“Permessi premio ai mafiosi? La pena è rieducativa” di Cecilia Bressanelli Corriere della Sera, 17 novembre 2019 La vicepresidente della Consulta Marta Cartabia alla proiezione di un film sulle carceri nella sala Buzzati del Corriere per Bookcity. L’incontro tra due mondi apparentemente agli antipodi: è quello tra i giudici della Consulta e i detenuti nelle carceri italiane. Un “incontro tra umanità” raccontato anche nel film “Viaggio in Italia. La Corte costituzionale nelle carceri”, che è stato proiettato ieri nella Sala Buzzati del “Corriere” in occasione di BookCity Milano. Il documentario diretto da Fabio Cavalli (già sceneggiatore, nel 2012, di Cesare deve morire dei fratelli Taviani, girato a Rebibbia) ripercorre sette delle dodici tappe del viaggio dei giudici della Corte - tra loro il presidente Giorgio Lattanzi, la vicepresidente Marta Cartabia e Giuliano Amato - negli istituti penitenziari italiani, per incontrare i detenuti. Il dibattito organizzato dalla Fondazione Corriere della Sera con Associazione Nazionale Magistrati, Ordine degli Avvocati di Milano e Fondazione Centro Nazionale di prevenzione e difesa sociale è stato introdotto da Piergaetano Marchetti, presidente della Fondazione Corriere e dell’Associazione BookCity Milano, e da Vinicio Nardo, presidente dell’Ordine degli avvocati di Milano. Il film, ha sottolineato il direttore del “Corriere” Luciano Fontana, che ha coordinato la discussione seguita alla proiezione, “racconta un importante incontro tra le istituzioni e la società: i giudici delle leggi hanno deciso di non buttare la chiave, ma di entrare nelle carceri”. A spiegare la genesi del progetto è stata la vice presidente Marta Cartabia: “Abbiamo sentito il bisogno di incontrare la realtà su cui andiamo a incidere”. Nelle giornate trascorse tra i detenuti i giudici hanno ascoltato molte domande: “Abbiamo provato un forte senso di inadeguatezza. Ora quando mi capita di essere relatrice di alcune decisioni sull’esecuzione penale, scrivo avendo davanti gli occhi che ho incontrato a San Vittore”. In Sala Buzzati sono intervenuti anche il presidente della Biennale di Venezia Paolo Baratta che quest’anno ha presentato il documentario alla Mostra del Cinema (“un film così porta con sé un forte desiderio di conoscenza”) e Adolfo Ceretti, docente di Criminologia dell’Università di Milano-Bicocca. “In un momento in cui il clima generale non mostra segni di grande inclusività un gesto di questo genere è molto potente”, ha sottolineato Cartabia, che ha poi parlato della pronuncia della Corte sui permessi premio per i detenuti condannati per reati di associazione mafiosa. “La Corte ha ritenuto che la rigida preclusione non fosse conforme alla Costituzione e alla finalità della pena che è rieducativa. L’effetto della decisione non è concedere a tutti il permesso premio ma permettere al giudice di sorveglianza di ponderare ogni situazione, rimanendo una presunzione di pericolosità per la natura del reato”. Prescrizione: altra grana giallorosa ad alto rischio di Luca De Carolis Il Fatto Quotidiano, 17 novembre 2019 Tanto divide i giallorossi, e molte sono le grane come mine sulla loro incerta strada, quelle che occupano la scena: dall’Ilva che si sta spegnendo alla Venezia sommersa, fino alla manovra che è un concerto dove ognuno suona per conto proprio. Ma il bottone rosso per aprire una ferita che potrebbe chiamarsi crisi sta appena un passo dilato, e si chiama giustizia, anzi prescrizione. “E meno male che non ne parla quasi nessuno” ammette un big grillino. Ben sapendo che quella è la parola su cui potrebbe già incepparsi il motore del governo, la novità che pure è già norma, inserita nella legge Spazza-corrotti e pronta a entrare in vigore dal prossimo gennaio. Perché la riforma del Guardasigilli a 5Stelle Alfonso Bonafede, in base a cui la decorrenza dei termini verrà congelata dopo ogni sentenza di primo grado, è un trofeo troppo pesante da accettare per il Pd ed è eresia, l’opposto della loro identità per i renziani di Italia Viva. Solo Leu pare tollerare la prescrizione in salsa Movimento. Invece la distanza tra il M5S e gli altri giallorossi con il passare dei giorni si allarga come una faglia, perfino in vista del nuovo vertice di maggioranza sulla giustizia fissato per martedì sera alle 21. Necessario, anche perché in commissione Giustizia alla Camera in settimana si discuterà del disegno di legge del forzista Enrico Costa che vuole fermare la nuova prescrizione, buttato lì come una tentazione. Appoggiarlo pare uno strappo troppo pericoloso anche per i malpancisti più evidenti, una porta spalancata alla crisi di governo. Però chissà, i giallorossi vivono strani giorni, e a via Arenula non nascondono la preoccupazione. Così è ancora più urgente il vertice di dopodomani dopo il mezzo disastro di giovedì scorso a Palazzo Chigi. Quasi tre ore trascorse a parlare solo di quello, di prescrizione, ed è stata una Babele di lingue diverse. “Vi avevo chiesto di mandarmi delle proposte e dal Pd mi sono arrivate solo nelle scorse ore, mentre da Italia Viva nulla” è sbottato Bonafede, che della riforma ha fatto il suo Piave: la prescrizione non si tocca, e basta. Anche perché, ha ricordato, “la norma varrà solo per i reati commessi da gennaio in poi e quindi la sua concreta applicazione si avrà solo tra 3-4 anni”. Tradotto, nessuna emergenza alle porte. Ma il merito conta fino a un certo punto. Pesa soprattutto altro, ossia la necessità di limitarsi a vicenda tra gli alleati per forza. “Ministro, dovete concedere qualcosa” hanno in sostanza scandito i dem, guidati dal sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis. Ovvero, il Pd deve uscire dal confronto con un risultato da esibire, per non apparire supino. E il cosa glielo hanno anche scritto: limiti massimi per la durata dei processi, a prescindere dalla prescrizione. Ma in viva voce a Bonafede hanno suggerito anche altro, per esempio di posticipare l’entrata in vigore della nuova prescrizione al varo dei decreti attuativi della riforma del processo penale e di quello civile. “Di fatto sarebbe un rinvio di almeno un anno” ammette uno dei presenti al vertice, non affatto sorpreso dal muro del ministro. Quel Bonafede che giovedì ha ricordato: “La prescrizione l’ho varata nel precedente governo, con una legge già approvata in via definitiva”. Come a dire che si litiga sul pregresso. Eppure dem e renziani vogliono un passo indietro. “Noi abbiamo votato il taglio dei parlamentari, fate un sacrificio anche voi” ha sostenuto Maria Elena Boschi, l’icona del renzismo. “Però da Italia Viva continua a non arrivare nulla” ribattono in queste ore fonti di governo del M5S. Ovvero, Bonafede aspetta ancora idee, proposte. E invece piovono solo messaggi pubblici contro la prescrizione, come quello di ieri dalla capo- delegazione di governo, la ministra alle Politiche agricole Teresa Bellanova, da L’intervista su SkyTg24: “Bonafede e Di Maio sanno che quando si fa un governo di coalizione non c’è nessun provvedimento sul quale si può dire che non si discute, compresa la prescrizione”. E in mattinata sul Dubbio anche il capogruppo dem in Senato Andrea Marcucci aveva ripetuto: “Le posizioni sul tema sono ancora distanti, spero che il ministro sia più ragionevole”. Vista l’aria, toccherà di nuovo al presidente del Consiglio, l’avvocato Giuseppe Conte, cercare di farsi mastice. “La prescrizione è legge, come si fa a toccarla?” ragionano dalle parti di Palazzo Chigi. Ma la mediazione “si troverà”. Perché il contrario vorrebbe dire guai, seri. L’altolà di avvocati, studiosi, magistrati: il processo infinito è degli Stati autoritari di Bartolomeo Romano* Il Riformista, 17 novembre 2019 Se l’intera comunità dei giuristi è contro la prescrizione abolita dopo il primo grado, è perché riflette senza avere l’ansia del consenso e sa che chi è imputato non può esserlo a vita. Riflettere ancora sul tema della prescrizione, dopo tutto quanto si è scritto e dopo tutto quanto si è detto, potrebbe apparire inutile. O potrebbe sembrare un tentativo di entrare nell’attuale dibattito politico mediante il cavallo di Troia di un argomento giuridico. Ma la verità è che, del tutto a prescindere dal colore del governo, e dalle cromatiche preferenze personali, la questione colpisce il cuore della nostra democrazia, perché segna i delicati rapporti tra lo Stato e le libertà del cittadino (anzi, di chiunque commette un reato sul territorio dello Stato: dunque, anche degli stranieri e degli apolidi). È bene sottolinearlo sin da subito: in linea generale, non è certamente un bene che, nel nostro Paese, un numero rilevante di procedimenti penali si concluda, purtroppo, con la dichiarazione di estinzione del reato per tale causa. Ma per risolvere, o cercare di contenere tale negativa situazione, bisognerebbe, piuttosto che dilatare a dismisura la prescrizione, tentare di studiarne le cause e cercare, conseguentemente, di porvi rimedio: è un problema che va approfondito tecnicamente, prima ancora che discusso politicamente. Un grande uomo politico italiano, ma anche grande economista, Luigi Einaudi, affermava che occorre “prima conoscere, poi discutere, poi deliberare”: ecco, mi sembra che, spesso, la prima fase, la più difficile e faticosa, la si salti a piè pari. Ora, chi conosce meglio il diritto ed il processo penale? Innanzitutto, avvocati, magistrati, professori universitari. E sul tema della prescrizione, pur con comprensibili sfumature, tali “esperti” sono prevalentemente orientati nel medesimo senso. Per rimanere ai fatti più significativi e recenti, il Consiglio nazionale forense ha fatto pervenire al ministro della Giustizia la richiesta di rinviare l’entrata in vigore della norma sulla prescrizione. Le Camere penali Italiane hanno svolto una ricerca, con l’ausilio di Eurispes, sulle vere ragioni della lunga durata dei processi in Italia che in nessun caso è dovuta alle attività difensive. Le stesse Camere penali hanno, tra l’altro, incentrato il loro recente congresso straordinario di Taormina sulla figura dell’imputato per sempre, frutto di un processo senza prescrizione, ed hanno indetto vari periodi di astensione dalle udienze e da ogni attività giudiziaria nel settore penale (sino alla prossima dei primi giorni di dicembre, con il ricorso ad una manifestazione oratoria continua). E anche il Consiglio superiore della magistratura, nel parere del 19 dicembre 2018, è stato chiarissimo nel criticare la riforma, in relazione alla circostanza che la maggiore incidenza del decorso dei termini di prescrizione si registra nella fase delle indagini preliminari e che non vengono introdotte previsioni acceleratorie del processo penale. Inoltre, il Csm ha notato come la prescrizione sia uno dei maggiori fattori di accelerazione dei gradi di giudizio successivi al primo, essendo il rischio prescrizione uno dei criteri di priorità. ome pure, su sollecitazione dell’Ucpi, oltre 150 professori (tra i quali, anche chi scrive) prevalentemente di Diritto e Procedura penale, hanno sottoscritto un appello al presidente della Repubblica sottolineando i profili di illegittimità costituzionale della riforma della prescrizione. Ed altri se ne sono poi aggiunti. Come è possibile che ci sia stata questa convergenza, da parte di diversi attori del dibattito giuridico e da differenti posizioni? Io credo perché chi conosce, studia e vive il diritto ed il processo penale, senza paraocchi ideologici, è più libero e ragiona più lucidamente: e non deve cercare il (facile) consenso. La verità è, infatti, che sulla prescrizione si sono spesso misurate forze e ideologie politiche, piuttosto che opzioni tecniche, con un superamento della disciplina codicistica ad opera della cosiddetta ex Cirielli nel 2005, poi con la stagione del raddoppio dei termini di prescrizione, sino alla riforma Orlando, nel 2017, con un significativo aumento dei termini, per giungere alla riforma Bonafede, nel 2019, con la prospettata sospensione (rectius, abolizione) della prescrizione dopo il primo grado, a far data dal 1° gennaio 2020, addirittura pure in caso di assoluzione. Soprattutto tale ultima riforma mette a dura prova princìpi scolpiti nella Costituzione e negli atti internazionali: dalla presunzione di non colpevolezza (articolo 27 Cost.) o di innocenza (art. 6 Cedu), al diritto inviolabile di difesa, ai sensi dell’articolo 24, comma secondo, Cost.; dalla durata ragionevole del processo (art. 111 Cost., art. 6 Cedu), sino alla stessa funzione rieducativa della pena (art. 27 Cost.). Ma occorre considerare anche la posizione della vittima, poiché una tardiva tutela rappresenta certamente una salvaguardia cattiva ed inefficace. In uno stato liberale e democratico, lo Stato non può tenere sotto scacco (e, tendenzialmente, sotto ricatto) il cittadino; viceversa, in uno Stato autoritario, il suddito è sempre nelle mani del potere, che può decidere di tenerlo in sospeso sine die. La “spada di Damocle” rappresentata dalla eventualità di essere sottoposto a processo penale o di avere inflitta una condanna tardiva, anche in relazione a reati “bagatellari”, può conculcare la libertà personale e le stesse libertà politiche. *Ordinario di Diritto penale nell’Università di Palermo Separazione delle carriere: nuova speranza o ennesima delusione? di Nicola Galati einaudiblog.it, 17 novembre 2019 Dopo un recente periodo di oblio, seguito ad anni in cui è stata al centro del dibattito pubblico, si torna finalmente a parlare di separazione delle carriere tra magistratura giudicante e requirente. Il merito è dell’Unione delle Camere Penali