Giustizia, tempi certi nei processi per superare il nodo prescrizione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 15 novembre 2019 Caccia a un compromesso che possa tenere insieme nuova prescrizione e tempi certi per la celebrazione dei processi penali. Dove la soluzione che potrebbe mettere d’accordo gli azionisti di maggioranza del Governo giallorosso, Movimento 5 Stelle e Pd, potrebbe passare per la determinazione di rigidissimi termini di fase. Cosi come proposto in un documento con le proposte Pd di modifica al disegno di legge di riforma penale e ordinamentale consegnato al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. eri le forze di maggioranza, alla presenza del premier Giuseppe Conte di ritorno da Venezia, si sono trovate faccia a faccia per un vertice aggiornato poi a martedì sera. Bonafede riconosce che “sono stati fatti passi avanti in spirito collaborativo. Restano distanze sulla prescrizione che entrerà in vigore a gennaio. Continuiamo a lavorare con determinazione, ma ho chiarito che dal mio punto di vista abbiamo aspettato troppo ed è ora di accelerare”. Di confronto positivo parlano anche il sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis e Andrea Bazoli, esponenti del Pd, presenti al summit. Entrambi concordano sulla necessità di individuare istituti e forme, per ora estranee al nostro ordinamento penale, che sdrammatizzino il tema della prescrizione, restituendo certezza alla durata dei giudizi penali. L’utilizzo della sola leva disciplinare come tuttora previsto dalla bozza di disegno legge è considerato, da tutti, comunque insufficiente. Da una parte è troppo timido e rischia di non dare la necessaria effettività ai termini individuati (da 6 a 3 anni complessivi a seconda della complessità del procedimento), dall’altra evita di riconoscere che non tutti i ritardi possono essere addebitati a negligenze o trascuratezza dei magistrati. E allora l’idea è quella di scandire, fase processuale per fase processuale, ma con un’attenzione particolare all’appello, la lunghezza massima oltre la quale non si potrà andare. Una scansione articolata e, secondo la proposta Pd, concentrata in particolare sul secondo grado, visto che sul primo vigila ancora, quanto a rispetto della durata, la prescrizione di nuovo conio, che congela i termini dopo il verdetto di primo grado. E che terrà conto dell’esito, condanna o assoluzione, di quest’ultimo. In caso di mancato rispetto dei termini predeterminati a decadere è l’azione penale stessa. A questa proposta, che potrebbe rappresentare il punto di caduta del confronto, si accompagnerebbero poi misure comunque significative come una scansione puntuale della durata delle indagini preliminari, dove lo schema potrebbe anche essere quello individuato dalla bozza di disegno di legge consegnata ai partiti di maggioranza, che responsabilizza il Pm utilizzando lo strumento di una discovery anticipata per contrastare le sue negligenze. Come pure dovrebbero restare in campo i nuovi e più appetibili riti alternativi, dall’abbreviato al patteggiamento, novità dell’ultima ora, per il quale sarebbe innalzato a 8 anni il limite della pena che può essere richiesta dalle parti (era di 10 anni quello concordato da Anm e Camere penali al tavolo tecnico con il ministero nella primavera scorsa). Di certo il tempo ora stringe. E non solo per il pressing di Bonafede. Da lunedì infatti inizia l’esame del disegno di legge, in quota opposizione, che cancella la riforma Bonafede e ripristina quella Orlando, centrata su una sospensione di 36 mesi tra appello e Cassazione, di fatto mai entrata in vigore. Una provocazione forse, ma anche una tentazione cui, in caso di mancato accordo, non è detto che deputati del Pd resterebbero, per amore di coalizione, insensibili. Prescrizione, maggioranza in un vicolo cieco: il summit aggiornato a martedì di Errico Novi Il Dubbio, 15 novembre 2019 È un vicolo cieco. Anche se i toni, alla fine del lungo vertice di maggioranza sulla giustizia, sono stemperati. In fondo, è proprio il guardasigilli Alfonso Bonafede a essere più cupo di tutti: “Restiamo distanti sulla prescrizione”. Lo dice con chiarezza. E sa che martedì dovrà dare una risposta. Perché l’ampio summit tenuto ieri pomeriggio a Palazzo Chigi insieme con Giuseppe Conte e le delegazioni di tutti i partiti di maggioranza è durato sì 2 ore e mezza ma di fatto non si è chiuso. È aggiornato al prossimo 19 novembre. Potrebbe essere il giorno della verità. Bonafede in particolare dovrà dare una risposta al Pd. Ovviamente sulla prescrizione. Dovrà dire se accetta le proposte dell’alleato, tutte con un solo punto di caduta: “Evitare che anche un solo processo sia infinito”, per dirla con il vicecapogruppo dem a Montecitorio Michele Bordo. Chiarissimo nel ripetere che “non possiamo sapere quali effetti produrrà la riforma penale, ma anche se il rischio di durata infinita riguardasse un solo giudizio, servirebbe una soluzione per quel singolo caso”. Sul tappeto ci sono varie ipotesi. “Anche modulabili”, spiega Bordo, “a seconda della gravità del reato per cui si procede: si può prevedere un meccanismo compensativo se la sentenza definitiva sfora il termine in cui il reato si sarebbe prescritto. Ma c’è anche la necessità di una prescrizione processuale qualora la durata fosse eccessiva”. Ed è il punto dirimente. Perché le altre ipotesi, come l’indennizzo per chi è assolto troppo tardi (aggiuntivo rispetto al risarcimento ex legge Pinto) non sono inaccettabili, dal punto di vista dei 5 Stelle. E non lo è neppure la proposta, avanzata sempre dal Pd, di uno sconto di pena per chi è condannato in via definitiva ma in tempi troppo lunghi. Il vero nodo è il limite temporale massimo, la prescrizione del processo quando lo sforamento dovesse risultare clamoroso. E qui che Bonafede alza un muro invalicabile. Se davvero non cambierà idea, come reagirà il partito di Zingaretti? “Valuteremo dopo che martedì Bonafede avrà risposto”, dice Bordo, “adesso è prematuro”. Una delle incognite si chiama Italia viva. Al vertice con Conte è rappresentata dai caprigruppo nelle due commissioni Giustizia: la deputata Lucia Annibali e il senatore Giuseppe Cucca. Il quale parla di “incontro dai toni concilianti”. Ma oggi l’avvocato cassazionista di Nuoro che ha scelto di stare con Renzi potrebbe trasmettere a Bonafede le osservazioni del suo partito, non ancora messe nero su bianco. Altra variabile è il ruolo del premier. Ieri Conte ha spiegato che “serve una sintesi”. È un segnale per il Movimento più che per il Pd. Ma non basta a prevedere un cedimento di Bonafede sulla prescrizione. Nonostante, tra le previsioni ottimistiche, vi sia anche quella del sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis, anche lui del Partito democratico: “Noi siamo sicuri che il confronto porterà a una soluzione”, dichiara a fine vertice, “e cioè che tenga insieme l’esigenza di un processo rapido con meccanismi in grado di garantire un termine alla conclusione dei processi”. Giorgis è un costituzionalista, e ritiene indispensabile che prima o poi quel termine arrivi. Ma i 5 Stelle saranno disposti a concederlo? Su un punto non si discute: “La nuova prescrizione entrerà in vigore a gennaio”, scandisce Bonafede. Nessun rinvio. Anche perché il guardasigilli pretende casomai il via libera alla riforma dei processi penali e civili e del Csm: “Dal mio punto di vista abbiamo aspettato anche troppo e bisogna accelerare”. Chiarito che il blocca- prescrizione non sarà congelato, è evidente pure che l’eventuale antidoto sarebbe inserito proprio nel ddl delega sul penale (e sul Csm), sempre che arriverà un giorno in Consiglio dei ministri. Intanto Bonafede in queste ore ha ripreso a confrontarsi, oltre che con il Cnf, anche con Unione Camere penali e Anm, che a inizio primavera avevano proposto con una bozza congiunta soluzioni acceleratorie del processo, prima accantonate per il no della Lega e ora tutte recuperate. Tra queste, l’estensione del patteggiamento, anche rispetto alla pena massima - innalzata a 8 anni - applicabile dal giudice su richiesta della Procura e della persona accusata. Sono diventati più stringenti i limiti oltre i quali scattano sanzioni per i giudici: variano da un massimo di 6 anni per i reati più gravi e i processi celebrati dinanzi ai collegi fino a un minimo di 3 anni per i giudizi dinanzi al giudice monocratico, con un limite di 1 anno soltanto per ciascuna fase. Una rivoluzione, l’ha sempre considerata Bonafede. Ma c’è un però: l’illecito disciplinare per il giudice tardivo scatta solo se è negligente e solo se i ritardi riguardano almeno un quinto dei fascicoli di cui è titolare. Se il carico è eccessivo e i casi troppo complessi non può essere punito. Ed è proprio la fragilità del meccanismo che non piace al Pd. È qui che riappare l’incubo del processo secolare. Il che non vuol dire che ci sia una risposta politica per allontanarlo. Prescrizione, Pd contro Bonafede: “Fermala”. “No, cambia a gennaio” di Liana MIlella La Repubblica, 15 novembre 2019 Ancora scontro sulla prescrizione tra il Pd e Bonafede. Dopo un vertice di tre ore a palazzo Chigi il Guardasigilli tiene il punto: “Sono stati fatti passi avanti con spirito collaborativo ma rimangono ancora distanze sulla prescrizione che entrerà in vigore a gennaio”. Si noti bene quel “entrerà in vigore a gennaio”, segno che il ministro della Giustizia di M5S non molla, mentre i Dem chiedono che il blocco della prescrizione slitti, in realtà per finire definitivamente nel dimenticatoio. Per una coincidenza, mentre nel governo arranca il rapporto Pd-M5S anche sulla giustizia, al Csm proprio i consiglieri laici pentastellati votanocon i magistrati della sinistra di Area e ai davighiani (3, più 4, più 5) per eleggere il nuovo procuratore generale di Roma, Giovanni Salvi, toga di Magistratura democratica, ma soprattutto dall’eccellente carriera, pm a Roma per vent’anni, protagonista di indagini importanti, da Ustica a Pecorelli a Calvi, e dopo una parentesi al Csm, procuratore a Catania e procuratore generale a Roma. Il Csm si spacca, Magistratura indipendente vota per il pg di Napoli Luigi Riello, Unicost fa quadrato sul “suo” Marcello Matera. Il presidente Mattarella ricorda che “le nomine devono essere guidate solo da indiscutibili criteri attinenti alle capacità professionali dei candidati”. Senza citare il caso Palamara (sotto inchiesta a Perugia per corruzione), che ha portato anche alle dimissioni dell’ex Pg Fuzio, il vice presidente del Csm Ermini vede nella nomina di Salvi “un segnale positivo”, anche se “non c’è stata l’unanimità”. Ma sulla giustizia l’unanimità è un miraggio da sempre, come dimostra lo scontro sulla prescrizione, prima Bonafede contro Lega, adesso Bonafede contro Pd. Da una parte c’è il Guardasigilli, dall’altra gli altri, il Pd, Italia viva, Leu. S’incontrano dal premier Conte, ma dopo quasi tre ore sono costretti a un nuovo rinvio a martedì. Alle 21, perché l’idea di Conte è di fare notte, ma chiudere sulla giustizia. Stavolta sarà difficile. Perché Bonafede non vuole mollare sull’entrata in vigore, a gennaio, della sua prescrizione dei singoli reati che “muore” definitivamente dopo il processo di primo grado. Convinto che ci siano tre-quattro anni di tempo per lavorare sul processo, visto che la nuova norma riguarda i reati commessi dopo gennaio. Il Pd invece è contro. E lo ha ribadito ieri, dopo un summit del giorno prima con l’ex Guardasigilli Orlando. Il Pd vuole la prescrizione “processuale”: tempi certi per ciascun grado di giudizio, tipo non più di tre anni per il primo grado, due per l’appello, uno per la Cassazione. Un sistema che farebbe venir meno la stessa prescrizione dei singoli reati, divenuta “a quel punto inutile” secondo il Pd. Bonafede ha contro anche Italia viva e Leu. Ma insiste: “La mia prescrizione entrerà in vigore a gennaio”. Il Pd però è pronto a votare lo stop alla legge Bonafede proposto dal responsabile Giustizia di Fi Enrico Costa. Vittime di reato, perché è necessario coordinare i servizi di assistenza di Massimo Filipponi gnewsonline.it, 15 novembre 2019 Si è svolta questa mattina nella Sala Zuccari del Senato di Palazzo Giustiniani la tavola rotonda “Proposta di istituzione di un Servizio nazionale di assistenza alle vittime di reato”. Durante i lavori, divisi in due sezioni, è stato affrontato il tema “Non c’è sicurezza senza cura. Una legge per i diritti di assistenza alle vittime di reato”. Quello del sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis è stato il primo intervento. “È importante procedere - ha detto Giorgis - verso l’istituzione di un Coordinamento nazionale dei servizi di assistenza delle vittime, per dare al più presto una completa e omogenea attuazione su tutto il territorio alle raccomandazioni internazionali, anche procedendo nel solco indicato dalle best practices di realtà già vive ed operative” Subito dopo si sono confrontati i rappresentanti del Tavolo di Coordinamento dei servizi di assistenza alle vittime di reato. Il Tavolo è stato istituito il 29 novembre 2018 al Ministero della Giustizia e nel suo atto istitutivo è scritto che “l’Italia è dotata di una esaustiva normativa relativa alla posizione della vittima nel procedimento e nel processo penale, ma non di una disciplina organica dei servizi di assistenza alle vittime e di un servizio nazionale di assistenza a1le vittime di reato”. Il Tavolo è attualmente costituito dal Ministero della Giustizia, Ministero dell’Interno, Conferenza stato-regioni, Conferenza delle regioni, Consiglio nazionale forense, Conferenza dei rettori delle Università italiane, Rete Dafne Italia. Nel documento allegato Donatella Donati, direttore generale della Giustizia Penale, che ha coordinato i lavori della sessionemattutina, puntualizza un principio che è alla base dello spirito del Tavolo: “Le vittime non devono esser lasciate sole ad affrontare la loro battaglia per chiedere giustizia ma devono essere assistite nel percorso giudiziale (dalla fase della denuncia e per tutto il processo) protette e supportate