La chiave delle carceri e il diritto alla speranza di Enrico Franco Corriere di Bologna, 19 novembre 2019 Uno slogan, purtroppo, è assai più efficace di un ragionamento basato su dati statistici. “Buttiamo via la chiave”, riferito ai detenuti, ha un indubitabile appeal anche tra chi non è ossessionato dal tema della sicurezza. Di fronte a crimini particolarmente odiosi o a recidivi incalliti, è umano pensare che la soluzione migliore sia estromettere una volta per tutte dalla comunità il “criminale”. Cresciuti con la cultura del premio per le buone azioni e del castigo per le marachelle, siamo poi indotti a ritenere che la pena debba essere giustamente severa e che, dunque, la prigione non debba essere confortevole (come se potesse diventarlo un luogo in cui si è privati della libertà non solo di uscire, ma anche di accendere o spegnere la luce). Eppure, se neghiamo quello che un avvocato chiama il “diritto alla speranza”, allora a rimetterci è prima di tutto la società. Lo ricordava recentemente Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera: su 55.000 misure di esecuzione di pena alternative al carcere nel 2017, solo lo 0,67% (372 casi) è stato revocato a causa della commissione di un reato. Parallelamente, sempre nel 2017, si è appurato che il 68% dei reclusi in cella torna a delinquere, mentre ricade nel “vizio” appena il 19% di chi sconta la condanna in altro modo. È pertanto una bella realtà l’avvio, nel carcere minorile di Bologna, dell’osteria “Brigata del Pratello”. Una realtà gestita con emozionata professionalità dai giovani detenuti che stanno imparando un mestiere scoprendo soprattutto come un altro futuro sia per loro possibile. Ed è una bella realtà pure la nascita di una sala cinematografica aperta a tutti dentro il penitenziario della Dozza. Già, perché invochiamo più telecamere e più arresti, ma troppo spesso ci è indifferente quanto avviene dietro alle sbarre, quasi fosse ininfluente sul piano della nostra sicurezza. È vero il contrario. Lo ha dimostrato l’Associazione di volontariato “Pesce di pace” di Venezia che ha dato un’opportunità di riscatto a Abdelaaziz Aamri. Lui è un cittadino marocchino che, dopo aver lavorato per anni in Spagna, è approdato in Italia per sfuggire alla crisi economica iberica. Qui non ha trovato la fortuna, bensì finte solidarietà che lo hanno coinvolto in un grave reato: non essendo un “vero” criminale, è stato subito catturato e condannato a otto anni di reclusione. Aziz non chiede comprensione, afferma di aver sbagliato e vuole espiare la colpa. Però avverte: “Una società senza perdono è una società senza convivenza”. Un messaggio potente: crediamo che l’odio sia rivolto contro gli altri, invece ce lo troviamo di fronte quando guidiamo nel traffico cittadino, quando assistiamo a un evento sportivo, al supermercato se qualcuno crede di essere stato “sorpassato” nella coda al banco dei formaggi. La rabbia, infatti, è un’erbaccia: se prende piede in un angolo del terreno, si espande senza limiti. Perfino un giovane nuotatore down che ha salvato una bambina in mare diventa bersaglio degli haters sui social. In un simile contesto, assume perciò una valenza metapolitica il raduno delle “sardine” la scorsa settimana a Bologna e lunedì a Modena. In migliaia sono scesi in piazza per esprimere un’unione costruttiva, una diversa visione anziché una semplice avversione. Il detenuto musulmano Aziz ha scritto un libro con le prefazioni di un vescovo, di un imam e di un rabbino: presentandolo agli studenti di una scuola superiore durante una mattina di permesso, ha chiesto di essere solidali con Liliana Segre, l’ex bambina deportata oggi senatrice a vita, costretta a essere scortata dopo le minacce ricevute. Esempi significativi mentre ci sono degli italiani che si rifiutano di applaudire Liliana Segre e passano il tempo fotografando i cognomi stranieri sui citofoni delle case popolari. Il no dei Magistrati di Sorveglianza ai “comandanti-dirigenti” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 novembre 2019 Il Coordinamento nazionale critica il Decreto Legislativo per la revisione dei ruoli. Dopo le prese di posizione dei 100 direttori degli istituti, dell’associazione Antigone e dell’esponente Radicale Rita Bernardini. “Preoccupazione in merito alle disposizioni finalizzate a mutare il rapporto tra i direttori degli istituti e i comandanti di reparto (che abbiano la qualifica di “primo dirigente”) da gerarchico a soltanto funzionale, attribuendo la gestione della sicurezza unicamente al comandante primo dirigente, così rischiando di alterare gli equilibri stabiliti nell’ordinamento penitenziario, che vuole nel direttore la figura di coordinamento di tutte le aree operative all’interno dell’istituto”. Dopo la protesta dei 100 direttori degli istituti penitenziari, le critiche del presidente dell’associazione Antigone Patrizio Gonnella e dell’esponente del Partito Radicale e presidente di Nessuno Tocchi Caino Rita Bernardini, comprese quelle avanzate dalla conferenza dei garanti territoriali delle persone private della libertà, si aggiungono anche i magistrati di sorveglianza tramite il loro coordinamento nazionale (Conams). In occasione dell’Assemblea annuale, il Conams ha preso atto del progetto contenuto nello “Schema di decreto legislativo in materia di revisione dei ruoli delle Forze di polizia”, attualmente sottoposto al vaglio delle competenti Commissioni parlamentari per i prescritti pareri. Il Conams, in un comunicato, condivide la necessità di riorganizzazione delle Polizia penitenziaria “nell’ottica di migliorarne la progressione in carriera e di qualificarne l’attività, ed in particolare apprezza la stabilizzazione della fattiva collaborazione della stessa in ogni ufficio e tribunale di sorveglianza, che già è da tempo avviata con proficui risultati”. Il Coordinamento esprime tuttavia preoccupazione in merito alle disposizioni finalizzate a mutare il rapporto tra i direttori degli istituti e i comandanti di reparto. I magistrati di sorveglianza denunciano che “sembrano particolarmente critiche le disposizioni volte ad assegnare al comandante di reparto le decisioni relative all’assegnazione, consegna e impiego dell’armamento individuale e di reparto, che incidono direttamente sulla legge penitenziaria (art. 41 co. 5) e sul regolamento di esecuzione (art. 2 co. 1), disposizioni che paiono esorbitare dagli obbiettivi di mera riorganizzazione perseguiti”. Il Conams segnala che le attuali criticità nella gestione degli istituti, anche sotto il profilo della sicurezza, appaiono in primo luogo collegate alle scoperture degli organici dei direttori, nonché a quelle dei Funzionari giuridico- pedagogici e della Polizia penitenziaria, unitamente alle carenti offerte trattamentali e al crescente sovraffollamento. Il Coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza, quindi, “auspica di poter essere ascoltato nelle sedi competenti per poter fornire il proprio contributo di conoscenza ed esperienza, anche in forza dell’obbligo di vigilanza sull’organizzazione degli istituti che l’art. 69, co. 1, o. p. attribuisce alla magistratura di sorveglianza”. Aumenta quindi il fronte del no contro quella parte della riforma che affida al Corpo di polizia penitenziaria il potere disciplinare, della valutazione dirigenziale, della partecipazione alle commissioni selettive del personale e ai consigli di disciplina. Una questione che, secondo l’osservatorio carceri delle camere penali italiane, significherebbe “far regredire il sistema penitenziario a un’idea del carcere esclusivamente punitiva, annullando la figura del direttore che possa mediare tra le esigenze trattamentali e quelle si sicurezza”. Il comunicato integrale del Coordinamento nazionale Magistrati di Sorveglianza Il Coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza, in occasione dell’Assemblea annuale del 15-16 novembre 2019, prende atto del progetto contenuto nello “Schema di decreto legislativo in materia di revisione dei ruoli delle Forze di polizia”, attualmente sottoposto al vaglio delle competenti Commissioni parlamentari per i prescritti pareri. Il Conams condivide la necessità di riorganizzazione delle Polizia penitenziaria nell’ottica di migliorarne la progressione in carriera e di qualificarne l’attività, ed in particolare apprezza la stabilizzazione della fattiva collaborazione della stessa in ogni ufficio e tribunale di sorveglianza, che già è da tempo avviata con proficui risultati. Il Coordinamento esprime tuttavia preoccupazione in merito alle disposizioni finalizzate a mutare il rapporto tra i Direttori degli istituti e i Comandanti di reparto (che abbiano la qualifica di “primo dirigente”) da gerarchico a soltanto funzionale, attribuendo la gestione della sicurezza unicamente al Comandante primo dirigente, così rischiando di alterare gli equilibri stabiliti nell’ordinamento penitenziario, che vuole nel Direttore la figura di coordinamento di tutte le aree operative all’interno dell’istituto. Sembrano particolarmente critiche le disposizioni volte ad assegnare al Comandante di reparto le decisioni relative all’assegnazione, consegna e impiego dell’armamento individuale e di reparto, che incidono direttamente sulla legge penitenziaria (art. 41 co. 5) e sul regolamento di esecuzione (art. 2 co. 1), disposizioni che paiono esorbitare dagli obbiettivi di mera riorganizzazione perseguiti. Il Conams segnala che le attuali criticità nella gestione degli istituti, anche sotto il profilo della sicurezza, appaiono in primo luogo collegate alla scoperture degli organici dei Direttori, nonché a quelle dei Funzionari giuridico-pedagogici e della Polizia penitenziaria, unitamente alle carenti offerte trattamentali ed al crescente sovraffollamento. Il Coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza auspica di poter essere ascoltato nelle sedi competenti per poter fornire il proprio contributo di conoscenza ed esperienza, anche in forza dell’obbligo di vigilanza sull’organizzazione degli istituti che l’art. 69, co. 1, o.p. attribuisce alla magistratura di sorveglianza. “A lezione di libertà”, quando scuola e carcere si confrontano di Raul Leoni gnewsonline.it, 19 novembre 2019 Obiettivo prevenzione. È questo il tema scelto quest’anno dal progetto “A scuola di libertà”: allenare i ragazzi a “pensarci prima”, evitando i comportamenti a rischio criminoso e facendo loro conoscere la realtà degli istituti penitenziari. La Giornata nazionale dedicata agli incontri tra il mondo carcerario e quello scolastico è nata sette anni fa per iniziativa della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia. Questa edizione ha preso l’avvio il 15 novembre con un percorso che mette a contatto gli studenti con detenuti, o persone recluse ritornate in libertà, e con volontari e operatori esperti del settore penitenziario. La riflessione sul confine tra illegalità e semplice trasgressione viene portata in un contesto drammaticamente reale, quello riservato all’espiazione della pena. In alcune realtà le scuole potranno entrare anche negli istituti, come accade nel carcere “Due Palazzi” di Padova, dove questi incontri sono stati attivati da 17 anni. In altri ambiti la trattazione avviene nelle aule scolastiche, ma la presenza delle persone detenute e degli operatori penitenziari consente di avere una diretta percezione di cosa implichi il sistema della privazione della libertà. Testimonianze, esperienze, suggestioni: nelle finalità dei promotori “A scuola di libertà” vuole rendere operativo un processo dinamico, che “alleni” al bene anche attraverso la conoscenza del male e delle sue conseguenze. Al progetto è legato un concorso letterario per studenti e istituti scolastici, che prenda a tema attraverso un testo in forma libera (racconto, lettera, articolo) le forme della pena e del carcere. Ergastolo ostativo. La Consulta ha giurisdizionalizzato la materia, non liberato i mafiosi di Giovanni Quarticelli lanotiziaweb.it, 19 novembre 2019 Quando si criticano le esternazioni pretestuose e giustizialiste di Travaglio, dei pubblici ministeri Di Matteo e Gratteri, si corre il rischio di essere scambiati per persone accomunabili ai mafiosi e quindi il discorso si concluderebbe con l’affermazione che chi è favorevole al principio stabilito dalla Corte Costituzionale, è persona contigua ai mafiosi. In questi giorni di discute tanto della sentenza della Corte Costituzionale (e della Cedu) che, secondo i sostenitori del partito giustizialista-manettaro, avrebbe dato la possibilità ai mafiosi di godere di permessi premio a go go. Come al solito, il principio enunciato dalla Corte è stato obliterato additandolo a norma che ha cancellato anni di guerra alla mafia rendendo inutile il sacrificio di Falcone e Borsellino: affermazioni forti, inappropriate e riduttive perché gli slogans urlati esemplificano il problema senza analizzarlo e lo ridicolizzano. Nicola Morra, Presidente della Commissione antimafia, si è preoccupato e precipitato di divulgare un video sui social in cui preannuncia un provvedimento tendente a neutralizzare gli effetti della pronuncia della Consulta con eloquio ridondante a rima baciata. In realtà, queste esagerazioni sono infondate e fanno parte di un costume politico populista che tende a risolvere i problemi con la bacchetta magica e, poi, non risolve nulla come l’esperienza sta dimostrando. Nessuno ha mai riportato il più bel commento espresso pubblicamente commentando il clamore suscitato dalla sentenza. “Le sentenze sull’ergastolo ostativo automatico non vanno contro i principi che hanno guidato l’azione di mio padre”, così Fiammetta Borsellino sul Foglio del 30.10.2019. Vediamo un po’ cosa cambierà perché gli effetti della sentenza saranno minimi. Anzi, forse, non cambierà proprio nulla. Vivremo con tranquillità il prossimo Natale perché le nostre città non saranno invase da mafiosi in permesso premio, così come la stragrande maggioranza dei detenuti comuni non trascorrerà le festività con la propria famiglia. Forse non tutti sanno quanto sia difficoltoso ottenere un permesso premio per un detenuto normale e non immagina che sarà quasi impossibile ottenerlo per un ergastolano mafioso non collaborante. Cosicché sarà evitato lo scandalo epocale, come urlato anche in maniera sguaiata da chi si fa portavoce della cultura giustizialista o di un ingiustificato populismo