antiviolenza su tutto il territorio nazionale (a esclusione delle province autonome di Trento e Bolzano). E il dossier che ha appena chiuso per l’anno 2019 rivela la lentezza esasperante con la quale i soldi (comunque non sufficienti) arrivano a destinazione. Mesi e mesi per trasferire i fondi dallo Stato alle Regioni e altri ancora perché le Regioni li distribuiscano ai centri che ne hanno diritto, con meccanismi di ripartizione, complicati e ad alto tasso di burocrazia. Per fare un esempio: al 30 settembre del 2019 risulta arrivato a destinazione il 63% dei fondi stanziati per gli anni 2015-2016 (17,5 milioni). Nel solo 2017 il governo mise a disposizione 12,7 milioni di euro dei quali, per ora, ai Centri è stato distribuito il 34%. Il peggio arriva con i fondi antiviolenza stanziati per il 2018. Si decise per 20 milioni il 9 novembre dell’anno scorso, il trasferimento della cifra alle regioni è avvenuto fra luglio e agosto di quest’anno. Risultato: ai Centri è arrivato per adesso soltanto lo 0,4%. Ancora nessun annuncio per lo stanziamento del 2019 che, si dice, sarà di 30 milioni e ovviamente arriverà in grave ritardo alla destinazione finale. Criteri stabiliti dalla legge sul femminicidio del 2013 - I Centri antiviolenza e le Case rifugio monitorati da Action Aid sono quelli finanziati dalle regioni secondo i criteri stabiliti dalla legge sul femminicidio del 2013. Alla fine del 2018 erano 280 Centri e 222 rifugi. Ma sul nostro territorio nazionale ne esistono altri: decine di piccole strutture che non hanno i requisiti per ottenere il finanziamento ma che in qualche modo riescono a sopravvivere contando su volontariato e donazioni private. Negli anni, tanti alla fine hanno dovuto arrendersi e ci sono regioni nelle quali salta agli occhi il calo delle strutture. La Sicilia, per esempio, che aveva 52 case rifugio nel 2013 e 22 nel 2018. Oppure la Campania, che fra il 2017 e il 2018 ha chiuso 9 Centri antiviolenza. Isabella Orfano, che per Action Aid Italia si occupa del Programma Diritti delle Donne dice che “noi ragioniamo sui numeri ma la prego di riflettere sempre anche sul fatto che quei numeri sono storie di violenza, sono donne, madri con figli da aiutare nella quotidianità. Garantire l’esistenza di Centri e rifugi è un dovere dello Stato che senza di loro non potrebbe offrire quel servizio”. Per le donne ospitate nelle case rifugio si chiede una retta al loro Comune di residenza ma succede che 90 volte su 100 i Comuni non pagano, o pagano con anni di ritardo. “Non si può certo dire a quelle donne: cercatevi un’altra sistemazione” considera con amarezza la presidente di Lilith. “E allora finisce che ci arrangiamo, come sempre”. La parola d’ordine è uguale per tutti: resistere. Il giudice Di Bella: “La ‘ndrangheta ci chiede di salvare i suoi figli” Corriere della Calabria, 20 novembre 2019 L’orrore di un figlio che uccide la madre per conservare l’onore, la violenza di un bambino costretto ad imbracciare un fucile, il legame di sangue che obbliga a continuare la guerra. La cultura della ‘ndrangheta si eredita, ma le maglie di quella prigione si allargano e la possibilità di rinascere diventa sempre più spesso realtà. A raccontare la “rivoluzione” che regala speranza ai figli della criminalità più potente al mondo è il Presidente del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria Roberto Di Bella, che dopo 25 anni di esperienza calabrese lascia il suo incarico per scadenza naturale. “Ho visto tanti ragazzi che avevano potenzialità e sentimenti per sperare in una vita diversa da quella riservata loro dalla “famiglia”. Fin da piccoli sono addestrati all’uso delle armi, sono abituati a violenza e vendetta contro chi trasgredisce il codice d’onore. In diverse occasioni ho assistito all’orrore di giovani che hanno tentato o ucciso le loro madri, colpevoli di non avere saputo “aspettare” i mariti detenuti o latitanti”, racconta l’autore del libro “Liberi di scegliere. La battaglia di un giudice minorile per liberare i ragazzi della ‘ndrangheta” edito da Rizzoli e scritto con Monica Zapelli che sarà presentato il 20 novembre nella sede di Cammino a Roma. “C’è stato un momento, quando abbiamo giudicato il quarto figlio di una famiglia di ‘ndrangheta, che abbiamo deciso che non potevamo stare più a guardare. Da qui la scelta di allontanarli temporaneamente dal loro contesto familiare e territoriale, per tutelarli e, al contempo, consentire loro di sperimentare nuovi orizzonti sociali, psicologici, affettivi. Una sorta di progetto Erasmus della legalità, con l’obiettivo di fornire loro strumenti culturali per renderli “Liberi di scegliere” il loro futuro”, racconta il giudice. Un progetto di salvezza a cui guardano anche i padri, non solo più le mamme. “Molte madri, quando hanno capito che potevamo aiutare i loro figli, ci hanno chiesto aiuto per lasciare la Calabria. Una donna che stava per finire in carcere ci ha affidato i suoi bambini perché crescessero lontano e non in un contesto familiare criminale. Qualche ragazzo si è rivolto direttamente a noi, ultimamente lo ha fatto anche un padre. “Ho sprecato quasi metà della mia vita in carcere, ora voglio riscattarmi ed essere presente positivamente nella vita dei miei figli. Voglio che abbiano una vita diversa e più felice della mia”“, le parole di aiuto rivolte al giudice. Complessivamente sono “oltre 70 i minorenni tutelati da provvedimenti di decadenza o limitazione della responsabilità genitoriale che riguardano una sessantina di famiglie”. Un successo possibile “grazie all’ausilio di associazioni come Libera e Unicef e con la rete di inclusione sociale, scolastica, economica e lavorativa realizzata da uno specifico protocollo (Liberi di Scegliere)”, ma questo non basta. “La questione minorile è cruciale e non occuparsene è una prospettiva miope. Agire su questo versante significa prosciugare quel bacino che alimenta il mito mafioso che affascina tanti giovanissimi. La ‘ndrangheta è l’organizzazione forse più potente al mondo, ma mantiene le sue radici in Calabria. Non si può relegare tutto a piccoli tribunali di frontiera, che intervengono solo su situazioni già patologiche, bisogna rivedere le risorse culturali ed economiche destinate alle politiche sociali di prevenzione”. In questo senso, “servirebbe un Piano Marshall per il Sud, assicurando capillari servizi socio-sanitari in tutti i territori di frontiera. Nella provincia di Reggio Calabria più della metà dei 98 comuni non hanno un assistente sociale. I consultori familiari sono sguarniti di personale”, sottolinea Di Bella. “Bisognerebbe potenziare le politiche occupazionali. Molti giovani, raggiunta la maggiore età, vengono a trovarmi per chiedere aiuto a trovare un lavoro. È una situazione drammatica. Non vogliamo deludere chi ripone fiducia nello Stato così cerchiamo di aiutarli attraverso la rete di protezione sociale ma non è semplice”. Anche sul fronte della scuola c’è tanto da fare. “Occorrerebbe ampliare l’offerta, con un’adeguata formazione degli insegnanti che vanno ad operare nei territori di frontiera. Servirebbe il tempo pieno per sottrarre i giovani dalla strada. I progetti educativi dovrebbero tendere a demistificare il mito mafioso raccontando ai ragazzi la sofferenza che provoca una vita all’insegna dell’illegalità. Bisognerebbe spiegare a tutti i giovani gli effetti devastanti - sociali, economici, ambientali e psicologici - che il fenomeno ‘ndrangheta provoca nel loro territorio e indirettamente nelle loro vite. Spero che il libro possa servire ai ragazzi a riflettere e ad evitare loro la sofferenza patita da molti coetanei”, conclude Di Bella. La Cassazione conferma l’ergastolo a Battisti: “Non doveva fuggire” di Claudia Guasco Il Messaggero, 20 novembre 2019 Respinta la richiesta di commutare la condanna in 30 anni di pena (21 effettivi). Ma l’ex terrorista spera ancora di uscire. Ricorso bocciato ed ergastolo confermato per Cesare Battisti, l’ex terrorista dei Proletari armati per il comunismo colpevole di quattro omicidi commessi alla fine degli anni 70. Dopo trentasette anni di latitanza, lo scorso gennaio è stato arrestato mentre ciondolava per le vie di Santa Cruz de la Sierra, in Bolivia: una squadra dell’Interpol lo ha ammanettato e il giorno dopo è entrato nel carcere di Oristano. E qui resterà senza riaffacciarsi alla libertà almeno per i prossimi tre anni, dopo di che potrà chiedere permessi e benefici penitenziari. Il suo ergastolo infatti non è ostativo, introdotto nel 1992 successivamente alle sue condanne. Il ricorso, spiega la Suprema corte in una nota, riguardava “la persistente efficacia dell’accordo di commutazione della pena stipulato tra le autorità italiane e brasiliane, in vista dell’estradizione dal Brasile, poi non avvenuta, nonché la legittimità della procedura culminata nell’espulsione del condannato dalla Bolivia”. Per l’avvocato di Battisti, Davide Steccanella, nei confronti dell’ex terrorista andava applicata la procedura di estradizione dal Brasile, anche se l’arresto è avvenuto in Bolivia, la quale prevede che la pena da espiare non sia il carcere a vita per effetto di un accordo tra l’Italia e il Paese sudamericano firmato nel 2017 dall’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando e il collega brasiliano del governo di Michel Temer. Secondo la difesa, inoltre, Battisti è stato espulso dalla Bolivia senza il rispetto delle norme internazionali e né adeguate garanzie. Ma la Cassazione “ha ritenuto corretta la decisione del Corte di assise di appello”, affermano gli ermellini. Lo scorso 17 maggio il collegio presieduto da Giovanna Ichino ha negato la commutazione della pena dell’ergastolo in trent’anni di reclusione. Se avesse accolto il ricorso, la pena si sarebbe ulteriormente ridotta a meno di 21 anni tenendo conto del periodo già trascorso in cella dall’ex terrorista anche all’estero e agli sconti legati all’indulto. Ma i giudici milanesi hanno accolto la tesi sostenuta dal pg Antonio Lamanna: se Battisti avesse voluto far valere l’accordo di estradizione italo-brasiliano “non avrebbe dovuto allontanarsi volontariamente dal Brasile e non avrebbe dovuto opporsi alla conclusione della procedura estradizionale con la sua consegna all’Italia” dal Paese. In sostanza, nel momento in cui è scappato in Bolivia e da lì è stato espulso, per lui sono scattate le norme dei codici italiani. Perché, come ha rilevato il pg Lamanna, “nell’ambito di tale espulsione non può rivivere l’accordo italo-brasiliano; nel momento in cui il latitante cambia lo Stato ove si rifugia, è con tale Stato che andranno presi eventuali accordi estradizionali, non con quello precedente ormai senza legittimazione alcuna”. Quanto alle modalità di trasferimento, precisano i giudici della Corte d’assise d’appello, è tutto regolare: il 13 gennaio nei confronti di Battisti è stato emesso un provvedimento di “salida obligatoria” (uscita obbligatoria), per ingresso illegale in Bolivia, lo stesso giorno è stato firmato “l’acta de entraga” (l’atto di consegna) alla polizia italiana “affinché venisse condotto a su pais del origen Italia”. I due atti sono stati prodotti contemporaneamente, quindi per i magistrati non c’è ragione per cui Battisti avrebbe dovuto essere riconsegnato alla polizia federale brasiliana come sostenuto dalla difesa. “Noi siamo una famiglia in attesa, vediamo cosa succederà in futuro”, è il laconico commento di Antonio, il nipote di Battisti, al verdetto della Cassazione. “Noi continuiamo ad andare a trovarlo in carcere. È abbastanza sereno, fa quello che ha sempre fatto: scrive romanzi”. Del resto per l’ex terrorista dei Pac, a tempo debito e dopo un concreto percorso di rieducazione, potranno riaprirsi le porte del carcere. Battisti, che oggi ha 64 anni, “potrà godere dei benefici penitenziari, in virtù di una progressione trattamentale che è diretta attuazione” del principio costituzionale “della funzione rieducativa della pena anche per i condannati all’ergastolo”. Ergastolo a Cesare Battisti. Ma il diritto a ricominciare vale per lui e per noi di Renato Farina sussidiario.net, 20 novembre 2019 La Cassazione ha bocciato il ricorso di Cesare Battisti e confermato l’ergastolo. Ora chiederà di usufruire della legislazione premiale. E noi trattiamolo da uomo. La Cassazione ha deciso. Il ricorso di Cesare Battisti non è passato. Condannato all’ergastolo in Italia, l’accordo con il Brasile per la sua estradizione prevedeva la riduzione della pena a 30 anni, che è il massimo previsto dal codice del Paese dove si era rifugiato. C’è un problema: Battisti fuggendo in Bolivia e facendosi catturare lì non può reclamare un patto che lui sottraendosi alla giurisdizione brasiliana ha tradito. La logica lo dice, non c’entra nulla la rivalsa. Guai se i giudici della nostra suprema corte avessero sentenziato in base all’opportunità politica. E a questo punto conviene anticipare le polemiche che presto o tardi scoppieranno quando il detenuto ergastolano Battisti chiederà di usufruire della legislazione “premiale” che - come ha stabilito la Corte Costituzionale il mese scorso - si applica sempre, perché è disumano negare permessi ad personam sulla base dell’antica ferocia dei delitti compiuti. Fino a poco tempo fa “l’ergastolo ostativo” in vigore per mafiosi e terroristi impediva l’applicazione di queste misure tese a umanizzare la pena e a rieducare qualunque detenuto, secondo il dettato dell’art. 27 della Carta, purché non risultasse sospetto di tessere disegni criminali. Guai a scandalizzarsi oggi se Battisti ha fatto ricorso, e questo valga anche per qualunque sua iniziativa per accorciarsi e alleviare la pena. Non sarà la sofferenza di un assassino a far girare meglio il mondo e a dare sollievo autentico alle vittime e neppure ai loro congiunti. Non è questione di mollezza contro rigore, ma del rispetto che tutti dobbiamo alla comunità in cui viviamo e alle sue leggi sovrane. Bisogna riconsiderare le cose dall’origine, andando all’essenza della questione. Cesare Battisti è un uomo, ovvio si dirà. Ma è il caso di ricordarcelo. Non è un simbolo di alcunché, ma è un uomo con un nome e cognome. Non è l’emblema del terrorista che ha ucciso a sangue freddo e per lunghi anni l’ha fatta franca, ed ora raffigura con la sua faccia antipatica e reclusa la vittoria della giustizia, per cui tiè, si vergognino coloro che non si sdegnano per i suoi tentativi di addolcire la sua condizione carceraria. È un uomo, un uomo recluso, ma un uomo. Non è neppure il prototipo che taluni mitizzano dell’ideale rivoluzionario e del perseguitato indocile. Battisti è un uomo; un colpevole; una persona colpevole e perciò privata della libertà. Pentito o no non possiamo avere la pretesa di saperlo, né di modulare la pena già decretata sulla percezione che abbiamo della sua coscienza contrita. In uno Stato di diritto quale la nostra Repubblica vuole essere io credo debba essere riconsiderata la stessa pena dell’ergastolo. Papa Francesco ha detto e ripetuto ancora lo scorso 18 settembre: “L’ergastolo non è la soluzione dei problemi - lo ripeto: l’ergastolo non è la soluzione dei problemi, ma un problema da risolvere. Perché se si chiude in cella la speranza, non c’è futuro per la società. Mai privare del diritto di ricominciare!”