Italiane, del Partito Radicale e della Fondazione Luigi Einaudi che lo scorso anno hanno raccolto oltre 72.000 firme a sostegno di una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare per separare le carriere della magistratura inquirente e di quella giudicante. Il tema si è rivelato ancora molto sentito tra i cittadini, come dimostra il risultato conseguito; d’altronde l’accantonamento era dovuto più ad una sorta di rassegnazione che non all’affievolirsi delle ragioni poste alla base delle istanze di separazione delle carriere. Anzi, tali necessità sono sempre più attuali e fondate. Le alterne fortune della proposta di separazione delle carriere sono legate alle strumentalizzazioni politiche cui è sottoposta, sventolata da alcuni come la panacea di tutti i mali della Giustizia e da altri vista come un attacco all’indipendenza della magistratura. Riportare il confronto sul piano tecnico sarebbe già un primo passo importante. Se si analizza la questione scevri da incrostazioni ideologiche e partigiane, risulta incomprensibile come la separazione delle carriere non sia stata la logica conseguenza del passaggio al sistema accusatorio del codice del 1988 e della riforma dell’art. 111 della Costituzione. Secondo il dettato costituzionale “la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”. Il giusto processo svolto nel contraddittorio tra le parti, poste in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale, non può non presupporre la separazione delle carriere tra la pubblica accusa ed il giudice, sull’esempio di quanto avviene negli altri sistemi accusatori: il cardine di un sistema processuale rispettoso dei principii liberali. Nel sistema italiano, invece, i magistrati requirenti e quelli decidenti fanno parte del medesimo ordine, condividendo: accesso al ruolo (unico è il concorso di selezione); organo di autogoverno (il C.S.M.); prerogative istituzionali; logiche sindacali ed elettorali(essendo comuni l’associazione sindacale e le correnti); formazione. Inoltre, un magistrato può, nell’arco della sua carriera, ricoprire, seppure con alcuni limiti ed accorgimenti, sia funzioni decidenti che requirenti. Viste queste premesse ci si chiede come possa un giudice essere, ma anche solo apparire, terzo e neutrale rispetto all’accusa ed alla difesa. Non vi è solo il pregiudizio della diffusa solidarietà di corpo,il fulcro della questione risiede a livello ordinamentale e culturale. Uno degli argomenti forti degli oppositori alla separazione delle carriere è il paventato rischio di allontanare il p.m. dalla cultura della giurisdizione. Un auspicabile effetto della separazione sarà, al contrario, quello di allontanare il giudice dalla cultura requirente. Solo una cultura giuridica che non ha mai a pieno condiviso la svolta accusatoria può non stupirsi dinanzi ad una situazione ibrida come quella attuale del nostro ordinamento. Come possono non essere separate le carriere di due figure completamente distinte del processo penale: il p.m., che è dominus delle indagini, esercita l’azione penale, raccoglie gli elementi di prova, sostiene l’accusa in giudizio in condizioni di parità rispetto alla difesa, ed il giudice, che decide circa le richieste del p.m., dirigere il dibattimento, valuta le prove acquisite nel contraddittorio in condizione di parità tra le parti e pronuncia sentenza. Appare evidente la necessità che le due figure abbiano un percorso formativo e carrieristico distinto e separato, affinché sia garantita la piena terzietà del giudice. Ma in un sistema in cui si sente ancora ripetere che le parti (accusa e difesa) non possono essere poste in condizioni di parità, che il processo deve accertare la verità storica e non la fondatezza di un’ipotesi accusatoria ed in cui la magistratura in toto si fa portatrice di istanze di rigenerazione sociale, è illusorio pretendere la terzietà del giudice rispetto al p.m. L’altro argomento forte degli oppositori, il rischio di assoggettare la pubblica accusa al potere politico (come avviene in molti altri ordinamenti), è stato depotenziato dalla proposta di istituire un C.S.M. per la magistratura requirente che ne manterrebbe inalterata l’indipendenza. Tra gli effetti positivi della separazione vi sarebbe, inoltre, la possibilità di una maggiore specializzazione e di una formazione più calibrata, rese sempre più necessarie dalla complessità del mondo contemporaneo. Da qualche giorno la Commissione affari costituzionali della Camera dei Deputati ha iniziato l’esame della proposta di legge. Sarà interessante osservare il posizionamento degli schieramenti partitici sul tema, il nuovo scenario politico potrebbe riservare sorprese rispetto al passato. Certo, può sembrare illusorio sostenere questa proposta in un momento storico di giustizialismo dilagante, eppure non si vede come la separazione delle carriere possa minare le istanze securitarie di parte dell’opinione pubblica: garantire un processo più giusto vuol dire garantire un diritto di tutti. “Mi candido per dare scandalo” di Federica Olivo huffingtonpost.it, 17 novembre 2019 Pasquale Grasso in corsa al Csm, dopo le dimissioni dall’Anm. Nella sede del sindacato delle toghe il confronto tra i tre candidati alle suppletive. In lizza anche Elisabetta Chinaglia di Area e Silvia Corinaldesi di Unicost. “Mi sono candidato al Csm per andare a dare scandalo. In che senso? Se dovessi diventare consigliere proporrò un organo di autogoverno che dismetta una parte dei suoi poteri”. Sono passati esattamente cinque mesi da quando Pasquale Grasso ha lasciato la presidenza dell’Anm, incarico che ricopriva dai primi di aprile. Erano i giorni successivi allo scoppio dell’inchiesta sulle nomine nelle procure e Grasso pagava l’essere stato, secondo la maggioranza del parlamentino del sindacato dalle toghe, troppo morbido sulla vicenda. E non era bastato il fatto che avesse lasciato la sua corrente, Magistratura Indipendente, alla quale si sente ancora di appartenere - “mi sono dissociato da singole persone, non da quelle idee”, ribadisce oggi - quando dopo un’assemblea convocata d’urgenza non aveva invitato i suoi togati del Csm coinvolti nello scandalo delle nomine a dimettersi. L’ex presidente dell’Anm oggi siede nello stesso posto dove si trovava prima di alzarsi e ufficializzare le sue dimissioni in quel caldo 16 giugno in cui i magistrati cercavano, a fatica, di riabilitare la categoria al centro dello scandalo. Ed è lì perché partecipa al confronto con gli altri due candidati per le elezioni suppletive del Csm, le seconde in pochi mesi, che di quello scandalo sono diretta conseguenza. L’8 e il 9 dicembre i giudici di merito dovranno eleggere il togato che entrerà a Palazzo dei Marescialli in sostituzione di Paolo Criscuoli, di Magistratura Indipendente, l’ultimo dei 5 membri del Csm che si sono dimessi sulla scia del caso Palamara. Oltre a Grasso, giudice civile a Genova, che corre come indipendente ma ha il sostegno di quella che fino alla primavera è stata la sua associazione, ambiscono a questo ruolo due donne: Elisabetta Chinaglia, presidente della sezione penale del tribunale di Asti, di Area, l’associazione che racchiude i magistrati progressisti e Silvia Corinaldesi, presidente della prima sezione civile del tribunale di Ancona, di Unicost, la corrente centrista. E nel dibattito tra i tre i riferimenti all’inchiesta di Perugia e a tutto ciò che ne è seguito si susseguono. La questione morale resta al centro del confronto. Poi tornano i temi dibattuti negli ultimi mesi. Tra questi, la compatibilità tra associazionismo e incarichi al Csm. E sul tema Grasso, il più direttamente interessato alla questione dato il suo recente passato, mette le mani avanti: “Chi ha avuto un ruolo all’Anm ha, se non altro, già sottoposto la sua persona al giudizio elettorale. L’alternativa quale sarebbe? La nomina diretta da parte della dirigenza di una corrente?”. La risposta delle due candidate arriva immediatamente, con Chinaglia che sottolinea di essere stata scelta da un’assemblea e rifiuta la definizione di “nominato” e Corinaldesi che ricorda di essere passata anche lei attraverso adunanza. Altro nodo spinoso è quello del criterio di nomina degli incarichi direttivi, come i vertici delle procure o i presidenti dei tribunali. Il Csm ha questa prerogativa, ma i metodi previsti dalla legge per la designazione non mettono d’accordo tutti. “Non mi piace il sistema delle medagliette - dice Grasso riferendosi alla corsa ad avere ruoli che rafforzino la candidatura a un incarico direttivo - per questo sostengo il criterio dell’anzianità, con alcune mitigazioni. Per Chinaglia dare troppo peso agli anni di servizio è sbagliato: “Ciò che conta è l’esperienza professionale”. Anche per Corinaldesi bisogna far prevalere i risultati lavorativi all’anzianità. Nessun accenno alla riforma della giustizia nel corso del dibattito: “Quale riforma? - dirà scherzando il presidente dell’Anm Luca Poniz a margine dell’iniziativa - voi avete visto un testo?”. Un accenno, però, a una delle proposte avanzate da Bonafede e poi da lui stesso ritirata: il sorteggio dei membri togati del Csm. Sul tema tutti e tre i candidati sono d’accordo, anche Grasso che pure sostiene di non avere guardato a questo metodo con pregiudizio. “Quella del sorteggio non è una strada percorribile”, sostiene Chinaglia. E Corinaldesi sottolinea: “Non è un metodo costituzionalmente legittimo, neanche nella sua forma più moderata. È importante valorizzare il principio della rappresentanza”. Con le elezioni di dicembre il Csm sarà di nuovo al completo, per la prima volta dopo circa sei mesi. E a questa nuova composizione spetterà l’onere, non propriamente semplice, di restituire alla magistratura almeno una parte della credibilità persa agli occhi dell’opinione pubblica dopo lo scandalo delle nomine. Davigo: “Vi spiego perché chi ammazza il coniuge non prende 30 anni, ma può scendere a 4” Il Fatto Quotidiano, 17 novembre 2019 L’intervista a “Di Martedì” su La7. Pubblichiamo uno stralcio dell’intervista del 14 maggio scorso di Piercamillo Davigo a “Di Martedì”, su La7: “Se uno apre il Codice penale, scopre delle cose molto curiose. Per esempio, per l’omicidio del coniuge sono previsti 30 anni di reclusione. Al che uno pensa che 30 anni siano 30 anni. E invece, se faccio il conto di come può andare in concreto (anche se, per fortuna i giudici hanno un po’ più di cervello di chi fa queste leggi), si può arrivare a 4 anni e 4 mesi. Per esempio, uno ammazza la moglie (o la moglie ammazza il marito, anche se il primo caso è più frequente), confessa, si costituisce e prende subito le attenuanti generiche. Già che confessa, racconta la sua versione dei fatti senza timore di essere smentito e dirà al magistrato: “Guardi, mi ha detto una cosa che, se avesse sentito, l’avrebbe ammazzata anche lei”. E così porta a casa l’attenuante della provocazione. Quindi risarcisce il danno agli eredi e il giudice è costretto a riconoscergli un’altra attenuante. Si arriva quindi a tre attenuanti prevalenti sull’unica aggravante e si va all’omicidio base, punito con pene da 21 a 24 anni. Di solito chi fa queste cose è incensurato: 21 anni meno un terzo per la prima attenuante: 14. Meno un terzo per la seconda attenuante: 9 anni e 8 mesi. Meno un terzo per la terza attenuante: 6 anni e 6 mesi. Infine, l’assassino chiede il giudizio abbreviato ed eccoci a 4 anni e 4 mesi”. Sotto 4 anni, la pena si sconta a casa o ai servizi sociali: se il nostro uomo ha fatto 4 mesi di custodia cautelare ai domiciliari, non va in carcere neppure un giorno. Stefano Cucchi e quella verità raggiunta dopo dieci anni. Ma non è ancora finita di Giovanni Tizian L’Espresso, 17 novembre 2019 Il primo grado riconosce l’omicidio preterintenzionale da parte di due agenti. Gli esecutori del pestaggio sono stati condannati a 12 anni e il super testimone assolto dal reato più grave. Ora il prossimo passo è accertare le responsabilità di chi ha depistato per tutto questo tempo. Dieci anni per ottenere verità e giustizia. Dieci anni per chiarire una volta per tutte che Stefano Cucchi non è morto di droga. È stato ucciso della botte dei carabinieri. Due di loro sono stati condannati a 12 anni: Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro. Il processo di primo grado che si è concluso con il riconoscimento da parte della corte del reato di omicidio preterintenzionale ha avuto la sua svolta ad aprile scorso. Quando cioè Francesco Tedesco uno dei militari presenti quella notte, per troppo tempo ostaggio del silenzio corporativo dell’Arma, durante la sua testimonianza da imputato ha deciso di dire la verità. Non ha retto più il peso della menzogna. Da quel momento si è aperto uno squarcio profondo nel muro di gomma alzato dall’Arma anche attraverso falsi ripetuti e depistaggi, per i quali si aprirà un nuovo processo. Le parole di Tedesco sono crollate come macigni sulle spalle dei suoi colleghi, forti della protezioni ricevute nei dieci anni dal pestaggio di Cucchi. L’Espresso aveva intervistato l’avvocato Eugenio Pini, che segue Tedesco e lo ha accompagnato nel percorso di “pentimento”. “Ricordo ancora il terrore nei suoi occhi e lo sforzo nel raccontarmi quell’inconfessabile segreto”, ricordava con L’Espresso Eugenio Pini. Perché il vicebrigadiere Francesco Tedesco, imputato nel processo bis sulla morte di Stefano Cucchi, ha deciso di violare il codice non scritto dell’Arma? Qual è il motivo che lo ha spinto a raccontare la verità su quella tragica notte di dieci anni fa? “Rammento perfettamente le sue parole”, ricorda Pini, “mi disse: “avvocato, se