giudiziario. La sentenza della Consulta che dichiara illegittimo l’art.4bis nella parte in cui omette di riportare la parola “speranza” anche a chi si è macchiato dei più efferati delitti è una naturale conseguenza della giurisprudenza della Consulta ispirata ad una lettura costituzionalmente orientata dell’ordinamento penitenziario (sul punto è bene leggere la sentenza n. 149 del 2018 e, quindi cronologicamente anteriore alla presente sentenza, in cui si lanciava un messaggio più forte a proposito dei condannati all’ergastolo per i delitti di sequestro di persona con conseguente morte del sequestrato: delitto efferatissimo, ma non più fashion e per questo la sentenza non è stata accompagnata da tanto clamore). Le norme del nostro sistema carcerario sono un coacervo di limiti, preclusioni e presunzioni di pericolosità sociale che si pongono in netto contrasto con gli articoli 3 e 27 della nostra Costituzione, ovvero con il principio di ragionevolezza e col principio della funzione rieducativa della pena. Qualsiasi altra interpretazione è in contrasto con gli intenti dei nostri Padri Costituenti di cui, più della metà, hanno conosciuto il carcere per averlo sopportato in nome degli ideali della democrazia. Il nostro ordinamento penitenziario attuale è il risultato di corposi interventi novellistici attuati in diversi momenti storici e giustificati dalla legislazione d’emergenza. Così facendo si è pian piano snaturata la portata rieducativa dell’ordinamento e il senso di armonia col dettato di cui all’art. 27 della Costituzione relegandolo a sistema di norme preclusive od ostative alla fruizione dei benefici penitenziari: si pensi all’ultimo intervento con la c.d. Spazza-corrotti, attualmente al vaglio di costituzionalità. Il principio enunciato dalla Consulta è encomiabile ma di difficile o impossibile attuazione pratica in quanto la fruizione del permesso premio è sottoposto alla rigida verifica di tre presupposti: partecipazione al percorso rieducativo, assenza di collegamenti attuali (al momento della concessione del permesso) con la criminalità organizzata, assenza di ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. In attesa della parte motiva della sentenza, questo è il quadro che si evince dal comunicato diffuso dall’Ufficio Stampa della Corte Costituzionale. È bene rimarcare che la stragrande maggioranza dei detenuti mafiosi condannati all’ergastolo che non hanno collaborato si trovano, nel contempo, sottoposti al regime differenziato di cui all’art. 41bis Ord. Penit.. Quindi riesce difficile immaginare una partecipazione ad un qualsiasi percorso rieducativo in quanto il condannato è costretto a vivere, vita natural durante, in isolamento tanto che la Cedu ha ribadito il senso disumano del predetto regime differenziato. E l’isolamento perenne del rigido regime di cui al 41bis viene utilizzato come strumento di incoraggiamento alla collaborazione o, se si vuole, di definitiva redenzione. Allora è lecito concludere che il principio della Consulta risulta inapplicabile per il mafioso ergastolano sottoposto al 41bis perché se non collaborerà vivrà una detenzione in perenne isolamento che, come detto, è incompatibile col percorso rieducativo. Il secondo elemento richiesto dalla sentenza è l’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata. È inutile dire che uno dei presupposti per l’applicazione del 41bis è la esistenza di collegamenti con la criminalità organizzata. Questo tipo di relazione è richiesta anche per i detenuti comuni e chi frequenta gli uffici della Magistratura di Sorveglianza sa perfettamente bene che il tenore delle predette relazioni è univoco, nel senso che si fa sempre riferimento ad una personalità incline al delitto e, circostanza sempre più ricorrente, è la clausola di stile “non si escludono collegamenti con la criminalità organizzata”. Questo succede sempre per i topi di auto e i tombaroli. Immaginiamo quale possa essere una relazione della D.D.A. L’ultimo requisito è di difficile comprensione in quanto si richiede l’assenza del pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata. Chi conosce le dinamiche di una consorteria criminale e, più specificatamente di una associazione mafiosa, sa che questo pericolo non sussiste solo nel caso o di soppressione di tutti i sodali della cosca mafiosa cui il detenuto apparteneva, o nel caso di pubblica dissociazione del mafioso condannato. In altri termini, non si è pentito, non ha collaborato, ma ha preso le distanze dal mondo mafioso pubblicamente. La dissociazione può esporre a serio pericolo la incolumità del predetto. Devo condividere le preoccupazioni del dott. Gian Carlo Caselli quando paventa dissociazioni farlocche da parte dei vertici di consorterie mafiose. È da scartare l’idea che una prognosi del genere possa essere rimessa ad un Magistrato chiromante che dovrà fare affidamento, invece, alle informative richieste. In ultimo, è pacifico che i tre presupposti devono ricorrere in modo cumulativo e l’assenza di un elemento porterà al rigetto della richiesta. Si deciderà in via monocratica caricando di enorme responsabilità il Magistrato di Sorveglianza che, nella remota ipotesi di accoglimento del permesso premio, adotterà una motivazione rafforzata perché, come è facile immaginare, in questi casi è molto più facile rigettare che accogliere una richiesta di questa portata. Pensate al caso Riina innestatosi a seguito di una pronuncia della Cassazione per un semplice difetto di motivazione a cui seguì il rigetto del magistrato di Sorveglianza. È opportuno tenere nella debita considerazione le pressioni che ogni Magistrato di Sorveglianza subirà in occasione di queste decisioni e, comunque, il permesso premio non potrà essere goduto se non prima di aver espiato almeno venti anni di reclusione. La vera innovazione della pronuncia della Consulta è la giurisdizionalizzazione della materia eliminando la preclusione assoluta che il contegno non collaborativo creava. Quindi nessun proclama di catastrofismo se si è aggiunto un criterio di normalità ad un sistema che tende ad essere armonico con la Carta Costituzionale. Infatti ti capita di leggere l’inserzione del dott. Marco Patarnello, Magistrato di Sorveglianza presso il Tribunale di Roma, e comprendi di essere sulla buona strada e quelli del giustizialismo si occupassero di autovelox: non tifiamo affinché un mafioso venga posto in permesso premio ma che non venga cancellato il principio costituzionale della rieducazione del reo. *Avvocato penalista Ergastolo ostativo. Serve una toppa legislativa se vogliamo preservare la democrazia di Alberto Vannucci* Il Fatto Quotidiano, 19 novembre 2019 La petizione de Il Fatto Quotidiano chiede che governo e Parlamento appongano una toppa legislativa alla sentenza della Corte Costituzionale che ha bocciato il cosiddetto ergastolo ostativo, di fatto consentendo ai boss mafiosi e ai terroristi, persino quelli condannati a più ergastoli per omicidi e stragi, di poter accedere a vantaggi premiali, come i permessi, purché siano partecipi di un “percorso rieducativo”. Rispettare la sentenza della Consulta e analoghi pronunciamenti della Corte Europea dei diritti dell’uomo, ineccepibili in punto di diritto, non significa sottrarsi dalla responsabilità politica di farsi carico delle sue conseguenze potenzialmente funeste. Attraverso la forza del diritto si possono riaffermare valori di ordine superiore. Altrimenti, nel vuoto e nel silenzio della politica, le sentenze di quei giudici rischiano di caricarsi di un peso insostenibile sulla coscienza civile. È il momento di richiamare la politica ai suoi doveri, in primo luogo quello di ricucire con norme di buon senso il tessuto connettivo del nostro vivere civile, che quella sentenza rischia di smagliare. Vi sono buone ragioni “tecniche” per sollecitare un intervento correttivo della classe politica. Non ultima, l’esigenza di proteggere i giudici di sorveglianza dal rischio di rappresaglie nel vedersi affidati, con una decisione altamente discrezionale, destini, spazi di vita e “reinserimento sociale” di sanguinari terroristi o capimafia. Per questo l’avvio di un “percorso rieducativo”, precondizione necessaria per la concessione dei benefici, deve essere precisato meglio nei suoi contenuti e limiti, sciogliendolo di quelle ambiguità che oggi ne contraddistinguono l’applicazione, ristretta spesso a una generica “buona condotta” carceraria che nessun boss degno di questo nome - in quanto “uomo d’onore” e d’ordine - si farà mancare. Ed è bene che tale decisione sia collegiale, non imputabile a un singolo magistrato, altrimenti facile bersaglio di avvicinamenti, intimidazioni, corruzione. Esiste però anche un’altra motivazione di principio utile a risparmiare ai cittadini italiani il deplorevole spettacolo di boss mafiosi duri e puri, ancora fedeli alla loro causa criminale, intenti a beneficiare di generose premialità di Stato. I clan mafiosi sono entità adattabili e multiformi, in grado di svolgere attività di matrice sia imprenditoriale che politica. Organizzano traffici illeciti, accumulano e reinvestono profitti da un lato, dall’altro esercitano un controllo militare e di intelligence dei territori presidiati, riscuotono imposte, risolvono controversie, comminano punizioni. Il potere “politico-mafioso” si manifesta applicando mezzi di coercizione in forme arbitrarie e imprevedibili, dunque non può che dispiegarsi in concorrenza o in contrapposizione al monopolio reclamato dall’autorità statale nell’impiego legittimo e regolato della violenza. In uno scontro campale, nella guerra aperta con lo Stato gli sparuti gruppi mafiosi sarebbero di sicuro soccombenti. Per questo da sempre fiaccano il corpaccione molle dello Stato relazionandosi ai suoi rappresentanti con un’alternanza di lusinghe, corruzione, collusioni, intimidazioni, allettamenti, eliminazione selettiva. Le parole del giudice Paolo Borsellino chiariscono bene questo punto: “Politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d’accordo”. La storia d’Italia ci racconta come la strategia del “mettersi d’accordo” tra esponenti dell’organizzazione mafiosa e di quella statale sia stata spesso privilegiata e vincente. La connivenza omertosa e la cointeressenza coi gruppi criminali di ampi segmenti della classe di governo e dirigente - la cosiddetta borghesia mafiosa - hanno consentito per decenni alle micro-entità mafiose di esercitare una sorta di sovranità surrogata negli sfortunati territori dove si estende il loro dominio, con una miriade di organizzazioni dai tratti politici ferocemente autoritari, fondate sull’esercizio di un’autorità arbitraria, predatoria e violenta da parte dei capiclan. I quali naturalmente - come accade nei regimi autoritari, specie quelli di matrice fascista - per legittimarsi agli occhi del loro popolo, tanto impaurito e assoggettato quanto bisognoso di protezione, si sono ammantati delle vesti di paladini di valori tradizionali, con un grezzo armamentario ideologico che accosta alla rinfusa famiglia, onore, simbologia religiosa, omertà. I mafiosi irriducibili in carcere mantengono saldo un vincolo di appartenenza e di sudditanza nei confronti di organizzazioni criminali che incarnano un potere cruento, oppressivo, intimidatorio, un potere che uccide, tortura, nega e cancella diritti umani. Anche ad essi andrebbe dunque applicato quello che il filosofo liberale Karl Popper definì paradosso della tolleranza. Una comunità che faccia propri i valori di civiltà, tolleranza, riconoscimento universalistico di diritti civili rischia di essere travolta dalle frange di violenti e intolleranti che piegando alle loro finalità di dominio l’esercizio di quelle libertà - da essi negate ad altri - possono prosperare e imporsi. Per questo una società aperta, se vuole affermare davvero i valori dell’inclusione e della tolleranza, dovrà dimostrare il coraggio di negarne selettivamente l’applicazione. Non si può essere tolleranti con gli intolleranti. Questo principio vale a maggior ragione nei confronti dei rappresentanti criminali delle mafie. Un paese democratico che voglia preservare le proprie istituzioni e libertà individuali può e deve mostrarsi capace di limitare legalmente il ricorso a quei diritti e garanzie ai soggetti criminali, che possono utilizzarli in modo strumentale per accrescere materialmente e simbolicamente il potere invisibile e corruttivo delle mafie sulla vita politica e sociale. *Professore di Scienza Politica all’Università di Pisa Caos sulla prescrizione, maggioranza spaccata di Errico Novi Il Dubbio, 19 novembre 2019 Stasera vertice decisivo. Il Pd: limite temporale ai processi. M5S: grazie no. I Dem pronti a votare con Fi sulla durata massima dell’appello. Muro contro muro. Con esiti imprevedibili, ma che a breve potrebbero risolversi in una crisi gravissima per la maggioranza. Stasera Movimento 5 Stelle, Pd, Italia viva e Leu tornano a riunirsi sulla prescrizione. Con i dem irremovibili sulla necessità di introdurre un limite comunque insuperabile alla durata dei processi. Qualora il ministro Bonafede respingesse la proposta, il partito di Zingaretti sarebbe pronto ad approvare i correttivi insieme con l’opposizione. Molto pesante: difficile trovare aggettivi diversi per definire il clima tra Pd e Movimento 5 Stelle. Ma forse non si comprende fino in fondo il grado di tensione se non si guarda alla giustizia. Perché su altri dossier le scelte sono condizionate anche dall’imponderabile condotta altrui, come nel caso di Mittal per l’Ilva, o sono comunque di là da venire, come per lo Ius soli. La prescrizione invece va in scadenza per le feste di Natale. Il 31 dicembre per l’esattezza. E il Pd ha intenzione di non attende oltre, riguardo alla decisione. Il duello è fissato non per mezzogiorno come da prassi western ma alle 9 di stasera. Sarà una riunione lunga, destinata a protrarsi fino a notte fonda. Se ne potrebbe uscire con le premesse di una rottura irreversibile. Sulla prescrizione e, nel più estremo dei casi, sul futuro stesso dell’alleanza. Il summit si terrà di nuovo a Palazzo Chigi, alla presenza di Giuseppe Conte. Si fronteggeranno i protagonisti del vertice precedente, tenuto giovedì: da una parte il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, dall’altra le delegazioni di Pd, Italia viva e Leu. Il nodo è semplice: il Pd chiederà una norma di