Ma quanto è immorale la giustizia penale di Francesco D’Agostino Avvenire, 13 novembre 2019 È davvero nobile la formula dell’articolo 27, terzo comma, della nostra Carta fondamentale, che sostiene esplicitamente che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Ma è inspiegabile, però, che tale formula sia stata ritenuta compatibile con la presenza nel nostro sistema penale delle pene pecuniarie, che colpendo, in palese contrasto col principio costituzionale di eguaglianza, i meno abbienti duramente e molto lievemente i più abbienti, non hanno certamente né per gli uni né per gli altri alcuna efficacia rieducativa. E ancora più imbarazzante è che il dettato costituzionale sia stato ritenuto compatibile con le pene detentive, le cui potenzialità rieducative nessuno è mai riuscito a dimostrare. Limitiamoci per ora a una riflessione sui recenti dibattiti in merito al “fine pena mai” e sul cosiddetto “ergastolo ostativo”, che dimostrano quanto ormai siano palesemente offuscati nell’opinione pubblica (e non solo italiana) il concetto e la funzione della “pena criminale”. Fino a quando la categoria “pena” non verrà cancellata dal sistema giuridico (cosa che peraltro molti auspicano), resterà fermo che per “pena criminale” non si può intendere altro se non una “sofferenza” inflitta a un reo, cioè a chi abbia violato alcune regole basilari dell’ordine sociale (quelle elencate minuziosamente nel codice penale). Finalità (giuridica, non morale) della pena è quella di offrire al reo una possibilità davvero straordinaria: quella di espiare (giuridicamente, non moralmente) la sua colpa, riguadagnando, per dir così, l’innocenza da lui perduta commettendo il reato e venendo conseguentemente reinserito, una volta scontata la pena, nella vita della comunità politica. È irrilevante per l’espiazione giuridica che il reo si sia “pentito” o che sia stato “rieducato”: il solo fatto di avere scontato la pena inflittagli dal giudice in base alla gravità e alle circostanze del reato lo “riabilita”. Il meccanismo penale è rigorosamente formalistico e le tante norme sull’esecuzione penale (che nel linguaggio giornalistico vengono riassunte nell’espressione “benefici di legge”) non riescono a scalfirne il carattere. Si sostiene che l’ergastolo ostativo, togliendo ogni speranza ai condannati alle pene più gravi di poter usufruire di tali benefici, sia disumano e contrasti col diritto alla rieducazione che va riconosciuto a ogni detenuto Ma la riflessione può e deve farsi più radicale: di quale speranza, di quale rieducazione si parla, quando si fa riferimento a un reo? La speranza di un’amnistia, di vedersi accorciare la pena, di ottenere permessi “premio” o di veder sostituita la carcerazione con la detenzione domiciliare è psicologicamente comprensibile, ma socialmente irrilevante, tanto quanto la speranza per chiunque abbia compiuto un reato di “farla franca”. L’unica, vera speranza che dovrebbe nutrire un reo è quella di potersi riabilitare, trasformando l’espiazione giuridica, attivata dalla pena criminale, in una espiazione morale, attivata da un suo profondo e sincero pentimento: ma il primo contrassegno della sincerità di un pentimento non è quello di chiedere un addolcimento della pena o addirittura la sua stessa remissione, ma la manifesta intenzione di scontare integralmente la sanzione cui si è stati condannati, nella consapevolezza che essa va sempre comunque ritenuta inadeguata a sanare la colpa. Sfido chiunque a dimostrare che non solo un pluriomicida, ma chiunque abbia compiuto un delitto grave contro la persona, possa davvero sostenere ad alta voce di aver pagato, attraverso la pena criminale, anche solo in parte i suoi “debiti” con la società e possa di conseguenza rivendicare sconti di pena, forme alternative di detenzione, permessi premio e gli altri numerosi “benefici” previsti dalla legge. La verità, molto malinconica, è che oggi la pena carceraria non è più né pensata né usata, almeno primariamente, a fini di giustizia, ma come una pratica di difesa sociale e soprattutto come una tecnica di intimidazione e di prevenzione dei reati. I magistrati in particolare, dovrebbero ribellarsi contro queste vere e proprie forme di strumentalizzazione della giustizia penale, che li inducono necessariamente ad agire non per quello che sono, ossia come giuristi, ma per quello che non sono, ossia come sociologi, psicologi, educatori. Essi dovrebbero soprattutto insistere in modo martellante sul rischio che si corre continuando a valutare come un segno di ravvedimento morale il (presunto) “pentimento” di tanti detenuti, incredibilmente identificato con la collaborazione con le forze dell’ordine - collaborazione utilissima ai fini della lotta alla criminalità, ma moralmente caratterizzata da un palese cinismo. Un simile atteggiamento (da “anime