. Vale anche per Battisti? Vale anche per me. Autolesioni punite se costituiscono frode assicurativa di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 20 novembre 2019 Corte di cassazione - Sentenza 46895/2019. Anche il concetto di ordine pubblico, come quello di buon costume, è un concetto giuridico in continua evoluzione e adattamento. Tanto che la Cassazione, intervenendo per confermare una condanna per lesioni personali pluriaggravate nell’ambito di una frode assicurativa (l’azione violenta era stata concordata dalla vittima, che puntava a monetizzare la propria menomazione), affronta una serie di questioni relative all’applicazione dell’articolo 5 del Codice civile che vieta gli atti di disposizione del proprio corpo in contrasto con legge, ordine pubblico o buon costume. La sentenza, che muove da una veloce ricognizione della parallela espansione sia del concetto di salute, sia di quello di liberta personale, con un’attenzione particolare anche alla disciplina internazionale, osserva che “si rende necessaria una rilettura costituzionalmente orientata dell’articolo 5 del Codice civile che ha condotto la dottrina e la giurisprudenza a mettere in disparte quelle diminuzioni permanenti dell’integrità fisica finalizzate al mantenimento o al ristoro della salute (mutamento di sesso), all’autodeterminazione procreativa (sterilizzazione) o di solidarietà disinteressata (donazioni di organi e tessuti), intesa quale benessere complessivo dell’individuo”. In definitiva, avverte la Corte, viene ad assumere un’importanza particolare la funzione sociale ed economicamente disinteressata della menomazione fisica, che costituisce giustificazione della libertà di disposizione del corpo in una prospettiva costituzionale. Infatti, sottolinea la Cassazione, è stato messo in evidenza come, con riferimento al caso dell’autolesione, questi atti dovrebbero essere considerati illeciti almeno nel caso vadano a danneggiare gli interessi di terzi estranei, come quando la lesione è procurata a sé stessi per evitare il servizio militare oppure per frodare un’assicurazione contro gli infortuni. È in questo contesto che il riferimento all’ordine pubblico si presenta con la massima flessibilità e capacità di adattamento, tanto da assicurare la forza di coesione che unisce diversi istituti del medesimo ordinamento giuridico. La Corte allora dichiara di volere affermare una “versione mite” della clausole generale dell’ordine pubblico che non mette limiti ai diritti fondamentali dell’individuo in funzione delle esigenze superiori dello Stato, ma pone limiti all’autonomia dei privati per il rispetto di diritti fondamentali dell’individuo e della convivenza sociale. L’articolo 5 così va considerato espressione della necessità di tutelare i diritti costituzionali della libertà personale e della salute, utilizzando le leve dell’ordine pubblico e del buon costume. Strumenti, questi ultimi, con i quali contrastare quegli atti di disposizione del corpo inaccettabili dal punto di vista dei parametri costituzionali perché considerano il corpo umano come fosse merce, attraverso la promessa o la corresponsione di denaro per la menomazione fisica. Esercizio abusivo della professione anche se si stratta di attività stragiudiziale di Giampaolo Piagnerelli Il Sole 24 Ore, 20 novembre 2019 Corte di cassazione - Sezione II penale - Sentenza 19 novembre 2019 n. 46865. Riconosciuto l’abusivo esercizio di una professione al soggetto, che, spacciandosi per avvocato, abbia trattato la liquidazione di un sinistro in nome e per conto di un cittadino che si era inconsapevolmente affidato a lui. I fatti - La Cassazione - con la sentenza n. 46865/19 - ha chiarito che il finto avvocato avesse incassato gli assegni. La Corte ha confermato il giudizio di responsabilità nonostante l’attività svolta dall’imputato non richiedesse l’abilitazione professionale. Sul punto i Supremi giudici hanno ricordato come la legge 247/2012 che disciplina l’ordinamento della professione forense espressamente prevede la competenza degli avvocati in relazione all’attività professionale di consulenza e di assistenza stragiudiziale, se svolta in modo continuativo, sistematico e organizzato. I giudici di merito avevano già evidenziato la lunga durata dell’assistenza legale dall’imputata al cittadino, protrattasi per circa tre anni e relativa a due pratiche di risarcimento del danno, l’una concernente le conseguenze pregiudizievoli del sinistro stradale subito dal querelante nel 2007, l’altra la responsabilità dei medici dell’ospedale che l’avevano avuto in cura. Già la Corte d’appello aveva evidenziato il modus operandi del finto legale. E allora quest’ultimo aveva accompagnato l’infortunato in occasione di alcune visite mediche, aveva predisposto una delega a trattare con la compagnia assicuratrice e una falsa procura speciale legittimante l’incasso a firma di un notaio, circostanze queste che hanno deposto per un’attività non occasionale e temporanea, ma oggetto di accurata pianificazione. I Supremi giudici hanno rilevato, inoltre, come lo schema della truffa all’induzione in errore deve conseguire l’ingiusto profitto con altrui danno e nell’indispensabile rapporto eziologico tra la condotta strumentale e l’evento e non è giuridicamente necessitata la coincidenza dell’indotto in errore con il soggetto passivo del danno che pure, nella specie ricorre. Il cittadino ingannato, infatti, avendo affidato al finto legale la cura dei propri interessi conferendole apposita delega per trattare il risarcimento del danno a seguito dei sinistri di cui era rimasto vittima nel 2007, per effetto dell’accreditamento dell’imputato come avvocato, subiva il danno costituito dalla mancata percezione delle somme a tale titolo liquidate dalla compagnia assicuratrice e lucrate dalla ricorrente. Liguria sotto accusa: “Unica regione assieme alla Basilicata senza Garante dei detenuti” di Donatella Alfonso La Repubblica, 20 novembre 2019 A palazzo Ducale la Conferenza Regionale del Volontariato Giustizia. La Liguria, unica regione in Italia insieme alla Basilicata, non ha un garante delle persone detenute: in compenso, da tre anni - da quando cioè nel 2016 il garante Nazionale Mauro Palma, visitando le strutture liguri, aveva sollecitato un impegno a dotarsi di questa figura, prevista da una legge del 2014 dopo la sanzione comminata all’Italia l’anno precedente - è ferma in commissione una proposta di legge bipartisan per istituirlo. E, solo quest’anno, nelle sovraffollate carceri liguri si sono contati due suicidi e undici tentativi di suicidio da parte dei detenuti, con una situazione di crescente disagio sia per chi è dietro le sbarre a scontare una condanna, sia per chi ci lavora, dagli agenti agli educatori. “Sinceramente non riusciamo a spiegarci il perché di questa inattività - dice Ramon Fresta, portavoce della C.R.V.G.L. - Conferenza Regionale Volontariato Giustizia Liguria, una Onlus che mette insieme associazioni di volontariato e di promozione sociale attive in ambito penitenziario. A seguito del richiamo del Garante nazionale, che incontrò anche i vertici regionali, fu presentata in Regione una proposta di legge in merito firmata dai consiglieri Pastorino, Vaccarezza, Salvatore e Rossetti, quindi assolutamente bipartisan, da Forza Italia al Pd, dalla sinistra ai Cinque Stelle. In quel periodo il garante mancava anche in Calabria e nella provincia autonoma di Trento, che poi hanno legiferato in merito: siamo rimasti noi e la Basilicata. La proposta di legge, pur avendo riportato il voto favorevole in commissione su tutti gli articoli, si è fermata lì. Un problema economico? Eppure il garante regionale costerebbe meno di un consigliere…e allora? C’è qualche altra ragione, forse il timore che si scoprano fatti inquietanti o che si vadano a garantire persone poco gradite, come i migranti accusati di clandestinità?”. Fresta fa riferimento alle denunce di Bruno Mellano, Garante del Piemonte, che ha permesso di far scoprire gli abusi nella Casa Circondariale Lorusso e Cutugno a Torino. Anche Mellano sarà presente domani, mercoledì 20 novembre alle 10.30 (Palazzo Ducale Sala Montale, ammezzato lato est) all’incontro in cui la Conferenza lancerà un forte richiamo alla Regione Liguria e a tutte le forze politiche che la compongono perché si affrettino i tempi di approvazione della legge e di scelta del Garante: ben sapendo che, ormai, si perderà un altro anno. Con Fabio Ferrari, responsabile regionale Crvgl (ne fanno parte Acat, Afet - Aquilone, Arci, Associazione Amici di Zaccheo, Associazione Libera, Acli, Auxilium Caritas, Associazione Centro di solidarietà di Genova, Compagnia delle Opere, Veneranda Compagnia della Misericordia) e Bruno Mellano, ci saranno anche Massimo Benoit di Torsegno a nome dell’ Unione Forense dei diritti umani e un rappresentante dell’associazione Antigone che farà il punto sulla situazione delle carceri liguri: un dato per tutti, quello di Marassi, dove 700 detenuti si stipano in 400 posti, mentre la mancanza ormai da anni di un carcere a Savona significa problemi seri di sovraffollamento per le case circondariali di Imperia e soprattutto Sanremo. Firenze. Sollicciano, detenuti senza soldi: “fermi da 2 mesi all’ufficio postale” di Laura Montanari La Repubblica, 20 novembre 2019 Vaglia bloccati per la nuova direttiva che chiede la firma autenticata per il ritiro, rabbia dei reclusi. L’allarme del direttore del penitenziario: “Problemi di sicurezza, si deve intervenire”. Un centinaio di vaglia postali giacciono parcheggiati al carcere di Sollicciano a Firenze. Contengono denaro che i detenuti vorrebbero riscattare, ma non possono. Sono una cinquantina quelli che sono rimasti al verde e non hanno nemmeno più i soldi per permettersi la “spesina” (piccoli acquisti che vanno dalla pasta al caffè). “Una quindicina di detenuti da settembre non sta riscuotendo nemmeno la pensione” spiega il direttore di Sollicciano Fabio Prestopino. È stato lui a segnalare il problema in una lettera inviata al direttore dell’ufficio postale di Scandicci, alla prefetta Laura Lega, al presidente del tribunale di sorveglianza di Firenze e al garante per i detenuti: “Tutto nasce da una direttiva delle Poste che chiede per i prelievi o per altri servizi postali che devono essere delegati, di autenticare la firma attraverso un pubblico ufficiale”. Non sarebbe un ostacolo se non si trattasse di detenuti: “E poi non è chiaro se basta un addetto del Comune o se serve l’intervento del notaio” riprende il direttore che nella lettera scrive: “Rimane oscuro il motivo per cui Poste Italiane abbiano improvvisamente e senza alcuna comunicazione autonomamente adottato le procedure in parola senza verificare le ripercussioni sulla istituzione penitenziaria e soprattutto sulle persone detenute e sulle loro famiglie”. Un richiamo a risolvere rapidamente la questione viene dal garante regionale dei detenuti Franco Corleone: “Pensiamo se non sia il caso di far entrare in carcere un pubblico ufficiale del Comune”. Il direttore di Sollicciano spiega che sono giacenti 140 vaglia postali inviati a beneficiari detenuti e rifiutati dall’ufficio postale di riferimento, cioè quello di Scandicci. “Nell’evidenziare le possibili ripercussioni sull’ordine e sulla sicurezza interna a questo penitenziario, qualora perduri questa situazione,.. si sollecita l’ufficio postale a consentire l’immediato incasso di questi vaglia e il buon fine delle altre operazioni solitamente giacenti per conto delle persone detenute e nel contempo a volersi attivare per la comune individuazione di procedure”. Il direttore di Sollicciano chiede di sbloccare il nodo velocemente e aggiunge che da una verifica informale, risulterebbero soltanto due casi in Toscana di uffici postali che si attengono rigidamente a queste direttive, uno è Sollicciano, l’altro Livorno. In realtà, secondo altre fonti, il problema è generalizzato e vale per tutti gli istituti di pena. Intanto a Sollicciano crescono i malumori fra i detenuti già alle prese con le infiltrazioni di umidità di una struttura che nei giorni scorsi ha dovuto chiudere uno dei corridoi della sezione maschile perché si era allagata per la pioggia. Spoleto (Pg). I detenuti diventano educatori cinofili e sistemano il canile comunale di Sara Fratepietro tuttoggi.info, 20 novembre 2019 In carcere saranno ospitati i cani più problematici, 80 detenuti coinvolti nel progetto “Fuori dalle gabbie”. Da una parte c’è l’obiettivo di favorire il reinserimento dei detenuti, dall’altra quella di favorire le adozioni dei cani ospitati nel canile comunale di Spoleto. Nasce per questo il progetto “Fuori dalle gabbie”, promosso dalla Fondazione Cavecanem con la collaborazione del Comune di Spoleto e della Casa di reclusione di Maiano. La prima fase si è appena conclusa ed i risultati sono stati illustrati martedì mattina all’interno del penitenziario alla presenza di alcuni dei reclusi coinvolti oltre che dei promotori. A raccontare questa bella esperienza è anche un primo video, a cui ne farà seguito un altro al termine di tutto il progetto. “La fondazione CaveCanem - ha spiegato la vicepresidente Federica Faiella - nasce per finanziare progetti che possono diventare dei modelli, aiutando cani e gatti randagi. In questo caso la collaborazione con il Comune e la casa di reclusione è iniziata a luglio e tanti detenuti hanno presentato domanda”. Circa 80 (tutti ospitati nel regime di media sicurezza) quelli coinvolti, che stanno partecipando ad un percorso formativo che li porterà al termine ad assumere la qualifica di educatore cinofilo. Il progetto, però, è molto più ampio. Un bel gruppo di detenuti - quelli autorizzati a partecipare ad attività esterne - da mesi stanno sistemando il canile comunale di Colle Marrozzo, sistemando sia gli spazi verdi che i box degli animali. In questi giorni, poi, sono iniziati anche i lavori di allestimento negli spazi aperti all’interno del carcere di alcuni box che ospiteranno a partire dalle prossime settimane una sorta di sede distaccata del canile. A Maiano, infatti, saranno portati i cani che hanno bisogno di attenzioni costanti: mamme con cuccioli, quelli più anziani, alcuni con problemi comportamentali. Ad occuparsi di loro saranno gli stessi detenuti appositamente formati, con il delicato compito di prepararli in modo migliore ad una futura vita in una famiglia. L’obiettivo finale è infatti ovviamente quello di favorire maggiormente le adozioni dei cani (attualmente 120 nel canile comunale). Presente a Spoleto per l’occasione la presidente della fondazione CaveCanem, Adriana Possenti, che ha voluto ringraziare l’amministrazione comunale e quella penitenziaria, oltre agli agenti ed ai detenuti. Presenti all’incontro anche il direttore del carcere Giuseppe Mazzini, l’assessore all’ambiente Maria Rita Zengoni, il comandante della polizia penitenziaria Marco Piersigilli, il responsabile dell’area trattamentale Pietro Carraresi. I lavori al canile comunale termineranno al massimo entro il mese di