salvaguardia che introduca un termine di durata massimo oltre il quale il processo comunque finisce. Non solo. Perché tale norma dovrà entrare in vigore contestualmente alla “nuova” prescrizione. Ergo: o l’entrata in vigore della “nuova” prescrizione, ora prevista per il 1° gennaio, viene congelata oppure si dovrà trovare un veicolo normativo rapidissimo per le norme chieste dai democratici (e non solo da loro). Prima ipotesi da escludere: Bonafede non ha alcuna intenzione di rinviare l’efficacia della sua legge. Ma neppure ha intenzione, a quanto risulta, di introdurre un nuovo limite invalicabile alla durata dei processi. Situazione senza sbocchi, appunto. Un vicolo cieco, come si ripete da giorni. Sottovalutato. Anche negli esiti. Perché al momento il Pd non ufficializza la subordinata, non dice cosa accadrebbe se stasera Bonafede respingesse le richieste, ma voci sempre meno volatili prefigurano un esito clamoroso, da crisi di governo: il Pd che si accorda con Forza Italia per approvare la Legge Costa. Emendata: nel senso che oggi il testo depositato dal responsabile Giustizia degli azzurri, e all’ordine del giorno già per domani, prevede semplicemente la soppressione della norma Bonafede, con contestuale riviviscenza della prescrizione targata Orlando (18 mesi di sospensione dopo l’eventuale condanna in primo grado, altri 18 mesi dopo l’eventuale condanna in appello). Il Pd potrebbe proporre all’opposizione il seguente accordo: accantonare la norma abrogativa tout court firmata Enrico Costa e sostituirla con la norma di salvaguardia che stasera lo stesso Pd sottoporrà a Bonafede. Un esito estremo, forse imprevedibile fino a poco tempo fa. Ma ormai impossibile da escludere. Anche perché Italia viva e Leu sono di fatto sulla stessa linea del partito di Zingaretti. A Bonafede i democratici non offriranno un’unica soluzione. Sul tavolo ci sono i limiti di fase per appello e Cassazione, ma anche una sanzione processuale alla tedesca: ossia uno sconto di pena di un terzo qualora, alla condanna definitiva, il termine di prescrizione risulti superato. Ma se pure ci si accordasse per un meccanismo simile, è la convinzione del Pd, andrà comunque trovata una soluzione che protegga da durate parossistiche; né ci si può accontentare delle previste sanzioni per i giudici tardivi, legate a valutazioni soggettive dei capi degli uffici e del Csm. Sulla tempestività dei correttivi, il Pd stasera sarà altrettanto fermo: non accetterà la controproposta, già accennata giovedì scorso da Bonafede, di una rettifica a gennaio, dopo che la nuova prescrizione (bloccata dopo il primo grado) sarà entrata in vigore. Un diniego bastato sulla seguente considerazione: si creerebbe un paradosso giuridico, perché si finirebbe per sottoporre i futuri processi a tre regimi normativi differenti, con i reati commessi fino al 31 dicembre assoggettati alla riforma Orlando, quelli compiuti dal 1° gennaio in poi regolati secondo la norma Bonafede e quelli successivi agli eventuali correttivi definiti da tali future norme. Un vero e proprio baco dell’ordinamento, pericolosissimo. A tranquillizzare gli alleati dei 5 Stelle non vale, peraltro, l’impegno a un’efficacia retroattiva dei correttivi, perché con i tempi che corrono certezze politiche sul domani non ce ne sono. Oltretutto nella bozza di ddl delega sul processo penale e civile già ci sono norme poco rassicuranti dal punto di vista delle garanzie, come quella che, in caso di sostituzione del giudice, subordina la rinnovazione del dibattimento a specifiche esigenze, come l’asserita (dalla difesa) inattendibilità di un testimone. È anche per questo che gli alleati del Movimento 5 Stelle non intendono lasciare irrisolta l’incognita del processo infinito. Così parlò Palamara (da Minoli). I fatti, le correnti, la gogna di Ermes Antonucci Il Foglio, 19 novembre 2019 Luca Palamara, il magistrato al centro dello scandalo delle nomine al Consiglio superiore della magistratura, indagato per corruzione e sospeso dalla sua funzione di pm a Roma, ha parlato per la prima volta della sua vicenda venerdì scorso ai microfoni di Rai Radiol, all’interno di “Il mix delle 5” condotto da Giovanni Minoli. Palamara ha innanzitutto rigettato le accuse mosse nei suoi confronti dalla procura di Perugia, a partire da quella di aver ricevuto 40 mila euro in cambio di un suo intervento, all’epoca in cui sedeva in Csm, in favore della nomina di Giancarlo Longo (allora pm a Siracusa) a procuratore capo di Gela. Una nomina, come ha sottolineato Palamara, che in realtà “non è mai avvenuta”. “Non solo - ha aggiunto l’ex membro del Csm rispondendo a Minoli - il nome del dottor Longo non è stato nemmeno proposto in commissione perché al suo posto nel febbraio 2016 è stato nominato all’unanimità il dottor Asaro”. L’ex presidente dell’Anm si è anche difeso dall’accusa di aver ricevuto denaro, vacanze e altri beni dall’imprenditore Fabrizio Centofanti e dagli avvocati Piero Amara e Giuseppe Calafiore, indagati per corruzione e al centro dell’inchiesta sulle presunte sentenze pilotate in Consiglio di stato: “L’avvocato Calafiore non l’ho mai visto e conosciuto in vita mia. L’avvocato Amara penso di averlo visto due volte in eventi conviviali e il dottor Longo l’ho visto una volta. Non ho mai avuto né rapporti, né frequentazioni, né numeri di telefono, né quant’altro con loro”, ha detto Palamara. Per quanto riguarda gli incontri serali con alcuni componenti del Csm e i deputati dem Cosimo Ferri e Luca Lotti, in cui si discuteva delle nomine nelle principali procure del paese, il pm romano ha ribadito che si trattava soltanto di “attività di discussione” (“il luogo decisionale delle nomine è uno solo: la Quinta commissione del Csm e il plenum”), e sulla particolare partecipazione di Lotti, indagato nell’ambito dell’inchiesta Consip portata avanti dalla stessa procura capitolina, ha sottolineato un aspetto non notato finora: “Nel momento delle cene, Lotti era stato già tecnicamente rinviato a giudizio, quindi la sua vicenda processuale con la procura di Roma era definita e mai e poi mai avrei potuto in qualche modo interferire o influenzare qualcuno”. Ma al di là delle difese personali, le critiche più forti (e anche più interessanti) sono state riservate a due fenomeni che vanno ben oltre la vicenda specifica che lo ha travolto. Il primo riguarda il potere delle correnti togate. “Le correnti dominano il mondo della magistratura”, ha ammesso Palamara, chiamando in causa anche la nomina del vicepresidente David Ermini: “Le correnti sono state assolutamente determinanti nella nomina del vicepresidente. Se non c’è l’accordo tra le correnti non si può fare alcuna nomina”. Per l’ex membro del Csm, però, i gruppi associativi dei magistrati “non vanno demonizzati”, piuttosto “l’obiettivo è fare sì che le correnti possano aspirare a valori più alti”. Il secondo aspetto evidenziato da Palamara è il meccanismo della gogna mediatico-giudiziaria. “A partire dal febbraio del 2018 - ha raccontato il pm - la notizia di una mia presunta indagine e di accertamenti sulla mia persona era diventata un fatto noto sia tra giornalisti, sia negli ambienti della procura di Roma e dei magistrati. Questa è una situazione che sicuramente mi ha provocato molta delusione, ancora di più quando il 26 settembre 2018 è stata pubblicata sul Fatto quotidiano la notizia che esisteva un’indagine a Perugia che mi riguardava direttamente”. Insomma, il segreto istruttorio è ormai divenuto un colabrodo, e a riconoscerlo è anche un magistrato. Tanto più se si considera che, una volta esplosa l’inchiesta, i giornali hanno riportato per settimane i contenuti delle intercettazioni ottenute attraverso il trojan che era stato inoculato nello smartphone del pm romano: “La procura di Perugia ha trasmesso le intercettazioni al Csm, dopodiché nel mese di maggio sono state pubblicate dagli organi di stampa”. Alla domanda di Minoli: “E la responsabilità di quei materiali chi ce l’ha?”, Palamara ha risposto: “Direi entrambi perché il codice di procedura penale individua come titolare il procuratore della Repubblica. In questo caso si aggiunge il Csm che aveva la disponibilità di queste carte. Sarà oggetto di accertamenti perché si trattava di atti non depositati dei quali gli indagati non erano a conoscenza”. Una presa di posizione insospettabile, se si considera che negli anni dell’ultimo governo Berlusconi fu proprio Palamara a guidare la protesta dell’Anm contro la riforma (poi mai approvata) volta a limitare la pubblicazione di intercettazioni irrilevanti. Come a dire, meglio tardi che mai. L’autorevolezza dei magistrati crescerebbe se prendessero le distanze dalla politica di Pietro Di Muccio De Quattro Il Dubbio, 19 novembre 2019 I rapporti tra politica e magistratura dovrebbero basarsi sul principio, ribadito anche qui (Il Dubbio, 12. XI. 2019), secondo cui “Non esiste separazione dei poteri senza separazione degli uomini di potere”. Accade invece in Italia che, quando gli uomini di potere vestono la toga dei magistrati, la loro separazione dalla politica, cioè dal potere legislativo e esecutivo, non è affatto stabilita come esigerebbe in teoria e in pratica la separazione dei poteri nel corretto “governo costituzionale”. In Italia un magistrato in carica può essere nominato ministro o sottosegretario della giustizia. Un procuratore della Repubblica può candidarsi in un partito a governare una regione dopo aver inquisito gli esponenti del partito avverso. La legge lo consente. Ma non lo consente la correttezza istituzionale; anzi, il senso della giustizia, che per un magistrato dovrebbe essere il sesto senso della professione. Chi disistima i magistrati avrà buon gioco nell’accusarli di combattere battaglie politiche mascherate da inchieste giudiziarie. Poiché l’indipendenza della magistratura nella Costituzione è garantita in modi che non si riscontrano in nessuna Costituzione sulla terra, occorrerebbe una disposizione costituzionale per recidere il legame tra rappresentanza politica e magistratura. I magistrati dovrebbero essere ineleggibili in assoluto, accettando tale clausola all’atto del giuramento d’ingresso in magistratura: “semel abbas, semper abbas”. Se i giudici sono soggetti solo alla legge, non possono appartenere alle assemblee rappresentative che “producono” la legge. La “soggezione” diventa fittizia o formale senza la distinzione tra il politico legiferante e il magistrato giusdicente. Lo stesso dicasi per il potere esecutivo che esprime l’indirizzo governativo e, per quanto l’amministrazione pubblica debba essere imparziale, non ha l’imparzialità della giurisdizione. È ineccepibile, immune da riserve di opportunità e convenienza, che il ministero della Giustizia sia amministrato dai magistrati che amministra? Tutto l’apparato degli esistenti istituti per preservare la “purezza” dei caratteri propri della magistratura (indipendenza e imparzialità), quali l’ineleggibilità, i distacchi, le aspettative, le incompatibilità, eccetera, non raggiunge lo scopo, come i più avveduti tra giudici e cittadini percepiscono. Né lo raggiungerà la pur commendevole revisione legislativa della complessa materia all’esame della Commissione giustizia del Senato. A tacere che la smaccata militanza di qualche singolo magistrato, proprio per la sua stessa veste, induce alla diffidenza anche verso i tanti altri magistrati pur non esposti politicamente, mentre le porte girevoli tra politica e magistratura assestano un colpo funesto alla credibilità di chi le attraversa entrando e uscendo da una parte all’altra. L’obiezione, a rischio capziosità, dei magistrati è che la toga non rappresenta una deminutio capitis. L’elettorato passivo spetta a loro in quanto cittadini. In effetti questo punto di vista è stato avallato dalla Corte costituzionale, con un’argomentazione tuttavia anfibologica, tipica di certe sue sentenze, secondo cui “i magistrati godono degli stessi diritti di libertà garantiti ad ogni altro cittadino” però “hanno una posizione peculiare che comporta l’imposizione di speciali doveri anche come regola deontologica”. La Consulta purtroppo non ha voluto spingersi ad ammettere ciò che pare una “verità effettuale” (Machiavelli), cioè che gli istituti per proteggere e separare i magistrati dalle commistioni politiche non riescono ad evitare che “possa fondatamente dubitarsi della loro indipendenza ed imparzialità”. Dunque, l’equiparazione sic et simpliciter dei magistrati ai comuni cittadini quanto alle istituzioni politiche, non regge. Il giudice è la bocca della legge, che parla uguale per tutti. Non può diventare la bocca dell’elettore, che esprime una parte, o l’espressione del governo che lo nomina. Voler tenere il piede in due staffe risulta inoltre autolesionistico per i magistrati, la cui autorevolezza crescerebbe a dismisura se prendessero totalmente le distanze dalla politica. Cucchi, abbiamo vinto tutti. Ma per avere giustizia non deve servire la forza di una sorella di Susanna Marietti Il Fatto Quotidiano, 19 novembre 2019 Arriva una doppia sentenza per la morte di Stefano Cucchi, a dieci anni di distanza dai fatti. Dieci anni durante i quali per la prima volta l’Italia ha guardato a cosa accadeva dentro quelle aule di giustizia. Il caso Cucchi ha prodotto qualcosa di mai visto prima. Le violenze subite in stato di custodia - purtroppo Stefano non è stato il primo né l’ultimo - erano in passato qualcosa che riguardava le persone vicine, qualche avvocato, qualche associazione come Antigone che ha nella propria mission la tutela dei diritti delle persone detenute. La vicenda Cucchi ha indignato invece l’Italia intera. È uscita dalla cerchia degli specialisti. Se ne è parlato nei talk show, sui social network, nella metropolitana, nei bar, nelle curve degli stadi. Un’indignazione non più settoriale ma di massa. E l’indignazione di massa è la forma più alta di controllo sociale e di tutela dei più deboli. Ha vinto la giustizia e abbiamo vinto tutti noi. Oggi siamo alle sentenze. Si riconoscono le colpe mediche nel primo processo avviato. Vedremo se ci sarà un ricorso in Cassazione e quale sarà la sentenza definitiva. È intervenuta la prescrizione, è vero, ma ciò non significa che quelle colpe non siano state viste e certificate. Se poi la giustizia non riesce a concludere i procedimenti in tempi ragionevoli, è giusto che nessuno sia imputato a vita. Nel