Cambia la gerarchia nelle carceri: viene meno il ruolo di garanzia del direttore di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 novembre 2019 È previsto nei Decreti legislativi sul riordino delle carriere in via di approvazione. Un decreto potrebbe modificare le gerarchie all’interno degli istituti penitenziari. C’è preoccupazione per la prossima riorganizzazione delle competenze che toglierebbe poteri al direttore di carcere per trasferirli al comandante di Polizia penitenziaria. A lanciare l’allarme è stato Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione Antigone, e il Garante della regione Toscana Franco Corleone, ma anche Rita Bernardini del Partito Radicale e presidente di Nessuno Tocchi Caino. Franco Corleone, raggiunto da Il Dubbio, ha proposto l’avvio di una iniziativa di sensibilizzazione e pressione al Parlamento da parte della rete dei garanti territoriali. L’associazione Antigone, assieme ad alcuni direttori penitenziari che hanno avviato una protesta, si è appellato “a quei parlamentari e ministri sensibili a un’idea non custodialistica della pena, affinché dicano un no vigoroso e costituzionale a questo ulteriore scivolamento di tipo securitario”. Rita Bernardini, durante la puntata di “Radio Carcere” su Radio Radicale e condotta da Riccardo Arena, ha lanciato un Sos per scongiurare quello che i responsabili del governo stanno facendo con i decreti legislativi di riordino dei ruoli e delle carriere del personale delle forze di polizia. “Parliamo di uno schema di discussione alla commissione Affari costituzionali della Camera - ha detto Bernardini - dove in un articolo viene affrontata la riforma dei ruoli dei comandanti della polizia penitenziaria e viene eliminato il rapporto di subordinazione gerarchica tra i direttori e i comandanti”. L’esponente del Partito Radicale sottolinea che, di fatto, viene rotto quell’equilibrio che c’è nell’ordinamento penitenziario. Quale? “Tale riforma - ha spiegato Rita Bernardini durante la trasmissione di Radio Carcere - distrugge quell’equilibrio che vede il direttore dell’istituto penitenziario come figura super partes in maniera tale da sbilanciare la sicurezza con la rieducazione”. Bernardini ha definito molto grave questa riforma, sottolineando che i direttori non sono stati nemmeno avvisati nonostante che riguardi anche loro. Se dovesse passare questa riforma, in pratica, ci sarebbe un carcere governato da due soggetti: uno depotenziato che è il direttore, l’altro potenziato che è il comandante. C’è Patrizio Gonnella che, in un articolo de Il manifesto, spiega che tale riforma ci riporta indietro nel tempo, quando, prima del 1990, gli istituti penitenziari erano militarizzati. “Il modello organizzativo penitenziario scelto a cavallo tra gli anni 80 e 90 - scrive il presidente di Antigone - cercava di evitare scorciatoie securitarie e puntava su una gestione finalizzata al reinserimento sociale dei detenuti. Per questo si previde che a capo di ogni istituto penitenziario ci dovesse essere un direttore sovraordinato gerarchicamente al comandante di Polizia penitenziaria. Il direttore era ed è garanzia del rispetto degli obiettivi costituzionali della pena”. Ora però l’attuale riforma, se dovesse passare, rischia di vanificare le conquiste del passato. “Da circa 25 anni non si assumono giovani direttori mentre ci si affida opportunisticamente a una progressione verticale di carriera a favore di coloro che indossano la divisa”, scrive sempre Gonnella. “Non c’è coraggio in questa riforma di matrice neo- corporativa. C’è un’idea vecchia e rischiosa di pena che è implicitamente riaffermata come mera custodia e dunque pura sofferenza”, aggiunge sempre il presidente di Antigone. Il testo in via di approvazione sembra, a tutti in effetti, scritto dalla Lega. Ma non è così e quindi assume un progetto di continuità con il governo precedente lungo il solco della logica securitaria. Come ha detto sempre Rita Bernardini a Radio Radicale, il carcere non è esclusivamente un luogo finalizzato alla sicurezza, cioè sbattere in cella un detenuto e quindi sorvegliarlo e punirlo, ma deve essere soprattutto un luogo finalizzato alle attività trattamentali e quindi al recupero del detenuto. Anche per questo è indispensabile che rimanga ad essere un civile come uomo superpartes. Figli dei detenuti assenti giustificati per i “ricongiungimenti temporanei” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 novembre 2019 La Circolare del Miur voluta dal Sottosegretario Azzolina (M5S). Il ministero dell’Istruzione ha emanato una Circolare sulle assenze da scuola dei figli dei detenuti. Una circolare fortemente voluta dalla sottosegretaria all’Istruzione, Università e Ricerca, Lucia Azzolina. “È una circolare che ho personalmente sollecitato - ha dichiarato la Azzolina - anche su segnalazione del mio collega parlamentare Raffaele Bruno, che conosce bene il tema ed è impegnato in un capillare tour nelle carceri alla scoperta delle buone pratiche e dei laboratori teatrali che saranno oggetto di una specifica mozione di cui sarà primo firmatario”. Secondo la normativa attualmente vigente, ci sono alcune eccezioni alla frequenza di almeno tre quarti dell’orario annuale necessaria per l’ammissione alla classe successiva. I collegi dei docenti posso infatti disporre motivate deroghe, ad esempio per casi che riguardano gravi motivi di salute adeguatamente documentati, donazioni di sangue, terapie e/o cure programmate, partecipazione ad attività sportive e agonistiche organizzate da federazioni riconosciute dal Coni, motivi religiosi. “Con la circolare appena emanata si guarda, finalmente anche alle esigenze degli alunni e degli studenti figli, o parenti entro il secondo grado, di persone detenute e alle assenze che sono costretti a fare per andare in visita dai loro cari”, ha proseguito la sottosegretaria. “Credo sia un bel gesto di attenzione e civiltà. Che evita un danno ulteriore a ragazzini che affrontano già evidenti difficoltà - ha sottolineato Azzolina - abbiamo invitato le scuole a porre particolare attenzione alla condizione di questi alunni e a inserire fra le possibili deroghe relative alle assenze anche queste visite, qualificandole come “ricongiungimento temporaneo e documentato al genitore sottoposto a misure di privazione della libertà personale”. Normalmente queste assenze vengono comprese nel monte ore annuale complessivo e spesso concorrono al raggiungimento della soglia massima consentita, mettendo a rischio l’anno scolastico dei figli dei detenuti. Soprattutto se si considera il fatto che in molti istituti di pena il giorno del ricevimento è stabilito in modo rigido, non cade necessariamente nel fine settimana e si può determinare, di conseguenza, una reiterazione delle assenze. È da questo vuoto normativo che è nata dunque l’esigenza di mettere nero su bianco alcune regole, che invitano le istituzioni scolastiche a porre particolare attenzione alla condizione di questi alunni e a inserire fra le possibili deroghe relative alle assenze anche queste visite, qualificandole come “ricongiungimento temporaneo e documentato al genitore sottoposto a misure di privazione della libertà personale”. Il deputato dei Cinque Stelle Raffaele Bruno ha commentato con entusiasmo tale iniziativa, sottolineando che “la scuola ha il dovere di stare al fianco e sostenere i soggetti più fragili e vulnerabili, che non devono mai sentirsi esclusi: per questo sono particolarmente soddisfatto del lavoro compiuto insieme al nostro sottosegretario al Miur, Lucia Azzolina”. Il Premier Conte: “Intesa sul trasferimento in patria dei detenuti albanesi” Adnkronos, 1 novembre 2019 Con il primo ministro della Repubblica d’Albania, Edi Rama, “abbiamo operato una ricognizione della già intensa cooperazione in campo giudiziario e di polizia. Ho ribadito l’impegno italiano a rafforzare questa cooperazione, con particolare attenzione alla lotta alla criminalità organizzata e ai traffici illeciti. Sono lieto di poter annunciare che è stata raggiunta un’intesa anche nell’importante settore del trasferimento dei detenuti albanesi, già un primo trasferimento si concluderà a breve”. Lo afferma il premier Giuseppe Conte, nel corso delle dichiarazioni alla stampa con Rama. Il boom del rugby oltre le sbarre: a Bologna il derby Dozza-Drola di Raul Leoni gnewsonline.it, 1 novembre 2019 La Drola, in dialetto piemontese “strana” o “buffa”, è nata al “Lorusso-Cutugno” di Torino nel 2011 ed è stata la prima squadra di detenuti ammessa a partecipare a un campionato della Federugby, quello di serie C. La Dozza è seguita tre anni dopo, tra le mura della casa circondariale di Bologna. Il filo rosso è costituito dalla passione di Pietro Buffa, prima direttore dell’istituto di Torino e quindi Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria in Emilia Romagna, con la complicità dell’allora presidente federale Giancarlo Dondi. Il resto lo ha fatto la magia del rugby, lo sport scaturito da un atto di ribellione compiuto nel 1823 sul campo di football dell’omonima scuola inglese: durante una partita di calcio lo studente William Webb Ellis prese in mano la palla (azione allora consentita) e - contro le regole dell’epoca - andò correndo verso la porta avversaria. La prima azione di quello che ancora oggi si chiama in inglese Rugby Football, il “calcio giocato alla maniera del College di Rugby”. Ne uscì un gioco fatto di apparenti contraddizioni: una palla bislunga - in origine una vescica di maiale gonfiata - che rimbalza dove vuole, una regola che impedisce di avanzare alla mano se non passando la palla indietro. Un gioco che si basa sulla conquista del territorio avversario da parte dell’intera squadra, restando sempre dietro la linea del possesso del pallone, e dove il primo comandamento è la parola “sostegno”. Una disciplina che, a sorpresa, ha riscosso tanto successo in un contesto difficile come quello carcerario che si immagina ricco di solitudini e poca voglia di fare gruppo. La Drola e la Dozza si sono già incontrate due volte e in entrambe le occasioni ha vinto il XV bolognese: 18-14 in casa nel novembre 2016, poi 28-15 a Torino, restituendo la visita nel maggio 2018. Ora, come richiedono le solide tradizioni anglosassoni, le due squadre hanno programmato una “serie” di match chiedendo di dare periodica continuità a questi confronti: e la prossima partita è in programma a Bologna il 28 novembre. Il rugby è un po’ il fiore all’occhiello della pratica agonistica dei detenuti, addirittura precursore del progetto “Sport in carcere” nato nel 2013 dalla collaborazione tra il Ministero della Giustizia e il Coni: tanto che un po’ in tutta Italia l’ovale è diventato uno degli strumenti di recupero più praticati e nel 2015 il giornalista Antonio Falda ha raccontato quell’esperianza in un libro, “Per la libertà - Il Rugby oltre le sbarre”, scritto per dare voce ai tanti che hanno contribuito all’iniziativa. Il padre della Drola è Walter Rista, ex azzurro, appassionato di rugby a tuttotondo, ora presidente del sodalizio torinese: “Nel corso di questi 8 anni sono passati da noi circa 150 giocatori e di questi la metà non è più tornata in carcere dopo essere uscita”, rivela orgoglioso. E aggiunge: “Da liberi, una trentina di ragazzi giocano ancora in Italia, due sono andati a giocare in Spagna. Il rugby è un gioco di contatto anche duro, ma attento al rispetto delle regole. Questo vale tanto in regime di detenzione quanto fuori dal carcere e costituisce una perfetta valvola di sfogo: viene confermata la teoria di Jonah Lomu, già ala degli All Blacks e considerato uno dei più grandi di ogni epoca, il quale affermava che se non avesse giocato a rugby sarebbe certamente finito in galera”. Il gruppo attuale della Drola è composto da circa 30 giocatori, e c’è un solo italiano: “Un limpido esempio di integrazione interculturale - afferma Rista - Si tratta di detenuti a bassa pericolosità: sarebbe impossibile conciliare gli allenamenti, ad esempio, con il regime del 41 bis. E per motivi etici non includiamo i ‘sex offender’: per quanto garantisti, i valori del rugby sarebbero incompatibili”. Ergastolo ostativo, quando lo Stato di diritto vince sulla ragion di Stato di Elisabetta Zamparutti Left, 1 novembre 2019 È stato scalfito ciò che sembrava intoccabile in nome di una malintesa antimafia. La decisione della Corte costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4bis, comma 1, facendo cadere il divieto assoluto per gli “ergastolani ostativi” di accedere a permessi premio, apre una breccia nel muro di cinta del fine pena mai e recepisce, almeno per i permessi premio, quanto già stabilito dalla Corte europea per i diritti dell’uomo nella sentenza Viola vs Italia che aveva fatto cadere la presunzione di pericolosità assoluta nei confronti dei detenuti di cui sopra. Voglio dire che con questa decisione ha vinto la speranza contro la paura, ha vinto lo Stato di diritto contro la ragion di Stato che per troppi anni, in nome dell’emergenza antimafia ed antiterrorismo, ha stravolto i principi costituzionali. Ha vinto Spes contra spem, motto di una vita di Marco Pannella, che ci ha animato in questi anni, e hanno vinto i detenuti di Opera protagonisti del docu-film di Ambrogio Crespi “Spes contra Spem - Liberi dentro” che contro ogni speranza sono stati speranza, determinando con il loro cambiamento anche l’orientamento della Consulta. Si invera oggi quel pensiero che fu di Leonardo Sciascia per il quale la mafia non la si combatte con la terribilità della pena ma con lo Stato di diritto. La nostra Corte costituzionale ha infatti affermato il diritto alla speranza, come riconosciuto nello spazio del Consiglio d’Europa ed ha infranto il totem della collaborazione con la giustizia come unico criterio di valutazione del ravvedimento. Ora la Corte deve affermare lo stesso per gli altri benefici penitenziari secondo quella progressività del trattamento penitenziario che vuole che dopo i permessi premio, il detenuto possa aspirare ad altri benefici, come le misure alternative, per arrivare alla liberazione condizionale. Con Nessuno tocchi Caino continueremo in questa battaglia di civiltà, consapevoli di aver fatto bene a perseguire, già quattro anni fa, la via dei ricorsi alle Alte giurisdizioni per scalfire quello che sembrava intoccabile in nome di una malintesa antimafia che poco ha a che fare con i principi costituzionali, cioè la collaborazione con la giustizia come unico criterio di valutazione del ravvedimento, della rottura con logiche criminali del passato e del cambiamento dei detenuti per i reati dell’art 4bis. Il ricatto insito nell’ostatività per me attiene alla tortura. E considero medioevale un sistema investigativo prevalentemente incentrato su questo tipo di “prova”, quello della parola estorta con il ricatto del “finché non parli non esci”. Altro è premiare chi decide liberamente di collaborare. La nostra Consulta ha tratto coraggio dalla sentenza Cedu Viola vs Italia a conferma di quel dialogo tra le corti nazionali e sovranazionali che le rafforza reciprocamente nell’affermazione dello Stato di diritto, a partire dal divieto di tortura e di ogni trattamento inumano e degradante. Continueremo a monitorare l’attuazione della sentenza Viola e a tal fine, con l’avvocato Andrea Saccucci, abbiamo comunicato al comitato dei ministri del Consiglio d’Europa di tenere conto del monitoraggio che Nessuno tocchi Caino condurrà sull’esecuzione della sentenza Cedu. Inoltre, abbiamo incardinato la prima azione collettiva di 252 ergastolani ostativi al Comitato diritti umani dell’Onu e abbiamo sollevato il problema anche nel processo di revisione periodica universale (Upr) dell’Onu nei confronti dell’Italia che sarà discusso a novembre a Ginevra. E basta anche con i falsi allarmismi! Perché d’ora in poi, i magistrati potranno valutare anche il ravvedimento interiore che è poi quello più autentico e garante della sicurezza rispetto a quello esclusivamente utilitaristico della collaborazione. L’umanità della pena e il contrasto alla mafia di Marco Patarnello* Corriere della Sera, 1 novembre 2019 Dopo la sentenza della Corte costituzionale sull’ergastolo ostativo. Parafrasando una bella canzone che impazza sul web, si potrebbe dire che la decisione della Corte costituzionale che rimuove il divieto di concedere i permessi premio