È dipendente da psicofarmaci un detenuto su due di Giacomo Galeazzi interris.it, 18 novembre 2019 Nelle carceri si estende a macchia d’olio la dipendenza da sedativi e ansiolitici e benzodiazepine creano più dipendenza del metadone e una pioggia di pillole colorate si riversa tutti i giorni sui detenuti italiani. Abusa di psicofarmaci un detenuto su due: una dipendenza nascosta (più di un terzo sono ansiolitici) e in carcere rischia anche chi entra pulito. Troppi blister e flaconi circolano per le 206 infermerie degli istituti penitenziari. Allarme-salute dietro le sbarre - Un dato empirico sotto gli occhi di tutti gli addetti ai lavori, un problema tanto grave da far denunciare a Francesco Ceraudo, per 40 anni dirigente sanitario dell’ospedale penitenziario Don Bosco e per 25 presidente dell’Associazione nazionale dei medici dell’amministrazione penitenziaria: “Nelle carceri italiane si entra puliti e si esce dipendenti”. Dal 2008 la salute dei detenuti è passata dall’amministrazione penitenziaria alle Asl territoriali. Ciò per certi versi è una conquista storica, per altri significa ognun per sé. Un’indagine dell’Agenzia regionale della sanità Toscana che ha coinvolto 57 strutture detentive (il 30% di quelle italiane), cinque regioni (Toscana, Lazio, Umbria, Veneto, Liguria) e Asl di Salerno: 15.751 detenuti. “Nella ricerca spicca un dato: il 46% dei farmaci prescritti sono psicofarmaci - sottolinea La Stampa. La quasi totalità di questi (95,2%) appartiene al gruppo di molecole che agisce sul sistema nervoso, con gli ansiolitici (37,8% del totale) a fare la parte del leone. Percentuale che sale vertiginosamente se si considera la fascia d’età 18-29 anni. Ottenere una terapia è facilissimo. Ed è più facile trovare un sedativo che una tachipirina”. Disagio crescente - Il primo disagio psicologico dietro le sbarre riguarda la difficoltà di adattarsi alla vita del recluso. “Il contatto con un ambiente ostile e di privazione delle sessualità provocano alterazioni psicologiche - spiega alla Stampa Ceraudo. Nel resto d’Europa l’introduzione di “stanze dell’amore” per l’incontro con le compagne ha ridotto violenze e deviazioni sessuali, soprattutto verso giovani e trans”. Non solo: “Molti chiedono qualcosa per dormire perché stanno 19 ore al giorno a letto, non si stancano e quindi non riescono a prendere sonno. Il rumore in carcere è onnipresente, non smette mai, neppure di notte. I detenuti sono così privati anche dei sogni”. L’ingresso in carcere è il trauma originario. I nuovi giunti devono adeguarsi in fretta alle regole di un ambiente che non conoscono, ma non solo. Diversi tipi di detenzione - La dipendenza dagli psicofarmaci riguarda soprattutto i detenuti comuni. Quelli legati alla criminalità organizzata hanno loro condotte e stili di vita differenti. Seguono codici diversi. Inoltre occorre distinguere tra case circondariali e di reclusione. Nelle prime i detenuti restano poco tempo quindi fanno subito richiesta di psicofarmaci per il disagio del primo impatto con l’ambiente. Nelle case di reclusione, invece, ci sono persone detenute da molti anni che prendono psicofarmaci abitualmente per vincere situazioni di tensione: la loro dipendenza dagli psicofarmaci è più grave perché assumono pillole non per il traumatico impatto con un nuovo ambiente, ma come stile di vita, così non si liberano di questa dipendenza nemmeno quando escono. Pillole da triturare, scambiare, sovradosare. Adattamento e mercato nero - Non a caso negli ultimi anni le infermerie in carcere preferiscono, dove possibile, la somministrazione in gocce invece che in pillole. Il mercato nero, le overdosi e la pratica del detenuto di nascondere le pillole sotto la lingua hanno fatto nascere addirittura la “terapia a vista” nella quale l’infermiere si accerta che il paziente ingoi effettivamente la pastiglia. Il 50% di detenuti, nella ricerca multicentro mostra una dipendenza da sostanze. “Il 23,7% è entrato in carcere con alle spalle una storia di tossicodipendenza da stupefacenti - sottolinea la Stampa. Un problema diffuso nelle carceri, accentuato dalla legge Fini-Giovanardi, oggi decaduta, che aveva riempito gli istituti italiani di tossicodipendenti e consumatori. Dipendenza indotta dall’adattamento e precedente abuso di sostanze, ma c’è anche un terzo fattore che spinge la diffusione di psicofarmaci nelle carceri: il controllo da parte della stessa polizia penitenziaria. Costantemente sotto organico e con un problema gestionale dovuto al sovraffollamento, sono gli operatori stessi a incoraggiare l’assunzione di psicofarmaci. Lo attestano tutte le ricerche, inclusa l’indagine sulla salute in cella realizzata nel 2008 da Marina Graziosi ed Elina Lo Voi. È una realtà confermata da ogni operatore penitenziario: dagli educatori ai cappellani. Proprio come accade anche nei centri di identificazione, per esempio Ponte Galeria e Bari. Drogati di pillole - Tavor e altri sedativi per tenere calma la situazione. Le pillole vengono date solo a chi ha già una prescrizione medica ma è chiaro che le cose non stanno così. Ed è un connubio pericoloso quello tra l’esigenza dei detenuti di spegnere il cervello e quella delle guardie di gestire una moltitudine umana in condizioni di reclusione. “La dipendenza da psicofarmaci fa comodo a tutti - osserva Ceraudo. Per il direttore del carcere e la polizia penitenziaria è utile che il detenuto se ne stia tutto il giorno accucciato sul materasso. È meglio anche per i medici e gli infermieri che se ne stia tranquillo, non si metta a urlare, sia passivo, senza vitalità”. Ma così il carcere diventa una fabbrica di zombie che poi reimmette nella società con una dipendenza non curata. E poi c’è un ulteriore fattore. Forse il più taciuto, sottostimato, inconfessabile, scandaloso. Lo denuncia alla Stampa Gemma Brandi, infaticabile pioniera del campo e fondatrice della Società Italiana di Psichiatria Penitenziaria. “Ritengo che il disordine psicopatologico che porta e riporta taluni in carcere sia decisamente più serio e significativo, per gravità e incidenza, del disagio causato dalla detenzione - afferma - La malattia mentale in carcere è molto più presente di quel che si pensa”. Una considerazione, quella della dottoressa Brandi, che deriva dall’osservazione sul campo, a stretto contatto con le realtà detentive e degli ex ospedali psichiatrici giudiziari (Opg). “Da anni ci accorgiamo che mentre negli ospedali psichiatrici giudiziari diminuiscono gli internati, dall’altra aumentano in carcere. Un terzo di coloro che escono ce li ritroviamo in istituto penitenziario dopo qualche mese”. Un fenomeno di reistituzionalizzazione che si è accentuato negli ultimi anni, quando il carcere ha perso le sue aspirazioni rieducative per diventare, in una società fortemente consumistica, individualista e neoliberista, il luogo del controllo sociale degli emarginati, siano essi stranieri, tossicodipendenti o folli. Non bastano gli psicologi - Il carcere, dunque, si trova ad affrontare il problema di una parte della sua popolazione che necessita di una coazione, seppur benigna, di un’altra che di quella coazione non ha bisogno, ma che la ricerca. “Come poteva finire?- si chiede la Stampa -. La risposta è stata quasi esclusivamente farmacologica. Il biperidene (un farmaco antiparkinsoniano con effetti euforici), la quietiapina (un antipsicotico) e il clonazepam (una benzodiazepina che ad alte dosi ha effetti disinibenti) sono diventati la scorciatoia chimica alle contraddizioni del carcere”. L’iper assunzione di farmaci è un fenomeno che si riscontra anche nella società fuori dalle mura penitenziarie, ma dietro le sbarre si è accentuato. L’alternativa, la terapia psichiatrica, è quasi assente. In ogni carcere la copertura medica dello psichiatra è riconosciuta come una necessità, ma il monte ore degli specialisti è di 105.751 ore: per 54 mila detenuti significa meno di due ore all’anno. Entrano in questo gioco perverso anche le case farmaceutiche. Negli ultimi anni in molti farmaci è aumentato il principio attivo a livelli esponenziali. “È un business colossale, sotto traccia, le Asl - rivela alla Stampa Ceraudo - stipulano accordi con le case farmaceutiche e acquistano i loro prodotti a un prezzo ridotto del 60%”. La mancanza di cartelle cliniche informatizzate impedisce di seguire terapie una volta che il detenuto ritorna alla cosiddetta società civile. Schiavi della “terapia” - A un certo punto il detenuto, ormai soggiogato, chiede all’infermiere dosi maggiori e pur di ottenerle fa rumore di notte, si taglia, ingoia oggetti, aggredisce agenti e compagni di cella. Nascono anche così i 260 suicidi e i 6000 casi di autolesionismo che si registrano in media ogni anno. Molti detenuti, in astinenza, ricercano lo stordimento con il gas dei fornellini, quelli che l’amministrazione penitenziaria dovrebbe sostituire da anni per evitare che, come dice ancora Ceraudo, “su 50 suicidi l’anno, dieci siano involontari e dovuti all’inalazione con un sacchetto infilato in testa”. La società, senza più la maschera della missione rieducativa della pena e scossa dalle istanze populiste, ha abbandonato i suoi figli più problematici. Secondo le associazioni che si occupano dei detenuti, ci sono troppi casi di autolesionismo e troppi suicidi nelle carceri italiane e vengono ancora oggi dimenticate la dignità e la centralità della persona. Così ogni sera, verso le 7, passa il carrello con la “terapia”. Quello che, come cantano i “Presi per caso”, gruppo nato a Rebibbia di cui fa parte anche Salvatore Ferraro, condannato per favoreggiamento nell’omicidio della studentessa universitaria romana Marta Russo, offre “venti gocce che calmano il malumore, ti fanno sentire libero e diventa bello persino questo bordello”. Lasciate che i detenuti vengano a noi di Don Francesco Soddu* Il Riformista, 18 novembre 2019 Promuovere la stipula con i tribunali di convenzioni per svolgere lavori di pubblica utilità da parte di imputati maggiorenni, ai fini della concessione della messa alla prova e favorire così l’accettazione della funzione riparativa della misura: questo l’obiettivo del protocollo d’intesa firmato ieri dal Capo di Gabinetto, in rappresentanza del ministero della Giustizia, e dal presidente della Caritas Italiana S.E. mons. Carlo Roberto Maria Redaelli. Un obiettivo rilevante dell’accordo è creare luoghi in cui tutti prendano parte attiva alla costruzione del bene comune, accompagnando e facilitando le realtà locali. L’opportunità di mettersi al servizio di chi soffre, prendere coscienza dei propri bisogni attraverso il contatto con le marginalità sociali incontrate nei luoghi in cui si svolgono i lavori di pubblica utilità, offre infatti la possibilità di recuperare i valori fondanti della società civile. Il lavoro di pubblica utilità da svolgere in favore della collettività, dovrà tener conto delle specifiche professionalità e attitudini di coloro che saranno ammessi alla prova e potrà concretamente svolgersi sia presso le strutture e/o le sedi della Caritas e i servizi che a essa fanno capo, che presso eventuali enti (es. parrocchie, oratori, onlus, organizzazioni di volontariato, associazioni di promozione sociale, associazioni pro loco, associazioni sportive, comitati, associazioni di solidarietà familiare) che stipuleranno specifiche convenzioni con la Caritas