secondo processo le condanne sono state nette. È stato omicidio preterintenzionale. La fattispecie di reato che in passato non fu usata per altri omicidi avvenuti per mano delle forze dell’ordine. Penso a quello di Federico Aldrovandi, rubricato come un reato colposo. Due carabinieri si vedono oggi infliggere una pena di dodici anni di carcere. Non bisogna mai esultare davanti a una persona che entra in carcere e non è questa adesso la mia intenzione. Ma va riconosciuta l’importanza di una sentenza che sconfigge le omertà e lo spirito di corpo che da sempre hanno caratterizzato queste vicende e le hanno protette nell’impunità. Quest’ultima, inevitabilmente, permette alla violenza di continuare a perpetrarsi. Ci sono voluti dieci anni, ma finalmente è stato riconosciuto quello che tutti sapevamo fin dall’inizio, e cioè che Stefano non è morto di morte naturale. Un reato compiuto da un pubblico ufficiale è un reato che riguarda tutti noi. Uno Stato che tiene in custodia ci rappresenta, lo fa anche a nome nostro. La tortura - sebbene dieci anni fa questo termine non comparisse ancora nel codice penale italiano - non è un reato privato. Oggi il web si complimenta con Ilaria Cucchi e la sua famiglia. Si complimenta per la tenacia, per la forza dimostrata nel portare avanti, insieme all’avvocato Fabio Anselmo, una richiesta di verità e giustizia che tante, troppe volte l’ha vista umiliata e trattata quasi come fosse lei la colpevole e non la vittima. È vero: Ilaria è stata grandiosa in questi anni. Ma una cosa non dobbiamo mai perdere di vista: non deve servire Ilaria Cucchi affinché ci sia giustizia. Non deve essere necessaria la determinazione di una sorella, la malattia dei genitori affaticati dal processo, per avere verità. Lo Stato dovrebbe farsene carico a prescindere dalla capacità della vittima di chiedere giustizia. Non tutti hanno le capacità di Ilaria, alla quale dobbiamo dire grazie per ciò che è stata capace di fare. Ma non basta essere contenti perché lei c’è riuscita. Dobbiamo pretendere che sempre e comunque, per volontà dell’autorità pubblica e non di una privata famiglia, gli abusi da parte delle forze dell’ordine vengano perseguiti e puniti. *Coordinatrice associazione Antigone Ilaria Cucchi querela Matteo Salvini per la frase “La droga fa male” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 19 novembre 2019 La sorella di Stefano, morto nel 2009 dopo un pestaggio da parte di due carabinieri, ha deciso di sporgere querela nei confronti dell’ex ministro dell’Interno e leader della Lega. È una sfida che va oltre i confini della querela, quella lanciata da Ilaria Cucchi all’ex ministro Matteo Salvini. Lei lo considera una sorta di “atto dovuto” nei confronti della memoria del fratello, e dei genitori, che prescinde da come potrà finire un eventuale processo al leader leghista, se e quando ci si arriverà. È la risposta che una donna divenuta paladina della battaglia giudiziaria per ottenere verità e giustizia sulla morte del fratello ha ritenuto di dover dare a chi, a commento della condanna di due carabinieri per omicidio preterintenzionale, ha detto che “la droga fa male”. Ilaria e il suo avvocato-compagno Fabio Anselmo presenteranno una denuncia contro Salvini per diffamazione non solo alla memoria di Stefano Cucchi, ma anche alla sua famiglia - lei, sua madre e suo padre, i genitori che con sofferenza anche fisica, dignità e costanza hanno portato avanti la domanda di giustizia -, che diventa “parte offesa” delle frasi dell’ex ministro. Militante politica - Ipotizzare o lasciar credere che a far morire il ragazzo, dieci anni fa, sia stato l’uso o lo spaccio di stupefacenti significa accusare in qualche modo i genitori e la sorella di averlo abbandonato su quella strada, come dimostrerebbero le reazioni sui social network accumulatesi dopo le parole di Salvini. Aggiunte subito dopo le espressioni di vicinanza e solidarietà alla famiglia Cucchi, e per i destinatari hanno avuto il sopravvento. La reazione di Ilaria è stata annunciata nell’immediato e ribadita ora, a tre giorni di distanza, dopo aver riflettuto e soprattutto letto sul web le accuse e i giudizi sarcastici o di accusa nei confronti di Stefano e dei suoi familiari, a suo giudizio provocati o alimentati dalla frase di Salvini. La stessa Ilaria che, nel frattempo, non ha avuto remore di proclamarsi in qualche modo una militante politica. Diritti dei detenuti - “Faccio politica da dieci anni - ha spiegato rispondendo domenica in tv a Lucia Annunziata nel programma Mezz’ora in più. Ci invitano da tutte le parti, in questo momento possiamo andare a tutti i comizi che vogliamo, ma mai sentiamo parlare del rispetto dei diritti”, ha spiegato. E il rispetto è quello per i diritti dei detenuti, anche quelli per droga come Stefano Cucchi che però il 22 ottobre 2009 è morto dopo una settimana di reclusione non per gli effetti degli stupefacenti o perché l’avevano arrestato in qualità di presunto spacciatore, ma - come ha stabilito il verdetto di primo grado - a causa le lesioni provocate dal pestaggio di due dei carabinieri che l’avevano fermato. Di qui la replica a Salvini. Giudiziaria, ma anche politica. Tv accesa anche la notte per il detenuto al “carcere duro” di Chiara Spagnolo La Repubblica, 19 novembre 2019 La Cassazione dà ragione a Domenico Strisciuglio, detenuto al 41bis nel carcere di Sassari: può vederla anche da mezzanotte alle 7. Anche un capoclan ha diritto “a informarsi e a mantenere viva la sua cultura”, ha stabilito il Tribunale di sorveglianza della città sarda, con una decisione che ha passato il vaglio della Corte di Cassazione, alla quale si sono inutilmente appellati il ministero della Giustizia, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e la casa circondariale. Il loro ricorso è stato dichiarato inammissibile a inizio ottobre. A far nascere il caso è stata la domanda presentata da “Mimmo la luna” in persona - capo del clan Strisciuglio insieme al fratello Sigismondo - per ottenere una deroga al regolamento del carcere, secondo cui i detenuti sottoposti al carcere duro non possono guardare la tv a loro piacimento. Lo spegnimento dell’apparecchio era tassativamente imposto dalle 24 alle 7, perché “il rispetto del riposo notturno è un principio che informa l’intera disciplina della vita carceraria”, avevano evidenziato ministero e Dap nei ricorsi. Non è un caso che i pulsanti per l’accensione e lo spegnimento dei televisori (così come dell’illuminazione) siano ubicati sia dentro le celle che all’esterno, in modo da poter essere utilizzati anche dal personale del carcere. Tali norme sono ancora più stringenti se riferite alle sezioni di 41bis, per le quali la legge ha lasciato comunque ampia discrezionalità di scelte da parte dei singoli istituti. Il divieto notturno di accendere la tv - hanno sostenuto il ministero e l’amministrazione penitenziaria - non comporterebbe alcuna limitazione all’esercizio dei diritti dei detenuti. E d’altro canto, è scritto ancora nel ricorso, il diritto all’informazione non potrebbe dirsi violato in quanto il detenuto, sottoposto al regime del carcere duro, ha a disposizione l’intera giornata per informarsi e intrattenersi. Di tutt’altro avviso Domenico Strisciuglio, che ha sostenuto con forza la necessità di vedere anche i programmi notturni e ha scritto un ricorso di suo pugno, sollecitando il magistrato di sorveglianza a entrare nel merito di regolamenti e circolari dell’amministrazione penitenziaria. “Il diritto all’informazione e alla cultura è azionabile in qualunque ora del giorno e della notte”, ha affermato il tribunale. Inoltre è stato evidenziato che, tenuto conto della realtà architettonica del 41bis per come è strutturato nel penitenziario sardo, “non si può arrecare disturbo ad altri detenuti con la tv accesa”. Lo spegnimento, da mezzanotte alle 7, per i magistrati sarebbe “un irragionevole sacrificio, tanto più inflittivo perché applicato a detenuti costretti dentro le celle per ben 21 ore al giorno”. In tal modo, il Tribunale di sorveglianza prima e la Corte di cassazione dopo hanno sostanzialmente dato ragione a “Mimmo la luna” e aperto, di fatto, la strada a possibili ricorsi di altri detenuti. Tra gli esponenti della criminalità barese che, di recente, sono finiti al 41bis c’è anche il 33enne Saverio Faccilongo, capo della fazione di Enziteto degli Strisciuglio, che a inizio settembre ordinò dal carcere l’omicidio di Michele Ranieri, braccio destro di Carlo Alberto Baresi e cognato di Vincenzo Strisciuglio. Quest’ultimo è, attualmente, il referente della famiglia (in senso stretto) sul territorio, essendo reclusi gli altri due fratelli Domenico e Sigismondo. “Mimmo la luna” - che è assistito dall’avvocato Massimo Chiusolo - deve scontare una condanna a 22 anni di reclusione per associazione a delinquere e ha davanti a sé ancora parecchi anni di carcere, che presumibilmente continuerà a scontare al 41bis. Cassazione: è reato vendere cannabis con efficacia drogante di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 novembre 2019 Per i giudici è corretto sequestrare prodotti per verificarne gli effetti psicogeni. Dopo la famosa sentenza della Cassazione del 30 maggio scorso che ha vietato, di fatto, il commercio di olio, resina e inflorescenze, ne arriva un’altra - la numero 46236 - dove precisa che chi vende derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L, commette reato a meno che non si riesca a dimostrare che tali sostanze siano prive di efficacia drogante. Tale sentenza è scaturita dopo il ricorso di alcuni ragazzi proprietari dei cannabis shop ai quali la magistratura ha sequestrato i prodotti erba light in ordine ai reati di cui agli articoli 17, 73 e 82 d.P.R. n. 309 del 1990 (testo unico sulle droghe), per aver istigato all’uso di sostanze stupefacenti, come i prodotti derivati dalle infiorescenze di canapa sativa L, in violazione di quanto stabilito dalla legge n. 242 del 2016, e per aver svolto attività di proselitismo per l’uso delle predette sostanze, detenendole allo scopo di cederle ad altri, mediante l’offerta in vendita presso i loro esercizi commerciali. I proprietari hanno fatto ricorso evidenziando soprattutto una violazione di legge, perché la varietà di canapa denominata cannabis sativa L, entro determinati limiti di Thc (0, 6 %), non rientra più nella sfera di applicazione del d. P. R. n. 309 del 1990, come affermato dal ministero delle Politiche Agricole, nella circolare del 23 maggio 2018. Secondo i ricorrenti, infatti, la legge n. 242 del 2016 non sancisce infatti soltanto la liceità della coltivazione ma anche di tutta la filiera agro- industriale. Ne deriva che la commercializzazione di infiorescenze di cannabis sativa L proveniente dalle coltivazioni effettuate a norma della legge n. 242 del 2016 non risulta essere assoggettata a limitazioni correlate agli eventuali usi che l’acquirente finale potrebbe farne. Sempre secondo i proprietari ai quali gli sono stati sequestrati i prodotti è dunque errato l’assunto formulato dal giudice, secondo cui la finalità ricreativa risulterebbe esclusa dall’ambito di applicazione della legge n. 242 del 2016, in quanto quest’ultima non pone alcun divieto, in piena sintonia con la direttiva 2002/ 53/ CE. Viene sottolineato che non è d’altronde possibile riconoscere rilievo penale ai contenuti del parere del Consiglio superiore di sanità del 10 aprile 2018, secondo cui la pericolosità dei prodotti contenenti infiorescenze di canapa non può essere esclusa, né a quanto prescritto dalla circolare del ministero degli Interni del 31 luglio 2018, in cui si afferma che la legge n. 242 del 2016 non garantirebbe la libera vendita delle infiorescenze per consumo personale attraverso il fumo, poiché, se le infiorescenze risultano provenire da coltivazioni entro i limiti di Thc indicati, è lo stesso legislatore ad averne sancito l’inoffensività in ambito penale, in omaggio alle norme costituzionali di cui all’art. 117, comma 1 e 3 della costituzione. Ma nulla da fare, secondo la Cassazione il sequestro è motivato dal fatto che i valori di tolleranza di Thc fino a 0,6% indicati nella legge n. 242 del 2016 si riferiscono solo al principio attivo presente sulle piante in coltivazione, non al prodotto oggetto di commercio. Da qui la necessità di procedere al sequestro dei prodotti commercializzati, per verificare se producono effetti psicogeni e se la vendita configura reato. Gli ermellini fanno anche riferimento alla famosa precedente sentenza della Cassazione, ribadendo che la detenzione, commercializzazione dei derivati dalla coltivazione disciplinata dalla predetta legge, costituiti dalle infiorescenze (marijuana) e dalla resina (hashish), rimangono sottoposte alla disciplina della legge sulla droga. Rimane il quesito della “efficacia drogante”. Come si valuta? Qual è il limite di Thc da considerarsi drogante per chi vende i prodotti? I valori di tolleranza di Thc fino a 0,6% si riferiscono solo al principio attivo presente sulle piante in coltivazione. Ma quelle in vendita? Né la sentenza, né le motivazioni, pubblicate recentemente, lo spiegano. Ed è qui che dovrebbe intervenire la politica, soprattutto per evitare l’ecatombe dei negozi dedicati all’erba light. Amministratore di condominio, affido in prova anche se non ha risarcito i danni di Giulio Benedetti Il Sole 24 Ore, 19 novembre 2019 Corte di cassazione, sentenza 28 ottobre 2019, n. 43853. Clemenza per l’amministratore che commette il tipico reato di appropriazione indebita anche se non ha risarcito i danni. La Corte di Cassazione (sentenza 43853/2019) ha annullato con rinvio l’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza che aveva rigettato la richiesta di affidamento in prova al servizio sociale di un amministratore condominiale. Questo era stato condannato perché aveva compiuto reati di appropriazione indebita commessi attraverso ripetute distrazioni di ingenti somme di denaro di vari condòmini, destinandolo a favore di diverse persone giuridiche a lui riconducibili. Dopo la condanna l’amministratore scontava la pena nella detenzione domiciliare di cui osservava le prescrizioni. Il Tribunale di Sorveglianza non ammetteva l’amministratore all’affidamento in prova, perché aveva reso solo una “modesta confessione” e non aveva risarcito le persone offese alle quali non aveva restituito neppure una parte del