“L’ergastolo va ripensato. Giustizia non è giustiziare” di Simona Musco Il Dubbio, 16 novembre 2019 Il discorso di Papa Francesco ai membri dell’Associazione internazionale di Diritto Penale. La condanna della cultura dell’odio, il rammarico per l’abuso delle misure cautelari e l’irrazionalità punitiva, l’arbitrio e gli abusi. E poi il dovere di ripensare la pena dell’ergastolo, per carceri che devono sempre avere un orizzonte, per una giustizia che rispetti la dignità e i diritti umani. Sono parole rivoluzionarie quelle pronunciate ieri da Papa Francesco ai partecipanti al XX Congresso dell’Associazione internazionale di diritto penale. Un diritto che non è riuscito a preservarsi dalle minacce che incombono sulle democrazie, spesso a causa di una “divinizzazione del mercato” che esclude ed infierisce sui più deboli. Gli ambiti toccati dal Papa sono tanti, nel tentativo di offrire ai giuristi un “aiuto”. E la prima sfida è tentare di contenere “l’irrazionalità punitiva, che si manifesta in reclusioni di massa, affollamento e tortura nelle prigioni, arbitrio e abusi nelle forze di sicurezza”, ma anche attraverso “l’abuso della reclusione preventiva e il ripudio delle più elementari garanzie penali e processuali”. Rischi che sono estrema conseguenza di un idealismo penale che, però, ignora i macro-delitti dei poteri economici, responsabili del saccheggio delle risorse naturali del pianeta. Mettendo in guardia dalla corrente punitivista, Francesco ha affrontato la piaga, sempre più grave, degli abusi del potere sanzionatorio. A partire da un “uso arbitrario della carcerazione preventiva”, per la quale il Papa si è detto preoccupato, considerato che in numerose nazioni e regioni “il numero di detenuti senza condanna già supera abbondantemente il 50% della popolazione carceraria. Questo fenomeno - ha aggiunto - contribuisce al deteriorarsi delle condizioni di detenzione ed è causa di un uso illecito delle forze di polizia e militari”, arrivando a ledere il principio “per cui ogni imputato deve essere trattato come innocente” fino a condanna definitiva. Ma è un discorso soprattutto politico quello di Francesco, che ha condannato l’incentivo alla violenza, frutto anche delle riforme sull’istituto della legittima difesa, che hanno consentito di “giustificare crimini commessi da forze di sicurezza come forme legittime del compimento del proprio dovere”. È importante, dunque, un intervento della comunità giuridica, “per evitare che la demagogia punitiva degeneri in incentivo alla violenza”. Condotte “inammissibili in uno Stato di diritto - ha ammonito - e che in genere accompagnano i pregiudizi razzisti e il disprezzo verso le fasce sociali di emarginazione”. Ed è qui che si è innestato il discorso sulla cultura dell’odio, con la ricomparsa di emblemi e azioni tipici del nazismo. “Quando sento qualche discorso di qualche responsabile del governo mi vengono in mente i discorsi di Hitler nel 1934 e nel 1936” e “le sue persecuzioni contro gli ebrei, gli zingari, le persone di orientamento omosessuale”, modello negativo per eccellenza “di cultura dello scarto e dell’odio”. Per il Pontefice “occorre vigilare” ed andare, dunque, verso una giustizia penale restaurativa. In ogni delitto c’è una parte lesa, ma compiere il male, ha ammonito, non giustifica altro male come risposta. “Si tratta di fare giustizia alla vittima, non di giustiziare l’aggressore”, ha aggiunto. E le carceri, ha concluso, “devono guardare ad un reinserimento”, motivo per cui “si deve pensare profondamente al modo di gestire un carcere, di seminare speranza di reinserimento” e “ripensare sul serio l’ergastolo”, per un modello di giustizia basato sul dialogo e l’incontro, in grado di restaurare “i legami intaccati dal delitto”. Parole che hanno colpito i penalisti, ammirati ed entusiasti per il discorso del Pontefice, e che “sono pienamente in sintonia con quanto le Camere penali denunciano da decenni in ordine all’abuso della custodia cautelare e alle sue ricadute sui livelli di civiltà del nostro paese”, ha affermato il presidente dell’Unione delle Camere penali, Gian Domenico Caiazza. “C’è da riflettere amaramente sul fatto che sia necessario una denuncia del Pontefice per mobilitare le coscienze - ha aggiunto - mentre la politica ha del tutto rinunciato al suo ruolo di custode dei valori costituzionali”. Papa Francesco contro vendetta, ergastolo e abuso del carcere di Angela Azzaro Il Riformista, 16 novembre 2019 Mentre una parte del Paese continua a inseguire le sirene del giustizialismo, raccogliendo firme a favore dell’ergastolo, Papa Francesco, incontrando i penalisti internazionali in Vaticano, ha messo in guardia dal ritorno del nazismo e ha polemizzato contro il linguaggio dell’odio, l’ergastolo, la carcerazione preventiva e la legittima difesa. Sono parole durissime, parole bellissime. Durissime contro chi ha riportato il mondo alla legge della vendetta, del sangue, della gogna. Bellissime per chi ancora crede nella democrazia, nei valori costituzionali e umani. “Sono ammirato ed entusiasta per le parole del Pontefice - ha commentato il presidente dell’Unione Camere penali, Gian Domenico Caiazza, tra i partecipanti all’incontro -. Sono pienamente in sintonia con quanto le Camere penali denunciano da decenni in ordine all’abuso della custodia cautelare e alle sue ricadute sui livelli di civiltà del nostro Paese. Ma c’è da riflettere - sottolinea amaro Caiazza - sul fatto che sia necessaria una denuncia del Pontefice per mobilitare le coscienze mentre la politica ha del tutto rinunciato al suo ruolo di custode dei valori costituzionali”. Anche per Papa Francesco la politica oggi è parte del problema, a tal punto che il Papa quando sente certi discorsi pensa a Hitler. “Si riscontrano episodi purtroppo non isolati, nei quali trovano sfogo i disagi sociali sia dei giovani sia degli adulti. Non è un caso che quando sento qualche discorso di qualche responsabile del governo mi vengono in mente i discorsi di Hitler nel 1934 e nel 1936”. Il nazismo - continua Francesco - “con le sue persecuzioni contro gli ebrei, gli zingari, le persone di orientamento omosessuale, rappresenta un modello negativo per eccellenza di cultura dello scarto e dell’odio”. Per questo “occorre vigilare, sia nell’ambito civile sia in quello ecclesiale per evitare ogni compromesso con queste degenerazioni”. Nessuna volontà di minimizzare come tendono a fare alcuni esponenti politici italiani, nessuna intenzione di far finta di nulla, di girarsi dall’altra parte. Francesco tratteggia un quadro a tinte fosche di cui fa parte, a pieno titolo, il giustizialismo. Oggi, sottolinea, corriamo il rischio dell’idealismo penale, quella “visione idealistica che assimila il dover essere alla realtà”. Cioè, spiega, “l’imposizione di una sanzione non può giustificarsi moralmente con la pretesa capacità di rafforzare la fiducia nel sistema normativo”. È questa la parte più teorica che poi lascia spazio ai dati, alle proposte, all’indignazione. Per esempio contro l’ergastolo. No all’ergastolo - “In ogni delitto c’è una parte lesa e ci sono due legami danneggiati. Ho segnalato che tra la pena e il delitto esiste una asimmetria e che il compimento di un male non giustifica l’imposizione di un altro male come risposta. Si tratta di fare giustizia alla vittima, non di giustiziare l’aggressore”. Il modello è Cristo, quel Cristo che subisce la violenza della Croce, ma con la resurrezione porta nel mondo un messaggio di pace e di speranza. Una speranza che per Francesco deve vivere anche nelle carceri, soprattutto nelle carceri, là dove invece una parte della magistratura, dell’informazione e della politica vorrebbe chiudere per sempre le persone. Per il Papa no, quei luoghi devono essere attraversati dalla speranza e c’è solo un modo: dire no all’ergastolo. “Le carceri devono avere una finestra. Occorre ripensare sul serio l’ergastolo”. “Le nostre società sono chiamate ad avanzare verso un modello di giustizia fondato sul dialogo, sull’incontro. Non credo sia una utopia, ma sicuramente una grande sfida”. No alla carcerazione preventiva - È un Papa molto informato, partecipe, quello che parla con i penalisti. Conosce i loro dubbi, le loro angosce, le loro battaglie. come quella fondamentale contro l’abuso della carcerazione preventiva. Francesco si fa uno di loro e dice: “Nel nostro precedente incontro avevo segnalato con preoccupazione l’uso arbitrario della carcerazione preventiva. Purtroppo la situazione si è aggravata in diverse nazioni e regioni, dove il numero dei detenuti senza condanna già supera ampiamente il cinquanta per cento della popolazione carceraria. Questo fenomeno contribuisce al deteriorarsi delle condizioni di detenzione ed è causa di un uso illecito delle forze di polizia e militari per questi fini. La reclusione preventiva, quando è imposta senza che si verifichino circostanze eccezionali o per un periodo eccessivo, lede il principio per cui ogni imputato deve essere trattato come innocente fino a che una condanna definitiva stabilisca la sua colpevolezza”. Lawfare - È un Bergoglio scatenato che attacca la modifica della legittima difesa (“è importante che la comunità giuridica difenda criteri tradizionali per evitare la demagogia punitiva”) e l’uso della giustizia per contrastare gli avversari politici (“lawfare”). Francesco non rinuncia alla sua battaglia contro le speculazioni finanziarie, che considera la causa della crisi ambientale, della povertà, delle immigrazioni, ma proprio per quello distingue tra giustizialismo contro la politica e lotta agli scambi illeciti e ai paradisi fiscali. “Si verifica periodicamente che si faccia ricorso a imputazioni false contro dirigenti politici, avanzate di concerto da mezzi di comunicazione di massa, avversari e organi giudiziari colonizzati. In questo modo, con gli strumenti propri del “lawfare” si strumentalizza la lotta, sempre necessaria contro la corruzione con il fine di combattere governi non graditi, ridurre i diritti sociali e promuovere un sentimento di antipolitica del quale beneficiano coloro che aspirano a esercitare un potere autoritario”. Una vera lezione di Diritto, una lezione di civiltà. Ora non resta che impararlo a memoria. L’ex ministro della giustizia Paola Severino: “Non dimentichiamoci mai del carcere” L’Osservatore Romano, 16 novembre 2019 “Non dimentichiamoci mai del carcere”. Così, con emozione, Paola Severino, presidente dell’Associazione internazionale di diritto penale, ha concluso il suo indirizzo di saluto al Papa. Un appello scaturito dal ricordo personale di una giornata speciale, il 28 marzo 2013, durante la quale lei, all’epoca ministro della Giustizia, accolse il Pontefice nel carcere minorile di Casal del Marmo, dove Francesco volle celebrare la messa “in Coena Domini” del Giovedì santo. “Non dimenticherò mai - ha detto - l’emozione e l’effetto che ha avuto quella visita. Molti di quei ragazzi hanno intrapreso un cammino di redenzione e di cambiamento. E già solo per questo la gioia di quell’incontro si è unita a un’enorme soddisfazione”. Purtroppo, ha aggiunto, “spesso del carcere ci si dimentica. Lo si considera “altro da sé”. E invece quell’esperienza insegna “a tutti noi che siamo vicini alla