ai condannati per mafia che non intendono collaborare con la giustizia ce la chiede la Corte europea per i diritti dell’uomo. Ma non sarebbe esatto. Leggeremo le motivazioni di questa rivoluzione che la nostra Corte sta disegnando, ma la decisione italiana non si limita ad intervenire sull’ergastolo ed ha scritto una pagina che si estende a tutte le pene in materia di mafia. E che probabilmente non si limiterà ai soli permessi, ma affermerà un principio legato a doppio filo anche agli altri e ben più significativi benefici penitenziari. Il tema è complesso e delicato, si interseca con la sofferenza profonda di molte persone e non merita di essere banalizzato con approcci scandalizzati o superficiali, ma non si può neppure pretendere che venga esaminato senza calarlo nella realtà della società italiana del 2019. Il tema del rigore carcerario nei confronti dei condannati per mafia (o per coloro che la favoreggiano, come è accaduto, ad esempio, per Dell’Utri e Cuffaro) è stato da tempo al centro di ben noti interessi criminali e politici, che tuttavia non sono mai riusciti a scalfire questa legislazione. Oggi la Corte, verosimilmente con la penna del relatore Zanon, scrive il perimetro di questa nuova pagina sulla pena, in cui ogni parola peserà come un macigno e affida alla magistratura di sorveglianza il ruolo di Atlante. Non è questa la sede per una riflessione giuridica senza ipocrisie e senza cinismo sulla funzione della pena e sui limiti della ragion di Stato, temi difficili ed entrambi profondamente incisi dalla decisione della Corte. Ma credo esista lo spazio - e, penso, anche il dovere - per un magistrato di sorveglianza come me per dire qualche parola comprensibile per l’opinione pubblica su un tema così incidente sul patto sociale e sulla vita della comunità italiana. La magistratura di sorveglianza ha il petto largo e l’entusiasmo necessario per affrontare la delicata sfida che la decisione della Corte le ha lanciato e farà tutto il possibile affinché questa sia l’occasione per una migliore umanizzazione della pena e non diventi l’occasione per un arretramento nel contrasto alla mafia o per far sentire ancor più isolato e abbandonato chi già ha subito o subisce tuttora la violenza quotidiana e l’assenza dello Stato in molte zone del nostro Paese. Ma i problemi ci sono. Quella della Corte è una decisione di raffinatissima civiltà, ma adatta ad essere calata in uno Stato solido, con un patto sociale sufficientemente condiviso, dinamiche sociali adeguatamente governate e con un ragionevole controllo del proprio territorio. Uno Stato percepito come un interlocutore presente e autorevole. Ma diversamente da quanto è avvenuto sul terrorismo, il nostro Paese non ha ancora vinto la battaglia che lo condusse alla legislazione di emergenza sul terreno della lotta alla mafia. Ci sono ampie zone del nostro territorio che ancora oggi sono sottratte alle dinamiche e alle regole comuni e al controllo dello Stato. Tutto il Paese, sia pure in modo diverso, ne è pervaso. Sono molti gli anelli deboli della catena che regola le decisioni della magistratura di sorveglianza circa la concessione dei benefici. È di pochi giorni fa l’allarme lanciato dal Procuratore della Repubblica di Napoli circa il controllo di taluni istituti penitenziari da parte della criminalità. Non il controllo di Platì o di San Luca, ma di importanti carceri italiani. E il Procuratore Melillo non è un allarmista o un giustizialista. Non basta che la comunità dei giuristi immagini o ritenga che l’Italia sia la punta di diamante della civiltà moderna perché l’Italia lo sia davvero. Compete a chi ha la responsabilità di governare questo Paese fornire la magistratura e quanti operano in questo settore degli strumenti necessari a uno Stato che si vuole così importante. Compete a chi rappresenta il Paese legiferare in modo da tenere unito il patto sociale e consentire a tutti di vivere in un paese civile. Chi è dentro il carcere e chi ne è fuori. *Giudice del Tribunale di Sorveglianza di Roma Ergastolo ostativo. Morra (M5S): “Lavoriamo a legge che lasci boss in cella” lacnews24.it, 1 novembre 2019 Il presidente della commissione Antimafia: “Inaccettabile considerare i detenuti per mafia come comuni”. I boss mafiosi “devono restare in carcere”. Ed è per garantire questo obiettivo che “io ed i miei colleghi delle commissioni Antimafia, Giustizia, Affari costituzionali e Diritti umani stiamo lavorando ad un testo di legge che, recependo le giuste osservazioni della Corte costituzionale, non dimentichi che noi siamo in guerra con la mafia”. Ad annunciarlo è il presidente della commissione Antimafia, Nicola Morra, in un video postato su Facebook a pochi giorni dalla sentenza della Consulta sul cosiddetto “ergastolo ostativo”. “Siamo in guerra con la mafia - spiega Morra - da prima del 1982, anno in cui la nostra legislazione penale ha riconosciuto la necessità di un doppio binario affiancando all’associazione a delinquere semplice l’associazione a delinquere di stampo mafioso. Ed è inaccettabile minare ora questo principio come se i detenuti per mafia fossero detenuti comuni”. Da qui - conclude Morra - la necessità di un testo “ineccepibilmente coerente con i valori della nostra Carta costituzionale”, capace di “coniugare i diritti sacrosanti della persona con i doveri di tutela, di precauzione e di prudenza propri del legislatore chiamato a tutelare la comunità”. Mirabelli: “Una legge non può limitare la sentenza sull’ergastolo” di Errico Novi Il Dubbio, 1 novembre 2019 Intervista a Cesare Mirabelli, Presidente emerito della Consulta. “Una legge è possibile. Non sarebbe possibile però una legge sull’ergastolo ostativo che reintroducesse un divieto”, spiega il presidente emerito della Consulta Cesare Mirabelli. Una valutazione che potrebbe addirittura trovarsi a esprimere il presidente della Repubblica. Perché in effetti un provvedimento che “stabilisca parametri e principi fissi da seguire per concedere o negare i permessi agli ergastolani ostativi”, come auspicato sul Fatto Quotidiano dai direttori Marco Travaglio e Peter Gomez, è un tema all’ordine del giorno. “Se reintroducesse il divieto dichiarato illegittimo della Corte, una simile norma sarebbe palesemente incostituzionale”, ricorda il presidente Mirabelli, “al punto che il Capo dello Stato potrebbe valutarne il rinvio alle Camere. Certo, va tenuto conto che qualora il Parlamento riproponesse quel provvedimento, lo stesso presidente sarebbe tenuto a promulgarlo. Ma credo che un ipotesi di contrasto fra il legislatore e la Consulta sia lontana”. D’altra parte è già molto attivo il fronte schierato per una immediata replica alla pronuncia che ha eliminato il divieto assoluto di permessi agli ergastolani ostativi (condannati per mafia e terrorismo). Con il Fatto, che ha aperto una petizione on line, si sono espressi, per esempio, la capogruppo del M5S nella commissione Affari Costituzionali di Montecitorio Anna Macina (in un’intervista al Dubbio) e diversi magistrati, come il togato del Csm Sebastiano Ardita. Il cuore del dilemma riguarda la possibilità che il legislatore dichiari tassativamente inefficace per alcune specifiche figure di ergastolani la sentenza della Corte costituzionale. Ad esempio, per chi è stato capomafia. Sarebbe legittima una norma simile? No. Vorrebbe dire reintrodurre in altra forma il divieto che la Corte ha dichiarato incompatibile con la nostra Costituzione. Il legislatore può precisare i parametri in base ai quali il giudice valuterà quanto l’ergastolano possa essere ancora pericoloso, ma senza reintrodurre automatismi né eliminare la discrezionalità del giudice stesso. Ma mi permetta di partire dai dati che abbiamo a disposizione. Certo... Ecco, intanto noi non abbiamo le motivazioni della Consulta, e dobbiamo procedere sul piano delle ipotesi. Sappiamo però che la sentenza emanata dalla Corte si muove nella stessa direzione del giudizio espresso dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Sappiamo anche come nel nostro ordinamento sia definitivamente acquisita la funzionalità che i contatti al di fuori del carcere assumono rispetto al reinserimento del condannato. Ciò detto, la Corte di Strasburgo da parte sua ha ritenuto che la rottura dei rapporti con l’organizzazione criminale debba poter essere dimostrata anche in maniera alternativa alla collaborazione. Altrimenti, ha chiarito la Cedu, la pena diviene contraria ai principi di umanità. Plausibile che la nostra Corte costituzionale abbia seguito la stessa linea? Noi sappiamo per certo che la nostra Corte si è spinta oltre il perimetro, già chiarito, della cosiddetta collaborazione inesigibile. Sappiamo cioè che la sentenza del 23 ottobre scorso riguarda necessariamente la possibilità che il condannato provi di non avere più un rapporto con l’organizzazione criminale nonostante non abbia avviato la collaborazione con la giustizia. È caso di chi teme per l’incolumità di persone care che non potrebbero essere incluse nel programma di protezione? Nelle pronunce europea e italiana tale aspetto è certamente emerso. Ecco, qui interviene la saggezza del giudice. Perché è evidente che potrebbe esserci un pericolo, ma ora il giudice non dovrà valutarne la sussistenza in modo burocratico. Dovrà verificare in altro modo che non vi siamo più contatti con la cosca, per esempio. Quindi l’eventuale legge non potrà introdurre nuove preclusioni... Non può indicare casi in cui la domanda di permesso torni a essere inammissibile, a non dover essere neppure presa in considerazione. Può però precisare in che modo debbano essere provate le condizioni necessarie alla concessione del permesso. Se intervenisse così, una nuova legge non confliggerebbe con la sentenza. Se si spingesse oltre lo farebbe. Già ora l’ordinamento indica come vincolanti le eventuali valutazioni di pericolosità contenute nei pareri che il giudice deve acquisire dalla Dna, per esempio... E si tratta di valutazioni che hanno evidentemente un grande rilievo, considerata l’ampiezza del panorama che il procuratore nazionale Antimafia può osservare. Certo, chi è stato a capo di una organizzazione può mantenerne un controllo morale seppur non operativo. È il re in esilio che se rientra riprende il suo ruolo. Diverso è il caso del soggetto che abbia avuto una posizione diversa. Il che vuol dire che una legge potrebbe tassativamente escludere determinati soggetti per il fatto stesso di essere stati “ capi”? No. Il legislatore può fissare dei parametri ragionevoli che il giudice deve utilizzare. Ma se stabilisse delle esclusioni tassative passeremmo dalla zuppa a pan bagnato, tanto per semplificare all’estremo. Non si può bypassare la decisione della Corte, si configurerebbe un vizio di violazione del giudicato costituzionale. In ogni caso qualunque nuova legge, ovviamente, è esposta al vaglio della stessa Corte costituzionale, oltre che a quello del presidente della Repubblica. Secondo Milena Gabanelli i detenuti mafiosi restano in contatto con le cosche grazie ai loro avvocati... L’avvocato ha degli obblighi deontologici, ed è sottoposto come tutti alla legge penale. Anche il peggiore dei delinquenti ha diritto ad essere difeso: è una regola di civiltà. Un conto è il difensore, altro è il consigliori, che commette reati. E comunque è chiaro come sia assai più complesso il dovere di decidere secondo diritto e con determinate garanzie. Gli inglesi portavano i detenuti indesiderati in Australia. Ma lo Stato di diritto è un’altra cosa. Perché è un errore concedere i permessi premio agli ergastolani per reati di mafia di Gian Carlo Caselli* Oggi, 1 novembre 2019 La Consulta ha aperto all’autorizzazione per chi sta scontando pene “ostative”. La questione è molto controversa. La Consulta ha deciso con un solo voto di scarto, 8 a 7, a mio giudizio con troppo “distacco dalla realtà” della mafia. Un’organizzazione spietata, dominata da regole inderogabili: giuramento di fedeltà perpetua; persistenza dello status di “uomo d’onore” fino alla morte; possibilità di uscire dall’organizzazione solo con un atto di “diserzione” (la collaborazione o “pentimento”). Esperienza investigativa e qualificati studi di psicologia applicata evidenziano poi una perversa “identità mafiosa”. I mafiosi sono convinti di appartenere a una “razza superiore”, quella in cui rientrano soltanto i veri uomini (non a caso autodefinitisi “d’onore”). Nel mondo esterno non ci sono uomini, ma individui da assoggettare. Non persone, ma oggetti che si possono eliminare (se dànno fastidio) con totale distacco emotivo. Dunque, vero è che l’art. 27 della Costituzione parla di “pena che deve tendere alla rieducazione del condannato”, per cui in linea di principio l’ergastolo tollera la concessione di benefici. Ma è del pari vero che ciò ha senso - altrimenti è pura astrazione - solo quando si tratta di condannati che danno segni concreti di volersi redimere. E i mafiosi ergastolani non pentiti, a causa della loro specifica “identità”, sono ontologicamente incompatibili con ogni prospettiva di recupero. Di più: concedendo loro “permessi premio”, si aprono (è facile da prevedere) spazi dei quali essi profitterebbero per rientrare in qualche modo nel giro delle attività criminali. Ragionare in questi termini non significa essere manettari o forcaioli, né indulgere a logiche vendicative. Significa riconoscere realisticamente che non possiamo permetterci il lusso di aprire falle nell’antimafia. L’obiezione che non ci sarà nessun “automatismo” è fondata, perché la concessione del permesso spetterà caso per caso a un giudice. Ma attenzione: posto che informazioni e pareri vari sono per lo più atti burocratici o di facciata, l’unico segno esteriore di autentico ravvedimento è la collaborazione con lo Stato, senza di che al giudice si chiede di azzardare una scommessa surreale. E se dice di no, il mafioso automaticamente lo vedrà come un “nemico”. Esponendolo a rischi che è irresponsabile trascurare. *Ex procuratore di Palermo Subito una legge anti-mafiosi di Peter Gomez e Marco Travaglio Il Fatto Quotidiano, 1 novembre 2019 Se la Consulta ha considerato incostituzionale l’articolo 4bis dell’Ordinamento penitenziario, il legislatore deve adoperarsi subito per approvare una nuova norma che stabilisca parametri e principi fissi da seguire per concedere o negare i permessi agli ergastolani “ostativi”. Una legge che li sottragga alla discrezionalità dei semplici giudici di sorveglianza sul “percorso rieducativo” e “l’attualità della partecipazione all’associazione criminale”. Ma come si fa a capire se boss all’ergastolo, come Leoluca Bagarella e Giuseppe Graviano, condannati per le stragi, stiano realmente compiendo un percorso rieducativo? Nei casi degli altri ergastolani “comuni” la valutazione si basa principalmente sul comportamento da loro tenuto in carcere. Un comportamento che per i boss mafiosi è, però, tradizionalmente sempre impeccabile. Come allora stabilire se un capomafia vuole cambiare davvero vita e non sta fingendo? È possibile concedere benefici ai boss delle stragi, sebbene non abbiano raccontato i segreti di cui sono depositari? L’ergastolo ostativo era stato introdotto dopo Capaci. Da oggi in poi basterà invece trovare un giudice di sorveglianza che applichi pedissequamente la sentenza della Consulta per vedere mafiosi pericolosissimi uscire dal carcere in permesso premio. Anche perché se un giudice da solo dovrà decidere se concedere un beneficio a un boss, sarà esposto alle pressioni, ai ricatti, alle minacce di morte e ai tentativi di corruzione dei clan. Considerata la necessità e urgenza della lotta alla mafia, chiediamo una legge - o meglio un decreto legge - che impedisca a capimafia e agli altri responsabili di stragi di ottenere permessi e altri benefici senza meritarli. Una norma che il Parlamento dovrebbe approvare all’unanimità. Penalisti contro la Gabanelli. Querelata la giornalista del Corriere di Luca Rocca Il Tempo, 1 novembre 2019 Stavolta i penalisti non potevano far finta di nulla, ed è finita com’era ovvio che finisse, vale a dire con la querela dell’Unione camere penali contro Milena Gabanelli, rea di aver accusato gli avvocati dei mafiosi di far da tramite fra i boss in carcere e le loro cosche di appartenenza. Tutto ha avuto inizio tre giorni fa, quando la Gabanelli ha dedicato la sua rubrica “Dataroom” sul Corriere Tv alle sentenze con le quali la Corte europea dei diritti dell’uomo e la Consulta hanno “bocciato” l’ergastolo ostativo, stabilendo che anche il mafioso che non collabora con la giustizia può, se il suo legame con la criminalità organizzata è cessato, rivolgersi al magistrato di Sorveglianza per chiedere di ottenere, ad esempio, dei permessi premio. Partendo dal presupposto che è difficile accertare se davvero il mafioso in carcere ha reciso o meno i contatti con la sua cosca, la Gabanelli ha sostenuto che “migliaia di atti processuali, nel corso di quarant’anni, hanno dimostrato che casualmente emerge il fatto che il tizio che è in carcere ha ancora contatti con la cosca, e lo ha attraverso gli avvocati (i cui colloqui in carcere, ndr) non sono monitorabili”. Per la giornalista, dunque, in molti casi, come dimostrerebbero gli atti giudiziari, i legali dei mafiosi farebbero da tramite fra i propri clienti e le cosche. Affermazioni che hanno provocato la reazione di Giandomenico Caiazza, presidente dell’Unione camere penali: “Uno spettacolo miserando e miserabile di approssimazione, genericità, indifferenza e mancanza di rispetto per la dignità e la reputazione di una intera categoria di professionisti”, ha affermato il penalista, prima di domandarsi se sia questo “il giornalismo d’inchiesta nel nostro Paese”. Poi l’annuncio, con un’inevitabile punta di sarcasmo, della querela: “La signora Gabanelli verrà ora a raccontarci in Tribunale i riscontri che avrà certamente raccolto in ordine ad una simile, strabiliante e diffamatoria accusa nei confronti di tutti gli avvocati penalisti italiani impegnati in quei delicatissimi processi”. “Magistrati, avvocati e università hanno ucciso la nostra giustizia” di Marcello Mancini La Verità, 1 novembre 2019 La riforma del codice di procedura penale introdotta il 24 ottobre 1989 ha deluso aspettative e prospettive. Uno dei pochi legali alla Perry Mason spiega: “La novità era l’attività di difesa investigativa. È stata ignorata”. È un Paese democratico quello nel quale un cittadino ha paura della Giustizia? Si può definire un Paese libero quello nel quale un cittadino indagato o testimone, appena entra in un’aula si sente privato dei suoi diritti e ha difficoltà a svolgere il ruolo di testimone e, se indagato, ha paura ad affrontare il giudizio in tribunale? “Vede”, mi spiega Eraldo Stefani, avvocato penalista, “le aule di giustizia sono gelide, il cittadino si sente trasformato in un fascicolo, sente di perdere la propria identità e avverte di essere un semplice numero”. Mentre si continua a parlare di riforma, il nostro Paese non è riuscito ad applicare come si deve il Codice di procedura penale introdotto 3o armi fa. Stefani mi racconta di essersi trovato in un processo, come difensore, ad assistere una persona indagata, che veniva chiamata come sessantottesima nell’elenco dei processi che in totale erano ottanta. “Il cliente che mi stava vicino e aspettava il suo turno, balbettava, non potevo fare niente per tranquillizzarlo, tanto era inquietante la calca delle persone: che cosa aggiungere a questo stato d’animo del povero cittadino indagato, che potesse ridurre la sua ansia?”. La giustizia, la nostra Giustizia, che dovrebbe essere “uguale per tutti”, spesso odora più di ingiustizia che di legalità, ignora ormai il valore fondamentale del dubbio di fronte alla decisione di condannare o di non condannare quell’essere umano che è l’imputato. “Il dubbio è un sentimento, è come un crinale in alta montagna, e l’uomo si deve fermare di fronte al crinale del dubbio, così come recita l’articolo 533 del codice penale “...il Giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio”, riflette Stefani. Questo avvocato fiorentino rimane uno dei pochi in Italia ad aver indossato l’abito del “Perry Mason”, previsto dal nuovo Codice, esattamente 30 anni fa (il 24 ottobre 1989). Molti altri hanno lasciato l’abito nell’armadio delle cose perdute. Per scelta, per convenienza o per pigrizia. Stefani è stato protagonista di processi di difesa penale investigativa, di fondamentale importanza per riaprire processi, anche cold case, frutto di macroscopici errori giudiziari che nel nostro Paese sono numerosi. In questi giorni in tutta Italia si celebra l’anniversario dell’entrata in vigore del nuovo processo - convegni, buffet e lectio magistralis - ma c’è poco da festeggiare. Il nuovo processo è ancora quello vecchio, che risale al 1930 e porta il nome, quasi famigerato, di Alfredo Rocco, il Guardasigilli del governo Mussolini. Le novità che furono introdotte in pompa magna ne11989, non sono state mai veramente applicate. La più rivoluzionaria si chiamava “difesa penale investigativa”, ed era interpretata dall’avvocato che indaga al pari del pubblico ministero sul modello, appunto, del sistema americano e del celebre Perry Mason televisivo. Cioè si istituiva la figura dell’avvocato che contribuisce all’accertamento dei fatti per trovare la verità e non del difensore che si limita a confutare le accuse mosse dal pubblico ministero. Oltre tutto con la facoltà di avvalersi del contributo di un investigatore privato che l’avrebbe affiancato nella individuazione e nella raccolta delle prove. Mi racconta Stefani: “Si trattava di una novità epocale: il cittadino aveva la possibilità di difendersi provando. Da una parte c’era il pm, che poteva interrogare e verbalizzare le dichiarazioni dei testimoni, e dall’altra l’avvocato aveva l’opportunità, diversamente dal passato, di interrogare e raccogliere le dichiarazioni dei testimoni”. Per spiegare, l’avvocato fa un esempio pratico: “Il pubblico ministero poteva andare sul luogo del delitto con i propri ausiliari del sopralluogo, medico legale, il biologo, e l’avvocato poteva fare altrettanto andare con i propri ausiliari. Tutto questo imponeva una nuova cultura”. Lo fermo, perché voglio capire il motivo per cui tutto questo non è accaduto. La prima risposta è sorprendente: “Perché il pubblico ministero, cioè colui che svolge il ruolo dell’accusa, non accetta una condivisione investigativa con l’avvocato”. E il giudice?, chiedo. “Il giudice, che non conosce il fascicolo processuale, conosciuto soltanto dal pm e dal difensore, dovrebbe essere terzo e imparziale, spettatore passivo anche nella fase dibattimentale, cosa che la prassi operativa ha completamente disconosciuto”. Al fallimento di questa “Grande legge di civiltà giuridica” hanno contribuito però anche altri elementi. “Noi avvocati prima di tutti”, ammette Stefani, “che non siamo stati in grado di metabolizzare dal punto di vista culturale e operativo il nuovo ruolo che il codice ci assegnava, un ruolo che esaltava il diritto di difendere provando, senza stare in attesa dell’operato dei pm”. Ma qui c’è un’altra stampella che non ha sostenuto il nuovo processo, ed è l’Università che non ha diffuso un insegnamento pratico delle diverse attività di indagine utile per i futuri avvocati e magistrati. Questa è l’analisi. Chiedo a Stefani se c’è una soluzione. Ma è la stessa, fmo ad oggi disattesa: istituire in Italia una scuola, pubblica o privata, delle indagini difensive. La sfiducia nella giustizia persisterà se non saranno affrontati i limiti culturali che impediscono il cambiamento radicale. Se continuiamo a trovarci davanti a sentenze di Cassazione che smentiscono accuse e sospetti ritenuti credibili nelle precedenti fasi del giudizio. “Il nostro processo penale di ispirazione accusatoria che ha oggi trenta anni”, commenta Stefani, “è simile a quello dei paesi anglosassoni di common law nel quale vige il principio dello stare decisis e cioè il valore del precedente giudiziario. Nel nostro ordinamento giuridico questo principio non è stato recepito, per cui la Cassazione alterna decisioni in un senso e decisioni nel senso opposto. Tutto questo origina una incertezza della interpretazione della legge e una preoccupante situazione di incertezza della Giustizia”. Trent’anni sono passati inutilmente. Sono ancora numerosi i processi indiziari celebrati ogni armo in dibattimento (Corte d’assise, Tribunale) che invece, secondo le previsioni ottimistiche del legislatore, avrebbero dovuto essere una percentuale minima, nell’ordine del 10%, rispetto alla percentuale del 90%, dei processi definiti con i riti alternativi del patteggiamento e del giudizio abbreviato. Ne serviranno altri trenta per recuperare il ritardo? “Confido in una nuova generazione di giovani che sappia svolgere le nuove nobili funzioni di avvocati, pubblici ministeri e giudici che insieme, nel rispetto reciproco, sappiamo creare una giustizia più giusta per tutti. Credo fermamente in questo futuro che risolva la grave crisi della giustizia, oltre la quale, ne risentirà un beneficio risolutivo la crisi della politica e la crisi della società nella quale viviamo”. O dici la verità o butto la chiave… era innocente di Tiziana Maiolo Il Riformista, 1 novembre 2019 “Avvocato Melzi, forse non ha capito: se lei non mi dice tutto sulla “cosca Ferrazzo”, lei non esce più dal carcere, perché butto via le chiavi”. Se qualche ingenuo pensava che questo tipo di espressione, butto via le chiavi, abbondasse solo sulla bocca dello stolto o dell’incauto politico, può subito ricredersi. Questa parole sono state pronunciate, oltre dieci anni fa, da uno di quei magistrati che vengono indebitamente definiti da alcuni “antimafia” e da altri più correttamente “professionisti” della medesima, il dottor Mario Venditti, che all’epoca di questa storia era pubblico ministero della Dda a Milano. Le chiavi che il famoso magistrato voleva buttare erano quelle che tenevano incarcerato un brillante avvocato milanese, Giuseppe Melzi, noto non solo per aver assistito i piccoli risparmiatori della Banca Privata Italiana (vicenda Sindona) e del Banco Ambrosiano (vicenda Calvi), ma anche per le sue numerose attività nel mondo ella cultura, dell’arte, dei diritti e della solidarietà. Un bravo avvocato, un bravo cattolico, che stava sempre “dalla parte giusta”, quella dei deboli contro i forti, della giustizia contro le ingiustizie. Trentacinque anni di onorata professione senza macchia. Sedici anni di persecuzione del circo mediatico-giudiziario. Con le stimmate del mafioso, anzi del “regista” di un traffico di armi e droga tra la Svizzera e la Calabria, al soldo di una sconosciuta “Cosca Ferrazzo”, lavando soldi da reinvestire in Sardegna e altri luoghi turistici. Ora l’avvocato Melzi, a un anno dalla notizia dell’archiviazione del suo caso, ha scritto un Libro Bianco (“riservato a familiari ed amici”), in cui racconta anche di sé, della sua vita distrutta, lo studio professionale chiuso, la sospensione dall’Ordine degli avvocati, il carcere, la gogna, gli interrogatori infiniti, le intercettazioni e i pedinamenti subiti. Tutto ciò è il vestito che gli è stato cucito addosso con aghi crudeli. Ma quel che vuole far sapere a chi lo saprà ascoltare è che ogni giorno sono mille e ancora mille i vestiti cuciti addosso con crudeltà a tanti malcapitati, non da un sistema, ma da persone, che vengono chiamate con nome e cognome. E puntigliosamente vengono elencati gli ostacoli che certi amministratori di giustizia frappongono al diritto alla difesa e al rispetto della Costituzione. L’avvocato Giuseppe (o Pino o Pinuccio) Melzi viene “fermato” con una scusa alle ore 13,15 del primo febbraio 2008 davanti al suo studio di largo Richini, pieno centro di Milano, proprio di fronte all’Università Statale dove si è laureato. In caserma gli viene consegnato un ordine di custodia cautelare del gip Guido Salvini costruito con il copia-incolla: 258 pagine scritte dal pm e 18 dal giudice, veloce sintesi delle precedenti. Nella stessa giornata vengono perquisiti con esito negativo casa auto e studio legale dell’avvocato, dove vengono sequestrate carte di lavoro che riempiono sei faldoni. Lui viene portato a San Vittore. L’inchiesta nasceva a Varese, nelle mani di un pm, Agostino Abate, molto noto alle cronache perché in seguito sarà trasferito dal Csm al tribunale civile di Como per “gravi inerzie” in procedimenti famosi come il caso Uva e l’uccisione di Lidia Macchi. Nel corso dell’ indagine, chiamata suggestivamente Dirk Money, denaro sporco, Giuseppe Melzi ha subito, senza neppure un’informazione di garanzia, controlli bancari per quattro anni e mezzo, intercettazioni telefoniche su dieci diverse utenze e ambientali: 11.587 pagine di trascrizione, 17 faldoni di complessivi 76 dell’intero procedimento, OCP (osservazioni, controlli, pedinamenti) riportati in 169 pagine. La relazione finale dei Ros dei carabinieri individuava l’avvocato Melzi come il “regista” delle attività mafiose di una presunta “cosca Ferrazzo” e il suo studio legale, come scrisse in quei giorni per esempio La Repubblica, “uno dei luoghi d’incontro di affiliati alla ‘ndrangheta calabrese e truffatori italosvizzeri”. Dopo avergli infine inviato un’informazione di garanzia per “agevolazione mafiosa” e “riciclaggio” il dottor Abate aveva poi trasmesso per competenza gli atti alla procura “antimafia” di Milano, dove entrano in scena il dottor Venditti, quello delle chiavi, e il gip Salvini che ne dispone la custodia cautelare in carcere. E ricomincia la trafila degli interrogatori, con i legali (Giuliano Pisapia, Massimo Di Noia, Matteo Uslenghi) che si trovano nelle mani migliaia di pagine che dovrebbero sostenere un’ipotesi accusatoria che è solo un teorema. Complessivamente sono state verbalizzate 1.195 pagine e ancora non c’è il bandolo della storia. Nel frattempo, con grande sprezzo del pericolo, l’Ordine milanese degli avvocati sospende l’avvocato dalla professione. Poi, dopo 89 giorni di custodia in carcere e 7 mesi ai domiciliari, arriva la libertà e insieme la richiesta di rinvio a giudizio. Ma il gup Paolo Jelo, dopo aver scoperto che non era mai esistita una “cosca Ferrazzo” né in Calabria né altrove, scopre anche che la competenza territoriale non era radicata a Milano (e l’ufficio del “regista” dove si incontravano i mafiosi?), ma in Sardegna, dove si sarebbero dovuti fare i famosi investimenti con il denaro sporco. Nel 2016 i giudici sardi archiviano, dopo altri 7 anni di vane ricerche, l’inchiesta, definendo le indagini di Varese e Milano “assurde e cieche”. Ma non è ancora finita. Perché i magistrati archiviano e non notificano. Così l’avvocato Melzi verrà a sapere per caso da un collega sardo che la sua persecuzione è finita solo due anni dopo. Sono passati sedici anni dalle prime indagini. E oggi c’è questo Libro Bianco che andrebbe diffuso non solo a “familiari e amici” come l’ avvocato vorrebbe. Basterebbe leggere, oltre alla sua storia, i titoli dei capitoli che dedica alle distorsioni che condizionano le storie giudiziarie di tanti: l’avvocato indagato, il predominio dell’accusa, il potere a vita insindacabile dei giudici, la riparazione e il risarcimento, la madre di tutte le caste, le correnti orgogliose, i rischi professionali, discrezionalità e arbitrio, avvocato e non prestanome. E dedica un bel capitolo all’informazione, anche qui con nomi e cognomi di giornalisti, ma anche di autori di libri sulla mafia che parlano dell’avvocato Melzi come di un appartenente alle cosche. Come per esempio “Per non morire di mafia” di Pietro Grasso e Alberto La Volpe. P.S. “Dopo l’arresto dell’avvocato Giuseppe Melzi, accusato di riciclaggio e reimpiego di capitali a favore della ‘ndrangheta, abbiamo assistito all’ennesima condanna preventiva senza nemmeno aspettare l’esito di un processo. Possibile che nessuno abbia avuto il buon gusto di dire, o quantomeno di pensare, che l’avvocato Melzi potrebbe essere innocente?… Insomma, la storia non cambia, basta un’informazione di garanzia o un arresto per essere già colpevoli… Io, senza timore, pongo a tutti questa domanda, semplice e chiara: e se l’avvocato Melzi fosse innocente?”