durante al giudizio in relazione alle diverse esigenze rappresentate a seconda della tipologia del reato di cui sono vittime”. Nuovo pg della Cassazione, ma il Csm si divide sul voto di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 15 novembre 2019 Eletto Giovanni Salvi alla presenza di Mattarella. “Contributo prezioso”. Al primo appuntamento importante dopo il “caso Palamara”, mezzo Consiglio superiore della magistratura sceglie il nuovo procuratore generale della Cassazione: 12 consiglieri su 24 (due posti sono vacanti) hanno eletto Giovanni Salvi, 67 anni di cui 40 con la toga sulle spalle, attuale procuratore generale di Roma. L’altra metà dell’organo di autogoverno si sparpaglia tra 5 astensioni, 4 voti per Luigi Riello (pg a Napoli) e 3 per Marcello Matera, avvocato generale in Cassazione. Una divisione che rispecchia i diversi orientamenti delle correnti, schierate compatte ciascuna con il candidato già votato in commissione Direttivi. A presiedere la seduta del plenum è arrivato il capo dello Stato Sergio Mattarella, il quale avrebbe preferito un esito diverso, se non unanime certamente più ampio, ma con la sua presenza (incerta fino alla vigilia) ha forse evitato spaccature più evidenti o un ballottaggio che avrebbe enfatizzato ancor più la frattura. “Colgo l’occasione così importante - ha detto il Presidente all’esito del voto - per ribadire l’esigenza da tante parti sottolineata che il Csm ha oggi più che mai e come sempre la necessità di dover assicurare all’ordine giudiziario e alla Repubblica che le sue nomine siano guidate soltanto da indiscutibili criteri attinenti alle capacità professionali dei candidati”. Anche il voto di ieri è figlio dello scandalo delle nomine pilotate emerso con le indagini per corruzione sul magistrato Luca Palamara, che concertava strategie con il giudice-deputato Cosimo Ferri (leader di Magistratura indipendente), l’ex ministro Luca Lotti e cinque consiglieri che si sono dimessi dal Csm. Come pure ha dovuto fare Riccardo Fuzio, pg della Cassazione fino a luglio, quando ha lasciato l’incarico “manifestando senso delle istituzioni in un momento particolarmente delicato e difficile per tutta la magistratura”, ha ricordato ieri Mattarella. Per il nuovo pg hanno votato i 5 rappresentanti di Autonomia e indipendenza (il gruppo di Piercamillo Davigo che s’è staccato qualche anno fa da Mi), i 4 di Area (il cartello della sinistra giudiziaria a cui aderisce lo stesso Salvi, che nella sua carriera è stato anche componente del Csm), e i 3 “laici” indicati dai Cinque stelle. Per Riello, pure lui ex consigliere del Csm per i “centristi” di Unicost, hanno votato i tre rappresentanti di Mi e il “laico” di Forza Italia Michele Cerabona. Per Matera, invece, hanno votato i 3 consiglieri di Unicost, che hanno deciso di non convergere su Riello anche per smarcarsi dall’alleanza con Mi che poteva apparire imbarazzante dopo le trame svelate dall’inchiesta su Palamara. Gli altri 3 “laici” del centrodestra si sono astenuti, come il vice-presidente David Ermini e il primo presidente della Cassazione Giovanni Mammone. Se ce n’era bisogno, il voto ha mostrato che le tossine dello scandalo esploso nella scorsa primavera-estate non sembrano smaltite dall’organo di autogoverno, chiamato a breve ad altre nomine importanti; a cominciare dalla scelta del nuovo procuratore di Roma, che tanto interessava al trio Palamara-Ferri-Lotti. Prima di tornarci come procuratore generale, Giovanni Salvi ha svolto per vent’anni il ruolo di pm nella capitale, occupandosi di indagini antiterrorismo (soprattutto sull’eversione nera); in seguito ha guidato la Procura di Catania, coordinando importanti inchieste antimafia e sul traffico di esseri umani. Ora torna al Csm come componente di diritto dove, assicura Mattarella, “potrà fornire un contributo prezioso al suo funzionamento efficace e trasparente”. Stefano Cucchi è stato ucciso. Condannati i due carabinieri di Eleonora Martini Il Manifesto, 15 novembre 2019 Dodici anni di reclusione per omicidio preterintenzionale. Pene per falso agli altri due militari. Sentenza anche per i medici: reato in prescrizione, responsabili solo civilmente. Quando il presidente della prima Corte d’Assise di Roma, Vincenzo Capozza, finisce di leggere la sentenza che condanna per omicidio preterintenzionale Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, i due carabinieri che la notte del 15 ottobre 2009 pestarono Stefano Cucchi spezzandogli la schiena, ci si sarebbe potuto aspettare di sentire, nell’aula bunker di Rebibbia, un qualche suono di giubilo. E invece no: com’è nello stile di Rita Calore, di Giovanni e Ilaria Cucchi, e dell’avvocato Fabio Anselmo, non una parola, non un gesto, e neppure un sorriso. Solo lacrime, a sciogliere la tensione di questi lunghissimi anni. E il pensiero di Stefano nei loro occhi. Il Pm Giovanni Musarò - stesso rigore, stesso comportamento - aveva chiesto 18 anni di carcere per i due militari che non erano presenti in aula. Il collegio giudicante, composto anche di giudici popolari, li ha invece condannati a 12 anni, all’interdizione perpetua dai pubblici uffici e al risarcimento pecuniario della famiglia Cucchi da stabilirsi in sede civile. Assolto dall’omicidio preterintenzionale, “per non aver commesso il fatto”, il carabiniere Francesco Tedesco (presente in aula), l’imputato che nel corso del processo bis è diventato il testimone chiave del pestaggio e l’accusatore dei suoi due colleghi, condannato però per falso a due anni e sei mesi di reclusione. Secondo questo primo grado di giudizio, anche se ha compilato un falso verbale, non è lui ad aver orchestrato il depistaggio. Diversa la posizione del maresciallo Roberto Mandolini, all’epoca dei fatti comandante della stazione Appia, condannato per falso a 3 anni e 8 mesi di reclusione e interdetto dai pubblici uffici per 5 anni. Entrambi, Tedesco e Mandolini, sono stati invece assolti dall’accusa di calunnia, reato andato in prescrizione e perciò riqualificato in falsa testimonianza. Entrambi però dovranno risarcire i tre agenti penitenziari che hanno subito il primo processo e che ieri erano seduti nei banchi in attesa della sentenza. Infine assolto il carabiniere Vincenzo Nicolardi, accusato di calunnia, perché “il fatto non costituisce reato”. Entro 90 giorni si avranno le motivazioni della sentenza. E forse allora capiremo se è vero quanto sostenuto da uno dei legali di parte civile, l’avvocato Stefano Maccioni, che ha accolto con sollievo la sentenza arrivata da piazzale Clodio pochi minuti prima della condanna per omicidio preterintenzionale dei due carabinieri. A qualche chilometro di distanza, infatti, la Corte d’assise d’Appello presieduta da Tommaso Picazio ha giudicato i cinque medici dell’ospedale Pertini, dove Stefano Cucchi morì una settimana dopo il pestaggio, assolvendo “per non aver commesso il fatto” solo la dottoressa Stefania Corbi (era in ferie nei due giorni precedenti la morte del ragazzo) mentre ha stabilito per il primario del Reparto di medicina protetta, Aldo Fierro, e per gli altri tre medici, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite e Silvia Di Carlo, il non doversi procedere per intervenuta prescrizione. Erano accusati di omicidio colposo e i giudici hanno comunque confermato la responsabilità civile dei quattro sanitari, da stabilirsi in separata sede, nei confronti dell’unica parte civile rimasta in quel processo, il Comune di Roma. Secondo l’avvocato Maccioni, questa sentenza dimostra una volta di più “che sussiste ed è evidente il nesso causale tra le percosse e la morte”. Evidentemente se ne è convinta anche la Corte. E ora, quando la selva di fotografi si fa intorno alla famiglia Cucchi, Ilaria si rivolge al suo avvocato e compagno, Fabio Anselmo: “Forse ora Stefano potrà risposare in pace”, dice. “Ci sono voluti dieci anni e chi è stato al nostro fianco ogni giorno sa benissimo quanta strada abbiamo dovuto fare”. Anche il padre Giovanni e la madre Rita ricambiano gli abbracci, e asciugano le lacrime. “Ringraziamo tutti quelli che non ci hanno abbandonato”. Il loro pensiero va in particolare ai magistrati Pignatone e Musarò, al carabiniere Riccardo Casamassima, che era in aula, e alla moglie Maria Rosati (tra i primi a rompere il muro di omertà), “per tutto quello che stanno passando”. “Grazie anche a Tedesco che, seppur in ritardo - puntualizza Giovanni Cucchi - ha permesso il corso della giustizia”. È a questo punto che un carabiniere in servizio nell’aula bunker di Rebibbia, un volto conosciuto a chi ha seguito tutte le udienze, si avvicina a Ilaria e le bacia la mano: “Finalmente dopo tutti questi anni è stata fatta giustizia”, dice accompagnando i genitori Cucchi fuori, lontano dai microfoni. E, come hanno fatto in aula in tanti, a cominciare dal Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, anche a chilometri di distanza c’è chi si stringe idealmente a loro. “Questa sentenza rende giustizia anche per quelli che non sono riusciti ad ottenerla”, commenta Patrizia Moretti, mamma di Federico Aldrovandi. Il mondo della politica invece come al solito si spacca: si congratulano tra gli altri il presidente della Camera Roberto Fico, il ministro Luigi Di Maio e molti esponenti della sinistra, mentre Matteo Salvini, che più volte ha attaccato Ilaria, si è rifiutato di chiedere scusa: “Se qualcuno ha usato violenza, ha sbagliato e pagherà ma questo dimostra che la droga fa male. Io combatto la droga sempre e comunque”. Polemiche che Giovanni Cucchi rifiuta di commentare: “Nessuno ci restituisce Stefano ma questa sentenza farà luce su tutto il resto”. Cucchi, la verità nascosta per dieci lunghi anni di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 15 novembre 2019 Dieci anni fa Stefano Cucchi è stato torturato fino alla morte. I giudici lo hanno scritto nella loro sentenza. Non si può mai essere felici quando qualcuno è condannato a dodici anni di carcere, neanche in questo caso. Si può però essere rinfrancati, finalmente rasserenati e protetti da una decisione che avvicina le istituzioni ai cittadini. Nessuno deve ritenersi infatti al di sopra della legge. Non c’è divisa che tenga. La divisa non è uno scudo penale, non è un fattore di immunità. La divisa è fonte di accresciuta responsabilità. Chiunque svolga una delicata funzione di ordine pubblico, di sicurezza e di custodia deve sentire il peso morale di essere il primo garante della legalità e dei diritti umani. La parola tortura non ha potuto essere pronunciata dai giudici nel dispositivo della sentenza solo perché in quel lontano 2009 la tortura per il nostro pavido legislatore non era ancora meritevole di essere considerata un delitto. È stata per troppo tempo una parola impronunciabile. La violenza brutale e mortale subita dal povero Stefano ha finalmente trovato dei colpevoli. È stata un’inchiesta difficile, tormentata da tentativi di depistaggi, di omertà diffuse. Ci vorrebbe molta determinazione, pazienza, forza morale dei familiari per andare avanti. Dieci anni ci sono voluti. Due lustri conditi di minacce per i familiari, odio sui social, meschinità e fango su Stefano e sulla sua bellissima famiglia, stremata dal dolore e dalla fatica di sopportare un peso inaspettato, tragico. Non bastava un figlio, fratello torturato a morte. Bisognava anche reagire a chi ha sempre insinuato che tutto sommato Stefano se la fosse andata a cercare. Anche ieri Matteo Salvini, nel commentare la sentenza, ha evocato, mancando di pudore e di rispetto per i familiari, il tema delle sostanze stupefacenti affermando che lui lotterà sempre contro la droga. Solo che ora c’è una sentenza che parla chiaro. Fece bene il presidente del Consiglio Giuseppe Conte a chiedere scusa a Ilaria a nome dello Stato. Salvini si è invece persino ieri rifiutato di farlo. Lui, che come ogni populista afferma di essere dalla parte del popolo si rifiuta di scusarsi con una famiglia che è anch’essa parte del popolo romano, una famiglia e una sorella contro la quale si era lasciato andare alle sue solite espressioni truci. Il popolo dunque gli volti le spalle, gli ricordi che il popolo è fatto di ragazzi, donne e uomini che lo Stato deve sempre rispettare e proteggere. Infine, un plauso a quegli investigatori e giudici che hanno creduto nella possibilità di arrivare alla verità storica. Stefano non era morto perché era malato, tossico, scivolato dalle scale. Stefano era morto in quanto pestato, torturato fino a perdere la vita. Ieri, come ha detto Ilaria, Stefano ha riconquistato la pace. Insieme a lui, noi tutti invece abbiamo conquistato un pezzo di fiducia nella giustizia e nelle istituzioni. Cucchi. La forza della famiglia che trasformò il lutto in una battaglia civile di Luigi Manconi La Repubblica, 15 novembre 2019 Ho conosciuto Ilaria Cucchi esattamente dieci anni fa. Avevo appreso tardivamente dal tg3 della morte di suo fratello, avevo rintracciato il suo numero di telefono e l’avevo chiamata. Ci siamo visti un’ora e mezza dopo in un bar vicino al Pantheon - aveva al polso un orologetto con un cinturino metallico ad anelli e mentre beveva un caffè le dissi: “Se crede posso cercare di aiutarvi”. Lei mi guardò un attimo e, senza esitare, mi rispose: “Sì”. Probabilmente non sapeva nulla di me ma le riusciva difficile attribuirmi cattive intenzioni e, d’altra parte, non sapeva da dove cominciare. Durante l’incontro, durato pochi minuti, continuai a osservare il suo polso, quasi che spostare lo sguardo sul suo volto determinato potesse farmi provare qualcosa di simile a un senso di colpa. (È una sensazione che altri hanno avvertito e non è necessario, credo, spiegarne il motivo). Più tardi al telefono, le proposi di organizzare per i giorni successivi una conferenza stampa. E, anche stavolta, la risposta positiva di Ilaria arrivò rapida. Allora non ero membro del governo né senatore (lo sarei diventato quattro anni dopo). La nostra associazione, A Buon Diritto, e Antigone potevano contare solo sull’esperienza maturata nella tutela dei diritti dei detenuti e nella mobilitazione intorno alla morte di Federico Aldrovandi, a seguito delle violenze subite da quattro poliziotti (poi condannati in via definitiva). Il pomeriggio precedente la conferenza stampa, Ilaria mi chiamò, inquieta, e mi disse di aver ricevuto le foto del corpo del fratello scattate all’obitorio; e che né lei né altri familiari avevano avuto cuore di guardarle, temendo lo strazio. Chiese, dunque, il mio parere sull’opportunità o meno di mostrarle in pubblico.