sofferenza di chi deve subire la pena, a continuare a visitare spesso il carcere”. Del resto, gli insegnamenti del Pontefice, come ha evidenziato la stessa Severino, sono un punto di riferimento e una “guida preziosa” per tutti gli operatori del diritto penale. In particolare, la presidente dell’Associazione ha portato, come esempio, tre grandi temi frequentemente presenti nel magistero pontificio. Innanzitutto quello della corruzione, che “mina le basi del rapporto di fiducia tra i cittadini e le istituzioni e, in senso più ampio, corrode le fondamenta della nostra convivenza civile”. Vi è poi la tutela della “casa comune” con la “necessità di preoccuparci delle generazioni future e di affrontare con consapevolezza e con misure adeguate le sfide che il cambiamento climatico pone”. Infine, ma non ultimo, il ruolo del diritto penale e l’importanza di saper dosare la pena “con prudenza e attenzione, guardando alle persone in carne e ossa”. Su questo aspetto si è soffermata Severino ricordando come il Papa abbia a più riprese sollecitato a ricercare “una giustizia che “oltre che padre sia anche madre”: una giustizia che si sappia naturalmente far carico delle vittime, ma che non dimentichi gli autori dei reati, una giustizia che “sia umanizzatrice, genuinamente riconciliatrice, una giustizia che porti il delinquente, attraverso un cammino educativo e di coraggiosa penitenza, alla riabilitazione e al totale reinserimento nella comunità”. Il diritto penale, ha concluso l’ex ministro, “non deve mai dimenticare di dialogare con ciascun individuo, offrendogli la possibilità di ricomporre la frattura che con il suo comportamento ha arrecato al patto sociale”. L’Associazione internazionale di diritto penale è la più antica associazione a carattere scientifico di giuristi specializzati in discipline penalistiche, conta oltre tremila membri e ha svolto un ruolo di decisiva importanza nella nascita della Corte penale internazionale. Dal 13 novembre e fino a sabato r6 sta celebrando a Roma, presso l’università Luiss Guido Carli, la ventesima edizione del suo congresso mondiale, quest’anno dedicato al rapporto tra giustizia penale e attività d’impresa. Grimaldi (Cappellani): nella giornata dei poveri non scordiamo quelli dietro le sbarre di Luca Liverani Avvenire, 16 novembre 2019 Nella Giornata mondiale dei poveri non dimentichiamoci dei tanti poveri dietro alle sbarre. Dall’Ispettore generale dei cappellani delle carceri un appello a tutti i confratelli e ai volontari. Per don Raffaele Grimaldi il mondo di fuori “deve imparare a coniugare giustizia e misericordia, se no è vendetta”. Ma precisa che l’Appello coinvolge anche le persone detenute: a loro viene chiesto di aiutare il Papa. Come? “Con la preghiera, per sostenerlo nelle difficoltà che attraversa per le sue scelte pastorali. Perché ricordiamoci che Dio ascolta di più la preghiera degli ultimi”. Don Grimaldi, la sua lettera ai cappellani delle carceri chiede di “far crescere di più la consapevolezza che anche nelle nostre carceri sono presenti i poveri, gli emarginati, gli scartati, i senza voce, i bisognosi di essere accolti”… È così. All’interno delle nostre carceri abbiamo tanta povertà. Anche il mondo penitenziario è interpellato dalla Giornata mondiale dei poveri. Ma il sottotitolo della lettera è “Giornata di preghiera nelle carceri per papa Francesco”. Saranno i poveri ad innalzare una supplica per essere vicini a Francesco, che continuamente chiede “non vi dimenticate di pregare per me”. Sappiamo che il Pontefice vive delle difficoltà causate dalle sue scelte pastorali. E noi gli siamo vicini perché sappiamo la sua attenzione verso i poveri, i carcerati, gli scartati. È una carezza che tanti detenuti vogliono dare al Papa, per ricambiare la sua attenzione. Un rapporto che si ribalta: nella giornata dei poveri sono loro che pregano per aiutare il Papa. Certo, i detenuti non possono fare molto. Ma sappiamo che la preghiera produce i suoi effetti. E quando è innalzata dagli ultimi, da chi è rifiutato dalla società, è ancora più ascoltata da Dio. Il Papa proprio ieri ricevendo i penalisti ha detto che “il carcere deve sempre avere una finestra”… Per dare un orizzonte, una prospettiva. Quante volte papa Francesco ha detto che non dobbiamo togliere alle persone in carcere la speranza di poter ricominciare. E il lavoro di noi cappellani. Certo, sappiamo che in carcere non ci sono solo poveri, ma persone che hanno abusato, spacciato droga, calpestato la dignità delle persone, ammazzato. Spesso la società è diffidente verso il nostro ministero: “Ma che andate a fare in mezzo a quei delinquenti?”. Noi entriamo come portatori di speranza, per coniugare giustizia e misericordia, perché senza la misericordia la giustizia rischia di essere vendetta. Francesco dice che “bisogna ripensare sul serio l’ergastolo”. Già il 14 settembre, quando ci ha ricevuti a San Pietro con l’Amministrazione penitenziaria, il Papa ha parlato dell’ergastolo come di un problema da risolvere. Dopo trent’anni di carcere una persona non è più la stessa. La gente invoca sicurezza, ma noi siamo chiamati a educare le nostre comunità alla misericordia, che rende più umano il mondo. Tra l’altro umanizzare il carcere è anche conveniente... Sì, perché abbatte radicalmente la recidiva. Il Papa mette in guardia dal giustizialismo, dall’idolatria della pena. Il Magistero non chiede buonismo, non banalizza il male commesso. La misericordia offre alla persona detenuta la possibilità di ricominciare, pur senza cancellare quello che ha fatto. Chi sbaglia deve prendere coscienza del suo errore. Ma gli va comunque tesa una mano per aiutarlo a fare il primo passo, a rialzarsi. Senza dimenticare oggi i troppi detenuti in attesa di giudizio. Dopo mesi o anni di carcerazione preventiva, sono tanti quelli assolti. Ma chi finisce in carcere perde la sua dignità, rimane marchiato, viene malvisto e costretto ad affrontare una sofferenza morale. I processi spesso sono mediatici. Ma per le assoluzioni non c’è lo stesso risalto. Popolare è il bastone di Michele Serra La Repubblica, 16 novembre 2019 Ieri mattina Radio Anch’io (trasmissione riflessiva che si suppone richiami un pubblico riflessivo) ha dato atto di molti messaggi ostili alla sentenza Cucchi. Italiani convinti che la vita di un tossico non meriti tutta questa attenzione; che la sorella Ilaria fosse in cerca di visibilità attraverso le sue “comparsate televisive”; che l’onore dell’Arma si dovesse difendere con il silenzio. Eccetera. Non facciamoci illusioni. L’Italia che ha emesso quella sentenza, ristabilendo che l’onore dello Stato sta anche, se non soprattutto, nella tutela dei deboli e dei vinti, è un’Italia assediata. L’idea che Cucchi se la sia andata a cercare, quella barbara morte per pestaggio, è un’idea popolare. Popolare è l’orribile espressione “butta via la chiave”, popolari i modi bruschi, popolari le soluzioni spicce. Impopolari sono i diritti dei carcerati, impopolare è l’habeas corpus, impopolari tutte quelle leggi che non possano essere capite solo come punizione e come privazione. Popolare è il bastone. Impopolare è la pietà, quando non sia comoda da esercitare. Non che le cose siano particolarmente peggiorate, da questo punto di vista. Fino a qualche anno fa i partiti di massa, Pci e Dc in primo luogo, facevano argine a questi umori facili e violenti. Ma questi umori c’erano, eccome. Ora sono tracimati e scorrono liberi, per la gioia di chi da quella piena si sente sospinto verso il potere. Se vi sentite minoranza, consolatevi: lo siete sempre stati. Solo che adesso è più evidente di prima. Le battaglie di minoranza, comunque, sono - da sempre - le più belle. Vigilare sulla cultura dell’odio e dello scarto L’Osservatore Romano, 16 novembre 2019 Il discorso del Papa al congresso dell’Associazione internazionale di diritto penale. “Occorre vigilare, sia nell’ambito civile sia in quello ecclesiale, per evitare ogni possibile compromesso” con le diffuse manifestazioni della “cultura dell’odio”, che rappresenta oggi una degenerazione della “cultura dello scarto”. È il monito lanciato dal Pontefice nel discorso rivolto ai partecipanti al congresso dell’Associazione internazionale di diritto penale, ricevuti nella mattina di venerdì 15 novembre, nella Sala Regia. L’ampia riflessione del Papa ha toccato numerose tematiche legate alla funzione del diritto penale, in particolare quelle connesse alla sua applicazione nei confronti dei “delitti dei più potenti”. Per Francesco, infatti, “il capitale finanziario globale è all’origine di gravi delitti non solo contro la proprietà ma anche contro le persone e l’ambiente”. Si tratta, ha denunciato, “di criminalità organizzata responsabile, tra l’altro, del sovra-indebitamento degli Stati e del saccheggio delle risorse naturali del nostro pianeta”. Reati del genere, ha rincarato, “hanno la gravità di crimini contro l’umanità, quando conducono alla fame, alla miseria, alla migrazione forzata e alla morte per malattie evitabili, al disastro ambientale e all’etnocidio dei popoli indigeni”. In questo senso l’accento del Papa è caduto soprattutto su “alcune condotte” - spesso “impunite” - che “possono essere considerate come “ecocidio”: la contaminazione massiva dell’aria, delle risorse della terra e dell’acqua, la distruzione su larga scala di flora e fauna, e qualunque azione capace di produrre un disastro ecologico o distruggere un ecosistema”. In proposito, dal recente Sinodo per l’Amazzonia è venuta la proposta di “definire il peccato ecologico come azione oppure omissione contro Dio, contro il prossimo, la comunità e l’ambiente”. Molte altre le questioni al centro delle preoccupazioni del Pontefice. Questioni che sono state poi riprese e riassunte nell’appello conclusivo a realizzare sempre più pienamente “una giustizia penale restaurativa”. Le società attuali, ha affermato Francesco, “sono chiamate ad avanzare verso un modello di giustizia fondato sul dialogo, sull’incontro, perché là dove possibile siano restaurati i legami intaccati dal delitto e riparato il danno recato”. Per Francesco non si tratta di “un’utopia”, ma è comunque “una grande sfida che dobbiamo affrontare tutti se vogliamo trattare i problemi della nostra convivenza civile in modo razionale, pacifico e democratico”. Il Papa vara gli “eco-peccati”. Ma aggiunge: “stop agli abusi della giustizia” di Franca Giansoldati Il Messaggero, 16 novembre 2019 Francesco incontra 600 penalisti di tutto il mondo. Severino: “serve una giustizia che sia umanizzatrice e riconciliatrice”. L’odio che dilaga sul web, la corruzione a diversi livelli, i crimini ambientali sempre più frequenti, ma anche l’uso improprio della custodia cautelare “che si è aggravata drammaticamente in diverse nazioni e regioni” nonché la legittima difesa “che non può sconfinare in abuso”. Papa Francesco ieri mattina parlava a cuore aperto di giustizia penale partendo da un concetto a lui molto caro: che lo sviluppo del diritto, a ogni latitudine del pianeta, dovrebbe essere davvero in grado di rispettare la dignità e i diritti delle persone. Nel palazzo Apostolico c’erano seicento giuristi di varie nazionalità arrivati a Roma per partecipare ad un convegno organizzato dalla