Stefano Cucchi è morto per le lesioni procurate dai miei colleghi, io voglio raccontare tutto, non posso più tacere”. Dopo il primo interrogatorio con il procuratore Giuseppe Pignatone e con il sostituto Giovanni Musarò, mi disse: “finalmente mi sono tolto questo enorme peso e mi sento rinato”“. Un gesto destinato a mutare il corso del processo contro i carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale e di falso. Con Tedesco testimone diventa difficile sostenere che Cucchi non sia stato pestato a sangue la notte dell’arresto. Il vice brigadiere era lì, aveva visto tutto. E ha tentato di fermare la furia dei suoi colleghi. “Francesco Tedesco mi aveva conferito l’incarico di assisterlo nel novembre 2015. Nel primo appuntamento mi raccontò cosa avvenne la notte tra il 15 ed il 16 di dieci anni fa. Raccolsi la narrazione dei fatti con molta attenzione e ricordo che Tedesco, nel parlarne, era molto spaventato. Abbiamo analizzato immediatamente tutti i possibili risvolti. Volevo comprendere se fosse sua intenzione rivelare tutto pubblicamente. In quel momento la verità sul caso Cucchi era ancora lontana. Così sono prevalsi in lui il timore di raccontare i fatti e la condizione di prostrazione che hanno accompagnato Tedesco in questi ultimi dieci anni. Non posso dimenticare il terrore che provava Tedesco e lo sforzo che fece nel raccontare, per la prima volta, questo inconfessabile segreto. Mi resi anche conto della sua difficoltà di parlarne con una persona estranea al mondo militare”. In quel momento, quindi, il carabiniere decide di tacere e accettare senza fiatare il ruolo di indagato dopo che la procura di Roma con il pm Giovanni Musarò aveva riaperto il fascicolo su Cucchi. Tedesco aveva paura. Ma era solo questione di tempo, la verità stava per riaffiorare. “Poi Tedesco ha trovato il coraggio. L’aver compreso la gravità dei fatti a cui ha assistito, lo ha portato a chiedere scusa alla famiglia Cucchi e ai colleghi della Polizia Penitenziaria accusati ingiustamente, all’inizio della sua testimonianza in tribunale. Al termine dell’udienza, si è poi avvicinato a Ilaria Cucchi per dirle: mi dispiace”. Tedesco, però, è isolato. I colleghi imputati restano abbottonati nei loro cappotti di silenzio, convinti che indossare una divisa significhi impunità. “Liberissimi di farlo. Tutti gli altri imputati hanno deciso la strategia opposta rinunciando addirittura a sottoporsi ad esame. Certo, il processo va avanti e possono ancora rendere delle spontanee dichiarazioni”, spiega l’avvocato Pini, veterano nella difesa di poliziotti e carabinieri. “Effettivamente ho difeso e difendo numerosi appartenenti alle forze dell’ordine e alle forze armate, coinvolti in processi penali. Ritengo che la difesa debba impostarsi su posizioni oggettive, razionali e rispettose delle vittime. Il becero oltranzismo sterile è controproducente per la persona che si assiste e difende. Con una visione più ampia condivido l’imperativo profondamente umano esortato da Papa Francesco di smilitarizzare il cuore dell’uomo”. “Cucchi fu colpito prima con uno schiaffo violento in pieno volto. Poi Di Bernardo (uno dei carabinieri imputati ndr) lo spinse. E D’Alessandro (altro militare sotto processo ndr) diede a Cucchi un forte calcio con la punta del piede all’altezza dell’ano. Nel frattempo io mi ero alzato e avevo detto: “Basta, finitela, che cazzo fate, non vi permettete”. Ma proseguì nell’azione spingendo con violenza Cucchi e provocandone una caduta in terra sul bacino, poi sbatté anche la testa. Io sentii un rumore della testa che batteva. Quindi sempre D’Alessandro gli diede un calcio in faccia, a quel punto mi alzai e li allontanai da Stefano”. È il racconto fatto da Tedesco ai pm e poi ribadito nell’aula del tribunale dove è in corso il processo bis sulla sua morte. Una testimonianza che ha messo in crisi la strategia difensiva degli altri imputati. E non solo. Sul processo, infatti, si è abbattuto il ciclone dei depistaggi per nascondere la verità sul caso Cucchi. Un nuovo capitolo che vede indagati diversi carabinieri più alti in grado. Si tratta dei militari che hanno coperto le responsabilità dei loro sottoposti in tutti questi anni. Il pm Giovanni Musarò ha ricostruito la catena gerarchica delle omissioni. “Questo nuovo procedimento scaturisce certamente da un fatto: la mancanza di atti della polizia giudiziaria riferibili alle lesioni procurate a Stefano Cucchi. L’altra considerazione che riguarda direttamente il mio assistito è che, di fronte a quello che siamo abituati a conoscere come il cosiddetto muro di gomma, le difficoltà non le incontra solo chi dall’esterno vuole conoscere la verità ma anche chi, dall’interno, vuole comunicarla all’esterno. In altre parole, il muro è il medesimo e, una volta che crolla, si possono finalmente incontrare le sofferenze delle persone che hanno vissuto, chiaramente in modo diverso, questa limitazione. Fatemi dire che la stretta di mano tra la signora Ilaria Cucchi ed il Carabiniere Francesco Tedesco può rappresentare proprio questo momento di incontro”. Anche l’avvocato parla di muro di gomma. Quel muro che cadrà definitivamente nel processo sui protagonisti dei depistaggi che per dieci anni hanno reso impossibile accertare la verità su quella notte iniziata in via Lemonia. Omissioni che portano il timbro della catena gerarchica dell’Arma. Padova. Suicidi in carcere, Cgil preoccupata: “È una escalation” Il Mattino di Padova, 17 novembre 2019 Preoccupa l’aumento dei suicidi tra gli appartenenti alle forze di polizia, soprattutto nell’ambito della polizia penitenziaria. Per questo, la Cgil della Funzione pubblica ha organizzato ieri nella Sala delle Edicole un convegno molto seguito e dibattuto, al quale hanno preso parte anche i rappresentanti di guardia di finanza, polizia locale e vigili del fuoco, più avvocati e sociologi. Tutti hanno riconosciuto che chi si toglie la vita lo fa quasi sempre per una complessa molteplicità di fattori. Gli agenti ma soprattutto gli assistenti sono più a rischio per le oggettive difficili condizioni in cui operano quasi “reclusi tra i reclusi”, spesso privi di strumenti di sostegno psicologico, a volte impreparati a gestire situazioni sempre più difficili, per via del continuo aumento della popolazione carceraria straniera (oltre il 40 per cento in Triveneto “e nei loro Paesi gli uomini in divisa significano violenza”) e perché il carcere è sempre più una sorta di discarica sociale in cui anche chi vi opera non è preso in giusta considerazione. Certo, l’avere a disposizione un’arma espone a più rischi: solo il 15% dei suicidi avviene tramite colpi d’arma da fuoco, percentuale che sale al 72,5% tra la polizia penitenziaria. In realtà, il provveditore lombardo del Dap Pietro Buffa ha presentato una ricerca su 40 suicidi dalla quale si evince che le cause principali risiedono nelle lacerazioni familiari ma zero casi riconducibili direttamente alle condizioni di lavoro. “Ci sono molti luoghi comuni incalzanti anche se il carcere può certo accelerare soluzioni finali”, ha detto il provveditore del Triveneto Enrico Sbriglia. Rispetto agli altri corpi, è stato posto il tema della polizia locale, armata ma senza una vera preparazione: “Sparare al poligono una volta all’anno non ci aiuta certo ad affrontare le situazioni di strada”, è stato sottolineato. Sassari. “La verità di Bigella ha una logica ferrea” di Nadia Cossu La Nuova Sardegna, 17 novembre 2019 Seicento pagine per motivare i tre ergastoli inflitti per la morte del detenuto Erittu. Il super-pentito Giuseppe Bigella è attendibile. E lo è a tal punto che il suo racconto - e in particolare la chiamata in correità di altre tre persone nell’omicidio del detenuto Marco Erittu - rispecchia perfettamente ciò che avvenne dodici anni fa in una cella dell’ex carcere di San Sebastiano. Secondo i giudici della corte d’assise d’appello, che lo scorso maggio hanno inflitto tre ergastoli per quel delitto del 18 novembre 2007, “un peso enorme” nella valutazione dell’attendibilità di Bigella lo assume il fatto “che egli abbia confessato un delitto estremamente grave, punibile con l’ergastolo, attribuendosi il ruolo principale di esecutore materiale, senza affatto nascondere o ridimensionare le sue responsabilità. Ed abbia reso tali dichiarazioni del tutto spontaneamente, senza che mai fosse stato adombrato il benché minimo sospetto a suo carico e anzi fornendo una versione del tutto contrastante con quella accreditata”. Seicento due pagine per ricostruire i motivi che hanno portato i giudici di secondo grado a ribaltare il verdetto della corte d’assise che nel 2014 aveva assolto dall’accusa di omicidio gli imputati Pino Vandi, Nicolino Pinna (entrambi detenuti all’epoca a San Sebastiano) e l’agente di polizia penitenziaria Mario Sanna, indicato dall’accusa come colui che aprì la cella della vittima consentendo a Bigella e ai complici di mettere in atto il piano per uccidere Marco Erittu. Altri due agenti, Giuseppe Soggiu e Gianfranco Faedda, erano accusati di favoreggiamento. Entrambi furono assolti nel 2014, ma in appello Faedda è stato condannato a tre anni e 4 mesi. I giudici di primo grado avevano ritenuto infondate le dichiarazioni accusatorie di Bigella perché non avrebbero trovato nelle risultanze del processo elementi di riscontro “idonei e dotati di un minimo di certezza, tali da far ragionevolmente ritenere che la morte di Erittu fosse da ricondursi a un omicidio piuttosto che a un suicidio, così come concluso nel 2007”. “Erittu, non nuovo a episodi di autolesionismo, si è strangolato con una striscia di coperta”, si disse all’epoca. Poi arrivarono le dichiarazioni di Giuseppe Bigella: il pentito rivelò che Erittu era un personaggio “scomodo” perché voleva raccontare alla magistratura quello che sapeva sulla tragica fine di Giuseppe Sechi, il muratore di Ossi scomparso nel 1994 a Sorso. Un pezzo di cartilagine dell’orecchio di Sechi venne inviato alla famiglia del farmacista orunese Paoletto Ruiu, rapito il 22 ottobre 1993 e, come Sechi, mai tornato a casa. Erittu diceva di sapere molto sulla sparizione di Sechi; e, in particolare, il fatto che fosse da attribuire a Vandi, che si sarebbe mosso in soccorso della banda che aveva rapito Ruiu e alla quale però era scappata la mano. Nel senso che Ruiu era morto, ma per tenere in piedi la trattativa con la sua famiglia - alla quale era stato chiesto un miliardo di lire per il riscatto - bisognava produrre una prova in vita del loro caro. E così si sarebbero serviti del povero Sechi. A Erittu - che aveva scritto una lettera indirizzata all’allora procuratore - bisognava in sostanza tappare la bocca, secondo l’accusa. La corte d’assise d’appello presieduta da Plinia Azzena (a latere Marina Capitta) ritiene che Erittu non avrebbe ottenuto alcun vantaggio dalla sua confessione, contrariamente a quanto più volte ribadito invece dal collegio difensivo (i tre condannati all’ergastolo sono difesi dagli avvocati Agostinangelo Marras, Patrizio Rovelli, Fabrizio Rubiu e Luca Sciaccaluga). “Né può ritenersi - aggiungono i giudici - che sia stato spinto a siffatte rivelazioni per essere ammesso al regime dei collaboratori di giustizia” perché per ottenere questo “riconoscimento” sarebbero state sufficienti le sue “propalazioni in ordine al reato di associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti all’interno del carcere di San Sebastiano”. Non solo. “Nel rendere una versione così dirompente e circostanziata rispetto all’esito degli accertamenti fino ad allora svolti, Bigella si è esposto all’altissimo rischio di essere smentito...”, perché se i tanti particolari forniti fossero poi risultati falsi “avrebbero pregiudicato irreversibilmente la sua attendibilità”. Nel verdetto di secondo grado il racconto di Bigella è definito “sempre coerente, di una logica ferrea, con rivelazioni inedite pienamente riscontrate”. Gli accertamenti eseguiti avrebbero confermato “anche nei dettagli gli accadimenti da lui narrati, smentendo la precedente ricostruzione dei fatti e svelando che essa si fondava su elementi conoscitivi inficiati da un pesante inquinamento probatorio”. E proprio quest’ultimo aspetto, e in particolare la “marcata alterazione dello stato della cella in cui il povero detenuto aveva perso la vita” è stato un altro degli elementi su cui la corte si è soffermata. Un grande peso nella decisione finale lo ha avuto inoltre la nuova consulenza tecnica di Lafisca. Il perito aveva rimesso in piedi l’ipotesi del soffocamento con un sacchetto di plastica di cui aveva parlato Bigella quando raccontò agli inquirenti di aver soffocato Erittu con una busta di cellophane e poi di aver lasciato a Pinna il compito di simulare un suicidio per impiccagione. Modena. Uno spazio d’incontro tra autori di reato e vittime di Vincenzo Malara Il Resto del Carlino, 17 novembre 2019 La Diocesi firma una convenzione per l’inclusione sociale di chi ha commesso un reato: “Lo scopo non è il perdono ma ritrovare l’umanità”. Reinserire nella società persone che stanno scontando una pena e porre le basi per far incontrare gli autori dei reati con le loro vittime, per ritrovare l’umanità. È l’obiettivo della convenzione firmata in arcivescovado tra l’Ufficio di esecuzione penale esterna di Modena, cooperativa sociale “L’Ovile” di Reggio Emilia e la Caritas diocesana, che propone un approccio nei confronti della detenzione verso una maggiore inclusione. Il documento è stato siglato dall’Arcivescovo di Modena-Nonantola don Erio Castellucci, dalla direttrice dell’Uepe Monica Righi e dal presidente della