maltolto (oltre un milione di euro). Per il Tribunale l’amministratore inoltre non si trovava in uno stato di necessità economica. La Corte di Cassazione annullava però l’ordinanza: l’affidamento in prova al servizio sociale deve essere ancorato ai risultati dell’osservazione del comportamento del condannato. L’ingiustificata indisponibilità del condannato a risarcire il danno può essere considerata un segno negativo ma solo nell’ottica di una valutazione complessiva sulla sua rieducabilità. Quindi il giudice doveva valutare non soltanto il parziale risarcimento del danno, ma anche la condotta del reo da cui emergevano elementi favorevoli: lo svolgimento di un’attività lavorativa (aveva continuato a lavorare), l’assenza di altri procedimenti penali, la puntuale osservanza della detenzione domiciliare. Autobus, resistenza a pubblico ufficiale per chi aggredisce il controllore di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 19 novembre 2019 Tribunale di Vicenza - Sezione penale - Sentenza 16 aprile 2019 n. 491. Quando il controllore accerta l’infrazione, identifica il soggetto privo del titolo di viaggio e redige il relativo verbale esercita le funzioni di un pubblico ufficiale perché agisce con poteri autoritativi e certificativi. Pertanto, la condotta di colui che usi violenza nei suoi confronti per evitare la sanzione integra il reato di resistenza a pubblico ufficiale, di cui all’articolo 337 del codice penale. Questo è quanto emerge dalla sentenza n. 491/2019 del Tribunale di Vicenza. I fatti - Protagonista della vicenda è un ragazzo che, mentre si trovava a bordo di un autobus, veniva sorpreso dai controllori in assenza del titolo di viaggio. Nel tentativo di non farsi irrogare la sanzione amministrativa, il ragazzo cercava prima di uscire dall’autobus e, non riuscendoci, colpiva e spintonava i controllori sino al momento della firma del verbale di contestazione. Intervenuti i Carabinieri sul posto, il ragazzo veniva poi processato per direttissima per rispondere del reato di resistenza a pubblico ufficiale. Il controllore è un pubblico ufficiale - Assodato lo svolgimento dei fatti, il Tribunale condanna il ragazzo per il delitto commesso e spiega bene come la figura dell’accertatore dei titoli di viaggio debba essere considerata a tutti gli effetti quale pubblico ufficiale, soggetto passivo del reato ex articolo 337 cod. pen.. Ebbene, afferma il giudice, il controllore di un’azienda di trasporto riveste tale qualifica soggettiva quando procede all’accertamento dell’identità personale del soggetto non munito di biglietto, alla contestazione della violazione e alla redazione del verbale. Ciò in quanto la qualifica di pubblico ufficiale, ex articolo 357 cod. pen., deve essere riconosciuta a “quei soggetti che, pubblici dipendenti o semplici privati, quale che sia la loro posizione soggettiva, possono e debbono, nell’ambito di una potestà regolata dal diritto pubblico, formare e manifestare la volontà della pubblica amministrazione oppure esercitare, indipendentemente da formali investiture, poteri autoritativi, deliberativi o certificativi”. Inoltre, nel caso di società per azioni, possono essere considerati pubblici ufficiali i soggetti inseriti nella struttura organizzativa “quando l’attività della società medesima sia disciplinata da una normativa pubblicistica e persegua finalità pubbliche, pur se con gli strumenti privatistici”. Ciò posto, nella fattispecie, il reato è perfettamente integrato, in quanto ad essere aggrediti sono stati dei soggetti inseriti all’interno di una organizzazione che gestisce un servizio pubblico, durante l’espletamento delle funzioni di accertamento, di identificazione e di contestazione. Calabria. Inizia il percorso nelle carceri per la non violenza ed il rispetto delle donne di Domenico Suraci citynow.it, 19 novembre 2019 Le attività inizieranno domani 19 novembre e si svolgeranno per l’intero territorio calabrese. Unanime l’approvazione di questo importante progetto. È stato presentato all’interno della sala stampa “Rita Pisano” del Consiglio Regionale della Calabria, il progetto che desidera promuovere e sensibilizzare alla non violenza ed al rispetto delle donne all’interno delle carceri calabresi. La presidente della Commissione Regionale Pari Opportunità dott.ssa Cinzia Nava affiancata dalla vicepresidente avv. Monica Falcomatà e dalle commissarie, ha elencato le tappe di un percorso che vedrà protagonisti gli istituti penitenziari calabresi, a partire già da domani 19 novembre con il carcere di Catanzaro, il 21 novembre Rossano, il 25 novembre Cosenza poi Vibo Valentia, Crotone, Laureana di Borrello e Castrovillari. Un programma che proseguirà anche nei mesi successivi. La realizzazione sarà possibile grazie all’attuazione del protocollo sottoscritto nel 2018 che prevede l’attività di formazione dei detenuti. Il provveditore della carceri della Calabria dott. Liberato Gerardo Guerriero ha spiegato: “Raccolgo i frutti di un lavoro iniziato dalla dottoressa Irrera, col provveditore dott. Parisi che hanno lavorato insieme ai funzionari della regione per questo protocollo. Per l’amministrazione penitenziaria la partecipazione a questi tavoli ha una duplice valenza, innanzitutto punta verso obiettivi che non sono prettamente del carcere ed autoreferenziali che rimangono nel nostro muro di cinta, ci porta a partecipare a vicende che appartengono all’intera società, al mondo intero, visto il tema così alto che stiamo trattando. All’interno delle carceri ospitiamo detenuti, anche quelli con reati di questo tipo, il rispetto dell’altro in generale, e della donna in particolare con i piani rieducativi è proprio il sale di ciò che serve ovunque. Siamo fermamente convinti che l’educazione al rispetto dell’altro è qualcosa da cui partire, in particolare il rispetto delle donne, ogni persona è nata da una donna, nei momenti di poca lucidità si dovrebbe ricordare di ciò. Noi in questo modo ci sentiamo parte di una collettività, bisogna capire se è il carcere che si chiude, o è la collettività che spesso tende a delegare altri, lo sforzo che noi facciamo è aprirci totalmente al territorio, una dimostrazione sono tali iniziative e sono tanti gli istituti che si muovono in tal senso. Seminare significa dare all’ambiente di lavoro penitenziario, in passato accusato di maschilismo, fortunatamente da quando tramite concorsi pubblici sono entrate molte donne, e spesso le donne sono in posizioni di vertice, l’intervento che noi effettuiamo è a valle, noi garantiamo ogni tipo di supporto alla Crpo ed auguri per la lodevole iniziativa”. La dottoressa Nicoletta Irrera (Funzionario giuridico pedagogico del Ministero della Giustizia): “Concordo con l’importanza di essere qui stasera, abbiamo voluto fortemente questa convenzione, personalmente ho contattato la dottoressa Nava per intraprendere un’iniziativa. L’amministrazione penitenziaria è il luogo dove le persone arrivano quando nella società qualcosa non ha funzionato, siamo gli “ultimi” a dare la possibilità ad una persona di ricostruire una vita, noi arriviamo quando qualcosa è fallita prima, famiglia, scuola, chiesa. Si richiede una norma costituzionale che prevede l’impegno a 360° dobbiamo agire e fare delle scelte come amministrazione penitenziaria. Abbiamo scelto di farlo in un certa maniera, sottoscrivendo questa convenzione. Crediamo che un discorso educativo di questo tipo debba avvenire da parte di tutti gli istituti. Riflettere su certe tematiche è fondamentale, non bisogna lasciar passare, ma fermarsi a riflettere, anche su potenziali soggetti che possano commettere tali reati e portare messaggi educativi da persone esperte nel campo. Questo è il nostro obiettivo: stringere alleanze con l’esterno, far capire che noi ci siamo perché è interesse di tutti il reato che una persona commette incide sull’intera città, chi inquina, chi ci danneggia, chi ruba, chi sporca, chi ci violenta fa un danno all’intera comunità, ringrazio perciò la dottoressa Cinzia Nava per questa lodevole iniziativa”. L’avv. Agostino Siviglia (Garante Regionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale): “Per risolvere questo problema complesso, è fondamentale la soggettività del singolo individuo, giorno dopo giorno bisognerà comprendere quali sono le ragioni che lo portano a commettere reati, spesso in ambito domestico familiare, per altro le sezioni protette dei sex offender spesso sono ghettizzate all’interno degli istituti penitenziari perché vivono una realtà parallela con divieto di incontro, ciò non è previsto da alcuna norma primaria, da circolari ministeriali, ho avuto modo di confrontarmi con la direttrice di un carcere milanese, dove lei ha fatto convivere i sex offender con gli altri detenuti e soltanto le donne sono in grado di poter fare un passo, che forse da solo l’uomo non riesce a fare. Non c’è questa coscientizzazione del male che si cagione perché ciò non avviene. Ho accolto subito l’invito, mi permetto di avviare un dialogo con le donne detenute con l’universo femminile, tranne due o tre istituiti in Italia, non ci sono strutture destinate alle donne, ci sono al limite sezioni distaccate ma sono attività lavorative limitate, e quando hanno la possibilità di lavorare è un momento cruciale, le donne sono mamme, figlie, spose hanno un microcosmo particolare che merita attenzione alle quali io ho dedicato molta attenzione. Ribadisco, la soggettività dei singoli è importante io confido “nella speranza contro ogni speranza” che il nostro tentativo sia già una speranza autentica”. L’avv. Monica Falcomatà (Vicepresidente della Commissione Pari Opportunità Regione Calabria): “Attraverso percorsi di natura psicologica e sociale di reinserimento per i soggetti maltrattanti, subordinando a questa possibilità che gli viene concessa di accettare di entrare far parte di percorsi studiati, istituzionali allo scopo pensati per accedere al beneficio della sospensione condizionale della pena, intervenire quando il reato si è consumato. Prevedere dei canali legislativi che inducono ad intraprendere dei soggetti maltrattanti di ulteriori reati della stessa natura o addirittura peggiori, spesso avviene che il femminicidio avviene dalla reiterazione di reati spesso di natura psicologica, fisica e il reato d’impeto è lo sfogo, la tragedia che sfocia dopo anni di maltrattamenti, anche da questo punto di vista il codice rosso pone quest’obbligo, per alcuni reati, per altri la facoltà di porlo di tentare un recupero per prevenire ulteriori reati. Noi vogliamo tutelare la violenza delle vittime, ciò può avvenire tramite il recupero dei soggetti maltrattanti”. La dott.ssa Cinzia Nava ha infine ulteriormente sottolineato: “C’è una proposta di legge, che invieremo presto al Parlamento Italiano, dobbiamo si commemorare le vittime, ma evitare assolutamente la morte, perciò vogliamo attuare la convenzione di Istanbul delle tre P: prevenzione tramite la formazione nelle scuole, la protezione della vittima e la persecuzione del carnefice, vogliamo che venga rispettata tale convenzione, da questo nasce il nostro progetto”. Toscana. Due psicologi nelle carceri per affrontare il disagio del personale quotidianosanita.it, 19 novembre 2019 Approvato il progetto del Crrcr. Finanziato con 24mila euro, il progetto del Centro di riferimento regionale sulle criticità relazionali, approvato su proposta dell’assessore Saccardi, prevede la presenza nei principali istituti penitenziari della Toscana di due psicologi psicoterapeuti, con la funzione di ascolto, supporto e orientamento, rispetto alle difficoltà del personale. Se la vita in carcere è certamente dura per i detenuti, il personale sanitario e penitenziario non è esente da criticità e disagio. Parte da qui il progetto “La salute in carcere: accoglienza, analisi ed orientamento rispetto al disagio del personale che opera negli istituti penitenziari” presentato dal Centro di riferimento regionale sulle criticità relazionali (Crrcr e approvato dalla giunta nel corso della sua ultima seduta, su proposta dell’assessore al diritto alla salute Stefania Saccardi, e finanziato con 24mila euro. Un progetto che prevede la presenza, nei principali istituti penitenziari della Toscana e definiti in accordo con l’amministrazione penitenziaria, di due psicologi psicoterapeuti, con la funzione di ascolto, supporto e orientamento, rispetto alle difficoltà percepite e riferite dal personale che lavora negli istituti di pena toscani (in tutto 18: 16 per adulti e 2 per minori; il personale di polizia penitenziaria è in tutto di 2.900 persone). I due professionisti saranno presenti 2 volte al mese in ciascun istituto, sia per la realizzazione di colloqui individuali che per l’osservazione di alcuni contesti specifici. La richiesta di fornire un supporto professionale è stata avanzata alla Regione dal Provveditore regionale all’amministrazione penitenziaria, e la Regione ha individuato il Crrcr come centro idoneo per questa attività. “Dal 2012 ad oggi l’Osservatorio permanente sulla sanità penitenziaria istituito dalla Regione Toscana - spiega l’assessore Stefania Saccardi - ha evidenziato temi importanti, a seguito dei quali il Servizio sanitario, in stretta collaborazione con l’amministrazione penitenziaria, ha attivato iniziative e azioni congiunte, per il contenimento dei problemi emersi e l’integrazione dei gruppi multi-professionali coinvolti nei percorsi sanitari e penitenziari dei detenuti”. Nel 2018 sono iniziate negli istituti penitenziari toscani visite sistematiche effettuate con la collaborazione del Centro Gestione Rischio Clinico e Crrcr, per far nascere iniziative specifiche per le singole realtà; sono stati messi a punto e condivisi protocolli regionali, per esempio per la prevenzione del rischio suicidario e di gesti autolesivi, sia negli istituti per adulti che in quelli per minori; monitorate specifiche attività a cura dell’Ars, l’Agenzia regionale di sanità; istituiti percorsi formativi specifici, relativi sia al contesto della salute in carcere che al percorso di superamento dell’Ospedale psichiatrico giudiziario; attivati gruppi di lavoro su tematiche particolari (episodi di violenza nelle carceri); e condivise tematiche particolarmente importanti con la Magistratura. Tra le criticità emerse in seguito a questo lavoro congiunto, rilevante quella del disagio del personale che lavora