febbraio 2020, mentre già prima di Natale i cani bisognosi verranno accolti nel carcere per iniziare il percorso di rieducazione e recupero seguiti dai detenuti formati. “È la prima volta, da quindici anni a questa parte, che riusciamo a far uscire i cani dal canile - ha spiegato la responsabile dell’ufficio ambiente del Comune di Spoleto Federica Andreini - si tratta di un percorso particolarmente importante, perché permetterà ai cani coinvolti di vivere a diretto contatto con nuove persone, avvicinandoli gradualmente ad una condizione similare a quella della vita in famiglia”. “In questi anni - evidenzia Piersigilli - abbiamo visto che i detenuti impegnati il più possibile in attività varie hanno una vita più normale e presentano meno criticità all’interno del penitenziario. Erano anni che non entravano cani all’interno del carcere”. Cagliari. Leggere in carcere con papà: la Biblioteca Metropolitana sbarca a Uta cittametropolitanacagliari.it, 20 novembre 2019 Leggere assieme al proprio papà o alla propria mamma, anche dentro le mura del carcere. Il programma “Nati per leggere” varca la soglia della Casa Circondariale Ettore Scalas di Uta, con l’obiettivo di promuovere la lettura come momento di crescita del bambino e della relazione tra genitore e figlio, anche in situazioni di difficoltà. L’iniziativa, promossa dal Sistema Bibliotecario di Monte Claro della Città Metropolitana di Cagliari, è stata presentata ieri pomeriggio nella biblioteca dell’istituto penitenziario. All’evento hanno preso parte una decina di detenuti con le loro famiglie, il direttore e gli educatori del carcere, una pediatra e alcuni addetti della Biblioteca Metropolitana. L’inedito incontro ha preso il via con la lettura di una filastrocca e di una storia per bambini, seguita dalla presentazione del programma “Nati per leggere”, l’iniziativa pedagogica che da 20 anni promuove la lettura ad alta voce rivolta ai bambini, in particolare fino ai 6 anni, come strumento volto a instaurare un rapporto emozionale tra adulto e bambino. La pediatra ha poi illustrato le evidenze scientifiche dei benefici della lettura nello sviluppo cerebrale dei più piccoli e nell’instaurazione di una maggiore affettività tra genitori e figli. I bambini presenti - di diverse fasce d’età - sono stati intrattenuti dalle bibliotecarie con letture ad alta voce, mentre negli incontri successivi a leggere i libri saranno i genitori. Il primo dei quattro appuntamenti in programma si terrà il 2 dicembre prossimo. Non è la prima volta che un programma di lettura varca la soglia di una struttura carceraria, ma è la prima volta in cui coinvolge oltre al detenuto anche il suo nucleo familiare, in un clima di armonia. La Città Metropolitana di Cagliari ringrazia la direzione della Casa Circondariale di Uta per la grande attenzione e professionalità dimostrata verso il progetto. Chiavari (Ge). La biblioteca comunale di Lavagna riapre grazie a un detenuto Il Secolo XIX, 20 novembre 2019 Stipulata una convenzione con il carcere. “Dopo il porticato Brignardello la città si riappropria anche della biblioteca civica, ne siamo molto orgogliosi, ci abbiamo lavorato tanto e ci siamo riusciti”. Commenta così, il sindaco di Lavagna Gian Alberto Mangiante, la riapertura della biblioteca comunale, da ieri mattina, grazie ad una convenzione con la casa circondariale di Chiavari. “Diamo vita ad un progetto di inclusione sociale: sarà un detenuto ad aprire e chiudere, tutti i giorni, i locali di piazza Ravenna. Per noi è sempre stata una priorità poterla riconsegnare alla sua funzione”. La biblioteca sarà pertanto aperta dal lunedì al venerdì dalle 8.30 alle 12.30 e dalle 14 alle 18. Il prestito dei libri, fino al 31 dicembre 2019, è limitato al lunedì e al venerdì dalle ore 9 alle 12.30 e il mercoledì dalle 15.30 alle 19. “Procediamo con costi inizialmente ridotti allo zero, per le casse dello Stato e soprattutto per quelle comunali, e successivamente con una spesa assolutamente contenuta; aspetto non trascurabile per un Comune in dissesto” aggiunge il primo cittadino. Con l’inizio 2020 sarà emanato un bando per la ricerca di un bibliotecario “e ci avvarremo della collaborazione del signor Francesco Langella, presidente dell’associazione biblioteche italiane, per la stesura del documento”, integra l’assessore alla cultura Chiara Oneto, mentre sostituisce il cartello con i nuovi orari. Ricordiamo che la biblioteca era rimasta chiusa, per carenza di personale, da fine luglio e per tutto agosto. Poi era stata aperta solo al mattino, dal 16 settembre. Da ieri, è regolarmente accessibile, cinque giorni a settimana. “La biblioteca è un luogo che ha sempre costituito una priorità per noi, e purtroppo è stato possibile riconsegnarla alla città, solo a seguito una serie di iniziative non andate a buon fine con le associazioni di volontariato, poiché avevano proposto soluzioni velleitarie, che non permettevano il completo funzionamento del servizio, come invece ora siamo in grado di offrire”, specifica Mangiante. “Con l’anno nuovo vogliamo potenziare l’attività, e proporre ai cittadini un servizio ancora più completo, che ci permetta di ampliare l’orario di disponibilità per il prestito dei volumi”, aggiunge Oneto. Qualche primo commento è arrivato attraverso i social. Il consigliere regionale Pd Luca Garibaldi, che ha portato anche il caso in consiglio regionale, avanza due ragionamenti: “È importante che si sia scelto di riattivare un servizio grazie ad un progetto di inclusione sociale, bisogna andarne fieri, ma occorre fermarsi qui. Nelle biblioteche il ruolo dei volontari è centrale, ma è fondamentale che ci sia personale preparato e qualificato che le gestisca. Se i Comuni non ce la fanno, servirebbe un sostegno pieno della Regione che ha le competenze e le risorse per farlo”. Ancora da Facebook, Marilena Vittori, presidente dell’associazione culturale l’Agorà di Lavagna, dice: “Credo che una grande parte di associazioni abbia tentennato sul dare disponibilità nel momento in cui non c’era un responsabile e nessuna preparazione in merito. Penso che da quell’incontro le cose siano cambiate, ora esiste un responsabile, quindi anche da parte nostra c’è maggiore disponibilità. Ritengo che tutte le associazioni abbiano dato molto a questa città anche nei periodi bui, e in situazioni di responsabilità e sicurezza, non si sono mai tirate indietro”. Parma. Vivere in prigione: la cella di un detenuto tra legge e diritti umani di Laura Storchi parmateneo.it, 20 novembre 2019 Come si riabilita alla società una persona detenuta? Ne parla l’incontro all’Università di Parma. C’è chi vorrebbe un carcere con regime duro per tutti, una sorta di deterrente e avvertimento per chi pensa che commettere un reato poi non si paghi così severamente. Ma forse la strada migliore è quella di rieducare il reo così da poterlo reinserire come individuo migliore nella società. Ottime premesse quelle delle legislazioni nazionali e internazionali, focalizzate sui diritti umani e sulla conduzione di una vita normale anche nella cella, ma sarà davvero così la situazione carceraria odierna o quella delle legge è - per ora - un’utopia? Giovedì 14 novembre 2019, presso l’Aula Filosofi del Palazzo Centrale dell’Università di Parma, si è tenuto l’ultimo appuntamento del ciclo di incontri organizzati dal PUP, il Polo Universitario Penitenziario, con il tema “La cella di un detenuto: com’era ieri, come è oggi e come sarà domani”, per rispondere a questo interrogativo facendo il punto della situazione. Il legame che unisce Università e Carcere di Parma è ormai consolidato ed è volto a implementare il diritto allo studio dei carcerati non solo tramite l’istituzione del polo didattico e la messa a disposizione di materiale e docenti, ma anche attraverso attività che cerchino di unire e stimolare la cooperazione tra studenti detenuti e non. Per questo è fondamentale la sensibilizzazione della popolazione sul tema del diritto allo studio come costituente di umanità. Presenti all’incontro non solo studenti universitari, ma anche i maturandi di alcune scuole superiori parmigiane. Vincenzo Picone, regista e curatore di laboratori teatrali presso il Teatro due di Parma, che ha letto alcuni testi, poesie e lettere scritte dagli studenti detenuti e dagli studenti universitari loro tutor, riguardanti i propri vissuti e sviluppati nell’ambito del laboratorio 2018/2019 ‘Il castello dei destini incrociati’. “Se all’inizio dei lavori erano attive delle differenze, date ad esempio dalla divisa, poi queste sono finite e vi è stato uno scambio di ruoli. La vicinanza dei corpi genera pensiero, le opere non sono di uno o dell’altro ma di tutti gli studenti insieme” spiega Picone. Il compito dell’università, per persone detenute è “tenere viva la passione e far stare bene la persona e coinvolgerla. Quest’anno il tema delle mie lezioni sono i tarocchi, ovvero simboli e archetipi che tutti viviamo e che tutti uniscono” dichiara Vincenza Pellegrino, docente di sociologia dei processi culturali all’università di Parma. La sfida di questo incontro è quello di cambiare i linguaggi e gli stereotipi legati a quel luogo, far ragionare i ragazzi da una sfera micro e concreta a quella macro dei pensieri astratti e dei valori, far capire loro cosa un’istituzione faccia per la cittadinanza. Sfatare i luoghi comuni - É questo l’obiettivo di Fabio Cassibba, docente di diritto penale all’Università di Parma. Secondo l’opinione comune, infatti, il carcere viene visto come un giusto castigo e il mezzo per l’espiazione della pena, per questo non ci rallegriamo di sapere che i detenuti protestano per avere una televisione o, quando vediamo le loro condizioni, dallo stipamento nelle celle al fatto che devono fare domanda anche solo per avere una coperta in più, sorge spontaneo il pensiero del “tanto se lo sono meritato”. In realtà questa percezione collettiva è antitetica alla legge nazionale e sovranazionale che, nella loro essenza democratica, devono garantire senza eccezioni il rispetto dei diritti umani quali il valore della persona, l’inviolabilità della libertà personale, il divieto di trattamenti disumani e degradanti, finalità rieducativa della pena e diritto alla salute. “Molto spesso si pensa al carcere come uno strumento di sofferenza per l’ammenda del reo. Ma in realtà la Costituzione prevede come unica finalità della pena la rieducazione del condannato” afferma il relatore. Un tema importante toccato durante l’incontro è quello dell’architettura delle carceri che deve essere regolata dalla giurisdizione poiché è forma del potere statale. Nel passato la prigione era spesso nei sotterranei o nelle segrete di un castello, poiché era il luogo adibito alla segregazione e all’oblio, mentre le pene erano pubbliche e spettacolarizzate tra la popolazione. La situazione ha cominciato ad evolversi con l’illuminismo giuridico, di cui l’Italia è stata la culla grazie al lavoro di Cesare Beccaria. Si è iniziato così a misurare la civiltà di una nazione non per come tratta i ricchi, ma per come tratta le persone deboli; ed è proprio in quell’epoca che la pena comincia ad assumere una funzione rieducativa. Ma com’è la cella oggi? “Oggi nella cella il detenuto vive e lavora, cucina, si riunisce, espleta i suoi bisogni fisiologici” dichiara il professor Cassibba facendo riferimento alla legge italiana ed europea. Per tanto la cella, come spazio giuridico, deve garantire la sicurezza, non solo verso la popolazione esterna, ma proprio quella tra i detenuti, la libertà residua, poiché lo Stato deve togliere solo la libertà di movimento, e l’individualizzazione per una pena giusta. Tuttavia la situazione italiana mostra ancora importanti lacune: la Corte Europea di Strasburgo ha sanzionato l’Italia per il sovraffollamento delle carceri del +120/150%, che intacca in maniera importante il diritto alla salute, e la Corte Costituzionale è intervenuta per garantire i diritti umani anche a chi si trova in regimi particolari quali l’isolamento. In quest’ultimo caso, nonostante il particolare tipo di detenzione serva a spezzare i legami di appartenenza con il contesto criminoso da cui arrivano, i detenuti in isolamento si ritrovavano il divieto - diciamolo pure, assurdo- di non poter tenere più di tre libri nella propria cella o di non poter cucinare. E come sarà la cella nel futuro? “Non lo so come sarà domani una cella ma si deve mantenere il diritto alla speranza, che è un diritto di cui gode anche il carcerato. La giustizia non si deve arrestare alle porte del carcere”, conclude il professore. Legge vs realtà - “Il diritto non ha valore descrittivo. La pena umilia, tortura e non si risolve nella limitazione della libertà di movimento ma fa ammalare fisicamente e psicologicamente. La situazione non si capisce dall’ordinamento e dalle circolari ma dall’esperienza”, così interviene Alvise Sbraccia, docente dell’Università di Bologna e membro dell’associazione Antigone, osservatorio nazionale delle condizioni di detenzione. Come spiega la professoressa, fare una generalizzazione sulla situazione carceraria italiana è difficile perché vi sono istituti efficienti ed altri meno, tuttavia sembra che vi sia una diffusa manipolazione della realtà: una circolare ministeriale impone al personale interno alla prigione di sostituire il nome ‘cella’ con quello di ‘camera di pernottamento’, quasi per richiamare un’idea di distinzione tra giorno/notte, attività/riposo ed evocare una dimensione privata. La realtà è ben diversa. Fino a otto anni fa vigeva il principio di unicellularità - ovvero un detenuto per ciascuna cella - ma in realtà presto in ciascuna cella arrivarono a convivere due o anche sei individui in brande a castello, dove chi dorme più in alto è a 5 cm di distanza dal soffitto. Gli spazi ristretti obbligano anche a deambulare per la cella uno alla volta e, quello che era il dover stare nella cella per 20 ore al giorno, si è trasformato quasi in un obbligo di stare a letto. Le condizioni più critiche si vedono poi d’inverno e d’estate quando il gelo, il caldo e l’afa si estremizzano in spazi così angusti. Le conseguenze psicofisiche sono quelle di un’ampia depressione, con l’uso di psicofarmaci e la pratica del tagliarsi le vene, fino ai casi estremi di morte. “Come si fa a restituire un individuo migliore alla società se lo si detiene in queste condizioni?” chiede il professore Cassibba alla platea. Se infatti nel passato la tortura e la segregazione erano apertamente dichiarati e mostrati in pubblico, ora si vede un’inflizione del dolore e una violenza generale più implicita, che va decisamente contro i principi costituzionali. Nonostante la situazione sia ancora critica, paragonando il sistema carcerario italiano con quello ben più efficiente norvegese, si sta cercando di fare dei passi avanti. Dimostrazione di questo sforzo sarebbe la direttiva ministeriale “Celle aperte” del 2011 che impone di tenere le celle aperte durante il giorno e che, sebbene non trasformi il sistema, cambia sicuramente l’esperienza dei soggetti che in quegli ambienti vi vivono. “É solo nello scambio che produce contenuti e nella vita