locale. Come avvenuto in altre occasioni negli ultimi anni, si concretizza e si consolida nel settore dell’esecuzione penale esterna per adulti un modello di giustizia di comunità di stampo europeo e d’intervento sinergico. Molte Caritas e realtà locali si erano già attivate in questa direzione ma questo Protocollo renderà possibile la collaborazione dell’intera rete Caritas in modo da poter assicurare adeguati standard organizzativi e di ottimizzare e offrire alla cittadinanza opportunità più eque, integrate e uniformi sull’intero territorio nazionale. Un’opportunità per risarcire la società per il danno subito, favorire la consapevolezza dell’imputato circa le responsabilità derivanti dalla sua condotta e nel contempo promuovere valori essenziali quali la responsabilità, la solidarietà, la gratuità e il dono, l’altruismo, la promozione umana e culturale. È d’obbligo accennare qui a due delle caratteristiche dell’impegno che Caritas da sempre porta avanti in quest’ambito, una è certamente l’accoglienza, che nasce da un ascolto attento e profondo. Le differenti esperienze raccontano di ascolti realizzati dove, partendo dai numerosi incontri, in modi diversi, collaborando con l’amministrazione penitenziaria, si studiano e si attuano proposte e percorsi che possano permettere a ognuno di avviare una vita nuova, differente, dove mettere a frutto i propri talenti e dove, in molti casi, sperimentare il perdono. Perdono, che non elimina né sminuisce l’esigenza della correzione, propria della giustizia, e non prescinde neppure dal bisogno di conversione personale, ma va oltre, cercando di ristabilire i rapporti e di reintegrare le persone nella società. Papa Francesco nella sua esortazione Apostolica (E. G. 171) ci ricorda che la Chiesa ha “bisogno di uomini e donne che, a partire dalla loro esperienza di accompagnamento, conoscano il modo di procedere, dove spiccano la prudenza, la capacità di comprensione, l’arte di aspettare, la docilità allo Spirito… bisogno di esercitarci nell’arte di ascoltare, che è più che sentire. La prima cosa, nella comunicazione con l’altro, è la capacità del cuore che rende possibile la prossimità, senza la quale non esiste un vero incontro spirituale. L’ascolto ci aiuta ad individuare il gesto e la parola opportuna che ci smuove dalla tranquilla condizione di spettatori. Solo a partire da questo ascolto rispettoso e capace di compatire si possono trovare le vie per un’autentica crescita, si può risvegliare il desiderio dell’ideale cristiano, l’ansia di rispondere pienamente all’amore di Dio e l’anelito di sviluppare il meglio di quanto Dio ha seminato nella propria vita”. E strettamente collegata all’ascolto, è la formazione. La formazione, in particolare dei volontari, è di fondamentale importanza per la Caritas ed è quella che, accompagnata da una forte motivazione, permette di affrontare e superare situazioni particolarmente difficili dal punto di vista relazionale e non solo; da una buona conoscenza di concetti base legati alla terminologia giudiziaria, alla capacità di porsi in rete con altri soggetti, come ad esempio gli altri volontari che operano in carcere, oppure Enti e Associazioni specializzate che operano all’esterno. Ed è proprio l’esterno il luogo che ancor più che all’interno sono richiesti impegno e testimonianza. L’impegno nel sensibilizzare l’opinione pubblica è tra le funzioni essenziali del volontariato penitenziario. È difficile ma possibile garantire con la propria presenza la partecipazione della comunità esterna all’interno dell’istituto carcerario, “portare fuori” dalle mura dell’istituto stesso i bisogni, le proposte e le riflessioni delle persone con cui quotidianamente ci si incontra e di cui si conosce la realtà di vita. È importante che i volontari si sentano attori principali in un’azione culturale di modifica dell’opinione pubblica rispetto al mondo del carcere, fondamentale il loro dedicarsi anche a un lavoro informativo e divulgativo. Nella consapevolezza che tutti nella nostra vita dobbiamo lasciarci interpellare proprio dalle nostre fragilità, perché è da lì che il Signore fa emergere la forza della dignità della vita. È per ognuno di noi una sfida ricca di volti, di persone, di esperienze, di quella concretezza che dà vita a processi di cambiamento, mobilita le risorse, combatte l’indifferenza con l’attenzione all’altro. È una strada da fare insieme in cui riscoprire e dare ancora più forza alle nostre numerose peculiarità. *Direttore Caritas italiana Sentenze oracolo: guai a criticarle di Iuri Maria Prado Il Riformista, 18 novembre 2019 “Le sentenze non si commentano”. Quante volte l’abbiamo sentito? Quando una decisione di giustizia irrompe nel dibattito pubblico, l’intimazione rivolta a chi si azzardi a dirne qualcosa è sempre quella: che le sentenze non si commentano. Si tratta chiaramente di un balordo luogo comune, perché il diritto di esprimere opinioni è ancora protetto dalla Costituzione repubblicana e non cessa di esistere giusto perché lo si esercita verso un provvedimento giurisdizionale. Ma perché quell’obiezione cretina fiorisce tanto spesso sulla scena del discorso in materia giudiziaria? È abbastanza semplice e molto preoccupante: perché in profundo si ritiene che una sentenza sia meno il prodotto di un servizio pubblico, come tale esposto all’errore anche grave, che una specie di impassibile giudizio oracolare. Con questo di peggio: che quell’impassibilità si pretende dovuta e garantita non in ragione di ciò che la pronuncia di giustizia contiene ma per il fatto che a emetterla è una specie solo aggiornata di sacerdote. Quel che non si può contestare - perché altrimenti sì che salterebbe tutto - è il potere del giudice di emettere la sentenza, in buona sostanza di fare il suo lavoro: ma il diritto di contestare che il lavoro è stato svolto male c’è pienamente e come tale dovrebbe essere protetto anziché messo in dubbio. Salvo credere, appunto, che il giudice non possa sbagliare o - ed è anche peggio - che se pure sbagliasse sarebbe vietato contestarglielo. E nei due casi discutiamo della pretesa di far salvo da ogni possibilità di critica un semplice documento pubblico, tuttavia reso sacro dal manto di indiscutibilità che avvolge la persona che l’ha confezionato. Con tutti a dimenticarsi del fatto che il potere di giudicare ed emettere sentenze non è stato conferito ai magistrati da qualche dio, ma dalla società degli uomini in nome dei quali quelle sentenze sono scritte. Tutti a dimenticarsene: e cioè non solo quelli che per sé pretendono questa bizzarra forma di totemistica adorazione, ma anche quelli che la praticano e legittimano ripetendo che le sentenze non si commentano. È chiaro poi che criticare una sentenza non può implicare il suggerimento che sia legittimo sottrarvisi. Ma non a questo si allude quando si ripete quel ritornello (che le sentenze non si commentano). Il caso di una sentenza ingiusta, purtroppo, deve essere sofferto da chi ne è vittima e dalla società tutta, costretta a sopportare la possibilità che la giustizia sia amministrata malamente. Ma ci si può chiedere di accettare quella sofferenza e quel dovere di sopportazione fin tanto che una sentenza resta una cosa fatta da un uomo: non più quando si rappresenta come un giudizio superiore verso il quale la critica si trasforma in bestemmia. Riciclaggio e terrorismo: operative anche in Italia le regole europee di contrasto di Luigi Ferrajoli Il Sole 24 Ore, 18 novembre 2019 Decreto legislativo 4 ottobre 2019 n. 125. Il 26 ottobre 2019 è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 252 il decreto legislativo datato 4 ottobre 2019 n. 125, di recepimento nel nostro ordinamento della Direttiva (Ue) 2018/843 relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario ai fini di riciclaggio e di finanziamento del terrorismo, meglio conosciuta come Quinta Direttiva antiriciclaggio. Prevenzione e contrasto al terrorismo e al riciclaggio - La normativa nazionale in epigrafe, in vigore dal 10 novembre, prevede dedicate modifiche e integrazioni al precedente Dlgs 231/2007, già modificato dal Dlgs 90/2017 che, solo due anni prima, aveva recepito la Quarta Direttiva (la n. 2015/849). Il succedersi - in un così breve intervallo temporale - delle menzionate regolamentazioni unionali può trovare giustificazione negli accadimenti degli ultimi anni: si pensi agli attentati terroristici accaduti, dal 2015, a Parigi e nel resto d’Europa nonché allo scandalo “Panama Papers” derivante dalla pubblicazione di documenti riservati dello studio legale Mossack-Fonseca, concernenti informazioni in ordine a società offshore, queste ultime utilizzate come copertura per attività illecite fiscalmente e penalmente rilevanti. La necessità di prevenire e contrastare i crimini sul fronte sia del terrorismo che del riciclaggio ha portato il Parlamento europeo e il Consiglio dell’Unione europea, con l’adozione della Quinta Direttiva (n. 2018/843), emanata a soli tre anni dalla Quarta, a predisporre nuove misure volte a garantire una maggiore trasparenza di società e altri soggetti giuridici, di trust e di istituti giuridici affini, nonché delle operazioni finanziarie da questi poste in essere, così da migliorare l’attuale assetto di prevenzione per contrastare efficacemente il finanziamento del terrorismo. La Quinta Direttiva si compone di cinquantacinque considerando che riportano indicazioni vincolanti per gli Stati in merito all’imposizione delle conseguenti modifiche organizzative e istituzionali nelle legislazioni di riferimento. Inoltre contiene molte novità relative a livello di scambio di informazioni tra Stati e Commissione europea, anche prevedendo che le singole autorità nazionali possano esigere i chiarimenti richiesti nonché imponendo specifici obblighi informativi - tra la “casa madre” e i Paesi ove operano le sue filiali - a carico di enti creditizi e finanziari facenti parte di un gruppo internazionale. Il decreto legislativo 125/2019 - Il legislatore italiano ha quindi provveduto a uniformarsi alla normativa europea ed emesso il decreto legislativo n. 125/2019. Quest’ultimo ha apportato rilevanti modifiche al Dlgs 231/2007, che si aggiungono a quelle avvenute nel 2017 a seguito dell’attuazione della Quarta Direttiva. Con riferimento alle novità che interessano professionisti e intermediari finanziari, si segnala che all’articolo 11 è stato inserito il comma 4-bis, prevedendo che gli organismi di autoregolamentazione interni agli ordini professionali (avvocati, commercialisti, notai, etc.) debbano pubblicare, dandone preventiva informazione al Comitato di sicurezza finanziaria, una relazione annuale contenente: • il numero dei decreti sanzionatori e delle altre misure sanzionatorie, suddivisi per tipologia di infrazione, adottati dalle competenti autorità, nei confronti dei rispettivi iscritti, nell’anno solare precedente; • il numero di segnalazioni di operazioni sospette ricevute dall’organismo di autoregolamentazione, per il successivo inoltro alla Uif; • il numero e la tipologia di misure disciplinari, adottate nei confronti dei rispettivi iscritti a fronte di violazioni gravi, ripetute, sistematiche ovvero plurime degli obblighi stabiliti dal decreto in materia di controlli interni, di adeguata verifica della clientela, di conservazione e di segnalazione di operazioni