all’interno degli istituti penitenziari: un disagio derivante sia da determinanti ambientali che da aspetti di natura socio-culturale e organizzativa. Da qui il progetto messo a punto dal Crrcr, che si propone di creare uno spazio dedicato all’ascolto e all’analisi delle problematiche vissute dal personale e offrire supporto e orientamento rispetto ai percorsi più appropriati; e anche fornire un feedback al sistema per eventuali interventi migliorativi. Cagliari. Morto il giovane detenuto che aveva tentato il suicidio a Uta di Marzia Diana youtg.net, 19 novembre 2019 È morto in ospedale a Cagliari, dopo quasi un mese di ricovero, il detenuto di 32 anni che il 26 ottobre scorso aveva tentato di togliersi la vita in carcere, a Uta. L’uomo, bielorusso, era stato salvato grazie al tempestivo intervento degli agenti penitenziari, che lo avevano trovato con il cappio al collo nella sua cella. Da lì i primi soccorsi e l’immediato trasferimento con un’ambulanza all’ospedale Brotzu di Cagliari, dove è rimasto ricoverato per tre settimane. Ieri pomeriggio, però, nel reparto di Rianimazione il suo cuore ha smesso di battere. Padova. “Mi riscatto per…”, l’impegno dei detenuti per la città di Marina Caneva* gnewsonline.it, 19 novembre 2019 È stato sottoscritto ieri da Sergio Giordani, sindaco di Padova, e da Claudio Mazzeo, direttore della Casa di Reclusione “Due Palazzi”, il protocollo d’Intesa “Mi riscatto per Padova”, alla presenza di autorità dell’Amministrazione Penitenziaria, del Comune e di numerosi detenuti riuniti per l’occasione nell’auditorium dell’istituto. L’accordo si inserisce in un progetto ministeriale che ha condotto alla recentissima istituzione del nuovo Ufficio centrale per il lavoro dei detenuti, “Mi riscatto per… il futuro”. L’esperienza, avviata a Roma e adottata anche in Messico, ha fatto registrare in un anno e mezzo il sensibile incremento dei progetti di pubblica utilità, con la sottoscrizione di 70 protocolli e 4.500 detenuti impiegati nella manutenzione del verde cittadino e delle strade. Ora anche i detenuti del carcere di Padova potranno, a seguito di apposito corso di formazione, prestare la propria attività volontaria e gratuita nell’ambito dei due percorsi previsti, giardinaggio e manutenzioni, dal lunedì al venerdì dalle 7 alle 13 per dodici mesi. L’inserimento nelle squadre operative specializzate di esperti del Comune di Padova consentirà loro di acquisire strumenti e formazione specifici spendibili anche, per il futuro, nelle fasi che seguiranno la detenzione, proprio in un’ottica di reinserimento nel tessuto sociale. In particolare, i detenuti che prenderanno parte al progetto presteranno la loro opera a beneficio della comunità in luoghi significativi e giardini storici della città nonché per la manutenzione di strade e segnaletica. “Avverto un senso di responsabilità nei confronti di tutta la comunità, compresi i detenuti, che sono certo forniranno un apporto significativo - ha dichiarato il sindaco Giordani - e pertanto trovo giusto collaborare con il direttore del carcere per individuare insieme le soluzioni più idonee per Padova, che apprezza la cultura, il volontariato e la popolazione che lavora per gli altri.” A conferma dell’apertura dell’amministrazione comunale nei confronti del mondo penitenziario è intervenuto il direttore Mazzeo che ha citato alcune iniziative che hanno già dimostrato la vitalità di tale sinergia. Tra queste la convenzione per promuovere le buone pratiche di raccolta differenziata all’interno dell’istituto, gli interventi di pubblica utilità realizzati nelle scuole e il progetto scuola-carcere. “I detenuti possiedono capacità e valore che vanno riconosciuti e possono indubbiamente contribuire a rendere migliore una città già splendida come quella di Padova - ha detto Mazzeo -. Il Comune stesso si impegnerà infatti a segnalare i nominativi dei soggetti che si sono distinti per professionalità e attitudine, supportando così l’Amministrazione Penitenziaria nella promozione del recupero e dell’inclusione sociale”. Chiara Galliani, assessore alle Politiche del lavoro e dell’occupazione, ambiente, verde, parchi e agricoltura, ha voluto sottolineare l’importanza del dialogo e della collaborazione tra le autorità penitenziarie e comunali mentre Fiorita Luciano, la dirigente capo settore del Gabinetto del sindaco, ha ribadito che “Padova è una città inclusiva che coinvolge tutti coloro che ci abitano”. Ampio risalto all’iniziativa è stato riconosciuto da Armando Giuseppe Reho, direttore dell’Ufficio Detenuti e Trattamento del Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per il Triveneto. Reho ha portato i saluti del provveditore Enrico Sbriglia, sottolineando che “la comunità penitenziaria, anche mediante l’atto siglato oggi, diventa direttamente partecipe della comunità esterna, attraverso un coinvolgimento in attività di impatto tangibile, reso possibile grazie all’impegno dell’Amministrazione Penitenziaria e degli enti locali deputati a fornire strumenti per la professionalizzazione dei detenuti, nell’ambito di una comunità viva e operante sul piano del territorio e del reinserimento sociale”. *Referente per la comunicazione del Provveditorato regionale del Triveneto Modena. Giustizia riparativa, accordo de L’Ovile con Caritas diocesana e Uepe laliberta.info, 19 novembre 2019 Si estende anche a Modena il modello di “giustizia riparativa” che da anni, nella nostra provincia, è sostenuto dalla cooperativa sociale L’Ovile. La cooperativa di via De Pisis, infatti, ha firmato una convenzione con l’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna (Uepe) di Modena e la Caritas diocesana d’oltre Secchia che, chiamando in causa L’Ovile, hanno voluto gettare le basi per un nuovo approccio ai temi della detenzione e dell’inclusione. Il documento è stato siglato dall’Arcivescovo di Modena-Nonantola don Erio Castellucci, dalla direttrice dell’Uepe Monica Righi e dal presidente della cooperativa sociale “L’Ovile” Valerio Maramotti. “Siamo molto grati all’Uepe e alla Caritas di Modena - sottolinea proprio Maramotti - per averci chiamato in causa in un percorso che riteniamo fondamentale tanto per chi ha commesso reati quanto per chi li ha subiti e per la collettività, anch’essa offesa ogni volta che un suo componente è vittima di un crimine”. “I percorsi che vanno sotto il nome di “giustizia riparativa” - spiega Maramotti - non annullano il reato e non cancellano la pena inflitta in sede giudiziaria, ma evitano che la risposta allo stesso reato sia esclusivamente punitiva, proponendo al reo, alle vittime e alla comunità occasioni di riscatto, riconoscimento reciproco, rispetto e, dove possibile, riconciliazione”. “Questo approccio - prosegue il presidente de L’Ovile - riguarda, ovviamente, quanti scontano la pena con misure alternative al carcere e non è solo rispettoso della dignità umana e della giustizia, ma si basa su principi di responsabilità e di solidarietà che, tra l’altro, consentono di evitare quella reiterazione del reato che troppo spesso coinvolge quanti escono dall’esperienza carceraria”. “Anche per questo - osserva Maramotti - ai percorsi offerti a quanti anche a Reggio Emilia sono seguiti dall’Uepe, da diversi anni associamo un’attiva collaborazione con l’Amministrazione penitenziaria per offrire ai detenuti occasioni di lavoro che li tengano anche in relazione con quel mondo esterno che si ritroveranno poi ad affrontare con maggiori strumenti per il riscatto e l’integrazione”. La convenzione firmata a Modena prevede la promozione di azioni concordi di sensibilizzazione nei confronti della comunità locale rispetto al sostegno e al reinserimento di persone in esecuzione penale, lo sviluppo di attività e incontri riparativi a favore delle vittime e della collettività, la costituzione di una rete di risorse che accolgano i soggetti ammessi a misura alternativa o ammessi alla sospensione del procedimento con messa alla prova che hanno aderito ad un progetto riparativo e la realizzazione di percorsi di mediazione penale in favore di utenti dell’Uepe di Modena. Attualmente la casa circondariale modenese Sant’Anna accoglie 520 detenuti, mentre 744 persone sono prese in carico dall’Uepe. La Caritas Diocesana di Modena, tra l’altro, metterà a disposizione i locali per consentire le mediazioni, ovvero dare la possibilità a reo e vittima di incontrarsi, dialogare e riscoprire quel minimo comune denominatore di umanità che li accomuna. La stessa Caritas si impegna su misure di inclusione sociale che passano per l’accoglienza in termini abitativi, offrendo un supporto nel reinserimento lavorativo e promuovendo percorsi di volontariato o partecipazione a percorsi di educazione civica tramite laboratori pedagogici guidati dai propri operatori e da volontari. Napoli. Carcere di Poggioreale, svenimenti e ore di attesa per i parenti dei detenuti internapoli.it, 19 novembre 2019 Monta la polemica sulla situazione all’esterno del carcere di Poggioreale, le associazioni a tutela dei diritti dei detenuti si lamentano per le condizioni in cui i parenti sono costretti ad aspettare per far visita ai familiari detenuti. Sulla pagina Facebook Parenti e amici dei detenuti a Poggioreale, Pozzuoli e Secondigliano si denuncia: “Stamattina una vecchietta di 82 anni si è sentita male mentre andava dal figlio, abbiamo dovuto chiamare l’ambulanza perché è svenuta!! È uno schifo! Ogni giorno è la stessa storia! Io vado li dalle 4 di mattina è oggi c’erano già più di 50 persone… ore 7 più di 100, non ho parole… arrivi al colloquio che già tieni mal di testa e stai tutta esaurita. E per di più poveri bambini che devono vedere tutto questo a farsi le file con le mamme pure sotto la pioggia! Dentro hanno costruito pure una specie di recinto … adesso lo spazio è ancora di meno! Non c’è la facciamo più. Stamattina a Poggioreale ho dovuto rinunciare al colloquio. In tilt i tabelloni elettronici. Ho visto situazione nera e sono andato via, mi segnalano anche sale invase dall’acqua”. Napoli. Dalla Regione Campania 400 frigo nuovi per il carcere di Poggioreale di Roberta De Maddi comunicareilsociale.com, 19 novembre 2019 Dalla Regione Campania un nuovo investimento per il carcere di Poggioreale, quattrocento sono i nuovi frigo arrivati infatti alla Casa Circondariale. “Sono azioni simboliche, la Regione si è impegnata per la formazione per i detenuti che continua, è ovvio che qui dentro si tocca con mano quello che è il dolore umano”, spiega l’assessore regionale alle Politiche Sociali, Lucia Fortini. Nella Casa Circondariale dopo l’episodio avvenuto alla fine di agosto dell’evasione di un detenuto il clima resta comunque teso. Il problema più urgente del carcere di Poggioreale è il sovraffollamento, come spiega anche il Garante per i detenuti in Campania, Samuele Ciambriello: “Qui ci sono 2108 detenuti, a fronte di una capienza invece di 1600 persone, l’esubero è di 508 unità. Le celle per tre persone diventano da sei, quelle per sei diventano da nove. Inoltre occorre che il governo mandi più agenti, come può un agente solo avere a che fare con 150 detenuti? In ogni padiglione dovrebbe essere prevista inoltre un’area della socialità, lo dice la legge. Per di più ci sono 12 milioni che sono stati stanziati dal Ministero delle Infrastrutture tre anni fa, li diede Del Rio al provveditorato regionale delle Opere Pubbliche per ricostruire quattro padiglioni. Sono fermi”. Ciambriello oggi firmerà inoltre un Protocollo con il provveditore per un corso di formazione di Pronto Soccorso, è importante che anche gli operatori siano preparati anche a questo genere di evenienze. Maria Luisa Palma, direttrice della Casa Circondariale pone l’attenzione sugli aiuti che debbono venire dall’esterno: “È essenziale il supporto delle istituzioni del privato sociale, delle imprese, affinché si possano tessere dei progetti di reinserimento sociale che, come ci dicono le statistiche, fanno crollare il rischio di recidiva”. Ravenna. In carcere corso da pizzaiolo, per aiutare i detenuti nel ritorno alla vita civile ravennaedintorni.it, 19 novembre 2019 L’iniziativa si ripete per il sesto anno: cinque mesi di lezioni teoriche e pratiche. Per il sesto anno consecutivo nel carcere di Ravenna si terrà un corso di formazione per pizzaiolo riservato ai detenuti. L’associazione di volontariato “Il paese Sant’Antonio per la Solidarietà”, con il sostegno dell’Apes (Associazione nazionale pizzaioli) e di Lions Club Ravenna, terrà le lezioni per una durata complessiva di 5 mesi con lezioni teoriche e pratiche, sulle proprietà nutrizionali della pizza, dalla preparazione alla cottura. L’attività di volontariato, che ebbe inizio con il progetto delle politiche sociali del Comune di Ravenna, ha costruito importanti relazioni umane per un loro aiuto al ritorno nella vita civile. Lecce. A Luciana Delle Donne il Premio interazionale “Semplicemente donna” di Fabiana Agnello lecceprima.it, 19 novembre 2019 Dopo venti anni di carriera nel mondo della finanza ha creato i brand Made in Carcere e 2nd Chance, offrendo una possibilità di riscatto ai detenuti. Riceverà il riconoscimento internazionale a Castiglion Fiorentino venerdì 22 novembre. Dona speranza e riscatto sociale alle donne e agli uomini che non si sono piegati di fronte alle avversità della vita e non si sono lasciati sconfiggere da retaggi culturali e situazioni difficili: Luciana Delle Donne ha conquistato la giuria del Premio internazionale “Semplicemente donne” che l’ha premiata per la categoria “Imprenditoria per il sociale”. La manager di successo Delle Donne riceverà il riconoscimento per la VII edizione del premio internazionale “Semplicemente donna”, evento in crescita di anno in anno, capace di parlare alle nuove generazioni e volto a sensibilizzare l’opinione pubblica contro la violenza di genere, venerdì 22 novembre al teatro “Mario Spina” di Castiglion Fiorentino. Storie spesso tristi e raccapriccianti di donne e uomini detenuti, ma anche di quelle donne che hanno subito violenze di ogni genere, grazie alla caparbietà e alla tenacia di Luciana Delle Donne sono riuscite a dare una svolta di coraggio e di riscatto nella lotta contro retaggi culturali e situazioni difficili. Classe 1961, Luciana Delle Donne è una manager con marcata esperienza nel Change management e nell’innovazione strategica in ambito tecnologico e organizzativo. Nella