cooperativa sociale Valerio Maramotti. “L’idea è di don Erio - racconta il vicedirettore della Caritas, Federico Valenzano - che ha a cuore l’inclusione sociale di chi ha commesso reati già da quando era parroco a Forlì. La Caritas diocesana non può non occuparsi anche di questo tema, promuovendo una riflessione culturale sulla giustizia”. La Caritas ha iniziato il percorso con esperienze concrete: “Già da tempo accogliamo persone che devono scontare i domiciliari, per esempio abbiamo inserito un detenuto in semilibertà prima in un percorso di volontariato per poi trovargli un lavoro - dice Valenzano. Ma ora abbiamo deciso di fare un passo avanti, ideando un luogo in cui autori dei reati e vittime possano incontrarsi. Ovviamente tutto è basato sulla volontarietà. Sappiamo bene che la prima vittima è chi subisce il reato, poi vengono la comunità e infine il cosiddetto “reo”, che va aiutato a reinserirsi nella società”. Passare da una giustizia reocentrica, insomma, ad una giustizia riparativa, che coinvolge anche la vittima e la comunità e che si basa sui principi di rispetto della dignità umana, giustizia, verità, solidarietà e responsabilità: “È questo il passaggio culturale che fa da sfondo alla convezione”. Tra gli obiettivi c’è quello di promuovere la conoscenza e lo sviluppo di attività e incontri riparativi a favore delle vittime e della collettività, ma anche di utenti dell’Uepe di Modena, ovvero chi sta scontando una pena fuori dal carcere (domiciliari, misure alternative come l’obbligo di firma, semilibertà per fare degli esempi). Attualmente la casa circondariale Sant’Anna accoglie 520 detenuti, mentre 744 persone sono prese in carico dall’Uepe. La Caritas Diocesana, organismo pastorale espressione della Chiesa modenese, è coinvolta nel progetto mettendo a disposizione i locali in via dei Servi per consentire le mediazioni, ovvero dare la possibilità a reo e vittima di incontrarsi, dialogare e riscoprire quel minimo comune denominatore di umanità che li accomuna. Non si tratta di un percorso di perdono, ma di riscoperta dell’umanità che può favorire l’avvio di un percorso inclusivo, partecipativo e trasformativo. “L’idea è di accompagnare, secondo un principio di assoluta volontarietà, gratuità e riservatezza, con soggetti che hanno commesso reati, le loro vittime (e i loro familiari) e la comunità - aggiunge - al fine di poter contribuire ad accrescere processi di accoglienza e integrazione sociale dei detenuti e lo sviluppo di un nuovo paradigma di giustizia più attento all’uomo e al suo sviluppo. Il progetto non prevede alcun vantaggio in termini di sconto della pena per chi ha commesso il reato e non ha alcuna volontà di ricostruire la verità processuale. Le vittime, sono contattate da mediatori e decideranno liberamente se incontrare l’autore del reato. Corato (Bat). “Senza sbarre”, don Riccardo Agresti racconta il suo progetto di rieducazione di Guido Catalano coratoviva.it, 17 novembre 2019 Una serata di riflessione e di conoscenza, quella del 15 novembre nella Chiesa di San Domenico di Corato insieme a Don Gino Tarantini e don Riccardo Agresti, sacerdote di Andria che si occupa del progetto diocesano “Senza Sbarre” che coinvolge detenuti ed ex detenuti. In occasione dei quarant’anni di sacerdozio di don Gino Tarantini, don Riccardo Agresti è stato invitato a parlare del suo progetto che mira a riabilitare i detenuti attraverso il lavoro. Stimolato dagli interventi del giornalista Franco Tempesta, don Riccardo ha parlato del progetto. “Siamo entrati nella realtà del mondo carcerario. Il mistero più grande - spiega Don Riccardo - era cosa noi potessimo fare per questi nostri fratelli. Come risposta a questa domanda è nato il progetto “Senza sbarre”. Il magistrato può decidere di indirizzare i pregiudicati anche verso delle comunità e non solo verso il carcere”. E, parlando dei destinatari del suo progetto che coinvolge detenuti ed ex detenuti in un laboratorio per la produzione di pasta e taralli spiega: “Chi lavora al progetto sono persone che hanno sbagliato e vogliono redimersi. Prima di questo progetto non c’era alcuna comunità che faceva questo lavoro di rieducazione. L’altra scommessa è che noi vogliamo educarli ad un lavoro che deve farli sognare. Una rieducazione socio-lavorativa”. “Noi riusciamo a calmare e rieducare le persone solo ed esclusivamente con l’arma dell’amore. Ci troviamo difronte delle persone fragili che vanno trattate con molta delicatezza e con molta sensibilità umana. Noi non abbiamo paura del carcerato ma abbiamo paura delle persone che parlano male e che provano invidia. Ci vuole da parte del carcerato la forza di dire “basta”. Noi partiamo prima dalla parola di Dio per trasmettere i valori di umanità e di amore” ha continuato don Riccardo. Una diretta testimonianza del progetto “Senza Sbarre” è stata fornita da una delle persone coinvolte, un ragazzo proveniente dal Senegal. In Italia da 16 anni, Saku ha passato un periodo in carcere ed è stato accolto in seguito nella comunità di don Riccardo. “Tutti possiamo sbagliare ma l’importante è capire dove si è sbagliato e cercare di rimediare il più possibile. Tutti i giorni facciamo dei sacrifici per noi stessi, per vivere bene con noi stessi. Se siamo qui oggi è merito soprattutto di chi si è fidato di noi, vedendo la nostra sincerità di intenti. Cerco di essere più responsabile. Il mio sogno è quello di avere una famiglia, quindi cercherò lavoro. Vorrei avere un ruolo anche nella comunità di Don Riccardo” ha detto Saku. Sull’argomento è intervenuta anche la senatrice Bruna Piarulli, presente all’incontro. Il suo intervento parte dalla sua esperienza di dirigente di istituti penitenziari, per anni a contatto con i detenuti. “Riconosco la lungimiranza di Don Riccardo che ha impiegato queste persone per la loro crescita personale. M impegnerò per fare in modo che questo progetto possa diventare una realtà stabilizzata in tutta Italia. Le attività di questa comunità sono note al Ministro della giustizia e si prevedono vari provvedimenti per sostenere questi progetti. Mi auguro che questo momento sia condiviso dall’intera collettività” ha riferito la parlamentare coratina. Roma. Vic, volontari e detenuti in festa per i 25 anni di impegno agensir.it, 17 novembre 2019 Nel 2018 oltre 15mila colloqui. Ieri la Festa di volontari e detenuti, decina di migliaia di interventi. Solo nel 2018 oltre 15mila colloqui individuali, con 5 mila persone. Venticinque anni accanto ai detenuti e alle loro famiglie, decine di migliaia di interventi, migliaia di persone seguite ed ospitate. È il sintetico ma significativo bilancio di Vic-Volontari in Carcere, associazione promossa dalla Caritas di Roma ed operativa negli istituti di detenzione di Rebibbia, che oggi ha celebrato in un convegno - dal titolo “1994-2019: 25 anni di Volontari in Carcere sotto il segno dell’accoglienza” - all’ospedale pediatrico Bambino Gesù il suo 25/o compleanno. Confermando la loro vicinanza e l’impegno di collaborazione all’associazione sono intervenuti, fra gli altri il Cardinal Vicario di Roma Angelo De Donatis e il Provveditore Regionale Amministrazione Penitenziaria Carmelo Cantone. Al convegno, detenuti e volontari hanno raccontato esperienze di vita all’interno e all’esterno del carcere. Testimonianze di percorsi complessi affrontati gli uni accanto agli altri volti al recupero e al reinserimento nella società. Stralci di storie di detenuti e di volontari, raccolti negli anni, sono stati letti da due attori, Andrea Calabretta e Alessandra Della Guardia. Racconti di emozioni e scoperte, di amicizie e di accoglienze inattese. Testimonianze di speranza e di possibili nuovi percorsi di vita. Ad accompagnare i racconti tre musicisti; alla fisarmonica Ferdinando Ciarelli, al violino Miriam Costantin, alla chitarra Paolo Tornabuoni. “Le storie dei volontari del VIC - ha affermato don Sandro Spriano, presidente onorario del Vic-Volontari in Carcere - raccontano di persone che, nel loro impegno, riconoscono l’importanza determinante dell’Altro, che si decide di accogliere, secondo il nostro principio per cui al detenuto va dato spazio nel proprio tempo, nella propria casa, nelle proprie amicizie, nella propria città. Tramite l’esempio dei volontari e degli strumenti che abbiamo a disposizione, come la casa alloggio e la cooperativa e-Team per il reinserimento lavorativo, vogliamo essere portatori di buone pratiche e di idee”. “Per noi - ha sottolineato Francesco Moggi Presidente VIC - la vera sfida è questa: trarre dalla nostra storia, dalla nostra esperienza, dalle energie dei volontari, le proposte per rendere il carcere l’ultima delle soluzioni e promuovere, per chi ha sbagliato, una nuova accoglienza nella società. Noi crediamo - ha sottolineato ancora Moggi - che il cambiamento sia possibile e vogliamo essere sostenitori dello sviluppo e dell’applicazione di forme alternative alla detenzione. Si tratta di un ruolo politico e lo vogliamo svolgere con le autorità, gli enti, le associazioni e i privati cittadini che condividono l’idea della giustizia riconciliativa e vogliono parlare a una sola voce a favore del reinserimento dei detenuti”. Con all’attivo dieci Centri di Ascolto nei quattro istituti del complesso penitenziario romano, migliaia i colloqui quotidiani effettuati con i detenuti e i loro familiari per sostenere un percorso di accompagnamento e reinserimento. Il Vic-Volontari in carcere gestisce anche una casa per l’accoglienza delle persone detenute in permesso premio e per i familiari che vengono da fuori: l’unica struttura a Roma che consente a uomini e donne di trascorrere con i propri familiari i giorni di permesso. Ed ancora: sostegno ai detenuti con problemi psichici, progetti per attività in carcere come feste con figli minori, pranzo di Natale, gare di cucina e corsi di yoga; fornitura di vestiari per i detenuti indigenti. 75 i volontari operativi al momento, persone in formazione costante. Un numero di interventi, di natura non solo quantitativa, di difficile stima nel corso di questi anni. Ma che solo per il 2018 ha registrato: - 15.125 colloqui individuali con 4.879 persone; i contatti con i familiari sono stati 2.952; - 1.216 persone seguite in via continuativa in percorsi di accompagnamento verso la fine pena; - 99 persone ospitate nella casa alloggio; di cui 48 detenuti/e, 36 familiari e 15 ex detenuti usciti dal carcere ma alla ricerca di una casa; nel complesso le notti di ospitalità sono state 2.216; - 1.589 pacchi con vestiti distribuiti, 4,3 tonnellate di generi per l’igiene personale e 5,8 tonnellate di generi alimentari. Napoli. 43 “schiavi” segregati in un bunker, lavoravano in nero per le griffe della moda Il Messaggero, 17 novembre 2019 In quarantatré, tra cui una donna incinta e due minorenni, lavoravano segregati dietro una porta blindata, senza servizi igienici e senza una finestra. Con loro altre venti lavoratori in nero scoperti dai carabinieri in un unico laboratorio del Napoletano dove si lavoravano pellami per note griffe di moda. È accaduto a Melito, alle porte di Napoli; il titolare dell’azienda è stato arrestato ed è finito ai domiciliari su ordine del Gip del Tribunale di Napoli Nord. “Ho sbagliato” sono le parole pronunciate dall’imprenditore ai carabinieri che lo hanno ammanettato dopo aver liberato i dipendenti segregati, ormai allo stremo delle forze in quanto lasciati senza servizi igienici e finestre per diverse ore. Il blitz è stato coordinato dalla Procura di Napoli Nord, diretta da Francesco Greco, che ha lanciato una vera offensiva contro il lavoro nero e il caporalato, setacciando a tappeto soprattutto gli opifici, in particolare calzaturifici e laboratori per la produzione delle pelli, dove si registrano spesso episodi di sfruttamento e di totale mancanza di regole. Molto grave quanto emerso a Melito dove il laboratorio che lavora per importanti griffe di moda andava avanti quasi esclusivamente con il lavoro non contrattualizzato, fatto soprattutto da donne. L’ispezione è stata effettuata dai carabinieri del Nas di Napoli guidati da Vincenzo Maresca, che in totale hanno scoperto nell’opificio 78 operai, di cui 57 risultati senza alcun contratto. Dietro la porta blindata 43 persone con i volti stremati e terrorizzati. Hanno chiesto di andare subito in bagno. Sequestrato il laboratorio con le attrezzature per circa 2,5 milioni di euro e comminato sanzioni per 600mila euro. Una marcia contro lo sfruttamento del lavoro nero è stata indetta dai sindacati per martedì prossimo. Milano. Una guerra fatta di parole. La sfida tra detenuti e studenti nel carcere di San Vittore di Ilaria Pennacchini L’Osservatore Romano, 17 novembre 2019 Tutti possono diventare perfetti oratori con un po’ di pratica, l’impegno e la conoscenza di qualche semplice, ma oculata, strategia. È il presupposto di Guerra di Parole, un’iniziativa promossa da PerLaRe - Associazione Per La Retorica e sostenuta da Toyota Motor Italia, che vede “scontrarsi” carcerati e studenti universitari in una competizione educativa a colpi di dialettica. Il format #Guerradiparole - vincitore del premio Prodotto Formativo 2016 - ha come obiettivo quello di promuovere l’autocontrollo e l’esercizio della parola, due strumenti indispensabili per far valere le proprie ragioni e gestire civilmente, senza ricorrere all’uso della forza, qualsiasi situazione di contrasto. Portare il gioco nelle carceri, così come collocare detenuti e studenti sullo stesso piano, non solo è un buon modo per mantenere vivo il contatto tra il mondo esterno e quello del carcere, ma è anche