sospette. In ottemperanza alle indicazioni della V Direttiva, il nuovo decreto prevede un ampliamento della platea dei destinatari degli obblighi antiriciclaggio, riformando l’articolo 3, comma 5, del Dlgs 231/2007 e, quindi, estendendo tali oneri: • ai soggetti che esercitano attività di commercio di cose antiche e di opere d’arte o che agiscono in qualità di intermediari nel commercio delle opere medesime (anche quando tale attività è effettuata da gallerie d’arte o case d’asta) qualora il valore dell’operazione, anche se frazionata, o delle operazioni collegate sia pari o superiore a euro 10.000 (articolo 3, comma 5, lettera b); • ai soggetti che conservano o commerciano opere d’arte ovvero che agiscono da intermediari nel commercio delle stesse, qualora tale attività sia effettuata all’interno di porti franchi e il valore dell’operazione, anche se frazionata, o delle operazioni collegate sia pari o superiore a euro 10.000 (articolo 3, comma 5, lettera c); • agli agenti d’affari quando agiscono in qualità di intermediari nella locazione di un bene immobile e, comunque, limitatamente alle sole operazioni per le quali il canone mensile è pari o superiore a euro 10.000 (articolo 3, comma 5, lettera e); • ai prestatori di servizi di portafoglio digitale e ai cambiavalute di monete virtuali (anche di monete virtuali con altre valute virtuali) (articolo 3, comma 5, lettere i) e i-bis). In tema di adeguata verifica, il Dlgs 125/2019 introduce nuove misure per gli intermediari finanziari o bancari in relazione ai clienti che operano con Paesi ad alto rischio di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo. Si veda, ad esempio, il nuovo comma 9-bis dell’articolo 3 del Dlgs 231/2007, che impone ai soggetti obbligati di assicurare “che le proprie succursali stabilite in altro Stato membro rispettino le disposizioni nazionali di recepimento della normativa europea in materia di prevenzione del sistema finanziario per fini di riciclaggio e di finanziamento del terrorismo in vigore nel medesimo Stato membro”. E, ancora, la normativa in esame prevede che le autorità di vigilanza di settore possano esercitare la vigilanza sui gruppi (nuovo comma 4-bis dell’articolo 7 del Dlgs 231/2007): • impartendo alla capogruppo (o anche nei confronti di un solo o di alcuni componenti del gruppo), provvedimenti di carattere generale o particolare, disposizioni concernenti il gruppo complessivamente considerato o i suoi componenti, in relazione all’adempimento degli obblighi disciplinati dal decreto e dalla relativa disciplina attuativa; • effettuando ispezioni e richiedendo l’esibizione di documenti e atti ritenuti necessari. In caso di gruppi operanti in più Stati membri, è prevista la cooperazione delle autorità di vigilanza di settore con le autorità competenti in materia di antiriciclaggio degli Stati membri in cui sono stabiliti gli intermediari bancari e finanziari controllati o le succursali del gruppo (nuovo comma 4-ter dell’articolo 7). È altresì disposto che le richiamate autorità di vigilanza possano richiedere alle autorità competenti in materia di antiriciclaggio di altro Stato membro di effettuare accertamenti presso gli intermediari bancari e finanziari controllati o le succursali del gruppo, stabiliti nel territorio di detto Stato, ovvero concordare altre modalità delle verifiche (nuovo comma 4-quater dell’articolo 7); su richiesta delle autorità competenti in materia di antiriciclaggio di altri Stati membri, dette autorità possono, inoltre, effettuare ispezioni presso gli intermediari bancari e finanziari con sede legale in Italia ricompresi nella vigilanza sui gruppi di competenza delle autorità richiedenti (nuovo comma 4-quinquies dell’articolo 7). In tale contesto, al fine di agevolare l’esercizio della vigilanza nei confronti di gruppi operanti in più Stati membri, le autorità di vigilanza di settore, sulla base di accordi con le autorità competenti in materia di antiriciclaggio possono (nuovo comma 4-sexies dell’articolo 7): • definire forme di collaborazione e coordinamento; • istituire collegi di supervisori; • partecipare ai collegi istituiti da altre autorità. Portaborse in nero e senza regole. Lo scandalo Nicosia riapre il caso di Sergio Rizzo La Repubblica, 18 novembre 2019 L’assistente arrestato “assunto” alla Camera a 50 euro al mese. Una prassi diffusa. C’è un buco nero, da sempre, nel Parlamento italiano. Una falla che nessuno, finora, ha però voluto colmare. Ma dopo il caso clamoroso di Antonello Nicosia, l’assistente parlamentare che entrava in carcere con il tesserino della Camera per tenere rapporti, dicono le intercettazioni, con i boss mafiosi detenuti al 41 bis, questa storia rischia di deflagrare già nei prossimi giorni al Senato durante la discussione sul bilancio interno. Dove si prepara una battaglia a colpi di ordini del giorno. La deputata di Italia Viva Giuseppina Occhionero ha raccontato ai magistrati che le chiedevano chiarimenti, secondo quanto riferisce il giornale online agrigentino Grandangolo, che il regolare contratto da lei stipulato con l’ormai ex collaboratore Nicosia prevedeva una retribuzione di 50 euro al mese. Per quanto possa sembrare incredibile, cinquanta euro sono dunque sufficienti per avere un tesserino che consente che di circolare liberamente negli uffici del parlamento e magari fare una capatina nelle carceri di massima sicurezza. Senza alcun controllo. Possibile? Proprio così. Gli incarichi ai collaboratori sono strettamente fiduciari, com’è giusto che sia. Ma in Italia i contratti sono gestiti personalmente dai deputati e dai senatori, contrariamente a quanto avviene altrove. A Strasburgo, per esempio, gli europarlamentari nominano all’inizio del mandato i propri collaboratori ma è poi l’amministrazione che fa i contratti e paga gli stipendi. Con tutte le garanzie del caso, ovvio. Da noi, invece, deputati e senatori provvedono direttamente anche a retribuire gli assistenti, ma senza alcun obbligo particolare. E le amministrazioni di Montecitorio e Palazzo Madama sono sollevate da qualunque tipo di responsabilità contrattuale come pure da ogni controllo. Per avere il tesserino alla Camera è sufficiente depositare un contratto almeno annuale: di qualunque importo, come sta a dimostrare il caso Nicosia. Al Senato invece è stato fissato per regolamento un limite minimo di 375 euro al mese. Lordi, s’intende. Ed è chiaro che in condizioni del genere si possono produrre situazioni di ogni tipo. La storia è vecchia. Nel 2007 le Iene scoprirono che su 683 collaboratori parlamentari appena 54 avevano un regolare contratto. Ma da allora è cambiato poco o nulla. Basta dire che alla fine della legislatura spirata nel 2018 si contavano soltanto al Senato, oltre a 44 contratti co.co.co. (una formula abolita ormai da anni), 43 consulenze con partita Iva e 11 non meglio precisate “prestazioni occasionali”. Mentre a una domanda di Report a proposito del numero dei collaboratori ufficialmente registrati alla Camera il presidente Roberto Fico ha risposto qualche mese fa: “Circa 400”. Solo quattrocento per 630 deputati? Certo, c’è anche un partito, la Lega di Matteo Salvini, i cui parlamentari fanno addirittura a meno di collaboratori personali. Ma di tutto questo non ne può non risentire la stessa attività del Parlamento. Un deputato che non ha uno staff adeguato non farà bene il proprio lavoro. Per questa ragione il parlamento britannico stanzia per i collaboratori di ogni eletto l’equivalente di 14 mila euro e quello tedesco 15.798. L’Europarlamento addirittura 21.209: da cinque a sei volte le somme assegnate ai nostri deputati e senatori. Però la verità è che questo nostro sistema apparentemente meno dispendioso, libera un sacco di risorse soprattutto per i partiti sempre più poveri. E proprio a scapito della qualità del lavoro parlamentare, evidentemente sempre meno importante. Per pagare i collaboratori ogni deputato può contare su 3.690 euro al mese, che salgono a 4.180 per i senatori. Ma solo metà della somma va rendicontata. Ne consegue che ogni deputato e senatore dispone rispettivamente di 22 mila e 25 mila euro l’anno esentasse, di cui non deve giustificare l’utilizzo, magari pronti per essere girati al partito: beneficiando in più di una detrazione del 26 per cento. Non sono pochi soldi. Parliamo di 8 milioni al Senato e 14 alla Camera pronti a evaporare. Ecco spiegato perché nessuno ha mai voluto mettere mano a uno stato di cose semplicemente scandaloso per il parlamento, che dovrebbe essere il tempio della legalità. “Oggi esistiamo solo come tesserini da autorizzare, non abbiamo statuto professionale, né una voce di bilancio autonoma. Ma neppure un codice di condotta, ed è inaccettabile”, denuncia José De Falco, il presidente dell’associazione dei collaboratori. Ma nessun effetto hanno avuto, finora, i propositi di Fico espressi in diversi incontri proprio con i rappresentanti di quell’associazione. Né le pressioni di alcuni parlamentari, come Riccardo Magi di +Europa, che si è visto bocciare ripetutamente, l’ultima volta pochi giorni fa, gli ordini del giorno presentati per approdare a una situazione più civile. I costi sono la scusa dietro a cui il palazzo si è sempre nascosto. Nel 2018 il collegio dei questori aveva calcolato che la Camera avrebbe dovuto sopportare un costo fra 6 e 8 milioni l’anno se avesse avuto l’incombenza di gestire direttamente, ma sempre con quei denari oggi assegnati ai parlamentari, contratti regolari con retribuzioni fino a 1.500 euro netti al mese. Troppo, era stata la conclusione. Troppo, per un bilancio di 943 milioni l’anno e 450 milioni spesi fra stipendi e pensioni del personale. Troppo. Eppure il taglio dei vitalizi agli ex parlamentari avrebbe fatto risparmiare (Fico dixit) 44 milioni l’anno: se è così, meno del 20 per cento di quella somma basterebbe per mettere in regola qualche centinaio di ragazzi e tenere il parlamento al riparo da altri casi come quello di Nicosia. E non si può fare a meno di notare che mentre c’è chi annaspa nel precariato, la Camera dove si è appena deciso di ridurre da 630 a 400 i deputati ha deciso di bandire un concorso per assumere 30 nuovi consiglieri parlamentari. Responsabilità medici univoca di Federico Unnia Italia Oggi, 18 novembre 2019 Cassazione: non spetta al professionista l’onere di portare prove a carico della struttura. La struttura sanitaria che agisce in giudizio per esercitare l’azione di regresso, ovvero facendo valere nei suoi confronti la manleva del professionista sanitario proprio collaboratore, deve dimostrare che la responsabilità del danno causato al paziente sia pianamente ed esclusivamente imputabile al professionista in via esclusiva, non spettando a quest’ultimo per contro l’onere di dimostrare che vi sono profili di responsabilità anche a carico della struttura. È questo l’importante principio stabilito recentemente dalla Corte di cassazione civile sez. VI con l’ordinanza (n. 24167/2019). L’ordinanza assume una grande importanza a seguito dell’entrata in vigore della legge. n. 24/2017, in forza della quale la struttura sanitaria è chiamata spesso a farsi carico degli oneri risarcitori nei confronti dei pazienti e dei loro familiari che contestino di aver subito un danno a causa di una prestazione medico sanitaria ritenuta non riuscita. In questo contesto, tuttavia, si possono