. Tiziana Maiolo, assessore al Comune di Milano, 13 febbraio 2008. Citazione dalla prima pagina del Libro Bianco.. Belluno. I ragazzi vanno “A scuola di libertà”, organizza l’associazione Jabar Il Gazzettino, 1 novembre 2019 Torna il progetto “A scuola di libertà” per parlare di carcere e legalità in classe. Per contrastare l’incidenza di reati tra i minorenni, anche bellunesi, e accrescere la consapevolezza su responsabilità civili e penali, l’associazione bellunese Jabar ripropone per il terzo anno il progetto nazionale A scuola di libertà. Si tratta di un’occasione per portare in classe riflessioni e dibattiti sul tema del carcere e per educare gli studenti alla legalità consapevole. La proposta si inserisce in un percorso ideato ormai diversi anni fa dalla Conferenza nazionale volontariato giustizia, di cui la Conferenza regionale del Veneto è membro attivo, la quale riunisce le associazioni che in Italia di occupano di volontariato in carcere o di temi sul carcere. Il progetto, alla settima edizione, è stato ideato per contrastare la facilità con cui i giovani scivolano in comportamenti a rischio, che si configurano nella maggior parte dei casi come veri e propri reati. Obiettivo è quindi ragionare assieme agli studenti sia dei rischi sia dei pregiudizi che riguardano il carcere e il mondo della pena in generale, in un percorso di formazione in classe che può andare dalle 2 alle 8 ore a seconda della disponibilità e delle esigenze dei singoli istituti. La proposta è gratuita e viene gestita da parte di alcuni volontari dell’associazione appositamente formati e preparati. Gli incontri sono caratterizzati da incontri frontali, slide, video e testimonianze. I temi trattati spaziano dal diritto penale alla responsabilità civile, dalle attività dell’associazione fino alla configurazione degli istituti carcerati italiani, con una parentesi dedicata anche al carcere bellunese. La partenza ufficiale del progetto è fissata al 15 novembre. Le scuole secondarie di secondo grado interessate a ospitare il progetto nel loro percorso educativo dovranno inviare la loro adesione ad associazione.jabar@gmail.com con l’indicazione del docente referente e delle classi da coinvolgere. La manifestazione è riconosciuta dal Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca (Miur). Firenze. Al carcere “Gozzini un progetto per promuovere la sostenibilità ambientale comune.fi.it, 1 novembre 2019 Coinvolte oltre 150 persone, con una riorganizzazione ed ampliamento della raccolta differenziata, borracce per i detenuti e caraffe nei refettori. L’ambiente protagonista anche nella Casa Circondariale Maschile “Mario Gozzini” di Firenze, l’istituto adiacente al più ampio Complesso Penitenziario di Sollicciano. Presentato oggi alla stampa il progetto che ha visto coinvolte le oltre 150 persone, tra detenuti e personale, presenti nell’Istituto, una realtà apparentemente chiusa al mondo esterno ma estremamente sensibile alle tematiche ambientali. Il progetto è stato realizzato in collaborazione con la struttura penitenziaria, Alia Servizi Ambientali SpA, Publiacqua, l’Amministrazione comunale e la Città metropolitana. La Casa Circondariale, nata con l’intento di rendere l’evento detentivo un’occasione per riflettere e riprogettare la propria esistenza attraverso proposte trattamentali ampie, ha richiesto una riorganizzazione del sistema di gestione dei rifiuti, la sensibilizzazione degli “utenti”, introducendo buone pratiche e attivando sistemi di riduzione della produzione di rifiuti. Alia Servizi Ambientali SpA, per gestire al meglio i rifiuti prodotti in questa “città-microcosmo”, ha valutato le necessità esistenti, ascoltando e coinvolgendo le 150 persone in 10 incontri formativi, svoltisi nei mesi di settembre ed ottobre. La riorganizzazione della raccolta differenziata, progettata per la “Città Gozzini”, ha lo scopo di incentivare la corretta separazione dei rifiuti ed il riciclaggio di materiale. È stato previsto il posizionamento di oltre 250 contenitori all’interno della struttura (cucina, lavanderia, biblioteca, refettori, laboratori vari, aula magna, stanza ricreativa, reparti, mensa del personale, etc..). Questi punti di raccolta prevedono postazioni complete, composte dai contenitori per: carta e cartone; imballaggi in plastica, metallo, tetrapak e polistirolo; organico e residuo non differenziabile. In esterno sono state riviste le 2 postazioni esistenti, collocate a Nord e Sud della struttura nell’anello interno, composte adesso da 8 e 6 contenitori. Inoltre, è stato richiesto di incrementare la raccolta delle pile esauste, già presente, e sono in fase di attivazione anche raccolte. In questo contesto di sensibilizzazione e trasformazione si è inserito anche l’intervento di Publiacqua, che torna a distribuire borracce ai detenuti, caraffe per i refettori ed a programmare un’attività didattica dedicata all’acqua del rubinetto. Inoltre, il gestore del servizio idrico si è reso disponibile a rinnovare, dopo quanto fatto negli anni scorsi, il controllo della qualità dell’acqua interna ai rubinetti interni i reparti. Il lavoro illustrato oggi rappresenta la prosecuzione di un percorso intrapreso a seguito di accordi tra l’allora Provincia di Firenze e la Casa Circondariale Gozzini nel 2004, con l’operatività del Laboratorio Didattico Ambientale delle Città Metropolitana di Firenze. “Sosteniamo con convinzione questo progetto che da un lato promuove anche in questo luogo buone pratiche ambientali, dall’altro, coinvolgendo i detenuti in prima persona nella filiera del riciclo e nella raccolta differenziata, fornisce loro ulteriore opportunità di formazione, utile al reinserimento sociale - dice Cecilia Del Re, assessore Ambiente Comune di Firenze -. La rivoluzione ‘green’ che come Amministrazione vogliamo portare avanti passa anche da iniziative come queste”. “Questo progetto è un primo importante passo verso un cambiamento di approccio culturale al carcere. Attraverso l’ambiente lavoriamo per ridurre la marginalità a 360° - ha commentato la Direttrice della Casa Circondariale, Antonella Tuoni-. Credo molto nel mantenimento da parte del detenuto del ruolo della cittadinanza attiva, fondamentale in un paese democratico. Così come recita l’art. 3 comma II° della Costituzione noi abbiamo anche il compito di rimuovere gli ostacoli che hanno impedito alla persona di operare in maniera corretta nella società. In quest’ottica si inseriscono i percorsi partecipativi come questo, reso possibile grazie al coinvolgimento collettivo nella realizzazione delle buone pratiche. In questo senso facciamo tesoro dei suggerimenti di tutti i detenuti, compresi quelli arrivati oggi di stoviglie lavabili e riutilizzabili e di fontanelli pubblici”. “Non è facile entrare in un contesto come questo, con regole restrittive ed intervenire con un cambio di mentalità. Grazie al lavoro di squadra di tutti gli attori coinvolti è stato possibile creare strutture rispondenti alle necessità della Casa Circondariale, inserendo oltre 250 contenitori per le raccolte principali ma anche per quelle particolari, come i piccoli Raee, le pile e gli oli esausti di origine alimentare - così Alessia Scappini, AD di Alia Servizi Ambientali SpA-. Abbiamo progettato un sistema a 360°, che monitoreremo costantemente, parlando di rifiuti e di ambiente, di corretto conferimento e riciclaggio di materia. Con questo progetto semiamo cultura per la tutela dell’ambiente, un passo importante per tutti”. “Riprendiamo il progetto con la Gozzini a distanza di qualche anno e, come allora, distribuiremo borracce per ogni singolo detenuto e caraffe per le mense. Ci metteremo inoltre a disposizione dell’amministrazione per verificare la qualità dell’acqua erogata all’impianto interno della struttura e, con la stessa amministrazione stiamo valutando la possibilità di installare due erogatori a disposizione di detenuti e personale del carcere - ha commentato Lorenzo Perra, Presidente di Publiacqua. È un progetto per noi molto importante. La Gozzini lavora tutti i giorni per restituire alla società cittadini migliori e più consapevoli, nel nostro piccolo, anche noi cerchiamo di fare la nostra parte”. Modena. “Ulisse”: i detenuti scrivono raccontando il loro carcere di Beppe Manni Gazzetta di Modena, 1 novembre 2019 Pubblicazione interna per condividere i sogni di una nuova vita Trent’anni di Gruppo Carcere Città per rompere il muro della separazione. Intravvediamo il carcere di Sant’Anna, quando passiamo sulla tangenziale: una fortezza isolata alla periferia della città. Sappiamo che dentro ci sono i carcerati che “giustamente” scontano la loro pena per aver infranto le leggi. Sono dentro al sicuro, protetti dalle sbarre per loro e per noi. Non suscitano in noi, cittadini per bene, nemmeno la pietà che siamo soliti spendere per i malati terminali, i profughi in balia delle Mediterraneo, i bambini affamati dei mondi lontani o i barboni. La loro pena, si è soliti pensare, se la sono voluta. Sgretolare queste sicurezze, rompere il silenzio che li circonda è un’operazione difficile. Il carcere di Sant’Anna è stato inaugurato nel 1991 e ha sostituito l’antico edificio di via Sant’Eufemia; ha una capienza di 369 detenuti ma al 30 settembre ne ospita 512 tra cui 31 donne (Dati del ministero di giustizia). Gli stranieri sono la maggioranza, 330. Provengono in ordine di numero dal Marocco, Tunisia, Albania, Romania, Nigeria ecc. Eppure, da più di 30 anni il Gruppo Carcere e Città, fondato da Paola Cigarini, cerca di far cadere il muro che separa il carcere dalla città, ascoltando i carcerati e organizzando attività all’interno assieme ad altri volontari. Si lavora perché sia conosciuta all’esterno la situazione delle persone detenute, con iniziative pubbliche e articoli sui giornali. Si cercano vie alternative per il lavoro e l’inserimento nella società civile dei detenuti e finanche un dialogo tra chi ha commesso un reato e le vittime. Carcere che si apre alla Città dunque: una specie di ponte che unisce la “galera” alla cittadinanza. Perché non sia un’istituzione chiusa ma in qualche modo dialoghi con il territorio. Nel carcere modenese è nata da qualche anno una sezione speciale che si chiama “Ulisse”. Raccoglie una quarantina di ospiti che si sono resi disponibili a collaborare attivamente in diverse iniziative: scuola di inglese, teatro, corsi di formazione professionale, momenti ricreativi ecc. Da un po’ di tempo con la direzione del volontario Pier Giorgio Vincenzi, è nato anche un giornale dal titolo appunto di “Ulisse”, stampato in poche copie per parlare dei problemi interni. Da quest’anno ha fatto un salto di qualità. “Ulisse” diventa ufficialmente aperto a tutta la città. I carcerati raccontano se stessi e i problemi della loro detenzione per entrare in dialogo con la società. Ne vengono stampate un centinaio di copie ed è pubblicato, oltre che sul sito del Gruppo, anche all’interno del Giornale on-line MoCu Modena Cultura diretto dalla giornalista Valentina Fabbri. Il sottotitolo di questo primo numero è: “Diventare adulti in carcere”. Le testimonianze e i disegni raccontano la storia travagliata e sfortunata di dodici giovani e giovanissimi carcerati. Esprime il disagio di questi ragazzi che per una serie sfortunata di avvenimenti familiari e sociali sono entrati nella rete della delinquenza e non sono più riusciti a uscirne. Vorrebbero rifarsi una vita attraverso un lavoro, la ricongiunzione con la famiglia, una casa dove stare senza sentirsi bollati come lebbrosi. “14 anni di galera, me li sento sulle spalle. Non è facile stare dentro e più ci penso e più mi pento di quello che è successo. Ho perso gli anni più belli della mia vita e non auguro a nessuno di non potersi permettere un sogno” (Karim Beradi). “Ho 18 anni, ci hanno tagliato le ali…vi prego vorrei poter uscire a fare un giro fuori” (Achraf Cherif). “Il recupero di un giovane non si ottiene con il carcere… lo distrugge per poi marchiarlo in modo indelebile. Bisognerebbe valutare nuove e diverse forme alternative, per renderlo consapevole dell’errore che ha commesso e del danno che ha arrecato…” (Farid e Marco). “Non so da dove cominciare ma so che sono cambiato da quando sono entrato in carcere, anche grazie a due miei amici che frequento nella sezione Ulisse. Il carcere serve se lo vuoi tu” (Ousama Lebbarà). Giulio dopo avere raccontato la sua lunga storia iniziata a 19 anni: “Di fronte ad un adolescente è difficile dire quello che si deve fare ma vi dico… non lasciatevi trascinare per il solo brivido dell’illegale e dalla facilità della droga”. “Con la nostra voce dal pianeta Carcere vogliamo fare capire alla gente fuori chi siamo veramente, come viviamo l’espiazione della pena e arriviamo a prendere coscienza dei nostri errori… abbiamo tanto da dare da raccontare e da insegnare…” (Dungaj Fatmir). “Sono Teki albanese rinchiuso nel carcere di Modena da un anno e sette mesi”. “Sono Alexander, un Rom, e mi trovo in carcere a Modena da 8 anni… avrei voluto essere diverso con un lavoro onesto e una casetta dove stare con la mia famiglia”. Roberto scrive al sindaco di Modena: “In una realtà come quella di Modena… non è possibile che dentro il carcere non ci siano corsi specializzati… per aiutare i carcerati a cambiare stile di vita… occorre costruire un ponte offrendo occasioni per un cambiamento concreto per coloro che hanno sbagliato… condannati a pagare per sempre causa i pregiudizi della gente… Anche la spazzatura è diventata risorsa. Anche noi possiamo essere una risorsa economica. Abbiamo a disposizione una enorme quantità di manodopera che no produce nulla. Il tempo da solo non guarisce”. E conclude. “Signor sindaco, lei ha il dovere di preoccuparsi di tutti i cittadini, anche di quelli rinchiusi in carcere”. Il nuovo “Ulisse” viene ufficialmente presentato il 4 novembre alle ore 21 in via Morandi 71 a Modena, all’interno di una iniziativa curata da MoCu. Operation Jurassic. Si potrà sfogliare e portarlo a casa per leggerlo con calma. Velletri (Rm). I detenuti diventano vignaioli, prodotto un buon vino rosso al carcere di Luciano Sciurba Il Messaggero, 1 novembre 2019 A Velletri i detenuti diventano vignaioli. Il “Rosso di Lazzaria”, è un vino rosso prodotto con le uve della grande tenuta agricola con vigna che si trova all’interno della struttura penitenziaria e infatti prende il nome dalla zona dove si trova la Casa Circondariale. Il vino è stato presentato nella cantina interna al carcere alla presenza del vescovo di Velletri, monsignor Vincenzo Apicella, del vice garante dei detenuti Sandro Compagnoni, dell’enologo che ha curato la produzione Sergio De Angelis e di numerosi altri ospiti ed esperti del settore. “È stata una battaglia vinta, ha detto al direttrice del penitenziario Donata Iannantuono, abbiamo rimesso in piedi la cantina, impegnato l’agronomo della struttura Marco De Biase, alcuni agenti di polizia penitenziaria e diversi detenuti che si sono offerti volontari. Alla fine è venuto fuori un prodotto eccellente, che va’ ad aggiungersi al pane di Lariano, prodotto nella Casa Circondariale di Re Bibbia,, con cui abbiamo stretto un’ottima collaborazione nel produrre i prodotti tipici locali, come anche l’olio d’oliva, che viene sempre prodotto qui da noi grazie ai nostri uliveti e alla collaborazione dei detenuti”. Livorno. Teatro-carcere, in scena alle Sughere “Un tuffo al cuore” livornotoday.it, 1 novembre 2019 Lunedì 4 novembre alle 14.30, nella Casa Circondariale di Livorno, andrà in scena la performance di teatro e danza “Un tuffo al cuore”. La rappresentazione è frutto del lavoro del laboratorio teatrale permanente a cura di Arci Livorno con la direzione artistica di Francesca Ricci, il sostegno della Regione Toscana e in collaborazione con la direzione della Casa Circondariale di Livorno, Atelier delle Arti e Nuovo Teatro delle Commedie. Lo spettacolo rientra nel programma dello Sharing Lab, un festival di laboratori teatrali che coinvolge molte realtà cittadine e che, per la prima volta, entra nel carcere di Livorno. Sono molti gli spettacoli prodotti negli spazi detentivi e rappresentati sia dentro sia fuori dal carcere: Teatro Goldoni, Nuovo Teatro delle Commedie, Effetto Venezia, Roma e nelle città di Firenze e Pesaro per la Rassegna Nazionale di Teatro e carcere Destini Incrociati. Nell’area interna è proficua la collaborazione con le scuole superiori di secondo grado che hanno la possibilità di entrare all’interno dell’istituto per assistere agli spettacoli. Lunedì 4 novembre sarà la volta dei cittadini, circa 30 persone, che potranno varcare i cancelli del carcere e partecipare alla performance “Un tuffo al cuore”. Lo spettacolo è già stato proposto l’estate scorsa presso Villa Sansoni e nella Chiesa di S. Caterina durante Effetto Venezia, mentre a dicembre, è tra gli spettacoli