relazionale che si può dare un aiuto alla rielaborazione collettiva, e non solo individuale, della pena”, conclude Sbraccia. Venezia. Totò e Vicé: due clochard e una panchina in scena al carcere della Giudecca di Antonella Barone gnewsonline.it, 20 novembre 2019 “Totò e Vicé sono dei personaggi realmente esistiti. Vagavano su e giù per i quartieri della città, personaggi un po’ tonti, un po’ in aria; sembravano inventarsi ogni sospiro, ogni passo”. Così il drammaturgo palermitano Franco Scaldati, scomparso nel 2013, descriveva le due figure che avevano ispirato la coppia protagonista di una delle sue opere più poetiche e struggenti. Enzo Vetrano e Stefano Randisi, attori, autori e registi, hanno portato diverse volte in scena (e, nel 2017 anche sullo schermo cinematografico) i due clochard che vivono in simbiosi in una dimensione notturna, sospesa attorno allo spazio di una panchina, ricevendo il plauso unanime della critica teatrale. Oggi, nell’ambito del progetto “Passi Sospesi” di Balamos Teatro e in occasione della Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne, Vetrano e Randisi porteranno Totò e Vicé nel teatro della Casa di reclusione femminile di Giudecca. L’iniziativa, realizzata grazie alla collaborazione tra Balamos teatro e Teatro Stabile di Venezia, è sostenuta da International Network Theatre in Prison (Iti - Unesco partner), Coordinamento Nazionale di Teatro in Carcere e Associazione Nazionale dei critici di Teatro. Allo spettacolo saranno presenti, oltre ai detenuti, anche un gruppo di spettatori esterni composto da studenti del II anno dell’Accademia Teatrale Veneta, studiosi, critici e accademici. Al termine è previsto un incontro tra la compagnia e il pubblico. “Sarà un’occasione - dicono gli organizzatori - per fare una riflessione sul ruolo del teatro in carcere e confrontarsi sul rapporto tra il carcere e il territorio per capire se e come la società possa contribuire nel percorso rieducativo della pena. In questa circostanza la comunità esterna e il carcere si incontrano, attraverso il teatro, in una straordinaria occasione di formazione teatrale e umana”. Potenza. Studenti e detenuti nel laboratorio di teatro in carcere sassilive.it, 20 novembre 2019 Con la danzatrice Bertozzi per progetto ToiL (Teatro oltre i Limiti) della Compagnia Petra. “Un momento di rara poesia e potenza”, come ha sottolineato la danzatrice Simona Bertozzi, quello che ha racchiuso il lavoro del laboratorio condotto dall’artista nell’esito finale presentato nella Casa Circondariale di Potenza. A condividere le ore di laboratorio sul tappeto gommato c’erano gli studenti e le studentesse del liceo “Walter Gropius” di Potenza e alcuni detenuti, protagonisti del laboratorio teatrale che la Compagnia Petra sta portando avanti all’interno del progetto ToiL (Teatro oltre i Limiti) nella casa Circondariale di Potenza. Il progetto ToiL è realizzato con il contributo di Otto per Mille della Chiesa Valdese e Agenzia Regionale Lab, il partenariato della Casa Circondariale di Potenza e di Matera e il Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere. Il laboratorio con Simona Bertozzi, allestito con la collaborazione del Città delle 100 Scale festival, è stato una delle tappe del percorso, uno degli appuntamenti in cui il carcere si è aperto alla città, che è così entrata oltre il limite della struttura. “Questa è una comunità chiusa per definizione, ma - ha spiegato Giuseppe Palo, funzionario di staff del Provveditore di Puglia e Basilicata, che ha portato il saluto della direttrice Maria Rosaria Petraccone - è pur sempre una comunità fatta di persone, di esperienze e di capacità, che ha bisogno di raccontarsi all’esterno.” “Contro ogni luogo comune, in questo luogo - ha fatto eco Antonella Iallorenzi, regista e direttrice artistica della Compagnia Petra - abbiamo trovato un luogo accogliente, un luogo in cui poter imparare e crescere”. La Compagnia Petra sviluppa progetti di teatro in carcere da quasi un decennio: il progetto ToiL è una delle produzioni più recenti che tiene insieme un laboratorio teatrale, incursioni di artisti di fama internazionale - dopo Simona Bertozzi, sarà ospite del laboratorio anche la performer Silvia Gribaudi - e la formazione per futuri operatori del sociale. “È stato un laboratorio integrato, uno spazio di intersezione culturale in cui abbiamo superato il limite - ha concluso Iallorenzi, ringraziando quanti partecipano alle attività, dal personale della Casa Circondariale ai docenti e alle famiglie degli studenti che hanno aderito. Alla base del progetto ToiL c’è l’assunto del teatro come strumento per superare il concetto stesso di limite, nel luogo a cui viene automaticamente abbinato dall’immaginario collettivo, ribaltando la concezione detentiva e favorendo una nuova visione: da luogo di vergogna a luogo di cultura. A febbraio è previsto lo spettacolo finale del laboratorio teatrale con i detenuti, con in programma diverse repliche aperte al pubblico e alle scuole. Milano. Uomini e fedi in carcere, via di libertà e fraternità, in 50 fotografie di Lorenzo Rosoli Avvenire, 20 novembre 2019 Al Museo Diocesano le immagini scattare da Margherita Lazzati a Opera. Dove cristiani, musulmani, ebrei e buddisti coltivano spazi di convivenza e dialogo. Che il “mondo esterno” fatica a realizzare. “Sono un ergastolano e pensavo di non uscire più. Ho già scontato 27 anni ma di fatto da quattro usufruisco di spazi di libertà. Sono una testimonianza della Trasformazione”. La “t” maiuscola ce l’ha messa R.C., persona detenuta nella casa di reclusione di Milano-Opera, che proprio dietro le sbarre ha scoperto il buddismo. Ed è stato un incontro decisivo. La sua voce si offre, con numerose altre, dal catalogo della mostra di Margherita Lazzati “Fotografie in carcere”. Manifestazioni della libertà religiosa inaugurata giovedì 14 novembre al Museo Diocesano “Carlo Maria Martini” di Milano, dove rimarrà allestita fino al 26 gennaio 2020. Cinquanta immagini in bianco e nero, scattate ad Opera - senza flash, cercando di usare il più possibile la luce naturale, nell’ineludibile cornice di muri e sbarre - fra il 2017 e il 2019. Fotografie raccolte partecipando in silenzio, accostandosi con delicatezza e rispetto - come ha fatto Margherita Lazzati - a momenti di preghiera personale e comunitaria, a culti e ad azioni liturgiche delle più diverse fedi e confessioni. Perché questa è la realtà del carcere. Che può e dev’essere luogo di rigenerazione e riscatto, come vuole la Costituzione italiana, e non soltanto struttura di punizione, come vuole la retorica del “mettere in galera e buttare via la chiave”, tanto cara alla vulgata securitaria oggi così popolare. Nel suo intervento pubblicato in catalogo il direttore di Opera, Silvio Di Gregorio, cita padre David Maria Turoldo: “Nessuno uccida la speranza, neppure del più feroce assassino, perché ogni uomo è un’infinita possibilità”. Ecco lo scopo, il respiro, l’orizzonte dell’istituzione-carcere e di quanti vi prestano servizio. Ma le fotografie di Lazzati danno volto e voce anche ad una delle realtà più importanti, fra quante accomunano carcere e “mondo esterno”: il primo come il secondo sono spazi di pluralismo religioso e culturale. Ma nel primo, forse più che nel secondo, incontro e dialogo sono pane quotidiano e condiviso - anche grazie all’opera paziente, alla prossimità generosa, ad aiutare il cammino di riscatto dei detenuti, di guide spirituali, di volontari, di ministri di culto cattolici, evangelici, ebrei, musulmani, buddisti e di altre tradizioni. A questo proposito, ecco un passo dell’illuminante contributo in catalogo di monsignor Luca Bressan, vicario episcopale della diocesi di Milano per la Cultura, la carità, la missione e l’azione sociale: “L’artista ci aiuta a cogliere come le religioni siano già riuscite ad abitare il carcere, mostrando proprio in questo luogo le energie migliori che sanno sprigionare in termini di umanizzazione, di capacità di futuro, di educazione. Anticipando quanto la società e le istituzioni milanesi non sono ancora riuscite a realizzare negli spazi normali della vita civile e quotidiana, le religioni dentro il carcere rivelano una capacità di collaborazione e di coesistenza che molti non sanno riconoscere”. Ed ecco cosa ha scritto Luigi Pagano, già direttore della casa circondariale milanese di San Vittore, ex provveditore dell’Amministrazione penitenziaria della Lombardia: “Mentre nel mondo libero, quello che dovrebbe essere buono, quello che dovrebbe dare l’esempio, in nome della religione si stermina, si realizzano pulizie etniche, leggasi massacri, nel mondo dei cattivi la religione ritrova se stessa e crea armonia, accomuna le genti”. Margherita Lazzati ha iniziato ad “abitare” Opera nel 2011, partecipando, come fotografa, alle attività del suo “Laboratorio di lettura e scrittura creativa”. Dal dialogo avviato con l’allora direttore Giacinto Siciliano, oggi alla guida di San Vittore, e proseguito con Di Gregorio e con Luigi Pagano, ha preso forma il progetto di illustrare con la fotografia la corrispondenza tra la realtà del carcere e alcuni articoli dell’ordinamento penitenziario. In questo caso, il numero 58 sulle “manifestazioni della libertà religiosa”. Dalle migliaia di scatti di Lazzati sono stati selezionati i cinquanta di questa mostra curata da Nadia Righi e Cinzia Picozzi, rispettivamente direttore e conservatore del Museo Diocesano, e realizzata con la collaborazione della Galleria l’Affiche di Milano, il cui staff si è fatto carico del prezioso lavoro di ideazione, progettazione, produzione e allestimento della mostra- “Esempio raro di volontariato culturale: senza di loro non ci sarebbe nulla di ciò che il visitatore può vedere”, scandisce Lazzati. Altri grazie vanno a Sesta Opera, storica associazione di assistenza carceraria, e al Laboratorio di lettura e scrittura creativa. Ma il suo primo grazie, “un grazie incondizionato”, va “alle persone detenute che ho fotografato. Essere accolta in momenti così personali e privati con tanto calore e umanità è stato per me un vero privilegio”. E la mente va alle parole dello zio Giuseppe Lazzati. “Da ragazzi ci chiamava a riconoscere l’importanza di inginocchiarsi davanti al mistero”, ricorda Margherita. “Ecco: io ho trovato, tra le persone che ho fotografato, credenti di tutte le religioni, persone inginocchiate di fronte a un mistero e che si fanno interpellare in un cammino che è di esclusione dalla società. Questa è una cosa che non scorderò mai e della quale sono profondamente grata”. Le foto sono tutte esposte senza didascalia; sfuocati i volti delle persone delle quali non si è avuta la liberatoria; e dei volti perfettamente visibili, in alcuni casi, non è facile capire se sono di persone detenute oppure no. Queste fotografie sono nate partecipando in silenzio alla vita del carcere. E nel silenzio vanno viste, per poterne ascoltare le voci. E comprendere come il carcere, per quanto cerchiamo di rimuoverlo, fa parte della nostra società, si ostina a dire Lazzati. E a volte è più avanti del “mondo esterno”. Nel silenzio si potrà ad esempio sentire cosa “gridano prepotentemente” queste immagini: e, cioè, che “c’è un punto nel cuore dell’uomo che resta libero, sempre, persino in carcere - scrive Nadia Righi. Non si può togliere all’uomo la possibilità di un rapporto profondo e personale con Dio”. Perché questo incontro avvenga e si rinnovi, è prezioso il ruolo di persone come suor Beniamina, delle suore del Cottolengo, da quasi vent’anni volontaria della Cappellania di Opera. “Fin dall’inizio in genere sono stata bene accolta, sia dalle persone detenute, che dagli agenti”, racconta la religiosa. “Predico la speranza nella misericordia di Dio”, è la sua missione vissuta con le parole e con gesti concreti di prossimità. “Mi sento fin troppo amata”, è il bilancio del suo “centuplo quaggiù”. Incalza don Antonio Loi, per anni cappellano a Opera (e pure agente di polizia penitenziaria quando, studente di architettura, dovette assolvere l’obbligo di leva): “In carcere ho incontrato Gesù”. Queste testimonianze prendono voce dal catalogo della mostra in dialogo con quelle di altri ministri di culto (come Aba Jacob, della Comunità ebraica di Milano, o Roberto Grasso, evangelico) e di alcuni detenuti. E sono parole che possono spiazzare chi non conosce il mondo penitenziario. “Dire che ho trovato la libertà in carcere può sembrare un paradosso, qualcosa di irreale, tuttavia è quanto mi sta succedendo”, racconta A.D.M., altra persona detenuta a Opera. “Conoscere la Parola di Dio attraverso le Sacre Scritture, per me, è stato come rinascere”. *Margherita Lazzati, “Fotografie in carcere. Manifestazioni della libertà religiosa”. Museo Diocesano “Carlo Maria Martini”, piazza Sant’Eustorgio 3, Milano. Fino al 26 gennaio 2020. Catalogo edizioni La Vita Felice. Per informazioni su orari e biglietti: chiostrisanteustorgio.it. Nuoro. In uscita il libro “Liberi dentro. Istentales: un tour nelle carceri”, La Nuova Sardegna, 20 novembre 2019 Un libro di Luciano Piras con prefazione di Roberto Vecchioni; venticinque anni di storia e di canzoni in un dvd. È la nuova iniziativa editoriale della Nuova Sardegna, “Liberi dentro. Istentales: un tour nelle carceri”, in distribuzione da domani in tutte le edicole con il quotidiano al prezzo di 8,60 euro (più il prezzo del giornale). Un evento che verrà presentato in anteprima nella sala conferenze della Nuova, zona industriale Preda Niedda, strada 31. L’appuntamento è fissato per le 10,30 di domani mattina. Parteciperanno il direttore della Nuova Sardegna Antonio Di Rosa; l’autore del libro, il giornalista della Nuova Sardegna, Luciano Piras; gli Istentales; il direttore della Coldiretti Sardegna Luca Saba; il Garante dei detenuti del Comune di Nuoro Giovanna Serra; gli studenti della 3ª A e 3ª C della scuola secondaria di primo grado dell’Istituto comprensivo Brigata Sassari (Sassari) con la dirigente scolastica Claudia Capita; gli studenti delle terze classi della scuola secondaria di primo grado di Ossi; i ragazzi del Ge.Na. Opera Gesù Nazareno, Centro di riabilitazione sanitaria e socio-sanitaria di Sassari. Presenterà e condurrà l’evento Giuliano Marongiu. Gli Istentales (Gigi Sanna, Luca Floris, Tattino Canova, Pierfranco Meloni e Alessandro Damini) si esibiranno in acustico. Lo stesso faranno i ragazzi dell’Istituto comprensivo Brigata Sassari. Sarà l’occasione per ripercorrere il “viaggio nelle carceri sulle ali della musica” fatto nel corso degli anni dalla band agropastoralerock degli Istentales e raccontato da Luciano Piras in una sorta di lungo reportage insolito e davvero originale. Un viaggio che parte da Badu e Carros e che attraversa tutta la Sardegna, dal vecchio San Sebastiano a Mamone, per approdare in diversi penitenziari della Penisola. Matera. Presentazione del libro “Indimenticabile padre: ricordi di un ergastolano” di Franco Martina giornalemio.it, 20 novembre 2019 Arte e cultura (e aggiungiamo lavoro) per guardare con fiducia a un futuro contrassegnato da un “fine pena mai” anche se si è condannati all’ergastolo, in regime di 