configurare strumenti giuridici grazie ai quali è possibile esercitare la c.d. “azione di regresso” e/o il meccanismo c.d. di “manleva” che consente a una struttura che abbia dovuto corrispondere un risarcimento a un paziente, in ragione dell’inadempimento di un proprio collaboratore, di agire per il recupero quanto corrisposto. Il caso deciso dalla cassazione riguardava una paziente che, fattasi operare con esito infausto, per l’inserimento di una protesi all’anca presso una struttura privata, aveva promosso un’azione legale contro questa per vedersi riconosciuto il risarcimento del danno subito. La struttura convenuta aveva proposto di allargare il contraddittorio processuale chiamando in causa anche il professionista che aveva materialmente eseguito l’intervento, chiedendo di essere tenuta manlevata da quest’ultimo Il tribunale di primo grado aveva accolto la domanda risarcitoria, condannando però in solido tanto struttura quanto professionista a rifondere il danno, omettendo però ogni riferimento e decisione sulla domanda di manleva formulata dalla struttura. Questa proponeva appello, chiedendo che il professionista venisse riconosciuto responsabile e come tale pagasse direttamente la paziente quanto a questa dovuto in ragione della sentenza di primo grado. Il Giudice d’appello accoglieva la domanda, affermando il principio secondo il quale “laddove fosse stato accertato - come in effetti era stato fatto in primo grado - che la causa dell’inadempimento era da imputarsi esclusivamente al medico, nulla ostava circa la possibilità che quest’ultimo fosse condannato a pagare direttamente quanto dovuto alla paziente, non avendo, viceversa, il professionista fornito prova degli eventuali profili di responsabilità ascrivibili alla struttura sanitaria”. Ora, la Corte di cassazione, investita del ricorso da parte del professionista ha ribaltato il giudizio d’appello, cassando la sentenza impugnata e affermando il principio che “Laddove la struttura sanitaria, evocata in giudizio dal paziente che (…) si è sottoposto a un intervento chirurgico all’interno della struttura stessa, sostenga che l’esclusiva responsabilità dell’accaduto non è imputabile a sue mancanze tecnico-organizzative ma esclusivamente alla imperizia del chirurgo che ha eseguito l’operazione, (…) chiedendo di essere tenuta indenne di quanto eventualmente fosse condannata a pagare nei confronti della danneggiata e in regresso nei confronti del chirurgo (…), è sul soggetto che agisce in regresso che grava l’onere di provare l’esclusiva responsabilità dell’altro soggetto. Non rientra, invece, nell’onere probatorio de chiamato individuare precise cause di responsabilità della clinica”. Truffa contro lo Stato con erogazione plurime, è delitto a consumazione prolungata di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 18 novembre 2019 Cassazione - Sezione feriale - Sentenza 5 novembre 2019 n. 44878. La truffa ai danni dello Stato per percezione di prestazioni indebite di finanziamenti e contributi, erogati in ratei periodici, non è reato permanente bensì a consumazione prolungata, perché il soggetto agente manifesta sin dall’inizio la volontà di realizzare un evento destinato a durare nel tempo. Pertanto, prosegue la Cassazione con la sentenza 5 novembre 2019 n. 44878, il momento consumativo del reato coincide con quello della cessazione dei pagamenti, che segna la fine dell’aggravamento del danno (affermazione resa nell’ambito di questione in tema di competenza per territorio, radicata nel luogo in cui fu ricevuto l’ultimo rateo). Si tratta di affermazione ampiamente convincente. Il reato di cui all’articolo 640-bis del Cp, infatti, si consuma non già nel tempo e nel luogo in cui viene emesso il provvedimento concessorio dei finanziamenti e/o si realizza la diminuzione patrimoniale per l’ente pubblico, bensì nel tempo e nel luogo in cui il soggetto attivo concretamente percepisce l’ingiusto profitto consistente nelle indebite erogazioni pubbliche: solo in tale momento, infatti, si consolida la loro definitiva perdita da parte del soggetto “ingannato”. Pertanto, nel caso si tratti di erogazioni plurime, ossia - come nella fattispecie qui esaminata dalla Cassazione - di erogazioni rateizzate nel tempo, il reato è a consumazione prolungata, onde il tempo e il luogo di commissione del reato coincidono con quello di riscossione dell’ultima tranche del finanziamento, ove appunto questo abbia luogo in via frazionata (cfr., in termini, sezione II, 9 luglio 2010, Battaglia e altri, in una fattispecie in cui si discuteva della competenza per territorio e, per l’effetto, si è ritenuto corretto che avesse proceduto il giudice del luogo ove l’agente aveva percepito i finanziamenti, identificato in quello ove le relative somme erano state in ultimo accreditate sul conto corrente nella disponibilità dell’agente, mentre era stato ritenuto irrilevante il luogo ove materialmente era stato erogato il finanziamento e quello della sede dell’istituto di credito ove questo era stato in origine “appoggiato” prima del bonifico nel conto corrente dell’imputato; nonché, sezione II, 12 luglio 2013, Coraggio e altri, secondo cui, quindi, ai fini della consumazione del reato, non viene in considerazione il tempo e il luogo in cui viene emesso il provvedimento concessorio dei finanziamenti e/o si realizza la deminutio del patrimonio per l’ente pubblico, bensì il tempo e il luogo in cui il soggetto attivo concretamente percepisce l’ingiusto profitto consistente nelle indebite erogazioni pubbliche: solo in tale momento si consolida la loro definitiva perdita da parte del deceptus: pertanto, il momento consumativo del reato, ove le indebite erogazioni pubbliche siano state effettuate in via frazionata, coincide con la cessazione dei pagamenti, che segna la fine dell’aggravamento del danno). Niente condanna per rissa per il minorenne anche se ha già un precedente per furto di Selene Pascasi Il Sole 24 Ore, 18 novembre 2019 Tribunale per i minorenni di Caltanissetta, sentenza del 17 ottobre 2019. Se il fatto è tenue e occasionale, quindi irrilevante, può sfuggire alla condanna per rissa anche il minore la cui responsabilità sia stata accertata con un ordinario giudizio dibattimentale. Quello che si vuole evitare è che il ragazzo resti coinvolto troppo a lungo nel circuito penale per aver commesso un fatto che, pur costituendo reato, non provoca allarme sociale perché frutto dell’esuberanza giovanile e non appare soggetto a futura reiterazione. Lo precisa il Tribunale per i minorenni di Caltanissetta con la sentenza del 17 ottobre 2019 (presidente Porracciolo, estensore Lupo). La questione - A finire sotto processo, per aver partecipato a una rissa, è un minorenne accusato di aver preso parte con altre persone, tra cui genitori e zio, a una colluttazione sedata grazie all’intervento delle forze dell’ordine. Episodio per il quale il Pubblico ministero chiede la condanna del giovane al pagamento di una multa di 300 euro, mentre il legale tenta la chance dell’assoluzione per non aver commesso il fatto. Il Tribunale per i minorenni, invece, accertata la responsabilità dell’imputato - emersa con certezza sia dalle dichiarazioni dei presenti che da quanto riferito dagli agenti - dichiara il non luogo a procedere per irrilevanza del fatto. Intanto, premettono i giudici, la vicenda va inquadrata come rissa considerato che l’articolo 588 del Codice penale punisce chiunque, mosso dalla volontà di aggredire e non di difendere (Cassazione, 24630/2012), prenda parte a una violenta contesa che coinvolga almeno tre persone in gruppi contrapposti, ciascuno composto anche da un solo individuo (Cassazione, 19962/2019). E, una volta provato l’intento offensivo, è trascurabile individuare chi tra loro abbia preso l’iniziativa (Cassazione, 18788/2015). A essere punita, in sostanza, è la mera partecipazione alla rissa. Ebbene, nel caso concreto, il minorenne - maturo per comprendere la gravità delle sue azioni - si è buttato nella mischia con mente lucida, non risultando affetto da deficit cognitivi e intellettivi tali da offuscarne la capacità decisionale. La sua responsabilità penale, dunque, è incontrovertibile. Via dal circuito penale - Tuttavia, per il Tribunale di Caltanissetta, sussistono i presupposti per dichiarare il non luogo a precedere per irrilevanza del fatto. D’altronde, la Corte costituzionale (sentenza 149/2003) ha già sancito come l’irrilevanza del fatto possa essere pronunciata anche all’esito di un giudizio dibattimentale. La ragione? Sottrarre tempestivamente dal circuito penale l’autore di condotte che, pur costituendo reato, non suscitano allarme sociale perché espressione di esuberanza giovanile. Ma il proposito è anche quello di adeguare il processo alla personalità del minore così che la reazione punitiva sia proporzionale al crimine. Operazione possibile, però, solamente quando il comportamento può dirsi irrilevante per tenuità (lieve intensità del dolo o del grado della colpa) e occasionalità. Elementi entrambi ravvisabili nella fattispecie: azione poco offensiva, nessun ferito, assenza di armi o oggetti contundenti, atto impulsivo e isolato tenuto conto che l’imputato aveva solo un precedente per furto. Ed è noto, conclude il collegio siciliano, che “occasionalità del comportamento non vuol dire necessariamente unicità, né episodicità” ma condotta “non soggetta a reiterazione abituale o sistematica”. A pesare, infine, la relazione del Servizio sociale che prospettava il positivo evolversi dello stile di vita del ragazzo. Questo il quadro motivazionale stilato dal Tribunale per i minorenni di Caltanissetta a corredo della pronunciata irrilevanza del fatto. Sardegna. Mancano i direttori delle carceri e aumenta il sovraffollamento di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 novembre 2019 La denuncia di Maria Grazia Caligaris, presidente di “Socialismo diritti riforme”: il 37 per cento dei detenuti è in alta e massima sicurezza, circa 900 (92 in 41bis) su 2321 ristretti. Il sovraffollamento carcerario è un problema nazionale, ma in Sardegna si accentua di più e la regione è diventata, di fatto, il punto di approdo di centinaia di detenuti per reati di mafia. Un numero che cresce significativamente ogni mese. A denunciare la questione è Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” (Sdr), esaminando i dati diffusi dal ministero della Giustizia che fotografano la realtà isolana al 31 ottobre 2019. Secondo la Caligaris, la Sardegna registra un numero di detenuti in alta e massima sicurezza pari circa al 37% dei reclusi. “Sono infatti circa 900 (92 in 41bis) su 2321 ristretti - spiega la presidente di Sdr. Un numero particolarmente significativo perché si tratta di reclusi, con pene piuttosto alte, quasi tutti provenienti dalla Penisola, concentrati in 5 Istituti penitenziari su 10. Per contro il numero dei direttori è ormai ridotto all’osso. Sono solo 4 e a due di loro, oltre a due o tre carceri, sono assegnati importanti incarichi per il Provveditorato regionale. In queste condizioni diventa davvero difficile garantire un equilibrio tra attività trattamentale e sicurezza. Il sistema detentivo insomma risulta scarsamente efficiente creando un profondo disagio anche agli agenti penitenziari”. La Caligaris osserva che si tratta ancora una volta di una conferma “che il principio