belle” come si sarebbe detto un tempo) soprattutto, insisto, da parte dei magistrati contribuisce rovinosamente al collasso della giustizia penale, che dovrebbe essere ormai sotto gli occhi di tutti. Carcere, fabbrica di suicidi. Sono 41 nel 2019 di Alessandro Capriccioli* Il Riformista, 13 novembre 2019 Lunedì c’è stato un altro suicidio nel carcere di Viterbo. Un ragazzo di 24 anni. al quale restavano da scontare solo pochi mesi. si è impiccato nella sua cella. Non ce la faceva più. Con la sua morte sono 41 le persone che quest’anno si sono suicidate in carcere. Il carcere di Viterbo è uno dei peggiori. Sono andato a visitarlo molte volte, come Consigliere regionale. E ho potuto registrare un grande numero di violenze e condizioni di vita terribili. Si chiama “Mammagialla” ed è un carcere punitivo. Letta così, potrebbe sembrare la denuncia di un detenuto o di un attivista per i diritti civili. Invece è una delle prime cose che mi viene detta dalla Direzione e dal personale del Mammagialla quando, ormai più di un anno fa, ci metto piede per la prima volta. Siamo nell’ottobre del 2018 e il carcere di Viterbo si appresta a chiudere un anno letteralmente drammatico. Il 21 maggio, nell’isolamento, si è suicidato Andrea Di Nino, 36enne romano. Il 23 luglio, sempre in isolamento, si è impiccato Hassan Sharaf, 21 anni e solo una manciata di giorni da scontare, poi morto in ospedale dopo una settimana di coma. Io sono là proprio a seguito di questi fatti, per comprendere la situazione di un carcere che si presenta inequivocabilmente come un luogo difficile. E questa, la qualifica del carcere come luogo “punitivo”, è una delle prime cose che mi riferiscono quelli che ci lavoravano dentro. Lamentandosene, perché a loro dire è proprio a causa di quella “fama” che al Mammagialla confluiscono solo i detenuti più turbolenti, tra cui molti affetti da disturbi psichiatrici, grazie a quelli che in gergo tecnico si chiamano “trasferimenti per ordine e sicurezza”. La circostanza, mi dicono, rende molto difficile il loro lavoro, malgrado la dedizione e, come si dice, le migliori intenzioni. Un primo giro del carcere mi conferma la sensazione di un luogo particolarmente problematico. La sezione “nuovi giunti” è utilizzata per ospitare detenuti particolarmente problematici, anziché quelli arrivati da pochi giorni e in attesa di essere alloggiati, per i quali viene invece usato l’isolamento. Ci sono gravi carenze strutturali. Le attrezzature sono insufficienti per svolgere in modo proficuo le attività, il personale, come di consueto, è in sotto numero, e il sovraffollamento è oltre i limiti di legge. Ma oltre a questo c’è un’aria tesa, pesante. Tanti detenuti, durante la visita, mi riferiscono di comportamenti poco ortodossi da parte della polizia penitenziaria. Alcuni di loro mi parlano apertamente di percosse. Un carcere difficile, dunque, sul quale penso di poter accendere un faro, contribuendo a disinnescare tensione e dinamiche negative, attraverso quella visita e la successiva, neanche un mese dopo. Speranza disattesa già poche settimane più tardi, l’8 dicembre, quando Giuseppe De Felice, trasferito da poco al Mammagialla, denuncia attraverso la moglie di essere stato pestato da una “squadra” di agenti penitenziari con tanto di mazze e volto coperto. Una versione che De Felice mi conferma personalmente, per filo e per segno e nonostante la presenza di alcuni agenti della polizia penitenziaria al nostro colloquio, di li a due giorni, quando mi precipito di nuovo al carcere di Viterbo per tentare di farmi un’idea dell’accaduto. Sulla vicenda, anche grazie agli esposti presentati dal Garante per i detenuti del Lazio Stefano Anastasia, iniziano a indagare le autorità competenti. Ma non è tutto. Il 2 febbraio del 2019 il deputato di +Europa Riccardo Magi, sulla base degli elementi che ho raccolto durante le visite e di quanto riferito dal Garante, presenta un’interrogazione parlamentare. Pochi giorni dopo, durante la trasmissione Popolo sovrano su Rai 2, un ex detenuto parla del Mammagialla come di un vero e proprio “inferno in terra”, raccontando di pestaggi e di insostenibili pressioni psicologiche nei confronti degli ospiti, mentre un agente della polizia penitenziaria, intervistato nella stessa trasmissione, ammette e rivendica l’uso di “schiaffi educativi” nei confronti dei detenuti. Nel frattempo gli eventi drammatici non accennano a fermarsi. Il 29 marzo del 2019 Giovanni Delfino, 62 anni, un senzatetto che viveva di elemosina finito in carcere per reati commessi anni prima, viene massacrato a colpi di sgabello dal compagno di cella, arrestato per tentato omicidio. Nel successivo mese di giugno Giacomo Barelli, consigliere comunale di Viterbo e avvocato della famiglia di Hassan Sharaf, ottiene la convocazione di una seduta straordinaria del Consiglio