Luiss, intitolato “Serve un modello di giustizia fondato sul dialogo, sull’incontro”. A guidare i giuristi l’ex ministro della Giustizia Paola Severino, vice presidente dell’ateneo romano. “Siamo tutti consapevoli che la corruzione mini le basi del rapporto di fiducia tra i cittadini e le istituzioni ma, in senso più ampio, corroda le fondamenta della nostra convivenza civile” ha detto Severino, aggiunge che serve “una giustizia umanizzatrice e riconciliatrice”. Il Papa ha toccato tanti nervi scoperti legati alla funzione del diritto penale, in particolare quelli connessi alla sua applicazione nei confronti dei “delitti dei più potenti”. È tornato così a ripetere che “il capitale finanziario globale è all’origine di gravi delitti non solo contro la proprietà ma anche contro le persone e l’ambiente”. Un argomento che ha sviscerato compiutamente nell’enciclica “Laudato Sì”, dimostrando quanto siano interdipendenti scelte sbagliate dal punto di vista finanziario o politico. Scelte talmente sciagurate che possono ripercuotersi su intere popolazioni, conducendo al depauperamento di interi territori, causando persino “un sovra-indebitamento degli Stati e il saccheggio delle risorse naturali”. Reati del genere, ha rincarato il Papa, “hanno la gravità di crimini contro l’umanità” anzi molto di più tanto che “alcune condotte - spesso impunite - possono essere considerate come un “ecocidio”“ per la contaminazione massiva dell’aria, dell’acqua, la distruzione su larga scala di flora e fauna. Da qui l’idea di definire il peccato ecologico una azione “contro Dio”. Ai giuristi Bergoglio ha chiesto di lavorare per “una giustizia penale restaurativa” visto che le società “sono chiamate ad avanzare verso un modello di giustizia fondato sul dialogo, sull’incontro” ma si è anche lamentato di una deriva giustizialista, visto che in alcuni paesi “si è preteso giustificare crimini commessi da agenti delle forze di sicurezza come forme legittime del compimento del dovere”. Il diritto, dunque, resta uno strumento basilare per garantire anche “il reinserimento sociale” di chi ha sbagliato, ha concordato la Severino: “Non si tratta di un’utopia. Bisogna ricercare una giustizia che oltre padre sia anche madre”. La selezione “all’italiana” dei magistrati: fanno un concorso e non li assumono di David Allegranti Il Foglio, 16 novembre 2019 Il concorso per diventare magistrato è lungo, estenuante e complicato. Lo sa chiunque voglia buttarsi nell’impresa. I 251 vincitori di quello bandito con decreto ministeriale il 31 maggio 2017 non avevano però probabilmente programmato che dopo aver completato le prove (nel maggio 2019) ed essere inseriti nella graduatoria stilata dal Csm avrebbero dovuto attendere ancora per iniziare a lavorare. Una storia italiana paradigmatica. I fatti. Il 24 luglio 2019 il Csm pubblica la graduatoria dei 251 magistrati che attendono di poter iniziare, come da legge, il tirocinio di un anno e mezzo. C’è però una riserva sul candidato che occupa la posizione numero 142. Si stratta di Angela Di Dio e su di lei sono in corso “approfondimenti istruttori”. Il Csm non specifica quali siano gli approfondimenti in corso, ma la vicenda è nota alle cronache giudiziarie campane. Angela Di Dio è figlia di Antonino Di Dio, consigliere del X Municipio di Napoli, eletto con DeMa (il movimento di Luigi De Magistris), arrestato a inizio luglio nell’ambito dell’operazione San Gennaro. Secondo l’accusa, Antonino Di Dio-che è stato intercettato-avrebbe cercato aiuti per far superare alla figlia la prova orale del concorso in magistratura. Il Riesame però a fine luglio annulla questa accusa per carenza di gravità indiziaria. “L’annullamento rispetto a questo vicenda prova l’assoluta correttezza e trasparenza delle prove concorsuali, brillantemente sostenute dalla dottoressa Angela Di Dio”, dicono gli avvocati Marco Campora e Aniello Cozzolino che assistono Antonino Di Dio. Il Csm, nel frattempo, discute della vicenda. O almeno, è probabile che lo abbia fatto, visto che i verbali delle sedute contengono alcuni passaggi secretati. E comunque è il Csm a dover sciogliere la riserva su Di Dio. Le settimane passano, nel frattempo, e niente succede. I vincitori del concorso avrebbero potuto iniziare il tirocinio già a settembre, anche perché la legge stabilisce che fra l’approvazione della graduatoria del concorso del Csm e il decreto di nomina (firmato dal ministro della Giustizia, in questo caso Alfonso Bonafede), devono passare venti giorni. Anziché lavorare come magistrati, i vincitori del concorso restano con le mani in mano. Alcuni di loro sono giovani, nati negli anni Novanta, e hanno soprattutto studiato per prepararsi al concorso. Altri sono meno giovani, nati negli anni Ottanta, qualcuno anche nel Settanta e nel Sessanta, e già lavorano. Qualcuno è avvocato e ha lasciato il posto dopo avere superato il concorso. Niente da fare, la nuova graduatoria arriva solo il 16 ottobre. L’elenco è completo e Angela Di Dio è ammessa senza riserva. Quindi, come gli altri, aspetta di poter iniziare a lavorare. Il decreto di nomina però non arriva. Passa un altro mese e arriviamo a oggi, 16 novembre 2019. Il Foglio ha chiesto ieri al ministero della Giustizia che fine abbia fatto quel decreto di nomina che avrebbe dovuto firmare il ministro ed è tutt’ora in attesa di una risposta. Nell’ultimo mese, dopo la pubblicazione della graduatoria del 16 ottobre, sono accadute altre cose che vale la pena menzionare in questa ricostruzione. Il 31 ottobre, un lancio dell’agenzia Ansa ha annunciato che “nella legge di Bilancio ci sono circa 200 milioni di euro destinati all’assunzione di 250 nuovi magistrati vincitori di concorso già bandito e per le relative progressioni di carriera, a partire dal 2020 e fino al 2029. Le nuove assunzioni serviranno a rafforzare gli uffici giudiziari più in sofferenza. In particolare, per il 2020 ci sono circa 14 mln di euro; 16.695.800 per il 2021; 18.258.140 per il 2022; 18.617.344 per il 2023; 23.615.918 per il 2024; 23.755.234 per il 2025; 24.182.536 per il 2026; 24.681.056 per il 2027; 25.108.360 per il 2028 e 25.606.880 per il 2029”. Da questa notizia si desume dunque che le questioni problematiche relative a questo concorso erano due. Uno, la riserva sulla candidata (riserva che è poi stata tolta). Due, la reperibilità dei fondi per assumere i magistrati che hanno superato il concorso pubblico. Se diventa una notizia che a fine ottobre sono stati trovati i soldi per iniziare a far lavorare (non si sa ancora quando) magistrati che lo stato avrebbe potuto mettere in attività già a fine estate, forse c’è qualcosa che non torna per il “sistema Italia”. Poi lamentiamoci dei giovani che se ne vanno e di Milano che non restituisce le risorse. Il problema qui è lo stato che non mantiene le sue promesse. Strage di via D’Amelio, prescrizione per il falso pentito Scarantino di Riccardo Arena La Stampa, 16 novembre 2019 Caltanissetta, l’Appello conferma: ergastolo ai boss. Nell’attentato morì il giudice Borsellino. Il paradosso è che il falso pentito se la cava con la prescrizione. Vincenzo Scarantino esce indenne dalla vicenda di via D’Amelio, in cui ha giocato in passato il ruolo di collaboratore determinante per incastrare mandanti ed esecutori dell’eccidio del 19 luglio 1992 - ruolo positivo, riconosciuto fino in Cassazione - mentre oggi è considerato al centro del quanto mai negativo e colossale depistaggio di cui si parla adesso. Nella sentenza di appello di ieri pomeriggio del “Borsellino quater”, i condannati sono due boss, Salvino Madonia - killer fra gli altri dell’imprenditore Libero Grassi - e Vittorio Tutino: hanno avuto l’ergastolo per il loro ruolo nell’attentato in cui furono uccisi il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta. Colpevoli di calunnia aggravata anche due dei falsi collaboratori di giustizia di questa vicenda: hanno avuto 10 anni ciascuno Calogero Pulci e Francesco Andriotta. Mentre il lungo tempo trascorso dall’epoca dei fatti e le attenuanti salvano Vincenzo Scarantino, il picciotto della Guadagna, ritenuto manipolato e indotto a mentire, anche a suon di pestaggi, da soggetti inseriti negli apparati dello Stato. La decisione ribadisce i contenuti della sentenza di primo grado che due anni fa aveva certificato l’esistenza del depistaggio, su cui è in corso un altro processo, a carico di tre poliziotti ex del gruppo Falcone-Borsellino, coordinato dal questore Arnaldo La Barbera. Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Rib audo, un dirigente e due sovrintendenti in pensione, sarebbero coloro che avrebbero orientato la falsa collaborazione di Scarantino. L’ispiratore La Barbera, ritenuto l’ispiratore, è morto nell’ormai lontano 2002. Scarantino se la cava dunque con un nulla di fatto, mentre Pulci e Andriotta rispondono di aver provocato le condanne subite da sette ergastolani, assolti in un processo di revisione dopo quindici anni di carcere a testa. Madonia, capomafia palermitano di Resuttana, sarebbe stato tra i mandanti della strage che aveva di mira il giudice Borsellino. Tutino, che è di Brancaccio, fra gli esecutori. Il depistaggio sarebbe servito a coprire le responsabilità del gruppo proprio di Tutino, quello capitanato dai fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, irriducibili e stragisti anche del 1993. I loro agganci milanesi, le loro presunte collusioni - che sono ancora oggi al centro di indagini nel processo palermitano sulla cosiddetta “trattativa Stato-mafia” - avrebbero indotto gli apparati deviati dello Stato a cercare di attribuire tutte le responsabilità al gruppo di mafiosi della Guadagna indicato da Scarantino. A suon di botte e di torture fisiche e psicologiche, sostiene oggi la Procura nissena nel dibattimento contro i tre poliziotti. Mentre a Messina sono sotto inchiesta due magistrati del pool che indagò a suo tempo e che a Scarantino diede credito, gli ex pm Carmelo Petralia e Anna Palma, ignorando le sue ritrattazioni. Come del resto i giudici. Fino in Cassazione. La buona fatica della giustizia. Processo Cucchi, oltre omertà e vendetta di Mario Chiavario Avvenire, 16 novembre 2019 Condanna. Adesso può sembrare un esito scontato, dopo un dibattimento che ha accumulato prove a dimostrazione di una terribile verità sulla morte di Stefano Cucchi. Ma in realtà si tratta di un risultato raggiunto soltanto a prezzo di un impegno eccezionale, e prolungatosi per un decennio, contro ostacoli che parevano insormontabili. Molla e poi perno costante, la tenacia con cui la famiglia della vittima (e in particolare la sorella Ilaria) ha portato avanti, sin da subito, la contestazione delle omissioni, delle bugie, delle coperture da cui quella morte è rimasta a lungo avvolta; ma ne sono state componenti importanti anche altri fattori: oltre alla svolta a un certo punto impressa alle indagini nell’ambito della Procura di Roma, l’atteggiamento maturato ai vertici stessi dell’Arma dei carabinieri, e soprattutto gli ancor più coraggiosi colpi inferti al muro di omertà da testimonianze destinate a essere essenziali, seppur non indolori per chi le ha rese. Sensibile il divario tra le pene richieste in udienza dal pubblico ministero e quelle inflitte dalla