della territorialità della pena è disatteso e che la Sardegna, nella concezione del Dipartimento appare come il luogo ideale di “esclusione sociale” di persone che avrebbero particolare necessità di una risocializzazione e reintegro nelle proprie comunità”. Secondo la presidente di SDR viene quindi accentuata la scarsa economicità del sistema. “Anche la motivazione che si tratta di personaggi della criminalità organizzata - sottolinea la Caligaris - non sembra una giustificazione plausibile perché prima o poi, concluso il periodo di detenzione assegnato dal Tribunale, dovranno uscire dal carcere. Non si può inoltre ignorare che la Sardegna con 712 reclusi figura al quattordicesimo posto per il numero di stranieri”. Secondo la presidente si tratterebbe di un dato sconcertante se paragonato agli abitanti: la Puglia con oltre 4 milioni di residenti è al 19esimo posto e la Campania con quasi 6 milioni al 20esimo. La Caligaris spiega che c’è poi il mistero delle Case di reclusione all’aperto (le tre Colonie penali) dove a fronte di 692 posti ci sono 375 detenuti (54; 1%). “Ciclicamente vengono annunciati progetti per rilanciare le attività produttive e offrire opportunità di lavoro e formazione ai reclusi, ma ormai il sistema è bloccato anche per l’inadeguatezza del numero degli amministrativi. L’invecchiamento del personale e quindi il pensionamento stanno incidendo negativamente sulla possibilità di mantenere in vita soprattutto le Colonie Penali”, conclude la presidente di Sdr. La Sardegna ha istituti penitenziari complessi, alcuni anche di grandi dimensioni. Eppure si aggiunge anche il problema che devono fare i conti con una carenza di figure apicali che costringe qualche direttore a guidare più di una struttura. Ad esempio c’è il carcere di Sassari - conosciuto per avere le sezioni del 41 bis sotto il livello del terreno che in questo momento è guidato dalla direttrice del carcere di Nuoro. Torino. I Centri che recuperano stalker e violenti di Claudia Osmetti Libero, 18 novembre 2019 Colloqui individuali e di gruppo, filmati e lezioni con lo psicoterapeuta. Ma solo due su dieci riescono a cambiare vita. Chiariamo subito: non è mica Arancia meccanica. Ché la “rieducazione”, qui, non ha niente a che vedere con il “trattamento Ludovico”. E per fortuna. La questura di Torino ha appena firmato un protocollo con quattro associazioni che si occupano di seguire gli uomini violenti in un percorso di reinserimento. Li aiutano, cioè, a levarsi di dosso la rabbia per fermare sul nascere quel vortice di pugni, calci e insulti che troppo spesso finisce nelle pagine di cronaca dei nostri giornali. Il concetto è semplice: loro (i violenti) compaiono davanti a un giudice e il giudice li invita a contattare uno di questi centri. Li invita, sì: perché la volontà di cambiare è alla base di qualsiasi cambiamento. (Tra parentesi: ci sono anche i coatti, ma loro seguono un percorso parallelo, perché prima di tutto devono superare la fase “negazionista”). “Nell’80% dei casi raggiungiamo buoni o ottimi risultati”, commenta Roberto Poggi, vicepresidente del Cerchio degli uomini, una delle associazioni piemontesi: “Mediamente un percorso dura dai sei mesi all’anno e mezzo e due persone su dieci riescono a ribaltare completamente la loro vita”. Numeri importanti che, però, stridono con quelli complessivi del fenomeno. Solo a Torino, e solo nei primi dieci mesi del 2019, il tribunale ha “ammonito” 144 violenti, praticamente uno ogni due giorni. Ma cosa avviene dopo che il magistrato di turno alza il cartellino giallo? “Per prima cosa facciamo una serie di colloqui individuali che ci permettono di valutare la situazione”, spiega Mario De Maglie, psicologo, psicoterapeuta e soprattutto vicepresidente del Cam, il Centro di ascolto uomini maltrattanti. Il Cam, che ha sulle spalle già dieci primavere, è la prima struttura nata in Italia per operare in questo settore. De Maglie, insomma, parla a ragion veduta. Questi incontri preliminari durano circa un mese e provano a sondare l’insondabile. Con un unico scopo, quello di capire quale motivazione ci sia stata alla base dei gesti violenti che hanno richiesto l’aiuto specializzato. “Contattiamo anche la donna, perché è importante che sappia che il proprio partner ha iniziato un percorso di questo tipo”. Il grosso del lavoro, però, arriva adesso. Per sei mesi si creano gruppi di carattere psico-educativo che toccano argomenti specifici: dalla genitorialità all’alterazione dovuta a sostanze psicoattive. È una sorta di piccola “scuola” (guai a usare il termine con gli addetti ai lavori, ma tra profani possiamo capirci) che alcuni esercizi fa emergere i comportamenti scorretti. In quelle “lezioni” si vedono filmati, vengono date dispense e si chiede ai partecipanti di immedesimarsi nel casi proposti. A questo punto, sappiate, siamo solo a metà. Il secondo gruppo è il più ostico, ma probabilmente anche il più liberatorio: quello psico-terapeutico. Immaginatevi una decina di uomini seduti in cerchio su delle sedie di legno. Stanno zitti, hanno lo sguardo per terra. Alcuni sono anche in imbarazzo. Lo psicoterapeuta che li segue li invita a parlare e uno di loro rompe il silenzio. Racconta di quella volta (è un esempio, s’intende) che era a casa e stava guardando la partita, la sua fidanzata era passata per prendere qualcosa e gli ha oscurato momentaneamente il televisore. Lui è uscito di matto, le ha rifilato due scappellotti, l’ha spedita al pronto soccorso. Nella stanza non fiata nessuno, dopo qualche minuto un altro partecipante azzarda un commento e sostiene che anche lui, al posto di quella donna, avrebbe avuto paura. “Un conto è quando c’è un operatore che ti dice che hai superato il limite. Un conto è quando te lo dice una persona come te, che ti sta vicino e sta vivendo il tuo stesso problema”, continua De Maglie. I segreti per sconfiggere la violenza, tutto sommato, sono semplici: riconoscere l’errore, confrontarsi con gli altri, non mollare alla prima difficoltà. “Con una precisazione fondamentale”, puntualizza l’esperto: “La violenza non è una patologia, è una scelta. Noi siamo parte attiva dei nostri comportamenti e per questo possiamo evitarla. Le ultime rilevazioni Istat ci dicono che tre donne su dieci hanno subito qualche forma di maltrattamento almeno una volta nella vita”: tre su dieci è un numero a ribasso, perché tiene conto solo delle denunce protocollate. “Se aggiungiamo anche il sommerso”, chiosa De Maglie, “possiamo dire che la metà delle donne, in Italia, ha subìto una qualsivoglia violenza: sono numeri troppo ampi, non possiamo sostenere che, di contro, la metà degli uomini è affetto da una malattia, non sarebbe credibile”. Le storie, alla fine, si rincorrono un po’ tutte. Anche se ognuna è violenta a modo suo. Perché è così anche la vita: non si può generalizzare. E allora c’è Fabio che l’ha capito tardi che quei suoi gesti, “uno più brutto dell’altro e talmente piccoli se presi singolarmente che passavano inosservati”, non avevano niente a che fare con l’amore e non è riuscito a salvare la sua relazione: ma la sua esistenza forse sì, perché ha ricominciato con un’altra donna e adesso è tornato a star bene. C’è Roberto che fa l’imprenditore e un giorno colpisce con una testata sul naso la sua compagna: lui si dice che “passerà anche questa”, lei chiede l’allontanamento al tribunale e a Roberto sembra di piombare in un incubo. “La consapevolezza è arrivata progressivamente”, dice, “solo così ho iniziato a vedere i miei errori”. E c’è anche Giuseppe, che lavora in ospedale ed è gelosissimo di sua moglie, al punto di costringerla a cambiare abitudini. Hanno tre figli, e questo non gli impedisce di importunare la sua consorte fino a beccarsi tre giorni di custodia cautelare dietro le sbarre, 9 mesi di domiciliari e più di un anno di carcere: “Essere seguito è stata la mia salvezza, mi ha fatto vedere le cose in modo diverso. Adesso so che il bicchiere è mezzo pieno e non solo mezzo vuoto”. (Tutte queste testimonianze sono prese dal sito di Uomini non più violenti si diventa, un’altra associazione che lavora tra Milano, Lodi e Varese). “Fare questo lavoro mi ha aiutato tantissimo”, fa sapere Massimo Crucitti, counselor di Uomini non più violenti si diventa: “Alla base della violenza c’è spesso un aspetto educazional-culturale che va corretto. Da noi i gruppi sono sempre condotti solo da uomini perché vogliamo creare un ambiente di comprensione che non fa rima con giustificazione”. Appunto: “Da quando mi sono imbarcato in questo mestiere ho capito che io stesso attuavo con le mie compagne delle tecniche sbagliate, magari lo facevo inconsciamente. Per questo nel relazionarmi con i miei gruppi sono molto franco e cerco di non minimizzare mai quello che succede o è successo”. Crucciati va dritto al punto: “Noi operiamo anche un altro passaggio, nel percorso di riabilitazione. Quello del tutoraggio. Cioè seguiamo sul campo le persone che ci chiedono un aiuto”. Situazione tipica: durante una separazione lui deve andare a casa per prendere le sue cose e sa che lì incontrerà lei. “È un caso classico, potenzialmente pericoloso. Noi ci offriamo di accompagnare l’uomo, e basta la nostra presenza per evitare il peggio”. Dopodiché, certo: le violenze non sono tutte uguali. “Spaziamo da quelle fisiche a quelle verbali. Ma ci sono anche quelle economiche (della serie: “Non ti dò i soldi per fare la spesa perché non mi fido di te”, ndr)”, chiarisce Poggi, “e poi c’è lo stalking vero e proprio che ha diverse declinazioni, dal sadico al romantico”. Purtroppo chi ne è vittima lo sa fin troppo bene quante sfumature di maltrattamenti ci sono. Nel 2014 è stata creata la rete Relive che mette in comunicazione le associazioni come il Cam di Di Maglie o il centro di Poggi o quello di Crucitti. Oggi ce ne sono una quarantina su tutto il territorio nazionale. Agli utenti non chiedono un euro (se non, in alcuni casi, a titolo di contributo volontario) e fanno del bene. Letteralmente. Roma. Il tramonto dell’impero di Buzzi, tra coop chiuse e in liquidazione di Salvatore Giuffrida La Repubblica, 18 novembre 2019 Sotto il peso delle condanne e dei tagli al sociale è crollato anche il modello di inclusione di ex detenuti e disabili. È notizia di pochi giorni fa che Salvatore Buzzi rimarrà in carcere per l’inchiesta Mondo di Mezzo. Ma che fine hanno fatto le “sue” cooperative dopo il dissequestro a marzo 2018? Tutte morte, o quasi. Ne rimane solo una, Formula Sociale, ma anche questa rischia di finire in liquidazione. E anche il modello di inclusione sociale, basato su lavoro e sinergia fra pubblico e privato, rischia di fare la stessa fine. Buzzi aveva creato 5 cooperative: la 29 Giugno Onlus, la 29 Giugno Servizi, Formula Sociale, Abc e Consorzio Eriches 29. Un numero non casuale: in quella data del giugno 1984 Buzzi organizzò un convegno sull’inclusione dei detenuti, il primo in Italia. Proprio la 29 Giugno Onlus, forse la più nota e la più coinvolta in Mafia Capitale, era alla base di quel modello perché era di tipo B: poteva lavorare in qualsiasi settore ma il 30% dei dipendenti deve essere disabile o disagiato; ex tossicodipendenti o ex detenuti. Poi c’era la Abc, di tipo A: attività sociosanitarie assistenziali. Infine Formula Sociale, di tipo A e B, la 29 Giugno Servizi e il Consorzio Eriches che raggruppava