ù Risposi che loro, solo loro, avevano il diritto di decidere quale scelta fare. Io già da qualche tempo ero pressoché cieco: e così, quelle immagini, in tutto il loro orrore, mi furono descritte e “raccontate”, tra le lacrime, da Valentina Calderone e Valentina Brinis. Solo a sera tarda Ilaria mi chiamò per dirmi che la famiglia aveva deciso di far conoscere quelle istantanee. Da quel momento cambiò tutto. Nel corso dell’incontro con i giornalisti, mentre parlava Giovanni Cucchi, mi resi conto di cosa stesse davvero accadendo. Quello di Ilaria e dei genitori era stato un gesto inaudito: avevano rinunciato a una parte del lutto - il più riservato e intimo dei riti familiari - per condividerlo con altri, lontani e sconosciuti. Così facendo, avevano dismesso una porzione del proprio dolore, che avrebbe richiesto segreto e silenzio, per affidarlo ad altri, affinché ne facessero un buon uso pubblico. E così è stato. Senza quella abdicazione al diritto di vivere solo per sé e con sé la sofferenza più crudele, per farne un bene collettivo, le cose sarebbero andate diversamente. La campagna per la verità E, invece, la mobilitazione ci fu. Si mossero in tanti. E si mosse persino un gruppo di parlamentari: non solo i Radicali Emma Bonino, Rita Bernardini e Marco Perduca; non solo Guido Melis, Jean-Leonard Touadì e altri del Pd, ma anche parlamentari lontanissimi come Flavia Felina, Renato Farina e Melania Rizzoli e qualcun altro. A quella prima conferenza stampa c’era, ovviamente, l’avvocato Fabio Anselmo, che sembrava essere lì da sempre, da sempre competente e acuminato; e che, come mi disse sottovoce un assistente parlamentare, “assomiglia un po’ al Falstaff di Orson Welles”. Ma la vicenda della morte di Stefano Cucchi - ecco il punto - non è stato solo “il caso Cucchi”. Innanzitutto perché non è stato un caso (che ne è di Giuseppe Uva, morto nel 2008? di Michele Ferrulli, morto nel 2011? di Riccardo Magherini, morto nel 2014? e di molti altri?). E poi, perché la piccola storia del “geometra di Torpignattara” (Roma è fatta di quartieri che richiamano l’antica mappa delle torri medievali) rimanda alla storia assai più grande che accompagna le vicende del potere e mette a nudo le sue sopraffazioni e i suoi nascondimenti. L’ordinamento democratico trova il suo fondamento giuridico e morale in un patto che prevede lo scambio tra l’ubbidienza alla legge prestata dai cittadini e la promessa dello Stato di tutelare la loro incolumità dai nemici interni ed esterni. Se lo Stato non onora la sua promessa e addirittura attenta, esso stesso, all’integrità fisica e psichica dei cittadini (tanto più di quelli affidati alla sua custodia diretta, nelle carceri e nelle caserme), è come se lo Stato di diritto crollasse. Questo, perché viene a esaurimento proprio quella legittimazione basata sulla volontà e capacità di proteggere il cittadino. L’onore restituito È quanto è accaduto nella vicenda di Stefano Cucchi e di altri. Ed è quanto non ha capito la stragrande maggioranza della classe politica che ha trattato questa storia come un problema al più filantropico, mentre era, in tutta evidenza una questione politica, in quanto conficcata in profondità nel rapporto degradato tra cittadini e Stato. Certo, in questi dieci anni siamo tutti cambiati. Io, sono invecchiato. Ilaria è diventata ancora più determinata e come dire, più intelligente (dice Paul Celan che questo è uno degli effetti del dolore); la famiglia ha dovuto affrontare prove tremende e i genitori ne portano tracce evidenti. Nei loro confronti tanta amicizia ma anche tanto malanimo. A Ilaria è stato rimproverato di aver indossato orecchini “troppo vistosi” durante una traemissione televisiva. Nel corso del primo processo, quello conclusosi in un nulla di fatto, un pubblico ministero così definì l’atteggiamento della vittima nei confronti dei sanitari: “Cafone, maleducato, scorbutico”; e rimangono, quale segno estremo di una semantica dell’infamia le parole di un sottosegretario alla Presidenza del Consiglio a proposito di Cucchi: “Anoressico, tossicodipendente, larva e zombie”. Stefano Cucchi non c’è più da dieci anni. È stata necessaria questa immensa fatica per restituirgli l’onore che militari brutali, ufficiali felloni, giornalisti futili, e tutti i giovanardi- codardi hanno voluto sfregiare. Infine, in tutto questo tempo non ho mai sentito Ilaria, Rita e Giovanni Cucchi e nemmeno Lucia Uva, Domenica Ferulli, Patrizia Aldrovandi e Claudia Budroni pronunciare la parola vendetta e mai nessuno di loro augurarsi che i responsabili dei loro lutti “marcissero in galera” (non so se mi spiego). Caso Manduria: nessuno tocchi quei giovani Caino di Tiziana Maiolo Il Riformista, 15 novembre 2019 Non è sempre facile affermare quanto sia necessario che “nessuno tocchi Caino”. È molto difficile quando apprendi, come è capitato in questi giorni, che in Puglia ci sarebbero gruppi di ragazzi, tra cui molti minorenni, responsabili di aver vessato, derubato, torturato e sfruttato un anziano malato psichico. I 18 arrestati (di cui 8 minori) in provincia di Taranto dovranno rispondere di estorsione continuata, furto aggravato, rapina, detenzione e porto di arma da sparo, atti persecutori. I fatti fanno il paio con quanto avvenne a Manduria nella primavera scorsa quando, in seguito alle torture, fisiche e psicologiche, inflitte da altri ragazzi a un pensionato depresso ed emarginato, si arrivò alla morte dell’uomo il quale, sopraffatto da un clima ormai per lui insopportabile, si lasciò morire, rinunciando a chiedere aiuto e a curarsi. Sarebbe facile definire “mostri” questi ragazzi, anche perché abbiamo ancora nelle orecchie le loro risate e negli occhi le loro esibizioni sceniche nei loro filmati dopo le bravate. Nei paesi è sempre esistita una persona definita lo “scemo del villaggio”, in genere un innocuo e solitario malato psichico che i ragazzi prendevano bonariamente in giro. Ma che ha sempre avuto una materna protezione sociale: nessuno gli ha mai fatto del male, molti lo hanno aiutato e nutrito. Ma qui stiamo parlando di qualcosa di diverso, prima di tutto perché siamo in presenza di vere estorsioni e rapine, nei confronti di persone deboli nel fisico e nella psiche, e oltre a tutto anche povere. Doppia vigliaccheria, dunque. Ma c’è un’altra aggravante, anche se non in senso tecnico-giuridico, Quella dell’incontenibile necessità di esibizionismo da parte di persone che evidentemente hanno bisogno di uno specchio in cui contemplarsi per mostrare a se stessi di esistere e di essere forti. Sono persone che vanno trattate con severità, se e quando una sentenza di condanna darà veste giuridica a quel che purtroppo appare già abbastanza probabile sia accaduto. Certo, sono in molti oggi, anche in ambienti politici, a chiedere per questi ragazzi non solo pene esemplari, ma anche e soprattutto quella pena anticipata che è la custodia cautelare in carcere. Ma attraverso la privazione della libertà e il soggiorno in qualche prigione - ridotte come sono le nostre carceri- in compagnia, per lo meno i maggiorenni, di detenuti che ne sanno più di loro sul piano dell’illegalità, quante possibilità avranno questi giovani di essere ricondotti, come prevede la Costituzione, a un regolare reinserimento nella comunità civile? Proprio perché i fatti per cui sono stati arrestati sono gravissimi e denotano un altissimo grado di inciviltà, la funzione retributiva della pena dovrà essere piena e totale. Questi ragazzi dovranno restituire ciò che hanno tolto: hanno rapinato denaro, ma anche la dignità a una persona, la sua stessa vita, il senso della sua voglia di esistere. Hanno umiliato fino a uccidere. Ma non si può combattere la violenza del delitto con la violenza dello Stato, quindi del carcere. Ci sono altri strumenti, che portino queste persone prima di tutto a riconoscere gli altri, a non vederli solo come specchio delle proprie bravate e quindi a fare qualcosa per gli altri, a restituire loro quel che è stato loro tolto. Il carcere non serve a nulla, passare qualche mese o qualche anno a “pulire il culo ai vecchietti” servirebbe molto, ma molto di più. Sardegna. Troppi detenuti in alta e massima sicurezza: sono il 37% del totale castedduonline.it, 15 novembre 2019 La situazione delle carceri sarde è sempre più difficile sia per il numero che per la tipologia di detenuti ospitati. A lanciare l’allarme è la presidente dell’associazione “Socialismo diritti e riforme”, Maria Grazia Calligaris, che cita i dati diffusi dal ministero della Giustizia. In Sardegna ci sono quasi 900 detenuti ad alta sicurezza e, di questi, novantadue sono al regime di 41bis su un totale di 2.321. Si tratta principalmente di detenuti provenienti dalla Penisola che sono concentrati in cinque istituti penitenziari su dieci. A fronte di questa situazione preoccupa il numero dei direttori “ridotto all’osso” perché sono soltanto quatto e a due di loro “oltre a due o tre carceri, sono assegnati importanti incarichi per il Provveditorato regionale”. Per quanto riguarda il numero dei detenuti, di particolare attenzione è il superamento del numero regolamentare nelle carceri di Uta, Bancali a Sassari e in quello di Alghero. Nel primo su un totale di 561 posti ci sono 581 detenuti, nell’istituto di Sassari i detenuti sono 475 su 454 posti disponibili, mentre ad Alghero i posti previsti sono 156 ma le persone all’interno sono 161. Situazione al limite anche a Tempio dove i posti liberi sono soltanto sette, a Massama, carcere di Oristano, con 260 detenuti su 265 posti e a Nuoro dove ci sono 276 persone per 385 posti ma una sezione di circa cento unità è chiusa per ristrutturazione. Il sovraffollamento è un problema delicato perché “in assenza di lavoro, i detenuti rischiano di restare dentro le celle per 22 ore su 24. La realtà isolana merita l’attenzione della politica anche perché occorre fare una verifica - sottolinea Caligaris - sulla efficienza del sistema sanitario penitenziario. Sempre più spesso nelle carceri mancano i medicinali con grave nocumento al diritto alla salute, altra norma costituzionale spesso non garantita”. Altro capitolo riguarda i detenuti stranieri che sono 712 che portano la Sardegna al quattordicesimo posto in Italia: “Un dato sconcertante se paragonato agli abitanti - dice la presidente di Sdr - la Puglia con oltre quattro milioni di residenti è al diciannovesimo posto e la Campania con quasi sei milioni di abitanti è al ventesimo”. Il sovraffollamento, invece, non riguarda le tre Colonie penali sarde che ospitano la metà dei detenuti che potenzialmente potrebbero starci (375 su 692 posti). Ciclicamente vengono annunciati progetti per rilanciare le attività produttive e offrire opportunità di lavoro e formazione ai reclusi, ma ormai il sistema è bloccato anche per “l’inadeguatezza del numero degli amministrativi. L’invecchiamento del personale e quindi il pensionamento stanno incidendo negativamente sulla possibilità di mantenere in vita soprattutto le Colonie penali”. Viterbo. Mohamed, amato da molti, ucciso a 24 anni dalla solitudine del carcere di Natascia Grbic fanpage.it, 15 novembre 2019 Da quando era al Mammagialla di Viterbo non aveva ricevuto né telefonate né fatto colloqui. Condannato alla solitudine in carcere, fuori dal perimetro della prigione c’erano persone che avrebbero voluto parlargli e fargli visita. Gli è stato impedito dalle difficoltà burocratiche. E così Mohamed, che in cella forse non ci doveva proprio stare, era solo pur non essendolo davvero. “Per tutta la solitudine che ha provato dentro, fuori ci sono decine di persone a piangerlo. Amici e genitori increduli per quanto accaduto e che stanno soffrendo moltissimo”. Alla storia di Mohamed Ataif, il ragazzo di 24 anni che si è suicidato nella cella del carcere Mammagialla di Viterbo, si aggiunge un nuovo pezzo. Il giovane fuori dal carcere aveva un mondo di amicizie e affetti, resi inesistenti da una burocrazia e da regole che rendono praticamente impossibili i contatti con detenuti di origine straniera. A raccontarci di più sul 24enne proveniente dal Sudan è Myriam El Menyar, attivista di Baobab Experience che lo ha seguito e aiutato da quando è arrivato a Roma. Baobab è un’associazione di volontari che si occupa di assistere i migranti che giungono nella capitale, che sono in transito o rimangono bloccati nel nostro paese, sia per quanto riguarda l’aspetto umanitario, sia offrendo supporto legale. Mohamed è stato con loro nel campo di piazzale Maslax, ed è stato seguito nella richiesta di protezione internazionale. Quando è stato portato in carcere, qualche volontario è riuscito ad andare a trovarlo a Regina Coeli, ma quando è stato trasferito al Mammagialla le cose si sono complicate. E pensare che visto la scarsa entità della pena, Mohamed in carcere ci sarebbe potuto proprio non entrare, ma non avendo un domicilio e una casa il giudice ha scelto per la detenzione. Sarebbe tornato libero tra pochi mesi. “Mi stanno chiamando dal Sudan, dall’Arabia Saudita, dall’Inghilterra, dal Belgio, dal Lussemburgo - spiega Myriam - La cosa incredibile di questi ragazzi è che mentre fuori dal carcere hanno amici e famiglia, dentro sono soli. Da una parte perché, stando spesso in un altro paese, sono impossibilitati fisicamente ad andare. E gli amici che stanno qui invece, non essendo parenti e avendo nella maggior parte dei casi permessi di soggiorno anche in attesa di rinnovo, non vengono autorizzati dal giudice per il colloquio. Si tratta di richieste molto particolari, che spesso vengono negate. Anche contattarli telefonicamente è complicato: per chiamare da un altro Stato serve