Corte di assise (dodici anni anziché diciotto per i principali imputati): a quanto sembra, è la conseguenza di una diversa comparazione tra le circostanze, aggravanti e attenuanti, che potevano riconoscersi rispetto al fatto dell’omicidio preterintenzionale, ossia alla constatazione della morte causata da gravissime lesioni volontariamente inferte. In pratica, è un dato assai tangibile: anzitutto, com’è ovvio, per i condannati, qualora se ne abbia conferma negli ulteriori gradi di giudizio. Ma, in controluce, sono gli immediati commenti alla sentenza da parte dei familiari di Stefano Cucchi a suonare significativi per tutti, e anche perché - a differenza di quanto accade spesso - proprio la questione dell’entità della pena non ne è venuta in primo piano: importante, per loro, è stato che i giudici abbiano risposto a quell’ansia di verità e di rispetto per la persona del loro caro, che li ha animati; il che sembra allontanare, in questo caso, il pericolo sempre incombente, del superamento del labile confine tra la richiesta di giustizia e il desiderio di vendetta. Stonano, per contro, battute come quella attribuita al senatore Salvini, sia pur a corredo del commento (“chi sbaglia paghi”) di cui gli va dato atto. Certo, “la droga fa male” ed è sacrosanta la lotta al consumo e allo spaccio, ma evocarla in un caso come questo dovrebbe essere l’ultima cosa a venire in mente. Qui, a quanto pare, si è trattato di pestaggi contro un persona detenuta e per di più non in grado di difendersi: “drogato” o non “drogato”, non cambia nulla. O no? Tornando alla sentenza della Corte di assise, è chiaro che essa non fa calare un sipario definitivo sui risvolti giudiziari di una vicenda umana comunque tristissima: e, questo, non solo perché ci si attende che contro le condanne gli imputati propongano appello e poi, eventualmente, ricorso per cassazione, com’è loro indiscutibile diritto. Nel contesto, ci sono altri due processi tuttora aperti. Il primo di essi concerne alcuni medici, accusati di omissioni e negligenze non estranee alla serie causale produttiva della morte di Cucchi: al riguardo è stata emessa a sua volta sentenza in primo grado, contemporaneamente a quella sulla quale erano puntati i riflettori; ma soltanto una degli imputati è andata assolta; per gli altri, è ancora una volta la pronuncia di un proscioglimento per prescrizione che, non dissolvendo l’ipotesi di una colpa, lascia l’amaro in bocca (a onore del vero, nella specie, anzitutto in chi si è battuto, e verosimilmente si batterà ancora, con le impugnazioni, per veder dichiarata quella che ritiene la propria innocenza). Momento cruciale, dal punto di vista della credibilità delle istituzioni, sarà però, soprattutto, il giudizio che si aprirà in dicembre, per le ipotizzate coperture, a vari livelli, della tragica verità faticosamente venuta a galla (solo una parziale anticipazione se n’è avuta in assise con una condanna accessoria rispetto a quella dei principali imputati). Scorretto, prima del contraddittorio dibattimentale, scommettere sull’uno o sull’altro esito. Quel che importa è che, anche qui, si badi alle verità e non ad altri presunti valori. Le istituzioni, in uno Stato di diritto, si difendono, non negando o nascondendo eventuali piccole o gravissime brutture e neppure offrendo capri espiatori, ma avendo il coraggio di andare fino in fondo per accertare se queste si sono davvero verificate o meno, e per trarne tutte le conseguenze. Processo Cucchi, bufera su Salvini. M5S e Pd: “Chieda scusa” di Eleonora Martini Il Manifesto, 16 novembre 2019 Dopo la condanna dei carabinieri per omicidio preterintenzionale il leghista provoca: “La droga fa male”. La famiglia valuta querela. Il presidente della commissione antimafia Morra: “Non conosci umiltà e vergogna”. C’è il comandante generale dei carabinieri Giovanni Nistri che ribadisce ancora tutto il suo dolore e la sua vicinanza alla famiglia di Stefano Cucchi, come ci si aspetta da un servitore dello Stato. E c’è un maresciallo maggiore dell’Arma che, subito dopo la condanna a 12 anni di carcere per omicidio preterintenzionale ricevuta giovedì da due dei cinque militari imputati nel processo bis, Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo, ha voluto omaggiare Ilaria Cucchi con un baciamano, un gesto antico almeno quanto il Corpo al quale appartiene. Eppure c’è ancora chi ha il mito dell’uomo in divisa al di sopra della legge, chi deve aver scelto di stare da una parte della barricata perché troppo vicino allo stile di vita di chi sta dalla parte opposta. Ed è forse a loro che si rivolge Matteo Salvini quando, commentando a caldo la sentenza, arriva a dire (come ha scritto il manifesto ieri): “Se qualcuno ha usato violenza, ha sbagliato e pagherà. Ma questo dimostra che la droga fa male”. Parole incredibili, forse una provocazione per far parlare di sé, in cerca di voti nell’ultradestra. Neppure il cultore del proibizionismo, Carlo Giovanardi, si spinge a tanto, e si limita a rispondere ai microfoni de La Zanzara che non ha nulla di cui chiedere scusa. Ma Ilaria Cucchi risponde a tono: “Che c’entra la droga? Salvini perde sempre l’occasione per stare zitto. Anch’io da madre sono contro la droga ma Stefano non è morto di droga”. La sorella del ragazzo morto, dopo sette giorni di inumane sofferenze fisiche e psichiche, a 31 anni per le conseguenze delle lesioni procurate nel pestaggio subito mentre veniva accompagnato ad un foto-segnalamento mai eseguito, è abituata ormai a questo tipo di invettive: “Contro questo pregiudizio e contro questi personaggi ci siamo dovuti battere per anni - ricorda - Tanti di questi personaggi sono stati chiamati a rispondere in un’aula di giustizia, e non escludo che il prossimo possa essere proprio Salvini”, sottolinea Ilaria riferendosi alle querele che ha dovuto presentare contro chi l’ha ingiuriata e perfino minacciata, in questi anni. Ma non è sola, questa volta, a parte qualche organizzazione come l’Unione sindacale italiana carabinieri che si dice fiduciosa nel processo d’Appello, convinta che il geometra romano sia “morto ma non ucciso”, e ricorda “il caso Magherini di Firenze, dove i carabinieri furono condannati in primo grado e successivamente assolti in via definitiva”. Stavolta il mondo della politica ha reagito con sdegno alle parole sconnesse del leader leghista. “Salvini, non puoi dire che la sentenza su Cucchi dimostra che la droga fa male - risponde il ministro degli Esteri Luigi Di Maio in diretta Facebook - Cosa significa? Che se uno sbaglia nella vita deve essere pestato a morte? Credo che sarebbe meglio porgere le scuse…”. Più tardi, intervenendo ad una trasmissione televisiva sul canale Nove, il capo del M5S prende in prestito la definizione coniata da Marco Travaglio e a proposito del “cazzaro verde” dice: “Attaccarlo sulla questione del fascismo è fargli un favore. Dire che invece difendeva la Arcelor e Benetton anziché gli italiani può far capire di chi stiamo parlando”. Anche la sindaca di Roma, Virginia Raggi, twitta: “Vergognose le parole di Matteo Salvini su Stefano Cucchi. Un abbraccio alla sua famiglia”. Mentre il presidente della Commissione Antimafia, Nicola Morra, anch’egli dei 5 Stelle, bacchetta duramente l’esponente della destra: “Non conosci umiltà e vergogna”. E suggerisce al capo del Carroccio le “uniche parole sensate” che dovrebbe pronunciare, ossia le “scuse” alla famiglia del ragazzo. Scuse che non arriveranno mai, anche se a chiederle con forza è anche Stefano Fassina, perché, spiega il deputato di Leu, quell’infelice frase “oltre a ferire i familiari di Stefano, danneggia anche l’Arma dei Carabinieri”. Dal Pd si leva la voce dell’onorevole Giuditta Pini che definisce Salvini, aspirante prossimo primo ministro, “indegno di rappresentare le istituzioni”. “Dopo questa sentenza - risponde a distanza Ilaria Cucchi dalla Fondazione Feltrinelli di Milano dove ieri ha presentato il libro scritto con l’avvocato Fabio Anselmo, Il coraggio e l’amore - sono tante le persone che dovrebbero chiederci scusa. Però io penso a chi ci è vicino e ci dà la forza di andare avanti”. Ecco perché a questa donna e al suo compagno, il pubblico di Bookcity (tra loro anche il sindaco Giuseppe Sala) ha riservato un lungo applauso. E una standing ovation. Gli negano il permesso premio, fa ricorso: lo respingono per un ritardo di 28 minuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 novembre 2019 Per la Cassazione ci sono elementi di incostituzionalità sui quali si esprimerà la Consulta. Il tempo è una dimensione particolare per chi è detenuto, e può accadere di sforare per pochi minuti quello massimo per proporre reclami. La Corte Costituzionale dovrà occuparsi proprio di questo. Il 30 ottobre scorso la Cassazione ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata, con riferimento agli articoli 3, 24, 27 e 111 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 30- bis, comma terzo, in relazione all’art. 30-ter, comma 7, legge del 26 luglio 1975, n. 354 (Ordinamento penitenziario), nella parte in cui prevede che il termine per proporre reclamo avverso il provvedimento del magistrato di Sorveglianza in tema di permesso premio è pari a 24 ore. Cosa è accaduto? Un detenuto aveva fatto ricorso per un rigetto alla sua richiesta del permesso premio, ma è stato dichiarato inammissibile. Il motivo? Il provvedimento di rigetto era stato comunicato il 13 novembre 2018 alle ore 8.16 e il reclamo era stato depositato il giorno successivo alle ore 8.44. Dunque ha sforato le 24 ore, quindi fuori tempo massimo come prevede l’articolo dell’ordinamento penitenziario. Il detenuto ha fatto ricorso in Cassazione. Tra le argomentazioni, una è il fatto che il tribunale di Sorveglianza non ha svolto alcun accertamento in ordine alla possibilità del reclamante di presentare il reclamo in orario antecedente a quello delle ore 8,44 del giorno successivo a quello di notifica: se le celle sono chiuse fino alle ore 9,00 del mattino, orario dal quale iniziano le varie attività socio- ricreative, rieducative e lavorative, prima di quell’orario è impossibile uscire dalla cella e accedere a qualsivoglia altro locale dell’istituto senza apposita autorizzazione, quindi anche presentare reclamo. La Corte suprema ha ritenuto la questione non manifestamente infondata. Nella sua ordinanza di rimessione, la Cassazione rilevato vari punti di incostituzionalità, tra le quali quelle in tema di violazione del diritto di difesa: viene sottolineato che bisogna considerare lo squilibrio che si realizza tra le opportunità di impugnazione riservate alla parte pubblica e al detenuto. Violerebbe anche l’art 24 della Costituzione laddove il termine di ventiquattro ore per la proposizione del reclamo si rivelerebbe incapace di assicurare alla parte, che intenda fare reclamo, di un tempo utile per articolare la sua difesa tecnica da sottoporre al Tribunale di sorveglianza con l’assistenza di un avvocato. Osserva la Cassazione che per evitare il rischio di una pronuncia di inammissibilità il detenuto necessita dell’assistenza di un difensore, seppur non sia imposta per legge: il punto è che l’effettività della difesa viene compromessa proprio a causa della spiccata brevità del termine