selezionati per la Rassegna nazionale Destini Incrociati presso il Teatro Civico di Saluzzo in Piemonte. “Un Tuffo al Cuore” è una performance di teatro e danza che dà voce e corpo a una raccolta di lettere legate a figure femminili importanti nella vita dei detenuti-attori. Un tappeto sonoro accompagnerà l’intera performance, in un crescendo che è un vero e proprio tuffo al cuore. Le azioni coreografiche sono pensate e create per dare corpo e spazio al bisogno di cura e alla relazione con l’altro, in un tempo impiegato nell’attesa dell’incontro. Regia di Francesca Ricci. Azioni coreografiche di Chelo Zoppi. Aiuto regia Raffaele Papa. Supporto tecnico Matteo Giauro. Le lettere sono scritte e interpretate da Ghassen Hammami, Idrissi Ouali Driss, Haikal Mouradi, Karim Abdelkadir, Giuseppe Allocca, Yassine Ammar, Mohammed Ouhdif e Luca Minucci; con la partecipazione di Asia Pucci, Clio Pucci, Simona Baldeschi e Francesca Ricci. Lo spettacolo è a numero chiuso e le prenotazioni sono terminate il 20 ottobre. Foggia. “Un’ora d’aria colorata”, con Luca Pugliese applausi ed emozioni nel carcere di Piero Paciello lattacco.it, 1 novembre 2019 Standing ovation per “Un’ora d’aria colorata” nella Casa Circondariale di Foggia. Ieri pomeriggio un centinaio di detenuti hanno applaudito e cantato insieme con Luca Pugliese, poliedrico artista campano che si è esibito in numerosi classici della musica napoletana. Il concerto, fortemente voluto dalla direttrice dell’istituto, Giulia Magliulo, dal comandante del corpo di polizia penitenziaria, Luca Massimiliano Di Mola e dal capo area trattamentale Giovanna Valentini, ha visto il musicista esibirsi nella sua veste live preferita: la versione “one man band” (voce, chitarra, percussioni a pedale). “Le mie canzoni e la mia musica - ha detto Pugliese - godono di un’energia totalmente diversa da quando ho deciso di regalarle a chi ne ha veramente bisogno. Se vogliamo migliorare il nostro paese, dobbiamo cominciare dal basso, recuperando e riabilitando chi ha sbagliato, e che ciò non è solo doveroso, ma è anche possibile. Io metto gratuitamente a disposizione una mia competenza; se tutti dessero qualcosa gratis per alleviare la sofferenza altrui, sicuramente il mondo starebbe più in armonia con se stesso”. Insieme a lui sul palco, per qualche minuto, anche Enzo, detenuto con un grande talento musicale, applaudito dagli altri ristretti per la sua esibizione. “Questi eventi, in cui i detenuti si mettono in gioco - il commento del direttore dell’Istituto Penitenziario, Giulia Magliulo - sono molto importanti per i percorsi trattamentali. La musica, che io amo particolarmente, ha un grande valore educativo. Come diceva Aristotele, può procurare la catarsi, ma anche donare sollievo. La funzione terapeutica della musica scaturisce da quel particolare ‘poterè che ha il suono di elevare lo spirito. In un contesto come questo diventa quasi magica, perché può portare lontano, regalare un sorriso”. Nuovi percorsi trattamentali e maggiore sicurezza, dunque, sono gli obiettivi del direttore Magliulo, a capo della Casa Circondariale di Foggia da circa due mesi. “Ho scelto questa destinazione - ha sottolineato - perché volevo dare il mio contributo in un luogo in cui fosse necessario uno sforzo in più. In questo Istituto c’è carenza di personale e per questo motivo diventa ancora più importante lavorare sulla motivazione, investire sulle relazioni. Il persole in servizio diventa come una seconda famiglia: qui si trascorrono insieme tante ore ed è importante cogliere e valorizzare ogni risorsa. Costruire una rete con le istituzioni presenti e operanti sul territorio è un’altra priorità a cui sto già lavorando, con massimo impegno”. Non si nasce razzisti: chi ci inietta il veleno dell’odio? di Gabriele Romagnoli La Repubblica, 1 novembre 2019 È molto difficile spiegare il razzismo a chi non lo conosce, non lo ha dentro, non lo considera naturale. Perché pensa sia qualcosa di estraneo, inculcato. Non è nel sangue, è un veleno che viene iniettato, preparato chimicamente da chi trae una qualche forma di vantaggio diffondendolo. Razzisti non si nasce e molto spesso e volentieri non si diventa. Sono cresciuto a Bologna che, a dispetto dei luoghi comuni, non era la città aperta e cordiale che veniva raccontata. Di una famiglia del palazzo sentii dire che era “brava gente, benché marocchini”. Erano pugliesi. Quando si prendeva un treno per Roma circolava la raccomandazione di assicurarsi non proseguisse oltre, o ci sarebbero stati passeggeri “che si tolgono le scarpe e mangiano formaggi”. Anni più tardi andai a lavorare a Torino e qualcuno mi accolse ringhiando: “Perché vieni a rubarci posti da giù?”. Dove “giù” era il luogo che i miei concittadini del giorno prima consideravano “su”. Quando tutto è relativo, ne consegue che ogni affermazione non si basa su una verità, ma su una pretesa: riguardante alloggi, posti, lavori. Basta spostarsi dal centro di gravità, non rendendolo permanente, per vedere il ballo dei punti di vista diventare frenetico. Un nordafricano su un autobus lombardo era guardato decine di anni di fa come un’eresia ambulante. Chissà come si sentiva. Nessuna rappresentazione può restituirci le sue emozioni, bisognerebbe sperimentarle. Più o meno come mi è capitato spesso, da unico occidentale, bianco in mezzi di trasporto o stazioni africane o arabe. Aveva motivo la diffidenza o addirittura il ribrezzo fondamentalista nei miei riguardi? Ero una minaccia per gli altri? A mille chilometri di distanza, in quello stesso istante, le parti e i colori non erano forse rovesciati? C’è un episodio abbastanza convincente che può essere tramandato. Esiste un’isola dispersa nell’oceano, chiamata Tristan da Cunha, a metà strada tra Brasile e Sudafrica. I suoi abitanti discendono per la maggior parte da un gruppo di naufraghi. Sono stati abituati a vivere senza seguire condizionamenti “culturali” preesistenti, tant’è che hanno organizzato la società prevedendo una turnazione degli incarichi e delle mansioni. Generazioni si sono succedute in questa remota landa finché, all’inizio degli anni Sessanta, una minaccia atmosferica ne consigliò l’evacuazione. Vennero trasportati a Città del Capo dove vigeva l’apartheid e si narra che ebbero una reazione sbalordita, non capendo come fosse possibile e, soprattutto, non adeguandosi. Il che porta a chiedersi: chi mai, di suo, per natura, potrebbe odiare la senatrice a vita Liliana Segre? Pensare di dover spiegare l’assurdità e la pericolosità del razzismo a qualcuno, di qualunque età, sembra un torto alla sua intelligenza e sensibilità. D’altronde, chi compie l’operazione contraria fa un torto, ben più grande, all’intera umanità. Purtroppo la sovrappopolazione del pianeta non offre sufficienti isole deserte in cui trapiantare costoro e lasciarli a disegnare confini, erigere muri, frammentarsi negli infiniti e immaginari popoli sovrani di su e di giù. Liliana Segre: “Stupita dal voto. Non ci si può astenere dalla lotta al razzismo” di Simonetta Fiori La Repubblica, 1 novembre 2019 La senatrice: “La stagione dell’odio? Credevo fosse finita. Ma quando una democrazia è fragile il passato può ripetersi”. È ancora frastornata Liliana Segre, come se non riuscisse a capacitarsi della brutta pagina di storia parlamentare scritta dalla destra di Salvini, Meloni e Berlusconi. Novantotto senatori della Repubblica che si astengono di fronte a una proposta che a lei appare ovvia sul piano morale, come può essere scontata l’istituzione di una commissione per avversare l’odio e la discriminazione razziale (approvata avantieri con 151 voti favorevoli). È ancora frastornata Liliana Segre, come se non riuscisse a capacitarsi della brutta pagina di storia parlamentare scritta dalla destra di Salvini, Meloni e Berlusconi. Novantotto senatori della Repubblica che si astengono di fronte a una proposta che a lei appare ovvia sul piano morale, come può essere scontata l’istituzione di una commissione per avversare l’odio e la discriminazione razziale (approvata avantieri con 151 voti favorevoli). “Il mio era un appello etico che parlava alle coscienze, alle anime e ai cervelli dell’intero ceto politico italiano, senza distinzione tra destra e sinistra. Davo per scontato che il Senato della Repubblica l’avrebbe accolto come si accoglie un principio fondamentale di civiltà. Il mio sentimento davanti alle astensioni? Stupore, un profondo senso di stupefazione. Come difficilmente ci si può sorprendere alla mia veneranda età”. Soprattutto da testimone degli orrori di Auschwitz, bersagliata ogni giorno da oltre duecento messaggi di odiatori antisemiti. Un episodio grave, che rivela la deriva estremista della destra italiana. “Ho sentito però degli applausi che partivano da quella parte dell’aula. Mara Carfagna ha preso le distanze dall’astensione. Ma la mia sorpresa più grande è stata la citazione di Orwell fatta da Salvini, quando ha paragonato la commissione all’organo d’uno Stato di polizia per l’imposizione del pensiero unico”. Non poteva trovare citazione più paradossale, essendo lei stata una vittima del totalitarismo… “Soprattutto mi ha scippato un autore che cito moltissimo quando vado in giro nelle scuole. Sia 1984 che La fattoria degli animali restituiscono con efficacia le mostruosità del totalitarismo. Mi sfugge cosa c’entri tutto questo con la commissione contro l’odio razziale. Ma Orwell resta l’unico punto di contatto tra me e il leader della Lega. Seppure da punti di vista radicalmente opposti”. La storia viene ribaltata. E di un’Italia alla rovescia lei aveva parlato anche il giorno dell’insediamento del nuovo governo… “Sì, citai una massima del Talmud: Chi salva una vita salva il mondo intero. Un principio rovesciato da chi voleva punire i volontari del Mediterraneo accorsi in aiuto dei migranti naufraghi”. Salvini si è opposto alla commissione con questa domanda: chi decide cos’è il razzismo? Chi sono i giudici supremi? Secondo lei, senatrice Segre, il razzismo è una cosa su cui si può discutere? “No, avendolo provato sulla mia pelle. Pensavo che sulle discriminazioni razziali non ci fossero margini per i distinguo. Ma evidentemente i tempi sono cambiati. Oggi sono morti i carnefici e pure le vittime. La storia si può riscrivere. E ci sono tanti uomini per strada. L’uomo nero. L’uomo bianco. L’uomo giallo. Chi non è eguale a me fa paura”. L’astensione della destra copre la volontà di proteggere da oscuramento la galassia dei siti neofascisti… “Guardi, io non volevo neppure entrare nel dettaglio, pensando che nella sottocommissione di controllo ciascun senatore di diversa parte politica avrebbe potuto dare la propria indicazione: questo sì, questo no. Ma hanno preferito astenersi di fronte a un principio di carattere generale”. Ed è partita la campagna di falsificazione. Ieri sui canali Mediaset Giorgia Meloni diceva che la Commissione potrebbe colpire gli italiani patriottici. Basterebbe dire “amo il mio paese” per essere puniti… “Ma come può venirle in mente? Mi ha telefonato l’altra sera: sa, ci siamo astenuti perché noi difendiamo la famiglia. Le ho risposto: cara signora, io difendo così tanto la mia famiglia che sono stata sposata per sessant’anni con lo stesso uomo. Qualcuno mi dovrà spiegare cosa c’entri tutto questo con la commissione contro l’odio”. Forse vale la pena di leggere cosa s’intenda con hate speech: tutte le forme di incitamento all’”odio razziale” e le “discriminazioni verso gli immigrati sorrette da nazionalismo aggressivo”… “Il “nazionalismo aggressivo” è cosa diversa dal patriottismo. Posso ben dirlo io che amo moltissimo il mio paese ma ho patito le conseguenze del nazionalismo praticato dal fascismo”. Con la sua storia di sopravvissuta, avrebbe mai pensato di trascorrere la vecchiaia bombardata dagli hater antisemiti e con quasi cento senatori della Repubblica che si oppongono a una commissione contro il razzismo? “No. Credevo che la stagione d’odio fosse finita dopo la guerra. Ma quando una democrazia è fragile si possono ripetere situazioni del passato. E chi vive più a lungo corre il pericolo di vedere cose che non vorrebbe vedere”. Migranti. I veri obiettivi del patto crudele di Roberto Saviano La Repubblica, 1 novembre 2019 Il governo nato dall’alleanza tra M5S e Pd - la cui primaria esigenza è non scomparire con nuove elezioni - in materia di immigrazione sta sbagliando tutto. O forse non sta sbagliando, perché l’accordo tra Italia e Libia per il contenimento dei flussi migratori nasconde altro e cioè il tentativo di tutelare gli interessi energetici dell’Italia in Libia? Il dubbio che la questione migratoria sia la migliore copertura possibile per la questione energetica è forte. Ci hanno parlato per anni di invasione, ci hanno fatto sentire insicuri nelle nostre case, hanno proclamato che non sono importanti i numeri, ma la percezione che abbiamo di quei numeri. Tutto questo non è stato fatto solo per polarizzare l’opinione pubblica al fine di ottenere i voti degli arrabbiati, ma probabilmente per un fine ben più strategico: giustificare lo stanziamento di fondi da mandare in Libia, magari a vantaggio di una parte. E se l’accordo sul “contenimento” dei flussi migratori fosse anche una copertura per sostenere Fayez al Serraj con l’avallo di Trump? Sarebbe un modo per partecipare alla guerra civile, anche perché l’impressione è che la vita delle persone detenute illegalmente nei lager libici sia senza valore al cospetto degli interessi petroliferi italiani. Se da un lato le motivazioni dell’accordo italo-libico parrebbero chiare, resta la amara consapevolezza che più a lungo questo governo lascia in mare chi fugge dall’inferno libico, più i feroci populisti potranno urlare facendo campagna elettorale sulla pelle di quei disperati. Nei prossimi giorni verrà rinnovato l’accordo: si tratterebbe di altri 50 milioni che si aggiungono a quelli già stanziati dall’Europa negli scorsi anni. Questo accordo fa il paio con quello che la Germania di Angela Merkel ha siglato con il tiranno Erdogan per il controllo dei confini orientali dell’Europa. Ma quale pensiamo possa essere il nostro futuro se finanziamo governi autoritari e in guerra? Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha detto che avrebbe convocato una commissione italo-libica per favorire un ulteriore coinvolgimento delle Nazioni Unite. Di Maio ignora che le Nazioni Unite, visto il numero abnorme di migranti illegalmente trattenuti in Libia (650mila è la stima per difetto) non riescono a prestare soccorso, a creare corridoi umanitari o anche a rimpatriare chi dalla Libia non vuole nemmeno più venire in Europa, ma tornare al proprio Paese di origine. E mentre accade questo, a noi viene portata come prova dei presunti effetti positivi dell’accordo italo-libico la diminuzione degli sbarchi. Dagli oltre 100mila arrivati in Italia nel 2017, si è passati ai quasi 3000 del 2019. Ma queste cifre non ci dicono che sono calati gli arrivi in Libia dai Paesi limitrofi prima ancora che gli arrivi in Europa. E non ci dicono nemmeno che fine fanno le migliaia di persone che restano Libia e non possono partire. Non ce lo dicono, ma noi lo sappiamo: restano bloccate in centri di detenzione dove subiscono ogni genere di tortura. Restano bloccati nel Paese che ci minaccia di lasciarli venire tutti in Italia e in cambio ottiene soldi. Possibile che ci sia qualcuno al governo che abbia il coraggio di rivendicare questa schifezza? Ma non è tutto: il Consiglio presidenziale di Tripoli ha emesso un decreto che impone alle Ong di non intervenire senza il permesso della Guardia costiera libica, anche in caso emergenza. Il decreto, inoltre, impone alle Ong di garantire l’accesso alle loro imbarcazioni a ufficiali libici. Magari a salire a bordo saranno gli stessi che hanno aperto il fuoco mentre la Alan Kurdi salvava i migranti. O sarà proprio Abdulrahman Al Milad, detto Bija, riconfermato a capo della Guardia costiera di Zawyah nonostante, secondo l’Onu, sia un torturatore e un trafficante di esseri umani. Non è assurdo imporre alle Ong che salvano vite l’ennesimo codice di condotta, mentre nessun codice di condotta è imposto a chi tortura e uccide? Due giornalisti, Nello Scavo e Nancy Porsia, sono stati posti sotto tutela proprio per aver raccontato chi fosse Bija e per aver svelato la sua presenza in Italia nel 2017, seduto a un tavolo con funzionari dell’Interno (al Viminale c’era Minniti) con cui trattava il blocco dei migranti. Un criminale ha trattato con l’Italia il blocco dei migranti. Forse potremmo fermarci qui e non aggiungere altro, ma due navi sono ancora in mare: la Alan Kurdi della Ong Sea-Eye con 90 naufraghi e la Open Arms, che ne ha 15. I migranti della Alan Kurdi non hanno solo subìto torture e maltrattamenti in Libia, ma sono stati soccorsi mentre i criminali della Guardia costiera libica, che noi italiani addestriamo e finanziamo, gli sparavano addosso. Il governo, prima di concedere tregua ai disperati della Ocean Viking, ha aspettato di perdere nel voto in Umbria. Le prossime elezioni ci saranno in Emilia Romagna tra troppo tempo, mentre in mare la disperazione è tangibile, e urgente è la necessità di far sbarcare le 105 persone della Alan Kurdi e della Open Arms, provando ad agire senza sentirsi costretti alla ferocia da una tendenza generale. Ma credo che sia importante tranquillizzare chi ritiene che questo secondo governo Conte abbia aperto i porti. Niente affatto: i porti sono chiusi, anzi, si aprono e si chiudono proprio come quando al governo c’era Salvini, per mera propaganda e convenienza elettorale. Su immigrazione e sicurezza tutti gli ultimi governi hanno agito in totale continuità. Esiste una gestione dell’immigrazione inaugurata da Minniti, proseguita da Salvini e abbracciata dal secondo governo Conte che individua nemici per scaricargli addosso responsabilità che non hanno, che crea tensione e odio sociale senza risolvere alcun problema e che ignora quel che invece è fin troppo chiaro: non si possono chiudere i porti, non si possono bloccare i flussi migratori; si tratta di sfide epocali che si devono affrontare con senso dello Stato, con senso della comunità e con l’umanità del diritto. Non sento di poter chiedere a questo governo un cambio di rotta, ma se il suo destino è segnato, che almeno dimostri di tenere in conto la vita umana, perché la realpolitik non sarà una scriminante innanzi alla Storia. Migranti. Memorandum sulla Libia. Dissidenti 5S e renziani uniti contro il governo di Giulia Merlo Il Dubbio, 1 novembre 2019 Il rinnovo degli accordi divide i parlamentari della maggioranza. Tutti in pressing sulla Farnesina e sul suo titolare, Luigi Di Maio. Nel mirino di una buona fetta della maggioranza è finito il memorandum Italia- Libia (il documento firmato dall’allora premier Paolo Gentiloni nel 2017 con il primo ministro libico al-Serraj che prevedeva aiuti economici italiani per i cosiddetti centri di accoglienza in Libia e supporto alla guardia costiera libica per contrastare l’immigrazione illegale), riportato al centro del parlamento proprio da un’interrogazione del Pd al ministro. Di Maio ha tentato di essere evasivo, spiegando che “interromperlo sarebbe un vulnus politico ma lavoriamo per migliorarlo”, ma i parlamentari in un inedito schieramento che ha visto a fianco esponenti di Pd, Leu e Italia Viva non hanno mollato la presa e a loro si è aggiunta anche una buona fronda grillina. Ad intervenire sul tema è stato addirittura il presidente della Camera, Roberto Fico, il quale ha detto che “se ci dev’essere, il memorandum deve essere aggiornato”, perché “Quando è stato sottoscritto, la Libia era in un’altra condizione, oggi è in una condizione di guerra e di assenza di democrazia”. Parole inattese quanto decise, quelle di Fico, cui è seguita un’interpellanza parlamentare diretta al presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, firmata dai parlamentari Paola Nugnes, Elena Fattori, Gregorio De Falco, Saverio De Bonis e Doriana Sarli, in cui si chiede la sospensione del memorandum, “impostato sull’idea di un contenimento dell’immigrazione senza che ci si preoccupasse delle conseguenze e dei metodi usati per contenere si pone all’origine della costante violazione dei diritti dell’uomo nei confronti di coloro che cercano di fuggire da povertà, miserie, guerre e che si trovano ad essere veri e propri prigionieri in Libia”. Sulla stessa linea, anche i parlamentari del centrosinistra, che hanno sottoscritto nei giorni scorsi un appello per bloccare il memorandum. “Dire che si vogliono cambiare gli accordi con la Libia e poi rinnovarli è una pagliacciata. Indignarsi per la violazione dei diritti umani e poi confermare un memorandum che serve a finanziare i lager è una squallida ipocrisia. Abbiamo ancora 2 giorni per fermare questa follia”, ha scritto Matteo Orfini, da sempre in prima fila sulla questione migratoria anche se spesso in disaccordo col suo partito. “Sono anni che i governi italiani finanziano i centri di detenzione in Libia e si girano dall’altra parte per non vedere gli stupri, la vendita di esseri umani, la tortura, persino le morti che si consumano in quelli che sono veri e propri campi di concentramento”, ha aggiunto Francesco Laforgia. Nel silenzio post-question time del ministro degli Esteri Di Maio (impegnato ieri in una riunione politica coi suoi senatori sulla debacle in Umbria e ancora concentrato sulla manovra di Bilancio), è intervenuto il premier Giuseppe Conte, per provare a stemperare il clima: “L’Italia proporrà delle modifiche. Il memorandum non può essere gettato a mare, ma ci sono sicuramente ampi spazi per migliorarlo e alla luce anche di quello che è successo in questi anni, anche conto che oggi in Libia c’è un conflitto armato sul terreno”. Proprio a lui si è rivolto il leader si Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni, chiedendogli “Un vertice sulla Libia. Impossibile sostenere che i rapporti con la Guardia costiera libica siano virtuosi e limitino gli sbarchi”. A provare ad abbassare i toni è intervenuta anche la viceministra dem Marina Sereni, che ha sottolineato come “il ministro Di Maio ha chiarito che non si procederà ad un semplice rinnovo ma che proporremo ai partner libici modifiche sostanziali del memorandum” e ha proseguito spiegando che “Tra le due ipotesi estreme, confermare tutto così com’è o stracciare il documento, il governo Italiano ha scelto una strada pragmatica ma significativa, quella di aprire con i libici un confronto”. La viceministra ha infatti confermato che “Sono cambiate le condizioni sul terreno, perché ora è in corso una guerra civile e perché abbiamo molte testimonianze che ci informano che nei centri le condizioni di vita dei migranti sono insostenibili e che la Guardia Costiera libica ha agito con comportamenti non consoni alle norme internazionali. Su questo apriamo una riflessione per apportare modifiche”. A farle da sponda è intervenuta anche la presidente pentastellata della commissione Esteri alla Camera, Marta Grande, la quale ha annunciato che “La commissione Esteri avvierà una serrata serie di audizioni sulla Libia. Al termine di queste audizioni il Parlamento si esprimerà con una risoluzione per indirizzare il governo nella modifica del memorandum siglato nel 2017”. Se il governo prova a procedere compatto sulla linea delle modifiche al testo, provando anche a coinvolgere l’Unione Europea nella gestione del problema, le sollecitazioni del Parlamento sembrano muoversi invece in una direzione molto più drastica. E nella diatriba di maggioranza si è insinuato gongolando Matteo Salvini, che non ha perso l’occasione per attaccare il gioverno parlando di “ennesimo litigio” e di esecutivo “allo sbando”, schiavo delle Ong che “dettano la linea e chiedono di non rinnovare il memorandum con la Libia”. Migranti. Ong contro il governo: “Rinnovare il memorandum libico è inaccettabile” di Giansandro Merli Il Manifesto, 1 novembre 2019 Mediterranea, Open Arms, Sea-Watch, Sea-Eye, Medici Senza Frontiere attaccano l’esecutivo e le proposte avanzate dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Dopo la lettera delle associazioni che compongono il Tavolo asilo, anche le Ong attive nelle missioni umanitarie nel Mediterraneo e nei campi di prigionia libici attaccano duramente l’esecutivo sul rinnovo del memordandum d’intesa con la Libia. Mediterranea, Open Arms, Sea-Watch e Sea-Eye hanno diffuso ieri un comunicato congiunto in cui chiedono di approfittare di “questa importante scadenza per dimostrare un cambio di passo”. Le modifiche annunciate dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio durante il question time parlamentare di mercoledì scorso non hanno convinto nessuno. “Riteniamo grave l’intenzione da parte del governo italiano di voler confermare un accordo che ha avuto come unico risultato quello di aumentare in modo indiscriminato la violenza e la violazione dei diritti in territorio libico”, scrivono le Ong. Nel documento smontano punto per punto le asserzioni avanzate dal capo politico dei 5 Stelle sull’affidabilità dell’interlocutore libico e sull’equazione, di salviniana memoria, tra meno partenze e meno morti. In termini assoluti la diminuzione degli arrivi ha causato un aumento delle violenze e delle torture delle persone bloccate o riportate in Libia. In termini relativi i dati di Unhcr e Oim dimostrano che il rapporto tra partenze e decessi nel 2018 era di 1 a 29, mentre nel 2019 è divenuto di 1 a 6. “Maquillage umanitario” è invece la definizione utilizzata da Medici senza frontiere (Msf) per le proposte di Di Maio. Le équipes dell’organizzazione sono attive lungo la rotta mediterranea centrale e forniscono assistenza medica nei centri di detenzione libici. “L’unica soluzione umanitaria possibile è superare il sistema di detenzione arbitraria, accelerare l’evacuazione di migranti e rifugiati dai centri favorendo alternative di protezione e porre fine al supporto ad autorità e guardia costiera libica che alimenta sofferenze, violazioni del diritto internazionale e traffico di esseri umani”, afferma Marco Bertotto, responsabile advocacy Msf. È un dovere morale rispettare i detenuti anche in tempo di guerra L’Osservatore Romano, 1 novembre 2019 Udienza ai partecipanti al corso di formazione dei cappellani militari cattolici. Anche nel contesto dei conflitti armati il rispetto della dignità e dell’integrità fisica dei detenuti “è un dovere morale a cui ogni persona e ogni autorità è chiamata”. Lo ha affermato Papa Francesco nel discorso rivolto giovedì mattina, 31 ottobre, ai partecipanti a un corso di formazione per i cappellani militari cattolici, svoltosi nei giorni scorsi all’Augustinianum. Durante l’udienza, svoltasi nella Sala Clementina, il Pontefice ha ricordato che “il diritto internazionale umanitario prevede numerose disposizioni in ordine alla protezione della dignità dei detenuti, specialmente per quanto concerne il diritto applicabile ai conflitti armati internazionali”. Esse, ha detto, hanno un “fondamento etico” e una “importanza cruciale” per “la salvaguardia della dignità umana nel tragico contesto dei conflitti armati”, e per questo vanno “adeguatamente e rigorosamente rispettate e applicate”. Ciò vale anche “nei confronti delle persone detenute, indipendentemente dalla natura e dalla gravità dei crimini che esse possono aver commesso”. E di tutela della dignità umana, in special modo di quella delle persone sofferenti, Francesco ha parlato anche durante la successiva udienza alla Fondazione Don Gnocchi, svoltasi in tarda mattinata nell’Aula Paolo VI. Richiamando “il senso e il valore della professione sanitaria e di ogni servizio reso al fratello infermo”, il Papa ha evidenziato che la sofferenza “chiede di essere condivisa, chiede atteggiamenti e iniziative di compassione”. Si tratta, ha detto, “di “soffrire con”, compatire come Gesù che per amore dell’uomo si è fatto Egli stesso uomo per poter condividere fino in fondo, in modo molto reale, in carne e sangue, come ci viene dimostrato nella sua Passione”. Per il Pontefice, “una società che non è capace di accogliere, tutelare e dare speranza ai sofferenti, è una società che ha perso la pietà, che ha perso il senso di umanità”. Da qui l’invito a proseguire “nell’impegno di promozione umana, che costituisce anche un contributo indispensabile alla missione evangelizzatrice della Chiesa”. L’annuncio del Vangelo, infatti, “è più credibile grazie all’amore concreto con cui i discepoli di Gesù testimoniano la fede in Lui”. Discorso del Santo Padre Francesco Cari fratelli e sorelle, Sono lieto di accogliervi in occasione del V° Corso internazionale di formazione dei cappellani militari cattolici al diritto internazionale umanitario, dedicato al tema “La privazione della libertà personale nel contesto dei conflitti armati. La missione del cappellano militare”. Ringrazio il Cardinale Peter Turkson per le cortesi parole che mi ha rivolto a nome vostro, saluto cordialmente il Card. Fernando Filoni e sono grato alla Congregazione per i Vescovi per l’organizzazione del Corso. Quattro anni orsono, nel ricevere i partecipanti alla precedente edizione di questo Corso di formazione, sottolineavo l’esigenza di respingere la tentazione di considerare l’altro come un nemico da distruggere e non come una persona, dotata di intrinseca dignità, creata da Dio a propria immagine. Esortavo inoltre a ricordare sempre, persino in mezzo alle lacerazioni della guerra, che ogni essere umano è immensamente sacro. Questa esortazione, che desidero rinnovare oggi, assume un significato ancora più pressante nei confronti delle persone private della libertà personale per motivi connessi con i conflitti armati, giacché la vulnerabilità dovuta alla condizione di detenzione è aggravata dal fatto di trovarsi nelle mani delle forze combattenti avverse. Non di rado, le persone detenute nel contesto dei conflitti armati sono vittime di violazioni dei loro diritti fondamentali, tra cui abusi, violenze e diverse forme di tortura e trattamenti crudeli, disumani e degradanti. Quanti civili, poi, sono oggetto di rapimenti, sparizioni forzate e omicidi! Fra di loro, si contano anche numerosi religiosi e religiose, dei quali non si hanno più notizie o che hanno pagato con la vita la loro consacrazione a Dio e al servizio della gente, senza preferenze o pregiudizi di bandiere e di nazionalità. Assicuro la mia preghiera per tutte queste persone e per le loro famiglie, affinché possano avere sempre il coraggio di andare avanti e di non perdere la speranza. Il diritto internazionale umanitario prevede numerose disposizioni in ordine alla protezione della dignità dei detenuti, specialmente per quanto concerne il diritto applicabile ai conflitti armati internazionali. Il fondamento etico e l’importanza cruciale di queste norme per la salvaguardia della dignità umana nel tragico contesto dei conflitti armati fa sì che esse debbano essere adeguatamente e rigorosamente rispettate e applicate. Ciò vale anche nei confronti delle persone detenute, indipendentemente dalla natura e dalla gravità dei crimini che esse possono aver commesso. Il rispetto della dignità e dell’integrità fisica della persona umana, infatti, non può essere tributario delle azioni compiute ma è un dovere morale a cui ogni persona e ogni autorità è chiamata. Cari Ordinari e Cappellani militari, vi invito, nell’adempimento della vostra missione di formazione della coscienza dei membri delle forze armate, a non risparmiare sforzi affinché le norme del diritto internazionale umanitario siano accolte nei cuori di coloro che sono affidati alla vostra cura pastorale. Vi fanno da guida le parole del Vangelo contenute nel grande “protocollo” o grande regola di comportamento: “Ero in carcere e siete venuti a trovarmi” (Mt 25,36). Si tratta di aiutare quella particolare porzione del popolo di Dio affidato alla vostra cura a individuare nel patrimonio comune che lega tutti gli uomini, e che trae la sua origine già dal diritto naturale, quegli elementi che possono diventare ponte e piattaforma di incontro con tutti. I ministri di Cristo nel mondo militare sono anche i primi ministri dell’uomo e dei suoi diritti fondamentali. Penso a quanti tra voi sono accanto ai militari in situazioni di conflitto internazionale, chiamati ad aprire le loro coscienze a quella carità universale che avvicina l’uomo all’uomo, qualunque sia la razza, la nazionalità, la cultura, la religione dell’altro. Ma prima di questo c’è il lavoro preventivo, che è un lavoro educativo, complementare a quello delle famiglie e delle comunità cristiane. Si tratta di formare personalità aperte all’amicizia, alla comprensione, alla