sua carriera è stata responsabile della Divisione Banca 121, dello Sviluppo Canali Innovativi Sanpaolo Imi Wealth Management e della piattaforma Servizi delle fabbriche di prodotto (Wm). Ha inoltre creato la prima banca online in Italia. Nel 2006, dopo venti anni di carriera nel mondo della finanza, Luciana ha deciso di dedicarsi a un impegno ben diverso: rendere le differenze tra le persone un valore aggiunto trasmettendo sentimenti di fiducia e di entusiasmo in coloro che vivono una situazione di disagio o di svantaggio sociale. Ha creato quindi Officina Creativa allo scopo di diffondere modelli culturali che producano nuove forze per il cambiamento. Il primo progetto cui dà vita e` Made in Carcere, una società no-profit che si occupa del reinserimento sociale delle persone svantaggiate e, in particolare, dei detenuti. Il secondo brand con cui opera è invece 2nd Chance. La top manager Delle Donne oltre a essere un’imprenditrice sociale, rappresenta per la comunità un punto di riferimento, una bussola, una persona che c’è sempre. Nel 2004 Luciana ha lasciato Milano ed è tornata nella sua Lecce con l’intento di crearsi una famiglia. Ritiene di aver guadagnato abbastanza, forse troppo, senza avere mai avuto il tempo di pensare ad altro se non ai numeri e a raggiungere gli obiettivi che il suo lavoro le ha imposto. Capisce dunque che è arrivato il momento di dire basta e di pensare a tutti coloro che hanno il diritto di avere una seconda possibilità. Con Officina Creativa ha quindi l’idea vincente di promuovere un’azione imprenditoriale dentro le mura carcerarie. Officina Creativa è una bella storia nella quale buon senso e creatività si legano. Il progetto consiste nella raccolta di tessuti di recupero e nella realizzazione di prodotti all’interno dei laboratori del carcere. In Made in Carcere operano infatti donne detenute che imparano ed acquisiscono una nuova professionalità dimostrando che il bello esiste e va ricercato ovunque. Dislocato in diversi territori, Made in Carcere vede oggi, tra Lecce e Trani, oltre venti donne lavorare insieme a detenute di tipo comune, di massima sicurezza e donne in semi libertà. Nel progetto sono accolte anche donne vittime di tratta alle quali viene insegnato a cucire permettendo loro di tornare ai propri paesi d’origine dopo aver acquisito una competenza specifica e quindi una dignità lavorativa. In ambito maschile, insieme ad altri detenuti, è stata avviata la Cittadella del tessile nella quale si concentrano la logistica della “banca del tessuto “, la sala taglio e la stampa di etichette. Grazie a essa, Luciana oggi offre un’opportunità di lavoro e uno stipendio a persone spesso invisibili dando una nuova dignità ai prigionieri e alle loro famiglie, e rompendo la catena del destino fatale. Il suo sogno è quello di trasformare il PIL in PIF, e quindi passare dal prodotto interno lordo ad un nuovo strumento di misura: la felicità. Vuole infatti dimostrare che fare del bene fa bene. “Se lavoriamo per un benessere comune è molto più facile essere felici. Il sorriso sano delle persone che ricevono un aiuto, un indirizzo, uno stimolo ripaga di tutti i sacrifici”. Lucca. In un convegno le esperienze di inclusione dei detenuti del carcere luccaindiretta.it, 19 novembre 2019 Racconteranno la loro esperienza di lavoro all’interno delle mura del carcere. I detenuti della Casa Circondariale e gli ospiti della Casa di San Francesco di Lucca prenderanno la parola giovedì prossimo (21 novembre) durante il convegno che si terrà alle 14,30, nella cappella Guinigi del complesso di San Francesco, organizzato per fare il punto sul progetto Liberi dentro. L’esperienza di inclusione dei detenuti attraverso il progetto di digitalizzazione della documentazione dell’Azienda Usl Toscana nord ovest, sviluppato dall’Asl insieme all’arcidiocesi di Lucca - Ufficio pastorale Caritas, alla casa circondariale San Giorgio di Lucca ed al Gruppo volontari carcere di Lucca. Oltre all’azienda sanitaria, che ha investito quasi 21mila euro, hanno finanziato l’intervento la Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca (40mila euro), la Caritas diocesana (oltre 28mila euro) e la Regione Toscana (quasi 16mila euro), per un importo totale superiore ai 100mila euro. Liberi dentro ha preso concretamente il via nel novembre 2018, con l’allestimento nel carcere nella Casa San Francesco (che accoglie detenuti agli arresti domiciliari), di due laboratori per la digitalizzazione dei documenti, dove 6 operatori, 4 detenuti nel carcere e 2 ospiti della Casa di San Francesco, grazie a borse lavoro, hanno iniziato la digitalizzazione della documentazione cartacea dell’azienda Usl Toscana nord ovest. I detenuti formati a cura dell’Asl e seguiti da tutor della Caritas, a fine del percorso acquisiscono competenze utili per il loro futuro. L’obiettivo è contribuire - all’interno di un più vasto programma di azioni formative - alla riabilitazione dei detenuti, o comunque di persone che hanno avuto l’esperienza del carcere, per definirne il percorso verso la futura autonomia e il reinserimento nel mondo del lavoro. “È evidente il valore sociale del progetto - dice Maria Letizia Casani, direttore generale dell’azienda Usl Toscana nord ovest - che si va a sommare alla sua utilità pratica, visto che l’Azienda potrà sostituire una parte dell’archivio amministrativo cartaceo con uno digitale, più facile da consultare, liberando così anche alcuni spazi. Ma è chiaro che questa esperienza, innovativa a livello nazionale, ha la sua ragion d’essere principale nell’inclusione attiva dei detenuti, ai quali viene offerta un’opportunità di impiego che continua nel tempo, fornisce una piccola fonte di guadagno e competenze specifiche che potranno essere utilizzate, una volta scontata la pena, per reinserirsi nel mondo del lavoro”. L’incontro di giovedì (21 novembre) a Lucca, sarà aperto dai saluti istituzionali di Alessandro Tambellini, sindaco di Lucca e presidente del conferenza zonale dei sindaci della Piana di Lucca, di Giorgio Del Ghingaro, sindaco di Viareggio e presidente della conferenza zonale dei sindaci della Versilia, Patrizio Andreuccetti, sindaco di Borgo a Mozzano e presidente della conferenza zonale dei sindaci della Valle del Serchio, di Maria Letizia Casani, direttore generale dell’azienda Usl Toscana nord ovest, di monsignor Paolo Giulietti, arcivescovo di Lucca, di Gianfranco De Gesu, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Toscana-Umbria, di Marcello Bertocchini, presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca, e di Stefania Saccardi, assessore al diritto alla salute della Regione Toscana. Il programma dell’incontro prevede poi gli interventi di Angela Venezia, direttore dell’ufficio detenuti e trattamento del provveditorato regionale amministrazione penitenziaria Toscana-Umbria, di Giuliana Martinelli, responsabile del progetto per l’azienda Usl Toscana nord ovest, di Donatella Turri, direttore della Caritas Lucca, di Santina Savoca, direttore del carcere di Lucca, di Gabriele Ferro, presidente del Gruppo volontari carcere. Previste, inoltre, le testimonianze dei detenuti che hanno partecipato al progetto. Reggio Calabria. Tutti i perché del carcere ostativo, confronto psicologi-studenti ilreggino.it, 19 novembre 2019 L’iniziativa promossa dall’ordine professionale e dall’Università Mediterranea con esperti per affrontare gli aspetti più salienti di un dibattito delicato. Che cosa significa essere condannati a un “ergastolo ostativo”? Quali sono le circostanze criminali che spingono uno Stato di diritto a prevedere un “fine pena mai”? A questi interrogativi hanno tentato di dare una risposta i relatori dell’incontro pubblico “Il diritto alla speranza”, promosso dall’Ordine degli Psicologi della Calabria e dall’Università Mediterranea di Reggio. Gli esperti intervenuti hanno affrontato gli aspetti più salienti di questo delicato quanto affascinante dibattito. “Un convengo che ci porta a riflettere quali scenari può aprire la sentenza sul caso “Viola”- ha spiegato la psicologa penitenziaria Antonia Sergio. Noi psicologi abbiamo una grande responsabilità, soprattutto in relazione agli strumenti da usare per garantire un reintegro nella società di queste persone”. “Cerchiamo di formare gli studenti sull’evoluzione della normativa messa in discussione - ha rimarcato il docente Arturo Capone - secondo cui per accedere a benefici penitenziari i condannati devono passare attraverso un percorso di collaborazione con la giustizia”. Bari. I detenuti attori per un giorno con la performance dedicata a Matera di Luca Turi Gazzetta del Mezzogiorno, 19 novembre 2019 “Giardini di pietra”: ecco lo spettacolo scritto e realizzato in una serie di incontri con i detenuti. Si è svolta ieri mattina nella sala multimediale della Casa Circondariale di Bari la rappresentazione teatrale Giardini di Pietra, con il contributo di due musicisti e compositori, Marilisa Camicia e Vito Indolfo, e del lavoro dei detenuti coordinati dal regista Enrico Romita. L’iniziativa è il risultato di una serie di incontri con i detenuti che aveva come obiettivo la realizzazione di una performance teatrale. Un viaggio virtuale nella città di Matera, capitale europea della cultura per il 2019, è il tema dello spettacolo, partito da un’analisi della vicenda del brigante materano U’Chitarridd. Dopo averne studiato gli aspetti storici è stato scritto un testo che riepiloga e rappresenta i momenti della vita del protagonista, letti in prima persona dagli detenuti che ne hanno curato la stesura. Il tutto inquadrato nella particolare struttura architettonica di Matera e dei suoi Sassi, anche attraverso un breve video, composto da sequenze di film girati in loco. Un sincero omaggio alla bellezza della città di Matera che è stata definita un giardino di pietra. Migranti. Regolarizzare centinaia di migliaia di lavoratori si può di Filippo Miraglia Il Manifesto, 19 novembre 2019 Sono quasi 10 anni che in Italia non si può entrare legalmente per lavoro e che, per la popolarità che continua ad avere l’ideologia proibizionista in materia di immigrazione, le leggi producono illegalità e sfruttamento. Le stime parlano di 600/700 mila stranieri irregolari presenti nel nostro Paese. Presenza che fa comodo alla destra xenofoba e a chi sfrutta il loro lavoro senza versare contributi e tasse e sentendosi senza alcun obbligo, in ragione della paura di questi lavoratori di pagare con l’espulsione eventuali rivendicazioni. Come ha proposto la campagna “Ero Straniero”, consentire oggi a centinaia di migliaia di lavoratori e lavoratrici straniere di regolarizzare la loro posizione, rappresenterebbe una grande operazione legalità. Facendo emergere i tanti rapporti di lavoro che, a causa di una legge ingiusta e inefficace, sono in essere senza un regolare contratto, così come quelli dove il contratto c’è, ma che rischiano di andare ad alimentare le filiere del lavoro nero qualora non possano rinnovare il proprio permesso di soggiorno, come succede a tanti richiedenti asilo in attesa di definizione della procedura. In molte regioni del Paese l’assenza di manodopera è oramai evidente e le aziende continuano a chiedere un intervento che consenta l’ingresso regolare degli stranieri per ragioni di lavoro e la possibilità per gli irregolari già presenti in Italia di sanare la propria posizione a fronte di un contratto di lavoro. In assenza di un meccanismo di emersione strutturale, ossia non straordinario, come quello presente nella proposta di legge d’iniziativa popolare presentato dalla campagna Ero straniero - e oggi in discussione alla Commissione Affari costituzionali della Camera -, il rischio è di non riuscire ad arginare il buco nero dell’irregolarità e del conseguente sfruttamento, alimentando un’idea falsa e strumentale dell’immigrazione. L’argomento che dal 2011 a oggi ha monopolizzato la discussione sull’immigrazione, ossia che fossimo davanti ad una presunta invasione e che bisognasse fare di tutto (e si è fatto di tutto) per impedire alle persone di arrivare in Italia, si è tradotta nell’impossibilità di entrare legalmente. In realtà quest’argomento andrebbe, oggi più di ieri, ribaltato: se non c’è un meccanismo praticabile e giusto di ingresso per lavoro e per ricerca di lavoro, l’Italia, il mondo del lavoro, il sistema economico, rischiano il collasso nel giro di pochi anni. La presenza d’irregolari peraltro non ha altre soluzioni se non forme di regolarizzazione permanenti. Al ritmo al quale i governi rimpatriano gli irregolari, ammesso che questa sia una soluzione favorevole al nostro Paese, e sappiamo che non lo è, ci vorrebbe un secolo per azzerare l’irregolarità. Ecco quindi che in un mondo dove le persone si muovono poco, gli ultimi dati dell’Onu parlano di una percentuale del 3,4% della popolazione mondiale che emigra (258 milioni su 7,5 miliardi, quindi quasi il 97% non si muove da casa), l’obiettivo per l’Italia, con un bilancio demografico negativo da anni, deve essere attrarre persone per mantenere l’equilibrio. Migranti. Le navi delle Ong incoraggiano gli esuli? Balla. Ecco i numeri di Piero Sansonetti Il Dubbio, 19 novembre 2019 Lo studio della European University Institute. A chi sosteneva che impedire alle navi delle Ong di battere il Mediterraneo fosse una scelta sciagurata, perché comportava l’aumento dei morti nel nostro mare, si è sempre risposto con una controdeduzione abbastanza ragionevole. Che poi era il cavallo di battaglia, ad esempio, di Matteo Salvini. La controdeduzione era questa: no, i morti diminuiscono perché il fatto che non ci siano in mare le Ong scoraggia gli esuli e li sconsiglia di salire sui gommoni. Quindi meno partenze, meno arrivi, meno morti. Si poteva anche controbattere che i morti, in percentuale, rispetto alle partenze, erano in netto aumento. Ma la risposta, anche qui, non era sciocca: i morti si contano in numeri reali, le percentuali lasciamole agli scrutini elettorali. Giusto, forse. Ora però arriva uno studio realizzato da una istituzione accademica importante, come la European University Institute - accademica finanziata dall’Europa - il quale, numeri alla mano, ci dice che le cose non stanno così. La presenza in mare delle navi della Ong - o viceversa la non presenza - non ha modificato il flusso delle partenze. Le quali, invece, sono condizionate da tre elementi: il bel