concesso per il reclamo. Da un lato il sistema consente all’interessato di richiedere l’intervento e l’assistenza della difesa tecnica, ma dall’altro non gli pone le condizioni per esercitarla. Partendo da queste considerazioni, la Cassazione ha osservato che rispetto ad una precedente pronuncia, oggi esiste un riferimento normativo che consentirebbe alla Consulta di rideterminare essa stessa il termine rintracciandolo nell’ordinamento. Precisamente nel 1996 (sentenza 245) la Corte costituzionale aveva dichiarato inammissibile la stessa questione perché era impossibile “rintracciare nell’ordinamento una conclusione costituzionalmente obbligata”, tale da consentire di porre rimedio alla brevità del termine “rideterminandolo essa stessa”. È da dire che in questa pronuncia, la Consulta auspicò un rapido intervento legislativo per la fissazione di un nuovo termine capace di contemperare “la tutela del diritto di difesa con le ragioni di speditezza della procedura”: intervento che non ci fu, anche se nel frattempo è avvenuta una vera e propria “giurisdizionalizzazione del reclamo avverso gli atti dell’Amministrazione penitenziaria asseritamente lesivi di diritti”: si pensa all’art. 35bis ord. pen. che ha previsto il termine di quindici giorni per la proposizione del reclamo contro la decisione del Magistrato di sorveglianza. È proprio questo termine di 15 giorni che potrebbe costituire un punto di riferimento. Con 4 bambini occupa un alloggio del Comune. Il giudice sentenzia: ha fatto bene Il Riformista, 16 novembre 2019 Un giudice di Marsala ha assolto dall’accusa di occupazione abusiva di pubblico alloggio una signora di 29 anni che si era insediata abusivamente in una casa vuota, appartenente al Comune, per viverci con i suoi quattro bambini. La signora viveva con tre figli in casa dei suoceri: 45 metri quadrati e nove persone. In una situazione, come capite facilmente, drammatica. Quando poi le è nato il quarto figlio non ce l’ha fatta più e siccome le avevano detto che nel comune di Petrosinino, vicino a Marsala, c’era una casa popolare vuota, ha preso, ha forzato la porta e si è sistemata lì. È stata denunciata ed è andata a processo. Il giudice monocratico l’ha assolta perché il fatto non costituisce reato. La signora e i suoi quattro bambini avevano assolutamente bisogno di un alloggio, e appropriarsi senza violenza di un bene del quale si ha assoluto bisogno, ha detto il magistrato, è legittimo e non è reato. Che vuol dire? Che il diritto non è solo un cerbero. Vive anche di diritti. Piacenza. Polemiche sull’apertura di una Casa di accoglienza per detenuti ilpiacenza.it, 16 novembre 2019 Il Comitato del “no”: “Già bersagliati dalla criminalità organizzata”. Il progetto della Caritas Diocesana di Piacenza e Bobbio per l’apertura di un “carcere alternativo” in una casina tra Cadeo e Carpaneto, è stato analizzato dal comitato “Sicurezza e Territorio” e presentato alla cittadinanza. Il progetto della Caritas Diocesana di Piacenza e Bobbio per l’apertura di un carcere alternativo in una casina tra Cadeo e Carpaneto, è stato analizzato dal comitato “Sicurezza e Territorio” e presentato alla cittadinanza nel corso di una serata pubblica in Municipio. La platea era frammentata da pareri contrari e favorevoli, tra i quali il sindaco Bricconi. Pareri contrari perché, secondo gli elementi di criticità individuati dal comitato, “mette a serio rischio il rispetto della legalità in un territorio già notevolmente bersagliato da criminalità sia diffusa che organizzata”. “La cittadinanza si è confrontata, a tratti anche animatamente - fanno sapere - su un argomento di grande importanza per il futuro assetto e rispetto della legalità nel territorio interessato. Il dibattito si è incentrato sull’analisi del documento che descrive il progetto del carcere alternativo”. Era stata invitata a partecipare anche Caritas, i cui rappresentati non sono riusciti a presenziare. Il Comitato “Sicurezza e Territorio” ha dato appuntamento ai partecipanti al prossimo evento relativo al progetto del carcere alternativo al quale parteciperanno alcuni relatori esterni al fine di approfondire ulteriormente l’argomento. “Quello che prenderà vita a Cadeo è un progetto serio, un prendersi a cuore le persone che hanno sbagliato ma vogliono riprendersi in mano la vita - aveva spiegato Francesco Argirò di Caritas Diocesana, a fine luglio nel corso di un incontro con la Giunta. Giustamente il sistema carcerario sancisce la pena ma si occupa anche del recupero. Chi sarà ospitato nella Casa non sarà uscito perché deciso da Caritas ma da un magistrato di sorveglianza, secondo tutti i vincoli di legge previsti. Non saranno persone che hanno compiuto delitti ma persone che hanno bisogno di una seconda chance”. “Sarà un accompagnare per vivere meglio - aveva sottolineato Mario Idda, direttore della Caritas diocesana. Queste persone vivendo un’esperienza di accompagnamento potranno vivere un’occasione di svolta delle loro vite. Per ogni persona che reinseriremo nel contesto sociale vi sarà una in meno che rischierà di ripetere lo stesso errore”. Verona. Se i detenuti lavorano per l’Esercito di Angiola Petronio Corriere Veneto, 16 novembre 2019 È la prima convenzione del genere in Italia. È stata firmata ieri a Palazzo Carli, ma è già diventata progetto pilota per altre realtà. Un accordo, tra il Comando delle Forze operative terrestri di supporto dell’Esercito, direzione della Casa circondariale di Montorio, magistratura di sorveglianza e garante per i diritti dei detenuti per portare avanti un percorso di integrazione. Cinque carcerati cureranno il verde del centro polifunzionale Fiorito. Quelli che, nella loro missione hanno anche la garanzia dell’ordine sociale. E quelli che, delinquendo, quell’ordine lo minano. “Guardie e ladri” che questa volta lavoreranno, per la prima volta in Italia, assieme. Con reciproco vantaggio di entrambi: i primi avendo il centro polifunzionale Fiorito in Borgo Roma curato e gestito nel verde gratuitamente. I secondi a fare quel percorso virtuoso che li porterà fuori dal carcere. Esercito da una parte, detenuti della casa circondariale di Montorio dall’altra. Ma in quello spazio, dedicato al capitano veronese degli Alpini morto in Afghanistan nel 2006, lavoreranno insieme grazie a una convenzione, unica e prima nel suo genere, firmata ieri a Palazzo Carli dal generale Giuseppe Nicola Tota, comandante delle Forze Operative Terrestri di Supporto, dalla direttrice di Montorio Mariagrazia Bregoli, dalla Garante dei Detenuti Margherita Forestan e dal magistrato di sorveglianza Isabella Cesari alla presenza del presidente del consiglio comunale nonché membro della commissione Giustizia della Camera Ciro Maschio. Una convenzione voluta sia dal Ministero della Difesa che da quello il cui studio ha richiesto diverso tempo. Difficile far lavorare chi ha commesso dei reati nell’ambito dell’esercito. Ma quel centro di 6 ettari, con 646 alberi ad alto fusto, 2 campi da tennis, un campo da calcio e uno da calcetto, una pista da atletica, un minigolf, una palestra e due piscine è diventato l’approdo di un accordo che vedrà 5 detenuti di Montorio prendersi cura del verde in forma volontaria. Con l’equipaggiamento e l’assicurazione pagati con il fondo comunale del Garante dei Detenuti, che Margherita Forestan ha messo a disposizione. Convenzione che ieri è stata battezzata con la firma, ma che è già diventata un modello, tanto che altre realtà la vogliono riprendere. E che è nata. ha spiegato il generale Tota, “dalla conoscenza con la direttrice Bregoli. Abbiamo iniziato ad andare in carcere con l’inno nazionale, spiegando il valore della bandiera. L’impatto non è stato facileMa abbiamo pensato anche a un percorso condiviso, che per i detenuti fosse di recupero. Impiegarli in ambito militare non è semplice. Ma al centro Fiorito non sono custoditi nè armi nè documenti sensibili, quindi siamo riusciti a trovare un accordo”. I cinque detenuti che vi lavoreranno hanno frequentato i corsi di giardinaggio a Montorio e si occuperanno del verde, delle piante e dei fiori. Andranno a infoltire la schiera dei carcerati che già lavorano fuori dalla casa circondariale. Una ventina circa, impiegati nei servizi di guardiania in Comune o nella pulizia delle aree verdi cittadine, a cui vanno aggiunti i 16, all’interno del carcere, che volontariamente si occupano degli animali. “Ci sono incontri che riescono a cambiare il modo di pensare - ha detto la direttrice Bregoli - E quello tra me e il generale Tota è stato uno di quegli incontri. Tutti sappiamo perché un detenuto entra in carcere, ma non tutti sappiamo come si vive la pena. L’esercito porta tra le celle quei valori anche sociali che spesso chi è recluso nella sua vita non ha conosciuto. E rappresenta un’occasione straordinaria per imparare il vivere civile”. “Con questa convenzione ha commentato l’onorevole Maschio - si dimostra come a Verona ci sia una sensibilità non comune sulla funzione rieducativa della pena”. Verona che torna ad essere capofila in positivo. Verona. Carcere di Montorio, uno Sportello a supporto del lavoro degli agenti comune.verona.it, 16 novembre 2019 Sono agenti, si occupano di sicurezza, ma spesso devono essere un vero e proprio sostegno psicologico per gli stessi detenuti. E così si trovano ad affrontare diverse culture e nazionalità, problemi di salute sia fisica che mentale, o situazioni di tossicodipendenza. Un lavoro quello della Polizia penitenziaria, uno dei quattro corpi della Polizia di Stato, che è ad alto tasso di stress e che deve fare i conti anche con un crescendo di tentativi di suicidio da parte dei detenuti. Negli ultimi 20 anni le donne e gli uomini della Polizia penitenziaria hanno sventato, nelle carceri italiane, più di 19 mila tentativi di suicidio ed impedito che quasi 145 mila atti di autolesionismo finissero in maniera tragica. Ecco perché a gennaio aprirà il primo sportello di consulenza psicologica per gli agenti in servizio alla Casa Circondariale di Montorio. Un nuovo servizio che verrà attivato proprio per supportare il duro lavoro della Polizia penitenziaria. Si tratta di “Counseling aziendale”, ossia incontri e colloqui con psicologi come sostegno al grande carico emotivo a cui è sottoposta questa professione costantemente a contatto con la sofferenza. L’iniziativa, proposta dal segretario regionale del Coordinamento Nazionale Polizia penitenziaria Enzo De Cieri, e condivisa dalla dirigenza del carcere, è sostenuta dall’amministrazione comunale. Le consulenze verranno organizzate dalla cooperativa Valpolicella Servizi. Una rete che si è immediatamente attivata per far fronte ad un problema spesso nascosto, di cui si parla poco. A presentare lo sportello, questa mattina in municipio, l’assessore ai Servizi sociali Stefano Bertacco, la presidente della commissione consiliare Politiche sociali Maria Fiore Adami, il proponente Enzo De Cieri, la direttrice della Casa Circondariale di Montorio Maria Grazia Bregoli, oltre a Maria Luisa Bertocco, presidente della cooperativa Valpolicella Servizi, e a Antonella Elena Rossi, psicologa e referente del progetto comunale Opera. “Il lavoro di chi garantisce la sicurezza all’interno del carcere porta con sé