le 4 cooperative: più di 1100 dipendenti. Sequestrate nel 2014, furono dissequestrate a marzo 2018 con la sfida di scrollarsi di dosso il fantasma di Buzzi. Oggi solo Formula Sociale sopravvive ma entro novembre rischia di finire in liquidazione. Le altre 4 ci sono già finite. Eppure si occupavano di manutenzione del verde, pulizia delle strade, servizi sociali, assistenza domiciliare, integrazione nei centri per migranti: attività di cui ci sarebbe bisogno ma sono tagliate o congelate anche per i ritardi dei bandi del Comune. Al di là del sistema di corruzione e collusione emerso dalle inchieste, nessuno è riuscito a salvare un modello che permette a persone disagiate di lavorare nell’assistenza sociale e che non è stato ideato da Buzzi ma dalla disciplina delle cooperative sociali. Non solo: la 29 Giugno onlus e Abc sono in liquidazione volontaria ma da oltre un anno aspettano che il ministero dello Sviluppo Economico nomini un liquidatore coatto, che avrebbe gli strumenti per risanare le finanze e continuare a lavorare; bisogna aggiungere che la 29 Giugno deve ancora risolvere un contenzioso con Ama e il Consorzio nazionale servizi per un appalto dal 2016 a settembre 2018. Niente da fare anche per la 29 Giugno Servizi e il consorzio Eriches. Intanto Formula Sociale lotta per sopravvivere: dà lavoro a 60 persone, di cui 40 puliscono i rifiuti nel Car di Guidonia e 20 puliscono il mercato Esquilino e curano il verde municipale in alcune aree della città: ma il servizio al mercato è cessato da poco e non si sa ancora cosa riserva il futuro. Poi ci sono anche i maxi ribassi in media del 40% delle gare d’appalto comunali. “Vorremmo solo avere opportunità di lavoro - spiega Guido Saccardi presidente di Formula Sociale - l’obiettivo era di far lavorare le fasce deboli”. Su 60 dipendenti quasi un terzo sono ex detenuti e disabili. Ma sopravvivere non sarà facile. Il clima è cambiato in peggio per il terzo settore. L’ex ministro degli Interni Salvini ha tagliato i fondi e i bandi sono crollati. “Abbiamo chiesto ascolto al Comune - conclude Saccardi - i lavoratori sono onesti e qualificati”. Pochi giorni fa Francesca Danese, portavoce del Forum terzo Settore del Lazio, ha scritto una lettera sulle conseguenze del “fango sulla cooperazione che ha spianato la strada all’antipolitica: ma ancora vediamo gare a ribasso o andate a vuoto sui servizi alle persone, mentre si potrebbe attivare la co-progettazione”. Verona. Comfoter e carcere di Montorio insieme per i detenuti veronanetwork.it, 18 novembre 2019 Il Comando delle Forze Operative Terrestri di Supporto di Verona ha firmato venerdì scorso una convezione con il carcere di Montorio che prevede opportunità lavorative per lo svolgimento di lavori a titolo volontario e gratuito per i detenuti. È stata stipulata il 15 novembre scorso a “Palazzo Carli” a Verona, la Convenzione tra il Comando delle Forze Operative Terrestri di Supporto, la Direzione della Casa Circondariale di Verona rappresentata dalla Direttrice, Dott.ssa Mariagrazia Bregoli, il Tribunale di Sorveglianza di Venezia nella persona della Dott.ssa Isabella Cesari e la Dott.ssa Margherita Forestan, Garante dei Diritti delle persone private della libertà personale. La Convenzione, unica nel suo genere, consentirà di avviare un percorso di stretta collaborazione tra le citate Istituzioni e i Rappresentanti degli Organismi Statali, definendo nuovi ambiti per ampliare e consolidare le possibilità formative e di crescita professionale dei soggetti in espiazione di pena, con l’obiettivo di favorirne il reinserimento socio-lavorativo. In particolare, attraverso tale accordo, si metteranno a disposizione dei detenuti della Casa Circondariale di Verona opportunità lavorative per lo svolgimento di lavori a titolo volontario e gratuito, nonché altre prestazioni di lavoro di pubblica utilità, pertinenti la specifica professionalità dei singoli individui volte alla manutenzione e alla preservazione del decoro del Centro Polifunzionale intitolato alla memoria della Medaglia d’Argento al Valor Militare “Cap. Manuel Fiorito”, frequentato ormai da anni da numerosi cittadini veronesi. Il Comandante delle Forze Operative Terrestri di Supporto, Gen. C.A. Giuseppenicola Tota, ha sottolineato l’importanza di tale inedita convenzione che rafforza il già solido legame tra istituzioni e cittadini e accresce l’impegno dell’Esercito in simili iniziative benefiche di altissimo spessore sociale, offrendo la possibilità a chi ha commesso degli errori di riscattarsi nella società attraverso il lavoro. Reggio Calabria. Al liceo “Da Vinci” targa in memoria di una vittima di violenza di genere ildispaccio.it, 18 novembre 2019 Lo scorso 15 novembre 2019 al Liceo Scientifico “Leonardo Da Vinci di Reggio Calabria”, diretto dalla prof. Giusy Princi, è stata affissa la 1 targa in memoria di una vittima di violenza di genere. La Targa è stata affissa nell’Aula delle emozioni ed è stata dedicata alla studentessa fiorentina Rossella Casini, uccisa e fatta sparire a Palmi perché voleva convincere il fidanzato reggino, appartenente ad una famiglia di ‘ndrangheta a collaborare con la giustizia. La “Targa ad Memoriam”, spiega il vice coordinatore dell’Osservatorio regionale sulla violenza di genere Giovanna Cusumano, per raccontare alle generazioni di studenti le storie delle vittime di femminicidio perché non restino solo nel ricordo dei loro familiari o di chi le ha conosciute, bensì diventino patrimonio comune. Dopo aver ringraziato la dirigente Giusy Princi per aver aderito all’iniziativa promossa dall’osservatorio “Adotta una vittima di femminicidio”, l’avv. Giovanna Cusumano continua “La scuola è, subito dopo la famiglia, la principale agenzia di socializzazione e formazione della personalità di ciascun individuo e, pertanto, è teatro di cultura e di crescita civile, ma è anche cornice delle prime relazioni affettive e luogo in cui “seminiamo” il futuro. È, pertanto, nessun cambiamento culturale potrà mai maturare in una società senza la partecipazione della comunità scolastica. La Memoria legata allo spazio fisico “istituzionalizzato” dell’Aula, dunque, è un efficace strumento per la diffusione dei più alti valori umani: l’amore, il rispetto, la libertà, la giustizia. Tutti questi valori che sono racchiusi nella triste vicenda di Rossella Casini”. Per il coordinatore Mario Nasone “da oggi il liceo Vinci avrà un’altra studentessa che si chiama Rossella Casini e che non potrà rispondere presente all’appello, però accompagnerà i suoi compagni a coltivare i loro sogni e la sua Memoria servirà per non far cadere nell’oblio la storia di Rossella”. Cusumano e Nasone ricordano che ben 25 istituti scolastici ad oggi hanno aderito all’iniziativa e affiggeranno targhe in memoria di vittime di femminicidio. “Sarà un modo, sostiene Cusumano per generare la consapevolezza della pervasività la violenza di genere, e della necessità dell’ impegno di costruire un futuro libero dalla violenza”, continua ancora la vice coordinatrice dell’osservatorio. Presenti alla cerimonia il Procuratore della Repubblica di Reggio Cal. Giovanni Bombardieri, il quale ha dichiarato che “l’impegno delle Istituzioni scolastiche nel coinvolgimento dei ragazzi in un percorso di legalità come testimoniato da iniziative come queste è importante” perché ha aggiunto che è necessario trasmettere ai ragazzi i valori del rispetto dell’altro”. Il valore dell’iniziativa, ha sempre ricordato il procuratore, è legato all’esempio della forza di una giovane donna che ha cercato di sottrarre il suo fidanzato alla criminalità organizzata. Presente anche il Gip Antonino Foti in rappresentanza del Presidente del Tribunale Mariagrazia Arena. Il Questore Maurizio Vallone, anch’egli presente alla cerimonia, ha sottolineato l’importanza di ricordare le vittime di femminicidio, così come ha ricordato la necessità di coinvolgere il mondo studentesco il comandante provinciale dei Carabinieri Antonino Battaglia. La Dirigente scolastica Giusy Princi, infine, ha ringraziato l’avv. Giovanna Cusumano e tutto l’Osservatorio regionale per l’ opportunità di poter trasmettere in modo ancora più incisivo sul tema della violenza di genere. Anzio (Rm). “La scuola incontra il carcere”, il progetto presentato al Cappel College ilgiornale.it, 18 novembre 2019 Il giorno 12 novembre, la professoressa Albarella e gli alunni del 5B liceo Maria Chiara Ariganello, Michele Ariganello e Chiara Recchia, nella fase di disseminazione del progetto “La scuola incontra il carcere”, hanno presentato le attività svolte presso il Liceo Chris Cappell di Anzio. La proposta formativa, nel corso dell’anno scolastico 2018-19, è stata sviluppata attraverso incontri con i volontari dell’associazione “Volare” e figure professionali dell’istituzione carceraria nonché la visione di film. La finalità è stata di avviare un lento, ma efficace “avvicinamento” al mondo della detenzione che ha prodotto un report su tutto quanto appreso dai ragazzi. Il progetto, considerati gli ottimi risultati riscossi, risponde alle finalità formative dell’Istituto orientate all’inclusione ed ha svolto un’efficace azione di diffusione delle tematiche sia all’interno dell’Istituto, prevedendo per l’anno scolastico in corso il coinvolgimento di tre ulteriori classi, sia all’esterno con l’avvio delle attività presso il Liceo Chris Cappell. Trieste. Un libro in sospeso per il Progetto Coroneo, l’iniziativa alla libreria Lovat triestecafe.it, 18 novembre 2019 Sabato 16 novembre alla libreria Lovat di Trieste è stato presentato il Progetto Coroneo, sostenuto dal Centro per la salute del Bambino e dalla Garante per i Diritti dei Detenuti del comune di Trieste, Elisabetta Burla, e condiviso con la casa Casa Circondariale “E. Mari”. L’evento ha aperto la settimana Nazionale Nati per Leggere a Trieste ed è inserito nel programma Diritti e Storti, che celebra nella nostra città il trentennale della Convenzione Onu dei diritti dell’infanzia. Cuore del progetto il sostegno alla genitorialità e al diritto dei bambini, che senza colpa, sono privati della quotidianità con i loro genitori ristretti, e l’utilizzo del libro come strumento per ristabilire o rafforzare i legami affettivi. Le volontarie hanno raccontato le loro toccanti e commoventi esperienze, sia all’interno del carcere che con i bambini nella sala d’attesa prima dei colloqui, e hanno letto i libri più significativi condivisi durante i laboratori con i detenuti. Un pubblico molto numeroso, attento e partecipe ha seguito l’incontro e partecipato generosamente all’iniziativa correlata, Un libro in sospeso per il Progetto Coroneo, alla quale tutti possono aderire alla libreria Lovat fino al 31 dicembre. Caltagirone (Ct). Un incontro sulle storie, carcere e misure di sicurezza sicilianetwork.info, 18 novembre 2019 Un incontro per discutere e riflettere sulle vite umane e le esperienze legate alla realtà carceraria attraverso “Storie: carcere e misure di sicurezza”, che si terrà lunedì 18 novembre alle 15 al Comune di Caltagirone (sala “Milazzo”). Una conversazione sul carcere a partire da Liberaci dai nostri mali, inchiesta di Katya Maugeri (Villaggio Maori Edizioni, premio Etnabook migliore opera prima) che vedrà protagonisti Gino Ioppolo, sindaco di Caltagirone, Maurizio Lanza direttore generale Asp Catania, Giorgia Gruttadauria, direttore