infatti una copia del documento e una del contratto telefonico. Ma una madre che chiama dal Sudan non ce l’ha il contratto telefonico, nemmeno capisce a cosa ci si riferisce quando le viene chiesto. Ecco perché non ricevono né chiamate né visite”. Mohamed è stato condannato alla solitudine nonostante gli amici volessero vederlo e il padre volesse telefonargli. “Una volta per parlare con un ragazzo con problemi psichiatrici che a Roma non aveva nessuno, ho chiesto due volte al giudice un incontro. Per due volte mi è stato rifiutato nonostante avessi specificato che i familiari non erano in Italia e che aveva bisogno di aiuto. È difficile per me che sono europea entrare in contatto con loro, figuratevi uno straniero col permesso di soggiorno che vuole far visita a un amico”. Da quello che ci raccontano, prima di entrare in carcere Mohamed era un ragazzo allegro, sempre pronto alla battuta e con una gran voglia di scherzare. “Sono tutti scioccati dal fatto che sia arrivato a togliersi la vita. Questo è indicativo del baratro di disperazione in cui era caduto per la solitudine che gli è stata imposta”. Il carcere di Mammagialla è una struttura molto attenzionata, oggetto anche di interrogazioni parlamentari, dove da tempo i detenuti denunciano abusi e vessazioni da parte del personale penitenziario. Le lettere affidate all’associazione Antigone, che da anni si occupa di giustizia, carceri e diritti umani, raccontano di botte nel cuore della notte, celle lisce, pestaggi anche ai danni di persone con problemi psichiatrici. Una realtà drammatica che parla di un carcere violento e punitivo, di certo non riabilitativo per i detenuti. Sono in corso due indagini, una penale e una amministrativa, per far luce sulle vicende emerse. Milano. Ismail al giudice: “Mi picchiano e mi dicono di non testimoniare” di Valentina Stella IL Dubbio, 15 novembre 2019 In esclusiva le lettere del tunisino detenuto nel carcere milanese di San Vittore. Undici agenti di polizia penitenziaria rinviati a giudizio per aver picchiato un detenuto nel carcere milanese di San Vittore. Ismail Ltaief sarebbe stato punito per aver denunciato altri agenti della penitenziaria per furti nelle cucine del carcere laziale di Velletri e per essere stato da loro malmenato. Il caso era stato sollevato dal Partito Radicale in una conferenza stampa tenuta alla Camera da Marco Pannella e Rita Bernardini. Per l’avvocato Alessandro Gerardi che segue il procedimento a Velletri la vicenda di Ismail Ltaief, con la sua appendice milanese, “presenta caratteristiche peggiori rispetto a quella di Stefano Cucchi, l’unica differenza è che Ismail per fortuna è ancora vivo e può raccontarla. La domanda che dovremmo porci di fronte a episodi del genere è semplice: come si possono rieducare i ‘ delinquenti’ se si usano metodi molto simili a quelli usati da chi in carcere sta dall’altra parte delle sbarre?”. Quando Ismail seppe che i due agenti erano stati condannati in primo grado a tre anni di reclusione scrisse una lettera all’avvocato Gerardi: “Finalmente un senso di giustizia che sembrava non arrivarmi. Sono così felice soprattutto perché ho la netta sensazione che almeno quei due non picchieranno più detenuti”. Ecco, in esclusiva, alcuni stralci delle lettere che Ismail ha scritto al gip Laura Marchiondelli del Tribunale di Milano, che loemise il mandato di arresto per il tentato omicidio passato in giudicato, per denunciare i presunti pestaggi a San Vittore: “alle 21: 10 un ispettore e guardie carcerarie entrano in cella, mi saltano addosso, picchiano con arti marziali dicendo che se vado a testimoniare a Velletri ucciderebbero (vi riportiamo fedelmente quanto scritto, ndr) mia moglie visto che, secondo loro, non mi importa della mia vita. Mentre mi pestavano hanno nominato il nome e cognome di mia moglie e la via dove abitiamo. Ho male in tutto il corpo e ho paura di avere delle rotture. La prego giudice aiuto!”. In una seconda lettera Ismail scriveva: “questa notte mi hanno fatto uscire nuovamente di cella. Hanno picchiato di nuovo, uno di loro ha tirato di tasca un aggeggio che si infila nella mano, anelli di ferro. Ho vomitato sangue, se riesco ad arrivare dal medico le dirò sono ‘ caduto’ nelle scale altrimenti saranno ancora più gravi le botte seguenti”. Se tutto ciò sia vero sarà il processo a stabilirlo. Infatti secondo l’avvocato Michele D’Agostino che assiste quattro agenti “ci sono parecchie incongruenze nel racconto del detenuto, ci sono tante cose non dimostrate, noi riteniamo di avere le prove della falsità delle sue dichiarazioni, alcune persone non erano neppure presenti al momento dei fatti denunciati, e l’uomo si è reso protagonista anche di atti di autolesionismo”. Intanto adesso, come ci racconta l’avvocato Matilde Sansalone, Ismail è diventato “un vero talento” nel laboratorio musicale destinato ai detenuti del carcere di Opera, finanziato dall’associazione Xmito e condotto dai maestri Stefania Mormone e Alberto Serrapiglio del Conservatorio “G. Verdi” di Milano. “La vicenda di Ismail - conclude Sansalone ci richiama all’ideale che sorregge l’attività di tutti coloro che si occupano di giustizia: il rispetto della dignità e dei diritti dell’essere umano, che sia innocente o colpevole, libero o detenuto, dinanzi agli accusatori e ai giudici. Così come lo è Ismail che anche in carcere quando suona si sente un uomo libero”. Milano. Furti in mensa e percosse sui detenuti di Adriano Sofri Il Foglio, 15 novembre 2019 Undici agenti della Polizia penitenziaria del carcere di San Vittore rinviati a giudizio. La vicenda ricorda la trama di un libro di Marco Malvaldi e Glay Ghammouri. “Undici agenti della Polizia penitenziaria sono stati rinviati a giudizio con le accuse di intralcio alla giustizia, lesioni, falso e sequestro di persona: tra il 2016 e il 2017, nel carcere di San Vittore, avrebbero intimidito e pestato un tunisino di 50 anni, Ismail Ltaief, che aveva denunciato altri agenti per furti in mensa e percosse, e per impedirgli di testimoniare al processo. Nel 2011 Ltaief, detenuto per tentato omicidio, aveva denunciato alcuni agenti in servizio nel carcere di Velletri. A San Vittore anche un compagno di cella di Ltaief sarebbe stato intimidito dagli agenti affinché non testimoniasse”. Riferisco testualmente la notizia, aggiungendo, e non pro forma, che bisognerà provare gli addebiti, per ricordare che l’intimidazione violenta ai detenuti che denunciano ruberie penitenziarie fin sul disgraziato vitto (3,60 euro per colazione e due pasti quotidiani a detenuto! Temo che la spesa equivalente per gli agenti penitenziari non sia tanto più generosa) è l’argomento, romanzescamente svolto, del libro pubblicato quest’anno da uno scrittore di talento, Marco Malvaldi, e da un carcerato di talento, Glay Ghammouri, “Vento in scatola”, Sellerio. Malvaldi, frequentando la galera a piede libero (e così sia) da insegnante di scrittura, si è persuaso che “per essere davvero liberi occorre conoscere il carcere”. Che truffi o addirittura bastoni un prigioniero chi lo ha in balia e in custodia, è un po’ come immaginare un angelo custode che truffi e bastoni il suo custodito, magari per fregare l’avaro padreterno sulla diaria. Brutta cosa. Bolzano. Le loro prigioni di Sarah Franzosini salto.bz, 15 novembre 2019 Alessandro Pedrotti, responsabile di Odós, sul carcere che non funziona, l’alta recidiva, le misure alternative, e quell’ergastolano mancato. Il tasso di recidiva tra i detenuti delle carceri italiane è desolante: quasi il 70% di loro, scontata la pena, torna a delinquere. La questione è ricomparsa sul tavolo anatomico del dibattito pubblico dopo la recente analisi di Milena Gabanelli per il Corriere della Sera. Pochissimi sono i detenuti che lavorano dentro al carcere e per poche ore al giorno, “perché i soldi non ci sono”, spiega Alessandro Pedrotti, educatore da 25 anni e dal 2006 responsabile di Odós, il servizio della Caritas che aiuta il reinserimento sociale di quelle persone che devono scontare o hanno alle spalle una pena detentiva. Pedrotti, in Italia circa il 70% dei carcerati, una volta uscito di prigione, torna a commettere reati, parliamone... “Quasi 7 detenuti su 10, se non vengono aiutati, tornano a delinquere nei successivi 5 anni dall’uscita dal carcere. I numeri non sono nuovi ma secondo la nostra esperienza sono rimasti tali. Ricerche sulla recidiva in ogni caso non ce ne sono o sono pochissime, perché non si dispone di relative banche dati. Il punto è insistere su percorsi di reinserimento, che al di là dell’aspetto etico e sociale, sono efficaci anche dal punto di vista economico”. Il sistema penitenziario del resto grava sul bilancio dello Stato per 2,9 miliardi l’anno. Per cosa si spendono esattamente questi soldi? “Dei 120-150 euro spesi al giorno per detenuto (le cifre variano a seconda del numero dei carcerati nelle prigioni) la maggior parte viene destinata alla gestione della sicurezza, e quindi riservata alla polizia penitenziaria, ma poco o niente viene investito per una proposta educativa. Ha senso che un sistema che ci costa così tanto e produce così poco sia il medesimo per tutti i 60mila detenuti che si trovano nelle carceri italiane? Oppure per la stragrande maggioranza dei carcerati, ovvero quelli classificati a basso livello di pericolosità, si potrebbe fare un ragionamento diverso? Pensiamo ai manicomi, prima che chiudessero nel ‘78 vi erano internate 100mila persone, quasi il doppio dei detenuti. Non si può, come accadde in quel caso, cambiare il sistema? Finanziare un’alternativa diversa dalla detenzione per tutti coloro per cui il carcere invece che servire da istituto educativo diventa scuola di crimine? Vede, se entro in carcere e so come eseguire un furto è probabile che una volta uscito sappia come fare una rapina. Ma la risposta penale non può essere l’unica possibile”. Il carcere, è appurato, ad oggi non è riabilitativo. Dal punto di vista umano questo cosa comporta? “Stiamo parlando di persone che vengono sostanzialmente “congelate” per anni dato che in carcere non fanno praticamente nulla, il lavoro c’è per pochissimi detenuti che possono svolgerlo per poche ore al giorno, perché non ci sono i soldi per pagarli. Quando escono, poi, si chiede loro, persone che per anni sono state sotto-stimolate, di riconnettersi a una società che corre a folle velocità e in cui anche persone normo-inserite fanno fatica a stare dentro”. Le lungaggini del nostro sistema giudiziario quali conseguenze hanno sul piano sociale? “Poniamo il caso che una persona commetta un reato a 25 anni e l’esecuzione della pena inizi al compiere dei 35. In questo lasso di tempo una persona può aver messo su famiglia, cambiato la propria vita. Intendiamoci, è giusto pagare il proprio debito alla giustizia se si è violata la legge ma il punto è come pagarlo. Sarebbe importante riflettere su quale sia la pena più utile per quella persona, una pena che dovrebbe essere costituzionale. Siamo stati condannati più volte dalla Corte europea dei diritti umani, con la sentenza Torreggiani, per esempio, o per l’ergastolo ostativo pochi mesi fa. E questo accade perché il modo di eseguire la pena non rispetta le nostre stesse norme”. Tutto fermo sul fronte del nuovo carcere di Bolzano, che ha accumulato 3 anni di ritardi. Intanto nell’attuale struttura le condizioni sono sempre più intollerabili. “Il carcere di Bolzano è un edificio fatiscente del 1800, allora, quando è stato costruito dagli austro-ungarici, c’era dietro un’idea precisa di pena. Prima che venissero spesi svariati milioni di euro per la nuova struttura abbiamo partecipato a un tavolo di ragionamento proprio sulla qualità della pena, insieme alla Provincia, lo Stato, il Provveditorato, il Dipartimento di amministrazione penitenziaria, e sono stati convocati degli esperti. Quello che abbiamo evidenziato è la necessità di non continuare a costruire carceri come quelle di oggi, sulla base di un modello introdotto negli anni ‘70-80 per rispondere a due emergenze: il terrorismo e la mafia. Guardiamo all’esempio di Trento, un carcere relativamente nuovo (risale al 2010, ndr), dove il tasso suicidale è molto alto. Dunque attenzione, non basta costruire una struttura nuova per risolvere i problemi e soprattutto bisogna smettere di pensare che il carcere sia la prima soluzione a cui ricorrere. Le pene devono tendere alla rieducazione, recita la Costituzione, nel cui testo il carcere peraltro non viene mai citato”. Cosa significa per il detenuto usufruire delle misure alternative? “L’affidamento in prova ai servizi sociali, la liberazione anticipata, la detenzione domiciliare, la semilibertà, ovvero il provvedimento più restrittivo, che prevede che la persona dorma in carcere e di giorno possa uscire per andare a lavorare. Misure come quelle appena elencate - nei casi dove è possibile applicarle - aiutano il detenuto a riflettere su quello che ha fatto, a pensare alle sue vittime, dirette o indirette. Sicuramente tali misure danno maggiori risultati rispetto alla reclusione in carcere dove è facile incattivirsi e prendersela con lo Stato vivendo in una condizione tale da diventare a propria volta una vittima. Bisogna capire come si arriva a commettere un reato, comprendere che ci sono scelte consapevoli e inconsapevoli (e per entrambe la responsabilità quantomeno penale è sulle spalle dei carcerati, beninteso) e renderci conto di chi parliamo quando parliamo di detenuti, altrimenti portiamo avanti un’idea che non corrisponde alla realtà. E mi torna alla mente un caso”. Quale? “Quello di Francesco Viviano, giornalista di Palermo, inviato di Repubblica. Il padre era un ladro che fu ammazzato dopo aver rubato a casa di un mafioso. Francesco si arrangia come può, facendo dei lavoretti, ma nel frattempo medita di uccidere il killer del padre, e un giorno si presenta a casa sua. Tira fuori la pistola ma il mafioso esce dalla porta con in braccio un bambino, Francesco esita e poi se ne va. Si ritrova poi all’Ansa a fare il fattorino, e inizia la sua scalata professionale, fino al gradino di giornalista. In