difficoltà e problematiche - ha detto Bertacco - un carico anche psicologico che deve essere supportato. Per questo abbiamo pensato di dare un contributo affinché psicologi esperti aiutino i nostri agenti, un intervento concreto ma anche un segnale di ringraziamento per quanto fanno quotidianamente”. “La Polizia penitenziaria offre un servizio a tutto il territorio - ha spiegato Adami - è un corpo silente ma che svolge un ruolo importante per l’intera società. Iniziamo un percorso che speriamo possa essere un esempio per le altre città d’Italia. Questi lavoratori hanno bisogno di essere supportati”. “Un modo per riconoscere alla Polizia penitenziaria un valore sociale, un ruolo anche fuori dal carcere - ha concluso Bregoli. Questo strumento garantirà maggior benessere lavorativo e un clima più sereno, sostenendo l’umanità e la concretezza dei nostri agenti”. Tempio Pausania. Dopo due anni arriva l’acqua potabile nella Casa di Reclusione cagliaripad.it, 16 novembre 2019 “Finalmente sgorga acqua potabile dai rubinetti delle celle della Casa di Reclusione di Tempio Pausania. La notizia ha destato particolare soddisfazione tra i reclusi e i familiari ma anche tra gli operatori penitenziari. Un risultato ottenuto dopo oltre due anni durante i quali i detenuti hanno dovuto utilizzare quotidianamente le bottiglie d’acqua distribuite dall’amministrazione penitenziaria per bere e cucinare”. Lo annuncia Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione Socialismo Diritti Riforme, sottolineando che il carcere di Nuchis (161 ristretti per 168 posti), attualmente sotto la reggenza di Patrizia Incollu, direttrice di Badu e Carros, “si è distinto in questi anni per le attività trattamentali destinate ai detenuti che tuttavia hanno subito diverse limitazioni proprio per l’assenza dell’acqua potabile”. “Il superamento di questo disagio - ha sottolineato la dott.ssa Incollu che oltre a Nuoro e Tempio ha la responsabilità anche sulla Colonia di Mamone - è per noi motivo di soddisfazione anche perché proprio in questi giorni è stato ripristinato l’uso dell’acqua calda. In queste giornate di freddo intenso non era possibile per i detenuti fare la doccia ghiacciata. Il ripristino del servizio, grazie a un intervento sul boiler, ha tranquillizzato non solo i ristretti ma anche gli operatori penitenziari e i sanitari”. Lanusei (Nu): Il sindaco Burchi: “Il carcere non chiuderà” di Giusy Ferreli La Nuova Sardegna, 16 novembre 2019 Dopo l’allarme lanciato dall’assessore Todde, il primo cittadino fa le sue verifiche “Ci siamo attivati, ci assicurano che non esiste un provvedimento del genere”. La notizia della chiusura del carcere di Lanusei in un turbinio di voci e smentite è subito rimbalzata in Ogliastra scatenando un putiferio. Ma gli avvocati e gli amministratori che da anni combattono contro i tentativi, più o meno celati, di tagli ai presidi di giustizia sul territorio non sono rimasti con le mani in mano. L’eventualità che sul tavolo del ministero ci fosse un decreto pronto alla firma ha indotto Gianni Carrus, presidente del Consiglio dell’ordine degli avvocati ogliastrini a convocare a stretto giro di posta un’assemblea degli iscritti per verificare cosa stesse succedendo a Roma. Alla fine di un’intensa mattinata, passata tra telefonate, Davide Burchi nella duplice veste di avvocato e sindaco di Lanusei ha tirato un sospiro di sollievo. E con lui i suoi colleghi. “Ci siamo subito attivati - ha detto il primo cittadino del comune che ospita l’istituto di pena e il tribunale - per capire quanto questa indiscrezione fosse fondata. Ad oggi però questa notizia non è stata confermata. Anzi abbiamo avuto rassicurazioni che non esiste un provvedimento di questo genere”. L’allarme sulla chiusura del carcere è partito da un post sulla pagina Facebook dell’assessore regionale ai Trasporti Giorgio Todde che rilanciando il commento del senatore sardo Guido De Martini ha scritto di volersi opporre a tutti i costi alla chiusura del San Daniele, considerata “un altro scippo per l’Ogliastra”. “Rimbalzano voci non verificate sulla volontà del ministero della giustizia di chiudere il carcere San Daniele di Lanusei” scriveva invece due giorni fa parlamentare e segretario regionale della Lega. “Una manovra analoga - diceva De Martini- era stata già tentata nel 2017 suscitando la fiera opposizione della comunità ogliastrina. La lega si opporrà in tutti i modi qualora la notizia fosse confermata e ribadisce l’importanza che rivestono i presidi locali come ospedale, poliambulatorio, carcere e tribunale per l’Ogliastra tutta”. Anche due anni fa, bloccati i finanziamenti per la ristrutturazione del vecchio convento francescano trasformato in carcere nel 1874, la sorte del San Daniele sembrava segnata. Allora ci fu un movimento popolare contro quella che sembrava una condanna a morte per i presidi di legalità e giustizia. Perdere il carcere significava allora, e significherebbe anche oggi, ridimensionare la presenza dello Stato, cancellare Procura e caserme, e creare una progressiva e inesorabile desertificazioni sociale e economica del territorio ogliastrino. Un impoverimento che l’Ogliastra non può permettersi. Roma. I volontari della Caritas festeggiano i 25 anni di attività a Rebibbia La Repubblica, 16 novembre 2019 Con dieci centri di ascolto nei quattro istituti del complesso penitenziario romano, l’associazione ha realizzato nel corso degli anni decine di migliaia di interventi. Il Vic (Volontari in Carcere), associazione che rappresenta la Caritas di Roma presso gli istituti penitenziari di Rebibbia, compie 25 anni. In occasione di questo importante anniversario, è in programma, per il 16 novembre, un convegno dal titolo “1994-2019: 25 anni di volontari in carcere sotto il segno dell’accoglienza”. Con all’attivo dieci centri di ascolto nei quattro istituti del complesso penitenziario romano, l’associazione ha realizzato nel corso degli anni decine di migliaia di interventi. In particolare, colloqui quotidiani con i detenuti e i loro familiari per sostenere un percorso di accompagnamento e reinserimento sociale e lavorativo, anche dopo la fine della pena. Solo nel 2018, i colloqui individuali sono stati nel complesso circa 18 mila, 5 mila le persone seguite. Un’attività realizzata da 75 volontari operativi al momento, impegnati anche in altre iniziative. Il Vic-Volontari in Carcere gestisce, fra l’altro, una casa per l’accoglienza delle persone detenute in permesso premio e per i familiari che vengono da fuori: l’unica struttura a Roma che consente a uomini e donne di trascorrere con i propri familiari i giorni di permesso. Lo scorso anno, sono state 114 le persone ospitate (di cui 48 detenute) e 36 i familiari. In totale le notti di ospitalità sono state 2.216. L’associazione conta fra le sue attività anche un magazzino per fornire vestiti alle persone detenute indigenti; i pacchi distribuiti nel 2018 sono stati 1.589. E ancora: il Vic-Volontari in Carcere è promotore di corsi ed iniziative in carcere, come la gara di cucina, il corso di yoga e il progetto per i detenuti con disagio mentale della Casa di Reclusione. Per il suo 25/o compleanno, il Vic-Volontari in Carcere vuole perciò celebrare la ricorrenza insieme alle istituzioni, agli enti, alle associazioni, ai volontari che hanno accompagnato, dal 1994 ad oggi, la sua crescita e il suo affermarsi tra le realtà più attive dentro e fuori gli istituti penitenziari della città. Sarà l’occasione per raccontare le tante storie e testimonianze di detenuti, ex detenuti e volontari che gli uni accanto agli altri hanno percorso, o stanno percorrendo, una strada di recupero e spesso di reinserimento nella società. Il convegno si terrà, alle ore 10,30, presso la Sala Congressi dell’Ospedale Pediatrico Bambin Gesù - Roma, Viale Ferdinando Baldelli, 34. Catania. Lectio magistralis del prof. Mauro Palma sui diritti dei detenuti liveuniversity.it, 16 novembre 2019 Il Garante nazionale sui diritti dei detenuti e delle loro libertà personali spiegherà le proprie funzioni presso il Dipartimento di Giurisprudenza. Il prof. Mauro Palma, docente di Costituzioni Europee e diritti umani all’Università Roma Tre e Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale terrà una lectio magistralis presso il dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Catania sul delicato tema della detenzione e della libertà personale dei detenuti. Il convegno è intitolato “Funzione e ruolo del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale”, ruolo di cui lo stesso prof. Palma è rivestito dal 2016. Questa figura è stata istituita in Italia con la legge n. 10 del 2014, che ne definisce i compiti e la struttura ed è stata designata quale “Meccanismo nazionale di prevenzione” (Npm) in base al Protocollo opzionale alla Convenzione Onu contro la tortura (Opcat). Il Garante nazionale dei detenuti esercita un’autorità indipendente tramite una composizione collegiale. Il presidente, insieme a due componenti del collegio, è nominato dal Presidente della Repubblica e si avvale della collaborazione di un organo tecnico, l’Ufficio del Garante nazionale, formato da 25 componenti. L’evento sarà introdotto dai docenti Tommaso Rafaraci e Fabrizio Siracusano e si svolgerà lunedì 18 novembre alle 15, nell’aula magna del Polo didattico “Virlinzi” del dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Catania (via Roccaromana 43/45). Terni. “Transiti”: in mostra le opere dei detenuti grazie al progetto “Arte in carcere” di Aurora Provantini Il Messaggero, 16 novembre 2019 “Transiti” è la mostra di opere pittoriche realizzate dai detenuti della Casa Circondariale di Terni nell’ambito del progetto “Arte in carcere” (che ospita anche una produzione di disegni e poesie) realizzato da Gisella Manuetti Bonelli. Promossa dalla Caritas diocesana e dall’associazione di volontariato San Martino in collaborazione con la Casa Circondariale di Terni, rientra nelle iniziative organizzate dalle Associazioni Ecclesiali Socio-Caritative della Diocesi per celebrare la “Giornata Mondiale dei Poveri”. La mostra, allestita presso il Cenacolo San Marco di Terni, sarà inaugurata sabato 16 novembre alle ore 17 alla presenza degli operatori e rappresentanti della Casa Circondariale, del direttore della Caritas diocesana Ideale Piantoni, del presidente dell’associazione San Martino Francesco Venturini, dei volontari che prestano il servizio in carcere e di alcuni detenuti autori delle opere, e resterà aperta fino al 23 novembre. Oltre 50 dipinti realizzati dai detenuti e decine di poesie e pensieri. Le opere potranno essere acquistate e il ricavato sarà utilizzato per l’acquisto dei materiali necessari per il laboratorio artistico del detenuto autore dell’opera, oltre che per un fondo comune. Il progetto “Arte in carcere” è un laboratorio artistico, attivo da quindici anni all’interno del carcere, che costituisce un’opportunità di socializzazione ed evoluzione relazionale. È anche l’occasione per apprendere le tecniche del disegno e del colore che rappresenta una delle varie modalità di solidarietà che, grazie all’associazione di volontariato San Martino che gestisce le opere segno della Caritas diocesana, vengono portate avanti a favore dei