comunale per discutere la situazione del carcere, alla quale vengo invitato a raccontare quello che ho visto e sentito, cui partecipa anche il Sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi. Insomma: l’attenzione, il “faro acceso” ormai ci sono tutti. Ma evidentemente non bastano. Passa qualche mese, e il 14 ottobre un detenuto aggredisce e picchia nottetempo un’infermiera, procurandole ferite alla bocca, alla lingua e agli arti superiori. L’ultima, drammatica notizia, è dell’altro ieri. Un ragazzo del 1995 di origini africane si toglie la vita impiccandosi nella sua cella. Giovane, come Hassan Sharaf: e come Hassan Sharaf con pochi mesi ancora da scontare. La polizia penitenziaria sottolinea la carenza di organico, l’inadeguatezza delle strutture e di conseguenza l’estrema difficoltà di gestire una situazione obiettivamente difficile. Circostanze di cui mi sono potuto accertare personalmente, e che quindi non posso che confermare. Ciononostante quelle parole, “carcere punitivo”, continuano a restarmi in testa. Perché se da un lato è indubbiamente vero che dover trattare con individui particolarmente problematici rappresenta una difficoltà, dall’altro non ci si può non domandare quali siano le ragioni di quella fama: cioè chiedersi perché i detenuti problematici vengano trasferiti sistematicamente proprio in quell’istituto. La sensazione è che molte delle risposte che mancano ruotino proprio intorno a questa domanda inevasa. Porsi questa domanda non significa, come qualcuno ha sostenuto in questo anno e mezzo, infangare il lavoro di tanti agenti che svolgono la loro attività con dedizione e malgrado le difficoltà che sono costretti ad affrontare. Significa, al contrario, riconoscere e valorizzare quel lavoro, accertando eventuali abusi ed eliminando ogni possibile “area grigia”. Si tratta, come si dice, di fare piena luce. E di farlo sul serio, portando fuori da quel carcere le voci di chi vi è costretto dentro e fatica a farle uscire. Le voci di quelli che non hanno mogli, parenti o amici a cui raccontare quello che vivono. Le voci dei tanti, troppi, che precipitano nella disperazione senza avere nessuno con cui parlarne. Voci che, naturalmente, vanno verificate con il massimo scrupolo prima di essere prese per verità. Ma che meritano, con altrettanto scrupolo, di essere ascoltate. *Consigliere regionale del Lazio +Europa-Radicali Antigone Sicilia, battaglia contro l’isolamento: “La cella liscia, strumento di tortura” di Katya Maugeri sicilianetwork.info, 13 novembre 2019 Da punitivo, basato su torture e umiliazioni, a rieducativo. Nel corso degli anni si è evoluto così il sistema carcerario cercando di porre al centro del trattamento l’uomo, il detenuto, l’uomo attraverso strumenti utili per il suo - graduale - recupero e reinserimento nella società. Perché, lo abbiamo detto più volte, la funzione principale della detenzione dovrebbe essere quella di correggere il comportamento di chi ha commesso il reato. E non certamente attraverso la punizione, ma riabilitandolo e integrandolo socialmente. Un percorso riabilitativo in cui non dovrebbero venir meno i diritti umani: il detenuto deve sì avere delle limitazioni necessarie per assicurare l’esecuzione della pena pur mantenendo la propria dignità. Si è, negli anni, sviluppata una coscienza dei diritti dei detenuti e della loro tutela, per cui il carcere non deve essere luogo di sopraffazione o di degradazione della personalità, ma luogo in cui persone scontano una pena legalmente inflitta. Ed è così che l’associazione Antigone che si occupa di tutelare i diritti delle persone che si trovano in carcere è sempre presente sul territorio per garantire un miglioramento della condizione umana del detenuto. “Per moti addetti ai lavori, il carcere deve essere considerato una discarica sociale - ci spiega Pino Apprendi, presidente di Antigone Sicilia, durante la nostra intervista - perché chi entra in carcere è condannato a prescindere, molti dimenticano che tantissime sono le persone in attese di giudizio successivamente prosciolte, che vivono la terrificante esperienza di un carcere ingiusto. Il trattamento in carcere è solitamente disumano. Ci sono molte manifestazioni di facciate pubblicizzate ad arte come attività ludiche - continua Apprendi - di formazione all’interno del carcere che fanno bene, ma si tratta solo di una minoranza rispetto a ciò che realmente accade all’interno del carcere. Si dà una idea errata all’esterno: come se la reclusione fosse un’isola felice. Minimale, rispetto al numero di persone che invece in carcere non hanno la possibilità di lavorare o di svolgere attività e che devono seguire un “regime” pesante sia nel rapporto gerarchico tra colleghi detenuti che all’interno impongono regole”. La mancata umanità della pena è fortemente in contrasto con il rispetto