l’occasione per creare un ponte - quello del dialogo - che favorisca il reinserimento dei reclusi nel tessuto della società. Dopo le precedenti edizioni di Roma e di Napoli, il IV scontro si svolgerà a Milano, il 23 novembre 2019, presso il carcere di San Vittore. Questa volta a sfidare i detenuti saranno i ragazzi dell’Università degli studi di Milano statale. Tra gli organizzatori del progetto - supportato da Ferpi - Federazione relazioni pubbliche italiana - oltre a PerLaRe - associazione Per La Retorica e all’Università degli studi di Milano statale - figurano la Crui - Conferenza dei rettori delle università italiane, la Casa circondariale di Milano San Vittore, con l’Unione camere penali italiane - Osservatorio carcere Ucpi, Amici della Nave. L’idea nasce dal desiderio di riportare l’arte del discorso al centro della formazione degli individui, universitari o detenuti che siano. La discussione (o disputatio), del resto, è uno dei metodi di studio più efficaci nell’apprendimento. Ne erano ben consapevoli i maestri delle università del medioevo, che riconoscevano nella riflessione critica - che scaturisce dalla quaestio, ovvero la domanda sorta dalla lettura dei testi (la lectio) - il momento in cui l’allievo dimostra, per la prima volta, di saper mettere in pratica le nozioni assimilate. A questo proposito il celebre accademico francese Jacques Le Goff scriveva: “L’intellettuale universitario nasce nel momento in cui da passivo diventa attivo, quando comincia a mettere in discussione il testo, che è oramai solo un supporto quando si discute. Il maestro non è più un esegeta ma un pensatore”. Ebbene, volendo mantenere saldo il legame con la tradizione, la struttura della gara riprende il modello della disputatio utramque partem medievale - un esercizio didattico impiegato ancora oggi nella formazione manageriale, mirato a rafforzare l’arte oratoria - e prevede l’assegnazione alle due squadre di una quaestio, un tema di attualità che esse dovranno difendere o contraddire a seconda del round. Ogni gruppo, infatti, nel primo tempo sosterrà una tesi, che nella seconda parte della gara verrà difesa dalla squadra avversaria. I due round in cui si divide la sfida - ognuno della durata di 15 minuti - saranno aperti e chiusi da un minuto di appello in versione rap. Quest’anno il tema scelto dagli organizzatori sarà: “L’opinione pubblica è il sale della democrazia o il dominio del populismo?”. Come per le edizioni precedenti, lo scontro sarà preceduto da quattro incontri formativi - che quest’anno sono stati fissati il 24 ottobre, l’8, il 13 e il 21 novembre - ai quali le due squadre devono partecipare separatamente. Durante questi seminari ravvicinati, i due gruppi saranno seguiti personalmente dalla presidente dell’associazione PerLaRe (Per La Retorica) Flavia Trupia, dall’attore regista Enrico Roccaforte e dal rapper Amir Issaa, e apprenderanno le tecniche della retorica, del teatro e del rap. Una giuria di sette “professionisti della parola” - tra cui linguisti, giornalisti e attori - avrà il compito di valutare l’esposizione delle due squadre e di decretare i vincitori in base a tre criteri: il rispetto delle regole, la forza delle argomentazioni e, non meno importante, l’uso del linguaggio del corpo. Proprio quest’ultimo, spesso sottovalutato e trascurato dal sistema scolastico e accademico, riveste, invece, un ruolo fondamentale nell’esercizio della retorica e costituisce uno dei presupposti per la riuscita di un buon discorso. È uno dei motivi per cui, nelle edizioni precedenti, i giovani studenti universitari - dotati di grandi competenze teoriche ma inesperti sul piano pratico - sono stati battuti dai detenuti, i quali, essendosi formati nella palestra della vita, si muovono e si esprimono con maggiore disinvoltura. Il carcere di San Vittore sarà dunque teatro di uno scontro dialettico tra la teoria e la pratica, tra i banchi di scuola e gli insegnamenti della vita, tra il mondo esterno e la prigione, il cui esito non è assolutamente scontato. Infatti quest’anno - afferma Flavia Trupia - “gli studenti potrebbero stupirci” e riscattare la loro posizione di secondi. Porto Azzurro (Li). Premio “Casalini”, il ritorno nel territorio che lo ha visto nascere lasettimanalivorno.it, 17 novembre 2019 Dopo Roma, Milano, Torino, ma anche Porto Azzurro, Brescia, Volterra ed altre sedi, per il diciottesimo anniversario del Premio “Casalini”, c’è stato un ritorno nel territorio che lo ha visto nascere tanti anni fa nel carcere elbano per una intuizione felice di un gruppo di volontari. Era il primo concorso a livello nazionale di un Premio letterario riservato ai detenuti, a quelle persone che non avevano modo di far uscire le loro voci da quei luoghi di dolore e di solitudine. Fu sicuramente un’intuizione felice. Ogni anno, i promotori e la giuria del Premio compiono un viaggio simbolico incontro ai detenuti, ogni anno in un carcere diverso e per chiudere questa XVIII edizione, è stato scelto il carcere di Livorno. Nel carcere, persone che hanno commesso dei reati si stanno rieducando e riabilitando: questo richiede la nostra Costituzione. Non è un compito facile, ma ogni azione positiva può portare un contributo, così un incitamento alla scrittura può portare a riflettere, talora a rivedere le proprie scelte di vita. La giuria sceglie le opere migliori che premia con una piccola somma di denaro: chi la riceve si sente orgoglioso di aver prodotto qualcosa di positivo che lo gratifica ed anche chi non viene premiato, ha la soddisfazione di far leggere i propri pensieri, di far conoscere i propri sentimenti, troppo spesso ignorati. Le opere migliori sono pubblicate dalla Regione Toscana nel volume “L’altra Libertà” che, tutti gli anni, raccoglie e diffonde i lavori scelti. Poi ci sono i familiari, sempre umiliati e mortificati che, una volta tanto, ritrovano l’orgoglio per quel figlio o quella figlia che ha sbagliato, ma è stato capace di produrre qualcosa di bello. Emanuele Casalini è stato, insieme alla moglie Lucia tuttora attiva, il promotore del premio: È stato preside del Liceo classico di Piombino per molti anni, ma ha anche tenuto lezioni all’università di Pisa promuovendo corsi su Dante. Negli anni sessanta è stato presidente diocesano della A.C. Impegnato in politica ha ricoperto la carica di capogruppo consiliare della D.C. Si è mostrato sempre sensibile ai problemi del mondo carcerario in particolare nelle case di detenzione di Porto Azzurro e Volterra. Quest’anno alla cerimonia di premiazione, che si svolge al carcere di Livorno è stato invitato il vescovo Giusti. Varese. In edicola il magazine “Cucinare al fresco”, con le ricette d’autunno dei detenuti varesenews.it, 17 novembre 2019 Anche i manicaretti dell’autunno proposti dai detenuti del carcere dei Miogni, in una originale idea editoriale. Nell’ultimo numero la cassoeula alla pavese ma anche la variante cilena, i dolci con le castagne e la pasta con la zucca. Servono idee per un pranzetto fra amici? Oppure per una domenica in famiglia? Non c’è di che preoccuparsi, è tornato in edicola un nuovo numero della rivista “Cucinare al fresco”, l’iniziativa di solidarietà, coordinata da Arianna Augustoni, che vede ai fornelli i detenuti di alcuni Istituti lombardi. “Cucinare al fresco - racconta il direttore della Casa circondariale di Varese, Carla Santandrea - nasce da un laboratorio creato tra le mura del Carcere di Varese come esperienza per rimettersi in gioco attraverso al cucina scelta come linguaggio che unisce e come idea che è possibile compiere dei passi per un riscatto futuro”. L’iniziativa vede coinvolti alcuni detenuti del Miogni di Varese, insieme ai due gruppi di Como/Bassone e della sezione femminile di Bollate, e vanta il supporto di Virginio Ambrosini, storico volontario dell’Istituto varesino e anima di moltissimi laboratori di cucina. Un progetto di riabilitazione e soprattutto di scrittura perché, attraverso queste lezioni, oltre ad approcciare coi fornelli, i partecipanti sono tenuti a scrivere le proprie idee, soprattutto quando si parla di preferenze a tavola, di ricordi, di profumi e di sapori. Un’esercitazione che coinvolge tutti a vario titolo e all’interno della quale vengono raccontate esperienze e idee. Nell’ultimo magazine piatti a base dei prodotti tipici dell’autunno, la cassoeula alla pavese, ma anche la variante cilena, i dolci con le castagne e la pasta con la zucca. Giusto per provocare un po’ di acquolina in bocca. Il progetto è sostenuto dal Lions Club di Cernobbio, ventiquattro pagine di sapori e di saperi perché la cucina è un viaggio di sensazioni e di profumi che accomunano tutti. Per questo numero un contributo d’eccezione, quello dell’ex Provveditore delle carceri della Lombardia Luigi Pagano che ha accettato di redigere la prefazione spiegando l’importanza di queste iniziative. “Il laboratorio Cucinare al fresco è una sintesi dell’importanza del cibo in carcere, non quindi un semplice intrattenimento per ingannare quel tempo infinito, e spesso inutile, che il carcere genera - spiega lo storico dirigente dell’autorità penitenziaria in Lombardia - Non è un caso che tra i diversi progetti che come amministrazione a più riprese abbiamo riproposto c’è stata la creazione di cucine autonome in ogni reparto di cui gli istituti più grandi e affollati si compongono abbinandola a corsi di formazione professionale perché il cibo fosse qualitativamente migliore e quanto più aderente ai gusti delle persone detenute. Chi pensa che ci siamo indotti a realizzare il superfluo non potendo garantire la normalità, un lusso che un carcere non può permettersi pensando alle mille altre cose che non vanno, rifletta solo su un dato: le decine, a volte centinaia di gruppi etnici presenti, alle religioni diverse professate che possono imporre dettami rispetto al genere o alla modalità di cottura del cibo. È un modo per migliorare un servizio fondamentale e, poi, non è detto che la socializzazione tra le persone, dentro o fuori del carcere, o il tragitto che può portare al reinserimento sociale, non passi anche attraverso una felice contaminazione di gusti e pietanze”. L’intero ricavato dalla vendita dei magazine e dei libri viene reinvestito per stampare nuove edizioni ricche di sapore. Torino. Il “Padre nostro” dietro le sbarre di Marina Lomunno Avvenire, 17 novembre 2019 I detenuti pregano per il Papa. Padre Giunti: un modo per ringraziarlo. Il teologo francescano ha scritto un libro insieme a chi si rivolge a Dio dalla “galera”: “Come dice Francesco in cella non dev’essere chiusa la speranza”. Padre Nostro che sei nei cieli, sia sempre rispettato il tuo nome... ho attraversato l’inferno invocando il tuo aiuto, la tua guida mi è stata molto cara affinché non mi perdessi del tutto in questa vita strana... Sto pagando il mio debito, rimetto a te la parola interdetta, così sia ora e per sempre nei secoli”. È il Padre Nostro scritto dietro le sbarre da un detenuto del carcere di Alessandria che padre Beppe Giunti, francescano dei minori conventuali, ha conosciuto durante la sue visite “in galera”. Teologo, formatore della cooperativa sociale “Company & C” che si occupa di reinserimento sociale dei ristretti nel penitenziario alessandrino, vive a Torino nel convento Madonna della Guardia. Ed è autore del libro “Padre nostro che sei in galera” (Edizioni Il Messaggero di Padova) scritto con i “fratelli briganti”, come san Francesco chiamava le persone cadute nelle maglie del crimine. La sua invocazione suona tanto più attuale alla luce dell’iniziativa lanciata da don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani delle carceri, di invitare tutti i detenuti italiani, in occasione della terza Giornata mondiale dei poveri, a pregare per papa Francesco. “Fin dall’inizio del suo pontificato - la sua prima visita l’ha riservata al carcere minorile di Casal del Marmo -il Papa ha sempre avuto una particolare attenzione alle persone detenute, i poveri dei poveri perché sono privi della libertà, considerati gli scarti della società, quelli per cui qualcuno vorrebbe gettare la chiave e far marcire nelle celle”, afferma padre Giunti. “Sono briganti, come dice san Francesco ma nostri fratelli: chi ha commesso un reato è chiamato a pagare il proprio debito con la giustizia ma rimane un uomo. E per noi cristiani rimane un figlio di Dio. Per quest’attenzione particolare che il Papa riserva al mondo carcerario, mentre la Chiesa dedica una Giornata ai poveri, i poveri dietro le sbarre pregheranno per lui: per ringraziarlo perché non dimentica mai chi vive la detenzione e con le sue parole anche di denuncia - come è accaduto per l’ergastolo che il Papa ha più volte definito “un problema da risolvere” - invita tutti a non dimenticare chi vive nelle prigioni”. Il francescano parla spesso della parabola del padre misericordioso durante le sue visite nel carcere di Alessandria, in particolare con i collaboratori di giustizia che nel suo libro ha invitato a rileggere il Padre Nostro. “È un padre che attende il figlio scrutando l’orizzonte. Appena lo vede gli corre incontro. Il figlio ha preparato un discorso ma il padre non lo ascolta, lo abbraccia. Ecco il gesto di papa Francesco con i detenuti: li abbraccia perché come Dio non condanna nessuno alla sua pena. E i carcerati, che nella maggior parte sono persone semplici e hanno bisogno di gesti “forti”, hanno capito che il Papa li accoglie. Oggi la loro preghiera per Francesco, la preghiera dei poveri dietro le sbarre, sarà una restituzione a quell’abbraccio di padre che non giudica”. Padre Giunti richiama le