Quel patto necessario e la luce in fondo al tunnel di Paolo Borgna Avvenire, 14 novembre 2019 Articolo 27 della Costituzione, legge e carcere: parola di magistrato. A cosa serve la pena? Da secoli i filosofi del diritto hanno risposto a questa domanda elaborando teorie diverse che si intrecciano fra loro. Si deve punire il colpevole perché a un comportamento antisociale si risponde con una reazione negativa che riaffermi l’autorità dello Stato. Si deve dissuadere chi ha commesso un reato dal commetterne altri. Si deve dissuadere la generalità dei consociati dal commettere reati: dimostrando che chi viola la legge subisce delle conseguenze negative. Da tempo, però, a queste domande se ne sono aggiunte altre, più radicali. A cosa serve il carcere? Come far finta di non vedere che il carcere, escludendo una persona dalla comunità e dalle relazioni con gli altri, confligge insanabilmente con la dignità della persona? Se la vera identità del carcere è la segregazione, non c’è mutamento dell’istituzione che la possa cambiare. E dunque, se vogliamo rispettare quel tanto citato articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, secondo cui le pene non possono consistere in “trattamenti inumani e degradanti”, non rimane che abolire il carcere. Se badiamo solo alla coerenza dei princìpi, gli amici che ci pongono queste domande hanno ragione. E probabilmente ha ragione Francesco D’Agostino quando ci dice che la detenzione ha poco a che vedere con quella “rieducazione del condannato” promessa dall’articolo 27 della Costituzione. Si potrebbe rispondere che la stessa Costituzione vieta soltanto la pena di morte e dunque, implicitamente, ammette il carcere. Ma è risposta troppo facile, che non ci appaga. E allora, a costo di apparire cinici (ma in certi casi è meglio rischiare d’essere cinici anziché ipocriti), dobbiamo ammettere: è vero, oggi la pena carceraria è una “pratica di difesa sociale”, una “tecnica di prevenzione dei reati”. È vero: oggi, nel governo della “città terrena”, la privazione della libertà personale del colpevole di reati gravi è una necessità sociale. Faccio un esempio estremo: cosa accadrebbe se l’autore di una strage di bambini in un asilo, pochi giorni dopo passeggiasse liberamente per la strada? Ma, anche senza estremizzare, noi sappiamo che la comunità dei cittadini non può tollerare di avere con sé, immediatamente dopo la commissione di un delitto, l’autore di un fatto grave. Se ciò avvenisse, lo Stato tradirebbe il patto fondamentale che esso stringe con i cittadini e che in sostanza dice: “Tu, cittadino, rinunci a farti giustizia da solo e a esercitare la violenza per garantire la tua sicurezza, perché in cambio io, Stato, ti garantisco di farmi carico della tua sicurezza e di rispondere alla violenza che da altri potrai subire”. La finalità dell’articolo 27 - la pena deve aiutare il condannato a reinserirsi nel consorzio dei cittadini - non cancella completamente le altre finalità tradizionalmente affidate alla sanzione, escluso soltanto il fine di vendetta. In particolare, la Costituzione non esclude lo scopo che i giuristi chiamano di “prevenzione generale”. Punendo l’autore di un delitto, lo Stato tende anche a far capire agli altri cittadini che commettere un reato non conviene: perché c’è il rischio d’essere scoperti e d’essere condannati e puniti. Se lo Stato incarcera un grande spacciatore di droga lo fa anche perché altre persone, che si trovano nella stessa condizione sociale dello spacciatore e hanno scelto invece di lavorare onestamente (guadagnando, in un mese, quello che lo spacciatore guadagna in due ore), non siano tentate di seguire anche loro la strada del delitto. Dopodiché, ammesso che in alcuni casi sia indispensabile segregare (per il minor tempo possibile) l’autore di un fatto grave, questa “segregazione” non deve mai essere disumana: per nessuno, neppure per l’autore del delitto più odioso. Per questo, lo Stato dovrà cercare di ridurre al minimo gli effetti della privazione della libertà, attenuando il più possibile la differenza tra la vita libera e quella detentiva. E dunque, adoperarsi affinché il tempo trascorso in carcere dal condannato non sia uno spazio vuoto. Ma sia riempito di opportunità, di cui il condannato può usufruire per la sua “rieducazione”. Il termine “rieducazione” può non piacere: perché la vocazione dello Stato a rieducare è tipica dei regimi totalitari. Ma la “rieducazione” di cui parla la nostra Costituzione non è imposizione bensì opportunità. L’articolo 27 dice che le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato”; non che “rieducano” il condannato. Non è solo una differenza lessicale. Opportunità di reinserimento significa libri da leggere, palestre, laboratori in cui imparare un mestiere, possibilità di confronto con i ministri di culto (oggi di varie religioni, possibilmente in dialogo tra loro). Dunque, la “rieducazione” è l’orizzonte cui la pena deve tendere: è la luce che il condannato deve poter vedere in fondo al tunnel. Questa luce non può essere spenta per nessuno: per questo siamo contrari a tutte le preclusioni automatiche di accesso ai benefici. Per questo pensiamo che l’aver riposto in un cassetto le parti principali della riforma dell’ordinamento penitenziario tesa a umanizzare il carcere - che la “Commissione Giostra” aveva elaborato nella scorsa legislatura - sia stato un errore. Ma gli errori si possono sempre rimediare. L’autogol di buttare la chiave di Enrico Franco Corriere del Trentino, 14 novembre 2019 Uno slogan, purtroppo, è assai più efficace di un ragionamento basato su dati statistici. “Buttiamo via la chiave”, riferito ai detenuti, ha un indubitabile appeal anche tra chi non è ossessionato dal tema della sicurezza. Di fronte a crimini particolarmente odiosi o a recidivi incalliti, è umano pensare che la soluzione migliore sia estromettere una volta per tutte dalla comunità il “criminale”. Cresciuti con la cultura del premio per le buone azioni e del castigo per le marachelle, siamo poi indotti a ritenere che la pena debba essere giustamente severa e che, dunque, la prigione non debba essere confortevole (come se potesse diventarlo un luogo in cui si è privati della libertà non solo di uscire, ma anche di accendere o spegnere la luce). Eppure, se neghiamo quello che l’avvocato Andrea de Bertolini chiama il “diritto alla speranza”, allora a rimetterci è prima di tutto la società. Lo ricordava Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera di lunedì: su 55.000 misure di esecuzione di pena alternative al carcere nel 2017, solo lo 0,67% (372 casi) è stato revocato a causa della commissione di un reato. Parallelamente, sempre nel 2017, si è appurato che il 68% dei reclusi in cella torna a delinquere, mentre ricade nel “vizio” appena il 19% di chi sconta la condanna in altro modo. Trento ha investito in un nuovo penitenziario ma lo Stato ha tradito la promessa di evitare il sovraffollamento. Mentre quello di Bolzano come noto è in condizioni inaccettabili (anche per il personale di sorveglianza) e il cantiere di quello nuovo rimane un miraggio a causa delle difficoltà di chi ha vinto la gara per realizzarlo e gestirlo. Invochiamo più telecamere e più arresti, tuttavia i problemi delle due strutture non ci appassionano, quasi che fossero ininfluenti sul piano della nostra sicurezza. È vero il contrario. Lo ha dimostrato lunedì - in un convegno organizzato dall’Ordine regionale dei giornalisti, dall’Ordine degli avvocati e dall’Associazione di volontariato “Pesce di pace” - Abdelaaziz Aamri, cittadino marocchino che, dopo aver lavorato per una dozzina di anni in Spagna, è approdato in Italia per sfuggire alla crisi economica iberica. Qui non ha trovato la fortuna, bensì finte solidarietà che lo hanno coinvolto in un grave reato: non essendo un “vero” criminale, è stato subito catturato e condannato a otto anni di reclusione. Aziz non chiede comprensione, afferma di aver sbagliato e vuole espiare la colpa. Però avverte: “Una società senza perdono è una società senza convivenza”. Un messaggio potente: crediamo che l’odio sia rivolto contro gli altri, invece ce lo troviamo difronte quando guidiamo nel traffico cittadino, quando assistiamo a un evento sportivo, perfino al supermercato se qualcuno crede di essere stato “sorpassato” nella coda al banco dei formaggi. La rabbia, infatti, è un’erbaccia: se prende piede in un angolo del terreno, si espande senza limiti. Aziz non lascia spazio alla negatività. La sua redenzione passa attraverso la collaborazione con Nadia De Lazzari di “Pesce di pace”: impara l’italiano, ottiene con orgoglio la licenza di terza media e scrive un libretto autofinanziato dal titolo significativo: “Mai più qui - La forza di ricominciare”. Dopo la prefazione del giornalista Alberto Folgheraiter, ci sono tra le altre quelle dell’arcivescovo di Trento, Lauro Tisi, dell’imam Yahya Pallavicini e del rabbino Yosef Labi. Nadia De Lazzari nota che, con la crescita della radicalizzazione islamica nei penitenziari, la via del dialogo imboccata da Aziz è invisa. Lui lo sa ma va avanti e agli studenti che lo ascoltano, a sorpresa, chiede di essere solidali con Liliana Segre, l’ex bambina deportata oggi senatrice a vita, costretta a essere scortata dopo le centinaia di minacce ricevute a causa del suo impegno di testimonianza. Perché se c’è chi impugna la religione come un’arma, questo musulmano vede negli ebrei e nei cattolici solo fratelli di fede diversa. Un esempio illuminante. Carcere e riforme, non dimentichiamo il mandato costituzionale di Paolo Ciani* huffingtonpost.it, 14 novembre 2019 In questi giorni il Parlamento sta esaminando senza troppo clamore un testo legislativo che merita una certa attenzione, mentre molti occhi sono puntati sulla riforma della giustizia del ministro Bonafede. Si tratta dello schema di Decreto Legislativo correttivo del Riordino delle carriere delle Forze di Polizia, approvato dal Consiglio dei ministri e in queste settimane all’esame delle Commissioni parlamentari. In particolare si sta esaminando anche un riordino dei ruoli della Polizia Penitenziaria che, se approvato, rischierebbe di cambiare l’organizzazione che ha tenuto in equilibrio per trent’anni la gestione degli istituti penitenziari e dell’esecuzione della pena in Italia. Il punto è che, per valorizzare il ruolo della Polizia penitenziaria all’interno del carcere, la norma propone di modificare l’attuale sistema gerarchico su cui si basa l’organizzazione degli istituti di pena e di dare maggiori poteri ai vertici della Polizia penitenziaria rispetto ai direttori. Sono questi ultimi oggi a coordinare e gestire le carceri in Italia: circa 300, si dividono tra istituti di pena e altri organi direttivi. Sono figure civili, che dipendono dal Ministero della Giustizia (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) e, in collaborazione con Polizia e magistratura, si occupano di eseguire quanto dispone il giudice nei confronti di chi ha commesso reati. Il legislatore ha affidato ai direttori la guida delle carceri con la legge n. 395 del 1990, nell’idea che la detenzione non fosse esclusivamente una questione di polizia, ma dovesse affrontare il complesso processo della rieducazione. Non è banale ricordare che in Italia, a differenza di altre parti del mondo, la pena è tesa al recupero della persona. Lo dice la nostra Costituzione all’articolo 27. In venti anni di impegno come volontario nelle carceri ho conosciuto bene questo mondo, di cui oggi mi occupo da consigliere della Regione Lazio. Ho visto da vicino non solo la difficile condizione in cui vivono i detenuti, ma anche quella in cui operano le oltre 30 mila unità del personale di Polizia penitenziaria. Conosco bene anche il lavoro dei direttori nelle carceri, in equilibrio tra necessità di sicurezza sociale e rispetto delle regole, per cui è importante un ruolo di terzietà tra l’area del trattamento e l’area di sicurezza. Ruolo che necessiterebbe anche di un ricambio generazionale, visto che dal 1997 non si fanno nuovi concorsi, oltre che di un riconoscimento della funzione speciale che svolge alla guida di organi complessi. Direi che serve maggior presenza “civile” nel carcere per dare piena attuazione alla Costituzione: il 70% di recidiva dei nostri detenuti dimostra come la funzione di “rieducazione” e reinserimento ancora sia largamente disattesa. Non credo che il metodo per affrontare un tema così complesso, che mette sul tavolo giuste rivendicazioni e note criticità di una parte come dell’altra possa essere quello di una contrapposizione ideologica. Di questo, il sistema carcere, tutta l’area dell’esecuzione penale esterna, e chi ci lavora, non ha sicuramente bisogno. Nel parlare di riforme bisogna partire innanzitutto dal percorso storico e legislativo che ha portato alle norme oggi in vigore. A partire dalle indicazioni del Consiglio d’Europa del 1973, quando si sancì che la responsabilità degli istituti penitenziari dovesse spettare alle autorità pubbliche, in un contesto di separazione dalla polizia e dall’esercito. Per passare dalla riforma Gozzini del 1986, che rivoluzionò l’idea stessa di carcere e del “buttare via le chiavi” (riemersa in maniera preoccupante in tempi recenti). Quanto al metodo con cui affrontare le riforme, voglio anche ricordare il lavoro degli Stati Generali sull’esecuzione della pena (2015/2016), che aprì una stagione innovativa di confronto tra i vari attori coinvolti nel mondo del carcere, dalle associazioni