detenuti durante tutto l’anno sia con aiuti di beni di prima necessità che con i colloqui nei centri di ascolto e altre attività. “Per i detenuti il laboratorio artistico è diventato un punto di riferimento per socializzare - spiega la coordinatrice del progetto Gisella Manuetti Bonelli - per intraprendere un percorso di introspezione e crescita personale acquisendo elementi tecnici sul disegno e sul colore. In questo luogo passano e si incontrano individui di varie culture e per tanti motivi, alcuni sostano più a lungo di altri. Nello spazio di questo laboratorio artistico, le diversità si intrecciano come a formare un unico ordito perché la finalità è uguale per tutti: cercare in se stessi, al di la del reato per cui stanno scontando la pena, qualcosa di bello, realizzarlo e dimostrarlo. Creando disegni e pitture e scrivendo versi, esposti in questa mostra, trapela il loro impegno, per ritrovare una sensibilità, sopita da tempo e il desiderio di riallacciare una nuova alleanza con sé stessi e con gli altri”. “La mostra rappresenta la conclusione di un percorso umano e formativo che la Caritas ha avviato con i detenuti nel segno di una grande attenzione alla dignità umana, del riscatto umano e sociale e della speranza - spiega Nadia Agostini responsabile del settore carcere della Caritas diocesana - Un cammino comune dedicato all’approfondimento di questo percorso umano che si esprime visivamente nelle opere dei detenuti”. Napoli. La barca di Jonathan: il riscatto dei ragazzi ha il vento nelle vele di Roberto Fuccillo La Repubblica, 16 novembre 2019 Al Molosiglio presentazione del “Blue Marlin II”, un 14 metri sequestrato alla criminalità pugliese e ora a disposizione degli ex reclusi di Nisida. “Dovevamo metterci cinque giorni, invece dopo tre eravamo già al largo di Punta Campanella. E i ragazzi si sono lamentati: “Già arrivati?”. Ecco uno degli aneddoti chiave: “Avrebbero potuto passare gli altri due giorni a casa, invece...”, racconta Enzo Morgera, patron della Comunità Jonathan, nel rendere conto della traversata da Gallipoli a Napoli, a bordo della “Blue Marlin II”, una 14 metri a vela sequestrata alla criminalità pugliese e messa a disposizione ora dei ragazzi della comunità, a loro volta provenienti dalle “esperienze” del carcere minorile di Nisida. La improvvisa passione per la vela e il mare, rivelata dal magone davanti al golfo, rianima il mondo di questi ragazzi, “troppo spesso in bianco e nero - dice Morgera - a due sole dimensioni, dove basta un nonnulla per far partire una reazione, uno scatto di violenza”. Due dei quattro che fanno parte dell’equipaggio hanno precedenti per droga, uno è in carcere per violenze di gruppo legate al calare del cosiddetto branco sul Vomero nelle serate del weekend, un quarto è recluso per rapine seriali a farmacie. I video della traversata, guidata dallo skipper Michele Morgera, figlio di Enzo, li ritraggono intenti a spazzare la barca, a cucinare o “cazzare la randa”. Ma soprattutto a “apprendere la responsabilità verso gli altri, costruire quel senso di comunità che è uno dei migliori sponsor della legalità”, come afferma Franco Roberti, ex procuratore antimafia, ora eurodeputato, ospite ieri al Molosiglio alla cerimonia di presentazione della barca che simbolicamente chiude il significato anticrimine di una attività iniziata oltre dieci anni fa, quando Morgera cominciò a girare uffici e direzioni giudiziarie per sottoporre il suo ardito progetto: offrire ai ragazzi un riscatto fra vele e onde. Un progetto di cui hanno goduto fin qui una settantina di ragazzi con alle spalle storie ricorrenti: nel libro che racconta le prime uscite, con la “Catriona” messa a disposizione dall’associazione “Delfino” di Giovanni Di Guida, c’è il figlio di famiglia operaia sradicata dalla crisi che finisce in carcere per rapina, quello di disoccupato e casalinga arrestato per tentato furto, un altro con genitori separati e sulle spalle un concorso in tentata rapina, infine lo spaccio, la tipologia forse più diffusa. Ma c’è un’altra continuità, quella fondamentale secondo Morgera: “Tutti i ragazzi hanno trasmesso agli altri questa passione, questa concezione attiva di una possibilità che non fosse solo la passiva opportunità di uscire dal carcere”. Nel futuro della “Blue Marlin II” c’è anche la possibilità di offrire escursioni e tour nel golfo di Napoli. “Se ne parlerà in primavera - dice Silvia Ricciardi, cofondatrice di Jonathan insieme a Morgera - Nel frattempo i ragazzi si alleneranno, devono partecipare anche alla regata dei tre golfi”. Attorno all’iniziativa di Jonathan si stringono le autorità. Roberti ammette che “serve più impegno delle istituzioni a sostegno di queste realtà”, poi promette che “mi batterò perché l’Europa metta più risorse contro la devianza minorile”. Pietro Spirito, presidente dell’Autorità portuale, si spinge a chiedere “una piattaforma comune di tutte le associazioni”, perché “gli spazi sono comunque pochi, io stavolta ho detto sì alla “Blue Marlin” presso la Darsena Acton, ma a volte c’è l’imbarazzo di dover scegliere, sarebbe meglio se arrivassero richieste convergenti”. Maria Gemmabella, direttore dei centri per la giustizia minorile di Napoli, ritiene che “bisogna mettersi assieme per razionalizzare le risorse”, chiede a Roberti che “l’Europa escluda dal debito pubblico le spese per le politiche sociali”, invoca di “ristrutturare i beni confiscati, che sono spesso costruiti fuori dai piani urbanistici, e quindi pericolosi per chi li occupa, in tempi meno biblici di quelli legati al codice degli appalti”. Insomma gli addetti ai lavori discutono anche senza peli sulla lingua. Senza nascondere le emozioni, come Piero Avallone, presidente del Tribunale per i minorenni di Salerno, perché “iniziammo dieci anni fa”. O Alfredo Vaglieco, presidente della Lega Navale, che ospita l’incontro e legge la lettera di auguri di Vincenzo Spadafora, oggi ministro, ma fra i primi a seguire Morgera quando era presidente regionale dell’Unicef. Infine anche Edoardo Pizzo, che porta i saluti di Nicola Ricci, segretario campano della Cgil. Pozzuoli (Na). Un presepe vivente nella Casa circondariale femminile agensir.it, 16 novembre 2019 Un presepe vivente nella Casa circondariale femminile di Pozzuoli. Il progetto del Cpia Napoli Provincia 1 prevede la partecipazione di circa 40 allieve italiane e straniere iscritte ai corsi di scuola per adulti nel carcere e rappresenta la fase conclusiva di un percorso didattico che attraverso la contestualizzazione cronologica, storica e ambientale della Natività, lo studio critico di simbologie, personificazioni e allegorie nell’arte napoletana del presepe, il confronto tra fedi e religioni diverse, ha reso possibile l’allestimento di un itinerario presepiale multietnico e inclusivo, un percorso di concreta mediazione culturale. Quest’anno, per la prima volta dopo 5 edizioni, la casa circondariale femminile di Pozzuoli apre al territorio e permette a chiunque sia interessato, previa prenotazione e successiva autorizzazione, compatibilmente con le disposizioni normative vigenti, di accedere alla struttura per seguire l’itinerario della Natività. L’evento avrà luogo dal 10 al 12 dicembre. Lo spirito è quello di coinvolgere la società esterna per abbattere diffidenza e preconcetti. Per prenotarsi è è possibile avanzare richiesta a: adriana.intilla@giustizia.it, entro e non oltre il 22 novembre. Nella prenotazione dovrà essere obbligatoriamente indicato: nome, cognome, luogo, data di nascita, orario di partecipazione (ore 15, ore 15,50 e ore 16,35), mail e recapito telefonico. Ogni richiesta accolta riceverà un messaggio di conferma, che varrà come pass di accesso in istituto. Se la caduta in basso del Paese regola ciò che è legale e giusto di Massimo Krogh Il Mattino, 16 novembre 2019 Napoli, nella prestigiosa Università degli Studi Suor Orsola Benincasa, che in un bellissimo edificio custodisce una grande e antica cultura, ho assistito ad un interessante convegno sulla “Brexit e le nuove sfide dell’Unione Europea”. Si è discusso sul prossimo futuro dell’Europa in una visione europea di democrazia liberale, oggi anche influenzata dalla tecnologia, su cui il Suor Orsola ha fatto a Bruxelles un intelligente e previdente investimento, che ancora una volta premia la sua tradizione culturale. Mentre ascoltavo, pensavo che da noi, che abbiamo avuto in casa il fascismo e che ancora oggi sentiamo soffiare sul tema venticelli non tranquillanti, l’argomento del convegno si presentava molto appropriato ed indicato per i tanti giovani che vi assistevano nella stupenda “Sala degli Angeli”, gioiello del Suor Orsola. Pensavo pure che la maggior garanzia per una democrazia liberale non attaccabile, per evitare che diventi illiberale, dovrebbe soprattutto risiedere nel rispetto delle regole dello Stato di diritto; le quali, però, talvolta possono essere un po’ altalenanti, perché non sempre ciò che stabiliscono le leggi statuali è effettivamente giusto. “Legale” è ciò che corrisponde ai dettami delle leggi dello Stato. “Giusto” è un concetto astratto, infatti ciò che può esserlo per Tizio potrebbe non esserlo per Caio. In altre parole, legale e giusto possono spesso coincidere ma non sempre rispecchiano la stessa realtà. Vidi in televisione un caso in cui si dibatteva su una brigatista coinvolta nell’omicidio Moro, che avendo scontato quasi l’intera pena, chiedeva il reddito di cittadinanza. Qualcuno diceva che, essendosi macchiata di un delitto così grave, inteso a ribaltare lo Stato, non avrebbe dovuto poter beneficiare di un reddito a spese dello Stato; si criticava, perciò, la legge e la conseguente concessione del reddito. Qualcun altro osservava che si trattava di una legge, e dunque buona o cattiva andava applicata. Giorni addietro “Il Mattino” ha riferito di una inchiesta da cui sarebbe emerso che, per i criteri seguiti, il reddito di cittadinanza andava solo ai trafficanti, ai ladri e agli usurai, vale a dire il contrario del previsto. Analoghe cose ho sentito dalla televisione. Io non so quali siano i criteri che porterebbero a questi effetti distorti, comunque, se accadono questi assurdi capovolgimenti, ciò potrebbe dipendere dalla caduta in basso del Paese in via generale. In effetti, le leggi sono emesse per confrontarsi e risolvere esigenze della vita concreta, che non sempre coincidono strettamente con la morale e in qualche caso possono ritenersi anche ingiuste; ma se la pena ha una finalità anche rieducativa, chi l’abbia scontata non sembra che possa essere escluso da un beneficio legalmente previsto. Altri esempi del contrasto tra legale e giusto possono trovarsi nella quota100 e nei contesti migratori. Anche il caso dell’ergastolo ostativo, di cui in questi giorni tanto si discute, tocca in qualche modo l’argomento. Insomma, “legale” e “giusto” sono due concetti ad un tempo lontani e vicini, nel senso che appartengono a sfere diverse (il diritto e la morale), ma possono incontrarsi nelle evenienze della vita. La democrazia liberale è un bene inestimabile che la politica dovrebbe religiosamente custodire piuttosto che turbare come talvolta avviene. Migranti. Perché perdere un miliardo all’anno? La proposta di legge di Giuseppe Brescia