carcere di Caltagirone, Mario Barresi, giornalista de “La Sicilia”, Raffaele Barone, direttore dipartimento salute mentale di Caltagirone, Salvatore Aprile, responsabile Rems di Caltagirone, Fortunato Parisi, referente psichiatra carcere di Caltagirone, Giannicola Fraggetta, direttore sanitario carcere di Caltagirone, Giuseppe Tigano, presidente della sezione Tribunale Civile di Caltagirone, Giovanni Russo - presidente associazione avvocati Caltagirone e l’autrice Katya Maugeri, giornalista e direttrice di Sicilia Network. L’incontro ha l’intento di valorizzare le buone prassi nel carcere per restituire una nuova opportunità di vita, una speranza di cambiamento e che non venga identificato solo come strumento punitivo. Durante il convegno saranno previste le testimonianze di alcuni utenti Rems che vivono una esperienza nella struttura terapeutica attraverso un approccio di cura con il metodo comunitario, vicini ai loro familiari e con una importante presenza empatica degli operatori. Padova. Le sculture dei detenuti del Due Palazzi ad Arte Padova 2019 ilpopoloveneto.it, 18 novembre 2019 L’arte può anche avere un risvolto sociale. Lo insegna l’iniziativa di Momart, associazione di artisti per gli artisti di Padova patrocinato dal Comune di Padova, che alla 30esima Arte Padova ospita nel padiglione del Contemporary Art Talent Show cinque opere lignee di altrettanti artisti provenienti dal carcere di massima sicurezza Due Palazzi di Padova. È il risultato del progetto Scolpiamo condotto da un anno dallo scultore padovano Roberto Tonon che nella casa di reclusione ha attivato un laboratorio di scultura in legno massiccio nel reparto di alta sicurezza del carcere. Nello spazio che in Fiera a Padova è dedicato agli artisti emergenti, Momart propone un violino scomposto, un libro incatenato, un dito che indica il cielo, una maschera e la testa di un cavallo, realizzati in legno di cirmolo grazie alla collaborazione tra il direttore del Due Palazzi Claudio Mazzeo e gli artisti Roberto Tonon e Chiara Chiggio dell’associazione culturale Area 48. Le sculture che rappresentano una selezione dei lavori realizzati dagli allievi, sono in vendita per finanziare la prosecuzione del laboratorio presente per la prima volta ad ArtePadova. Due conferenze da segnalare oggi ad ArtePadova: alle 15,30 al pad. 7 parla Fabio Civitelli storico disegnatore di Tex Willer. Incontro col pubblico in occasione della sua mostra “Tra arte e fumetto”. Alle ore 17 Pad. 7: “Giovanni Battista Belzoni. Avventure e scoperte nell’antico Egitto”. Interviene Maria Beatrice Autizi, storica e autrice di numerosi libri di storia e arte del nostro territorio e non solo. A Giovanni Battista Belzoni ha dedicato il suo ultimo libro che presenterà oggi. Modera Titano Pisani dell’emittente CafèTv24. Milano. Presentazione del libro “Nessun amico se non le montagne” addeditore.it, 18 novembre 2019 Mercoledì 27 novembre alle ore 18.30 a Milano, libreria La Feltrinelli piazza Duomo. Omid Tofighian dialogherà con Chiara Macconi di Pen Esperanto e Chiara Marchetti, docente all’Università degli Studi di Milano. Behrouz Boochani è un giornalista, scrittore e rifugiato curdo in fuga dall’Iran, detenuto illegalmente dal governo australiano. Ha scritto il suo straordinario memoir Nessun amico se non le montagne attraverso migliaia di messaggi Whatsapp inviati a Omid Tofighian che li ha tradotti dal farsi all’inglese. Boochani è detenuto da sei anni in Papua Nuova Guinea. Pen International, che segue la vicenda dello scrittore dal 2015, ha posto Boochani al centro della giornata del Rifugiato 2019. “Con la penna e la telecamera ha acceso una luce sull’orrore, la crudeltà e l’ingiustizia delle politiche dello stato Australiano verso i rifugiati e richiedenti asilo”. Omid Tofighian è docente di filosofia presso l’American University del Cairo e ricercatore presso l’università di Sidney. L’evento è organizzato dal Comitato Writers in Prison del PEN Esperanto (centro periferico del PEN International) con Escapes-UniMi e add editore in occasione della Giornata Mondiale degli Scrittori in Prigione indetta da PEN ogni anno il 15 novembre. Roma. “Terroriste”, il film sulle donne che resistono nella Turchia di Erdogan di Gabriella Colarusso La Repubblica, 18 novembre 2019 In anteprima a Roma il film che racconta la vita di Zehra Dogan, Asli Erdogan e Sebnem Korur Fincanci, un’artista, una scrittrice e un medico, accusate di terrorismo per aver difeso la causa curda. A 29 anni Zehra Dogan artista e attivista curda, ne ha già passati 3 in carcere: propaganda terroristica contro lo stato, l’accusa a suo carico. La colpa? Aver raccontato con i suoi disegni le violenze dell’esercito turco a Nusaybin, cittadina curda nel sud est della Turchia, nel 2016, ed essersi rifiutata poi di tacere. Anche quando, a soli 26 anni, l’hanno sbattuta dietro le sbarre. Dogan ha continuato a far uscire clandestinamente dal carcere le sue opere di denuncia: il racconto della repressione dei curdi, il “massacro” di Afrin, ma anche la battaglia dei ragazzi di Gezi park e il movimento delle donne per i diritti civili. La storia di Zehra è una storia di resistenza e coraggio civile nella Turchia ai tempi di Erdogan, dove dopo il tentato golpe del 2016, decine di migliaia di persone sono state arrestate - insegnanti, funzionari, magistrati, giornalisti. La sua storia è anche al centro di Terroriste, un film di Francesca Nava, Marica Casalinuovo, Vichie Chinaglia e Marella Bombini (produzione: Creative Nomads) che racconta la resistenza di tre donne turche accusate di terrorismo per aver difeso la causa curda: Zehra, artista; Asli Erdogan, scrittrice; Sebnem Korur Fincanci, medico. Il film verrà proiettato oggi pomeriggio alle 18.30 al Nuovo Cinema Palazzo a Roma. Le vicende di Zehra e di Asli hanno mosso l’opinione pubblica internazionale. Il 18 marzo del 2018 lo street artist britannico Banksy inviò un messaggio al mondo sui muri di New York: Free Zehra Dogan, con un grande murale che ritraeva la ragazza dietro le sbarre, e Roberto Saviano, pochi giorni fa, ha invitato i suoi lettori a sostenere Asli Erdogan, “perseguitata dal regime criminale di Erdogan”. Perché difendere Asli significa difendere il diritto alla libertà di espressione, che il governo turco ha cancellato”. “In carcere per me è stato fondamentale avere la solidarietà internazionale”, ci racconta Zehra Dogan in un’intervista che verrà pubblicata integralmente sul quotidiano di domani. “Mi ha reso più forte ma soprattutto più consapevole: possono tenermi fisicamente dietro le sbarre, ma non possono fermare i miei disegni, che arrivano ovunque. Non dobbiamo avere paura. Dobbiamo resistere”. Migranti. Ius soli e via i decreti Salvini: il Pd chiede, il M5S chiude di Silvia Bignami La Repubblica, 18 novembre 2019 Dalla convention di Bologna Zingaretti invoca un cambio nell’agenda dell’esecutivo. Replica grillina: “L’Italia è sott’acqua e loro pensano ai migranti”. Orlando: “Noi capaci di pensare due cose insieme”. Alza la testa e la voce. Spezza il sorriso arringando la platea con l’agenda che deve riempire di anima il Pd e di contenuti il governo. Nicola Zingarettí dal palco dell’assemblea Pd riunita a Bologna incalza Palazzo Chigi: “Chiederemo Ius Soli e Ius Culturae, certo che lo faremo. E poi via i decreti sicurezza, più giustizia sociale e fiscale, parità di salario tra uomo e donna, e battaglia al machismo sovranista”. Profumo di sinistra che piace alla platea dem, reduce da una tre giorni di applausi a Maurizio Landini e di entusiasmo per le 12mila sardine sul Crescentone contro Salvini. Ma che si infrange subito contro il muro a 5 Stelle, riaprendo lo scontro a Roma: “Sono sconcertato - gela Luigi Di Maio - Col maltempo che flagella l’Italia, il futuro di 11 mila lavoratori a Taranto a rischio, qui si parla di Ius soli”. Si litiga di nuovo, stavolta tra Pd e 5 Stelle, impegnati a battibeccare fino a sera. Al capo politico del Movimento, che riduce le richieste dem a “slogan e campagna elettorale” risponde il sarcasmo di Andrea Orlando: “Noi non pensiamo ai guai dell’Italia? Sembrerà impossibile ai 5 Stelle, ma noi riusciamo a pensare anche due cose nella stessa giornata”. Ribatte in serata di Maio: “Da una parte si vuol fare lo Ius Soli e dall’altra togliere quota 100. Assurdo”. Così la frattura nel governo è aperta, proprio nel giorno in cui il Pd si dà nuova forma e una nuova sostanza. A cominciare dallo Statuto, che cambia con la fine della corrispondenza tra segretario e candidato premier, archiviata con 566 voti a favore (5 astenuti e un contrario) insieme all’autosufficienza Pd. “Finalmente si cambia, è l’inizio di un partito più aperto” dice Zingaretti. Ma anche di un partito che sulle orme di Fabrizio Barca, ex ministro ospite sabato della tre giorni democratica, deve ritrovare “radicalità”. Da qui l’agenda di Zingaretti per mettere il governo sulla strada indicata dal Pd “che è il primo partito della coalizione nel Paese”. “Ci batteremo perché al più presto si rivedano i decreti Salvini - attacca il segretario. Ci batteremo per far approvare lo Ius culturae e Ius soli. Faremo una legge per la parità salariale tra donne e uomini. E lo faremo per raggiungere l’obiettivo e non per mettere bandierine e avere un’intervista sui giornali. Serietà e non comizi”. Il leader dem insiste sulla giustizia sociale, per “temperare il capitalismo” e su quella fiscale, contrapposta al “no fax” a ogni costo di Matteo Renzi. All’ex segretario Pd, che con Italia Viva vuol svuotare il Pd come ha fatto Macron coi socialisti francesi, Zingaretti manda un messaggio: “Non s’illuda chi combatte il Pd per rosicchiare consensi. Scava la fossa per sé e per il centrosinistra”. Il leader tiene aperta la porta ai 5 Stelle, “perché non si può governare da avversari”, ma per ora il Movimento risponde picche. E anzi, la “radicalità” cui s’aspira alla kermesse bolognese finisce per far alzare le antenne pure all’anima liberai che alberga nel Pd. S’alza la voce governista di Lorenzo Guerini, e un ex renziano come Andrea Marcucci sí unisce a Giorgio Gori nell’ammonire di “non fare un favore” a Renzi spostando il Pd troppo a sinistra. “Quello che leggo da Bologna non mi convince - twitta in serata il sindaco di Pesaro Matteo Ricci - Zingaretti corregga il tiro, perché serve un polo riformista, non la sinistra radicale”. Stati Uniti. Cani “psicologi” in Tribunale per aiutare i testimoni di Daniela Uva Il Giornale, 18 novembre 2019 Vederli scodinzolare fra i reparti degli ospedali è diventata ormai ordinaria amministrazione, anche nel nostro Paese. Incontrare però un cane in un’aula di tribunale è decisamente meno consueto. Da un po’ di tempo, però, gli amici a quattro zampe hanno fatto il loro ingresso nel palazzo di giustizia di Chicago. Con un compito molto delicato: fornire supporto alle persone vittime di violenza e ai bambini implicati nei processi. Il primo “dipendente” si chiama Hatty ed è un labrador retriver. Lavorerà tutti i giorni, dalle 9 alle 17 e avrà un compito perfetto per lei: mostrare affetto e coccolare i suoi colleghi così come tutte le persone in difficoltà che affrontano problemi giudiziari. Hatty è il primo cane di supporto emotivo arruolato in un tribunale. Addestrato per la pet therapy, ha poi fatto praticantato con i detenuti in un carcere