tolleranza, alla bontà, al rispetto verso tutti; giovani attenti alla conoscenza del patrimonio culturale dei popoli, impegnati per una cittadinanza universale, per favorire la crescita di una grande famiglia umana. Il Concilio Vaticano II chiama i militari “ministri della sicurezza e della libertà dei popoli” (Cost. past. Gaudium et spes, 79): voi siete in mezzo a loro perché queste parole, che la guerra offende e annulla, possano essere realtà, possano dare senso alla vita di tanti giovani e meno giovani che, come militari, non vogliono farsi derubare dei valori umani e cristiani. Cari fratelli e sorelle, il 12 agosto 1949 venivano sottoscritte a Ginevra le Convenzioni per la protezione delle vittime di guerra. In questo 70° anniversario desidero riaffermare l’importanza che la Santa Sede accorda al diritto internazionale umanitario e formulare l’auspicio che le regole che esso contempla siano rispettate in ogni circostanza. Là dove opportuno, esse siano ulteriormente chiarificate e rafforzate, specialmente per quanto concerne i conflitti armati non internazionali, e in particolare la protezione della dignità delle persone private della libertà personale per motivi connessi con questi conflitti. Posso assicurarvi che la Santa Sede continuerà a dare il suo contributo nelle discussioni e nei negoziati in seno alla famiglia delle Nazioni. Vi affido all’intercessione della Vergine Maria, Madre di Misericordia, e di cuore imparto la mia benedizione a voi e ai vostri cari. E anche voi, per favore, pregate per me. Grazie! Libia. L’emergenza continua: i rifugi per i profughi liberati dalle galere sono stracolmi La Repubblica, 1 novembre 2019 L’obiettivo dell’Unhcr, è trovare luoghi sicuri - solo ieri per circa 200 persone - al Gathering and Departure Facility di Tripoli, per richiedenti asilo, bloccati nei centri di detenzione. L’Unhcr, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, sta trovando soluzioni per circa 200 persone, inclusi migranti e rifugiati, arrivati martedì 29 ottobre al Gdf (Gathering and Departure Facility) a Tripoli, un luogo creato con l’aumentare del numero di rifugiati e richiedenti asilo, bloccati nei centri di detenzione sovraffollati della Libia che ha lo scopo di portare i rifugiati vulnerabili in un ambiente sicuro, reinsediarli, evacuarli in strutture di emergenza in altri Paesi e rimpatriarli volontariamente nella loro terra d’origine. Ha la capacità di ospitare fino a circa 1.000 rifugiati. La maggior parte di loro sono stati liberati dal centro di detenzione di Abu Salim, altre provengono da aree urbane, con la speranza di essere ospitate presso il Gdf e da lì reinsediate in paesi terzi. Il grave sovraffollamento. La situazione è molto difficile, il Gdf è gravemente sovraffollato con oltre 820 persone all’interno, ben oltre la capienza iniziale di 600 persone. Il deterioramento delle condizioni di vita del Gdf, dove le infrastrutture e i servizi sono ridotti al minimo, rende impossibile accogliere più persone, anche i rifugiati molto vulnerabili attualmente detenuti che l’Unhcr ha già identificato come urgentemente bisognosi di evacuazione o reinsediamento. La situazione di molti rifugiati in Libia. Questa mattina, i team di Unhcr hanno incontrato coloro che attendono davanti al Gdf e li hanno consigliati sull’assistenza umanitaria, come assistenza sanitaria di base, cibo, assistenza in denaro e sostegno psicosociale, disponibile presso il centro diurno comunitario. La registrazione sarà resa disponibile anche per coloro che non sono ancora registrati. Altri partner dell’Onu si uniscono a questo sforzo. È fondamentale mantenere la natura di transito del Gdf, creato alla fine del 2018 come luogo in cui i rifugiati più vulnerabili potevano aspettare alcune settimane o mesi dopo il loro rilascio dalla detenzione e prima del loro trasferimento o reinsediamento fuori dalla Libia. Dall’apertura della struttura nel dicembre 2018, oltre 2.300 rifugiati, tra cui oltre 400 rifugiati trasferiti dal centro di detenzione di Abu Salim, per lo più donne, bambini non accompagnati e famiglie, sono transitati attraverso il Gdf. La soluzione ideale è il reinserimento. Il reinsediamento rimane uno strumento cruciale per salvare la vita dei più vulnerabili, ma è e rimarrà limitato. Ci sono solo 55.000 posti di reinsediamento disponibili in tutto il mondo. Non può essere l’unica soluzione alla difficile situazione dei 45.000 rifugiati e richiedenti asilo in Libia. L’Unhcr esorta le autorità libiche e la comunità internazionale a lavorare insieme per trovare soluzioni a lungo termine a questa terribile situazione umanitaria”. Egitto. Al Sisi stronca ogni dissenso, la protesta a Piazza Tahrir sepolta nel silenzio di Antonella Napoli Il Dubbio, 1 novembre 2019 L’aria calda e secca in piazza Tahrir alla fine della preghiera del Venerdì è quasi elettrica. Un gruppo di fedeli, non più di una cinquantina, tenta di raggiungere il luogo simbolo della rivoluzione del 2011 dalla moschea di al- Azhar, El- Darb El- Ahmar, una delle più frequentate della capitale egiziana. Si sono dati appuntamento via social, pronti a manifestare. “La settimana scorsa hanno arrestato centinaia di persone, ma questo non ci fermerà” assicura Ahmed Ali che li guida senza temere le conseguenze che si sono abbattute su altri dimostranti. Percorrono al-Bustan street, sono determinati a proseguire il percorso che si estende fino al centro della piazza. Ma il blocco delle forze di sicurezza che si dispiega davanti ai loro occhi è impressionante: blindati, agenti in tenuta antisommossa, molti altri in abiti civili. Controllano chiunque si avvicini all’imbocco della centralissima via commerciale che porta al Museo Egizio. Inevitabile lo scontro quando manifestanti e polizia si ritrovano gli uni di fronte agli altri. Sono attimi concitati. Chi tenta di forzare il cordone degli agenti viene spintonato, colpito con manganelli o bastoni. In tanti riportano escoriazioni nei tafferugli, in cinque sono seduti a terra con le mani intrecciate dietro la nuca. Tutti vengono portati via. Impossibile proseguire anche per chi non fosse lì per manifestare, a meno che non si voglia trascorrere una notte in cella. Nella migliore delle ipotesi. La situazione in Egitto è sempre più instabile, la tensione è crescente. Chiunque graviti intorno a piazza Tahrir viene fermato e costretto a consegnare il telefono cellulare. In molti casi i controlli danno luogo ad arresti arbitrari. Una repressione violenta in risposta alle proteste popolari suscitate dalle accuse di corruzione rivolte al presidente Abdel Fattah al- Sisi da un ex contractor della security egiziana che ha diffuso video dettagliati sulla ‘ deviazionè di denaro pubblico. “Al Sisi, la moglie e alcuni generali dell’esercito sono stati esplicitamente tirati in ballo dall’imprenditore che ha lavorato per il governo per oltre 16 anni - spiega Ahmed Saleh, analista del Centro studi egiziano dei diritti - Mohamed Ali, autoesiliato in Spagna, ha pubblicato su Youtube, ma anche via Facebook, filmati in cui parla di mazzette per la costruzione di un lussuoso albergo, costato 122 milioni di dollari in una zona non turistica dell’Egitto, per favorire un generale dell’esercito amico intimo di al- Sisi, così come la costruzione di un palazzo presidenziale nel nord del Paese”. Il tutto maturato in un contesto in cui un terzo dei 100 milioni di abitanti vive in condizioni di povertà estrema. Il video è diventato virale come l’appello a manifestare che ha portato in strada migliaia di egiziani che chiedono le dimissioni dell’ex generale. La reazione del governo è stata durissima. Ogni forma di dissenso è stata stroncata con la forza o scoraggiata con posti di blocco e controlli in tutta la Capitale e nelle altre città dove si sono accesi focolai di rivolta. Anche i giornalisti che sono riusciti ad entrare in Egitto, in un clima di crescente nervosismo, hanno visto limitare le proprie libertà. Chi scrive è riuscita a superare i controlli restrittivi all’ingresso nel Paese perché era al seguito di una delegazione italiana a Il Cairo per una competizione sportiva. Non è stato facile raccogliere testimonianze. Come quella della madre di Abdulaziz S. 11 anni. Il bambino aveva ancora addosso il grembiule che stava provando in un negozio in centro quando gli agenti dei servizi di sicurezza lo hanno portato via sotto lo sguardo incredulo e disperato di Amina, che nel raccontare quanto accaduto al figlio ancora trema. “Lo hanno strattonato, trascinato via per portarlo in un posto di polizia. Dicevano che aveva partecipato a un incontro con dei terroristi. Mio figlio, un bambino di 11 anni…” dice in un fiato guardandosi intorno mentre nel grande suk poco distante dalla Cittadella sorseggiamo un tè. Come Abdulaziz altri tre minori sono stati arrestati mentre stavano comprando materiali scolastici. Altrettanti hanno subito la stessa sorte mentre tornavano a casa da scuola a Suez, città portuale egiziana dove sono iniziate le rivolte contro al- Sisi. Almeno 120 minorenni, tra i 10 e i 16 anni, sono stati fermati. A denunciarlo l’organizzazione non governativa ‘Belady’, che ha anche segnalato sparizioni forzate dai 2 ai 10 giorni. Amnesty International ha inoltre evidenziato in un recente rapporto come la maggioranza delle persone arrestate rischi di essere incriminata per ‘appartenenza a un gruppo terrorista’ e ‘uso improprio dei social media’. Il paradosso è che molti di loro non hanno neanche un telefono cellulare. Durante le insurrezioni del 2011, centinaia di blogger ma anche semplici manifestanti attraverso Twitter, Facebook e Youtube avevano documentato le loro esperienze personali e i sit- in di piazza Tahrir. Per scongiurare che anche oggi si mostrino al mondo gli abusi delle forze di sicurezza, quali arresti, aggressioni fisiche e sevizie sui dimostranti, è stata lanciata la campagna repressiva che ha portato dal 20 settembre ad oggi all’arresto di almeno 4427 persone in 24 Governatorati. Solo in 157 sono stati rilasciati senza accuse mentre 1056 hanno potuto lasciare il carcere su cauzione. Centinaia le sparizioni forzate. La repressione più vasta dall’ascesa al potere di al - Sisi ad oggi ha sopito il movimento di protesta. Per ora. La paura ha portato a una calma apparente che, a fronte delle vicende turco - curde, libanesi, irachene e cilene, ha ‘ spento’ colpevolmente l’interesse dei media e della comunità internazionale sull’Egitto. Palestinesi e curdi: due popoli, medesima repressione di Gianni Sartori Ristretti Orizzonti, 1 novembre 2019 Avevano protestato contro l’invasione turca del Rojava. Ora sono in isolamento e sotto inchiesta per “propaganda a favore di un’organizzazione terrorista”. La decisione nei confronti di 57 prigionieri politici curdi è stata presa dalla Direzione di Sakran, centro di detenzione ad alta sicurezza situato nella provincia di Izmir (Turchia occidentale). Condannati a undici giorni di isolamento, verranno anche indagati per apologia di terrorismo. Sanzioni di cui si è venuti a conoscenza, il 31 ottobre, per le dichiarazioni di Fatma Cig. La madre del prigioniero politico Huseyin Cig ha anche spiegato che i detenuti vengono regolarmente sottoposti a sanzioni disciplinari del tutto arbitrarie. Una reazione delle autorità carcerarie per lo sciopero della fame (costato la vita a otto prigionieri) avviato in primavera per protestare contro l’isolamento a cui è sottoposto Abdullah Ocalan. Nella stessa giornata, alle tre del mattino di giovedì 31 ottobre, a Ramallah le forze di occupazione israeliane sono entrate - brutalmente, a quanto riferito - nell’abitazione di una esponente palestinese, la femminista Khalida Jarrar. Almeno settanta soldati e 12 veicoli militari, quasi un’operazione di guerra. La militante di sinistra era uscita di prigione appena otto mesi fa, dopo una carcerazione amministrativa (ossia senza specifiche accuse e senza processo) di 20 mesi. Del resto non era la prima volta. Nel 2017, a 13 mesi da una precedente liberazione, era stata ugualmente imprigionata di nuovo. E ancora nel 2015 era stata posta in detenzione amministrativa per 20 mesi. La sua colpa? Aver sempre lottato per i diritti dei prigionieri palestinesi anche come vicepresidente e direttrice esecutiva dell’associazione Addameer. Membro del Consiglio legislativo palestinese, eletta nell’aggregazione di sinistra Abu Ali Mustafa (legata al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina) Khalida Jarrar aveva presieduto il Comitato dei prigionieri. Contribuendo inoltre a denunciare i crimini di guerra (in particolare: gli attacchi a Gaza, la confisca di terre palestinesi e la costruzione di colonie, gli arresti di massa e indiscriminati...) di cui si sarebbero reso responsabili alcuni esponenti politici israeliani. Inoltrando formale richiesta di portarli in giudizio davanti alla Corte penale internazionale. Una considerazione finale. Amara ma necessaria. Brilla per particolare miopia (se non per autentica malafede) la posizione di alcuni “campisti” (soidisant “antimperialisti” e pure di “sinistra”) che continuano ad accusare i curdi (tutti indiscriminatamente: senza la capacità - o la volontà - di distinguere tra il Pdk e le Ypg) di aver collaborato con l’imperialismo a stelle e strisce “tradendo” la patria (quella con capitale Damasco, beninteso). Qualcuno, non tanto tempo fa, si augurava addirittura che per questo venissero severamente puniti. Adesso forse sarà contento. Tali campioni di “antimperialismo” (talvolta sostenitori, se non addirittura, ammiratori, della Repubblica islamica iraniana) si mostrano più realisti del re. Infatti, nonostante inevitabili divergenze, la sostanziale solidarietà delle organizzazioni rivoluzionarie palestinesi nei confronti del popolo curdo si è mantenuta nel tempo. Vedi le dichiarazioni di vari esponenti del Fplp durante lo sciopero della fame dei prigionieri curdi e contro l’invasione del Rojava. Ugualmente Ypg e Pkk hanno solidarizzato con le manifestazioni palestinesi, duramente represse, del venerdì al confine della Striscia di Gaza. Due domande: cosa avrebbero dovuto fare i curdi mentre l’Isis massacrava, stuprava, rapiva... le donne e i bambini curdi yazidi? Forse allearsi con Asad, il pavido Asad che cedendo ai ricatti turchi aveva scacciato Ocalan dalla Siria (dando così un contributo non indifferente alle difficoltà in cui versa il movimento di liberazione)? O forse affidarsi a Putin, quello che non aveva voluto accogliere come rifugiato il leader curdo quando era atterrato all’aeroporto di Mosca? A far precipitare del tutto la situazione ci pensarono poi D’Alema (sotto richiesta di Clinton, si presume), l’ambasciata Greca in Kenya (che lo ha letteralmente venduto) e il Mossad. Speculare la posizione di alcuni - tardivi - sostenitori dei diritti del popolo curdo che però ignorano sistematicamente quanto avviene settimanalmente ai confini della Striscia di Gaza o nelle galere israeliane. Entrambi questi personaggi (filo curdi o filo palestinesi, ma in esclusiva) sembrano applicare le regola del “due pesi, due misure” (o anche, come sottolineava uno studioso catalano quella delle “indipendenze a geometria variabile”). Pur tra mille difficoltà, incongruenze e talvolta contraddizioni - dovrebbe invece rimanere saldo un principio: “Con gli oppressi contro gli oppressori, sempre!”