della dignità umana e non può essere né ammessa né tollerata. La dignità di un uomo non può perdersi a seconda delle circostanze che la vita sottopone, o da comportamenti - anche sbagliati - va tutelata. Un detenuto trattato male, umiliato, che subisce abusi durante la carcerazione si sentirà vittima dello Stato. In questo modo si otterrà un percorso pericoloso di vittimizzazione di colui che invece ha infranto la legge. Il detenuto vessato, trattato male, umiliato, non comprenderà gli errori commessi, non metterà in discussione la propria storia, né vedrà mai come sbagli le proprie azioni, ma sposterà l’obiettivo verso lo Stato ritenendolo così unico colpevole delle scelte e della strada - illegale - intrapresa. Sentendosi, così, autorizzati a violare la legge. Nuovamente. Un detenuto, invece, trattato con giustizia e umanità avrà e sarà un esempio di legalità. Una pena disumana aumenta inevitabilmente i tassi di recidiva. L’orrore della “cella liscia” - “Noi, come associazione Antigone abbiamo intrapreso una battaglia contro l’isolamento. Un orrore disumano - spiega Apprendi - abbiamo riscontrato dati allarmanti: centinaia di casi ogni anno in tutta la Sicilia. L’ulteriore danno psicologico. In questa condizione, la funzione rieducativa manca assolutamente, quindi i detenuti sono “condannati a vita” a non ritrovare una normalità, con rischi di recidiva altissimi”. Si chiama “liscia” o “cella zero” perché dentro non c’è nulla: non ci sono brande né sanitari (i detenuti sono costretti a fare i loro bisogni sul pavimento), né finestre o maniglie, nessun tipo di appiglio. Viene utilizzata per sedare i detenuti che danno in escandescenza, oppure che compiono più volte atti di autolesionismo o tentativi di suicidio. Un rimedio che molto spesso risulta anche deleterio visto che non sono mancati casi di suicidio proprio all’interno di queste celle. Lasciano scivolare del cibo freddo attraverso uno sportellino di metallo della porta della cella. È un trattamento che distrugge l’umanità dei carcerati, danneggia la loro salute mentale e rende più difficile la reintegrazione nella società dopo la loro uscita. “In quella stanza liscia con le pareti vuote, la persona impazzisce. Solo una lampadina al centro della stanza e nulla più. Denudati e gettati dentro la cella. L’isolamento è una tortura - e il reato di tortura va condannato - un trattamento inammissibile. La persona viene destabilizzata, lì si impazzisce, ho sentito le loro storie. Gente che si è sbattuta la testa contro il muro. Mi ricordo che durante un inverno chiesi come mai il ragazzo che si trovava nella cella di isolamento non avesse una coperta, mi fu risposto che avrebbe potuta chiederla al poliziotto di turno. Ragazzini completamente nudi, denudati di abiti e dignità”. Suicidi e libertà - La morte dei due bimbi a Rebibbia, lo scorso anno - lanciati dalle scale all’interno della sezione Nido del penitenziario - ripropone una questione mai risolta del tutto: è giusto, è opportuno, che le detenute con figli piccoli scontino la pena in carcere? Servirebbero delle soluzioni concrete che garantiscano l’espiazione della pena senza dover rinunciare al rapporto necessario, affettivo tra le mamme e i bambini. “Un gesto di dolore, paradossale. Li ha uccisi per liberarli. Sì, perché chi si uccide in carcere, crede di potersi liberare da un tormento quotidiano, dal pensiero che li vede detenuti senza scadenza, vogliono liberarsi da un incubo che non finirà mai. Gli ultimi tre episodi di suicidio al Pagliarelli sono avvenuti il giorno seguente del trasferimento dei detenuti in altri reparti: c’è sicuramente un problema di procedure. Un cambiamento drastico, da un giorno all’altro, sono persone che lasciamo il loro ambiente i loro compagni - che inevitabilmente ti eri fatto amico - per essere catapultato senza preavviso in un altro posto. Mi chiedo, questo passeggio avviene attraverso delle procedure chiare? Lo psicologo è intervenuto durante questo transito? Colloqui con l’assistente sociale durante il quale veniva spiegata la motivazione del trasferimento? È un caso che gli ultimi tre suicidi sono avvenuti dopo un trasferimento? Sono quesiti che andrebbero ben studiati. All’interno delle carceri servirebbe un ambiente più umano, con una maggiore apertura nell’uso delle telefonate, per esempio, per i detenuti non soggetti a censura che, per garantire un rapporto costante con i propri famigliari, potrebbero costituire un utilissimo strumento per prevenire gesti autolesivi. L’isolamento è sempre devastante per la psiche della persona”. La situazione delle carceri in Sicilia - “Persistono dei disagi causati dalle pessime condizioni strutturali delle carceri: ad Agrigento celle super affollate con 5/6 detenuti in pochissimi metri quadrati, in letti a castello dove se sta in piedi uno gli altri