Il Riformista, 16 novembre 2019 La campagna “Ero straniero”, sostenuta da 90mila firme, pone una semplice domanda: come garantire canali regolari di ingresso nel nostro Paese? Ad oggi l’unico canale d’ingresso legale nel nostro Paese per motivi di lavoro è rappresentato da un decreto flussi annuale che ogni anno viene adottato in via transitoria. Da oltre dieci anni manca un documento programmatico triennale sulle politiche migratorie. È vero, nel 2006 il mondo era completamente diverso, ma allora come oggi l’immigrazione non rappresenta più un’emergenza. Gli sbarchi si sono drasticamente ridotti e dovremmo concentrarci su rimpatri e integrazione. Quest’anno il decreto flussi autorizza circa 31mila ingressi per i lavoratori non comunitari. Quel decreto, firmato dall’allora sottosegretario Giorgetti, ha confermato lo stesso numero di ingressi autorizzati nel 2018 dal governo Gentiloni. A fronte delle 18mila quote per lavoro stagionale nell’agricoltura e nel turismo sono state presentate 47mila domande e sono stati rilasciati meno di 10mila nulla osta. A fronte invece degli altri 12850 ingressi consentiti per lavoro subordinato o autonomo sono state presentate circa 9200 domande e sono stati rilasciati 88 nulla osta. Il termine per le domande scadrà il prossimo 31 dicembre, ma già oggi è evidente che questo sistema non riesce più a incrociare domanda e offerta. Chi dice che si entra in Italia solo chiedendo permesso va messo di fronte alla realtà: sono gli italiani a chiedere in molti settori l’aiuto degli extracomunitari. Su questo tema serve un confronto pragmatico per venire incontro alle esigenze delle imprese e delle famiglie. Chi chiede di essere regolarizzato non ruba il lavoro agli italiani, vuole solo inserirsi in un percorso di legalità. Le audizioni sulla proposta di legge “Ero straniero”, che riprenderanno martedì in commissione affari costituzionali alla Camera, possono permettere di aprire un dialogo con Confindustria, Confartigianato e Coldiretti perché la battaglia del comitato “Ero Straniero” chiama in causa anche loro. Non bastano i sindacati, non bastano le associazioni del terzo settore, perché la sfida dell’integrazione e del contrasto al lavoro nero è un patrimonio di tutti e non deve essere oggetto di facili polemiche e strumentalizzazioni. Può rappresentare un’ottima occasione di emersione del lavoro nero, con circa 1 miliardo all’anno di introiti per le casse dello Stato. Medio Oriente. I palestinesi nella gabbia di Gaza abbandonati nelle mani di Netanyahu di Alberto Negri Il Manifesto, 16 novembre 2019 L’ingiustizia del destino dei palestinesi è così macroscopica che per non vederla la comunità internazionale si è bendata: la questione non esiste più. Se i curdi sono soli, i palestinesi sulla scena internazionale lo sono ancora di più. Chiusi nella gabbia dell’occupazione israeliana di Gaza sono stati lasciati alle cure sanguinarie del domatore Netanyahu che ha avuto buon gioco a farli materialmente a pezzi e a dividerli politicamente. È lui che sulla lavagna segna, di volta in volta, i buoni e cattivi - Hamas adesso è tra i buoni, il Jihad islamico tra i cattivi - con un criterio che risponde non più come un tempo soltanto a logiche securitarie e repressive ma a quelle del suo tornaconto politico personale: si tratta di un gioco crudele e alla lunga anche pericoloso, quando un giorno la società israeliana si dovesse risvegliare dal coma in cui è stata precipitata in questi anni, come scrive anche il quotidiano Haaretz. I civili palestinesi - sottolinea su il manifesto Michele Giorgio - fatti a pezzi da un missile in quanto palestinesi non fanno neppure più notizia. Almeno non tanto quanto i civili israeliani feriti dai razzi palestinesi lanciati da Gaza. Gli israeliani hanno per lo meno dei rifugi dove ripararsi, i palestinesi neppure quelli, così morti e feriti si contano a dozzine, con intere famiglie distrutte. L’aspetto però più sconvolgente è che la questione palestinese non esiste più: è stata cancellata, insieme ai suoi morti. Esiste soltanto come un affare di sicurezza israeliana e qualche timida uscita europea di cui un esempio è la sentenza della Corte di giustizia che vuole il bollino “territori occupati” sull’export israeliano nel continente. Merci che rappresentano, sul volume globale delle vendite dello stato ebraico all’estero, forse poco più dell’uno per cento. Ma basta anche l’uno per cento a sollevare da parte israeliana polemiche di ogni tipo: si troverà il modo di applicare l’etichetta sui prodotti scritta così in piccolo che non basterà per leggerla una lente di ingrandimento. L’ingiustizia del destino dei palestinesi è così macroscopica che per non vederla la comunità internazionale si è bendata. Il fatto è che anche dentro ai palestinesi sembrano che non ci siano alternative alla disgregazione. Molti abitanti di Gaza e buona parte anche di quelli della Cisgiordania hanno perso fiducia nei confronti dell’autorità palestinese di Mahamoud Abbas controllata da Fatah. La politica di conciliazione avviata con Israele durante il cosiddetto “processo di pace” si è rivelata un fallimento, le colonie ebraiche si sono moltiplicate e ampliate, la stessa opinione pubblica araba respinge la collaborazione securitaria tra l’Autorità palestinese e l’esercito israeliano in Cisgiordania. Per non parlare della corruzione che ha minato le istituzioni nel periodo in cui Fatah è stata al potere a Gaza, alimentando i risentimenti a favore di Hamas, giudicato più onesto. In realtà Abbas ha fatto ben poco contro le colonie, non ha condotto la lotta contro l’occupazione e ha ceduto pure su Gerusalemme: così la pensano i palestinesi, e non hanno torto. Ora anche Hamas è finito nella cerchia, assai provvisoria, dei “favoriti” di Netanyahu, come dimostra l’uccisione con un drone di Abu al Atta, comandante militare della Jihad islamico nella Striscia, e la decisione dei leader di Hamas di non partecipare alla risposta per l’assassinio di Atta. Il domatore fa bene i conti sulla pelle dei palestinesi, ma anche tra i suoi nemici in Israele costretti a schierarsi con lui. Ricostruire la casa palestinese per potere meglio fronteggiare Israele sembra essere la priorità ma finora non si è visto ancora molto di concreto. Si può però individuare un denominatore comune tra gli abitanti di Gaza e quelli della Cisgiordania: sono in molti a chiedere cambiamenti politici radicali e un rinnovamento generazionale. Le vecchie organizzazioni - e anche Hamas lo è visto che gli israeliani invitavano noi giornalisti stranieri a seguire i loro seminari sull’organizzazione già 30 anni fa - non funzionano più, sempre più stritolate nella morsa del domatore israeliano, il quale, di tanto in tanto, lancia la sua offa nella gabbia di Gaza come la Sibilla gettava a Cerbero una focaccia soporifera, per rendere libero il passaggio a una nuova fase di scorporo e annessione di territori palestinesi. Tanto qui nessuno se ne accorge. Lo stato palestinese sembra scomparso. Non c’è n’è traccia per esempio in quello che è stato a un certo punto contrabbandato come l’”accordo del secolo” preparato da Washington e sostenuto dai Paesi del Golfo. Ora sembra sia stato archiviato ma questo piano seppelliva anche l’idea stessa di una Palestina indipendente dove la Striscia di Gaza era concepita come un’entità separata dalla Cisgiordania. Nessuno qui si rivolta per l’annessione di Gerusalemme, contro ogni risoluzione Onu, nessuno si indigna per la coppia criminale Trump-Erdogan, quest’ultimo un mestatore che ai palestinesi ha fatto più male che bene. In compenso c’è sempre il coro americano ed europeo che Israele “ha diritto a difendersi per i lanci dei razzi e il terrorismo” dimenticando che l’ultima escalation l’ha innescata proprio Netanyahu. Il domatore ha il senso del macabro e noi lo assecondiamo. La Cpi apre infine l’inchiesta sui crimini birmani contro i Rohingya. Ma in Bangladesh di Daniele Archibugi* Il Manifesto, 16 novembre 2019 Il Myanmar non è membro della Corte penale internazionale e questo ha impedito fin qui alla corte di agire. L’escamotage consiste nell’indagare almeno sulle violenze transfrontaliere. Meglio di niente? La Corte penale internazionale (Cpi) ha alla fine deciso di aprire un’indagine sui crimini commessi dal governo birmano contro la minoranza Rohingya. Perché tale indagine non è già stata aperta quando è iniziata la persecuzione nell’ottobre 2016? Qual è suo valore dopo tre anni dall’inizio del massacro? Giornalisti e associazioni per i diritti umani hanno già documentato tempestivamente i crimini commessi dal governo del Myanmar. La Birmania non è un membro della Cpi, e la mancanza di competenza ha impedito alla corte di agire. Tuttavia, dal momento che alcuni crimini sono stati commessi dal governo del Myanmar in Bangladesh, il paese vicino dove si sono rifugiati da circa 600.000 a un milione di rifugiati Rohingya, si è aperta una possibilità. Il Bangladesh, infatti, è uno dei 122 stati che ha aderito alla Corte. La Cpi è quindi in grado di indagare sui crimini transfrontalieri commessi dagli agenti del governo del Myanmar, ma non sulla maggior parte delle violazioni che si sono verificate entro i confini dello stato. Meglio di niente, potremmo dire, ma la Corte avrebbe potuto fare di più? Nei suoi quasi 20 anni di attività, la Cpi è riuscita a mandare in prigione solo una manciata di criminali ed è improbabile si aggiungano ad essi qualche soldato o poliziotto birmani, visto che saranno debitamente protetti dal proprio governo. In queste circostanze, la Cpi continua ad essere una sorta di autorità morale senza denti per mordere. Altre organizzazioni della società civile sono riuscite a svolgere esercizi simili molto più rapidamente e con risorse molto minori: il Tribunale permanente dei popoli è già riuscito a emettere una sentenza molto dettagliata, sulla base delle informazioni raccolte da organizzazioni per i diritti umani, giornalisti e vittime. E ben due anni fa. Il ruolo della giustizia penale internazionale non è solo quello di punire una manciata di criminali. A partire dal Tribunale di Norimberga, i processi servono a denunciare i reati commessi, dare voce alle vittime, riscrivere la storia e spianare la strada per la coesistenza futura. Ma la Cpi, creata dopo una lunga campagna condotta da gruppi per i diritti umani e da qualche governo progressista, dovrebbe ora con più coraggio rispondere alle aspettative. I Rohingya avrebbero avuto bisogno di un’autorevole missione internazionale per prevenire le persecuzioni, consentendo loro di vivere in sicurezza nella loro patria e non l’hanno ottenuta. Avrebbero avuto bisogno di assistenza internazionale per sopravvivere nei campi dei rifugiati e l’hanno ottenuta solo parzialmente. Avrebbero avuto bisogno che le loro voci fossero ascoltate e che i responsabili dei crimini fossero identificati e, auspicabilmente, puniti. La Cpi non ha competenza sulle prime due faccende. Ma avrebbe potuto provvedere almeno la terza, e molto prima. Speriamo sia ora in grado di chiudere tempestivamente le indagini. Altrimenti i Rohingya, dopo i danni, subiranno anche la beffa. * Co-autore di “Delitto e castigo nella società globale” (Roma, Castelvecchi, 2018).