una frazione di secondo si è decisa la sua vita, mentre si trovava a un passo dal diventare un ergastolano omicida”. Una volta fuori dal carcere quanto è difficile, contando il peso specifico del pregiudizio, la ricerca di un lavoro per un ex detenuto? “L’Alto Adige è una realtà fortunata perché c’è piena occupazione, ma certo giocarsi la carta dell’ex detenuto non aiuta. A Bolzano abbiamo un buon sistema cooperativistico in cui le persone che seguiamo in Odós possono inserirsi, nel periodo della pena, e spesso imparare un mestiere perché in molti casi i detenuti non hanno grandi competenze professionali, né patentino o titolo di studio. La cosa positiva è che per la prima volta ci sono persone, 2 ex detenuti e 1 semilibero in Odós, che stanno lavorando con l’U.E.P.E., l’ufficio per l’esecuzione penale esterna, con borse lavoro del Ministero. Certo aiuterebbe se già all’interno del carcere ci fosse la possibilità di lavorare e imparare un mestiere spendibile in seguito sul territorio. Ma questo, esempio di Padova e rari casi simili a parte, non succede quasi mai”. Porto Azzurro (Li). “Ti aspetto fuori”: ex detenuti, il futuro si costruisce nell’azienda agricola di Irene Di Brino Il Tirreno, 15 novembre 2019 San Vincenzo, il progetto lanciato dall’imprenditrice Beatrice Massaza in concorso al bando “Coltiviamo agricoltura sociale 2019”. Ti aspetto fuori. Questo è il titolo del progetto promosso dall’imprenditrice sanvincenzina Beatrice Massaza con lo scopo di facilitare il reintegro in società e nel mondo del lavoro di giovani ex detenuti. Un’iniziativa che, attraverso percorsi formativi specializzanti e il successivo reinserimento lavorativo, ha lo scopo non solo di offrire una possibilità concreta a chi, scontata la sua pena, vuole tornare a mettersi in gioco e costruirsi un futuro ma anche di creare nuove figure altamente specializzate che contribuiscano al rilancio sul territorio di un’agricoltura di qualità. L’imprenditrice, titolare dell’Azienda biologica Santissima Annunziata a San Vincenzo, crede molto nella funzione rieducativa della pena e spera di riuscire ad abbattere i pregiudizi della società formando i giovani per le attività degli ambiti agricoli più specifici, come la potatura degli olivi, il frantoio e la ristorazione in agriturismo a filiera corta, per creare una classe di esperti nei diversi settori. Per questo, ha deciso di partecipare al bando nazionale “Coltiviamo agricoltura sociale 2019”, organizzato da Confagricoltura e Onlus Senior - L’Età della Saggezza, Reale Foundation, in collaborazione con Rete Fattorie Sociali e Università di Roma Tor Vergata, che ha proprio l’obiettivo di incentivare l’agricoltura sociale favorendo lo sviluppo di attività imprenditoriali in grado di coniugare sostenibilità e innovazione. Partecipano al concorso ottantanove iniziative da tutta Italia, che prendono in esame i vari ambiti dell’agricoltura sociale e che si contenderanno la vittoria di tre premi in denaro e altrettante borse di studio per il Master di Agricoltura Sociale presso l’Università di Roma Tor Vergata, con lo scopo di creare le migliori condizioni possibili per la loro realizzazione. La selezione avverrà in due momenti successivi, il primo in base alle preferenze del pubblico e il secondo al vaglio di una giuria di esperti. Fino alla mezzanotte del 23 novembre infatti, tutti i progetti, corredati di descrizione e foto, potranno essere votati dal pubblico sul sito dedicato coltiviamoagricolturasociale.it. Basteranno tre minuti di tempo e la voglia di registrarsi gratuitamente alla piattaforma per poter esprimere la propria preferenza. Allo scadere di questa fase, i trenta progetti che avranno raccolto il maggiore gradimento passeranno allo scrutinio della commissione di esperti per la selezione definitiva e la proclamazione dei tre vincitori. Chi riceverà il finanziamento avrà poi tempo fino a ottobre 2020 per realizzare la propria proposta. Da qui l’appello ai sanvincenzini e non solo disposti a sostenere l’impegno di Massaza. Passare la prima selezione grazie alla votazione del pubblico sarebbe la dimostrazione, per l’azienda sanvincenzina, che il modello di inclusione da loro proposto, un connubio tra formazione specializzante e profonda responsabilità sociale, sia stato apprezzato e compreso fino in fondo. Ma, spiega Beatrice Massaza, non sarà un’eventuale eliminazione a mettere fine alla sua scommessa. Comunque vada il suo progetto andrà avanti, con un grande impegno e lo scopo di importare nel nostro territorio un modello che già in altri paesi, prima di tutti la Francia, ha dato ottimi risultati sia dal punto di vista sociale che da quello del profitto aziendale. Sondrio. Non si trova il Garante comunale per i diritti dei detenuti giornaledisondrio.it, 15 novembre 2019 È la quarta volta che il bando viene pubblicato. Il Comune di Sondrio ha pubblicato il nuovo bando per l’elezione del Garante per i diritti delle persone limitate nella libertà personale. Il Comune fa sapere che, ai fini dell’elezione del Garante, i cittadini interessati, che siano in possesso dei requisiti previsti dall’articolo 3 del Regolamento, possono presentare le proprie candidature inoltrando apposita istanza al Presidente del Consiglio Comunale presso l’Ufficio Protocollo del Comune (Piazza Campello n. 1) accompagnata da dettagliato curriculum come da modello disponibile sul sito comune.sondrio.it - sezione Albo Pretorio online - entro il giorno 2 dicembre 2019. È possibile consegnare a mano istanza e curriculum, oppure inviarli per posta ordinaria o raccomandata all’indirizzo: Comune di Sondrio - piazza Campello 1 - 23100 Sondrio. O, ancora, tramite Posta elettronica certificata alla casella protocollo@cert.comune.sondrio.it. Si precisa che la mail spedita da una casella non certificata non è idonea ad essere acquisita. Per informazioni e chiarimenti, è possibile rivolgersi all’Ufficio Segreteria (mail segreteria@comune.sondrio.it, tel. 0342.526215). “Si tratta del quarto bando pubblicato, i primi tre sono purtroppo andati deserti - spiega il Presidente del Consiglio Comunale, Maurizio Piasini. Per riuscire ad individuare finalmente una figura che ricopra questo importante ruolo possiamo contare sulla condivisione da parte di tutto il Consiglio Comunale. Speriamo di ricevere candidature e poter eleggere il nuovo Garante per i diritti delle persone limitate nella libertà personale”. Caserta. “Pestato dagli agenti in carcere”, detenuto per furto scrive ai pm di Mary Liguori Il Mattino, 15 novembre 2019 Pestato, deriso, minacciato. Punito con l’isolamento quando ha cercato di superare la barriera delle guardie penitenziarie, quando ha chiesto di essere portato in direzione. E, al momento, della presunta storia di violenza che si starebbe consumando dentro le mura del carcere di Santa Maria Capua Vetere, la direttrice non è al corrente. Elisabetta Palmieri però chiarisce: “A Santa Maria Capua Vetere queste cose non succedono”. E in effetti, negli ultimi anni, di vicende di questo tipo, non se ne sono registrate. Ma il detenuto, un quarantenne che sta scontando una piccola pena per furto, racconta tutta un’altra storia. Una storia che è riuscito a far conoscere al suo avvocato che, lo scorso 12 novembre, ha scritto al procuratore per chiedere che il detenuto venga interrogato. “Il mio assistito - si legge nella denuncia - afferma di essere stato vittima di minacce verbali e pestaggi insieme ad altri detenuti”. “Ha tentato più volte di denunciare tali accadimenti, ma nessuno del personale dell’amministrazione penitenziaria ha voluto prendere in consegna la denuncia. Riferisce, anzi, di essere stato strattonato da un capoposto e da un appuntato che lo hanno schiaffeggiato e gli hanno detto che non l’avesse finita gli avrebbero “rotto tutti i denti”. “Tale situazione - si legge ancora nella denuncia - ha generato nel detenuto un fondato motivo di temere per la propria incolumità”. L’avvocato ha chiesto alla Procura di interrogare quanto prima il detenuto “per accertare i fatti” e di adottare tutti i provvedimenti necessari per tutelarne l’incolumità, “primo tra tutti il trasferimento in altro istituto di detenzione”. “Adesso basta, ci hai rotto il c., ti facciamo mangiare con la cannuccia”: sarebbe questa una delle minacce che un capoposto e un appuntato di polizia penitenziaria avrebbero rivolto al 40enne quando, dopo tre giorni di sciopero e precedenti aggressioni, gli è stato proibito di sporgere denuncia. “Nessun medico mi ha visitato, nonostante dopo le prime 24 ore di sciopero della fame e della sete fossi stato portato in infermeria”, si legge nella lettera consegnata dal detenuto all’avvocato. “Quando ho iniziato a insistere per incontrare il direttore, non solo mi è stato negato, ma mi hanno pesantemente minacciato e preso a schiaffi. Al ritorno in reparto, i compagni di cella mi hanno messo in guardia: hanno detto che me l’ero “cavata con due ceffoni” perché a loro, in altre occasioni, era andata molto peggio”. “Mio marito è in isolamento, siamo molto preoccupati per lui, abbiamo paura che gli accadano cose peggiori per aver cercato di denunciare i soprusi”: è quanto ha dichiarato la moglie del detenuto i cui racconti, ovviamente, sono tutti da verificare. Nella lettera trasmessa alla Procura il 40enne usa però toni allarmanti: “La responsabilità di ciò che accadrà alla mia persona sarà da attribuire agli agenti e i peggioramenti della mia salute saranno responsabilità della direzione sanitaria” Isernia. Detenuto morto in cella: disposta una nuova perizia isnews.it, 15 novembre 2019 Prima udienza dal Gup ieri mattina del procedimento a carico del 25enne accusato dell’omicidio di Fabio De Luca, deceduto mentre era recluso nel carcere di Ponte San Leonardo, Una nuova perizia per fare piena luce sul decesso di Fabio De Luca, il detenuto morto nel novembre 2014, mentre era recluso nel carcere di Ponte San Leonardo. Lo ha stabilito il Gup del Tribunale di Isernia. Questa mattina si è tenuta la prima udienza del rito abbreviato a carico del 25enne campano, accusato insieme ad altri due imputati, dell’omicidio del 45enne. Il giudice ha proceduto alla nomina del neurochirurgo Ettore Sannino e nei prossimi giorni provvederà a individuare anche un medico legale a cui verrà affidato il compito di redigere una nuova perizia. L’udienza è stata quindi aggiornata al 12 dicembre, per il giuramento dei periti. È partito dunque il procedimento scaturito a seguito del decesso di Fabio De Luca. La sera del 5 novembre 2014, il 45enne venne portato d’urgenza all’ospedale ‘Venezialè con pesanti traumi alla testa. Si parlò di caduta accidentale. L’uomo, secondo le ricostruzioni della Squadra Mobile di Campobasso, che indagò sul caso, si era recato in un’altra cella per prendere una gruccia quando, alla presenza di due detenuti, avrebbe battuto la testa e sarebbe finito in coma. L’11 novembre, dopo circa una settimana di agonia in Rianimazione, De Luca morì al Cardarelli, dove nel frattempo era stato trasferito. L’autopsia, eseguita due giorni dopo il decesso, stabilì che le ferite sul corpo di De Luca erano incompatibili con una caduta accidentale. “Trauma cranico multifocale”: fu il responso contenuto nella relazione del medico legale Vincenzo Vecchione. Morte indotta, dunque, forse a seguito di un pestaggio in cella. Per quel decesso tre ex compagni di detenzione della vittima vennero accusati a vario titolo di omicidio dalla Procura di Isernia. La svolta nelle indagini ci fu nel novembre del 2015, con l’arresto dei presunti responsabili, ora a giudizio. In Corte d’Appello a Campobasso, nei giorni scorsi, è partito il anche processo con rito ordinario per gli altri due imputati. La famiglia della vittima, assistita dall’avvocato isernino Salvatore Galeazzo, si è già costituita parte civile e continua a chiedere verità e giustizia. Siracusa. “L’ignoranza è una malattia”, la lezione dei giovani detenuti articolo21.org, 15 novembre 2019 Da un errore nasce la nostra storia, dagli errori che commettiamo ogni giorno, quando parliamo, ci sforziamo di capire o vogliamo esprimere cosa pensiamo. Questa è vita vera. La storia di uno, qui, è la storia di tutti. In un quartiere di periferia l’analfabetismo funzionale è una condizione. Siamo cresciuti come cani sciolti, e gli errori della nostra infanzia erano fatti per avere qualcosa dalla vita che alla fine non abbiamo avuto. Ci siamo sentiti sempre esclusi dalla società e abbiamo trovato sempre barriere, sappiamo leggere e scrivere ma non abbiamo la possibilità di andare oltre. Il primo comma dell’articolo 3 afferma il principio di uguaglianza formale, che garantisce pari dignità a tutti i cittadini: l’analfabeta funzionale però è privo della libertà e non potrà mai “concorrere” al bene comune. Anche se ha delle idee non possiede gli attrezzi e gli strumenti per realizzarle. Il piccolo non può mai crescere e questa è una diseguaglianza sostanziale. Un analfabeta funzionale non ha capacità critica, non sa pensare con la propria testa, risolvere situazioni complesse, elaborare e utilizzare le informazioni. È destinato a accodarsi agli altri senza mai esprimere il proprio parere, mentre tutti dovremmo avere la libertà di opinione, di poter commentare la realtà intorno a noi. La nostra non-conoscenza ci porta a credere agli altri ma non a comprendere fino in fondo e a distinguere il bene dal male. L’articolo 3 sancisce un diritto: non ci condannate alla banalità, vogliamo comprendere la complessità del mondo. Molti di noi, se fossimo nati a Milano, saremmo potuti diventare dottori o avvocati ma siamo nati al Sud, nell’ignoranza, e siamo partiti in ritardo. Con la buona volontà ci accultureremo. Non possiamo più gareggiare, ma ci potremo sentire migliori. Autori: Classi 2B e Sezione Alta Sicurezza, Alunni: 15 Padova. I detenuti-artisti espongono fra gli emergenti di Massimo Zilio Il Gazzettino, 15 novembre 2019 Sculture eseguite in un laboratorio della Casa di reclusione. Anche le opere di cinque detenuti della Casa di Reclusione Due Palazzi sono tra quelle presenti