parole di Francesco pronunciate nei giorni scorsi al congresso dell’Associazione internazionale di diritto penale in cui sottolineava “l’uso improprio della custodia cautelare per cui il numero di detenuti senza condanna già supera ampiamente il 50% della popolazione carceraria” o la necessità di mettere in atto le misure alternative alla detenzione in modo che il periodo dello sconto della pena “sia come prevede la nostra Costituzione un tempo per la rieducazione e il reinserimento nella società: solo facendo in modo, come dice il Papa che nelle celle non venga chiusa la speranza e che le carceri non diventino “polveriere di rabbia ma luoghi di recupero”, si può abbattere la recidiva e far voltare pagina a chi ha sbagliato. Il Papa indica la strada per uscire dalle sbarre: i detenuti gli sono grati e pregano per lui”. Terni. Opere pittoriche dei detenuti in mostra al Cenacolo San Marco agensir.it, 17 novembre 2019 “Transiti” è la mostra di opere pittoriche, disegni, versi poetici realizzati dai detenuti della casa circondariale di Terni nell’ambito del progetto “Arte in carcere”, realizzato da Gisella Manuetti Bonelli e promosso dalla Caritas diocesana e dall’associazione di volontariato San Martino. La mostra, allestita nel Cenacolo San Marco di Terni, sarà inaugurata oggi pomeriggio, alle 17, alla presenza degli operatori e rappresentanti del carcere, dei volontari e di alcuni detenuti autori delle opere. L’esposizione, che propone circa 50 opere pittoriche realizzate dai detenuti e decine di poesie e pensieri scritti da alcuni detenuti, resterà aperta fino al 23 novembre dalle 10 alle 12.30 e dalle 16.30 alle 19.30. Le opere potranno essere acquistate con un’offerta in denaro e il ricavato sarà utilizzato per l’acquisto dei materiali per il laboratorio artistico, per le necessità del detenuto autore dell’opera e per un fondo comune. “Per i detenuti che lo frequentano, il laboratorio artistico è diventato un punto di riferimento per socializzare - spiega la coordinatrice del progetto Gisella Manuetti Bonelli - per intraprendere un percorso di introspezione e crescita personale acquisendo elementi tecnici sul disegno e sul colore”. Carinola (Ce). Evento gospel nel carcere, organizzato dal Gmc Onlus ottopagine.it, 17 novembre 2019 Il Pastore Domenico Turco, accompagnato da operatori Gmc Onlus e Crivop, insieme alla Controtempo Band e ai giovani della Chiesa Cristiana Evangelica Adi di Santa Maria Capua Vetere per l’evento gospel nella Casa di Reclusione di Carinola. Oggi presso la casa circondariale di Carinola, in provincia di Caserta, sì è avuto un evento gospel. Il dottor Carlo Brunetti, direttore del Carcere, noto per le sua cospicua attività in ambito carcerario, e non solo, ha dato la possibilità alla Gmc Onlus di poter svolgere un gospel all’interno del penitenziario. “La disponibilità della direzione carceraria è davvero ammirevole”, spiegano dal direttivo Gmc, “il dottor Brunetti, la dottoressa Puglia e i vari collaboratori sono davvero straordinari... È evidente un amore particolare verso il lavoro che svolgono e c’è per noi profonda ammirazione per il proficuo impegno che essi attuano nel reinserimento dei detenuti e nelle varie attività che svolgono e programmano per tanti che dalla società risultano essere emarginati” Il gruppo gospel di Benevento, Controtempo Band, sì è esibito all’interno del teatro della casa di reclusione, cantando e suonando inni di lode a Dio. Da tempo, ormai, questo gruppo musicale svolge questa attività nelle carceri di tutta Italia, proponendo il Vangelo ai reclusi, scrivendo e cantando cantici. Domenico Turco, pastore della Chiesa Cristiana Evangelica Adi di Santa Maria Capua Vetere, organizzatore dell’evento, ha presenziato la riunione, esponendo il messaggio dalla Parola di Dio. La riunione ha visto la partecipazione di operatori Gmc Onlus, la presidente dell’associazione Garofalo, operatori Crivop, alcuni giovani della comunità evangelica sopra citata, la direzione del carcere, diversi poliziotti penitenziari ma, soprattutto, più di 80 detenuti. “Un evento davvero straordinario”, spiegano dalla gmc, “che ha visto la partecipazione attiva di tantissime persone, le quali hanno potuto ascoltare lodi al Signore, testimonianze di vite trasformate e il potente messaggio del Vangelo...”. Un’opera quella della Gmc Onlus che trova sempre più condivisioni dalle direzioni carcerarie in Italia, e che non si ferma alle carceri, ma porta anche un sostegno materiale, oltre che spirituale, ai familiari dei reclusi, provvedendo così ad un’opera benefica anche da un punto di vista sociale. L’associazione delle Chiese Evangeliche Assemblee di Dio in Italia, di cui la Gmc Onlus fa parte, risulta del continuo attiva in ambito sociale, oltre che spirituale, e attraverso la promozione di svariate attività, risulta avere un ruolo importante nella nostra nazione. Ancora in programma eventi per il Gruppo Missionario Carcerario nei prossimi mesi. Teatro-carcere. Viaggio a Shanghai per Vito Minoia, ospite dell’Unesco teatroaenigma.it, 17 novembre 2019 Per la International University Theatre Association e per il nuovo International Network Theatre in Prison. Un doppio intervento attende Vito Minoia (studioso di Pedagogia del Teatro e direttore del Teatro Universitario Aenigma all’università di Urbino Carlo Bo) nelle giornate che vanno dal 18 al 20 novembre a Shanghai, in Cina. Minoia, Presidente dell’Associazione Mondiale del Teatro Universitario illustrerà il lavoro svolto dalla Associazione che riunisce le esperienze di teatro in oltre cinquanta Paesi di Cinque continenti, fondata nel 1994 all’Università di Liegi in Belgio e che sta organizzando a Manila (Filippine) per il prossimo mese di Agosto (dal 24 al 31) il XIII Congresso Mondiale con il titolo “The University Theatre as Social and Cultural Agent”. Proprio a Shanghai sarà presentato ufficialmente l’evento davanti ai delegati dell’Istituto Internazionale del Teatro dell’Unesco e grazie alla partecipazione di Arsenio Lizaso, Vicepresidente Iuta e Presidente del Centro Culturale Nazionale delle Filippine. Altro traguardo storicamente rilevante riguarda il secondo intervento del Prof. Minoia, che per la prima volta, come Coordinatore del nuovo Network Internazionale di Teatro in Carcere (Intip), rappresenterà l’identità e la voce di chi, con grande dignità, sta sviluppando in diversi contesti internazionali, un lavoro artistico con profonde radici etiche e significative manifestazioni estetiche. Alla luce della buona pratica del Coordinamento italiano di Teatro in Carcere (Cntic), che oggi riunisce oltre 50 esperienze da 15 Regioni differenti, a Marzo scorso una delegazione dell’Istituto Internazionale del Teatro dell’Unesco diretta dal suo Direttore Generale Tobias Biancone, ha celebrato la Giornata Mondiale del Teatro non presso il proprio quartiere generale di Parigi ma nell’istituto penitenziario di Pesaro, sostenendo con grande rispetto gli operatori teatrali, i detenuti e gli operatori penitenziari che con impegno educativo rendono possibili esperienze uniche e fortemente positive anche per l’impatto sociale che ne deriva (i più recenti studi rivelano un abbattimento della recidiva dal 70 al 7% per chi pratica con impegno l’arte scenica in carcere). Da qui la nascita ed il riconoscimento istituzionale del nuovo Network che ha avuto il suo avvio grazie ai lavori del XX Convegno promosso dalla Rivista europea “Catarsi, teatri delle diversità” (e dalla nuova Rivista di Educazione e Formazione “Cercare, carcere anagramma di”) a Urbania dall’1 al 3 novembre 2019 “Emanciparsi dalla subalternità: Teatro, Sport e Letteratura in Carcere”. Esponenti da Italia, Stati Uniti, Grecia, Polonia, Cile, Argentina, Giappone, Olanda, Libano, Spagna, Francia dopo Urbania sono pronti a relazionarsi, a migliorare le proprie pratiche attraverso nuove vive relazioni istituzionali e a promuovere ulteriormente questa forma espressiva anche in Regioni del mondo che non l’hanno ancora sperimentata, come forma di liberazione attraverso una rigenerata consapevolezza del sé individuale e sociale (appena varato il sito “Theatreinprison” - link, per ora, teatroaenigma.wixsite.com/theatreinprison). Dopo il “Premio Internazionale Gramsci per il Teatro in Carcere” attribuito a Michelina Capato (E.s.t.i.a. Teatro presso il carcere di Bollate a Milano) il 3 novembre a Urbania, ancora un Premio a cura della Associazione Nazionale dei Critici di Teatro (Anct) insieme alla Rivista Europea “Catarsi, Teatri delle diversità” il 16 novembre 2019 al Teatro “Magnolfi” di Prato riconosce il lavoro di Ludovica Andò e Compagnia AdDentro che recentemente hanno contribuito alla realizzazione del film “Fortezza” ispirato al “Deserto dei Tartari” di Dino Buzzati con i detenuti del carcere di Civitavecchia. L’Istituto Internazionale del Teatro dell’Unesco ha organizzato il Meeting di Shanghai per consentire alle 22 organizzazioni Partners delle Arti Performative nel mondo (Teatro, Danza, Musica, Opera ed altre espressioni dello spettacolo dal vivo) di approfondire una conoscenza reciproca e promuovere nuove relazioni e progetti condivisi, in attesa di dar vita al nuovo progetto dell’ “Iti-Unesco World Performing Arts Capital”. Concludiamo con la significativa suggestione di Francesca Merloni (Goodwill Ambassador for Creative Cities dell’Unesco), alla luce delle più recenti iniziative internazionali originatesi in Italia e che coniugano in una chiave pedagogica il Teatro Universitario e il Teatro in Carcere: “Progetti di parola e opera, là dove il suono è più intenso … e la parola, che si fa più forte nei palcoscenici dell’esistenza, ci costringe a osservarci da dentro”. La dimensione politica della disunità d’Italia di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 17 novembre 2019 La polemica tra Nord e Sud (in questo caso tra Milano e il Sud) aperta dal ministro Provenzano non appare episodica ma la spia di un disagio profondo. Nei giorni scorsi è nuovamente divampata l’eterna polemica tra Nord e Sud, in questo caso tra Milano e il Sud, aperta dal ministro Provenzano (che sul Sud ha la delega). Soffocata in fretta con qualche imbarazzo, ma tutt’altro che episodica e spia di un disagio profondo. “Milano attrae ma non restituisce quasi più nulla” ha sentenziato il ministro. “Restituiamo nella misura in cui ci viene chiesto e per come ci è consentito fare”, ha risposto il sindaco Sala. Il ministro ha infine fatto retromarcia, “Milano è un esempio, è l’Italia in ritardo”. Ma, al di là del siparietto politico tra due esponenti dello stesso partito (uno del Nord e uno del Sud: elemento, vedremo, forse decisivo), quella di Provenzano è tutt’altro che una voce dal sen fuggita. Riflette una visione del Paese di una parte consistente della sinistra ora al governo (la stessa che spinge il sindaco napoletano de Magistris, davanti al dramma di Venezia, a dolersi addirittura di una “discriminazione” a causa della quale “quando accadono cose del genere al Sud c’è molta meno attenzione”). Provenzano prima di entrare nell’esecutivo Conte faceva il vicedirettore di Svimez, l’autorevole istituto che studia lo sviluppo e le condizioni socioeconomiche del nostro Mezzogiorno. Una breve sintesi dell’ultimo rapporto sul Sud dice molto dello sconforto sotteso alla “battuta” su Milano: dal 2000, in quasi 20 anni, 2 milioni di persone lasciano il Sud e la metà sono giovani; le nascite sono al minimo storico; la ripresa dell’occupazione tocca solo il Centro Nord; il reddito di cittadinanza allevia la povertà ma allontana dal lavoro; continua l’emigrazione ospedaliera; aumentano i giovani che, al massimo con la terza media, abbandonano studio e formazione professionale. Più che una questione, un disastro meridionale. Ma ciò che più ci aiuta a capire la querelle è un altro lavoro Svimez (con Provenzano allora pienamente operativo nell’istituto): all’inizio della scorsa estate, mentre divampava la battaglia sulle autonomie differenziate, Svimez rovescia il totem del maggiore flusso di risorse pubbliche passate al Sud a detrimento del Nord (alla base del “diritto di restituzione” sotteso alla richiesta di autonomia differenziata). Quel totem, sostiene l’istituto, si fonda sui dati della Ragioneria generale che “regionalizza” solo il 43% di queste risorse; assumendo invece come riferimento il Sistema dei conti pubblici territoriali si arriva a un complesso di spese pubbliche che, oltre al bilancio dello Stato, comprende enti previdenziali ed altri fondi fino alle Spa di controllo pubblico, talché in questa diversa classifica dei trasferimenti pubblici il Mezzogiorno finisce in fondo e le Regioni del Nord risalgono molte posizioni. Corretta o meno che sia l’analisi, la sortita su Milano è, parafrasando Von Clausewitz, esattamente questo dossier Svimez spiegato da un altro pulpito. Gramsci scriveva che nel Risorgimento si manifesta già, embrionalmente, “il rapporto storico tra Nord e Sud come un rapporto simile a quello tra una grande città e una grande campagna…” (e non a caso propugnava la necessità di una saldatura tra città e campagna). E aggiungeva che, risultando tale rapporto “tra due vasti territori di tradizione civile e culturale molto diversa, si accentuano gli aspetti e gli elementi di un conflitto di nazionalità”. Un secolo dopo il conflitto “di nazionalità”, lungi dall’essere superato, ha assunto contorni nuovi, perché su di esso sono andate addirittura modellandosi le nostre forze politiche. Se i grandi partiti del dopoguerra furono trasversali rispetto alla questione meridionale e a quella settentrionale