professionali ai volontari. Qualcuno notò che in quella iniziativa mancava la presenza e l’apporto della polizia penitenziaria. Da questo si potrebbe ripartire, da un tavolo comune fra personale civile e di polizia. C’è bisogno di costruire percorsi condivisi e partecipati perché il carcere non deve essere un sistema chiuso e isolato. Oggi la norma sembrerebbe frutto della sola concertazione di una parte. Certo, la polizia è rimasta senza riordino della carriera troppo a lungo. Però la soluzione non può essere la diminutio di un ruolo “civile” all’interno del carcere. Affrontiamo le legittime aspirazioni di ciascuno con un percorso condiviso insieme alle realtà professionali coinvolte. Senza paura di discussioni faticose, perché perdere di vista la Costituzione sarebbe un danno ancora peggiore. *Consigliere Regionale Lazio - Coordinatore Democrazia Solidale Demos-Vicepresidente della Commissione Sanità Affari Sociali, Welfare “Mi riscatto per...”, avviati al lavoro 4.500 detenuti nei primi diciotto mesi di Valentina Stella Il Dubbio, 14 novembre 2019 Il Ministro Bonafede presenta a Rebibbia il nuovo Ufficio centrale. “Grazie ministro. Per me, per noi detenuti questo progetto è gratificante. Ci fa accedere alla libertà, ci fa avvicinare a quelle persone che ci vedono solo come dei delinquenti ma che così capiscono che possiamo fare qualcosa per loro”. Con queste parole un detenuto del carcere di Rebibbia si è rivolto ieri al guardasigilli Alfonso Bonafede al termine di una conferenza stampa indetta per illustrare il nuovo Ufficio centrale per il lavoro dei detenuti, “Mi riscatto per... il futuro”. In un anno e mezzo si è registrata una implementazione dei progetti di lavoro di pubblica utilità: sono stati sottoscritti 70 protocolli che hanno portato all’avviamento al lavoro di 4.500 detenuti. Un’esperienza partita da Roma, dove i reclusi del carcere di Rebibbia sono stati impegnati nella manutenzione del verde cittadino e delle strade, e proseguita in altri capoluoghi. La tappa successiva è stata nel capoluogo lombardo, con il progetto “Mi riscatto per Milano”. Hanno poi aderito Palermo, Torino, Napoli e Genova. Da qui la necessità di monitorare tutte le iniziative a livello territoriale e garantire uniformità delle procedure. Il ministro Bonafede si è detto “molto orgoglioso” del progetto: la dimensione più nobile della giustizia è quella che va oltre i perimetri dell’aula di tribunale e del carcere, è quella che riguarda anche la fase esecutiva della pena. Parallelamente al principio di certezza della pena deve esserci quello del rispetto dell’articolo 27 della Costituzione. Quale migliore rieducazione se non il lavoro? Lavorare fa intraprendere un percorso di reinserimento sociale. Il capo del Dap Francesco Basentini ha spiegato cosa ha dato la spinta a questo progetto: “Ogni volta che visito le carceri i detenuti mi chiedono di poter lavorare. Noi abbiamo tradotto questo messaggio in questo progetto e questo grazie anche ai magistrati di sorveglianza. Il lavoro è una leva imprescindibile. Questo ufficio - ha concluso Basentini - è nato proprio per fare da interfaccia tra il mondo economico di fuori e i detenuti, da tramite tra domanda e offerta”. Su questo il ministro ha tenuto a precisare che “questi lavori sono a titolo gratuito, non rubano il lavoro a nessuno, ma restituiscono qualcosa alla società”. Abbiamo chiesto al ministro quale fosse la sua risposta a chi, come il Garante dei Detenuti, critichi il progetto perché il lavoro non è tale se non è retribuito: “Apprezzo la volontà di raggiungere obiettivi più ambiziosi - ci ha risposto - ma noi dobbiamo capire e farci carico delle esigenze che ci arrivano dall’intera comunità penitenziaria. Io non posso rimanere fermo se un detenuto mi dice che non vuole passare la sua giornata a guardare il soffitto”. Bonafede ha annunciato: “Grazie a un confronto aperto con la maggioranza vorremmo introdurre una nuova formula di pagamento che vada al di là del semplice rimborso e che permetta al detenuto di non avere più debiti con lo Stato”. Nel corso di quest’anno l’iniziativa “Mi riscatto per...” è stata oggetto di particolare interesse da parte dello United Nations Office on Drugs and Crime, che ha promosso la sottoscrizione di un memorandum d’intesa fra Nazioni Unite, Segreteria di governo della Città del Messico e ministero della Giustizia per l’implementazione nel sistema penitenziario messicano del progetto “ Lavori di pubblica utilità”, sulla base del modello italiano. Il lavoro per i detenuti, risorsa sociale e garanzia di sicurezza futura di Raul Leoni gnewsonline.it, 14 novembre 2019 “Passare il tempo a guardare il soffitto della tua cella ti rende cattivo, il lavoro ti fa sentire orgoglioso”: è la confessione fatta, con la voce spezzata dall’emozione, dal detenuto Giuseppe Camillo. Proprio lui, 52 anni, è un “veterano”, l’ultimo ancora in carcere tra i partecipanti al primo progetto legato ai servizi di pubblica utilità, realizzato dall’istituto romano di Rebibbia. E proprio a Rebibbia, capofila delle iniziative “Mi riscatto per...”, il ministro Alfonso Bonafede ha voluto rilanciare un progetto che ora assume una dimensione nazionale grazie alla istituzione dell’Ufficio centrale per il lavoro dei detenuti: “Non condivido la visione di una giustizia confinata in un perimetro - ha detto il Guardasigilli - che sia quello delle aule di tribunale o di una cella. Se questo è il comune sentire è ora di scardinarlo, presentando una giustizia senza confini, a spazio aperto”. Pur non rinnegando le sue posizioni sulla certezza della pena, il Guardasigilli rivendica la validità di un indirizzo che trova il suo fondamento nella Costituzione e in cui il ruolo della Polizia Penitenziaria diventa centrale: “Io sono considerato un ministro giustizialista, ma il modo migliore per garantire la sicurezza dei cittadini è quello di preparare i detenuti a un adeguato reinserimento nella società: facendo loro acquisire tesori di competenze e esperienze professionali attraverso la dignità del lavoro”. Con i “lavori di pubblica utilità” si è partiti nel 2018 in cinque città: l’iniziativa si è poi diffusa sul territorio grazie alla sottoscrizione di circa 70 protocolli che hanno coinvolto oltre 4.500 detenuti a rotazione. Ora il Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Francesco Basentini, ha costituito la nuova unità centrale per coordinare in modo strutturale i servizi già avviati e allargare il programma volto al reinserimento socio-lavorativo dei soggetti in espiazione di pena: “Il Dap, con l’indispensabile collaborazione della magistratura di sorveglianza, si è messo in gioco al di là dei protocolli - ha precisato Basentini - dalle singole convenzioni si è passati a un’architettura di sistema, perché siamo convinti che per i detenuti non ci possa essere una reale prospettiva di recupero senza il lavoro”. Un modello che viene ritenuto attraente anche all’estero, se è vero che il delegato messicano alle Nazioni Unite ha voluto mutuarlo in patria attuando un organico programma di cooperazione tra Italia e Messico nell’area del reinserimento sociale per le persone private della libertà. A confermare l’efficacia del progetto, le parole di un altro detenuto di Rebibbia, Maurizio Dell’Unto: “Tra otto mesi uscirò e da uomo libero mi ricorderò che il lavoro, il nostro lavoro è bellissimo e lo facciamo con impegno perché vogliamo rendere Roma più bella”. Braccialetti elettronici: da circa 20 anni previsti e dimenticati camerepenali.it, 14 novembre 2019 Il 30 novembre 2019, si terrà la quinta “Giornata dei braccialetti”. Una iniziativa nazionale della Camere Penale di Firenze che si svolgerà presso l’Istituto Penitenziario di Sollicciano unitamente ad iniziative locali a cura delle Camere Penali territoriali. Le richieste per iscriversi devono pervenire entro il 15 novembre al seguente indirizzo email: osservatoriocarcere@camerapenaledifirenze.it. Gli artt. 275 bis C.P.P. e 58 quinquies Ordinamento Penitenziario - che consentirebbero di diminuire il sovraffollamento - restano in molti casi inapplicati per mancanza dei dispositivi. L’art. 275 bis C.P.P, introdotto dal D.L. 24 novembre 2000, N. 341, convertito nella L. 19 gennaio 2001, N.4. è stato poi modificato dal D.L. 23 dicembre 2013, N. 146, convertito dalla L. 21 febbraio 2014, N.10, che ha previsto la sua applicazione in via principale. L’art. 58 quinquies dell’Ordinamento Penitenziario introdotto dal D.L. 23 dicembre 2013, N. 146, convertito nella L.21 febbraio 2014, N.10, ha disposto la possibilità anche per il Magistrato di Sorveglianza di prescrivere procedure di controllo con mezzi elettronici, nel disporre gli arresti domiciliari. Le procedure di controllo mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici dei detenuti agli arresti domiciliari sono, dunque, disciplinate da circa 20 anni e da 6 il Legislatore ne ha stabilito l’uso prevalente. Ma la richiesta di braccialetti elettronici per gli arresti domiciliari ha ormai superato, da tempo, la disponibilità dei dispositivi. Per tale ragione, pur potendo usufruire della misura, alcuni detenuti restano in carcere. Tale circostanza, se da un lato dimostra come i magistrati stanno ricorrendo più frequentemente a questa misura di custodia cautelare, dall’altro crea enormi disparità di trattamento, laddove in molte aree del Paese i dispositivi non bastano. I braccialetti sono insufficienti nonostante sia stato effettuato ed aggiudicato il bando per la nuova fornitura, che secondo quanto annunciato aveva ad oggetto 12.000 dispositivi. Il servizio doveva partire nell’ottobre 2018, ma ciò non è accaduto a causa del ritardo da parte del Ministero dell’Interno della nomina della commissione di collaudo. La Camera Penale di Firenze, anche quest’anno, per riaccendere i riflettori su questa ennesima omissione in materia di esecuzione, ha organizzato la “Giornata dei braccialetti”, giunta alla V edizione. La manifestazione fiorentina si terrà, per la prima volta, presso l’Istituto Penitenziario di Sollicciano, dalle 9.30 alle 14.00, per consentire la partecipazione al dibattito anche dei detenuti. Come per le precedenti edizioni, vi saranno analoghe iniziative e conferenze stampa, in pari data, organizzate dalle altre Camere Penali al fine di denunciare su tutto il territorio la mancata applicazione dell’art. 275 bis c.p.p. e dell’art. 58 quinquies. Ergastolo: senza speranza l’uomo perde la sua umanità di Carmelo Musumeci pressenza.com, 14 novembre 2019 “Perché si limitano a tenerci vivi? Non abbiamo neppure un filo di speranza a cui appoggiarci. A stare in carcere senza sapere quando finisce la tua pena, ci vuole tanto, troppo, coraggio. Non si può essere colpevoli, cattivi e puniti per sempre. Nessuna condanna dovrebbe essere priva di speranza e di perdono. L’ergastolano se vuole vivere più serenamente deve sperare di morire prima del tempo.” (Dal libro “Nato colpevole” di Carmelo Musumeci, pubblicato e distribuito da Amazon). Da tanti anni sono un attivista per l’abolizione della pena dell’ergastolo, e del carcere, come solo luogo per espiare la pena. “Antonio Cianci, l’ergastolano 60enne che tra il 1974 e il 1979 uccise un metronotte e 3 carabinieri, venerdì scorso, in permesso premio, ha tentato di ammazzare un anziano per rapinarlo, all’ospedale San Raffaele.” Quando accadono fatti di sangue come questo mi cadono le braccia e il cuore per terra perché immagino le reazioni di chi legge. Innanzitutto trasmetto tutta la mia solidarietà alla vittima dell’aggressione, ma subito dopo mi domando cosa ci stava a fare Cianci ancora in carcere, da 40 anni, per un reato commesso quando aveva 20 anni. E perché allora dicono che in Italia l’ergastolo non lo sconta nessuno? Bisognerebbe riflettere anche sul fatto che con lui, e con la maggioranza di chi ci finisce dentro, il carcere non funziona e che il 70% dei detenuti che escono ritornano dentro. La verità è semplice: il carcere, così com’è, non è la medicina ma, anzi, è la malattia. Non voglio, nel modo più assoluto, cercare o trovare delle attenuanti ad Antonio Cianci, ma so che in ognuno di noi c’è il bene e il male e purtroppo, nella stragrande maggioranza dei casi, un carcere cattivo e fuorilegge e una pena che non finisce mai tirano fuori il peggio delle persone. Ho conosciuto Antonio Cianci negli anni 80 e nel gergo carcerario fra noi detenuti si diceva che “quello con la testa non ci stava”, ma si comportava bene perché aveva imparato la lezione, che al “sistema” non interessa che tu diventi bravo, ma solo che fai il bravo, anche perché se diventi davvero “buono” crei problemi all’istituzione. Una persona buona, infatti, difficilmente riesce a sopportare le ingiustizie del carcere, fatte su di sé e soprattutto sugli altri compagni. Penso che prima del detenuto bisognerebbe educare il carcere all’umanità e alla legalità. Tutti sanno che il sistema carcerario è fuorilegge: istituti sovraffollati, fatiscenti e invivibili, condizioni igieniche sanitarie da terzo mondo, suicidi, morti sospette, ecc. Tutti sanno che il carcere è il posto più illegale di qualsiasi altro, ma nessuno fa nulla. Ormai solo i delinquenti, o ex delinquenti, credono e si appellano alla legge, probabilmente perché è difficile accettare di essere in carcere per non aver rispettato la legge e poi dentro vedere che lo Stato e gli uomini dello Stato fanno peggio. Quei pochi detenuti che hanno il coraggio di rivolgersi al Magistrato di Sorveglianza (e questo coraggio lo