41bis ostativo (se ne discute in queste settimane dopo il pronunciamento a rimuoverlo dell’Unione Europea rivolto all’Italia) per tanti che scontano pene per delitti che hanno segnato la loro vita, dei propri famigliari e delle loro vittime e di una comunità? Il solco è tracciato e con esempi, in anni e contesti diversi, che hanno portato alcuni a diventare un esempio per altri ma a patto di non tradire la fiducia di quanti, a cominciare dallo Stato, hanno creduto in un percorso di riscatto. Del resto il dibattito è in corso e si alimenta o fa passi indietro a seconda del clima di politica e di antipolitica, tra garantismo e aperture, che contrassegna la cronaca del Bel Paese. Un preambolo doveroso per annunciare venerdì 22 novembre alle 15,30, presso il Cinema Comunale di Matera, la presentazione del libro di Pierdonato Zito, “Indimenticabile padre: ricordi di un ergastolano” Herald Editore. Zito (lo ricordiamo a quanti ignorano chi sia e la sua storia) è noto alle cronache per quella che la Direzione distrettuale antimafia di Potenza definì la “guerra tra clan” che insanguinò Montescaglioso e dintorni, tra la fine degli anni Ottanta e gli inizi degli anni Novanta, per reati legati a traffici illeciti, alle estorsioni e con dieci omicidi culminati nel dicembre 2016 con l’assoluzione di nove indagati in Corte di Appello. Una pagina buia delle vicende del Materano con infiltrazioni e collegamenti mafiosi dalle regioni vicine, della quale abbiamo parlato quando c’erano solo giornali, radio e tv, A Matera, nell’ambito di un futuro aperto (lasciate perdere gli anglicismi, che fanno tanto effetto ma lasciano poco al territorio) si apre un’ altra pagina della storia di Zito pur restando ne solco del memoria. E sul palco del Cinema comunale “Guerrieri” ci saranno l’ autore - come riporta il programma - “che sarà presente previa autorizzazione del Magistrato di Sorveglianza)e oggi è iscritto alla facoltà di Sociologia presso il polo universitario nel Centro Penitenziario di Secondigliano Napoli, Modera il professor Antonio Belardo, docente dell’IIS “ E. Caruso” di Napoli. Il detenuto “Federico II”. Non è la prima volta, del resto, che un detenuto o un ex detenuto presentano a Matera un libro o altre produzioni letterarie, come l’ex brigatista Barbara Balzerani autrice di Perché io, perché non tu) o che si parli di “speranza”, inclusione”, “riscatto”, “opportunità”, come fa periodicamente con visite in carcere o interventi il segretario dei radicali lucani, Maurizio Bolognetti, o con iniziative dell’Amministrazione penitenziaria o di associazioni culturali (è accaduto con Matera 2019 con il teatro). Un libro serve a guardarsi dentro, dietro per quanto accaduto e avanti per un sogno nel cassetto, ma soprattutto a servire di esempio ai giovani affinché non sbaglino e alle Istituzioni perché creino le condizioni per non delinquere. E qui si apre un mondo di cose da fare. avviate, realizzate, rimaste a metà o da correggere. Il ricavato di Indimenticabile padre andrà in beneficenza a sostegno al reparto oncologico del Policlinico di Bari, che contribuì a uno dei figli dell’autore. Nelle 220 pagine del libro tanti ricordi e alcuni anche esterni, come quelli di Franco Lomonaco, cantautore, artista montese che imparò l’inglese andando a lezione dal padre di Zito, emigrato e per alcuni anni in Inghilterra per lavoro, Già l’emigrazione. Altra piaga che ritorna. Non resta che guardare alla bellezza e agli spunti che può promuovere nella società.e Lomonaco ci segnala una “riflessione” stralciata dal Dal Manifesto dei Reclusi Ristretti: “è proprio da una città che ha fatto della bellezza e dell’arte il fondamento del proprio riscatto, imponendosi all’Europa e al mondo, che vogliamo ripartire, perché Matera sarà per noi espressione dell’esercizio alla cittadinanza, attraverso la partecipazione attiva alla vita culturale della comunità”. Torino. Da dietro le sbarre la preghiera “giovane” per il Pontefice di Marina Lomunno Avvenire, 20 novembre 2019 Nel carcere minorile l’invito alla concretezza del cappellano don Ricca: pensare prima di fare uno sgarbo, sorridere a un compagno triste, ascoltare chi ci chiede aiuto. Arrivano alla spicciolata nella cappella intitolata a “Gesù Buon pastore” i ragazzi detenuti nell’Istituto di pena minorile “Ferrante Aporti” che hanno avuto il permesso di partecipare alla Messa: sono una ventina, su 44 reclusi, cattolici, ortodossi e anche musulmani che desiderano pregare con i loro amici. “Oggi, 17 novembre, è una domenica speciale - li accoglie il cappellano, don Domenico Ricca: in tutto il mondo la Chiesa celebra la Giornata dei poveri e il “mio capo”, l’ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane, ci ha chiesto di invitare i nostri detenuti a pregare per papa Francesco perché sia sostenuto nel suo difficile compito. È un modo per ringraziarlo per la sua costante vicinanza al mondo del carcere. Fin dall’inizio del suo pontificato ci è stato accanto: la sua prima visita da Papa l’ha voluta nel carcere minorile di Casal del Marmo e in ogni suo viaggio riserva sempre un incontro con i detenuti: siamo sempre nel suo cuore e oggi vogliamo ricambiare le sue attenzioni”. È dietro le sbarre del “Ferrante Aporti” che a metà 1800 don Giovanni Bosco, visitando i minori carcerati che chiamava “discoli e pericolanti” inventò il suo “sistema preventivo” e gli oratori come luogo dove i giovani più fragili non si perdessero: ed è per questo motivo che il Papa nel 2015, in occasione della sua visita a Torino per il Bicentenario dalla nascita del santo dei giovani, invitò a pranzo in Arcivescovado 11 minori detenuti. “Oggi per fortuna quei ragazzi non sono più reclusi” spiega don Ricca, salesiano, com’è tradizione al “Ferrante” proprio per ricordare la presenza di don Bosco tra queste mura. E a memoria dell’incontro con Francesco, nella cappella del carcere dove ogni 15 giorni si celebra la Messa animata dai giovani volontari della vicina parrocchia di San Barnaba, don Ricca accanto alla statua di don Bosco ha posto una grande foto di Francesco sorridente: il Papa la consegnò personalmente autografata ai ragazzi al termine del pranzo. “Oggi è la giornata dei poveri, anche noi lo siamo, anche voi perché vi manca la libertà ma c’è qualcuno ancora più povero di noi e siamo chiamati a fare qualcosa” ha detto don Domenico nell’omelia. “Noi qui possiamo fare almeno tre cose per i nostri compagni “più poveri”: povero non è solo chi non ha da mangiare, è anche chi è solo o nella disperazione. E allora vi suggerisco di fermarvi a pensare prima di fare uno sgarbo, a sorridere a un compagno triste, ad ascoltare chi ci chiede aiuto durante la giornata”. E poi la preghiera per il Papa. Al termine della Messa, come di consueto, don Domenico esorta tutti i ragazzi a rivolgere lo sguardo alla statua di Maria Ausiliatrice che alcuni benefattori hanno donato all’Istituto: “La Madonna è mamma di tutti, anche per voi musulmani. Oggi la nostra Ave Maria la diciamo per il Papa e, in sintonia con tutti coloro che sono in carcere, in questi giorni quando passate davanti alla cappella, come molti di voi già fanno, vi invito a fare un segno della Croce pensando a Francesco e a osservare un momento di silenzio pregando per lui, ognuno come crede. È un gesto di vicinanza e di compassione, così diciamo a Francesco: “siamo con te”. Bastia Umbra (Pg). Il carcere in Fiera a “Fa’ la cosa giusta! Umbria” coopthc.org, 20 novembre 2019 Si è conclusa la sesta edizione della fiera “Fa’ la cosa giusta! Umbria” presso Umbria Fiere, riscuotendo un incredibile successo, nonostante le condizioni metereologiche avverse che hanno bloccato l’intera Penisola. Tra i vari stand, quest’anno è stata molto importante l’adesione di Economia Carceraria al fianco di diverse imprese sociali e cooperative operanti nelle carceri italiane per la realizzazione di prodotti di pregiata fattura. La rete sociale, voluta e creata da Economia Carceraria, si conferma compatta e pronta ad incrementare la propria presenza sul territorio per i prossimi eventi simili a quello in Umbria, con lo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica riguardo le attività intra ed extra-murarie e informando circa la ricaduta positiva del lavoro in questo ambito, il quale può abbattere dell’80% la possibilità di recidiva per i soggetti detenuti e privati della libertà. “La partecipazione a questo evento, tutto “made in Italy”, era doverosa. Finalmente si inizia a parlare di carcere in ambiti esterni a quelli di cronaca. L’impegno di oggi ha permesso che si potesse raccontare questa realtà complessa anche ai bambini, sotto una veste meno cruenta” afferma il Presidente della Cooperativa “Together let’s Help the Community!” unitamente alle altre realtà presenti al Padiglione 8. Un successo di tutti, che rappresenta solo una delle tante tappe che la Rete di Economia Carceraria ha in progetto di concretizzare per il futuro, magari con uno sguardo verso l’Europa. Le realtà presenti: “Made in Carcere”, “Vale la Pena”, “Le Lazzarelle”, “Giglio Lab”, “O.r.t.o. Semi Liberi”, “Cotti in Fragranza”, “Extra Liberi”, “Campo dei Miracoli”, “Sprigioniamo Sapori”, “Together let’s Help the Community!” e la testimonianza di Carmelo Musumeci. Roma. Us Acli e Isola Solidale organizzano corso per arbitri aperto ai detenuti agensir.it, 20 novembre 2019 Prende il via il 22 novembre, alle ore 15,30, il 1° corso per arbitri di calcio Us Acli 2019/20, che, grazie al progetto “Lo sport generAttore di comunità” finanziato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, verrà aperto anche a 5 detenuti ospiti dell’Isola Solidale, struttura che - grazie alle leggi 266/91, 460/97 e 328/2000 - ospita persone che hanno commesso reati per i quali sono state condannate, ma che si trovano agli arresti domiciliari, in permesso premio o che, giunte a fine pena, si ritrovano prive di riferimenti familiari e in stato di difficoltà economica. Il programma del corso per i detenuti - tenuto dal responsabile della formazione arbitrale calcio e calcio a 5 dell’Us Acli Roma, Francesco Paone - prevede 13 lezioni al termine delle quali si terranno gli esami orali e scritti: coloro i quali risulteranno idonei alle prove d’esame effettueranno delle prove pratiche che consisteranno nella direzione di gare di calcio a 5, calcio a 8 e calcio a 11. Il progetto “Lo sport generAttore di comunità”, che vede come capofila il Centro nazionale sportivo Libertas e come partner l’Us Acli, ha l’obiettivo di strutturare interventi efficaci e duraturi favorendo, attraverso lo sport, il miglioramento delle condizioni di vita dei soggetti in esecuzione di pena e il loro reinserimento sociale e lavorativo. Inoltre, questa iniziativa si pone in continuità con gli interventi avviati in collaborazione con gli istituti penitenziari anche a seguito del protocollo firmato dall’Us Acli con il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (ottobre 2016), per sviluppare programmi motori, sportivi e formativi utili al periodo detentivo, al percorso rieducativo e al reinserimento sociale. “Da anni lavoriamo insieme all’Isola Solidale - spiega Luca Serangeli, presidente dell’Unione sportiva delle Acli - a partire dal torneo delle parrocchie San Giovanni Paolo II e questo corso per arbitri è un ulteriore passo in avanti nel progetto che ci vede impegnati nelle attività di recupero e di reinserimento delle persone detenute”. “Grazie all’Us Acli di Roma - racconta Alessandro Pinna, presidente dell’Isola Solidale - siamo riusciti attraverso lo sport ad abbattere ogni barriera legata al pregiudizio offrendo ai nostri ospiti la possibilità di iniziare un nuovo percorso riabilitativo partendo da fatti concreti come i tornei di calcio e ora il corso per arbitri”. Catania. Mostra collettiva delle opere realizzate dai detenuti delle carceri minorili ragusaoggi.it, 20 novembre 2019 Sabato 23 novembre 2010, presso il Museo civico Emilio Greco Belliniano di Catania, l’Associazione Culturale La Poltrona Rossa inaugura una mostra collettiva d’arte delle opere realizzate dai ragazzi ristretti dell’Istituto Penale per Minorenni Bicocca di Catania e dalle ragazze ristrette dell’Istituto Penale per Minoreni di Pontremoli (Ms). L’evento nasce dopo anni dei attività con i due Istituti Penali minorili dove, dal 2013, l’associazione opera attraverso laboratori creativi, artistici e artigianali per le detenute e i detenuti. Questo è stato possibile grazie ai Fondi Otto Per Mille della Tavola Valdese, il Ministero della Giustizia - Dipartimento per La Giustizia Minorile e di Comunità e i Centri per la Giustizia Minorile di Palermo e Torino. Anche nel corso del 2020 gli operatori dell’associazione svilupperanno nuovi laboratori creativi per le ragazze e i ragazzi detenuti della sicilia e della toscana con i progetti ancora una volta approvati dall’Ufficio Otto per Mille della Tavola Valdese. “Abbiamo deciso di celebrare l’avvio ai lavori attraverso una mostra collettiva delle opere più belle raccolte in tutti questi anni - ha spiegato Ivana Parisi, presidente dell’associazione La Poltrona Rossa - e visti i temi trattati non c’era occasione migliore che inaugurare l’evento in occasione della giornata Internazionale contro la Violenza sulle Donne che si celebra proprio il 25 novembre di ogni anno. La mostra, infatti, propone un’esposizione collettiva dei prodotti Artistici e Artigianali realizzati dai “Ragazzi di Catania” e le “Ragazze di Pontremoli” e tra le diverse sezioni della stessa prevalgono le riflessioni sul tema della violenza sulle donne. La Mostra “Artificium”, inoltre, è anche un’occasione per presentare la “Collezione Galea” del museo belliniano. “Sono state realizzate tantissime opere - ha aggiunto Parisi - ma fra queste abbiamo deciso di esporre i lavori relativi al percorso di formazione che si è svolto in questi anni per omaggiare l’arte. Per questo motivo abbiamo proposto ai/alle partecipanti di fare degli approfondimenti su alcuni grandi artisti della storia dell’arte moderna e contemporanea. Da qui sono nati i dipinti che hanno omaggiato, Van Gogh, Monet, Degas, Lichtenstein, Rothko e altri. L’Arte e l’Artigianato tradizionale, hanno assunto un ruolo molto importante nelle attività creative che tutt’ora svolgiamo nei due Istituti. Riteniamo che, in una condizione di detenzione, il lavoro, l’arte e l’artigianato, siano fattori che possono avere ruoli fondamentali all’interno di un percorso rieducativo di reinserimento sociale”. Da un lato il lavoro inteso come dignità, progettazione e realizzazione personale, dall’altro, l’oggetto pensato e studiato che prende forma attraverso il lavoro manuale; l’idea che diventa materia. Il pensiero astratto che diventa forma concreta. L’Arte si è sempre posta come valvola di riflessione per l’umanità e ha permesso di raccontare esperienze personali, creando luoghi di convivenza e riflessione e avvicinando sempre più l’interpretazione della realtà a quella di libertà. Tutto questo è stato possibile grazie ai due direttori degli Istituti Penali per Minorenni di Catania e Pontremoli, Maria Randazzo e Mario Abrate che hanno creduto sin da subito