devono stare seduti per ottimizzare lo spazio. Serve ristrutturare le strutture, che risalgono per la maggior parte al secolo scorso. Una situazione devastante. Credo fortemente che il detenuto in cella, deve potersi sentire libero, anche di leggere un libro. In alcune carceri questi lavori sono già in atto, come all’Ucciardone, al Pagliarelli. Un passo verso l’umanità, si spera”. Fuori le sbarre troviamo una società non preparata, inconsapevole della realtà carceraria convinta ancora che i detenuti siano all’interno di un centro benessere, in un hotel a cinque stelle. “Dobbiamo togliere la libertà e far scontare la pena, ma non la dignità. Quella deve sempre essere salvaguardata. Se uno viene condannato a vent’anni, perché un ulteriore accanimento? Non ha senso. Questo terremoto psicologico che avviene nelle teste delle persone è devastante. Il detenuto vive in una condizione di forte sofferenza se consideriamo il distacco dall’amore familiare, dai figli, il senso di colpa nei loro confronti. figli che, se piccoli, avvertono il distacco come un abbandono. Sono dinamiche che andrebbero studiate, però nessuno vuole investire in questo perché il detenuto deve fare parte della discarica sociale, non sapendo il danno che c’è di ritorno: incattivirsi in carcere per poi tornare a delinquere. È un doppio danno per la società se non si riesce a rieducare il detenuto te lo ritrovi domani ancora più aggressivo”. Bisognerebbe trovare, quindi, delle soluzioni concrete e nuovi processi rieducativi. “Dare la possibilità di scontare la pena diversamente, bisogna svuotarli i carceri: chi sbaglia va condannato ma non si deve togliere la dignità, serve rieducare il detenuto. E non solo, occorre rieducare la società. Dopo le stragi è stato effettuato un egregio lavoro di legalità nelle scuole, ma sulle carceri il silenzio, disinformazione. È diventato un problema culturale. Noi non ci fermiamo, continuiamo. Siamo piccoli ma facciamo grandi battaglie. Ai ragazzini va insegnata il rispetto per la dignità dell’uomo, dalle scuole. Il problema chiaramente è anche legato alla politica, che dovrebbe dare linee guida e invece questo Governo sta dimostrando di essere ben lontano dal concetto stesso di accoglienza”. Servono piccoli passi intrapresi con più coscienza civile, meno pregiudizi e più umanità. Carcere, siamo tutti responsabili. Qualcuno più degli altri di Davide Mosso* Ristretti Orizzonti, 13 novembre 2019 La situazione delle persone detenute nei carceri italiani, ed in quello di Torino in particolare, si fa ogni giorno più seria e preoccupante. Tutto ciò peraltro in un clima di frastornante silenzio. Di disinteresse quando non di grave corresponsabilità. Il 9 luglio scorso gli avvocati penalisti italiani indicono un giorno di astensione dalle udienze per sensibilizzare al tema l’opinione pubblica. Ma soprattutto per sollecitare il ministro Bonafede e gli operatori di giustizia a porre prontamente rimedio alla “disastrosa ed esplosiva condizione carceraria del Paese”. Quello stesso giorno, intervenendo alla manifestazione nazionale organizzata dall’Unione Camere penali e dal suo Osservatorio carcere a Napoli, il Procuratore della Repubblica di quella città, Giovanni Melillo, ricordava che “chi non ascolta le voci di chi è in carcere si macchia di gravi responsabilità”. Ed aggiungeva altresì: “Credo che anche la magistratura debba assumere un più chiaro ruolo da protagonista nella tutela dei diritti all’interno del circuito penitenziario”. Cos’è cambiato nel frattempo? Ad esempio che se il 30 giugno 2019 nei carceri italiani erano detenute 60.522 persone a fronte di una capienza massima indicata dal ministero in 50.472 posti (laddove peraltro quelli davvero fruibili erano e sono intorno ai 47.000), il 31 ottobre scorso le persone in carcere erano diventate 60.985. Di cui in custodia cautelare, dunque presunte innocenti, un terzo circa. Venendo poi al carcere di Torino, i numeri, e quindi le condizioni di vita, si sono fatte particolarmente drammatiche. Visto che il 30 giugno vi erano rinchiuse 1.398 persone. Divenute il 31 ottobre 1.533. Sebbene vi sia posto per 1.061 soltanto. Come se in un’auto omologata per quattro si viaggiasse in sei. Per un viaggio lungo talvolta mesi. Magari anche anni. E tralasciamo ogni discorso sulla scelta dei compagni. Non possiamo invece non ricordare che nel 2013, in una sentenza della Corte Costituzionale, l’attuale presidente Giorgio Lattanzi ebbe a dire che il sovraffollamento “può tradursi per dimensioni e caratteristiche in trattamento disumano e degradante”. Forse non sarà stato solo questo a determinare, proprio nel nostro carcere, due persone nelle ultime settimane, l’ultima la sera di domenica, a porre purtroppo fine alla propria vita fisica appendendola nel buio della propria cella. Né il fatto di non aver