pagano caro, ne so qualcosa io) spesso vengono additati ed emarginati dalle stesse istituzioni. Allora che fare per portare il carcere alla legalità? Bisogna educare i nostri politici al rispetto della legge (ovviamente senza sbatterli in carcere perché non c’è posto). E dato che nelle 207 carceri italiane quasi nessuno rispetta le leggi internazionali, i trattati, le convenzioni europee, la nostra Costituzione, le leggi nazionali e il regolamento di esecuzione dell’Ordinamento Penitenziario, denunciamo il carcere. Tutti coloro che affermano di avere a cuore la legalità in carcere, compresi i detenuti, la polizia penitenziaria, i politici e quei parlamentari che una volta ogni mai visitano le carceri, denuncino pure alla Procura della Repubblica tutto quello che vedono e che accade nelle carceri in Italia. Insomma, non solo con le parole, ma denunciamo il carcere con i fatti! Denunciamo che il carcere è un po’ tutto fuorché un carcere, denunciamo che è un luogo crudele che gli uomini hanno creato e mal governano e che fa diventare i prigionieri più cattivi di quando sono entrati. L’idea del Dott. Caselli: vietare truffe di mafia di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 14 novembre 2019 Il grido di dolore lanciato dal Fatto Quotidiano contro la sentenza della Corte Costituzionale sull’ergastolo ostativo è ora condiviso dalla prestigiosa firma del dott. Gian Carlo Caselli. L’appello, come abbiamo già avuto modo di ricordare, invita il Legislatore ad adottare iniziative che di fatto sterilizzino quel comando del Giudice delle Leggi, per sua natura (costituzionale) inappellabile e tanto meno “governabile”, in un modo o nell’altro, dal Legislatore, come sorprendentemente e del tutto incomprensibilmente i firmatari sembrerebbero pretendere. A prescindere infatti dalle regole costituzionali ed istituzionali, che all’evidenza l’appello considera carta straccia, ancora non abbiamo capito cosa dovrebbe fare il Legislatore, compulsato dai totmila Indignados. Vediamo se ci aiuta il dott. Caselli. L’ex Procuratore capo di Palermo, rilanciando una inchiesta giornalistica (del Fatto Quotidiano, manco a dirlo) ci racconta come e qualmente i mafiosi da decenni -la faccio breve- ambiscano strategicamente ad un riconoscimento della dissociazione dalle cosche di appartenenza, al fine di ottenere benefici e dunque proseguire i loro traffici criminali. Colta l’allusione? Benefici uguale favore alla Mafia; sentenza della Corte Costituzionale uguale favore alla Mafia. Nulla di nuovo, lo spartito è sempre quello ed il disco è rotto. Ormai non si argomenta più, si allude. Non si sviluppa un discorso, si ammicca. Intervenga il Legislatore! Per fare cosa? Boh. E cosa c’entra il tema della dissociazione con la decisione della Corte Costituzionale? Vattelapesca. Il dott. Caselli comprende di dover dare una spiegazione plausibile a quella troppo generica allusione, ma il risultato è francamente disarmante. “Ora, anche alla luce di tali significativi precedenti (cioè i vari tentativi dei mafiosi di vedersi riconoscere le dissociazioni farlocche, n.d.r.) è facile prevedere che la sentenza della Consulta sull’ergastolo ostativo potrà obiettivamente prestarsi ad iniziative pensate con riferimento ad “aperture” ricollegabili alla dissociazione”. Proprio lineare non direi, ma ci provo. Una sentenza della Corte Costituzionale, che non si occupa di dissociazione dalla criminalità organizzata, e che soprattutto non è stata ancora scritta nelle sue motivazioni, potrebbe dare la stura ad iniziative (di chi? Quando? Dove? Perché?) volte a realizzare il sogno fino ad oggi abortito dei mafiosi: la dissociazione, comoda gherminella per evitare la collaborazione e passare all’incasso del beneficio. E il nesso con la sentenza quale sarebbe? Sentite qua: “infatti, per l’estensione della possibilità di futuri benefici ai mafiosi ergastolani irriducibili, in quanto non pentiti cioè non collaboranti, si richiede (da parte della sentenza, n.d.r.) l’acquisizione di “elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione alla associazione criminale, sia più in generale il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata”. Esattamente. E allora? Ma è tutto chiaro, per il dott. Caselli: “Di sicuro qualcuno vorrà sostenere che la semplice dissociazione integra detta acquisizione”. Ecco un esempio fulgido delle poderose ragioni che legittimano l’entusiastica adesione all’Appello degli Indignados. Non conosciamo ancora le motivazioni della sentenza della Corte Costituzionale, siamo già certi, dal principio anticipato dallo Corte, che il tema della dissociazione non c’entri nulla, ma “di sicuro qualcuno vorrà sostenere” che ora tocca dare credito alle dissociazioni farlocche. E questo - ci assicura il dott. Caselli - è “un ottimo motivo per aderire all’appello… affinché il Parlamento approvi, per decreto legge, una norma che impedisca ai mafiosi di truffare lo Stato”. Finalmente abbiamo capito cosa dovrà fare il Legislatore: un decreto legge, articolo unico “È fatto divieto ai mafiosi di truffare lo Stato ottenendo permessi ed altri benefici senza meritarli”. Caspita, non ci avevo pensato. Sono folgorato dalla profondità di questa proposta, a volte le grandi riforme stanno lì dietro l’angolo, e nessuno le sa cogliere. Approviamola subito, e la questione è risolta. Per fortuna, ci pensano gli Indignados, che vegliano su di noi e rimediano - con norme semplici ma straordinariamente efficaci - agli strafalcioni della Corte Costituzionale, ed alla fanciullesca sprovvedutezza dei Tribunali di Sorveglianza e delle informative delle Distrettuali Antimafia. Quasi quasi firmo anche io. Durata dei processi fino a tre anni. Ecco la bozza di riforma della giustizia di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 14 novembre 2019 Maggiore impulso ai riti alternativi: ora aggiunto anche il patteggiamento. Durata dei processi a misura di complessità. Sino a un minimo di 3 anni per quelli di competenza del giudice unico penale. Lo stabilisce l’ultima bozza del disegno di legge sulla riforma della giustizia, quella inviata ai partiti di Governo e quella sulla quale il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede chiama la maggioranza al confronto in un vertice che potrebbe svolgersi già oggi. Il testo era già stato approvato a fine luglio dall’allora maggioranza gialloverde, come di frequente per le partite più delicate con la formula “salvo intese”, formula che in realtà nascondeva un forte dissenso sull’efficacia delle misure messe in campo per accelerare i processi, soprattutto quelli penali. Perché, all’orizzonte, età come allora, c’è la ormai prossima entrata in vigore, da gennaio, della nuova modalità di calcolo della prescrizione, che ne congela il decorso una volta chiuso il giudizio di primo grado. Il testo intanto è stato sottoposto a cambiamenti che vanno ben oltre una risistemazione da parte dell’ufficio legislativo del ministero della Giustizia. A partire da una più articolata predeterminazione della durata dei processi, sia penali sia civili. Ora, infatti si prevede una durata non superiore a 6 anni (3 per il primo grado, 2 per l’appello, i per la cassazione, come stabilito dalla legge Pinto) per i procedimenti penali a più elevato tasso di complessità, per esempio quelli in materia di criminalità organizzata e terrorismo, ma anche i più gravi delitti contro la pubblica amministrazione (corruzione, concussione, indebita induzione) e l’economia (falso in bilancio, bancarotta). La durata, sempre nel penale scende a 4 anni complessivi per i fascicoli di competenza del giudice unico, con l’ulteriore precisazione che, dal 2022, la durata complessiva scenderà ancora sino a 3 anni, i anno per grado di giudizio. A 5 anni è previstala durata per i residui giudizi attribuiti al tribunale in composizione collegiale. Quanto al civile, la durata base dovrà essere di 6 anni, ma 4 per le cause in materia di lavoro e previdenza, di separazione personale dei coniugi, di cessazione degli effetti civili del matrimonio. A presidiare l’effettività dei termini e il fatto che il giudice dovrà adottare le misure organizzative per rispettarli c’è la leva dell’illecito disciplinare, che scatterà quando, per negligenza, l’autorità giudiziaria si sia resa responsabile dello sforamento dei limiti in almeno un quinto dei fascicoli, civili o penali, di cui è titolare. Ma nel testo trova posto anche un maggiore impulso ai riti alternativi, dove a quanto già era stato previsto per dare più appeal all’abbreviato, tagliando i casi in cui la concessione è subordinata all’integrazione probatoria, ora viene aggiunto anche il patteggiamento. In buona sostanza, la nuova versione del disegno di legge prevede che aumenti sino a 8 anni di reclusione, solo o abbinata a pena pecuniaria, il limite di pena applicabile su richiesta delle parti. Contestualmente si introduce però l’esclusione da questo allargamento dei reati di omicidio e istigazione al suicidio. Ma modifiche sono state previste anche per i casi di inappellabilità, mentre la scansione della durata delle indagini preliminari è quella già prefigurata in estate con il presidio della discovery anticipata per le inerzie del pm. Dal Pd già un pacchetto di richieste di intervento ulteriore è stata messa a punto e oggi potrebbe essere presentata nel vertice con Bonafede. L’obiettivo è di trovare al più presto una sintesi, visto che il tentativo di disinnescare la bomba prescrizione, malgrado le rassicurazioni di Bonafede sul fatto che l’intervento comincerà a produrre effetti solo tra qualche anno, perde di credibilità man mano che il tempo passa. Tanto più che in commissione Giustizia alla Camera, nei prossimi giorni, sarà in discussione, in quota opposizione, un disegno di legge di un solo articolo per bloccare la riforma che per i 5 Stelle in generale e per Bonafede in particolare è invece ormai un punto identitario. Un provvedimento sul quale potrebbero alla fine convergere anche i non pochi scontenti della maggioranza, se una soluzione non verrà trovata nei prossimi giorni. Giustizia, il Pd minaccia di boicottare la riforma Bonafede di Liana Milella La Repubblica, 14 novembre 2019 Alta tensione sulla prescrizione: “O cambia o siamo pronti ad approvare la proposta di Forza Italia”. “Il Pd si ricordi degli scontri con Berlusconi sulla prescrizione” dice il Guardasigilli Alfonso Bonafede. “O lui congela la norma sulla prescrizione o votiamo la proposta di Enrico Costa per fermarla” ribatte il Pd. Sta in queste due frasi lo scontro durissimo tra Bonafede e il Pd sulla riforma della prescrizione e del processo penale. La lite covava da settimane, si è acuita domenica con l’intervista di Bonafede a Repubblica in cui chiedeva al Pd “di non comportarsi come la Lega”, che ha fatto la crisi di governo anche sulla prescrizione. La rissa è esplosa ieri, dopo un lungo summit del Pd alla Camera con l’attuale vice segretario del Pd ed ex ministro della Giustizia Andrea Orlando e lo staff che si occupa di giustizia, Pinotti, Giorgis, Miceli, Vazio, Bordo, Rossomando, Bazoli. Oggi con il premier Conte si cercherà un compromesso che appare difficile perché sulla prescrizione si scontrano due filosofie giuridiche contrapposte. Bonafede, nella Legge Spazza-corrotti, ha inserito pure il blocco della prescrizione dopo il processo di primo grado. Ma la Lega ha preteso che la norma slittasse a gennaio 2020. Col governo Pd-M5S sono cominciati i mugugni dei Dem perché la legge cancella la precedente proprio di Orlando, prescrizione solo sospesa per 36 mesi tra appello e Cassazione. Ma Bonafede vuole a tutti i costi la “sua” prescrizione, un cavallo di battaglia per M5S. In cambio propone processi più corti. Il Pd non ci sta. Una settimana fa gli manda la controproposta, rinvio dell’entrata in vigore della prescrizione. Poi la cosiddetta “prescrizione processuale”, ogni grado di giudizio non può durare più di un tot di tempo, 4 anni per il primo grado, e via a scendere. Ieri l’accusa a Bonafede di aver parlato su Repubblica, anziché rispondere nel merito, paragonando il Pd alla Lega. Infine l’altolà, o Bonafede accetta le tesi Dem o il Pd vota la proposta del forzista Costa. L’ex ministro della Famiglia ha lanciato pure la provocazione dell’orologio dei 49 giorni che mancano all’entrata in vigore della legge minacciando interrogazioni a Bonafede ogni giorno. Oggi la partita si preannuncia difficile anche per Conte. “La prescrizione cambi”. Il Pd dà l’ultimatum al M5S di Errico Novi Il Dubbio, 14 novembre 2019 Il Guardasigilli annuncia il summit sulla riforma penale, subito dopo il Nazareno detta le condizioni: “limiti di tempo per ciascuna fase processuale, oppure voteremo la legge costa che abolisce lo stop alla prescrizione”. È la bomba nucleare. L’incendio che può far saltare la maggioranza, assai più di quanto non si rischi con l’Ilva o legge di Bilancio: “La prescrizione cambi o voteremo la legge Costa che abolisce la norma Bonafede”, fa sapere il Pd. È una dichiarazione di guerra. Che verrà messa sul tavolo alle 12.30 di oggi, in un vertice a cui ora è sospeso il futuro dello stesso esecutivo e che sarà quasi certamente presieduta da Giuseppe Conte. Il guardasigilli Alfonso Bonafede potrebbe trovarsi di fronte il suo predecessore, Andrea Orlando, vicesegretario dem. Le fiamme si sprigionano nel pomeriggio. È lo stesso ministro della Giustizia che parla dai microfoni di “Porta a porta”. Registra il suo intervento, messo in onda in serata ma anticipato