alla trentesima edizione di ArtePadova, che dopo l’anteprima di ieri apre oggi ufficialmente al pubblico dalle 10 alle 20 e che sarà ospitata dalla Fiera di Padova fino a lunedì (biglietto intero 10 euro, ridotto 5 euro, sul sito artepadova.com è possibile scaricare il ridotto speciale a un euro). Nella sezione Contemporary Art Talent Show del padiglione 1 sono esposte cinque sculture, realizzate nell’ambito del progetto ScoliAmo, laboratorio avviato poco più di un anno fa nel carcere padovano dagli scultori Claudia Chiggio e Roberto Tonon (in arte Chiton) dell’associazione Area 48. È una selezione di opere (che saranno anche acquistabili in Fiera) presenti anche, assieme ad altre, al Momart di piazza Capitaniato ogni prima domenica del mese. È una piccolissima parte delle 15 mila opere portate da 300 galleristi italiani, danesi, francesi, tedeschi, inglesi, spagnoli, turchi e iraniani ad ArtePadova, una delle principali mostre mercato d’arte moderna e contemporanea in Italia. Sono 723 gli artisti esposti e tra i padiglioni è possibile trovare nomi come Picasso, Modigliani, Matisse, De Chirico, Fontana, De Pisis, Morandi, Warhol, Haring, Guttuso, Pomodoro, Burri, Vedova, Rotella, Sironi, Manzoni. Non manca nemmeno la nona arte, il fumetto, con la mostra di Fabio Civitelli, noto soprattutto come disegnatore di Tex, una delle cinque personali presenti in fiera con quelle di Giorgio Laveri con le sue sculture giganti e dell’artista della luce Jorrit Tornquist, del cantante Ivan Cattaneo con le sue tecniche miste e del critico musicale Red Ronnie che propone le sue foto dei big della musica internazionale.All’interno della mostra spazio anche alle tecniche anti contraffazione più moderne. Oggi alle 11.30 lo street artist padovano Alessio B firmerà una sua opera con il dna sintetico realizzato dalla start up Aries, che ha sede a Padova. Anche Noima è una start up padovana, impegnata sullo stesso versante ma con tecnologia diversa. In questo caso l’azienda, fondata dalla padovana Monica Bortolami e con sede nell’incubatore del Galileo Visionary District, grazie anche alla collaborazione con Ez Lab, utilizza infatti la blockchain (tecnologia alla base ad esempio della valuta digitale Bitcoin) per permettere agli artisti di depositare con un click le proprie opere e certificarle. Cremona. “Il Chiaroscuro del carcere”, 28 scatti in esposizione nei corridoi del tribunale di Sara Pizzorni cremonaoggi.it, 15 novembre 2019 È stata inaugurata questa mattina, alla presenza del presidente del tribunale Anna di Martino, la mostra fotografica “Il Chiaroscuro del carcere”, che dal teatro del carcere si è spostata nei corridoi del palazzo di giustizia. Le fotografie, che resteranno esposte sino alla prima settimana di dicembre, sono destinate alla vendita. Il ricavato sarà messo a disposizione del carcere di Cremona. La mostra, che racconta il percorso del detenuto, è stata realizzata dall’avvocato milanese Alessandro Bastianello, ed è arrivata a Cremona grazie alla Camera Penale di Cremona e Crema presieduta dall’avvocato Alessio Romanelli. Le foto si riferiscono alla realtà del carcere di San Vittore. Nei 28 scatti dell’avvocato Bastianello il visitatore è accompagnato in un immaginario viaggio attraverso i luoghi e le emozioni di chi viene messo in prigione e il percorso del detenuto dal momento del suo ingresso in carcere fino alla collocazione in cella, per mostrare e condividere le emozioni che la dura realtà carceraria suscita in chi è estraneo a questo mondo. Scopo del progetto è quello di raccogliere fondi, tramite la vendita delle fotografie esposte (e stampate eventualmente in copie ulteriori, su richiesta), destinati a finanziare progetti della locale casa circondariale volti alla risocializzazione e al reinserimento dei detenuti nella società. Le foto potranno essere prenotate inviando una mail all’indirizzo camerapenalecr@gmail.com. “Con l’allestimento della mostra in tribunale”, ha detto l’avvocato Romanelli, “tutti hanno la possibilità di ammirare le foto e di acquistarle”. “Un’ottima iniziativa”, l’ha definita il presidente del tribunale, che spera che un domani possa essere estesa anche a Cremona con fotografie all’interno del carcere di via Cà del Ferro. Il presidente si è augurata che con il ricavato si potrà contribuire al percorso lavorativo dei detenuti e ad una raccolta di libri per rifornire adeguatamente le due biblioteche presenti nel carcere di Cremona. “Prigionieri”, di Valerio Bispuri. Una sconfinata solitudine di massa di Nicolas Lozito Il Messaggero, 15 novembre 2019 Le carceri italiane nel libro fotografico “Prigionieri”, di Valerio Bispuri. Sono tanti, a volte tantissimi, i fotografi che si confrontano con il paesaggio umano del carcere: per molti è un esercizio di stile o un passaggio formativo per provare l’accesso a luoghi e persone inarrivabili e in bilico. Spesso finisce con un fallimento, perché la resa dell’immagine non sa riportare il peso di vite così diverse. Per Valerio Bispuri, invece, ritrarre carcere e carcerati non è un’esperienza per fare curriculum, ma una vera missione. Da vent’anni, il fotografo romano classe 1971 si concentra sul tema della “libertà perduta” e l’emarginazione: nel 2015 ha pubblicato il suo lavoro decennale su 74 carceri dell’America del Sud (Encerrados), e nel 2017 la sua indagine sulla nuova droga Paco (Paco. A drug story). È uscito ora Prigionieri (Contrasto, 176pp, 39€): 130 scatti in bianco e nero dall’interno delle carceri del nostro Paese. Da quelle di massima sicurezza, come Poggioreale di Napoli o l’Ucciardone di Palermo, alle storiche Regina Coeli di Roma e San Vittore di Milano; dalle carceri femminili alle colonie penali; e così per dieci istituti diversi, nuovi o vecchi, con i muri scrostati o dall’architettura modello per agevolarne il controllo. Non è certo uno di quei libri di fotografia da collezionare, senza mai aprire, sul tavolo del salotto. È un lavoro di antropologia fotografica necessario, autentico, da studiare. La comprensione arriva grazie ai dettagli: una piccola stanza con cinque detenuti impilati sui letti a castello, l’abbraccio amorevole e violento di tre donne, l’utilizzo delle casse di acqua da sei come pesi da palestra. Alcune foto si fissano nella memoria più di altre, sembra di stare lì, mentre Bispuri pranzava con i detenuti per conoscerli meglio: un uomo spadella ai fornelli, e meno di mezzo metro dietro di lui, un altro detenuto è seduto sul water. In un carcere fatto di sbarre, muri e vetri, proprio lì non ci sono divisioni. Intenti manifesti e un manifesto di intenti, verrebbe da dire. Prigionieri è accompagnato da tre testi complementari: un commento di Edoardo Albinati, premio Strega 2016 e da vent’anni insegnante nel penitenzario di Rebibbia; un contributo di Stefano Anastasia, docente e fondatore dell’associazione Antigone (“70 mila detenuti per 45-50 mila posti detentivi: questo è il primo dato del sistema carcerario italiano”); e il racconto in prima persona dello stesso Bispuri. “L’idea che ne ho ricavato è di una solitudine sconfinata: i detenuti sono permanentemente a contatto tra loro, eppure sono sempre soli”. Un mondo e un’umanità paralleli: per giudicare prigioni e prigionieri bisogna prima vedere. “Nessuno mi ha mai portato per mano. Nascere al sud e perdersi al nord”, di Giacinto Pino edizioniallaround.it, 15 novembre 2019 La devianza conduce giorno dopo giorno lentamente e silenziosamente alla perdita dei valori. I valori che qui si vogliono intendere non sono certamente riferiti ai valori monetari o a quelli delle cose, prettamente materiali, bensì quelli, i più importanti e preziosi che possano esistere, come l’amore, il rispetto, i valori spirituali. I nomi dei protagonisti e il racconto, pur essendo di fantasia, hanno una radice nella realtà e nella storia vissuta dal protagonista che è stato ospite di diverse carceri (comprese quelle del 41 bis) per condanne dovute a reati diversi. L’obiettivo che spero di avere raggiunto è quello della riflessione sul perché delle mie scelte e su come stia cercando di ribaltare una vita in cui, come ho sempre detto, nessuno mi ha obbligato a fare qualcosa: infatti “nessuno mi ha mai portato per mano”. In appendice La carta dei diritti e dei doveri dei detenuti e degli internati. Giacinto Pino, un passato tra molte vicende di malavita tra Genova e la Calabria e un presente carcerario, trasferisce nella vicenda di Toni Basento molte delle esperienze vissute, intrecciate a quelle di fantasia. Perché in ogni uomo, malavitoso o “regolare”, ci sono sentimenti ed emozioni che si trasformano, sino ad arrivare a una presa di coscienza che è quella del diventare pienamente persone, cittadini. “Nessuno mi ha mai portato per mano. Nascere al sud e perdersi al nord”, di Giacinto Pino. Prefazione di Simonetta Matone, introduzione di Marcello Zinola, Pagg. 128, Euro 13,00. “La vita in uno specchio”, di Tamara Merizzi booksprintedizioni.it, 15 novembre 2019 Questo ùvolume è il frutto dell’esperienza personale dell’autrice presso la Casa Circondariale di Ascoli Piceno e si propone di fornire al lettore un contributo interdisciplinare relativamente al sistema penitenziario. In ambito giuridico vengono ripercorse le tappe storiche dell’internamento in Italia, fino a giungere alle più recenti modifiche legislative dell’Ordinamento penitenziario. In chiave sociologica, è richiamato il concetto di carcere come “Istituzione totale” e sono operate delle riflessioni sulla vita esperita dal detenuto all’interno del sistema “totalizzante e inglobante” rappresentato dall’istituto di reclusione. Sotto il profilo psicologico viene proposto l’uso combinato di tre strumenti diagnostici ai fini della valutazione della pericolosità sociale e del rischio di recidiva criminale. Viene altresì illustrato un caso clinico la cui analisi è basata sul colloquio criminologico a cui è stato sottoposto un detenuto del circuito di media sicurezza della Casa Circondariale di Ascoli Piceno. Il colloquio criminologico è imperniato sulla traccia fornita dalla Società Italiana di Criminologia, arricchita da elementi selezionati nella guida all’intervista elaborata da Robert Hare per la PCL-R, come l’empatia, l’impulsività, il rimorso e il senso di colpa. Il testo conclude con l’auspicio che la collettività, con spirito critico e grande sensibilità, riesca a recuperare il “potenziale curativo dell’empatia, non solo per gli altri, ma anche per noi stessi”, poiché ritenere che la “malvagità esiste soltanto all’esterno - di noi - resta puramente illusorio”. Migranti. Il profugo va accolto, schiaffo dell’Europa all’Italia e al Belgio di Piero Sansonetti Il Riformista, 15 novembre 2019 La Corte di Giustizia europea ha emesso una sentenza molto importante che riguarda i profughi: stabilisce che il diritto ad essere accolti è un diritto assoluto, e non può essere ridotto o soppresso da considerazioni che riguardano il comportamento del profugo. Non è una questione marginale: è essenziale. Leggete queste cifre: in Italia tra il 2016 e il 2017 (ultimi dati che si conoscono) in 35 prefetture su cento (le altre prefetture non hanno fornito i dati) sono stati circa 21 mila i rifugiati ai quali è stata tolta l’accoglienza. Proiettando il dato su scala nazionale si arriva più o meno a ottantamila, una cifra enorme. Per quale ragione è stata tolta l’accoglienza (e dunque un tetto, del cibo, l’assistenza) a così tante persone? Per le ragioni più diverse legate a comportamenti irregolari. In alcuni casi si tratta di veri e propri reati (ma sono una minoranza) molto più spesso di piccole infrazioni: un ritardo nel rientro notturno, una assenza, la violazione di un divieto (alcool, fumo o magari uno spinello). A portare il problema di fronte alla Corte di Giustizia europea ci ha pensato un ragazzo belga. Era stato espulso dal centro di accoglienza perché aveva partecipato a una rissa. Lui ha fatto ricorso e il giudice belga, indeciso su come applicare la legge e sul possibile conflitto tra legge vigente e principi sanciti dalla Unione Europea, ha chiesto il parere della Corte di Giustizia europea che ieri lo ha dato ed è stato un parere molto netto: l’espulsione del ragazzo è illegittima, perché il diritto all’accoglienza è un diritto assoluto, non è una concessione. Le misure che si possono prendere per punire un reato o una semplice violazione amministrativa non possono arrivare alla negazione di un diritto assoluto. È evidente che la sentenza che riguarda il ragazzo belga avrà conseguenze straordinarie soprattutto in Italia. Non solo è in teoria possibile il ricorso di decine di migliaia di profughi ai quali è stata tolta illegittimamente l’accoglienza, ma in ogni caso, in futuro, non si potrà più togliere l’accoglienza a nessuno. E questo, naturalmente, cambierà radicalmente le dimensioni necessarie ad accogliere. Anche perché l’impressione è che la sospensione del diritto di accoglienza sia stata usata, spesso, per impedire il sovraffollamento dei centri. Basta tenere conto di cifre come questa: oggi nei centri di accoglienza di Bologna sono ospitati circa 2000 stranieri. Tra il 2016 e il 2017 ne sono stati espulsi altrettanti: 2000. Che vuol dire? Che probabilmente se non ci fosse stata la cacciata dei primi duemila, oggi gli ospiti sarebbero 4000 e i centri di Bologna non sono attrezzati ad accogliere un numero così grande di rifugiati. La sentenza della Corte di Giustizia mette un punto fermo sulla questione dell’accoglienza. E non è stata salutata con entusiasmo da alcuni ambienti politici e giornalistici italiani che non sono molto favorevoli all’aiuto agli stranieri. Molti giornali, già ieri, si schieravano contro la sentenza. Libero, ad esempio, titolava in modo molto esplicito: “Dobbiamo tenerci gli immigrati delinquenti”. Come si capisce facilmente la decisione della Corte, che tocca una questione di principio, può risultare un vero e proprio schiaffo in faccia all’Italia. La quale, oltretutto, ha scritto in caratteri indelebili il diritto all’accoglienza nell’articolo 10 della propria Costituzione. Il