probabilmente incontrato ovvero visto solo di sfuggita il proprio educatore. Dal momento che ve ne sono quattordici per tutto l’istituto. Certo è però che, per i numeri ma non soltanto, siamo lontanissimi dall’idea dei Costituenti, un terzo dei quali aveva fatto durante il fascismo l’esperienza della reclusione, del carcere come luogo in cui si conosce la pena della limitazione della libertà personale in un tempo però impegnato quanto più possibile nella prospettiva del pieno reinserimento sociale. Si parla tanto di certezza della pena. Mi pare si ignori che è già pressoché certo che la pena in carcere si svolgerà in condizioni che non rispettano il dettato costituzionale e le norme in materia di ordinamento penitenziario. E che dunque non sono legali. Non sono giuste. Se ci fosse poi chi ritiene che vada bene così, consideri che noi priviamo una persona della libertà perché non ha rispettato una legge dello Stato. Questo stesso Stato, in cui vive e che lo rappresenta, non dovrebbe allora a sua volta essere rispettoso delle sue leggi? Visto poi che lo Stato siamo noi, credo che ciascuno sia corresponsabile a vario titolo di quanto è accaduto ed accade. Un Paese si misura dalla civiltà delle sue scuole. Dei suoi ospedali. Dei suoi istituti penitenziari. *Componente dell’Osservatorio carcere Unione Camere penali italiane Pastorale carceraria. “Accompagnare, ascoltare, annunciare” di Mauro Ungaro e Selina Trevisan La Voce Isontina, 13 novembre 2019 L’impegno delle religiose per un carcere dal volto umano. Nell’ottica di un carcere che non punisce ma educa, fondamentale è la presenza al suo interno dei tanti religiosi e religiose che, oltre a portare la Parola dietro le sbarre, offrono ascolto, comprensione e affetto umano ai detenuti e detenute. L’iniziativa dell’Usmi per la Pastorale carceraria e il punto con la referente nazionale suor Annuccia Maestroni. Sabato 16 e domenica 17 novembre a Roma l’Usmi - Unione superiore maggiori d’Italia - organizza presso la propria sede (via Zanardelli, 32) un’iniziativa rivolta a tutte le consacrate che operano nella Pastorale carceraria: “Donne consacrate e carcere: chiamate ad annunciare il Vangelo oggi… dietro e oltre le sbarre”. Fra gli altri sono previsti gli interventi di Silvia Landra (che tratterà il tema “Ascoltare, annunciare, condividere la Buona Novella in carcere”) e di Agnese Moro (che si soffermerà sulla “La mediazione riconciliativa quale strumento per una nuova Giustizia penale”). Domenica 17 la messa sarà celebrata da monsignor Carlo Roberto Maria Redaelli, arcivescovo di Gorizia e presidente della Caritas italiana. Suor Annuccia Maestroni è la referente nazionale delle religiose che operano nelle carceri italiane e insieme a lei abbiamo fatto il punto della situazione sul loro servizio, nonché sulle difficoltà (e sulle carenze) del sistema penitenziario italiano. Suor Annuccia, quante sono attualmente le suore che prestano servizio nelle carceri italiane e in che strutture sono operative? Come si esplica il vostro servizio? Quali sono i punti cardine del vostro mandato all’interno delle case circondariali? “Attualmente siamo 223 consacrate e operiamo in 86 carceri su 209 strutture penitenziarie presenti in Italia. Siamo operative sia nelle sezioni maschili che in quelle femminili; alcune di noi entrano negli istituti penitenziari per minori (Ipm) e negli Istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam). Per quanto ci è possibile e con la nostra umanità fragile ma appassionata, anche noi cerchiamo di “liberare la pena” dentro azioni concrete. All’interno delle carceri ognuna di noi svolge un compito abbastanza definito: alcune si occupano dell’accompagnamento umano - spirituale; altre della catechesi, dei colloqui individuali, della preparazione ai Sacramenti, della Liturgia della Parola. Siamo presenti nelle celebrazioni eucaristiche, operiamo in collaborazione con l’équipe dell’area pedagogica ai progetti di recupero e reintegrazione della persona detenuta. Alcune sono presenza attiva nei laboratori occupazionali e nella distribuzione di indumenti e materiale di prima necessità. Ci sono poi le azioni che svolgiamo sul territorio, fuori le mura delle carceri: ascolto e sostegno ai familiari delle persone detenute, accompagnamento nelle Comunità di accoglienza residenziale per persone detenute, avvicinamento e ascolto alle vittime e familiari, collaborazione con le Caritas diocesane, sensibilizzazione della tematica sul territorio e Parrocchie. Per noi importante è lavorare in rete collaborando e facilitando momenti di comunione con tutte le persone che lavorano nelle carceri, specialmente con i cappellani e i volontari”. Detenuta e donna: un binomio che sottintende una doppia difficoltà? Le carceri femminili italiane sono pronte per accogliere le detenute? “Il carcere è