dalle agenzie. “Domani (oggi per chi legge, ndr) ci vedremo con il centrosinistra, discuteremo della riforma della giustizia, ma io”, avverte Bonafede, “ho dato molto tempo, un mese, per valutare la proposta di riforma del processo. Ora basta, non possiamo più dire ai cittadini che devono attendere ancora”. La riunione della war room democratica sulla giustizia è praticamente istantanea. Filtrano subito “sconcerto” e “irritazione”. Non solo per le parole pronunciate pochi minuti prima dal ministro, ma anche per quelle, altrettanto definitive, affidate domenica scorsa da Bonafede a un’intervista su Repubblica. Ci sono il vicecapogruppo del Pd a Montecitorio Michele Bordo e la responsabile Giustizia ad interim Roberta Pinotti, i capigruppo nelle commissioni Giustizia di Camera e Senato e, soprattutto, il numero due del Nazareno, Andrea Orlando. Presenza decisiva, per il peso politico ma anche per la competenza specifica: Orlando è il predecessore di Bonafede a via Arenula ed è l’autore di una riforma della prescrizione che non ha ancora neppure sprigionato i suoi primi effetti. Era stata ritenuta insostenibile dall’Unione Camere penali per la sospensione di un anno e mezzo al decorso dei termini di estinzione dei reati sia dopo l’eventuale condanna di primo grado sia dopo analoga pronuncia in appello. Orlando sa bene che nei suoi confronti si orienterà la critica di Italia Viva, pronta a contestargli di non difendere abbastanza energicamente la sua riforma della prescrizione. Orlando si è tenuto lontano, nell’ultimo mese, dal dibattito sulla giustizia. Ma ora dalla riunione del Pd filtra una linea che sa di ultimatum al Movimento 5 Stelle: “Bonafede a noi non ha dato risposte. Gli abbiamo inviato delle richieste di modifica sia sulla riforma del processo penale sia sulla norma che elimina la prescrizione dopo il primo grado. Abbiamo chiesto dei correttivi, e l’unico davvero efficace sarebbe introdurre la prescrizione del processo, ossia un limite massimo previsto per ciascuna fase oltre il quale si estingue lo stesso procedimento penale. Non si dovrebbe andare oltre i 3 anni per il primo grado di giudizio, i due anni per l’appello e un anno per la Cassazione”. Poi la parte decisiva e più pesante del discorso: secondo quanto filtra dalla riunione, qualora il Movimento 5 Stelle non accettasse di introdurre meccanismi in grado di impedire che si diventi “imputati a vita”, il Pd voterebbe a Montecitorio la legge Costa, che ha un solo articolo in cui si stabilisce l’eliminazione della norma Bonafede sulla prescrizione e l’automatico ritorno in vita delle norme con cui Orlando aveva già riformato l’istituto. Una situazione al limite del sostenibile. A cui Bonafede sembra pronto a rispondere con l’accusa, rivolta all’alleato, di sposare una linea “berlusconiana” sulla giustizia. Prima ancora che gli arrivi l’eco dell’ultimatum confezionato dal Pd e da Orlando, il guardasigilli già spiega a “Porta a porta” cosa risponderà, anche davanti agli elettori se necessario, alle condizioni poste dai dem: “Col centrosinistra ci confronteremo, sono aperto alla discussione, ma ricordo che per decenni lo scontro del centrosinistra con Berlusconi è stato proprio sulla prescrizione. Io ho portato avanti le mie idee”. E ancora: “Chi mi critica dovrebbe interrogarsi, porsi il seguente quesito: ma sbaglio o per 20 anni la contrapposizione tra centrosinistra e centrodestra è stata proprio sulla prescrizione?”. È un messaggio politico chiaro, che ha già il tono della campagna elettorale. Oggi alle 12.30 il premier Conte tenterà una mediazione. L’ultima. Fisco, Bonafede alle crociate: “sulle manette non arretro” di Piero Sansonetti Il Riformista, 14 novembre 2019 Il ministro della Giustizia non ascolta le critiche (anche dei suoi) e tira dritto. Sulla riforma è scontro coni democratici: “Non ci ha ancora risposto sulle nostre proposte”. Sulle manette a chi evade il fisco non si torna indietro. In merito all’emendamento al decreto fiscale presentato dai renziani di Italia Viva, che prevede la cancellazione dell’articolo sul carcere per i grandi evasori, il ministro della Giustizia Bonafede tira dritto: “Se qualcuno ha cambiato idea sono solo problemi suoi, non miei, e aggiungo che gli italiani sarebbero anche stanchi di sentire ogni giorno che qualcuno viene fuori con una idea nuova solo per far parlare di sé. Abbiamo preso un impegno con quel programma di governo e quello porteremo avanti, dopodiché tutto è migliorabile, ma non si possono fare passi indietro né giungere a soluzioni di compromesso”. Ma il dl fiscale non è solo punto di frizione tra il Guardasigilli e la maggioranza. Con il Partito democratico si apre infatti il fronte sulla riforma della giustizia alla vigilia di una riunione annunciata per oggi a Palazzo Chigi per fare il punto della situazione. “La riforma è pronta da un mese”, è sbottato ieri a margine della conferenza stampa nel carcere di Rebibbia per presentare l’ufficio del Dap per il lavoro dei detenuti. “È giusto che le forze politiche di maggioranza si siano prese del tempo per analizzarla con attenzione, ma direi che adesso questo tempo è esaurito. Io rispetto le posizioni di tutti, partiamo da una opinione differente sulla prescrizione, però siamo tutti d’accordo sul fatto che bisogna velocizzare i processi. Allora dico: facciamolo”. Parole che hanno suscitato “irritazione” e “stupore” tra gli esperti di giustizia dei dem riuniti proprio in vista del vertice di maggioranza di oggi. Tra i presenti anche del vice segretario ed ex Guardasigilli Andrea Orlando. Bonafede si lamenta della lentezza con cui procede il lavoro sulla riforma, nel Pd fanno però notare che il ministro non ha risposto alle proposte inviate la scorsa settimana dai democratici a Via Arenula sui testi e in particolare sui correttivi legati alla prescrizione. Correttivi che per il Pd devono essere inseriti obbligatoriamente “Altrimenti - spiega una fonte parlamentare dem - siamo pronti a votare la Pdl Costa che impone lo stop alla riforma della Prescrizione”. La proposta di legge che porta la prima firma del deputato di Forza Italia Enrico Costa dovrebbe andare in Aula a dicembre. Tra le proposte avanzate dal Pd, la Prescrizione processuale, ovvero si lega la riforma alla durata dei processi. O c’è un tempo certo (dipende dai reati, ma dovrebbe essere tre anni per il primo grado, due per il secondo e -uno per la Cassazione) altrimenti - questa la linea secondo quanto viene riferito - si estingue il processo. Manette agli evasori, blocco della prescrizione: sbagliato dare spazio all’incultura del sospetto di Giuseppe Gargani Il Dubbio, 14 novembre 2019 Nei prossimi giorni i problemi della giustizia saranno di nuovo attuali perché verranno in evidenza sia l’istituto della “prescrizione” che entrerà in vigore il 1 gennaio del nuovo anno, sia la nuova regolamentazione delle intercettazioni così come proposta nella passata legislatura dal ministro della giustizia Orlando. Sono temi che si intersecano con la decisione della Corte Costituzionale sull’ergastolo ostativo, con l’inasprimento delle pene per i reati di evasione fiscale: sono principi che hanno una rilevanza fondamentale per mettere alla prova la cultura istituzionale del governo nella sua interezza, e mettono in luce il grado di maturazione democratica della classe dirigente che attualmente ci governa. È in atto la polemica sull’ergastolo ostativo e sulla sentenza della Corte Costituzionale, in linea con la Corte Europea, che ha cancellato il divieto di concedere i permessi premio ai condannati per mafia e ha stabilito che non si può fare una discriminazione tra chi collabora con la giustizia e chi si rifiuta. La decisione della Corte Costituzionale afferma un principio di grande civiltà giuridica che qualifica l’Italia come punta avanzata, coerente con la grande tradizione giuridica da Beccaria in poi. Prevale invece, nella polemica, la critica o addirittura la condanna per una decisione che, è stato detto, non può essere applicata in Italia dove lo Stato non è autorevole o non ha il controllo del proprio territorio. Si sono distinti i magistrati, giudici di sorveglianza e quella particolare stampa che esalta la carcerazione come l’unico rimedio per reprimere il male nel nostro paese! Questo giustizialismo acritico e purtroppo diffuso ha ispirato sotto tanti aspetti la politica del precedente governo soprattutto nella parte che si riferisce al movimento cinque stelle, ma sembra ispirare ancora il nuovo governo che ripropone le stesse cose. L’attuale ministro della giustizia ritiene che le manette agli evasori costituiscano una “svolta culturale”, affermazione che ove recepita in altri paesi e in Europa in particolare, squalificherebbe il nostro paese, perché la minaccia di “più galera” non è solo “bieco populismo” come è stato detto, ma è una forma deteriore di plebeismo penale. Il proporre l’aumento delle pene come soluzione dei problemi è sintomo di incultura giuridica perché non solo i giuristi ma anche le persone di buon senso sanno che l’aumento della pena non è assolutamente un deterrente: basta conoscere la storia giudiziaria. Lo ha dovuto riconoscere anche un pubblico ministero di grande livello come Colombo riflettendo da pensionato che mette a frutto l’esperienza passata. Ma tant’è, ci troviamo con una classe dirigente che su ogni questione difficile da gestire o da risolvere invoca una legge, proprio per evitare di risolvere il problema: è il segno del decadimento dei tempi contro il quale si dovrebbe opporre il Pd che è alla prova della sua sussistenza e della sua consistenza culturale e politica soprattutto per la questione della prescrizione, di cui abbiamo fatto cenno all’inizio. È stata approvata una legge che stabilisce la prescrizione “illimitata” dopo la sentenza di primo grado e se non la si modifica entrerà in vigore il prossimo anno. Può il Pd consentire tutto questo? Anche su questo problema il ministro Bonafede si è distinto per la sua acutezza!, sostenendo che la prescrizione senza limiti è “una riforma epocale”. Non credo ci siano parole per rappresentare la meraviglia e lo sgomento, per una simile dichiarazione. Questa deviazione dai principi cardini della Costituzione e dall’ ordinamento deriva dalla cultura o dalla incultura del sospetto (perché di questo si tratta) e prende origine dal iniziative giuridiche che vanno sotto il nome di Tangentopoli. Da quella stagione storica si è diffusa nell’opinione pubblica l’idea che i partiti sono sempre corrotti e che di conseguenza le istituzioni sono corrotte, e i politici sono corrotti; che basta cercare per trovare colpevoli dovunque. Questo messaggio fu seguito della Lega di Bossi, e dalla Lega di Salvini, dal Pci divenuto poi Pds, fino al Pd (che pure ha largamente sperimentato la furia giustizialista) e ancor più da cinque stelle che arriva a proporre di rendere il nostro ordinamento un sistema di processi infiniti, a vita, senza scampo. Insomma uno stato di polizia che, nella migliore tradizione autoritaria, spiega che chi non ha niente da temere non può temere la soppressione di questi diritti. Strana teoria, una aberrazione giuridica e morale che la società moderna e liberale sembrava averli superati per sempre. È stato spiegato che questa legge poteva entrare in vigore quando si fosse stabilita la durata del processo, come se la durata del processo potesse essere stabilita per legge!?, ma anche su questo non si è comunque fatto niente. Se si sconvolge l’ordinamento è difficile poi correggerlo. La Costituzione stabilisce che va assicurata una “ragionevole durata del processo” perché la potestà sanzionatoria dello Stato deve poter essere esercitata in un tempo ragionevole per l’armonia della società che nella sua essenza e nella sua vita organizzata deve poter vedere riparato lo strappo che il reato ha determinato, con una pena in grado di poter essere efficace. Quando il tempo del processo non è “ragionevole” lo Stato esercita una vendetta e non fa giustizia. Si tratta dunque di problemi fondamentali ed essenziali per la civiltà del diritto, e il Pd è chiamato a dimostrare la sua cultura istituzionale, il suo garantismo, altrimenti sarà responsabile di norme che intaccano il nostro ordinamento. A proposito di garantismo in una recente intervista a un pubblico ministro molto noto e giurista di rilievo, Armando Spataro ha detto giustamente che il garantismo non è una qualifica ma è la regola nel senso che investe l’uomo nel suo essere: fosse vero e fosse caratteristica di tutti i pubblici ministeri la giustizia soffrirebbe di meno. A tal proposito non posso non ricordare che l’ex pubblico ministero Di Matteo, ora componente del Csm, ha detto in una trasmissione televisiva che dopo la sentenza di condanna di Marcello dell’Utri appare chiaro che Berlusconi è “coinvolto” nelle stragi e nelle questioni di mafia. Argomentazione senza riscontri! Di Matteo come tutti i magistrati hanno sempre sostenuto che non si possono separare le carriere dei pubblici ministeri da quelle di giudici perché i p. m devono maturare la “cultura della giurisdizione”. Con le sue affermazioni Di Matteo dimostra in maniera eccelsa questa cultura. Doppio stop al decreto Salvini sui migranti: permessi umanitari nella Costituzione Corriere della Sera, 14 novembre 2019 La Cassazione: il decreto non è retroattivo. E il Tribunale di Milano disapplica la norma italiana e la sostituisce con la regola Ue. Ma il solo fatto che un migrante studi in Italia non basta