quale dice espressamente, al terzo comma: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”. Di questo articolo però, fin qui, non si è tenuto molto conto. Né nel dibattito politico (che in effetti assai raramente tiene conto della Costituzione, basta dare un’occhiata alla rivolta di magistrati e giornalisti contro la Consulta che ha praticamente cancellato l’ergastolo ostativo dato il suo carattere evidentemente anticostituzionale). Ora sarà più difficile aggirarlo. Ieri oltretutto è arrivata anche una sentenza della Corte di Cassazione sul tema profughi. Stabilisce che il decreto Salvini bis, che riduce molto i diritti all’accoglienza, non può essere applicato in forma retroattiva. E annulla alcune sentenze pronunciate nei mesi scorsi contro alcuni richiedenti asilo. Una giornataccia per Salvini? In realtà la sentenza della Corte di Giustizia non riguarda il periodo nel quale è stato ministro. È probabile che la sentenza non piaccia per niente al capo della Lega, ma non è una censura al suo ministero. E nemmeno la decisione sulla non reatroattività, che censura alcuni magistrati ma non l’ex ministro. La verità è che il problema immigrazione - sia nel suo aspetto politico e concreto sia su quello della propaganda - non riguarda solo la Lega e solo il governo Lega 5 Stelle: riguarda tutti. Sarà ora di prenderlo sul serio. Senza pensare che per risolverlo basta cancellare un po’ di diritti. Non è così. Perché, almeno alle volte, viene da dire: per fortuna che l’Europa c’è. Apolidi. Studio dell’Unhcr sul rispetto dei diritti umani in Italia, Portogallo e Spagna di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 novembre 2019 L’odissea di Dari, più di 10 anni per essere riconosciuto apolide nel nostro Paese. Difficoltà di accesso ai diritti fondamentali, violazione dei diritti umani, emarginazione e discriminazione. Questo è ciò che emerge da uno studio condotto dall’Ufficio dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr). Il documento, presentato il 12 novembre scorso, si intitola “L’impatto dell’apolidia sull’accesso ai diritti umani in Italia, Portogallo e Spagna” e nei tre Paesi risulta una violazione sistematica dei diritti. Nel mondo gli apolidi sono 3,9 milioni: una stima, in realtà, calcolata per difetto considerando che in molti Paesi mancano statistiche ufficiali. Grazie, però, all’attività dell’Unhcr e all’iniziativa #IBelong avviata nel 2014, 220.000 apolidi hanno ottenuto una cittadinanza. Nel rapporto è evidenziato che in Italia, Portogallo e Spagna gli apolidi incontrano diversi ostacoli proprio a causa dell’assenza di documenti di identità, che provoca problemi anche per l’accesso all’istruzione. Stessa situazione per l’assistenza sanitaria che è garantita nei tre Paesi, ma molti apolidi intervistati hanno evidenziato diversi problemi chiarendo che l’assenza di documenti legata proprio all’apolidia impedisce, non di rado, di usufruire dei servizi essenziali. Italia, Portogallo e Spagna sono Stati contraenti di entrambe le Convenzioni sull’apolidia. Tuttavia, Italia e Spagna non hanno ratificato la Convenzione europea sulla nazionalità del Consiglio d’Europa. Le modalità di acquisizione della cittadinanza nei quadri normativi di riferimento italiano, portoghese e spagnolo trovano fondamento prevalentemente nel principio dello jus sanguinis - per cui la cittadinanza è conferita principalmente per discendenza. In varia misura, tutti e tre i Paesi hanno adottato un approccio inclusivo sull’accesso a cittadinanza e naturalizzazione basato sulla nascita sul territorio, con disposizioni potenzialmente utili per prevenire il protrarsi di casi di apolidia. Spesso gli apolidi possono imbattersi in ostacoli nell’adempiere le procedure burocratiche e nel soddisfare i requisiti necessari per acquisire la cittadinanza alla nascita o tramite naturalizzazione oppure, semplicemente, possono non essere al corrente dell’esistenza di tali possibilità. Per esempio, nei casi in cui un bambino nasce da genitori apolidi in Italia, la salvaguardia contro l’apolidia alla nascita acquisisce efficacia solo quando lo status dei genitori è già stato formalmente riconosciuto tramite una procedura di determinazione dell’apolidia, un risultato che solo una minoranza degli apolidi che vivono nel nostro Paese riesce a conseguire. In Italia, gli apolidi possono avvalersi di due differenti procedure, una amministrativa, l’altra giudiziaria. Tuttavia, i criteri restrittivi che limitano l’accesso alla procedura amministrativa, così come gli oneri finanziari e i passaggi burocratici legati alla procedura giudiziaria, comportano che il numero di apolidi che si vedono riconoscere formalmente il proprio status sia molto limitato. In casi estremi può durare più di dieci anni, come nel caso di Dari, un giovane apolide che ha vissuto in Italia sin dall’infanzia che ha raccontato come ci siano voluti quasi 13 anni per essere riconosciuto apolide. Secondo i dati ufficiali, attualmente in Italia la popolazione apolide conta 822 persone formalmente riconosciute, ma si stima che vi siano dalle 3.000 alle 15.000 persone apolidi o a rischio di apolidia che al momento vivono nel Paese. Molte di queste sono membri delle comunità rom originarie dell’ex- Iugoslavia stabilitesi in Italia alcuni decenni fa. Il resto della popolazione apolide è composto principalmente da persone originarie dell’ex Unione Sovietica, dei Territori Occupati palestinesi, della Cina (Tibet), di Cuba, dell’Eritrea e dell’Etiopia. In assenza di un riconoscimento formale dell’apolidia, le salvaguardie contro l’apolidia alla nascita di fatto non trovano applicazione, contribuendo alla trasmissione dell’apolidia alle nuove generazioni. Ciò vuol dire che molte di queste persone, sebbene siano nate e cresciute in Italia e non ne abbiano mai valicato le frontiere, non sono titolari di alcuna cittadinanza. Svizzera. Rapporto sull’assistenza sanitaria negli istituti di detenzione nkvf.admin.ch, 15 novembre 2019 Nel suo rapporto la Commissione nazionale per la prevenzione della tortura (Cnpt) presenta i risultati di un progetto pilota biennale volto a verificare l’assistenza sanitaria nelle strutture carcerarie svizzere. Nel complesso, la Cnpt trae un bilancio positivo per quanto riguarda l’accesso alle cure mediche negli istituti di detenzione svizzeri e la loro qualità. Sono però emerse discrepanze e carenze nell’attuazione delle prescrizioni legali in materia di epidemie e nella ripartizione dei costi. Attuazione non uniforme delle prescrizioni legali in materia di epidemie - La verifica delle basi legali cantonali ha evidenziato un’attuazione eterogenea delle prescrizioni legali in materia di epidemie, il che in pratica significa che le strutture carcerarie adottano piani di assistenza diversi. Sebbene l’assistenza sanitaria sia risultata adeguata in tutti gli istituti controllati, queste differenze rivelano che occorre intervenire ulteriormente per armonizzare la prassi in materia di prevenzione. Misure preventive insufficienti - La Commissione ha riconosciuto una particolare necessità d’intervento per quanto riguarda le misure preventive contro le malattie infettive e altre malattie trasmissibili per via sessuale o ematica; occorre soprattutto informare meglio i detenuti. Ha anche riscontrato che la visita medica di entrata, essenziale dal punto di vista epidemiologico, viene eseguita in modo diverso come misura preventiva e non sempre entro i termini prestabiliti. Anche per quanto concerne la distribuzione dei farmaci occorre adoperarsi ulteriormente affinché la somministrazione da parte di personale medico specializzato, già praticata in molte istituzioni, diventi uno standard a livello nazionale. Armonizzare la ripartizione dei costi - Secondo la Commissione le eterogenee modalità di ripartizione dei costi per i trattamenti sanitari dei detenuti sono contrarie al principio di uguaglianza. Ritiene che una partecipazione ai costi sia ammissibile dal punto di vista dei diritti fondamentali soltanto se è proporzionata e se non impedisce l’accesso a un’assistenza medica adeguata. La Commissione raccomanda pertanto alle autorità competenti di introdurre un’assicurazione sanitaria obbligatoria per tutti i detenuti e di adoperarsi affinché la ripartizione dei costi sia armonizzata su scala nazionale. Necessità d’intervento in singoli ambiti - La Commissione ha inoltre riscontrato che occorre intervenire nel settore dell’assistenza psichiatrica di base e ha raccomandato alle autorità di garantire un accesso adeguato all’offerta terapeutica. Infine, in molte strutture, la Commissione ha reputato insufficiente l’assistenza sanitaria riservata specificamente alle donne detenute e alle loro esigenze. Nell’ambito di un progetto pilota biennale, la Commissione ha esaminato il rispetto dei principi internazionali e nazionali fondamentali dal punto di vista dell’assistenza sanitaria, riservando particolare attenzione all’attuazione cantonale delle prescrizioni legali in materia di epidemie. Il progetto è stato seguito da un gruppo di lavoro formato da interlocutori importanti nel settore dell’assistenza sanitaria; i risultati e le raccomandazioni sono stati discussi nel corso dei lavori. A conclusione, le autorità competenti per l’assistenza sanitaria nelle strutture carcerarie e gli istituti sottoposti a controllo hanno ricevuto il rapporto generale affinché prendano posizione in merito. Medio Oriente. Israele continua a bombardare Gaza, uccisi 26 palestinesi di Michele Giorgio Il Manifesto, 15 novembre 2019 Trecentosessanta invece sono i razzi lanciati dal Jihad islami verso Israele dove hanno fatto una cinquantina di feriti. Egiziani e Onu lavorano per un cessate il fuoco. “Ero stato ferito e ho telefonato a mio padre. Stava venendo a trovarmi in ospedale, i miei fratelli erano con lui sulla moto quando sono stati colpiti da Israele”. Così Loay Ayyad raccontava ieri la fine di suo padre Raafat, 54 anni, e dei fratelli Islam, 25 anni, e Amir, 7 anni. A colpirli è stato un missile sganciato da un drone israeliano nei pressi della moschea Ali, nel quartiere al Zaitun di Gaza city. Sui social ieri giravano le foto di Amir che sorride mentre si prepara ad andare a scuola. Civili innocenti fatti a pezzi da un missile ma che, in quanto palestinesi, non fanno notizia. Almeno non quanto i civili israeliani feriti dai razzi palestinesi lanciati da Gaza: una cinquantina hanno ricevuto cure mediche, 23 dei quali sono caduti mentre cercavano di raggiungere i rifugi, due sono rimasti feriti dalle schegge di un razzo, una donna anziana è stata colpita da un vetro andato in frantumi e resta grave una bimba di 8 anni colpita due giorni da infarto al suono delle sirene di allarme. I circa 360 razzi lanciati da Gaza, fino a ieri sera, hanno provocato pochi danni perché, sottolineano gli stessi media israeliani, sono caduti in aree aperte e disabitate o sono stati abbattuti dal sistema di difesa Iron Dome. A Gaza invece non ci sono sistemi di difesa e rifugi per civili. I raid aerei sono andati avanti per tutto il giorno. Quella di ieri, all’indomani dell’omicidio mirato del comandante militare del Jihad, Bahaa Abu al Atta, ordinato dal premier israeliano Netanyahu, è stata una giornata di sangue e di paura, per adulti e bambini. Una giornata in cui sono stati uccisi almeno 16 palestinesi: gli ultimi due ieri sera a Rafah. Che si aggiungono ai 10 di martedì. In totale sono 26, tra cui tre bambini e una donna. Per Israele si trattava nella maggior parte dei casi di “terroristi”. Aprendo la riunione di governo Netanyahu è tornato a minacciare il Jihad: “Credo che il messaggio stia cominciando a passare, continueremo a colpirli senza pietà, siamo determinati a combattere e proteggere noi stessi. Hanno una opzione, mettere fine a questi attacchi o subire ancora più colpo”, ha avvertito. Identico il tono del neo ministro della difesa, Naftali Bennett. “Questa mattina abbiamo mandato un chiaro messaggio a tutti i nostri nemici, dovunque si trovino - ha sottolineato - chiunque pianifichi di colpirci di giorno, non può essere mai sicuro di quello che faremo la notte. Eravate e restate nel nostro mirino”. Nel mirino però ci sono finiti anche persone innocenti, scuole ed edifici civili. Il Centro per i diritti umani di Gaza (Pchr) ha documentato la distruzione completa di tre case - due a Khan Younis e una a Rafah - dopo che proprietari e vicini hanno ricevuto chiamate dalle forze armate israeliane che ordinavano loro di abbandonarle prima dei bombardamenti. Anche le scuole e le università di Gaza sono rimaste chiuse, come quelle nelle regioni meridionali di Israele. Chiusi anche gli uffici pubblici per il secondo giorno, così come il valico commerciale di Kerem Shalom, ad est di Rafah, da dove transitano le merci per Gaza, e quello di Erez. Divieto per i pescatori di uscire in mare tranne che nell’estrema parte meridionale di Gaza. L’escalation innescata dall’assassinio di Abu Al Atta - l’inchiesta svolta a Gaza dice che è stato ucciso un piccolo drone “kamikaze” imbottito di esplosivo ad alto potenziale scoppiato appena dentro la sua abitazione - si trasformerà in una ampia offensiva militare israeliana contro Gaza come nel 2014? L’incertezza è grande. Il portavoce del Jihad, Musab al Breim, ha escluso un cessate al fuoco al momento, sottolineando che “non è appropriato parlarne, con tutto il rispetto per gli sforzi arabi”. Ma il segretario generale dell’organizzazione, Ziad al Nakhla, era atteso ieri al Cairo dai mediatori egiziani che stanno cercando di raggiungere un cessate con l’aiuto dell’inviato Onu, Nikolaj Mladenov. Già nella capitale egiziana, Mladenov ha condannato con forza “il lancio indiscriminato di razzi e colpi di mortaio contro i centri abitati (israeliani) e deve fermarsi immediatamente”, senza mostrarsi altrettanto perentorio nei confronti della ripresa degli omicidi mirati di leader palestinesi da parte di Israele. “È improbabile che si arrivi subito a un cessate il fuoco” dice il giornalista di Gaza, Aziz al Kahlout “il Jihad islami pensa che la sua