un luogo dove, all’occhio, pare subito privo di qualsiasi “tocco” femminile, si direbbe anche privo di una possibile accoglienza umana. Le donne detenute, forse per un indole tipicamente femminile, fin dai primi giorni della carcerazione si pongono in ricerca di altre persone per sfogarsi, quasi come volessero “abortire” il proprio stato d’animo; ne sentono un bisogno estremo, una necessità pari all’aria che respirano. La relazione che la donna detenuta (qualsiasi cultura e religione essa appartenga) cerca di avere con l’altra persona, sia essa compagna di cella o volontaria, ha in sé inizialmente una parte di dubbio, sospetto e diffidenza. Questo atteggiamento che, come primo approccio, può sembrare negativo, spesso è l’inizio di una ricerca affannosa di ciò che la potrebbe risollevare e ricollocare dentro un positivo che da tempo non sperimenta, ma che sa come realtà esistente. Dentro le parole dette con angoscia e confusione si rendono quasi sempre presenti i figli per chi è madre e i genitori per chi si “ritrova”, a volte dopo tanto tempo, a risentirsi figlia. Il dolore umano, direi viscerale e in questo caso tipicamente femminile, viene trasformato in una immediata e ansiosa richiesta, affinché qualcuno di noi, “esterni” ma non estranei al carcere, possa mettersi in contatto con “chi sta loro a cuore”, sperando che l’altra persona ci sia ancora “con lo stesso cuore” di ieri… Paure di essere abbandonate, che si fanno vere incisioni nella carne quando sentono di aver abbandonato chi è parte della loro vita”. Detenute e madri con i bambini al seguito. Che percorso per entrambi? “Sempre più frequente tra le mura del carcere la presenza delle donne - madri. Numerose quelle che portano in Istituto figli minori e ancora di più quelle che hanno figli in qualche angolo del mondo. Qui, forse dovuto anche alla nostra sensibilità femminile, si percepisce fortemente e ininterrottamente un misto tra speranza e disperazione, spesso urlate, a volte anche senza voce. Con l’immagine del quadro “l’urlo” di Edvard Munch, dove le mani stringono il volto che urla in un vuoto disperato, si può intravedere la disperazione di ogni madre che da lontano percepisce il pianto del proprio figlio e sa di non poter raggiungerlo per consolarlo e coccolarlo; questa disperazione a lungo tempo rischia di distruggere pian piano la loro natura materna. È raro che queste donne madri, in tali situazioni, rifiutino una vicinanza. Il sentirsi ascoltate e non lasciate sole con la propria disperazione è un tentativo di aggrapparsi nuovamente alla vita proprio mentre urlano il loro: “non voglio più vivere”. Quasi per assurdo, dentro questo lento, faticoso e doloroso percorso del “riprendersi cura di sé”, emergono in tante donne ristrette atteggiamenti concreti di attenzione, cura, rispetto che si concretizzano nella solidarietà verso gli altri, chiunque essi siano (detenute, agenti o volontari). Anche per noi consacrate, che ci facciamo compagne di cammino in queste storie ferite, non è raro né insolito essere avvicinate dalle agenti della Polizia penitenziaria sorprese e incredule di fronte agli atteggiamenti di alcune donne divenuti, nel tempo, “capaci di ri-dare vita”. Recentemente anche papa Francesco, nell’udienza ai Cappellani delle carceri italiane, alla Polizia e al personale dell’Amministrazione penitenziaria, si è soffermato su problemi quali sovraffollamento, mancanza di percorsi di lavoro e di ri-costruzione post carcere. Quali sono, secondo voi operatori, i principali problemi dei penitenziari italiani? “Monsignor Crociata scrive negli “Orientamenti pastorali della Pastorale carceraria”: “Compito della Pastorale penitenziaria è di richiamare, secondo le vie possibili e nei modi più consoni, la necessità da parte dei pubblici poteri di far sì che il carcere diventi un luogo realmente educativo”. Questo monito, rivolto a tutti gli operatori delle carceri, quindi anche a ciascuna di noi; è un chiaro invito a rivolgersi alle Istituzioni politiche e pubbliche perché istituiscano leggi e interventi che portino a migliorare il sistema carcerario, per dare dignità alle persone ristrette e investano maggiormente sui progetti di reinserimento e di recupero. Difficile poi definire “i principali problemi” nelle carceri: ogni intervento, o non intervento, che avviene nelle carceri, quando è finalizzato alla privazione della libertà e dignità, non può che provocare alla persona detenuta un senso di annientamento e per la coscienza di tutti noi una continua sconfitta. Impegnarsi a creare nella società, nelle Istituzioni politiche e di conseguenza nel Sistema Giudiziario una diversa cultura di Giustizia, porterebbe certamente ad utilizzare le carceri come strumento rieducativo e non strettamente punitivo. Alcuni segni esterni: in Italia ci sono case di accoglienza per persone