all’importanza di questi progetti. Anche il personale dei due Istituti ha mostrato disponibilità e passione per il lavoro degli operatori dell’associazione. La Mostra verrà inaugurata il 23 novembre alle ore 11.30 con la presentazione dello scrittore e Storico dell’Arte Davide Sciuto. Il professore farà una breve lezione di arte sui lavori proposti dagli Artisti della mostra. Per partecipare all’evento è obbligatoria la prenotazione al numero 3400760481 oppure tramite la mail info@lapoltronarossa.it. La Mostra è fruibile dal 23 novembre al 1 dicembre presso il Museo Civico Emilio Greco Belliniano in Piazza S. Francesco d’Assisi n. 3 - Catania. Ingresso gratuito. Le radici dell’odio e la rivolta del Papa contro la civiltà dello scarto di Deborah Bergamini Il Dubbio, 20 novembre 2019 C’è un concetto espresso dal Papa nel suo intervento di alcuni giorni fa all’Associazione Internazionale del diritto penale - intervento peraltro completamente ignorato dai media e dunque caduto nel vuoto - che mi ha colpito moltissimo. Il Papa ha parlato di una “cultura dello scarto”, che rischia di trasformarsi in cultura d’odio. È un’espressione forte, questa della cultura dello scarto, e molto efficace per raccontare una sensazione che serpeggia in maniera sempre più presente all’interno delle nostre società e delle nostre vite. Dentro questo concetto ho pensato di cogliere quello che a mio parere è stato un fattore scatenante di quella lotta senza quartiere fra cosiddette “élites” e cosiddette “masse” che sta stravolgendo gli assetti più profondi di ogni collettività, cambiando per sempre il volto e la struttura sociale dell’Occidente, scardinandone ogni meccanismo di garanzia e di capacità di guardare avanti. La paura di essere scarti, o di essere scartati. Perché troppo anziani o troppo giovani, perché troppo poveri o troppo malati o troppo lenti o troppo poco digitali o troppo qualunque altra cosa. La paura di non riuscire ad avere più uno spazio nel futuro del mondo, di non poter essere più un progetto. E cosa è ciascun Uomo se non un immenso, prodigioso progetto chiamato a realizzarsi? Questa paura, che non trova conforto da nessuna parte, e il suo effetto speculare, la paura dell’altro percepito come alieno e perciò come minaccia, dunque la cultura dell’odio, stanno inquinando ogni luogo umano, radicalizzando ogni opinione, e la politica non ne è certo esente, anzi ne è prima artefice, essendo basata per sua natura sullo scontro. Dobbiamo saper guardare in faccia questa cultura dello scarto, renderci conto che non possiamo permettercela perché siamo sempre più interdipendenti ed adoperarci al più presto per realizzare una cultura diversa, che ristabilisca il senso chiaro dell’Altro non come minaccia, non come oggetto di odio, ma come luogo di incontro e di dialogo con noi stessi. È sempre sull’Altro, infatti, che proiettiamo (e pro-gettiamo) ciò che abbiamo dentro di noi, l’immagine di essere umano che ogni giorno coltiviamo e affermiamo attraverso i nostri comportamenti e le nostre scelte, di cui siamo sempre gli unici responsabili. Questo senso dell’Altro come scoperta di noi lo abbiamo smarrito, e dunque non abbiamo più nulla su cui pro-gettare. Perciò diventiamo inevitabilmente vittime della paura dello scarto. Le parole del Papa hanno poi trovato una declinazione pratica nelle affermazioni che ha fatto sul tema oggetto dell’incontro, la giustizia, e che questo giornale non può che condividere: il superamento dell’idealismo penale, il contrasto all’abuso della custodia cautelare, un complessivo ripensamento sul senso della carcerazione e dell’ergastolo ostativo. Si tratta di principi di umanità e di civiltà giuridica che cerchiamo di affermare da queste pagine con grande determinazione, nella speranza di riuscire, con il tempo e con la costanza, a offrire un contributo efficace a una riflessione collettiva di cui abbiamo bisogno, se vogliamo superare proprio la pericolosa deriva dello scarto. Ma ancora una volta il richiamo forte è alla politica, perché proprio la politica può avere un ruolo primario, con il suo potere, con il suo linguaggio, con il suo messaggio, con i suoi leader, nel decidere di contrastare questa cultura anziché vellicarla e alimentarla per guadagnarsi un’erronea idea di consenso. Basterebbe partire da una cosa semplice, una sorta di moratoria sul linguaggio che si sceglie di usare nella quotidiana dialettica politica, da parte di tutti i leader. Eliminare le espressioni di odio, gli insulti, i toni radicali, dimostrare ogni giorno che può esserci ancora spazio per un confronto sulle idee senza voler per forza distruggere quelle che non ci piacciono. Cominciamo ad azzerare la violenza verbale in politica, facciamoci promotori di una moratoria sulla necessità di dover per forza demonizzare o distruggere un Nemico, che in realtà custodiamo prima di tutto dentro di noi. Minori. Filomena Albano: “I Servizi non rispettano gli standard minimi” di Simona Musco Il Dubbio, 20 novembre 2019 la Garante di infanzia e adolescenza: “Il mondo di oggi non è lo stesso di 30 anni fa e ciò comporta nuovi bisogni, nuove esigenze e nuove vulnerabilità e, quindi, nuovi diritti dei bambini”. Lo ha sottolineato con forza Filomena Albano, Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza aprendo il convegno “Nuove sfide per l’infanzia e l’adolescenza a 30 anni dalla Convenzione Onu”. Anniversario che si celebra oggi, 20 novembre. Trent’anni dopo la rivoluzione della Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, è il momento di un “Child Act”, che metta insieme tutti gli interventi necessari per rendere i diritti dei minori davvero diritti “in crescita”. Un atto formale che stabilisca i livelli essenziali delle prestazioni, il rispetto della forma del giusto processo, con la presenza di un avvocato dei minori, e un welfare per l’infanzia, in grado di combattere la denatalità e l’emergenza educativa. Al netto delle polemiche a volte sterili e, soprattutto, disinformate sui presunti “sistemi”, come quello Bibbiano, che, dicono gli esperti, “non esiste”. Spunti che sono venuti fuori dai tavoli di lavoro organizzati dal Garante nazionale per l’infanzia e l’adolescenza, Filomena Albano, in occasione dei 30 anni della Convenzione, firmata il 20 novembre del 1989. Ma il mondo di oggi non è lo stesso di 30 anni fa e ciò comporta nuovi bisogni, nuove esigenze e nuove vulnerabilità e, quindi, nuovi diritti. “Tra essi ricordo il diritto dei bambini a non essere lasciati soli, a non dover assistere a discussioni o litigi tra genitori, a coltivare i propri sogni e a realizzarli, a utilizzare in modo consapevole e sicuro i nuovi media digitali”, ha sottolineato Albano. Diritti in crescita, dunque, ovvero da interpretare in chiave evolutiva, partendo dal concetto base della prevalenza del superiore interesse del minore. “Oggi i servizi all’infanzia e all’adolescenza non rispettano standard minimi uguali per tutti”, ha spiegato Albano, che ha proposto quattro livelli essenziali delle prestazioni: mense scolastiche per tutti i bambini delle scuole dell’infanzia, posti di nido autorizzati per almeno il 33% dei bambini fino a 36 mesi, spazi-gioco inclusivi per i bambini da zero a 14 anni e una banca dati sulla disabilità dei minorenni. “Dobbiamo garantire che i diritti siano realizzati per tutti, non uno di meno”. La rivoluzione epocale segnata dalla Convenzione, ha sottolineato Licia Ronzulli, presidente della Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza, è quella di aver reso i bambini soggetti di diritti e non più oggetti di tutela. Ma le norme, in Italia, sono ancora carenti. Ed è dimostrato dalla fotografia dell’Istat, secondo cui 1,26 milioni di bambini vivono in povertà assoluta, in termini di mezzi di sostentamento ma anche di povertà educativa. E la soluzione è “un vero welfare per l’infanzia”, ha sottolineato. A sottolineare l’esigenza di considerare il sistema infanzia come unico e integrato al sistema economico è stato il presidente del Consiglio nazionale forense, Andrea Mascherin. Che ha ricordato come non esistano riserve di competenza all’interno del mondo dell’infanzia. “Il processo minorile ha bisogno di interventi modificativi - ha sottolineato. Un sistema che vede un soggetto di diritti, il minore, al centro del processo, con la garanzia di una voce autonoma e indipendente: il difensore del minore. Questo manca in maniera chiara”. L’avvocato del minore, ha spiegato Mascherin, garantisce infatti soggettività, autonomia e indipendenza di difesa. E “serve un procedimento che più si avvicini alle regole del contraddittorio e del giusto processo”, ha aggiunto. Migranti. Ius culturae, il momento è ora di Luigi Manconi La Repubblica, 20 novembre 2019 Bene ha fatto Nicola Zingaretti, concludendo la riuscitissima assemblea, promossa dalla Fondazione Costituente, presieduta da Gianni Cuperlo, ad affermare: “Prepariamo una nuova agenda per questo governo, figlia delle esigenze dell’Italia”. E bene ha fatto a indicare tra queste “esigenze” l’approvazione di una nuova legge sulla cittadinanza, dal momento che di essa hanno bisogno non solo gli stranieri, ma anche gli italiani. Questo è il punto che sembra sfuggire a tanti: non solo a quelli che avversano una simile riforma, ma anche a molti di coloro che la sostengono per ragioni, diciamo così, umanitarie. Ragioni importanti, queste ultime, ma tanto parziali da rischiare di risultare gracili. Di una nuova legge sulla cittadinanza infatti, ha bisogno l’Italia intera, affinché vi possano convivere pacificamente italiani e stranieri, riducendo tensioni e conflitti e disinnescando la tentazione alla chiusura da parte dei residenti e quella all’auto-ghettizzazione da parte dei nuovi arrivati. È questo il quadro sociale e giuridico che meglio può valorizzare l’irrinunciabile contributo economico e demografico offerto dagli stranieri, senza il quale il declino del nostro Paese è destinato a subire una rapida accelerazione. In sintesi questo è lo ius culturae: la possibilità di ottenere la cittadinanza per il minore straniero nato in Italia o arrivato qui prima di compiere dodici anni, che abbia frequentato regolarmente la scuola per almeno cinque anni e abbia completato il ciclo con successo. E questo non corrisponde a una vocazione filantropica, bensì a ciò che possiamo chiamare “altruismo interessato”, che vuole combinare insieme le esigenze degli italiani e quelle degli stranieri. È realizzabile questo progetto? E, ancor prima, ha il consenso necessario perché il Parlamento si senta motivato ad approvarlo? Una decina di giorni fa, su questo giornale, Ilvo Diamanti registrava un dato assai significativo: “Oltre i due terzi” del campione intervistato dall’Istituto Demos si diceva favorevole allo ius culturae. E ancora più interessante è la ripartizione per orientamento di partito: un elevato favore “anche presso la base di FI (81%) e del M5S (71%). Molto meno fra gli elettori della Lega (comunque, quasi metà: 46%) e, soprattutto, dei Fdi”. Nel corso della precedente legislatura, una normativa ancora più aperta e inclusiva, venne approvata dalla Camera nell’ottobre del 2015: e il consenso intorno a tale legge, sempre secondo l’Istituto Demos, rimaneva ancora oltre il 70% alla fine del 2016. Poi nel corso dell’anno successivo, per molte e diverse ragioni, i favorevoli si riducevano in modo sensibile e, parallelamente, calava l’impegno del centro-sinistra per l’approvazione della legge. Si lasciavano passare così, irresponsabilmente, due interi anni prima che il provvedimento arrivasse nell’aula del Senato per il voto definitivo. Che non vi fu. Molte le ragioni, ma la prima e più importante, si dovette al fatto che il centro-sinistra, in parte per scarsa convinzione, in parte per cronica pavidità, abbandonò la battaglia. Si può dire - so di forzare un po’ - che il centro-sinistra per paura di perdere le elezioni si smarrì al punto di perdere le elezioni. Al voto del 4 marzo la sinistra si presentò con una personalità bipolare e prossima alla depressione. C’è il rischio che tutto ciò si possa ripetere. Il coraggio in politica non è una variabile secondaria. E, a I contrario, una virtù costituente. Il coraggio, inteso molto semplicemente come fedeltà ai valori fondativi, può conquistare consensi e voti. E fa dei principi non una retorica vizza, ma uno strumento di mobilitazione. In quanto risorsa essenziale per la definizione dell’avversario e per la definizione e il rafforzamento di sé. Qui non si vuol dire in alcun modo che un obiettivo sacrosanto valga una sconfitta. Né, tantomeno, che una buona causa giustifichi una disfatta. Ritengo, piuttosto, che una campagna condotta in nome di obiettivi razionali e concreti possa determinare la vittoria. Poi c’è quel fattore cruciale per la politica che è la categoria del tempo. Come diceva Lenin a proposito della Rivoluzione di ottobre, il giorno giusto non è il 23 o il 25.11 giorno giusto è il 24 e solo il 24. E chi preferisca un diverso orizzonte culturale, ascolti Arnold Schwarzenegger: “Qualunque cosa sia necessario fare per vincere, bisogna farla subito”. Anche per un obiettivo, ragionevolissimo, come lo ius culturae, la questione del tempo è fondamentale. E il tempo è ora. Proprio così: non ieri e non tra un anno. A questo progetto si contrappone la futilità di chi dice: ma con tutto ciò che accade in Italia, che urgenza c’è? Ovvero, mentre chiude l’ex Ilva, che senso ha parlare di nuova cittadinanza? Non è il tradizionale Benaltrismo (mentre crolla l’Italia, ben altre sono le priorità). È, piuttosto, un sovranismo pitocco che gerarchizza le sofferenze: il dissesto idrogeologico, la crisi industriale e, se ce ne sarà tempo e modo, la discriminazione etnica. Sappiamo com’è andata sempre a finire: una sorta di metafisica dell’ignavia che riesce allo stesso tempo a non salvare il territorio e a non includere gli stranieri. Guerre. Le armi ora le vende direttamente il Ministero della Difesa di Gregorio Piccin Il Manifesto, 20 novembre 2019 Il governo Conte-bis ha attivato il “Government to Government” inserito nel recente decreto fiscale. Come già succede in Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti. Da diversi anni, tra le tante richieste e pretese che l’industria bellica nazionale rivolge ai governi spicca quella di trasformare ufficialmente gli stessi governi in autorevoli agenti di commercio per la propria mercanzia. Stiamo parlando del così detto approccio “Government to Government” (G2G) ossia la trasformazione del ministero della Difesa nell’autorità preposta a stipulare direttamente contratti per la fornitura di tecnologia militare con paesi terzi. Lo chiedevano da anni sia gli industriali che i sindacati. Già il 20 gennaio dello scorso anno, in una intervista rilasciata al Sole24ore l’amministratore delegato di Leonardo, Alessandro Profumo, riferendosi al Medio oriente, rilasciava una dichiarazione cinica e pragmatica: “È triste dirlo, ma la tensione internazionale provoca inevitabilmente, sul mercato degli armamenti e della sicurezza, un aumento della domanda. In questi contesti, la natura italiana del nostro gruppo è