americano. Adesso è pronto per cambiare ufficio, così celle passerà alle aule di tribunale, dove entrerà in azione soprattutto durante i procedimenti penali che coinvolgono minori, persone con problemi di salute mentale e vittime di aggressioni. Ma prima questo cane così speciale ha dovuto promettere fedeltà e lealtà alle istituzioni americane, proprio come fanno i dipendenti umani. L’avvocato Kim Foxx, della Contea di Cook, ha presieduto al suo giuramento: Hatty si è alzata sulle zampe posteriori e ha messo la zampa su un libro di legge, esattamente come accade quando a prendere servizio è una persona. Una cerimonia veloce per presentarla e accoglierla nel migliore dei modi prima di immergersi nel lavoro. Il labrador nero adesso dovrà gestire fino a 200 casi all’anno: non sarà facile, ma sicuramente la strada è quella giusta. Anche perché questi cani dimostrano grandissima empatia, specialmente quando di fronte hanno persone in difficoltà. Come quelle coinvolte in processi molto delicati. Proprio di questo si occupa da tempo l’organizzazione no profit statunitense Courthouse dogs. I volontari sono specializzati nell’addestramento di labrador e golden retriver da utilizzare come “psicologi” in tribunale. Secondo la legge americana, i procedimenti penali spesso si svolgono pubblicamente, quindi testimoni, vittime e accusati depongono l’uno di fronte l’altro. Una scelta tecnica per garantire maggiore equità e imparzialità, ma che equivale a un percorso emotivo decisamente pesante per chi ha subito soprusi. Che però oggi può contare su amici davvero unici. Hong Kong. La polizia assalta il Politecnico: decine di arresti di Guido Santevecchi Corriere della Sera, 18 novembre 2019 La polizia ha eseguito decine di arresti fuori dall’Hotel Icon nelle vicinanze del PolyU, roccaforte dai manifestanti pro-democrazia. Blocchi nel resto della città, scontri e tafferugli. La Casa Bianca condanna l’uso della violenza. Il blitz dopo una notte di stallo. All’interno dell’Università centinaia di studenti. Un ferito tra le forze dell’ordine. Notte di arresti, tensioni. E prima mattinata di blocchi e proteste. Hong Kong sotto assedio. La notte si è consumata la battaglia del Politecnico, che in totale ha fatto - riferiscono in mattinata le autorità locali- almeno 38 feriti, di cui cinque in gravi condizioni. Intorno alle 5:30 del mattino, ora locale, gli agenti hanno fatto irruzione nel campus e hanno arrestato decine di persone. La polizia ha negato di aver effettuato “un raid” e ha parlato di “un’operazione di dispersione ed arresti”. Per il South China Morning Post - che parla di una breve irruzione nel campus - la situazione è attualmente di stallo. Nella notte, era arrivata anche la presa di posizione degli Stati Uniti: “Condanniamo l’uso ingiustificato della forza e sollecitiamo tutte le parti astenersi dalla violenza e impegnarsi in un dialogo costruttivo”, si legge in una nota della Casa Bianca. Come in un castello medioevale sotto attacco, i difensori del PolyU - il Politecnico di Hong Kong - hanno bruciato nel buio il ponte pedonale vicino all’ingresso di un tunnel strategico. La polizia ha minacciato di usare pistole e fucili per costringere gli assediati alla resa: secondo l’agenzia Reuters, gli agenti hanno impiegato anche gas lacrimogeno e proiettili di gomma. Il Politecnico si era trasformato nell’ultima roccaforte degli studenti che per sei giorni hanno occupato i campus delle università di Hong Kong. L’architettura della PolyU, con le sue mura di mattoni rossi, ne fa una fortezza naturale. Si domina l’accesso al Cross Harbour Tunnel che attraversa la baia, collegando la terraferma di Kowloon all’isola. Quando hanno visto un gruppo di civili che cercavano di togliere i blocchi dalla strada, i ragazzi si sono mossi per respingerli, ma la polizia che era appostata dietro ha lanciato i primi lacrimogeni. Gli studenti si sono raggruppati dietro una siepe di ombrelli per proteggersi dal fumo del gas. Sono volate bottiglie incendiarie. Da quel momento è partita la guerriglia. I blindati della polizia hanno cercato di superare i mattoni piazzati a reticolo sulla strada, come cavalli di frisia. I mezzi blu, tozzi, si muovevano zoppicando tra le trappole messe dagli studenti del Politecnico: molotov, getti potenti dei cannoni ad acqua delle forze dell’ordine, coltrina di lacrimogeni. Abbiamo visto dei ragazzi farsi sotto, arretrare, pausa, poi di nuovo cariche spericolate. Dagli “spalti” sono state usate catapulte per lanciare le bottiglie incendiarie contro la linea degli agenti. Sono state scoccate frecce con gli archi razziati dal campo sportivo e un poliziotto è stato trafitto a un polpaccio. Qualcuno ha impugnato racchette da tennis per respingere i candelotti lacrimogeni. Ma non è un gioco. Vicino al campus di PolyU c’è una caserma dell’Esercito popolare di liberazione cinese: i soldati, che sabato avevano fatto una rapida sortita in maglietta e calzoncini per togliere i detriti, ieri sono rimasti al coperto. Ma erano in assetto da azione, osservavano con i binocoli gli scontri. Il timore è che la “pulizia” di sabato possa essere stata una prova d’intervento repressivo. Al tramonto un blindato è stato incendiato e l’autista lo ha guidato a retromarcia con l’equipaggio a bordo. In serata la polizia ha definito la situazione “sommossa”, ha ordinato lo sgombero e minacciato l’uso delle armi contro i “rivoltosi”. Quando nella notte l’assedio si è stretto, i difensori del Politecnico hanno dato fuoco a un ponte pedonale per fermare gli agenti che volevano circondarli. Sono segnalati decine di arresti, solo un nucleo di un paio di centinaia di difensori era rimasto nel campus a sfidare l’assalto finale. Ma non finirà, neanche dopo lo sgombero di PolyU. Nell’ultima svolta minacciosa il movimento ha promesso di fare del caos permanente la “nuova normalità” di Hong Kong. Non più scontri nel weekend, com’era stato nei primi cinque mesi di protesta, ma lotta continua, ogni giorno. “Vogliamo strangolare l’economia della città”, dicono i duri. Iran. Vittime e migliaia di arresti: saccheggiati negozi e banche La Repubblica, 18 novembre 2019 Web oscurato. Rouhani: “Protesta non sfoci in rivolta”. Dopo la decisione del governo di aumentare il prezzo della benzina del 50%, scoppia la protesta in diverse località. Le autorità, nel tentativo di soffocare la voce dei manifestanti, bloccano Internet. Trapela poco ma è ormai certo che gli scontri sono violenti e ci sono “diversi morti”. La condanna degli Usa: “Stati Uniti sostengono il popolo iraniano”. Colpita dalle sanzioni economiche degli Usa, la Repubblica islamica iraniana ha aumentato il prezzo dei carburanti e da venerdì scorso una violenta “rivolta della benzina” si è diffusa in molte città del paese. Secondo l’agenzia iraniana Mehr, alle proteste hanno partecipato circa 87 mila le persone, principalmente uomini, in un centinaio di diverse località. Le autorità, nel tentativo di soffocare la voce dei manifestanti, hanno bloccato Internet. Trapela poco, ma è ormai un dato certo che gli scontri sono violenti e ci sono “diversi morti”. Finora, le autorità hanno confermato la morte di un poliziotto nella città di Kermanshah e di un manifestante a Sirjan Secondo informazioni non verificabili sui social media le vittime potrebbero essere anche una decina. La stessa televisione di Stato ha riferito di “diversi” morti e la Guida Suprema, Ali Khamenei, ha confermato che “alcune persone hanno perso la vita”. Le persone arrestate in due giorni di rivolte sono un migliaio. I maggiori danni si sono verificati nelle province di Khuzestan, Teheran, Fars e Kerman. In tutto il Paese sono state incendiati o saccheggiati cento agenzie bancarie e 57 negozi; una succursale della Maskan Bank è stata data alle fiamme in piazza Sadegian, nella parte occidentale di Teheran, isolata da un ampio dispiegamento di mezzi antisommossa, presenti anche in altre zone della città. I disordini hanno anche causato la parziale chiusura del Gran Bazaar nella capitale, ha confermato l’Associazione islamica delle corporazioni e dei mercati. Una folla di manifestanti ha dato fuoco invece alla sede della Banca centrale a Behbahan, nella provincia del Khuzestan. La polizia ha sparato sulla folla a Shiraz, ha affermato Farnaz Fassihi, giornalista che per il New York Times segue quanto accade nella repubblica Islamica. La reporter ha ritwittato il filmato di un giovane a terra, sofferente per una ferita, circondato da persone che cercano di aiutarlo. Nel filmato risuona il rumore di spari. A Teheran i blocchi sono visibili anche su Google Map digitando i dati relativi al traffico: molti di questi rallentamenti sono causati proprio dal nuovo modo di manifestare contro il governo oltre che dalla neve caduta in queste ore (le autorità avevano chiuso le scuole e, di conseguenza, provato a ridurre il traffico in città): coloro che sono alla guida di un’auto comunicano le modalità di protesta attraverso la app Waze, indicando dove spegnere l’auto e causare l’ingorgo. “Manifestare il proprio malcontento è un diritto, ma la manifestazione è una cosa e la rivolta è un’altra” e lo Stato “non deve autorizzare l’instabilità” nella società. Così il presidente dell’Iran, Hassan Rouhani durante una riunione del governo, secondo quanto riporta il suo sito ufficiale. Il presidente ha difeso davanti ai ministri la scelta di aumentare il costo del carburante, dicendo che lo Stato non aveva altra soluzione per aiutare le “famiglie a entrate medie e basse che soffrono della situazione creata dalle sanzioni” degli Stati Uniti. Questa mattina l’ayatollah Alì Khamenei, la guida spirituale del paese, ha difeso la decisione del governo, intervenendo direttamente con una sua dichiarazione: “Azioni di sabotaggio vengono messe in atto da teppisti sostenuti da potenze straniere, non dal nostro popolo. La controrivoluzione e i nemici dell’Iran hanno sempre sostenuto il sabotaggio e la violazione della sicurezza del nostro paese. Io non sono un esperto, ma quando tre istituzioni prendono una decisione, io la appoggio”. Secondo il piano annunciato dal governo, il prezzo della benzina, molto sovvenzionato in Iran, aumenterà del 50% a 15mila rial (cioè 11 centesimi di euro) per i primi 60 litri comprati ogni mese, e del 300% oltre questa soglia. In base al piano presentato dalle autorità, di questi aumenti dovrebbero beneficiare i 60 milioni di iraniani in condizioni economiche più svantaggiate (sul totale di 83 milioni di abitanti). La Casa Bianca “condanna la forza letale e le rigide restrizioni alle comunicazioni” usate in Iran contro i manifestanti: “gli Stati Uniti sostengono il popolo iraniano nelle proteste pacifiche contro il regime”. Teheran “ha perseguito la strada delle armi nucleari e dei programmi missilistici e sostenuto il terrorismo - aggiunge la Casa Bianca - trasformando il paese in un altro esempio di quello che accade quando la classe al potere abbandona la sua gente e abbraccia una crociata per il potere personale e la ricchezza”. Sulle proteste è intervenuto il segretario di Stato americano Mike Pompeo che si è rivolto al popolo iraniano: “Gli Usa vi ascoltano, vi sostengono, sono con voi”. Ma il ministro dell’Interno iraniano, Abdolreza Rahmani Fazli, ha già minacciato un intervento molto più duro delle forze di sicurezza per ristabilire l’ordine.