per dargli la protezione: l’ex ministro esulta. Doppio stop giudiziario al primo decreto Salvini dal Tribunale di Milano e dalla Cassazione. Una prassi sbrigativa da mesi induce molte Questure a eseguire l’espulsione dei richiedenti asilo che dopo un primo rigetto si presentino a reiterare domanda di protezione internazionale, che una norma del decreto Salvini 2018 dispone nemmeno venga presa in considerazione per un esame neanche preliminare degli eventuali nuovi motivi di protezione addotti dal migrante. Ma il Tribunale civile di Milano disapplica appunto questa norma italiana, e al suo posto applica direttamente la contrastante (ma sovraordinata) regola della Direttiva comunitaria 2013/32, che (come chiarito già dalla Corte Ue nel caso del Belgio) pretende almeno “un esame preliminare” dei possibili “elementi nuovi”. Compito di cui dunque non può essere spossessata la competente Commissione Territoriale (il che ferma intanto le espulsioni). Sempre il decreto Salvini del 2018 riteneva di poter eliminare la “protezione umanitaria” per restringerne la (ritenuta) troppo discrezionale concessione. Ma ora la Cassazione civile, a Sezioni Unite, non soltanto fissa che “il diritto alla protezione sorge all’ingresso in Italia della persona in condizione di vulnerabilità”, sicché il decreto Salvini non può essere applicato in via retroattiva alle richieste d’asilo presentate prima del 5 ottobre 2018. Ma soprattutto rimarca che anche la protezione umanitaria “attua il diritto d’asilo costituzionale”, cioè “scaturisce direttamente dal precetto dell’art. 10 della Costituzione”: “il che vale anche per i nuovi istituti” del legislatore, che devono “rispettare Costituzione e vincoli internazionali”, potendo definire i criteri di accertamento e le modalità di esercizio di quel diritto. La Cassazione su un caso di Trieste ribadisce ad esempio che il solo fatto che un migrante studi in Italia non basta per dargli la protezione umanitaria: occorre “una valutazione comparativa con riferimento al Paese d’origine, in raffronto all’integrazione raggiunta nel Paese di accoglienza”. Ed è forse questo, tra le 25 pagine, a indurre l’ex ministro leghista Salvini a esultare lo stesso sui social: “Sui permessi umanitari aveva ragione la Lega. L’ha stabilito la Corte di Cassazione. È la migliore risposta agli ultrà che vorrebbero cancellare i decreti sicurezza”. Migranti, l’integrazione non basta per il permesso di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 14 novembre 2019 Corte di cassazione, Sezioni unite civili, sentenza 13 novembre 2019, n. 29459. Non ha applicazione retroattiva la stretta del decreto Salvini sui permessi per ragioni umanitarie. Non scatta cioè per le domande introdotte prima del 5 ottobre 2018. E tuttavia, se la richiesta deve essere esaminata secondo le vecchie regole, una volta che sia accolta conduce al rilascio del più rigido permesso di soggiorno per casi speciali introdotto dal decreto stesso, il 113/18. Inoltre, la protezione umanitaria, oggi cancellata, non può essere riconosciuta solo sulla base di una valorizzazione dell’integrazione in Italia per effetto del posto di lavoro ottenuto. Sono queste le conclusioni cui approdano le Sezioni unite civili con la sentenza n. 29459 depositata ieri che ha affrontato un caso non previsto dalla (scarna) disciplina transitoria del Dl e cioè quello per cui la commissione territoriale ha negato il permesso poi invece riconosciuto dal giudice prima del 5 ottobre dell’anno scorso. Le Sezioni unite ricostruiscono i tratti della vecchia disciplina, imperniata sul permesso di soggiorno per ragioni umanitarie della durata di 2 anni, rinnovabile e convertibile nel permesso per motivi di lavoro e in quello per motivi familiari, e della nuova che ha invece introdotto una forma di protezione speciale della durata di un anno, rinnovabile, ma non convertibile. La sentenza chiarisce che, malgrado il diritto di asilo nasca quando il richiedente fa ingresso in Italia in condizioni di vulnerabilità che mettono in pericolo l’esercizio di diritti fondamentali, è la presentazione della domanda che cristalizza la normativa da applicare. Con la domanda il titolare del diritto esprime il suo bisogno di tutela ed è quindi il momento della sua presentazione a individuare il complesso delle regole applicabili. Tuttavia, una volta riconosciuta l’esistenza dei vecchi requisiti, il permesso sarà quello nuovo e più breve e non convertibile. Non c’è contraddizione in questo ragionamento, sottolinea la sentenza, visto che “la permanente rilevanza della protezione umanitaria o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano discende dalla irretroattività della novella, che l’ha espunta dall’ordinamento; il concreto atteggiarsi del permesso che pur sempre risponde a quella protezione, è dettato dall’interpretazione conforme a Costituzione, che valorizza la volontà del legislatore”. Infine, le Sezioni unite puntualizzano che il permesso di soggiorno per ragioni umanitarie non può essere concesso con esclusivo riferimento all’integrazione in Italia (nel caso attraverso il posto di lavoro) e neppure sarebbe stato possibile sulla base di una generica considerazione del contesto dei diritti umani nel Paese di origine. Serve, invece, una valutazione comparativa della posizione soggettiva del richiedente con riferimento al proprio Paese a confronto con la situazione di integrazione raggiunta in Italia. “Sui permessi umanitari aveva ragione la Lega - ha affermato il leader del Carroccio Matteo Salvini commentando la sentenza. È la migliore risposta agli ultrà dei porti aperti e che vorrebbero cancellare i decreti sicurezza”. I paletti della Cassazione sulle richieste d’asilo: “L’integrazione non basta” di Simona Musco Il Dubbio, 14 novembre 2019 La decisione: il Decreto sicurezza di Salvini non può essere retroattivo. Il Decreto sicurezza, cavallo di battaglia dell’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini, non può essere applicato retroattivamente. Ma per il riconoscimento della protezione umanitaria, di fatto abolita dal leader della Lega, la sola “situazione di integrazione” per lavoro, studio o rapporti sociali - di un immigrato in Italia non basta. A deciderlo, ieri, sono state le Sezioni Unite civili della Cassazione, che rispondendo al quesito posto a maggio scorso dal collegio presieduto dal giudice Francesco Antonio Genovese hanno segnato le sorti di migliaia di ricorsi presentati da richiedenti asilo ormai da anni inseriti socialmente ed economicamente in Italia e che ambivano al rinnovo del permesso di soggiorno, diventato una chimera dopo l’avvento delle norme volute da Salvini. Che non ha perso tempo per intestarsi una vittoria: “Aveva ragione la Lega. È la migliore risposta agli ultrà dei porti aperti e che vorrebbero cancellare i decreti sicurezza”. Il quesito “risolto” dagli Ermellini partiva da una duplice interpretazione della norma, che aveva spaccato i giudici di Cassazione: se, infatti, a gennaio il collegio presieduto da Stefano Schirò aveva evidenziato l’irretroattività del decreto sicurezza, la stessa sezione, la prima civile, aveva cambiato orientamento con Genovese, che ha poi chiesto alle Sezioni Unite di stabilire i criteri di applicabilità delle norme. La risposta, dunque, è arrivata ieri: la legge non incide sulle domande pendenti prima del 5 ottobre 2015, alle quali, spiegano gli Ermellini, si applicano le previsioni dei “casi speciali” - con permesso di soggiorno annuale - contenute nello stesso decreto Salvini. Ma andando oltre, in tema di protezione umanitaria i giudici hanno annunciato un nuovo principio di diritto: “l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali - scrivono gli Ermellini - comporta che, ai fini del riconoscimento della protezione, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza”. Insomma, non basta che il migrante in Italia si sia integrato, tocca anche verificare se un suo eventuale rimpatrio metta a rischio la sua incolumità. Il diritto alla protezione dipende, dunque, dalle condizioni di vulnerabilità “per rischio di compromissione dei diritti umani fondamentali” e non può essere riconosciuto considerando in maniera isolata e astratta il “contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al paese di provenienza”. La decisione si basa su tre ordinanze prodotte su due sentenze provenienti dalla Corte d’Appello di Trieste e su una proveniente da Firenze, con le quali i giudici avevano, in buona sostanza, riconosciuto la protezione umanitaria a tre cittadini stranieri, due del Gambia e uno del Bangladesh. In un primo caso il riconoscimento era avvenuto in considerazione del “non perfetto stato di sicurezza” esistente in Gambia, interessato da una “incerta e difficile fase di transizione sociale da un modello governativo di stampo totalitario con uno dichiaratamente democratico”, nell’altro riconoscendo il radicamento del giovane che aveva presentato richiesta nel tessuto sociale italiano, “nel quale studia e coltiva i suoi principali legami mentre in Gambia non ha rapporti familiari di rilievo” e tenuto conto della “sicura prognosi di insormontabili difficoltà di immediata reintegrazione nel Paese di origine”. Per il terzo caso, invece, i giudici avevano considerato positivamente l’inserimento nel contesto sociale e del raggiungimento dell’indipendenza economica, essendo stato assunto dal datore di lavoro a tempo pieno. Sentenze contro le quali il ministero dell’Interno aveva proposto ricorso per Cassazione. Il collegio di Genovese aveva contestato l’interpretazione data a gennaio dai colleghi, confermata ieri dalle Sezioni Unite, secondo la quale le domande precedenti il 5 ottobre vanno valutate sulla base della normativa esistente al momento della loro presentazione. Con una sola differenza: il rilascio, da parte del Questore, di un permesso di soggiorno contrassegnato con la dicitura “casi speciali”, adattando così le certificazioni alle indicazioni della nuova norma, che, in pratica, elimina i permessi umanitari salvo alcune eccezioni. Una contraddizione, per il giudice Genovese, secondo cui, inoltre, l’idea che la protezione umanitaria sia “oggetto di un diritto immanente e inviolabile della persona” è suscettibile “di regolazione da parte del legislatore, cui spetta il bilanciamento tra i valori in gioco, posto che altrimenti si consentirebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti in campo, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette”. Per tutti e tre i casi, ora, la Cassazione ha disposto un nuovo processo d’appello, che tenga conto dei principi enunciati ieri, assegnando “rilievo centrale alla valutazione comparativa tra il grado di integrazione effettiva nel nostro Paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel paese di origine, al fine di verificare se rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale”. Trento. Sommossa nel carcere: chiesto il giudizio per 81 detenuti di Dafne Roat Corriere del Trentino, 14 novembre 2019 Udienza ad aprile. Archiviate quattro posizioni. Contestati i reati di incendio e danneggiamento. Per alcuni le accuse sono cadute in fase di indagini preliminari. Non avrebbero avuto alcun ruolo nella violenta rivolta in carcere a Spini di Gardolo del 22 dicembre scorso. La Procura ha stralciato la posizione di quattro detenuti e ha chiesto l’archiviazione, poi accolta dal gip. Ma tutti gli altri detenuti che quel giorno erano all’interno delle sezioni messe a ferro e fuoco e accusati, chi di aver partecipato alla sommossa e chi di averla guidata, dovranno affrontare il giudizio davanti al giudice. L’udienza preliminare è fissata ad aprile. Il procuratore Sandro Raimondi e il sostituto Antonella Nazzaro hanno firmato una richiesta di rinvio a giudizio per 81 persone, la maggior parte di origini tunisine, ma ci sono anche marocchini, albanesi e italiani. Una ventina di loro sono ancora detenuti nel carcere di Spini di Gardolo, ma per altre vicende giudiziarie. L’impianto resta sostanzialmente lo stesso ipotizzato in fase di indagini. Nell’atto d’accusa vengono contestati i reati di danneggiamento, incendio, violenza e minaccia a pubblico ufficiale e lesioni, mentre è caduto quasi subito durante le prime fasi delle indagini il reato di sequestro di persona, ipotizzato in un primo momento per il blitz nella lavanderia. In realtà pare che i detenuti volessero rinchiudersi per evitare il momento più critico della sommossa. Negli atti dell’indagine, condotta dalla polizia penitenziaria, si ricostruiscono i momenti salienti della rivolta scoppiata dopo la notizia, lanciata da un detenuto, impiegato nell’ufficio interno conti correnti, della morte di Sabri El Adibi, il trentaduenne di origini tunisine che si era tolto la vita. Un gesto estremo avvenuto a pochi mesi dalla libertà che aveva scatenato la reazione dei compagni. Sono dieci, di cui la maggior parte tunisini e marocchini, i presunti promotori della sommossa individuati dalla Procura. Sarebbero stati loro a guidare la rivolta iniziata verso le 8.30 del mattino nella sezione G. Tutto era cominciato con una semplice battitura dei cancelli, un atto di protesta tipico nei carceri. Ma mentre l’eco del ferro battuto diventava sempre più assordante dopo che un manipolo di cinque detenuti avevano incitato la rivolta. Erano le 9.10 del mattino, solo l’inizio. Poi era stata data alle fiamme una saletta ricreativa della sezione F. Il fuoco e il fumo avevano invaso la sezione quando altri due detenuti con