. Certo, talvolta è difficile orientarsi, ma è comunque necessario. Senza allinearsi con qualche regime (laico o teocratico che sia) che mentre magari sostiene - altrove - una lotta di liberazione, a casa propria reprime duramente. Vedi Israele e Iran, per fare qualche esempio. Dando per scontata - almeno si spera - l’unanime, universale condanna per quanto avviene in Turchia dove la repressione colpisce più o meno indistintamente sia i curdi che l’opposizione di sinistra. Le prigioni statunitensi sono sovraffollate di Christiane Jacke bluewin.ch, 1 novembre 2019 Il caso Jeffrey Epstein ha sollevato numerosi interrogativi sulle prigioni statunitensi quest’estate. In nessun altro Paese del mondo vengono incarcerate così tante persone come negli Stati Uniti. Le condizioni di detenzione sono a volte drammatiche. Una dipendente del sistema carcerario racconta la propria quotidianità. La morte di Jeffrey Epstein nel mese di agosto in una prigione federale newyorkese ha acceso i riflettori sulle condizioni di detenzione nelle carceri a stelle e strisce. Il ricco uomo d’affari, accusato di abusi sessuali, si è suicidato impiccandosi nella sua cella. Progressivamente, i dettagli hanno consentito di far luce su ciò che non è andato per il verso giusto: le guardie avrebbero in particolare infranto le regole, non sorvegliando Epstein per parecchie ore. Questo caso, del quale si è parlato molto, mostra tuttavia soltanto la punta dell’iceberg di un sistema carcerario, in molti casi in grande difficoltà. Paula Chavez deve fronteggiare questa realtà ogni giorno. Lavora da dodici anni in una prigione federale del Texas, nella quale sono reclusi più di 1300 uomini. Prima, era insegnante in una scuola. Oggi ha 48 anni e tiene dei corsi per i detenuti in diverse materie, cercando di prepararli ad una vita normale quando avranno scontato la loro pena. È questo l’obiettivo del suo lavoro, spiega. Paula Chavez deplora il fatto che nel corso degli anni il numero di dipendenti della prigione sia calato considerevolmente, il che comporta pesanti conseguenze. Ci sono molti casi di violenza tra i detenuti, racconta: “Non possiamo proteggerli. Non siamo neppure in grado di proteggere i dipendenti”. Il numero di aggressioni contro questi ultimi è sensibilmente aumentato negli ultimi tempi, prosegua Paula Chavez. Anche suo figlio lavora nel carcere. Lo scorso anno è stato aggredito mentre cercava di confiscare un telefono cellulare ad un detenuto. Quest’ultimo, assieme ad altri uomini, lo ha picchiato e ferito gravemente. E anche altri colleghi hanno vissuto esperienze simili. Clifton Buchanan è rappresentante dei dipendenti dei penitenziari federali del Texas e degli Stati vicini. Lamenta un problema di mancanza di personale in numerose carceri. Secondo il suo parere, molti impiegati sono sovraccarichi di lavoro e soffrono di stress professionale, dal momento che la pressione su di loro è enorme. Così, la frustrazione di Paula Chavez e dei suoi colleghi è crescente: “Riusciamo giusto a garantire che non evadano. Ma non siamo realmente in grado di controllarli. Non ci riusciamo”, spiega, facendo riferimento ai detenuti. Dal suo punto di vista, è impossibile porre fine al contrabbando di stupefacenti e di telefonini, nonché alla diffusione della pedopornografia. In realtà, i cellulari sarebbero vietati in carcere: “Ma il numero di detenuti che ne ha uno - ammette - è più alto rispetto al totale di coloro ne sono sprovvisti. Non ha senso”. Non c’è sufficiente personale per perquisire le celle ed effettuare le confische, aggiunge Chavez. In due occasioni nel corso degli ultimi mesi, dei droni hanno sganciato dei pacchi pieni di telefoni cellulari, schede SIM e sigarette all’interno della prigione, rivela la dipendente. In entrambi i casi la consegna è stata scoperta. Ma nessuno sa quanti siano i pacchi che sono invece entrati nella prigione - con l’aiuto di alcuni dipendenti - senza essere intercettati. Anche gli stupefacenti riescono ad attraversare in quantità enormi le mura del carcere, si lamenta Chavez, aggiungendo che più volte alla settimana alcuni detenuti devono essere portati in infermeria a causa di un consumo eccessivo di droga. Se la fanno consegnare direttamente in prigione, anche se è proprio qui che dovrebbero riuscire ad abbandonarla: “Non ha alcun senso”. Inoltre, gli stupefacenti aumentano l’aggressività tra gli stessi detenuti. “Non abbiamo abbastanza personale per garantire la loro sicurezza”, afferma Paula Chavez, che sottolinea come il personale dedicato ai programmi di reinserimento sia ancor più insufficiente. Secondo il suo parere, quando liberati, i prigionieri si ritrovano in condizioni peggiori rispetto a quando erano arrivati. E non c’è una vera riabilitazione sociale, aggiunge. Secondo la dipendente, le autorità non fanno nulla da anni e le cose cambiano solo lentamente. L’organismo che gestisce le prigioni federali non risponde alle domande poste da chi denuncia la situazione. Dopo la morte di Jeffrey Epstein, la stessa autorità è stata subissata da ogni tipo di richiesta d’informazioni, arrivate anche dal dipartimento di Giustizia e dal Congresso. Nessun altro Paese al mondo presenta un numero di detenuti così alto. Più di 2,1 milioni di persone sono incarcerate negli Stati Uniti. Secondo la classifica internazionale stilata regolarmente dall’università di Londra, si tratta di un record mondiale, sia come valori assoluti che in rapporto alla popolazione. Anche dei crimini relativamente minori, come nel caso di alcuni illeciti legati agli stupefacenti, possono portare a lunghi periodi di detenzione negli Stati Uniti. Il Paese a stelle e strisce da molto tempo lotta contro il sovraffollamento carcerario. Alla fine dello scorso anno è stata approvata una riforma che punta a rendere più semplice la liberazione anticipata per chi è rinchiuso in una prigione federale, nonché a migliorare il reinserimento degli ex detenuti nella società. Tuttavia, appunto, la norma riguarda unicamente i penitenziari federali, nei quali sono presenti solo 180’000 dei 2,1 milioni di appartenenti alla popolazione carceraria. Il dipartimento di Giustizia ha annunciato alla metà di luglio uno sconto di pena per oltre 3100 detenuti nel quadro di tale riforma. Si tratta di un inizio, nulla di più. Un rapporto descrive il sistema come “difettoso” Intanto, negli Stati Uniti le denunce in merito alle condizioni delle prigioni si moltiplicano da tempo. Qualche mese fa, ad esempio, alcune informazioni giunte dall’Alabama hanno sollevato un polverone. Il dipartimento di Giustizia ha presentato un rapporto nel quale vengono rivelate situazioni terribili nei penitenziari dello stato: violenze, stupri, suicidi, aggressioni sessuali e torture tra detenuti. Il tutto, spesso, senza alcun intervento da parte del personale. Nel rapporto, si parla di “sistema difettoso” in tutto l’Alabama. Ma la situazione è giudicata allarmante anche altrove. Non è raro infatti che negli Stati Uniti le persone possano morire in prigione per cause non naturali. Secondo i dati ufficiali, sono circa mille i detenuti uccisi nelle carceri americane tra il 2001 e il 2014, mentre oltre 3000 prigionieri si sono suicidati nello stesso periodo. Non sono state diffuse cifre più recenti. Turchia. Curdi, abbiamo perso tutti. Così abbiamo tradito un popolo di Roberto Saviano La Repubblica, 1 novembre 2019 Ha vinto Erdogan, che raggiunge il suo obiettivo: impedire la costituzione di uno Stato autonomo curdo. Vince Putin, “facilitatore” nei rapporti tra Turchia e Siria. Vince sempre Putin che, con il ritiro delle truppe Usa, è unico burattinaio in Medioriente. Vince in parte il sanguinario Bashar al-Assad anche se deve accettare le truppe turche in Siria. Vince Trump per aver tenuto fede al ritiro degli Usa da quel fronte di guerra: un risparmio per i contribuenti americani che non sono più disposti a spendere soldi per luoghi e popoli di cui ignorano finanche l’esistenza. Perdono i curdi, traditi dopo aver perso migliaia di combattenti nella guerra contro Daesh, combattuta anche nel nostro interesse. Perde Netanyahu, che sperava in uno Stato curdo non per altruismo, ma perché potesse dilatare le distanze tra Israele e Iran. Ma chi perde più d’ogni altro è l’Europa, che perde per paura e ha preparato questa sconfitta negli anni. Perde l’Europa che oggi è incapace addirittura di rintracciare le origini della sconfitta, che ha perso tutte le occasioni, non ultima quella di consentire l’ingresso nell’Unione europea della Turchia. Se ne discuteva concretamente, poi arrivò il veto della Germania e, a volerne riparlare ora, sembra quasi di trovarsi impelagati in fantapolitica. Oggi, chi ricorda questa proposta - come quella pannelliana di dare allo Stato di Israele l’accesso all’Ue - viene preso per matto, non per visionario, ma proprio per matto. Chi dovremmo far entrare in Europa? La Turchia di Erdogan, la Turchia governata da un satrapo illiberale? “La Turchia potrebbe essere il ponte tra l’Islam moderno e l’Occidente”, ha scritto Enes Kanter, cestista turco dei Boston Celtics perseguitato da Erdogan, sul Boston Globe. E ancora: “Ma in questo momento, non c’è libertà: nessuna libertà di parola, nessuna libertà di religione, nessuna libertà di espressione. Non c’è democrazia. Erdogan sta usando il suo potere per abusare e violare i diritti umani”. La Turchia è il Paese che ci rende tutti perdenti, un Paese che negli ultimi anni ha accelerato una deriva illiberale e antidemocratica, che si trova ai nostri confini orientali, a cui l’Europa ha appaltato la sicurezza delle proprie frontiere promettendo sei miliardi di euro di cui la metà già erogata. Alla Turchia l’Europa ha venduto armi, senza spendere una parola sulle centinaia di persone in carcere in seguito a processi sommari: giornalisti, intellettuali, professori che hanno commesso tutti il “reato” di essere in disaccordo con Erdogan. L’Europa perde perché alimenta tutto questo, perché foraggia, nutre e paga. Nel mezzo ci siamo noi che spesso ci domandiamo cosa possiamo fare. Nessrin Abdalla, comandante dell’Unità di Protezione popolare delle donne curde, dopo il 9 ottobre e l’inizio dell’offensiva turca, ha chiesto all’Europa di intervenire. Non si fidavano di Assad, ma non avevano scelta, erano e sono senza cibo e senza acqua, senza armi e non hanno alcuna speranza a parte noi, anche adesso che l’operazione “Sorgente di pace” si è conclusa. A noi sta comprendere che la dissidenza non può essere ignorata, a noi sta diventare moltiplicatori di queste storie: noi che abbiamo come armi solo le parole. La gravità della situazione nel Rojava rende evidente che la Turchia è l’unico terreno fertile perché le nostre parole di europei possano avere un senso, anche se pensare di essere immediatamente efficaci con le parole sarebbe un atto di presunzione, soprattutto perché spesso non conosciamo fino in fondo ciò che accade in Turchia. L’annuncio dell’operazione “Sorgente di pace” iniziata il 9 e conclusasi il 22 ottobre ha risvegliato sentimenti patriottici che per Erdogan sono di vitale importanza per consolidare il consenso interno che è enorme ma sempre in pericolo. La Turchia di Erdogan, per quanto caratterizzata sul piano dell’estremismo religioso, rappresenta un orizzonte possibile dell’autoritarismo anche in Europa: un Paese in profonda crisi economica, incattivito, dove i migranti sono usati per dragare voti; disinformato e dove la dissidenza è punita in maniera esemplare. In Italia abbiamo avuto un assaggio di tutto questo solo fino a poche settimane fa e sarebbe sbagliato pensare di aver archiviato ogni pericolo, poiché le condizioni socioeconomiche che ne hanno consentito l’affermazione sono ancora lì. In Turchia tutti i partiti si sono schierati a sostegno della guerra (guai a chiamarla così, ma di cos’altro si è trattato?), l’unica eccezione è rappresentata dal Partito democratico dei popoli. Anche Ekrem ?mamoglu, il neosindaco di Istanbul, nemico giurato di Erdogan, ha appoggiato l’operazione. Ma come può accadere tutto questo? Accade perché le forze democratiche si trovano in un vicolo cieco. In Turchia non si può negare l’appoggio ai militari, pena la perdita di consenso popolare, ecco dunque che le posizioni dei leader antidemocratici condizionano il clima politico. Una leva impossibile da trascurare è la presenza di oltre 4 milioni di profughi siriani in Turchia, dove la questione migratoria viene utilizzata, esattamente come avviene in Italia, per fare campagne elettorali sulla pelle dei disperati. Siamo sotto ricatto e a ricattarci è una politica che non dà spiegazioni, ma banalizza, che acuisce le differenze e ci arma gli uni contro gli altri. Oggi il peccato mortale è creare complessità, quella complessità che Mariano Giustino, ogni giorno nel notiziario del mattino di Radio Radicale, racconta con dovizia di particolari: una luce costante su cosa accade in Turchia e Siria. Voce rara e necessaria. Oggi il peccato mortale è provare a spiegare che ciò che accade tra Siria e Turchia ci riguarda. E ci riguarda perché muoiono innocenti, e ci riguarda perché gli accordi di pace vengono stretti solo con la promessa di nuovi armamenti in arrivo. A quanto pare Putin sarebbe riuscito a convincere Erdogan promettendo l’arrivo del nuovo sistema di difesa antimissile S-400 in Turchia. Si chiude una guerra mentre ci si prepara alla prossima. Afghanistan. Le milizie afghane della Cia “squadroni della morte” di Giuliano Battiston Il Manifesto, 1 novembre 2019 Il rapporto di Human Rights Watch accusa di crimini di guerra i gruppi armati, formati e controllati dall’intellingence statunitense. Negli ultimi due anni hanno commesso esecuzioni sommarie e sparizioni forzate di civili: “Vanno disarmate”. Quattordici casi documentati e 53 pagine di rapporto fanno luce sulle tenebre delle notti afghane in cui paramilitari locali, che rispondono alla Cia, si sono macchiati di gravi abusi e crimini di guerra. Piomba sull’incerto paesaggio politico e militare dell’Afghanistan un rapporto di Human Rights Watch, accurato e impietoso, che disegna quanto avvenuto negli ultimi due anni, tra fine 2017 e metà 2019: in parte gli anni del negoziato di pace ora nelle secche mentre il Paese è alle prese con l’incertezza delle ultime elezioni presidenziali avvelenate dalle reciproche accuse di brogli tra candidati. Il rapporto “They’ve Shot Many Like This”: Abusive Night Raids by Cia-Backed Afghan Strike Forces, reso noto ieri, sostiene che milizie locali appoggiate dalla Cia hanno commesso “esecuzioni sommarie e altri gravi abusi impunemente, ucciso illegalmente civili durante i raid notturni, fatto scomparire detenuti, attaccato strutture sanitarie perché si riteneva curassero ribelli”. Le vittime civili di queste incursioni accompagnate da raid aerei americani - aggiunge il rapporto - sono aumentate notevolmente negli ultimi due anni. Se si dovesse arrivare a un accordo politico, conclude Hrw, il futuro governo dovrà disarmare ogni tipo di milizia, compresi i paramilitari che rispondono teoricamente all’intelligence del Paese ma che sono “in gran parte reclutati, formati, equipaggiati e controllati dalla Cia”. Funzionari, società civile, attivisti locali, operatori sanitari afghani e stranieri, giornalisti e anziani “hanno descritto incursioni abusive e attacchi aerei indiscriminati quotidiani nella vita di molte comunità, spesso con conseguenze devastanti”. Un diplomatico le ha definite operazioni da “squadroni della morte”. Il rapporto mette il dito nella piaga del lato più oscuro della guerra e arriva a pochi giorni dalle dichiarazioni di Hamdullah Mohib, consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Ashraf Ghani. Mohib ha fatto sapere che, se finora non c’erano precondizioni per il dialogo con i Talebani, ora le cose sono cambiate: serve almeno un mese di cessate il fuoco “per verificare che i Talebani controllino davvero i comandanti” militari. Il movimento, accusa Mohib, non è unitario. Richiesta bizzarra e inaspettata, che complica ulteriormente il compito di Zalmay Khalilzad, l’inviato del presidente Donald Trump che deve far ripartire i negoziati con gli studenti coranici, interrotti a sorpresa da Trump il 7 settembre, quando la firma dell’accordo negoziato a Doha sembrava imminente. Oltre che a Kabul, l’inviato Usa ha ripreso a girare per le capitali della regione, alla ricerca di un consenso sul processo di pace. Sulla carta tutti si dicono d’accordo. Così i rappresentanti dei governi di Stati uniti, Ue, Francia, Germania, Italia e Regno unito, che il 22 ottobre in un comunicato congiunto hanno incoraggiato la ripresa dei colloqui. E sollecitato il governo a nominare la delegazione che dovrà incontrare i Talebani nel prossimo dialogo “intra-afghano” da tenersi a Pechino tra qualche giorno, dopo quello dello scorso luglio a Doha. Difficile che la richiesta venga accolta in fretta: a Kabul e nel Paese si aspettano ancora i risultati preliminari delle elezioni presidenziali del 28 settembre. Sarebbero dovuti arrivare a metà ottobre, ma arriveranno il 14 novembre. I due candidati principali, il presidente Ghani e il primo ministro Abdullah Abdullah si dicono entrambi convinti di aver vinto. La commissione elettorale, intanto, ha rivisto le stime: al voto sarebbero andati meno di due milioni di cittadini. Su 30 milioni di abitanti.