vissuta come qualcosa di positivo (…) la presidenza del Consiglio, il ministero della Difesa e quello degli Esteri sono un ottimo supporto. In tutto questo, però, c’è una lacuna legislativa: manca la norma sul “Government to Government”, che non è stata approvata dalla legislatura appena scaduta e che noi auspichiamo arrivi presto a traguardo perché ormai molti vogliono negoziare non con Leonardo, ma con il Governo italiano”. La sincera tristezza di Profumo è stata immediatamente colta dalla ex ministra della Difesa Elisabetta Trenta che per alleviarla ha alacremente lavorato per la norma “G2G” insieme ai colleghi degli Esteri, dell’Economia, dell’Interno ma il botto estivo lanciato da Salvini con conseguente crisi di governo ha rallentato l’iter. Ovviamente solo di rallentamento si è trattato in quanto quando si parla di Nato, spesa militare, guerre e industria bellica la trasversalità regna sovrana. Alessandro Profumo e più in generale tutto il comparto sono stati quindi accontentati dal governo Conte bis che ha finalmente attivato il “government to government” con l’art.55 “Misure a favore della competitività delle imprese italiane” inserito nel recente decreto fiscale dello scorso 26 ottobre. Questa norma è uno “strumento importante che va sviluppato e colto in tutte le sue potenzialità” ha commentato il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, il 6 novembre scorso nel corso di una conferenza organizzata dall’Aiad (Aziende Italiane per l’Aerospazio, la Difesa e la Sicurezza) a Roma presso l’Istituto Affari Internazionali. Ma le grandi attenzioni governative per l’industria militare non bastano mai e infatti, nella stessa conferenza, il presidente dell’Aiad Guido Crosetto ha dichiarato che andrebbe affrontata la questione delle banche etiche che “creano enormi ostacoli in termini di sostegno bancario al settore” e inoltre che andrebbe “esclusa una parte delle spese per la Difesa dal calcolo del deficit di bilancio” poiché la stessa Difesa non sarebbe un settore da “collegare ad un momento economico specifico ma, piuttosto, ad una funzione esistenziale dello Stato”. Uno slancio ducesco quello di Crosetto (industriale della “Difesa” e già parlamentare di Fratelli d’Italia) che non gradisce un ramo della finanza intento a svolgere il suo business come gli pare, magari eticamente, ostacolando così il bene supremo anzi “esistenziale” del Paese: il fatturato tricolore dell’industria militare. Il modello di riferimento è senza dubbio quello francese dove Macron, con la recente legge di bilancio militare (2019-2025), ha messo in gioco 295 miliardi di euro, ben 105 in più rispetto al quinquennio precedente. Soldi con cui verranno acquisiti sommergibili nucleari, fregate, droni, satelliti, aerei ed elicotteri) ma anche un corposo aumento del personale: 6.000 unità per le forze armate più 750 funzionari da impiegare nella “divisione vendite” nella Direction Générale de l’Armement. Il “Government to Government” è infatti una prerogativa francese da tempo, così come lo è per gli Stati uniti e la Gran Bretagna. Tutti Paesi Nato con cui l’Italia condivide la top ten globale del fatturato militare ora anche col fondamentale supporto degli agenti di commercio governativi. Detenuti italiani all’estero: la guida della Farnesina di Luca Matteuzzi aise.it, 20 novembre 2019 Sono 2113 i detenuti italiani all’estero, divisi in 63 paesi. 1611 di questi scontano la pena nelle carceri europee, mentre circa 500 sono reclusi in penitenziari extra continentali. È a tutti loro, e ai loro familiari, che si rivolge la “Guida pratica all’assistenza consolare per i detenuti italiani all’estero”, realizzata dalla Direzione Generale per gli Italiani all’estero della Farnesina e presentata questa mattina al Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione internazionale, a Roma. Al tavolo dei relatori Luigi Maria Vignali, Direttore Generale per gli Italiani all’estero e le Politiche Migratorie, Manlio Di Stefano, Sottosegretario agli Affari Esteri e alla Cooperazione Internazionale, il capo del dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia, Francesco Basentini, e Denis Cavatassi, che da ex detenuto in Thailandia ha potuto portare una testimonianza diretta. “È in prigione che si crede in ciò che si spera”. Ha esordito con questa citazione di Honoré de Balzac il Direttore Vignali, che ha poi continuato spiegando come la Direzione Generale per gli Italiani all’estero, abbia “fortemente voluto” questa guida, “raccogliendo l’invito del Parlamento a mettere in condizione i familiari e gli amici dei detenuti italiani all’estero di poter intervenire”. La guida infatti “risponde all’esigenza di cui si sono fatti interpreti rappresentanti della società civile e autorevoli esponenti politici”. Tra questi esponenti politici, in prima fila ad ascoltare la presentazione, c’erano la Senatrice Stefania Pucciarelli, presidente della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani, il vicepresidente della stessa Commissione, Giorgio Fede, e l’onorevole Iolanda Di Stasio. “La rete diplomatico-consolare ha acquisito molta esperienza nel corso del tempo - ha sottolineato più avanti Vignali -. Ambasciate e Consolati sono sempre impegnati a seguire le tante delicate vicende umane, anche nei casi più difficili”. Tra questi, il direttore ha infatti voluto ricordare le storie più complicate, che la diplomazia italiana sta tuttora seguendo, come quelle di Chico Forti e Giuseppe Lo Porto, negli Stati Uniti, quella di Fulgencio Obiang Esono, condannato in Nuova Guinea, e quella di Riccardo Capecchi, detenuto in Perù, senza dimenticare la storia di Giulio Regeni, dove “non siamo potuti intervenire”, ha ricordato con autentica amarezza Vignali. I 500 detenuti fuori dal continente europeo rappresentano le situazioni più critiche, dove le Ambasciate rivestono un ruolo importante. “I detenuti sono quelli che soffrono di più - ha rivelato a sua volta Denis Cavatassi, portando la propria testimonianza di “ex detenuto” - Specialmente quelli in paesi in via di sviluppo, dove - ha sottolineato -i diritti umani sono messi da parte e le persone trattate in maniera indecorosa: ero stato condannato a morte, messo in isolamento con le catene attaccate. Ho capito che la punizione non è il sistema migliore per aiutare le persone che hanno bisogno di tornare ad essere cittadini attivi”. La guida pubblicata dalla Farnesina, che sarà scaricabile da domani sul sito del MAECI, presenta infatti i modi con cui i rappresentanti dello Stato italiano possono aiutare a capire i propri diritti, se c’è possibilità di estradizione, capire chi chiamare in caso di condanna per ausilio, capire come farsi aiutare con la lingua, come contattare i propri cari oppure scegliere un avvocato di fiducia della rete diplomatica. “Questi argomenti, che riguardano oltre 2000 italiani nel mondo, sono temi centrali per noi, anche se non sono il primo argomento dell’opinione pubblica - ha affermato poi il Sottosegretario Di Stefano. Questa guida - ha continuato - rappresenta un segnale che la Farnesina dà, perché spesso vedo che manca consapevolezza della struttura statale”. L’opinione pubblica in Italia, infatti, “non conosce a fondo questa realtà, e non immagina quanto possa essere duro il regime carcerario in tanti Paesi. La guida, strumento di immediata fruizione, contribuisce a far luce su un fenomeno complesso, la cui gestione impegna quotidianamente la nostra rete diplomatica”. Ma la “virtù della guida - ha sottolineato Di Stefano - è che è anche molto analitica, e dà risposte chiare”. Completando il quadro generale della situazione, Francesco Basentini, da capo del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, ha invece fatto il discorso inverso. Ossia com’è, in questo momento, la situazione in Italia con i detenuti stranieri nei nostri penitenziari, che sono “20 mila a fronte dei 61 mila totali, provenienti principalmente da Marocco, Romania, Tunisia e Nigeria”. Dato per scontato che il trattamento è uguale per tutti i detenuti, di qualunque nazionalità, secondo Basentini “rendere nazionalizzabile la pena sarebbe più utile ed efficace alla prospettiva di rieducazione del detenuto”. “Un detto cinese, Paese nel quale non c’è nessun detenuto italiano - ha chiosato Vignali in chiusura - dice: riconosci un vero amico quando sei malato o in prigione. E noi vogliamo ricordarcene”. Iran. Amnesty: almeno 106 manifestanti uccisi in 21 città Il Riformista, 20 novembre 2019 “Almeno 106 manifestanti sono stati uccisi in 21 città in Iran, secondo le notizie che abbiamo ricevuto”. Lo riferisce Amnesty International su Twitter, spiegando che il conteggio è stato effettuato sulla base di “immagini video verificate, racconti di testimoni oculari e informazioni raccolte da attivisti fuori dall’Iran”, che “rivelano un modello straziante di uccisioni illegali da parte delle forze di sicurezza iraniane”. I leader - o almeno quelli che vengono indicati come tali - delle proteste contro il rincaro della benzina in Iran rischiano di finire impiccati. Amnesty aggiunge che “il vero bilancio potrebbe essere ben più elevato, con alcune informazioni che suggeriscono che ci sono fino a 200 morti”. “Le autorità devono porre fine immediatamente a questa repressione brutale”, ha dichiarato il direttore di ricerche di Amnesty International per la regione Medioriente e Nord Africa, Philip Luther. Secondo l’organizzazione, le forze di sicurezza “hanno ricevuto il via libera per schiacciare” le manifestazioni, che sono cominciate venerdì scorso dopo l’annuncio a sorpresa da parte del governo di un aumento del prezzo del carburante. La ong riferisce che nei filmati si vedono “cecchini sui tetti degli edifici che sparano sulla folla e, in un caso, un elicottero”. “Mentre la maggior parte delle manifestazioni è sembrata pacifica, in alcuni casi, man mano che la repressione si accentuava, un piccolo numero di manifestanti ha lanciato pietre, provocato incendi e danneggiato delle banche”, prosegue Amnesty, invitando le autorità a “rimuovere il blocco quasi totale di internet”, che secondo l’organizzazione è stato “imposto per impedire che le informazioni sulla repressione filtrino verso il mondo esterno”. Secondo le informazioni pubblicate sui media iraniani, solo cinque decessi sono stati confermati ufficialmente, fra cui quelli di tre agenti delle forze dell’ordine. Le immagini video analizzate da Amnesty International mostrano le forze di sicurezza usare armi da fuoco, cannoni ad acqua e gas lacrimogeni per disperdere le proteste, nonché manganellare manifestanti. I bossoli rimasti sul terreno, così come l’elevato numero di vittime, fanno supporre che siano state usate pallottole vere. Centinaia di manifestanti hanno bloccato le strade, fermando le proprie automobili come segno di protesta. Le immagini verificate da Amnesty International mostrano agenti della polizia anti-sommossa rompere i vetri delle automobili con i guidatori ancora all’interno. “La frequenza e la persistenza dell’uso della forza letale contro le attuali manifestazioni pacifiche e in precedenti proteste di massa, così come la sistematica impunità per le forze di sicurezza, fanno seriamente pensare che l’uso intenzionale delle armi da fuoco per stroncare le proteste sia diventato una politica statale”, ha detto ancora Philip Luther, direttore delle ricerche sul Medio Oriente e l’Africa del Nord di Amnesty International. “Anche quando una piccola minoranza di manifestanti ricorre alla violenza, la polizia deve sempre esercitare moderazione e non usare una forza maggiore di quella necessaria, proporzionale e legittima rispetto alla violenza che fronteggia. La violenza di poche persone non giustifica una reazione massiccia e sconsiderata”, ha commentato Luther. Alcuni testimoni oculari hanno affermato che le forze di sicurezza hanno portato via cadaveri e feriti dalle strade e anche dagli ospedali. “Come già successo in passato, in molti casi le forze di sicurezza e i servizi d’intelligence hanno rifiutato di restituire le salme alle famiglie o hanno costretto queste ultime a seppellire i loro cari in tutta fretta e senza che un’autopsia indipendente avesse potuto chiarire cause e circostanze della loro morte. Ciò è contrario agli standard e alle norme internazionali sulle indagini relative alle uccisioni illegali”, scrive Amnesty. La ong afferma che “le più alte autorità iraniane, compresa la Guida suprema Ali Khamenei, hanno diffuso dichiarazioni in cui hanno descritto i manifestanti come ‘banditi’ e hanno dato semaforo verde alle forze di sicurezza per stroncare le proteste”. In base del diritto internazionale, le forze di sicurezza possono ricorrere all’uso della forza letale solo quando strettamente inevitabile per proteggersi da immediate minacce di morte o di ferimento grave. Gli organi d’informazione statali hanno riferito che, alla data del 17 novembre, erano stati arrestati oltre mille manifestanti. Tra le persone arrestate c’è la difensora dei diritti umani Sepideh Gholian, arrestata proprio il 17 novembre mentre stava manifestando pacificamente mostrando un cartello contro l’aumento della benzina. Di lei si sono perse le tracce e Amnesty International teme possa essere sottoposta a tortura, come accade frequentemente ai danni dei difensori dei diritti umani. “Chiunque sia stato arrestato solo per aver preso parte in modo pacifico alle proteste, averle appoggiate o aver criticato le autorità dev’essere rilasciato immediatamente e senza alcuna condizione. Tutte le persone arrestate devono essere protette dai maltrattamenti e dalla tortura”, ha sottolineato Luther. Amnesty International ha sollecitato un’azione immediata della comunità internazionale, comprese le Nazioni Unite e l’Unione europea, affinché le autorità iraniane siano chiamate a render conto delle uccisioni illegali e della repressione violenta dei diritti alla libertà di espressione e di manifestazione pacifica. Siria. La guerra sporca di Erdogan contro i curdi non si è fermata di Marta Bellingreri L’Espresso, 20 novembre 2019 Armi chimiche, bombe sulle ambulanze, favori all’Isis che ha moltiplicato gli attacchi. Rapporto dal fronte siriano di cui non si parla più. A distanza potrebbe sembrare uno dei tanti tel. In arabo significa collina e, dai tel che caratterizzano quest’area, prendono il nome molte cittadine della zona di confine tra Siria e Turchia, come Tell Abiad o Tell Tamer. Ma quella che si scorge sulla strada all’orizzonte non è affatto una collinetta. È una montagna. Una montagna di fumo nero che domina tutto il paesaggio circostante. Il fumo nero più scuro e denso proviene dai copertoni bruciati apposta per oscurare lo spazio aereo. L’apparente calma dei pascoli, dei bambini che giocano tra le pecore in villaggi minuscoli sulla strada, è scossa dall’immagine di un soldato delle Forze siriane democratiche (Sdf nel suo acronimo inglese) che punta il fucile a una capra solitaria per chiederle di spostarsi da un check-point, l’ultimo prima della rotonda di Tell Tamer. Le segnaletiche in alto indicano a caratteri cubitali: Aleppo 325 km, Raqqa 180 km, Ras al-Ain 35 km. L’unica