un asticella di metallo avevano distrutto una telecamere. Poi era stata la volta delle plafoniere e delle luci. In poche ore la rivolta aveva coinvolto anche le sezioni F al primo piano, poi al secondo la G e la H. Piatti e bombolette lanciate, le minacce. In poco tempo la guerriglia aveva assunto importanti proporzioni, sedata solo dopo una lunga giornata di trattative. Milano. L’incubo di Ismail, picchiato prima a Velletri poi a San Vittore di Valentina Stella Il Dubbio, 14 novembre 2019 Rinviate a giudizio 11 persone per le violenze subite dal tunisino nell’istituto milanese. Undici persone, tra ispettori e agenti di polizia penitenziaria del carcere milanese di San Vittore, sono stati rinviati a giudizio dal gup di Milano Alessandra Cecchelli per presunte intimidazioni e pestaggi, tra il 2016 e il 2017, ai danni di un tunisino di 50 anni, Ismail Ltaief, detenuto per tentato omicidio. Il processo avrà inizio per tutti il prossimo 12 febbraio davanti alla quinta sezione penale. Le accuse verso gli agenti (non più in servizio nel carcere del capoluogo lombardo, ma in altri istituti) sono, a vario titolo, intralcio alla giustizia, lesioni, falso e sequestro di persona. Reato quest’ultimo contestato solo ad alcuni imputati, in quanto in uno dei due pestaggi, datati 27 marzo e 12 aprile 2017, come si legge nel capo di imputazione, il 50enne, privato ‘ della libertà’ sarebbe stato ammanettato e trasferito in una stanza in uso ad uno degli agenti sotto inchiesta per poi essere picchiato. Oltre a Ltaief, parte offesa nel procedimento è anche un suo compagno di cella, un sudamericano di 30 anni, il quale chiamato a rendere testimonianza ai magistrati milanesi sarebbe stato intimidito da uno degli imputati che per questo venne anche arrestato. Le aggressioni contro il recluso sarebbero state inflitte con l’obiettivo di “punire” l’uomo che nel 2011, quando era in cella a Velletri (Roma), aveva denunciato altri agenti per furti in mensa e percosse. Ismail Ltaief all’epoca dei fatti lavorava nelle cucine del carcere laziale. Quando si accorse che alcuni agenti di polizia penitenziaria sottraevano regolarmente cibo destinato ai detenuti per portarlo fuori dal carcere, li ha denunciati. Da quel momento per lui iniziò un incubo, fino al brutale pestaggio. E violenza chiama violenza perché i pestaggi che avrebbe subito a San Vittore sarebbero avvenuti anche lo scopo di impedirgli di testimoniare in aula in quell’altro processo. Invece Ismail, seguito a Roma dall’avvocato Alessandro Gerardi, in aula a testimoniare ci era andato e due agenti di polizia penitenziaria sono stati condannati in primo grado a tre anni di reclusione per averlo pestato a sangue. Ora si è in attesa dell’appello. Il caso era stato sollevato dal Partito Radicale in una conferenza stampa tenuta alla Camera da Marco Pannella e Rita Bernardini. Adesso come ci spiega il legale che segue Ismail a Milano, l’avvocato Matilde Sansalone “si apre un processo complicato ma abbiamo già superato delle fasi difficili: primo passo è stato quello di superare la soglia del farsi credere e di far fare le indagini, il secondo di andare a giudizio. Non è facile essere creduti perché c’è sempre il sospetto che si adottino certi comportamenti per avere dei benefici. Ma nel nostro caso addirittura il pubblico ministero ha mandato un medico esterno al carcere. Ha refertato che Ismail presentava delle lesioni compatibili con il suo racconto soprattutto quando Ismail gli aveva detto di essere stato picchiato con un tirapugni. E da lì le indagini sono state più pressanti. E poi ci sono state anche le dichiarazioni di due testimoni oculari e di una volontaria di San Vittore. Il pm si è convinto della veridicità della sua denuncia. L’aspetto interessante è che Ismail ha scritto le lettere di denuncia dei pestaggi al giudice che aveva in mano il fascicolo in cui era imputato per tentato omicidio. E lo stesso pm che lo stava accusando ha preso in mano le redini del procedimento in cui ora è parte civile Questa è la cosa giusta perché giudice e pm sono andati oltre, ad esempio ai numerosi precedenti di Ismail, e hanno ritenuto credibili le affermazioni del mio assistito. Hanno deciso di indagare”. Quello che l’avvocato tiene a precisare è che “non bisogna criminalizzare tutta la categoria degli agenti di polizia penitenziaria. Tra l’altro Ismail è il primo che dice “non sono tutti così”. Bergamo. Reinserire detenuti nella società, al carcere di arriva lo Sportello del Garante di Elio Speziale bergamonews.it, 14 novembre 2019 Inaugurato mercoledì mattina al penitenziario di via Gleno. La direttrice Mazzotta: “Tuteliamo i diritti dei reclusi”. Aiutare i detenuti che necessitano di assistenza medica e favorire il loro inserimento nel mondo lavorativo, anche una volta usciti dal carcere. Sono alcuni degli obiettivi dello sportello del Garante regionale dei detenuti, inaugurato mercoledì mattina al penitenziario di via Gleno. Alla cerimonia era presente Carlo Lio, difensore regionale della Lombardia e, in particolare, Garante dei detenuti, accolto dal direttore della casa circondariale Teresa Mazzotta, accompagnata dall’assistente Capo di Polizia Penitenziaria Ivano Zappa. Lo sportello, creato in attuazione della legge regionale numero 18/2010, è un ufficio che, in sinergia con il Garante Comunale dei detenuti, offre ai reclusi e ai loro familiari, in quanto utenti dei servizi pubblici regionali, un supporto amministrativo per il disbrigo di pratiche in materia sanitaria, previdenziale, tributaria e nell’ambito della formazione professionale e dell’inserimento lavorativo. Ma non solo, perché la finalità è anche quella di accompagnare la persona, una volta terminata la pena da scontare, nel reinserimento in società, restituendogli dignità e allontanandola dai pericoli della recidiva. Ciò si traduce in una garanzia di sicurezza per tutta la collettività. Soddisfatta la direttrice Mazzotta: “L’apertura dello sportello di Bergamo si inquadra in una programmazione regionale finalizzata a tutelare i diritti delle persone soggette a restrizione della libertà personale”. Il Garante Lio ha spiegato le finalità dell’iniziativa: “L’ufficio si rivolgerà principalmente ai detenuti che, per problemi di indigenza, non hanno possibilità di ricevere consulenze dai professionisti operanti nei singoli settori. Mensilmente sarò presente a Bergamo per agevolare la sua massima operatività”. All’inaugurazione erano presenti anche l’assessore regionale al Turismo, Marketing Territoriale e Moda Lara Magoni (Fratelli d’Italia) e il consigliere regionale Niccolò Carretta (Lombardi Civici Europeisti) che nell’esprimere la vicinanza e il sostegno di Giunta e Consiglio all’iniziativa promossa dal Garante hanno sottolineato l’importanza delle politiche di ascolto e d’intervento finalizzate al reintegro in società di quelle persone, soprattutto giovani, uomini e donne, che si vengono a trovare in regime di libertà sospesa. Tra gli ospiti anche il Prefetto Vicario Antonio Naccari, il presidente della Camera penale Riccardo Tropea, il direttore socio sanitario Asst Papa Giovanni XXIII Fabrizio Limonta, il direttore socio sanitario Asst Bergamo Est Patrizia Bertolaia, il responsabile U.O.S. integrazione programmi territoriali Ats Bergamo Fabrizio Barcella, Andrea Tremaglia e alcuni referenti dell’associazionismo di settore che hanno, ciascuno secondo le proprie competenze, sottolineato l’impegno svolto in tema di responsabilizzazione dei detenuti come fattore principale per sollecitare soluzioni attraverso progetti e interventi. Prima del taglio del nastro tricolore, due giovani detenuti della Casa circondariale hanno letto messaggi rivolti alle istituzioni, ringraziando per l’impegno profuso e per l’attenzione sul tema della realtà carceraria. L’apertura dello “Sportello” di Bergamo, che si insedierà entro la fine dell’anno, si aggiunge ai servizi già attivi nelle case circondariali di Milano-San Vittore, Milano-Opera, Milano-Bollate, Monza, Busto Arsizio, Pavia, Vigevano, Voghera, Como, Brescia-Canton Monbello, Brescia-Verziano e Lodi. Alba (Cn). Dal carcere alla vigna: l’agricoltura come occasione di riscatto sociale di Alessandra Franchini Corriere della Sera, 14 novembre 2019 Prendersi cura della terra, piantare la vite, vederla crescere e dare frutti. Che diverranno vino. Di Alba. Un progetto sociale raccontato per immagini nella mostra fotografica “Valelapena. Storie di questa riscatto dal carcere d’Alba” fino al 15 novembre al Palazzo Lombardia di Milano con ingresso gratuito. Un allestimento per far conoscere e sostenere il valore sociale dell’agricoltura, al centro del progetto Valelapena che dal 2006 ad oggi ha permesso a decine di detenuti di imparare un mestiere agricolo e trasformarlo in un lavoro concreto al termine del periodo di detenzione. Un’occasione di riscatto e rinascita vera e propria dunque: “Come tutte le cose buone il progetto è nato dalla buona volontà di due amici che facevano i formatori all’interno del carcere di Alba. Conoscendo questa realtà dal di dentro hanno deciso di offrire qualcosa di concreto ai detenuti, per riempire le loro giornate ma anche per costruire un possibilità di riscatto e di reinserimento sociale alla fine del percorso detentivo” spiega Vincenzo Merante, responsabile della relazioni esterne di Syngenta, azienda coinvolta nel progetto che ogni anno promuove un percorso di formazione per una quindicina di detenuti prossimi alla scarcerazione per permettere loro di apprendere le tecniche di coltivazione della vite e di produzione del vino, acquisendo così una conoscenza e una professionalità spendibile fuori dal carcere. Di qui anche il nome del progetto che rende il tempo della pena un periodo di valore in cui ci si prepara al proprio riscatto sociale. “La prima intuizione è stata quella di scegliere l’agricoltura che il su ruolo sociale cel’ha nel Dna - sottolinea Merante che aggiunge - Se dai qualcosa ti viene restituito qualcosa, Avere un prodotto finito è il segno tangibile che se fai qualcosa otterrai un risultato. Il lavoro agricolo inoltre dà la possibilità di pensare, riflettere”. La scelta dei detenuti da coinvolgere nel progetto della durata di un anno avviene su base volontaria e dipende anche dalla vicinanza alla data di scarcerazione. I detenuti fanno formazione nel vigneto all’interno del carcere oltre a seguire lezioni teoriche in aula a cura di un operatore agricolo. Quindi la vinificazione grazie alla partnership con la Scuola Enologica di Alba a cura degli studenti dell’ultimo anno. Sono circa 200 i detenuti coinvolti negli ultimi dieci anni (da quando Syngenta è entrata a far parte del progetto, ndr). Di questi circa il 25% è stato assunto in un’azienda agricola al termine del periodo detentivo. Altri sono tornati al loro lavoro. Tutti senza recidiva. Una grande occasione di riscatto dunque raccontata nella mostra i cui scatti sono stati tratti dal libro fotografico realizzato da Armando Rotoletti. Un allestimento presentato prima ad Alba e giunto ora in Lombardia, regione nota per i numerosi progetti legati all’agricoltura sociale. Per ispirarne altri. Sassari. Unida: “La mia priorità è garantire la dignità dei detenuti” iltamburino.it, 14 novembre 2019 Intervista al nuovo Garante dei dei diritti delle persone private della libertà personale. La settimana scorsa, il dottor Antonello Unida è stato votato nel Consiglio comunale di Sassari come nuovo garante dei diritti delle persone private della libertà personale. La scelta è stata fortemente criticata da una parte dell’opposizione e non sono mancati post denigratori e accuse sui social. A noi ha rilasciato un’intervista in cui si è parlato di varie tematiche relative al ruolo che gli è stato assegnato. La figura di garante dei diritti delle persone private della libertà personale è stato istituito a Sassari grazie alla sua battaglia in consiglio provinciale. Quali sono stati i passaggi che hanno portato l’amministrazione alla creazione del ruolo? Durante la mia esperienza da consigliere provinciale, a Roma venne istituita la figura del garante dei detenuti (oggi diventata “garante delle persone private della libertà) durante la giunta Veltroni. Ho ritenuto doveroso fare in modo che anche a Sassari ci fosse quella figura, perché all’epoca i detenuti vivevano in condizioni al limite nel carcere di San Sebastiano e sono ancora nitidi i ricordi dei fatti accaduti nel maggio 2000. Quindi portai all’attenzione dell’allora presidente del provincia, Franco Masala, e del sindaco di Sassari, che all’epoca era sempre il prof. Nanni Campus, che accolsero la mia istanza. Da allora, secondo lei, sono migliorate le condizioni dei detenuti? Sicuramente è migliorata da un punto di vista logistico: si è passati da un carcere dell’Ottocento a uno di nuova generazione, quello di Bancali. Per il resto, sembrerebbe che però le condizioni non siano cambiate, come farebbero pensare alcuni articoli della carta stampata. Qual è proprie del garante dei diritti delle persone private della libertà personale? Il garante ha il compito di essere un collegamento tra il mondo carcerario e il cosiddetto mondo civile esterno. Quanto ancora è forte il pregiudizio verso i carcerati che cercano di reinserirsi una volta usciti dalla prigione? Tantissimo. Chi esce di prigione si porta dietro un marchio pregiudiziale. Invece, citando la filosofia greca, si dovrebbe attuare la “epoché”, che significa “andare nella sospensione del giudizio”. Quindi, lasciare