rappresaglia per l’uccisione di Abu Al Atta non sia ancora finita”. Allo stesso tempo, aggiunge, “Ziad al Nakhla sa che lo scontro può sfociare in una guerra aperta che la sua organizzazione non potrebbe portare avanti da sola, senza la partecipazione di tutte le altre fazioni armate e soprattutto di Hamas”. Guerra che il principale movimento islamico palestinese, che controlla Gaza dal 2007, non vuole. Perché da mesi è impegnato in trattative indirette con Israele per una tregua di lunga durata che lo rafforzerebbe notevolmente anche nei confronti dell’Autorità Nazionale del presidente Abu Mazen. Non è passata inosservata l’assenza delle Brigate Al Qassam, l’ala militare di Hamas, dall’elenco delle organizzazioni armate che ieri hanno annunciato un’alleanza con le Brigate Saraya al Quds, il braccio armato del Jihad, contro Israele. “Hamas però la guerra potrebbe essere costretto a combatterla ugualmente - spiega al Kahlout - se Israele continuerà i pesanti bombardamenti degli ultimi due giorni e se non si avvierà la trattativa sul cessate il fuoco”. Brasile. Liberato Lula, salta in aria la Mani pulite brasiliana di Angela Nocioni Il Riformista, 15 novembre 2019 Oh meu Deus, è arrivato il colpo di spugna! Così all’opinione pubblica brasiliana è stata sostanzialmente venduta la sentenza del Tribunale supremo che la settimana scorsa ha dichiarato incostituzionale la detenzione prima del compimento del terzo grado di giudizio. È illegale mettere in cella chi non ha ancora esaurito le possibilità di ricorso, ha stabilito l’Alta corte. Immediata conseguenza: il detenuto più famoso del Brasile, l’ex presidente Lula da Silva, condannato in appello a otto anni per corruzione, ha chiesto e ottenuto la liberazione. Seguito a ruota da altri carcerati eccellenti dell’inchiesta Lava Jato, la Mani pulite che negli ultimi cinque anni ha terremotato la classe politica e imprenditoriale brasiliane radendo al suolo le principali aziende pubbliche e private tra cui Petrobras, l’impresa petrolifera di Stato, la più grande azienda pubblica dell’America latina ed Odebrecht, la principale azienda privata di costruzioni del continente accusata, con prove, di avere un sistematico metodo di corruzione per aggiudicarsi appalti in Brasile e all’estero. I rami dell’inchiesta su Odebrecht hanno portato all’arresto di politici di primo piano in molti altri Paesi. Sono 4895 le persone detenute in Brasile, con una condanna in appello, che ora potrebbero ottenere la scarcerazione. Trentotto di loro sono dentro per l’inchiesta Lava Jato. I detenuti sono 726.000, il 35,9% dei quali non ha condanne, nemmeno di primo grado: sono in attesa di giudizio, sono quasi tutti neri poveri, la loro posizione rimarrà inalterata. Lo scandalo percepito riguarda quei 38, considerati gli eccellenti, i miracolati dalla giurisprudenza del Supremo. Nella guerra all’ultimo sangue in corso tra poteri dello Stato in Brasile l’immediata risposta allo schiaffo del Supremo da parte del Parlamento, la cui la maggioranza è in mano alla destra radicale, è stato l’avvio di una proposta di modifica costituzionale. L’articolo 5 della Carta, in rispetto del quale s’è pronunciato il Supremo, dice che nessuno è colpevole fino a condanna definitiva? Allora si cambia l’articolo 5 della Costituzione, basta modificare il comma 57. La Commissione Giustizia della Camera ha già cominciato la discussione. Se passa l’emendamento, e i voti per farlo passare ci sono, la Costituzione stabilirà che nessuno può essere considerato colpevole fino alla condanna in secondo grado. Quindi dovranno tornare tutti dentro? Se non i 4895, almeno i 38 che nel frattempo avranno avuto modo di far ricorso ed essere scarcerati? Sarà così salva la Mani pulite che ha ridiseganto la mappa politica del Brasile portando il giudice Sergio Moro, quello che ordinò l’arresto di Lula, a fare il super ministro della giustizia del presidente Jair Bolsonaro diventato tale grazie a quell’arresto (senza che il mondo si scandalizzasse per questo)? Tutto da stabilire. Esimi costituzionalisti di ogni risma si stanno già scannando per sancire se, e in base a quale norma, un emendamento costituzionale possa o non possa scavalcare una decisione del Supremo. Intanto le stesse tv che Sergio Moro, ai tempi in cui era ancora giudice di primo grado della procura di Curitiba, allertò perché andassero a coprire con gli elicotteri la convocazione a testimoniare dell’allora candidato alle presidenziali Lula da Silva mentre alla sua porta si presentavano gli agenti di polizia come si fosse trattato di un arresto - mentre il candidato Lula non era stato nemmeno avvisato e quindi non aveva nemmeno avuto modo di rifutarsi (impossibile per uno spettatore televisivo distinguere le immagini di quel singolare accompagnamento coatto a testimoniare sotto scorta da quelle di un clamoroso arresto: sembrava avessero suonato alla porta di Jack lo squartatore, c’era uno stuolo di macchine di polizia a sirene spiegate, agenti armati fino ai denti, sirene, cordoni di folla) martellano ora immagini e dibattiti preventivi sull’imminente probabile scarcerazione dei grandi protagonisti della telenovela politico giudiziaria brasiliana. Per cominciare: Eduardo Azeredo, ex presidente del Psdb, il partito dell’ex presidente Fernando Henrique Cardoso (l’unico grande nome della politica brasiliana a non essere finito stritolato dall’inchiesta, cominciata quando lui era ormai lontano dal potere visibile) e José Dirceu del Partito dei lavoratori, il creatore politico di Lula, l’uomo che mise la cravatta al Lula sindacalista e lo scortò fino a portarlo alla presidenza della Repubblica. Dirceu, sempre rifiutatosi di collaborare con gli inquirenti, sta scontando una pena a 30 anni, 9 mesi e dieci giorni per corruzione e lavaggio di denaro. Entrambi hanno chiesto la liberazione tre giorni fa. Non si può capire cosa sta accadendo in Brasile, né come il 52% degli elettori di una delle democrazie più grandi del mondo abbia votato un anno fa un oscuro ex poliziotto ciclotimico dalle sparate violtissime presentatosi come outsider dopo aver passato gli ultimi 23 anni su uno scranno da deputato a Brasilia, se non si considerano i toni e la potenza della gigantesca copertura mediatica di cui dal 2005 (il partito di Lula è andato al potere nel 2003) godono le inchieste sui fondi neri ai partiti prima e quelle sulla corruzione in Petrobras poi. Entrambe talmente ben cadenzate sui tg della sera con suspance, colpi di scena, tradimenti e vendette da essere seguite in tv, ormai da quattordici anni, come si segue la telenovela delle otto. E la Lava Jato garantisce pathos, scandalo e guizzi di regia di una qualità incomparabile con quelli delle migliori telenovelas delle otto. Quando fu mandato in prigione José Dirceu, per dirne una, il suo personale fustigatore all’Alta Corte fu un giudice ex protetto di Lula e Dilma e di Dirceu stesso, Joaquim Barbosa, l’unico giudice nero della storia dell’Alta corte brasiliana. Se non fosse esistito Dirceu, probabilmente Barbosa non sarebbe mai diventato giudice del Supremo. Questo nel senso comune brasiliano era fatto forse non certo, ma dato per assodato. Barbosa, assurto al ruolo di super giustiziere, fu con Dirceu di una severità inedita. La sua requisitoria è diventata presto un classico per i toni implacabili utilizzati. Al Carnevale di Rio la sua maschera è andata più di moda di quella di Batman. Il clima creato allora attorno al ruolo di angelo vendicatore del giudice nero, scagliatosi contro i potenti bianchi corrotti, spiega molto del brodo di coltura da cui poi è uscito, a sorpresa, Bolsonaro. Al di là della sostanza racchiusa nelle appassionanti pagine processuali. Tra le tante porte spalancate dalla sentenza del Supremo sulla incostituzionalità della detenzione prima del terzo grado di giudizio, ce ne è forse anche una che mette in discussione l’esito delle ultime presidenziali visto che Lula, il candidato favorito al primo turno secondo tutti i sondaggi, fu fatto fuori dalla corsa elettorale a causa dell’arresto finmato da Moro dopo una condanna in appello? No. La legge brasiliana è in materia molto simile a quella statunitense: il presidente può esser rimosso soltanto con una procedura di impeachment. Nemmeno se Lula riuscisse a dimostrare che Moro non è stato un giudice imparziale e ad ottenere quindi l’annullamento del giudizio, i giochi per lui si potrebbero riaprire. Nemmeno se un tribunale potesse riconoscere che è stato condannato senza prove. E da una futura competizione elettorale, ora che Lula è libero, è fuori comunque. Perché esiste una legge, la Ficha limpa (fedina pulita) che gli impedisce di partecipare. Lula ha anche altre cinque processi pendenti, uno con una condanna per corruzione in primo grado, oltre a quello per l’appartamento al mare costatogli l’arresto e la fine della corsa per le elezioni. Appartamento che la sentenza di condanna ritene gli sia stato messo a disposizione come tangente e che, curisosamente, non risulta essere mai stato abitato nemmeno per un giorno né da lui né da nessuno della sua famiglia, appartamento per il quale non risulta esistere nessun documento di proprietà da far risalire all’ex presidente. L’attico, il famoso triplex di cui da anni si favoleggia, affaccia su una delle spiagge più brutte del Brasile, sporca e affollatissima. Chissà perché l’uomo più potente del Paese, uno che è considerato una sorta di semidio in tutto il Nord est, avrà fatto carte false per avere a disposizione un attico in un postaccio che sembra tutti i giorni Ladispoli a ferragosto? Lungo un litorale triste sul quale non potrebbe neppure metter piede senza essere assediato dai bagnanti? Mistero irrisolto, ma non spettava a Moro risolverlo. Dovesse, però, saltar fuori che c’è stato un accordo per far condannare Lula in secondo grado, e renderlo così incandidabile, frenare lo scandalo potrebbe diventare complicato anche per Moro. Complicato, ma non impossibile. Perché il consenso popolare sta dalla parte dell’ex giudice sceriffo diventato ministro dopo aver giurato pubblicamente che mai avrebbe accettato un incarico politico. È lui il candidato che la maggioranza degli elettori brasiliani vorrebbe alla presidenza della repubblica, a dar retta ai sondaggi. Il presidente Bolsonaro ha già detto ai suoi di volerlo come vice per il prossimo mandato, invece di nominarlo per meriti membro del Supremo. C’è una conseguenza possibile della sentenza dell’Alta Corte che ha portato alla liberazione di Lula di cui si parla poco. L’effetto più temuto sulla Lava jato non è tanto la scarcerazione dei tanti condannati in appello che riescano a farsi accogliere il ricorso, ma la ricaduta che quella sentenza potrebbe avere sull’armageddon della Mani pulite brasiliana: la legge sulla delazione premiata, una versione locale (con alcune differenze) delle norme italiane sui collaboratori di giustizia. La delação premiada - il testo di legge dice proprio “delazione premaiata”, non collaborazione, né testimonianza: delazione, tu fai la spia io ti premio, il lessico del legislatore di Brasilia è meno ipocrita del nostro - prevede un vero e proprio contratto firmato tra accusato e inquirente. Sostanziosi sconti di pena e, in alcuni casi, la liberazione da ogni pendenza penale per chi collabora con gli inquirenti. Un bell’incentivo a vuotare il sacco, certo. Ma anche a mentire con intelligenza. A offrire verità verosimili, difficili da ricostruire e quindi da smentire, tenute in piedi da brandelli di indizi in grado di somigliare a una prova senza esserlo. ùMolti avvocati brasiliani rifiutano la delação premiada come strategia difensiva. Alcuni grandi studi legali hanno denunciato in una pubblica lettera l’uso diffuso di “metodi da Inquisizione” nelle inchieste. Hanno invitato, inascoltati, “con urgenza il potere giudiziario” a “una postura rigorosa di rispetto e di osservanza delle leggi e della Costituzione”. La questione è la solita: come si devono usare le dichiarazioni di chi accusa qualcun altro in un’inchiesta? E soprattutto: cosa è legittimo fare per ottenerle? In alcuni casi sono saltate fuori le prove dei fatti contestati, presentate come tali in processi arrivati a sentenza. Ma a tenere in piedi la Lava Jato sono le delazioni premiate a tappeto di detenuti in via preventiva che, magicamente, escono dal carcere appena indicano il nome di un presunto corrotto. Che non viene mai trattato come tale, ma finisce sbattuto nelle aperture dei tg come fosse un reo confesso. A osservare il dettaglio delle principali inchieste, a controllare sul calendario i nomi di chi esce e di chi entra dalla cella, il timore che la prigione preventiva sia usata per forzare la chiusura degli accordi di collaborazione, sembra fondato. Nel bel mezzo della guerra in corso, anche dentro l’avvocatura brasiliana si è scatenata più di una battaglia. Approfittando del rifiuto di alcuni studi legali di difendere gli imputati che firmano accordi di delazione premiata, spuntano come funghi avvocati che si stanno specializzando nella contrattazione con l’accusa, per conto dell’assistito, per accedere ai benefici offerti a chi collabora. Benefici che, a volte, somigliano a un regalo. Prendiamo il caso di Joesley Batista, il proprietario della principale azienda mondiale per l’esportazione di carne, la Jbs. Incastrato da intercettazioni pesanti, Batista ha confessato e descritto il giro vorticoso di tangenti che gli ha consentito, tra l’altro, di evadere tutte le tasse sull’export. Il contratto di delazione premiata da lui firmato gli ha permesso di dirsi colpevole della corruzione dell’intera classe dirigente brasiliana degli ultimi quindici anni - destra, sinistra, centro, più alcuni giudici - pagata secondo le sue accuse con milioni di dollari per un’enormità di favori illeciti, e di scampare illeso dal processo vendendo la testa dei politici da lui accusati in cambio dell’impunità. Ha confessato crimini clamorosi ed è improcessabile. La notizia non è stata presentata come scandalosa e non ha fatto scandalo. Il biglietto da pagare per lo show.