che pure è esistita ed esiste (interpretandole assai diversamente ma incarnandole entrambe), i due partiti egemoni nella prima fase della cosiddetta Terza repubblica hanno avuto constituency molto divise per territorio, la Lega al Nord e i Cinque Stelle al Sud (al netto dello sforzo di Matteo Salvini di sfondare… la linea gotica con una propaganda ultranazionalista). Il Pd zingarettiano, a fronte della crisi dei Cinque Stelle, pare adesso puntare ad assorbirne l’elettorato. Ma questo elettorato, meridionale e cronicamente svantaggiato, chiede assistenza e protezione (i Cinque Stelle vinsero nel 2018 con il reddito di cittadinanza, poco più che un voto di scambio, letto ex post). Ora, il rischio è che un Pd “derenzizzato” anziché attrarre a sé le ragioni del grillismo se ne faccia risucchiare, trasformandosi (come paventa il Foglio) da partito meridionalista a partito meridionale: la gestione disastrosa dello scudo penale nel caso Ilva e l’imposizione suicida della plastic tax che va a colpire soprattutto le imprese della “rossa Emilia-Romagna” sembrano altrettante conferme di questa traiettoria, diciamo così, di movimentismo sudista. La faccenda può avere effetti non proprio collaterali. Primo: l’addio tout court alle autonomie invocate dal Nord (e, se è sacrosanto tenere duro su scuola e sanità perché attengono all’unità nazionale, può essere pericoloso alzare un muro di gomma contro tutte le richieste). Secondo: l’ulteriore radicalizzazione della divisione del Paese, con l’alibi della spoliazione che dalle frange neoborboniche attecchirebbe vieppiù nella narrazione meridionale. Nonostante le rassicuranti dichiarazioni successive, Provenzano e Sala non sembrano politici di due partiti ma di due nazioni diverse. Un problema per la sinistra, certo. Ma anche per l’Italia: perché la malattia denunciata da Svimez è grave, forse cronica, e tuttavia revanscismo e autocommiserazione sono le medicine peggiori. “Noi, malati di tumore, perseguitati dalle aziende per cui lavoriamo” di Maurizio Di Fazio L’Espresso, 17 novembre 2019 Orari impossibili, mansioni punitive, privacy violata. Così le imprese tendono a sbarazzarsi dei dipendenti malati. E spesso ci riescono. Il cancro e il lavoro. Il male del secolo e l’umanità in azienda. Chi viene colpito da un tumore deve lottare spesso due volte: contro la peggiore delle malattie, e contro mobbing e cinismo sul posto di lavoro. Diventa un fardello, un intralcio al totem produttivo. Viene adibito a funzioni durissime, come se avesse ormai le ore contate, o destinato a compiti perfettamente inutili. E pensare che la cura di un paziente oncologico passa anche per il potere continuare a svolgere le normali attività di tutti i giorni. Comprese quelle lavorative. C’è chi è costretto a licenziarsi, e c’è chi resiste, magari al prezzo d’aggravarsi di salute. Il cancro in età lavorativa è un problema che nel nostro paese coinvolge più di un milione di persone (dati dell’associazione italiana registri tumori). L’ultima indagine Favo-Censis ci racconta che ben 274 mila connazionali sono stati licenziati o indotti alle dimissioni dopo una diagnosi tumorale. I casi sono a migliaia, ma restano per lo più sommersi. La stragrande maggioranza preferisce infatti non palesarsi: si vergogna di questo “cancro aggiuntivo” che divora le sue speranze. Qualche lavoratore ha però accettato di raccontarci la sua storia. Gloria ha 45 anni e lavora nella grande distribuzione organizzata, come cassiera in un ipermercato. Passa le merci allo scanner dei prezzi. Ha avuto due tumori al seno, più una recidiva. In tutto tre operazioni, di quelle invasive. “Ho dovuto ricostruirmi entrambi i seni, e anche un braccio e un pezzo di schiena. Ma sulle prime l’azienda per cui lavoro non mi ha riconosciuto la malattia. Per loro, i miei erano interventi di chirurgia plastica. Roba estetica, insomma. Roba da pazzi”. Poi ha inizio il carosello, o meglio, il “martirio invisibile” degli orari impossibili. “Ero appena uscita da un ciclo massiccio di chemio e radio. Avevo diritto a due ore al giorno di riposo, grazie alla legge 104. Ma la mia azienda ha cominciato a crearmi degli orari assurdi, concepiti apposta per portarmi al licenziamento. Invece di dividermi il monte-ore equamente, me ne mettevano poche un giorno e tante un altro. Non consentendomi così di fruire delle due ore quotidiane di riposo prescritte per legge”. In alcuni giorni Gloria riposa solo un’ora, in altri le canoniche due; ma nel frattempo il suo orario è stato allargato, alla chetichella, a dismisura. Adesso la donna lavora non più quattro, ma anche cinque o sei ore al dì. A un certo punto getta la spugna e si licenzia. “Certo, mi aiutava molto il fatto di uscire di casa, la ricerca di una parvenza di normalità… ma non ce la facevo più ad andare avanti a quelle condizioni. Con quei turni massacranti e schizofrenici. Alla quinta ora di fila, mi diventava tutto pesante e insostenibile. Con le operazioni che ho avuto io, poi, scansionare i prodotti a un ritmo vorticoso al codice a barre è una tortura medievale. Mi hanno costretta, di fatto, ad andarmene, a mettermi in malattia”. Oggi Gloria è in cura dallo psicologo. A farle male, più della malattia, è stato il comportamento machiavellico del suo ex datore di lavoro. Molti tengono segreta la malattia, temendo lo stigma aziendale. E c’è ancora chi si mette in ferie per effettuare gli esami e le cure di prassi. Eppure esiste tutta una serie di diritti conquistati nel corso del tempo. La leva su cui poggiano è quasi sempre la legge 104 del 1992, che tutela le persone disabili. I lavoratori malati di cancro possono essere equiparati ai portatori di handicap gravi, e in quanto tali lavorare nella sede più vicina al loro domicilio, svolgere mansioni adeguate alla loro capacità lavorativa (a parità di stipendio), essere esentati dai turni di notte e avere accesso al part-time durante i trattamenti. Sempre grazie alla 104, i malati oncologici fruiscono di permessi retribuiti, pari a due ore al giorno come abbiamo visto nel caso di Gloria o a tre giorni continuativi o frazionati. C’è poi il cosiddetto “periodo di comporto”, la cui durata varia a seconda del tipo di contratto collettivo nazionale di categoria. Nel corso di questa fase, il lavoratore (a cui verrà corrisposto un salario ridotto) è libero di assentarsi senza che l’azienda possa licenziarlo. Superato il tetto massimo consentito, è invece possibile cacciarlo anche se è ancora malato. Nel commercio e nei servizi, e nel settore privato, il periodo di comporto dura 180 giorni, diluiti in un anno solare. Nel pubblico impiego sale a 18 mesi (sempre frazionati) nel triennio. Nel caso dei metalmeccanici e degli autotrasportatori, il periodo di comporto è secco (un unico, lungo blocco di allontanamento dal lavoro) e oscilla in base all’anzianità di servizio del lavoratore malato. Il limite invalicabile è di un anno di assenza semi-retribuita. Antonietta ha trentacinque anni. È, o meglio era, una commessa. Pesa 45 chili: ha difficoltà a nutrirsi a causa di un linfoma. Può mangiare solo a orari fissi. Dovendosi assentare per le sue cure, si è vista bollare come assenteista, con tanto di campagna denigratoria orchestrata dall’alto, nonostante i vertici la conoscessero bene la verità. “Molti miei colleghi stavano cominciando a crederci alle parole dei nostri capi, che mi dipingevano come una negligente, “quella che non lavora mai”. Manco andassi a ballare in quelle ore, e non a bombardarmi di chemio”. La sua odissea è punteggiata da mille episodi spiacevoli, umiliazioni e variazioni speciose sul tema: “Cercavano di procurarmi inciampi con gli orari, e guadagnarmi una visita era, ogni volta, una battaglia. “Dammi prima il certificato”: era questo il loro mantra-standard”. Eppure la certificazione è appannaggio del medico aziendale, e non può o non dovrebbe finire sotto gli occhi del management. Altrimenti vivremmo in un Stato di polizia sanitaria, e i lavoratori sotto ricatto. Anche lei va dallo psicologo. “Lo Stato dovrebbe intervenire urgentemente. Soprattutto nel privato. Occorrono regole e paletti. È una guerra che noi combattiamo e combatteremo nei posti di lavoro, ma non è sufficiente”, spiega Francesco Iacovone del direttivo Cobas nazionale, tra i più attivi su questo fronte. I malati oncologici dovrebbero lavorare il giusto, senza queste montagne russe ingenerose e insalubri. Per fortuna non funziona sempre così: esistono aziende, come le cooperative di consumo, che tutelano chi ha un tumore, e garantiscono loro il mantenimento dell’occupazione anche dopo il periodo di comporto. C’è inoltre un aspetto su cui riflettere: perché la tutela arriva al massimo a 18 mesi, quando un malato di cancro può dirsi guarito solo dopo cinque anni e prima di allora le recidive sono in agguato?”. Mario ha 56 anni, e un tumore alla prostata. Ha un contratto a tempo indeterminato come addetto amministrativo in un negozio di un brand del lusso. Il suo era un lavoro di responsabilità. Stava in ufficio, dietro le quinte. Ma da quando s’è ammalato gli tocca infilare i soldi nella cassa continua del bancomat, e basta. Davanti allo sguardo indiscreto dei colleghi e soprattutto dei clienti di passaggio. Perché dopo l’operazione soffre di incontinenza, corre in bagno ogni mezz’ora. Un pubblico ludibrio che si ripete tutti i giorni. E sta lì ad aspettare che la cassiera gli passi l’incasso per versarlo. Prima e dopo non ha nulla da fare. “Mi fanno fare soltanto questo e mi sento inutile, superfluo. Ed è così imbarazzante far vedere a tutti che non sto bene. Cosa darei per tornare nel guscio protettivo del mio ufficio, alle mie vecchie mansioni”. Mario è seguito da uno psichiatra. L’articolo 32 della nostra Costituzione mette la tutela della salute tra i diritti fondamentali della persona. Ecco perché esiste, per esempio, il sopraccitato periodo di comporto. Ma non basta, e la dignità di questi malati gravissimi è troppo spesso calpestata. Serve una legge nazionale organica, perché i diritti fin qui acquisiti sono frutto dei piccoli frammenti finiti all’interno di qualche legge di riforma del lavoro, del livellamento allo status di disabile o portatore d’handicap, dei vari contratti collettivi nazionali e del “buon cuore” delle singole aziende. La stessa Aimac, l’associazione italiana dei malati di cancro, chiede da tempo una legge-quadro sul malato oncologico. “La disabilità oncologica è la nuova disabilità di massa, ma questo paziente ha esigenze peculiari perché la sua malattia ha un andamento ciclico e altalenante”, ha dichiarato Elisabetta Iannelli, vicepresidente dell’Aimac. “Le leggi vigenti sono pensate invece per le cronicità stabilizzate”. A rimetterci è soprattutto il mondo del lavoro. Da un tumore si può guarire, dal “cancro in azienda” no. Stati Uniti. Uccisioni e selfie con i cadaveri, tre militari graziati da Trump di Anna Guaita Il Messaggero, 17 novembre 2019 Ne parlava da vari mesi, ma i capi del Pentagono si erano detti contrari e avevano tentato di dissuaderlo: “Daremmo un cattivo esempio” avevano sostenuto. Donald Trump ha deciso di non dar loro retta e ieri ha annunciato la grazia per tre militari accusati di aver commesso crimini di guerra. Si tratta del tenente dell’esercito Clint Lorance, del Navy Seal Edward Gallaher e del maggiore dei Berretti Verdi Matt Golsteyn. Lorance era in prigione da sei anni, condannato a 19 anni per aver dato ordine al suo plotone in Afghanistan nel 2012 di sparare contro tre giovani in motocicletta che si sono poi rivelati disarmati. Due dei tre giovani erano rimasti uccisi. Gallagher, assolto dall’aver ucciso un combattente Isis prigioniero in Iraq nel 2017, è finito in prigione per essersi fatto fotografare accanto al cadavere. Golsteyn ha confessato in tv nel 2016 di aver ucciso nel 2010 in Afghanistan un terrorista che era stato rilasciato e che lui temeva sarebbe tornato a costruire bombe. Il processo contro Gosteyn si doveva tenere il prossimo febbraio, e sul capo gli pendeva una condanna all’ergastolo. Ora tutti e tre gli uomini sono liberi, riprendono il grado che avevano nei rispettivi corpi prima dei processi e sono estremamente grati a Trump. La Casa Bianca ha chiarito che “in quanto comandante in capo, il presidente è il responsabile ultimo per l’attuazione della legge e, quando appropriato, per la concessione del perdono”. Con la grazia, si sottolinea, si vuole “dare una seconda opportunità”. Trump aveva varie volte sostenuto: “Quando i soldati combattono per il nostro Paese, bisogna dar loro la fiducia per farlo”. Lo scorso 12 ottobre, mentre stava studiando il caso di Golsteyn aveva twittato: “Matthew è un Berretto Verde altamente decorato che viene processato per aver ucciso un talebano che produceva bombe. Noi addestriamo i nostri ragazzi a uccidere e poi li processiamo quando uccidono!”