da parte i preconcetti, dare la possibilità all’ex detenuto di reinserirsi nella società e vedere se ha la capacità di essere redento. Questo perché fin troppo spesso si cancella la dignità ai detenuti e si dimentica che si tratta di un essere umano. Che idea ha del modello carcerario vigente? Ancora non sono entrato fattivamente nel ruolo di garante, ma il 9 novembre, è stato pubblicato su La Nuova Sardegna un articolo in cui viene stilata una sorta di documento finale del precedente garante. Secondo quanto si legge, c’è molto da lavorare, partendo dalle cose semplici, come sistemare gli impianti idrici, offrire la possibilità di un costante avvicinamento dei detenuti ai propri familiari, collaborare con gli assistenti sociali e le associazioni di volontariato che, a quanto si dice, sono messe un po’ da parte. Il nuovo carcere di Bancali ha un’efficiente e all’avanguardia sezione del 41bis, per i detenuti che sono in regime carcerario speciale, come coloro accusati o condannati per reati mafiosi. Cosa ne pensa del 41bis, su cui tanto si continua a discutere? Il 41bis, il cosiddetto regime di “carcere duro” o “carcere ostativo”, è un tema attuale, che ha coinvolto anche la Comunità Europea. È di qualche giorno fa la sentenza del Corte europea dei diritti umani che impone all’Italia di riformare la legge sul 41bis, perché viola i diritti umani. L’Italia, dal canto suo, dovrebbe semplicemente attuare l’articolo 27 della Costituzione, in cui è scritto che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Quindi, anche chi ha compiuto efferati crimini deve giustamente espiare la pena per la quale è stato condannato, ma avendo sempre garantita la dignità dell’essere umano. Allo stato attuale, il 41bis è una tortura e va contro l’articolo costituzionale citato. Nel percorso che dovrebbe essere costruito per una completa riabilitazione del detenuto, fondamentali sono il metterlo in condizione di prendere coscienza e di pentirsi dell’errore compiuto e potenziare la cultura scolastica, per prevenire una deriva criminale, perché preoccupante è la percentuale di condannati non scolarizzati. Per concludere, la mia opinione è che il carcere duro, quel “fine pena mai”, debba essere quantomeno rivisto, perché “occhio per occhio fa diventare solo ed esclusivamente più ciechi”, come diceva Gandhi, che tra l’altro era anche un ottimo avvocato. Altamura (Ba). Concluso il corso, i detenuti si “diplomano” potatori di Onofrio Bruno Gazzetta del Mezzogiorno, 14 novembre 2019 Con il rilascio degli attestati durante la giornata conclusiva e con la piantumazione di un melograno nel perimetro interno del carcere di Altamura si è concluso il corso di potatura “Ri-generazione con i buoni frutti”. Dieci detenuti dell’istituto sono stati impegnati in 300 ore di formazione in aula, compreso il modulo sulla sicurezza sui luoghi di lavoro, e 600 di attività pratiche. Il progetto, nell’ambito di un avviso regionale di iniziativa sperimentale di inclusione sociale per persone in esecuzione penale, è stato tenuto dalla “D. Anthea Onlus” in collaborazione con la cooperativa Said. Il risultato finale è stato la creazione di un’area a verde e di un orto botanico. Il corso è durato circa un anno. I partecipanti hanno acquisito nozioni fondamentali di botanica, fisiologia e fitopatologia vegetale, produzione e coltivazione agricola, sicurezza sui luoghi di lavoro. Al convegno finale presenti varie autorità tra cui il provveditore Puglia-Basilicata del ministero della Giustizia, Giuseppe Martone, Antonio Montillo della Regione, il Garante regionale dei detenuti Piero Rossi. Roma. L’associazione “Vic-Volontari in Carcere” compie 25 anni Ristretti Orizzonti, 14 novembre 2019 Centri di Ascolto e Casa accoglienza per sostenere reinserimento sociale. Il racconto di detenuti e volontari del carcere di Rebibbia Il Vic - Volontari in Carcere, associazione che rappresenta la Caritas di Roma presso gli istituti penitenziari di Rebibbia, compie 25 anni. In occasione di questo importante anniversario, è in programma - per il prossimo 16 novembre - un convegno dal titolo “1994-2019: 25 anni di Volontari in Carcere sotto il segno dell’accoglienza”. Con all’attivo dieci Centri di Ascolto nei quattro istituti del complesso penitenziario romano, l’associazione ha realizzato nel corso degli anni decine di migliaia di interventi. In particolare, colloqui quotidiani con i detenuti e i loro familiari per sostenere un percorso di accompagnamento e reinserimento sociale e lavorativo, anche dopo la fine della pena. Solo nel 2018, i colloqui individuali sono stati nel complesso circa 18 mila, 5 mila le persone seguite. Un’attività realizzata da 75 volontari operativi al momento, impegnati anche in altre iniziative. Il Vic-Volontari in Carcere gestisce, fra l’altro, una casa per l’accoglienza delle persone detenute in permesso premio e per i familiari che vengono da fuori: l’unica struttura a Roma che consente a uomini e donne di trascorrere con i propri familiari i giorni di permesso. Lo scorso anno, sono state 114 le persone ospitate (di cui 48 detenute) e 36 i familiari. In totale le notti di ospitalità sono state 2.216. L’associazione conta fra le sue attività anche un magazzino per fornire vestiti alle persone detenute indigenti; i pacchi distribuiti nel 2018 sono stati 1.589. Ed ancora: il VIC-Volontari in Carcere è promotore di corsi ed iniziative in carcere, come la Gara di cucina o il corso di Yoga. Per il suo 25/o compleanno, il Vic-Volontari in Carcere vuole perciò celebrare la ricorrenza insieme alle istituzioni, agli enti, alle associazioni, ai volontari che hanno accompagnato, dal 1994 ad oggi, la sua crescita e il suo affermarsi tra le realtà più attive dentro e fuori gli istituti penitenziari della città. Sarà l’occasione per raccontare le tante storie e testimonianze di detenuti, ex detenuti e volontari che gli uni accanto agli altri hanno percorso, o stanno percorrendo, una strada di recupero e spesso di reinserimento nella società. Il convegno si terrà, alle ore 10,30, presso la Sala Congressi dell’Ospedale Pediatrico Bambin Gesù - Roma, Viale Ferdinando Baldelli, 34. Per informazioni, contattare Agnese Malatesta, 3356004762. Busto Arsizio. Sette anni di “La mia voce ovunque” di Alessio Murace informazioneonline.it, 14 novembre 2019 La cooperativa che aiuta detenuti e ragazzi di strada a sentirsi parte della società. La crisi del settimo anno? Monica Guanzini ed i ragazzi della cooperativa “La mia voce ovunque” non sanno nemmeno dove stia di casa. Dal 2012 ad oggi, di strada ne hanno fatta, e tanta. L’associazione “La mia voce ovunque” è figlia di una promessa mantenuta tra Guanzini e l’amica che non c’è più Eva Sacconago. Ora, da un anno a questa parte, è pure cooperativa multiservizi che impiega gli “articolo 21”. La crisi del settimo anno? Monica Guanzini ed i ragazzi della cooperativa “La mia voce ovunque” non sanno nemmeno dove stia di casa. Dal 2012 ad oggi, di strada ne hanno fatta, e tanta. L’associazione “La mia voce ovunque” è figlia di una promessa mantenuta tra Guanzini e l’amica che non c’è più Eva Sacconago. Nasce sette anni fa per dare un punto di riferimento ad un gruppo di ragazzi che aveva la strada come unica alternativa alla scuola e alla famiglia. Monica, in questi sette anni, ha coinvolto molti ragazzi di Sant’Edoardo e del resto della città in progetti in cui musica, danza e arte culminano annualmente in uno spettacolo teatrale che coinvolge tutti. Ora sono circa venti i ragazzi del gruppo, ma nel corso degli anni sono state una cinquantina le situazioni di disagio sulle quali si è lavorato e cercato di porre rimedio. “Senza l’aiuto di nessuno abbiamo tirato fuori tanti ragazzi dalle strade, giovani che oggi hanno tutti un diploma e che sono alla ricerca di un lavoro che li possa realizzare compiutamente. Voglio bene a questi ragazzi, li chiamo tutti per nome e ce la mettiamo tutta per aiutarli, nonostante il nostro cammino sia pieno di ostacoli”. Da un anno a questa parte, l’associazione “La mia voce ovunque” è diventata cooperativa multiservizi, con una vera e propria sede, in via Salvator Rosa 12, e un bazar aperto al pubblico dove si può acquistare merce nuova e usata di vario genere (abbigliamento, giocattoli, oggetti per la casa). La multiservizi, in questi primi dodici mesi di attività, si è specializzata in facchinaggio, sgomberi e piccoli traslochi e punta ad avviare una collaborazione con il Tribunale anche per quanto concerne gli sgomberi giudiziari. In questo lasso di tempo, la cooperativa ha avviato progetti e percorsi personalizzati, finalizzati all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate, tra le quali rientrano i cosiddetti “articolo 21”, ovvero i detenuti che possono essere ammessi al lavoro esterno. “Noi - prosegue Monica Guanzini - non facciamo né beneficenza, né assistenza ma sosteniamo le persone che vivono una situazione disagiata per qualsiasi motivo, affinché imparino a camminare con le proprie gambe e recuperino potenzialità in modo da potersi reinserire nel mondo del lavoro. Dopo sette anni siamo ancora qui, in piedi da soli, con le nostre forze, senza il supporto delle istituzioni - sottolinea Guanzini con amarezza - L’anno scorso abbiamo lavorato giorno e notte per mettere in piedi la cooperativa. Oggi possiamo dire che stiamo raccogliendo i frutti del nostro impegno dando una nuova possibilità ai giovani che tiriamo via dalla strada o ai detenuti che una volta scontata la pena si ritrovano davanti ad un bivio tra tornare a delinquere o rifarsi una vita”. Così il titolo dello spettacolo teatrale e musicale, che i ragazzi di “La mia voce ovunque” metteranno in scena il prossimo 17 aprile al teatro Manzoni, è al tempo stesso un invito e una pungolo alle istituzioni e agli enti preposti della città: “Llevami contigo (portami con te) Busto Arsizio”. “Nel nostro cammino pieno di ostacoli abbiamo sempre trovato il supporto dell’Area Trattamentale del Carcere e del direttore Orazio Sorrentini. Una collaborazione che in futuro ci darà la possibilità di avere degli spazi interni per poter, con corsi mirati, formare i detenuti pronti ad affrontare il mondo del lavoro con noi in cooperativa. Un ringraziamento va anche alla Promos di Cassano Magnago che ci ha permesso di risolvere questioni di primaria importanza e di svolgere un bel lavoro di squadra in questi mesi”. Insomma, Monica Guanzini e “La mia voce ovunque” non conoscono nessuna crisi del settimo anno e non hanno voglia di fermarsi a questo punto del cammino. Anzi, c’è pure una richiesta (chiamata in causa) che formula la stessa coordinatrice della multiservizi: “Perché non ci date in gestione il Bistrot del Teatro Sociale? Ci hanno provato in tanti, potremmo provarci noi a rilanciare il locale”. Parma. “La Cella di un detenuto: come è oggi, come era ieri, come potrebbe essere domani?” di Roberto Di Biase emiliaromagnanews24.it, 14 novembre 2019 Si terrà giovedì 14 novembre, alle 13.30 in Aula Filosofi nel Palazzo Centrale dell’Università di Parma, “La Cella di un detenuto: come è oggi, come era ieri, come potrebbe essere domani?” l’ultimo appuntamento del ciclo di incontri del Polo Universitario Penitenziario (Pup) di Parma. Il progetto è coordinato da Vincenza Pellegrino, professore associato di Sociologia dei processi culturali e comunicativi. Durante l’incontro ragionano su questo tema: Alvise Sbraccia, Università di Bologna e associazione Antigone; Fabio Cassibba, Università di Parma; Vincenzo Picone con letture dal laboratorio in carcere 2018-2019 “Il castello dei destini incrociati”. È ripartito l’anno accademico del Polo Universitario Penitenziario (Pup) di Parma. Gli anni scorsi hanno permesso di formalizzare gli accordi per la costituzione del Pup e per la tutela del diritto allo studio, che non attiene solo ai materiali di studio e alla valutazione, ma anche e soprattutto al confronto con altri studenti e con i docenti. A seguito di tali accordi è stato istituito un servizio di tutoraggio all’interno del carcere con la selezione di studenti magistrali e la loro formazione e sono state implementate forme di seminari e laboratori che vedono impegnati insieme studenti detenuti e non. Milano. Ad Opera incontro su umanità carcere Adnkronos, 14 novembre 2019 È possibile l’umanità all’interno delle carceri? Qual è il vero impatto delle attività di rieducazione delle persone detenute? Se ne parlerà venerdì 15 novembre, alle ore 18, presso la Casa di Reclusione di Milano Opera, che aprirà per la prima volta le proprie porte a un’iniziativa organizzata insieme a BookCity Milano per offrire alla città un’esperienza speciale, quella di potersi confrontare con un pubblico e una compagnia teatrale composti dagli stessi detenuti ed ex detenuti di media sicurezza. Sul palcoscenico del grande teatro che ospita il lavoro della compagnia Opera Liquida, insieme al direttore della Casa di Reclusione Silvio Di Gregorio, interverranno gli autori di due libri che ben indagano la nostra realtà penitenziaria. La galera ha i confini dei vostri cervelli, (Itaca ed.), scritto da Pietro Buffa, Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per la Regione Lombardia, è dedicato “a chiunque dia importanza alle emozioni che la sofferenza e la costrizione penale, con tutte le sue contraddizioni, comportano per tutti coloro che vivono o lavorano in un carcere”. Misurare l’impatto sociale. Sroi e altri metodi per il carcere, (Egea ed.), nato da un lungo e approfondito studio