indicazione che manca è quella già annunciata dalla montagna di fumo nero: otto chilometri dal fronte della battaglia. E alle nove, puntuali dopo qualche ora notturna di pausa, cominciano i bombardamenti turchi. Lo scorso 9 ottobre la Turchia ha iniziato l’operazione denominata “Sorgente di Pace” nel nord-est della Siria, attacco contemporaneo a - e incoraggiato da - il ritiro delle truppe statunitensi che hanno supportato le Sdf nella lunga battaglia contro l’Isis. La violenza, i crimini e il progetto di ingegneria demografica dell’incursione di uno stato membro della Nato, la Turchia per l’appunto, e dei suoi alleati siriani, gruppi jihadisti riuniti ora sotto il nome “Esercito nazionale siriano” ricorda molto l’occupazione della provincia di Afrin, nel nord-ovest del paese, all’inizio del 2018. I combattimenti e bombardamenti ancora in corso non fanno pensare a una fine vicina. Sempre nel nord-ovest della Siria distrutta da otto anni di guerra, le bombe del regime siriano coadiuvato dall’aviazione russa colpiscono invece - e da altrettante settimane, oltre che da mesi, anni - la provincia di Idlib, l’ultima roccaforte dei gruppi ribelli dove vivono tre milioni di persone. Jamila ha passato un’altra notte insonne. Fuma una sigaretta dietro l’altra e sorseggia un caffè al sole sul tetto dell’ospedale. Nell’altra mano, il telefono e il walkie-talkie in attesa delle chiamate di emergenza. Il rumore delle esplosioni e il fumo nero fanno da sfondo alla sua colazione in piedi. “Siamo stati vicino al fronte a soccorrere feriti fino alle tre di notte e poi ci siamo dovuti nascondere perché siamo uno dei target dei bombardamenti”. Jamila Hemê è la coordinatrice medica dell’ospedale Lêgerîn della Mezzaluna Rossa Curda di Tell Tamer, una cittadina che prima dell’attacco contava circa 50.000 abitanti, per la maggior parte assiri cristiani già scappati tra il 2013 e il 2015 con le incursioni di Jabhat al-Nusra e dell’Isis. Ha uno sguardo profondo e combattivo incorniciato da capelli neri come la pece. L’ospedale in cui ormai dorme da un mese, costruito grazie al contributo della campagna di crowdfunding “Un ospedale per il Rojava” della onlus Mezzaluna Rossa Kurdistan Italia e al sostegno di Un ponte Per, organizzazione italiana presente nel nord-est della Siria da quattro anni, è intitolato alla dottoressa argentina che è morta in un incidente stradale lavorando per la ricostruzione di un sistema di salute pubblico nell’area. Non ha finito il primo dei tanti caffè né il racconto della giornata precedente, quando arriva all’improvviso la chiamata: si lancia dal tetto alle scale e dalle scale alla vettura dell’ambulanza. Il team è pronto a partire. Si corre al fronte. Altre ambulanze e punti medici sono ancora più vicini dell’ospedale ed è tramite loro che si ricevono i feriti e i morti. L’ambulanza corre all’impazzata tra le strade di Tell Tamer e poi verso il villaggio non distante dai combattimenti dove i civili sono rimasti feriti e uccisi, tra i pochi rimasti dopo che l’invasione turca ha costretto molti degli abitanti locali a fuggire. Un corpo immobile, il volto coperto di terra e il sangue della ferita sull’addome mischiato alla stessa terra e appiccicato ai vestiti, lasciano appena intravedere un giovane ventenne la cui unica colpa è quella di non essere sfollato. Jamila è presto accanto a lui sull’ambulanza insieme a Namiran, infermiera di soli diciannove anni che anche lei da un mese non ha lasciato Tell Tamer nemmeno un giorno. Jamila ne ha invece quarantadue e sono sette anni che gira per diversi fronti della guerra siriana, soprattutto negli ultimi anni a Raqqa e Deir Zor, nella battaglia contro l’Isis. Altra corsa, altra sirena verso Tell Tamer. Una volta giunti in ospedale, il giovane ferito viene trasportato velocemente dal lettino dell’ambulanza al lettino della sala di soccorso: neanche dopo un primo intervento durante il viaggio in ambulanza sembra aver ripreso conoscenza. Deve essere trasferito in ospedale nella città di Hasake, a 40 chilometri dal fronte, per essere curato. Mentre l’ambulanza che lo trasporterà si avvia, tra un boato e l’altro, in una stanzetta dietro l’ospedale quattro donne della “Fondazione Famiglie dei Martiri”, sono già pronte a pulire i cadaveri sempre più rigidi dei civili per avvolgerli in stoffe bianche: il torace avvolto insieme alle braccia, poi le mani, infine una coperta grigia che copre tutto e facilita il trasporto. Il primo dei due corpi viene depositato nel camion-cella frigorifero che andrà pure all’ospedale di Hasake. Del secondo corpo c’è poco da avvolgere: rimangono solo le due gambe rigide, il resto è stato maciullato dall’esplosione. Una delle donne della Fondazione si allontana un attimo dal lavoro per piangere in silenzio, mordendosi la mano e scuotendo la testa. Poi riprende ad aiutare la sua collega. Fanno questo lavoro ogni giorno da un mese intero. Alcuni, come Jamila, da anni e anni. “Pensavamo di riposare un pochino dopo la sconfitta di Daesh”, dice Jamila usando l’acronimo arabo che indica l’Isis. “Non è mai finita”. All’ospedale arrivano anche feriti dell’esercito siriano di Assad: la bandiera del regime campeggia nelle loro jeep e ambulanza. Un paradosso averli così vicini, sapendo che molte delle persone che lavorano in ospedale (e non solo) sono stati nelle prigioni di Damasco per il loro attivismo politico o ancora oggi sono ricercati dal regime per aver disertato il servizio militare, per aver partecipato alla rivoluzione siriana fin dai suoi esordi o per essere ora affiliati alle istituzioni della Federazione Democratica del Nord-Est della Siria. La più grande organizzazione umanitaria curda, non affiliata con la Croce Rossa Internazionale, tratta tutti i feriti, civili e militari, ma uno delle più grandi sfide dell’ultimo mese è stata quella di soccorrere sé stessi. “È assurdo che un’ambulanza parta per soccorrere i feriti e debba soccorrere i suoi stessi membri. Eravamo fermi a dieci chilometri dal fronte aspettando di andare a prendere i feriti quando il colpo del missile arrivato al nostro fianco mi ha fatto volare fuori dalla macchina”, racconta Dildar Abdelkarim, un volontario, riferendosi all’attacco del 12 ottobre. “Ho guidato verso l’ospedale per quindici chilometri con i nostri colleghi feriti ed io stesso perdevo i sensi e sbandavo, mentre ci allontanavamo dal fronte. Non c’è pietà nemmeno per noi che soccorriamo”. Il 9 novembre il vetro rotto sulla mandibola di un autista di ambulanza e il sangue sui sedili è stato il segno dell’ultimo di una serie di attacchi ad ambulanze di diverse organizzazioni mediche da quelle delle istituzioni della Federazione democratica alla Mezzaluna rossa curda ai Free Burma Rangers, un gruppo umanitario indipendente. Nonostante la Turchia continui a negare attacchi mirati a personale e strutture medico-sanitarie, almeno cinque persone sono rimaste uccise e sette ferite, tre sono stati rapiti e giustiziati, in poche settimane. In un’ennesima fase della guerra in Siria che ha visto già in un mese oltre mille morti, seimila feriti, circa trecentomila sfollati. “Non capite cosa si prova ad essere vicini ad un ferito che sanguina e non poter andare perché i droni e i missili cadono proprio tra te e quella persona, per impedirci il passaggio”, racconta Jamila, trattenendo le lacrime, coi nervi a pezzi dalle poche ore di sonno che solo un’altra sigaretta può per un attimo distendere. “L’attacco a personale medico e strutture sanitario è un crimine di guerra perché nessun paese sta dicendo nulla alla Turchia?”. Originaria di Qamishlo, Jamila è stata eletta due anni fa, insieme a Sherwan Beri, alla direzione di Heyva Sor Kurd (la Mezzaluna rossa curda), fondata nel 2012 da un piccolo gruppo di volontarie e volontari che con pochi mezzi si sono organizzati per rispondere all’esigenza di cure mediche ed ambulanze in una situazione in cui i civili sono rimasti soli in mezzo al conflitto nell’assenza di servizi sanitari nazionali. La co-presidenza e direzione di un’organizzazione o un’istituzione di un uomo e una donna è parte del sistema dell’amministrazione autonoma della Siria del nord e del progetto di confederalismo democratico che mette al centro del progetto politico rivoluzionario la presenza della donna negli organi decisionali, politici, sociali, militari, culturali. “All’inizio della rivoluzione siriana avevamo speranza che ci sarebbero state più giustizia e libertà. Pian piano è diventato un incubo: abbiamo visto compagni di università unirsi a gruppi jihadisti e una guerra senza fine”, racconta Sherwan che ha studiato per diventare dentista e si è ritrovato negli ultimi sette anni ai fronti di guerra di mezza Siria, con Jamila. “Con il progetto del confederalismo democratico chiediamo più diritti per tutti, ma siamo soli, schiacciati tra il regime siriano e quello turco, nonché i gruppi jihadisti e il Kurdistan iracheno che è la destra politica del Kurdistan. Ma dobbiamo andare avanti”. Da un mese, gli attacchi delle cellule dell’Isis sono aumentati del 48% secondo le statistiche registrate dal Rojava Information Center. In un solo giorno, l’11 novembre, l’Isis ha rivendicato l’uccisione di un prete armeno e di suo padre nella strada che da Hasake porta a Der Zor dove si stavano recando per monitorare i lavori di ristrutturazione di una delle chiese della città, mentre a Qamishlo tre autobombe sono esplose vicino al mercato, provocando 5 morti e 35 feriti. Si sono fermati i frequenti raid e arresti dei membri dell’Isis che le Sdf operavano e l’Isis spera solo di seguire le parole del suo leader Abu Bakr al-Baghdadi prima di morire: liberate i prigionieri. Nel frattempo la Mezzaluna sta facendo pressione per aprire un’indagine su probabile attacco con armi chimiche proibite che ha lasciato diversi feriti, come i medici ad Hasake hanno potuto constatare dalle bruciature sulla pelle dei soccorsi. Nel primo pomeriggio, Jamila corre di nuovo con l’ambulanza per soccorrere nuovi feriti. A causa dei bombardamenti continui, dovranno aspettare un’ora prima di poterli portare in ospedale. Questa volta non sono civili ma combattenti delle Ypg, le Unità di protezione del popolo, la componente curda delle Sdf. Nel frattempo tre sono morti e dei due feriti restanti, uno grida arrabbiato e non vuole farsi trattare dai medici: non è il dolore della ferita a farlo urlare, ma la perdita dei suoi hevalen, compagni in curdo, durante la battaglia. I cadaveri non sono stati ancora recuperati e lui vuole solo tornare indietro a prenderli. Le stesse urla, di pianto e di dolore, che accompagnano le marce e i funerali dei martiri che a cadenza quotidiana si svolgono in tutte le città della Siria per la perdita dei cari. Un appuntamento così frequente negli ultimi anni ma a cui nessuno si abitua mai. Nemmeno chi è in prima linea. “Abbiamo visto troppo, abbiamo bisogno anche noi di sostegno psicologico”, chiede Sherwan. “Ma la nostra vita è interamente dedicata a questo, non ci fermeremo”, conclude Jamila, prima che arrivi un’altra chiamata urgente dal fronte. Filippine. Due donne contro la guerra alla droga di Marco Perduca Il Manifesto, 20 novembre 2019 Leni Robledo, vice-presidente dell’opposizione, e la senatrice Leila de Lima, prima prigioniera politica dell’era Duterte, impegnate contro la “war on drugs”. “Siamo solidali con la senatrice Leila de Lima detenuta ingiustamente da 1.000 giorni dal governo del presidente Rodrigo Duterte con accuse motivate politicamente per via della sua critica alla più sanguinosa guerra alla droga degli ultimi anni”. Questo l’appello che circola in questi giorni - firmato anche da molte Ong italiane - per aggiungere una pressione internazionale a quella politica locale e chiedere la liberazione di una leader dell’opposizione filippina. Il governo di Manila inizia ad avere difficoltà nazionali e internazionali con le pretese di impunità di fronte alla violenza proibizionista di Stato che dal 2016 ha visto poliziotti, militari e squadroni della morte coinvolti nelle uccisioni di oltre 5mila persone perché “drogati” o “spacciatori” - morti che stime indipendenti ritengono essere oltre 27mila. Alla fine di ottobre scorso, il presidente Duterte ha deciso di nominare Leni Robledo, la sua vice-presidente che appartiene all’opposizione e la cui elezione è stata contestata dal regime per mesi, a capo delle politiche anti-droga delle Filippine. La scelta può esser letta come un’ammissione delle difficoltà crescenti a seguito dei propri metodi forti o come il desiderio di incastrare un’avversaria politica. Fatto sta che Robledo ha accettato, o ci è cascata, e che quindi la “guerra alla droga” non sarà più come prima. Il traffico di stupefacenti che arriva o passa attraverso le Filippine è nella mani di cartelli internazionali ben organizzati e altrettanto ben infiltrati nei gangli del regime. A metà ottobre il capo della polizia Oscar Albayalde è stato arrestato perché coinvolto in un giro di metanfetamine. Sebbene negli ultimi due anni molti funzionari siano stati licenziati, arrestati o allontanati perché contigui alle narco-mafie, la guerra ai drogati e ai piccoli venditori di pasticche è rimasta una delle priorità delle violenze di Duterte. Le condotte criminali del presidente delle Filippine sono state compilate da esperti nazionali e internazionali e sottoposte all’attenzione del procuratore della Corte penale internazionale. L’idea, lanciata alla Commissione Onu di Vienna nella primavera del 2017 da DRCNet Foundation, No Peace Without Justice e dall’Associazione Luca Coscioni, fu sostenuta anche da Leni Robledo che in quell’occasione aveva inviato un messaggio con critiche durissime alle politiche di Duterte. Il video della vice-presidente creò problemi diplomatici alle Nazioni Unite per la delegazione governativa ma, grazie alla sua pubblicità, concorse a esporre a livello internazionale le violenze nelle Filippine aggiungendo elementi fattuali alle critiche politiche della società civile inorridita dal livello di violenza raggiunto contro la “droga”. Duterte rimane popolare, l’uomo forte che oggi si oppone a Trump e domani alla Cina, che viene dal popolo, non si cura delle parole del papa e si proclama salvatore dell’integrità morale di un paese che ha spesso avuto pessimi governanti, non teme rivali. Un padre padrone che però non è ancora riuscito a distruggere quel minimo di agibilità civica e politica dell’ex colonia statunitense. De Lima è stata la prima prigioniera politica dell’era Duterte, per incastrarla sono state avanzate accuse, mai provate, di collusione coi trafficanti di droga. La senatrice è del Partito Liberale, lo stesso della vice-presidente che oggi gestisce la lotta alla droga nelle 7.600 isole dell’arcipelago. Le prossime elezioni presidenziali nelle Filippine saranno nel 2022, nei prossimi mesi le due donne, oggi incastrate in dinamiche politiche difficili da prevedere, sono chiamate ad arginare l’autoritarismo violento di un ciclotimico criminale che fa strame dello Stato di diritto. Anche se non sono facilmente impressionabili, senza aiuti esterni sarà difficile che ci possano riuscire.