. La decisione del presidente ha però riscosso le critiche della American Civil Liberties Union: “un messaggio di disprezzo per la legge, la moralità, la giustizia militare, e per tutti coloro che nelle forze armate rispettano la legge”. Anche al Pentagono non sono soddisfatti di questo passo. I tre uomini erano stati o dovevano essere giudicati da tribunali militari, che si sono così visti surclassati o ignorati. Hong Kong. Soldati nelle strade, il timore che si prepari un assalto di Guido Santevecchi Corriere della Sera, 17 novembre 2019 I militari cinesi in abiti civili per la prima volta fuori dalle caserme. Un segnale?. Operazione popolarità: i militari dell’Esercito di Pechino mettono in ordine in strada. Ma le opposizioni protestano. Un soldato: “È un’iniziativa spontanea, diamo una mano”. I soldati cinesi. Per la prima volta in questa crisi oggi sono usciti dalle caserme e si sono visti nelle strade di Hong Kong i militari della guarnigione dell’Esercito popolare di liberazione. In maglietta verde oliva e calzoncini corti alcune squadre sono state impegnate per ripulire le strade dai detriti della guerriglia, mattoni piazzati dagli studenti vicino alla Baptist University a Kowloon, sulla terraferma di fronte all’isola. L’esercito ha una delle sue caserme lì vicino e alcune decine di soldati sono usciti, in una colonna non troppo marziale, per mettersi al lavoro e aiutare un gruppo di cittadini che si erano messi al lavoro spontaneamente per togliere i blocchi. Lavori socialmente utili in un sabato di sole e calma. Ma il clima di sospetto e rancore è strisciante. La deputata democratica Claudia Mo ha subito denunciato l’attività sui social network: “Soldati mandati fuori dalle caserme. Su invito della governatrice Carrie Lam? Un atto contro la Garrison Law della nostra costituzione? Un modo per abituare la gente all’intervento militare?”. Ci sono almeno 12 mila militari cinesi nell’ex colonia britannica. Hanno il compito costituzionale di difendere il territorio in caso di attacco esterno naturalmente, ma non di intervenire per ordine pubblico. Però, in questi cinque mesi di protesta democratica e anti-cinese, di violenze gravi e ricorrenti, da Pechino si sono levate voci minacciose per evocare il ricorso alla forza militare. Un soldato della squadra di rimozione dei blocchi ha detto che la loro azione di oggi non ha niente a che fare con la politica e il governo di Hong Kong. “Siamo noi che ci siamo mossi per aiutare”. Poi, come riferisce il “South China Morning Post”, il militare in T-shirt verde oliva ha aggiunto: “Fermare la violenza e porre fine al caos è una nostra responsabilità”. Questa è una citazione da Xi Jinping, il presidente cinese nonché presidente della Commissione militare centrale e sembra ispirata dal comando dell’Esercito a Hong Kong, tanto per ricordare ai “ribelli” che “il potere viene dalla canna del fucile” (questa invece è una frase cara a Mao Zedong). Il plotone dei lavori socialmente utili oggi è arrivato a passo di corsa, munito di secchi per la raccolta dei mattoni, ha ripulito il tratto di strada ed è rientrato sempre a passo di corsa. In base alla Legge sulla Guarnigione di Hong Kong e la Basic Law, la costituzione speciale del territorio, i soldati cinesi non debbono interferire negli affari locali, ma possono essere chiamati dal governo della città in caso di calamità naturali o eventi di ordine pubblico straordinari. La richiesta non c’è mai stata nei 22 anni da quando Hong Kong è tornata alla Cina. Ma l’anno scorso a ottobre 400 soldati hanno dato una mano a ripulire le strade dopo il passaggio del tifone Mangkhut. I detriti della protesta attuale evidentemente sono come quelli della tempesta subtropicale. Nigeria. Come in un film dell’orrore, violenze e catene per i malati mentali di Cornelia Toelgyes africa-express.info, 17 novembre 2019 Rinchiusi, incatenati, maltrattati, soggetti ad abusi indescrivibili: non è un film horror, bensì la condizione di migliaia di malati psichiatrici in Nigeria. Lo demuncia Human Rights Watch nel suo rapporto pubblicato lunedì scorso. La Ong ha chiesto al governo di Abuja controlli urgenti alle strutture statali e private che “accolgono” questi malati, davvero tanti nel Paese. Nel gigante dell’Africa è prassi comune incatenare, rinchiudere, gestire il paziente psichiatrico con violenza, sia negli ospedali statali, che in strutture di riabilitazione, presidi tradizionali, in centri islamici e cristiani. Emina Cerimovic, ricercatrice per i diritti di disabili di Hrw, ha precisato che i pazienti psichiatrici sono costretti a subire inimmaginabili vessazioni di ogni genere per anni senza potersi difendere. Negli ultimi mesi la polizia nigeriana ha liberato in varie città del Paese, in particolare nel nord, centinaia di giovani in diversi centri islamici di riabilitazione che si spacciavano per scuole coraniche. Gli agenti hanno trovato molti ragazzi in uno stato di totale degrado, tra loro parecchi erano incatenati, con evidenti segni di violenza su tutto il corpo. Secondo i rapporti delle forze dell’ordine, i metodi disumani erano volti a “raddrizzare” gli alunni. Molti detenuti di queste scuole hanno riferito di aver subito anche abusi sessuali. Da settembre a oggi la polizia ha liberato oltre 1500 persone, relegate in istituti abusivi. In tale occasione il presidente, Muhammadu Buhari, aveva dichiarato: “Nessun governo democratico responsabile può tollerare l’esistenza di camere di tortura e abusi fisici di giovani in nome della riabilitazione delle vittime”. Hrw ha criticato Abuja, perché tali abusi si consumano anche nelle strutture statali. Tra settembre 2018 e settembre 2019, la Ong ha visitato 28 strutture per malati di mente in 8 Stati del Paese, compreso il territorio federale della capitale. La maggior parte dei pazienti, compresi bambini, erano stati internati contro la loro volontà, generalmente costretti dai parenti. In Nigeria i malati mentali spesso vengono arrestati dalla polizia che li trasferisce in strutture psichiatriche riabilitative, dove i più sono incatenati a una o a tutte e due caviglie, legati a oggetti pesanti o a un altro paziente. In molti casi restano in tale condizione per mesi, a volte anche anni. Nel suo esposto Hrw ha precisato che i malcapitati non possono uscire, sono confinati in stanze sovraffollate, in condizioni igieniche più che precarie. Non di rado sono costretti a mangiare, dormire e svolgere i propri bisogni fisiologici nello stesso ambiente. Subiscono abusi fisici e emozionali, ovviamente vengono costretti a seguire terapie che ne annientano la volontà. Nei centri islamici i pazienti vengono frustati, riportando spesso ferite profonde. Mentre nelle case di cura rette da cristiani, i malati vengono costretti a digiunare per alcuni giorni. I responsabili di tali strutture considerano l’astinenza da cibo come cura. Sia in quelle tradizionali e a volte anche in quelle cristiane, gli ospiti vengono forzati a bere intrugli di erbe disgustosi. Anche negli ospedali psichiatri statali i pazienti sono forzatamente obbligati, a seguire le cure prescritte e un’infermiera ha rivelato a Hrw che vengono effettuate terapie elettroconvulsivanti senza il consenso del malato. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità un nigeriano su quattro soffrirebbe di disturbi mentali. Purtroppo nella ex colonia britannica questi pazienti non possono godere di cure appropriate, sia per il magro budget che lo Stato mette a disposizione, sia per la cronica mancanza di personale specializzato. Lo scorso anno il governo aveva stabilito un budget di 372.000 dollari per l’ospedale psichiatrico statale di Yaba - nella periferia di Lagos, la capitale economica del Paese - come spesso accade, infine ne sono stati devoluti meno del 10 per cento della somma prevista, vale a dire 36.000 dollari. Eppure la Nigeria è firmataria insieme a altri venti Paesi dell’Unione Africana della dichiarazione di Abuja del 2001. In tale documento gli Stati in questione hanno promesso di destinare il 15 per cento delle entrate al ministero della Sanità. Peccato che lo scorso anno Buhari ne abbia devoluto solamente il 3,95 per cento, ma ha promesso che per il 2020 avrebbe messo a disposizione il 4,3 per cento. In base a un rapporto di Oms, la Nigeria avrebbe il più alto tasso di persone affette da depressione in Africa e si posiziona al quinto posto su scala mondiale per il numero di suicidi. In questo immenso Paese, che conta oltre 200 milioni di abitanti, ci sono solamente otto ospedali neuropsichiatrici, con un budget ridotto all’osso, con medici sempre pronti a scioperare o fare i bagagli per andare a lavorare all’estero. La Nigeria è il settimo Paese per abitanti al mondo e attualmente ci sono solamente 150 psichiatri. L’OMS ritiene che solamente il 10 per cento dei pazienti che soffrono di patologie mentali ricevano cure adeguate. Ancora sangue nella Bolivia a un passo dalla guerra civile di Lucia Capuzzi Avvenire, 17 novembre 2019 L’atmosfera è esplosiva. La Bolivia rischia di andare “fuori controllo se le autorità non gestiscono la situazione con attenzione”. Parola dell’Onu che, per bocca dell’Alto commissario per i diritti umani, Michelle Bachelet, insieme alla Commissione interamericana, ha denunciato “l’utilizzo sproporzionato della forza da parte di agenti e militari” dopo le ennesime violenze nella notte tra venerdì e sabato. Epicentro del conflitto la regione del Chaparé, roccaforte dei sostenitori di Evo Morales, in autoesilio in Messico dopo le dimissioni, domenica scorsa. I “cocaleros” di Sacaba - produttori di foglia di coca, settore da cui proviene lo stesso Morales - hanno organizzato una marcia verso Cochabamba per protestare contro il governo ad interim guidato da Jeanine Afiez, esponente dell’opposizione. Negli scontri con le forze di sicurezza, nove contadini sono stati uccisi, altri venti sono rimasti feriti. Il tragico bilancio delle proteste di segno opposto, in atto dalle elezioni del 20 ottobre, è salito, così, a diciannove vittime -14 nell’ultima settimana - 550 feriti e oltre seicento arrestati. A La Paz e a El Alto, ci sono stati combattimenti tra migliaia di “pochos rojos” - fedelissimi del precedente presidente - e la polizia. L’uscita di scena di Morales - accusato dall’Organizzazione degli Stati americani (Osa) di brogli e costretto a lasciare su “suggerimento” delle forze armate - non solo non ha risolto la crisi. Bensì l’ha esacerbata. L’intervento dei militari ha consentito a quest’ultimo di imputare la propria caduta a un “golpe”. Da Città del Messico, Evo, come lo chiamano i boliviani, continua a ripeterlo. “La mia colpa è di essere il primo leader indigeno” afferma colui che, pur di correre a un quarto mandato, non ha esitato a forzare la Costituzione e a ignorare l’esito del referendum del 2016. Nell’ultimo appello, in realtà, Morales ha cercato di abbassare i toni, invitando al dialogo con l’opposizione e dicendosi disposto a farsi da parte. La tensione, però, a La Paz non è diminuita. A tenerla elevata contribuisce il peso crescente dell’ala radicale nel movimento anti-Morales, inizialmente, variegato sotto il profilo sociale. Ora, invece, a prevalere sono i comitati civici - in particolare quello di Santa Cruz che fa capo a Luis Camacho - vicini all’élite non indigena dell’est e da sempre ferocemente anti-Morales. Le prime mosse del nuovo esecutivo ne sono la dimostrazione. A poche ore dal dramma di Sacaba, Afiez ha firmato un controverso decreto che esonerai militari da responsabilità penali quando “nelle operazioni per ristabilire l’ordine interno” “agiscano per legittima difesa o stato di necessità”. “È una licenza di uccidere”, ha tuonato il Movimiento al socialismo (Mas), il partito di Morales. Quest’ultimo - che rifiuta la nomina di Afiez, non ratificata dai deputati - ha convocato per martedì una riunione del Parlamento - dove ha la maggioranza di due terzi - per convocare nuove elezioni. La tentazione del “tutto o niente” - quella che ha portato Morales a passare da statista pragmatico, in grado combinare crescita e ridistribuzione a “candidato a oltranza” - resta il principale scoglio alla pacificazione. Questa presuppone il dialogo, come ha sottolineato anche ieri la Conferenza episcopale boliviana. “Chiediamo al governo di astenersi da atti di eccessiva violenza contro i manifestanti”, si legge nell’ultimo comunicato. La posta in gioco è alta. Il principale successo di Morales, oltre all’aver dimezzato la povertà, è l’inclusione degli indigeni maggioranza della popolazione - nella dinamica nazionale. Ora, però, il delicato equilibrio si sta spezzando. E la crisi politica è a un passo dal trasformarsi in guerra civile etnica. Sri Lanka. La Corte suprema blocca il ritorno della pena di morte asianews.it, 17 novembre 2019 La Corte suprema dello Sri Lanka ha bloccato il tentativo del presidente Maithripala Sirisena di riprendere le condanne a morte per i trafficanti di droga. Il tribunale composto da tre giudici ha rimandato la decisione a quando saranno concluse le udienze di tutti i richiedenti, cioè non prima del 10 dicembre prossimo. Il massimo organo giudiziario ha infranto l’obiettivo di Sirisena di vedere l’esecuzione di almeno uno dei quattro spacciatori per i quali ha firmato la condanna a morte prima della scadenza del suo mandato. Di fatto, dato che i maggiori candidati alle prossime elezioni del 16 novembre non si sono espressi sull’argomento, la pena di morte rimane sospesa. Nel Paese la condanna capitale è legale, ma su di essa vige una moratoria dal 1976. Finora, le condanne a morte per narcotraffico sono state commutate in ergastoli. A inizio febbraio Sirisena ha annunciato il ripristino della pena di morte per vie delle carceri “affollate” di narcotrafficanti e spacciatori. La sua scelta è maturata dopo un incontro con l’omologo filippino, Rodrigo Duterte, promotore di una feroce guerra alla droga. Per questo poi è stata lanciata una campagna di reclutamento e sono stati assunti due boia. Dati ufficiali riportano che nello Sri Lanka ci sono 200mila consumatori abituali di sostanze stupefacenti e che il 60% dei 24mila detenuti è incarcerato per spaccio e narcotraffico. Tuttavia i leader cristiani e gli attivisti sostengono che questi numeri non bastino a giustificare l’eliminazione di una vita umana.