dell’Università Bocconi, di Filippo Giordano, Francesco Perrini e Delia Langer, è invece il primo manuale realizzato per valutare il reale impatto delle attività volte alla rieducazione e al reinserimento delle persone detenute, in cui Opera Liquida è stata caso di studio. Nell’incontro “Il carcere, la sua umanità, il teatro e la misura” è prevista la dimostrazione di lavoro della compagnia teatrale guidata da Ivana Trettel, con gli attori detenuti ed ex detenuti della Casa di Reclusione di Milano Opera, sezione media sicurezza: l’impianto drammaturgico, il montaggio e la formalizzazione. Novara. “Scrittori & Giovani” fa entrare in carcere gli scrittori freenovara.it, 14 novembre 2019 Le “frontiere” da Malvaldi alla graphic novelist Mohamed: doppio appuntamento a Novara. Da quest’anno Scrittori & Giovani porta libri e dibattiti anche presso la Casa Circondariale di Novara, in via Sforzesca 49 grazie alla disponibilità della direzione perché “per essere autenticamente liberi occorre conoscere il carcere” per dirla con le parole di Marco Malvaldi, ospite venerdì 15 novembre alle ore 11 per presentare Vento in scatola (con Glay Ghammouri, Sellerio). L’autore sarà anche protagonista di un evento aperto al pubblico al Circolo dei lettori di Novara, in via Fratelli Rosselli 20, giovedì 14 novembre alle ore 18. Una commedia da camera si potrebbe definire Vento in scatola, solo che in questo caso la camera, l’ambiente chiuso in cui tutto si svolge, è molto grande: un carcere. Le celle, i corridoi, “l’aria”, le zone degli assistenti, la stanza del dirigente, i luoghi di punizione (non c’è in questo carcere la tremenda “cella liscia”): qui i detenuti interagiscono tra di loro e con i sorveglianti, cercano di stabilire gerarchie e simpatie, e di passare il tempo. Al centro di questa vicenda corale, che non ha niente di autobiografico pur avvalendosi di esperienze vissute, c’è un giovane che si forma cittadino: un tunisino, abile broker nel suo paese, in carcere per un reato che non ha commesso ma impunito per una truffa di cui è colpevole. Mentre trascorre normalmente la pena, gli capita una cosa che mette i brividi e lo costringe a una scelta. Questo libro nasce dall’incontro, durante un corso di scrittura tenuto nel carcere di Pisa, tra Marco Malvaldi e Glay Ghammouri, un ex militare tunisino dalla carriera stroncata in patria per motivi politici e oggi detenuto in Italia a causa di un grave delitto. Mette assieme la sperimentata capacità di divertire mediante intrighi con la conoscenza interna minuziosa della situazione carceraria di chi ci vive. Ma non chiede commozione e pietà. Vuole soltanto mostrare l’interno di un carcere mettendo in scena la quotidianità, la sua giustizia e la sua ingiustizia (“per essere autenticamente liberi occorre conoscere il carcere”). Ed è un libro rigenerante, di questi tempi in cui muri di odio si sollevano contro chiunque sia un diverso. Il suo senso è che, così come non si può tenere il vento in scatola, non si può imprigionare l’umanità che è in ciascuno di noi. Marco Malvaldi è nato a Pisa. Dopo la laurea in Chimica presso la Scuola Normale Superiore di Pisa e contemporanei studi al Conservatorio, ha provato a fare il cantante lirico, ma ha abbandonato dopo poco. Esordisce nella narrativa nel 2007 con le storie dei vecchietti del BarLume, pubblicata da Sellerio. Da questa serie è stata tratta una fortunata serie televisiva. Dopo un recente romanzo dedicato a Leonardo da Vinci (La misura dell’uomo, Giunti), Malvaldi ha appena pubblicato Vento in scatola con Glay Ghammouri: senza abbandonare ironia e gusto del paradosso ci fa guardare al carcere in modo né convenzionale né caritatevole, ma davvero dall’altro lato delle sbarre. Medio Oriente. Dietro le sbarre del Libano di Marco Pagli Il Manifesto, 14 novembre 2019 Viaggio dentro il carcere di Roumieh, il più grande del paese: 4mila detenuti, profughi senza permesso, persone ai margini, bambini. Lo specchio di una società che chiede equità. Bisogna inerpicarsi su una strada tortuosa, che dal lungomare sale sui colli orientali della città, per scendere in uno dei peggiori inferni di Beirut e del Libano intero. Tutto intorno, a punteggiare uno scenario di cave e calanchi, una miriade di villette affacciate sul baratro raccontano di una speculazione edilizia che è diventata ormai un tratto distintivo di quella che chiamano la Parigi del Medio Oriente. Una discesa, che è salita, agli inferi. Una contraddizione tra le molte che vive un paese scosso dai tumulti di quella che viene definita la nuova “primavera araba”. Ma per capire le ragioni di una protesta così esplosiva - tanto da aver provocato in pochi giorni la caduta del governo - bisogna partire dalle radici. Scendere all’inferno per poter parlare di ciò che accade in superficie. E Roumieh un inferno lo è. Un penitenziario che da solo assorbe più della metà dei detenuti di tutto il Libano: 4mila prigionieri tra criminali comuni, profughi senza permesso, disgraziati rimasti ai margini di un sistema tra i più dispari che esistano, terroristi o presunti tali, minori. A fronte di una capacità massima che si aggira attorno ai mille posti. Tuttavia, nella sua pancia, si agita molto di più. Ed è probabilmente la testimonianza più preziosa delle ragioni di una rivolta, che giura di diventare rivoluzione. Non certo la prima che si promette all’ombra dei Cedri, senza che sia mai cambiato molto. Ma di sicuro finora capace di mettere in discussione la stessa architrave portante del paese. Quella fragile ma inespugnabile tela di ragno, intessuta tra 18 confessioni, che è sopravvissuta a tutti gli sconvolgimenti che l’Oriente Medio e Vicino ha vissuto negli ultimi settant’anni. Il viaggio nell’inferno di Roumieh comincia di fronte a una sbarra mobile, pilotata dal braccio muscoloso di un agente della Isf (Inrternal Security Force). Cioè la polizia libanese, dipendente dal ministero dell’Interno che in Libano - altra amara contraddizione - è responsabile del settore penitenziario. Quella che segue è un’interminabile via crucis di check point. La stessa che ogni settimana i familiari sono costretti a percorrere per incontrare i detenuti. Quindici minuti, one shot. Attraverso pannelli e inferriate e mediati dagli apparecchi, se il prigioniero è ancora in attesa di sentenza - e lo è nel 60% dei casi. In uno stanzone comune, se invece c’è già stata una condanna o se il detenuto è minorenne. Come Youssef - nome di fantasia, per ovvie ragioni - che a dodici anni sconta una pena per omicidio. E nello strazio a guardarlo e ad ascoltarlo non può che tornare alla mente quel Cafarnao che nel 2018 è valso alla regista Nadine Labaki il premio della giuria al Festival di Cannes. Ma i problemi non si fermano qui. “Il sovraffollamento è il più evidente - spiega Charlotte Tanios di Mouvement Social, una delle principali associazioni libanesi che da decenni lavora nelle prigioni - celle spesso da 70-80 persone, promiscuità e sporcizia ne sono allo stesso tempo cause ed effetti. Nessuna assistenza offerta dallo Stato, né servizi di socializzazione e riabilitazione. Le uniche attività svolte all’interno del carcere sono realizzate dalle associazioni”. Mouvement Social e Ajem (Association Justice et Miséricorde) sono i partner locali di un progetto presentato da Arci e Arcs e finanziato dall’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo. Si chiama “Droit” e ha l’ambizione di migliorare le condizioni detentive in Libano con azioni mirate e il potenziamento dei servizi socio-assistenziali prestati dalle associazioni. Manal El Dika e Salma Maalouf lavorano dentro Roumieh proprio grazie ad Ajem. Assistente sociale la prima e psicologa la seconda. Raccontano delle paure dei detenuti. Che quella dei secondini - personale non formato, che nel carcere lavora praticamente per punizione - sarebbe la minore, visto che le guardie sono solo 90 in tutta la struttura. “Semmai il detenuto ha paura degli altri prigionieri - dicono - Scoppiano continui scontri, specie tra sciiti e sunniti. Ma anche tra libanesi e stranieri (dall’inizio della guerra in Siria si stima che il numero di internati in Libano sia aumentato di oltre il 30%, ndr). A causa della scarsità di personale penitenziario, l’ordine è mantenuto grazie ai cosiddetti shawish: detenuti, che un po’ come i kapò gestiscono l’organizzazione interna di ciascuna sezione e cercano di evitare i problemi. Anche se i problemi rimangono”. Come le scarse condizioni igieniche: ogni sezione del carcere ha a disposizione un gallone al giorno di acqua - fredda, ovviamente - per la doccia. O il cibo, che tanto è pessimo che spesso non viene consumato. Oppure la mancanza di servizi sociali, con solo il 4% dei detenuti che ha accesso a formazione e assistenza. O ancora le condizioni psico-fisiche degli stessi. “Sono frustrati, depressi - continuano. Moltissimi si isolano e vivono in una realtà immaginaria. Aiutare queste persone è difficilissimo e i tentativi di suicidio sono all’ordine del giorno”. Problemi che, sommati all’analfabetismo, alla povertà, al vasto consumo di droga e alla mancanza di prospettive, fanno di Roumieh uno specchio aumentato della realtà sociale libanese. Quella che non sta all’inferno, ma che abita una superficie oggi scossa dalle rivendicazioni e dalle proteste popolari. Quella che magari questa volta riuscirà a farla, la rivoluzione. Turchia. Erdogan: continueremo il rimpatrio dei detenuti dell’ISIS di Maria Grazia Rutigliano sicurezzainternazionale.luiss.it, 14 novembre 2019 Il presidente della Turchia, Recep Erdogan, ha annunciato che intende continuare a rimandare a casa i membri dell’Isis detenuti in Turchia, facendo riferimento ai Paesi che hanno imposto sanzioni contro Ankara per le trivellazioni a largo di Cipro. “Dovreste rivedere la vostra posizione nei confronti della Turchia, che al momento detiene così tanti membri dell’Isis in carcere”, ha affermato Erdogan parlando ai giornalisti ad Ankara, martedì 12 novembre. Tale dichiarazione fa riferimento alla decisione dei ministri degli Esteri dell’Unione Europea di sanzionare la Turchia per le trivellazioni esplorative al largo della costa di Cipro. Il Ministero degli Interni della Turchia aveva già annunciato, lunedì 11 novembre, che Ankara aveva iniziato a rimpatriare i combattenti dell’ISIS catturati in Siria. I Paesi interessati sono stati Francia, Germania e Stati Uniti. Nell’ambito delle attività di trivellazione nel Mediterraneo orientale, il Ministero degli Esteri turco aveva dichiarato che non cesserà le proprie operazioni e continuerà a preservare i propri diritti. In particolare, la Turchia ha affermato che non smetterà di salvaguardare i diritti del suo Paese, derivanti da norme internazionali, così come i diritti e gli interessi della Repubblica turca di Cipro del Nord, situata nel Mediterraneo orientale. Le mosse da parte europea sono considerate “incomprensibili”. Inoltre, secondo quanto affermato dal Ministero turco, è inutile minacciare Ankara, in quanto il Paese è determinato nel continuare le proprie attività di esplorazione e trivellazione. Il Consiglio Europeo, riunitosi a Bruxelles, l’11 novembre, in occasione del vertice dei ministri degli Affari Esteri, ha dichiarato di aver adottato misure restrittive contro la Turchia, responsabile delle attività di trivellazione nel Mediterraneo orientale, ritenute “illegali” e non autorizzate. Nello specifico, tali restrizioni includono il divieto di viaggio nell’Unione Europea, ovvero dei visti, e il congelamento dei beni per coloro che sono responsabili, o coinvolti, nelle operazioni nelle acque di Cipro. La decisione da parte europea ha fatto seguito alla dichiarazione dello scorso 14 ottobre, quando il Consiglio europeo aveva espresso piena solidarietà a Cipro, la quale lamenta una violazione della propria sovranità territoriale. La mossa successiva sarà l’identificazione delle personalità e degli enti economici, industriali e finanziari coinvolti. Già il 4 novembre, le autorità turche avevano avvertito che Ankara avrebbe rimandato indietro i jihadisti catturati in Siria, Iraq e Turchia verso i loro Paesi d’origine, anche se la loro cittadinanza fosse stata revocata. Secondo quanto riferito da un funzionario turco, il primo ad essere rimpatriato è di nazionalità statunitense ed entro il 14 novembre, a detta del portavoce dell’Interno, Ismail Catakli, altri sette jihadisti di nazionalità tedesca verranno rimpatriati. Tali azioni, è stato evidenziato, sono il risultato di misure legali. Da parte sua, il ministero degli Esteri tedesco ha evidenziato che la reale appartenenza all’Isis dei connazionali potrà essere verificata una volta ricevuti i documenti di viaggio. Catakli ha poi dichiarato che un danese e un tedesco sono stati deportati l’11 novembre, portando così il numero dei jihadisti rimpatriati a tre. L’elenco include altresì 11 francesi, due irlandesi e altri due tedeschi, per cui sono state quasi completate le procedure di rimpatrio. Il portavoce turco aveva precedentemente criticato l’approccio dei Paesi europei verso la questione. Dal canto suo, l’Europa sta prendendo in esame un meccanismo che prevede il trasferimento dei jihadisti stranieri dalla Siria all’Iraq, così da poterli processare lì, a seguito delle accuse di crimini di guerra. L’Europa non desidera avviare processi contro i connazionali affiliati all’Isis nel proprio territorio, in quanto teme che ciò possa provocare la reazione dei cittadini o aumentare il rischio di attentati.