tempo, o il cattivo tempo; l’accendersi o l’affievolirsi delle guerre nei paesi africani (e in particolare in Libia); la stretta dei governanti libici contro gli aspiranti migranti, determinata dagli accordi col governo italiano. Ecco i numeri, che sono contenuti in una ricerca, molto dettagliata, condotta da due ricercatori italiani, Matteo Villa (un ricercatore dell’Ispi) ed Eugenio Cusumano (ricercatore dell’Ue). Nella ricerca si osserva che nel corso del 2019 sono sparite dal Mediterraneo le navi italiane ed europee, di conseguenza il peso dei soccorsi è rimasto tutto sulle spalle della guardia costiera libica e delle organizzazioni umanitarie. Villa e Cusumano hanno potuto fare un esame giorno per giorno, basato sui dati ufficiali ricevuti dalle agenzie dell’Onu e dalle guardie costiere italiane e libiche. Questi dati dicono che le navi delle Ong sono state attive per 85 giorni contro i circa 225 giorni nei quali non sono state presenti. Il numero delle partenze non ha nessuna oscillazione. La presenza o meno delle navi delle Ong non ha alcuna influenza. Ma la parte più consistente della ricerca riguarda l’intero quinquennio 2014 - 2019. In questi cinque anni, le navi umanitarie hanno soccorso 115.000 migranti su 650.000, con una media del 18 per cento. I soccorsi sono avvenuti soprattutto nel biennio 2016-2017. Poi il codice di condotta voluto da Minniti nell’estate 2017 e il decreto sicurezza di Matteo Salvini hanno più o meno cancellato le Ong. Bene, nel 2015, cioè nell’anno nel quale le Ong si affacciano massicciamente nel Mediterraneo (aumentando i loro interventi, che prima riguardavano solo lo 0,8 per cento dei profughi e da quel momento arrivano al 13 per cento), il numero complessivo delle partenze risulta in calo rispetto all’anno precedente. Tradotto in parole semplici: più Ong in mare, meno partenze. E ancora, nella prima metà del 2017, nonostante le tante navi umanitarie presenti, il numero degli sbarchi crolla. Perché crolla? Perché il governo italiano di centrosinistra ha firmato gli accordi con le autorità libiche, le quali hanno costruito i campi di concentramento dove tengono prigionieri, in condizioni disumane, gli aspiranti profughi. Naturalmente ciascuno può dare il giudizio che vuole sugli accordi italo-libici (recentemente abbiamo pubblicato su questo giornale il giudizio molto severo di Emma Bonino) e ritenere inumana la collaborazione con la Libia, o ritenerla invece un male necessario, un prezzo da pagare. Però è importante che se si discute di politiche migratorie e di organizzazione dei soccorsi in mare, si tenga conto dei dati reali e non di ipotesi basate sull’intuizione. Da oggi la discussione può essere molto più serena. E con serenità, forse, bisogna prendere in considerazione l’ipotesi di tornare a dare spazio alle navi di soccorso. Partendo dal dato di fatto che i soccorsi servono solo a diminuire il numero dei morti e non aumentano gli sbarchi. Se le cose stanno così non credo che nessuno abbia dubbi sulla necessità di aumentare i soccorsi. Senza bisogno di rimangiarsi le proprie idee, semplicemente adeguandole alle nuove informazioni che ci vengono fornite dagli studiosi. Del resto, come spesso succede, non fu la politica a iniziare l’operazione anti-Ong. Fu, come spesso accade nel nostro Paese, la magistratura. Il procuratore di Catania, Carmelo Zuccaro, aprì un’inchiesta contro alcune organizzazioni umanitarie, che lui sospettava di “intelligenza col nemico”, e cioè di avere compiuto e di compiere azioni concordate con gli scafisti libici, o addirittura suggerite da loro. Il risultato dell’inchiesta fu il codice Minniti e la progressiva scomparsa delle navi umanitarie. L’inchiesta giudiziaria fece il suo corso e si concluse con un nulla di fatto: ma dopo aver raggiunto il discutibile risultato dell’azzeramento dei soccorsi. E dell’aumento dei morti. Migranti. Open Arms, Salvini indagato ancora dai pm di Agrigento di Alessandra Ziniti La Repubblica, 19 novembre 2019 La sua reazione: “Rifarei tutto, per me è una medaglia”. È il bis del caso Diciotti: per il leader leghista le ipotesi di reato sono sequestro di persona e omissione di atti d’ufficio. In 15 giorni il procuratore di Palermo dovrà mandare il fascicolo al Tribunale dei ministri con le sue valutazioni. L’ex ministro dell’Interno lancia l’ennesima sfida alla magistratura: “Altra indagine, altro processo per aver difeso i confini, la sicurezza, l’onore dell’Italia? Per me è una medaglia! Rifarei e rifarò tutto”. “Mi chiedo se questa volta, come è successo nel caso Diciotti, il Parlamento salverà Salvini negando l’autorizzazione a procedere”, il commento di Oscar Camps, fondatore di Open Arms alla notizia appresa da Repubblica. Venti infiniti giorni prigionieri a bordo della Open Arms, a mezzo miglio da Lampedusa. Due soli bagni alla turca, giacigli sul ponte per 164 migranti salvati in zona Sar libica e costretti in “condizioni estreme”, follia e disperazione tanto da arrivare a gettarsi in mare nel tentativo di raggiungere la terraferma. “L’Autorità pubblica aveva consapevolezza della situazione d’urgenza e il dovere di porvi fine ordinando lo sbarco delle persone”, scrisse il procuratore di Agrigento quando il 20 agosto decise di intervenire ordinando il sequestro della nave e lo sbarco dei migranti. Quell’Autorità pubblica era Matteo Salvini, forse ancora inconsapevole che quelli sarebbero stati gli ultimi giorni da ministro dell’Interno. Due mesi dopo, per Salvini arriva una nuova (attesa) tegola giudiziaria. Sequestro di persona e omissione d’atti d’ufficio le ipotesi di reato con le quali la Procura di Agrigento ha iscritto il leader della Lega nel registro degli indagati passando il fascicolo alla Dda di Palermo competente per valutare le ipotesi di reato che dovranno adesso essere sottoposte al tribunale dei ministri. Il fascicolo è arrivato ieri sul tavolo del procuratore capo Franco Lo Voi che entro dieci giorni dovrà decidere se confermare le ipotesi di reato, riformularle o chiedere l’archiviazione. Insomma, il bis del caso Diciotti anche se quel procedimento fu poi trasferito a Catania perché i giudici ritennero che la condotta da contestare a Salvini fosse cominciata quando la nave della Guardia costiera fu fatta entrare nel porto di Catania. Chissà se questa volta, come successe per la Diciotti, il Parlamento salverà Salvini negando l’autorizzazione a procedere. A riprovare a trascinare Salvini davanti al tribunale dei ministri ancora Luigi Patronaggio, il procuratore di Agrigento che lo indagò un anno fa dopo essere salito a bordo della Diciotti. E che, il 20 agosto, sconvolto dalla ispezione sulla Open Arms alla fonda davanti a Lampedusa dopo quasi tre settimane dal primo di tre salvataggi in mare, si assunse la responsabilità di far scendere i migranti rimasti a bordo dopo uno stillicidio di evacuazioni d’urgenza ordinate dai medici. “Malati immaginari”, li definì in quei giorni Salvini fermo nel suo no allo sbarco nonostante la disponibilità di sei Paesi europei ad accogliere i migranti. Questa volta, il materiale probatorio a carico di Matteo Salvini che costrinse l’intera catena di comando del Viminale a negare l’approdo alla Open Arms, è considerevole. Non c’è solo l’esito dell’ispezione sanitaria guidata da Patronaggio a testimoniare l’omissione di quegli atti d’ufficio che il Viminale avrebbe dovuto adottare. C’è anche il decreto cautelare d’urgenza del presidente di sezione del Tar del Lazio Leonardo Pasanisi che, alla vigilia di Ferragosto, aveva accolto il ricorso della Ong spagnola annullando il provvedimento di divieto di ingresso in acque territoriali italiane firmato da Salvini e dai ministri Toninelli e Trenta in virtù del decreto sicurezza-bis. Divieto di ingresso illegittimo - fu la valutazione del Tar sposata poi anche nell’inchiesta penale - perché “in violazione delle norme del diritto internazionale del mare in materia di soccorso”, che prescrivono l’obbligo di soccorrere e portare immediatamente i migranti nel porto sicuro più vicino. E quelle imbarcazioni soccorse da Open Arms - come scrive lo stesso ministero dell’Interno nel suo ricorso - erano in distress, ovvero a rischio affondamento. Ancora, nel fascicolo c’è la mail con la quale il comando della Guardia costiera (per la prima volta) comunica al Viminale il suo “nullaosta allo sbarco”, prendendo in qualche modo le distanze dalla rigida posizione della quale ora l’intera catena di comando del Viminale viene chiamata a rispondere, a cominciare dal capo di gabinetto Matteo Piantedosi. Che questa volta, però, non è stato iscritto nel registro degli indagati. Sarà la Procura di Palermo a valutare la sua posizione. Il suo interrogatorio, settimane fa, stupì i pm: “A dare il Pos - disse - doveva essere la Guardia costiera”. Uno scaricabarile che non è andato molto lontano. Silvia Romano, la Procura di Roma: “È viva ed è in Somalia” di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 19 novembre 2019 Al vaglio rogatoria internazionale. Gli sviluppi delle indagini. La cooperante milanese è stata rapita in Kenya il 20 novembre dello scorso anno. Ora sarebbe nella mani di uomini vicini al gruppo jihadista Al-Shabaab. Silvia Romano è viva. Si trova in Somalia ed è nelle mani di un gruppo islamista legato agli jihadisti di Al- Shabaab. A un anno (era il 20 novembre 2018) dal rapimento della volontaria della Ong “Africa Milele” i carabinieri del Ros, coordinati dal pm Sergio Colaiocco, trovano una prima importante conferma. La Romano, 23 anni, avrebbe compiuto un lungo tragitto dal villaggio dove era stata sequestrata inizialmente - Chacama a ottanta chilometri da Nairobi - per essere poi ceduta ad un gruppo fondamentalista. Le novità sono state acquisite attraverso l’attività di intelligence e diplomazia, ma sono anche frutto dell’analisi di documenti messi a disposizione dalle autorità keniote nell’agosto scorso. In particolare verbali e tabulati telefonici. E malgrado la complessità del quadro politico e istituzionale del Paese si sta valutando di inviare una rogatoria internazionale per ottenere collaborazione. Non sarà semplice: è dei primi dell’ottobre scorso l’esplosione di un’autobomba a Mogadiscio che ha danneggiato due blindati italiani di ritorno da un addestramento nel quartier generale somalo di Villa Gashandigha. È vero che rispetto ai mesi immediatamente successivi al rapimento di Silvia Romano, c’è stato un miglioramento della situazione e il via libera, quest’estate, all’istanza che autorizzava il pool di investigatori italiani ad andare a Nairobi ha rappresentato una svolta nei rapporti tra i due Stati. Ma si procede comunque con cautela. Un trasferimento lampo, secondo quanto ricostruito dagli investigatori. Dopo essere stata pedinata per alcuni giorni la cooperante era stata prelevata in un centro commerciale nella contea di Kilifi. La Romano fu bloccata e dopo averle tolto cellulare e passaporto era stata fatta salire a bordo di una motocicletta e portata verso una boscaglia nei pressi del fiume Tana. Chi ha agito aveva informazioni, armi e denaro. Fino a questo momento sono stati identificati otto componenti della banda, tre dei quali sono già giudizio. Si tratta di Abdulla Gababa Wario, Moses Luwai Chembe e quello che appare come la mente del blitz, vale a dire Ibrahim Adan Omar. Per quest’ultimo avrebbe dovuto già esserci una prima udienza del processo ma non si sarebbe presentato e dunque l’udienza sarebbe stata aggiornata. Adhan Omar era stato arrestato e liberato in seguito al pagamento di una cauzione e da quel momento è in libertà. La procura generale del Kenya contesta il reato di “cospirazione con finalità di commettere un atto terroristico” oltre a quello di sequestro di persona e possesso illegale di armi da fuoco. La pista somala era emersa l’estate scorsa in seguito all’attività di collaborazione tra inquirenti italiani e kenyoti. In base a quanto accertato prima e dopo il blitz ci sono stati contatti telefonici fra gli autori materiali del rapimento e la Somalia. É certo che si sia trattato di un sequestro su commissione perché gli strumenti utilizzati (armi e moto) di cui erano dotati i rapitori sono stati giudicati “sproporzionati” rispetto ai mezzi comunemente in dotazione a una banda criminale kenyota. L’ultima volta che Silvia fu vista, ferita a un piede, era Natale. L’ultimo contatto utile, risale a gennaio. Poi, il nulla fino a questa conferma. Molte le iniziative di Ong e associazioni per tenere costante l’attenzione dell’opinione pubblica sul suo rapimento. E ora si ricomincia a sperare. Omicidio Caruana Galizia, arrestato a Malta il presunto tramite tra mandanti e killer La Stampa, 19 novembre 2019 La reporter venne uccisa da un’autobomba vicino a La Valletta nell’ottobre del 2017. L’arrestato potrebbe aver messo in contatto assassino, mandanti e gli uomini che si sono procurati l’esplosivo utilizzato per ucciderla. Un uomo sospettato di essere l’intermediario nell’omicidio della giornalista maltese Daphne Caruana Galizia è stato arrestato oggi. A riferirlo è una fonte della polizia. Si ritiene che l’intermediario sia stato l’uomo ad aver messo in contatto l’assassino, mandanti e gli uomini che si sono procurati l’esplosivo utilizzato. Un passo in avanti importante per le indagini. Il quotidiano Times of Malta dichiara che il governo sta prendendo in considerazione una protezione in cambio della piena collaborazione del sospetto che possa aiutare gli inquirenti ad arrivare al mandante dell’omicidio della giornalista. Una fonte della polizia ha spiegato che l’arresto è stato effettuato giovedì nell’ambito di un’indagine separata. Daphne Caruana Galizia scriveva un blog anticorruzione e aveva contribuito a svelare lo scandalo dei “Panama Papers” e in particolare dei cosiddetti “Malta Files”, inchieste giornalistiche che avevano travolto il governo della Valletta e alla fine la stessa Galizia, che aveva denunciato di esser stata minacciata. Il suo cadavere, carbonizzato, era stato trovato nella sua Peugeot 208 a poca distanza da casa, a Bidnija. Era stato il figlio ad avvertire la polizia, dopo aver sentito l’esplosione. Pochi minuti prima di morire la donna aveva pubblicato l’ultimo post sul suo blog: “Ci sono criminali ovunque, la situazione è disperata”. L’omicidio ha scioccato l’Europa e sollevato dubbi sullo stato di diritto nell’isola del Mediterraneo.