detenute, tra queste anche mamme con figli minori. Queste comunità sono sostenute e guidate da Istituti religiosi femminili e maschili e da associazioni laiche impegnate su questo fronte. Sono piccoli segni per dire che è possibile “scontare” la pena in un percorso diverso dalla carcerazione. È una sfida dove vede accompagnatore e accompagnato riscoprire insieme “una possibile rinascita” per entrambi. Se un’ora può bastare. Trent’anni di carcere duro e poi un colloquio di 60 minuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 novembre 2019 In carcere fin dal 1982 per reato di mafia e dagli anni 90 in poi, ininterrottamente al 41bis, è rimasto senza parenti e, visto che il regime duro consente i colloqui solo per un’ora al mese con i familiari, non ha mai potuto parlare con nessuno. L’unico contatto con l’esterno via epistolare con una donna, Rosetta, con la quale non ha nessun legame di sangue, nonostante faccia parte - seppur acquisita - della sua famiglia. I suoi legali, le avvocate Barbara Amicarella e Benedetta Di Cesare del foro de L’Aquila, sono riusciti ad ottenere l’impossibile. Una battaglia legale a colpi di istanze e rinvii che ha permesso, dopo 37 anni, di fargli fare, la settimana scorsa un colloquio di un’ora. Nessun colloquio, per decenni tumulato vivo e l’unico contatto con l’esterno è stato per via epistolare con una donna, Rosetta, con la quale non ha nessun legame di sangue, nonostante faccia parte - seppur acquisita - della sua famiglia. Lei si ricorda di lui giovane, ed è l’unica che gli scrive da anni, quando gli spedisce pacchi di pasta e qualche soldo per potergli permettere di compare qualcosa allo spaccio del carcere. Sì perché stare al 41bis significa essere isolato da tutti, ed è difficile vivere solamente con quello che ti passano. Il 41bis, la cui ratio teoricamente dovrebbe consistere esclusivamente quella di evitare che un boss dia ordini all’esterno al proprio gruppo criminale di appartenenza, ha diverse misure afflittive che rendono sempre più difficoltosa la tenuta del regime differenziato, perché si esce inevitabilmente fuori dal perimetro costituzionale. Una è proprio quella di avere una sola ora di colloquio al mese, esclusivamente con i parenti di primo grado, e dietro un vetro divisore. I suoi legali, le avvocate Barbara Amicarella e Benedetta Di Cesare del foro de L’Aquila, sono riusciti ad ottenere l’impossibile. Una battaglia legale a colpi di istanze e rinvii che ha permesso, dopo 37 anni, di fargli fare un colloquio di un’ora. Un caso eccezionale al 41bis: il primo colloquio effettuato con una persona che non appartiene a nessun grado di parentela. Rosetta è la figlia della sorella della zia materna acquisita del recluso. Tramite i legali, il recluso al 41bis aveva fatto istanza alla magistratura di sorveglianza che però ha rigettato. A quel punto ha impugnato il rigetto e ha fatto reclamo al tribunale di sorveglianza. Ma nulla da fare. Il Tribunale di sorveglianza de L’Aquila ha rigettato con il presupposto che il legame affettivo tra lui e Rosetta, che avrebbe dovuto integrare il requisito dei “ragionevoli motivi”, necessario a giustificare il colloquio visivo con persone diverse dai familiari, ai sensi dell’art. 37, comma 1, d. P. R. 30 giugno 2000, n. 230, non risultava dimostrato, non essendo sufficienti a tal proposito gli accrediti periodici di somme di denaro ricevuti mediante vaglia postale dal detenuto e l’intensa corrispondenza epistolare intercorsa tra i due soggetti durante la detenzione del ricorrente. I legali hanno ricorso per Cassazione deducendo violazione di legge e vizio di motivazione del provvedimento impugnato. Un ricorso dichiarato fondato dai giudici che hanno sottolineato come la lettura dell’art. 37, comma 1, D.P.R. n. 230 del 2000 non legittima una tale interpretazione restrittiva della nozione di “ragionevoli motivi”, “non potendosi escludere - scrivono i giudici della Cassazione - la rilevanza di situazioni collegate alla condizione detentiva patita dall’istante, valutabili su un piano esclusivamente soggettivo”. I giudici della Corte suprema hanno quindi annullato l’ordinanza della magistratura di sorveglianza con rinvio, la quale poi ha dato finalmente il via libera al colloquio. Ma non finisce qui. Nel frattempo il detenuto è stato trasferito al carcere di Sassari e, come spesso accade, la direzione dell’istituto non ha dato luogo all’autorizzazione. Ancora una volta si è fermato tutto e le avvocate Amicarella e Di Cesare hanno dovuto fare ottemperanza. Anche questo ostacolo è stato superato e la settimana scorsa, dopo 37 anni, Rosetta ha potuto fare il colloquio per un’ora, dietro il vetro divisorio. Il recluso al 41bis, d’altro canto, ha avuto finalmente un contatto visivo con un altro essere umano, con il quale ha avuto contatti solamente epistolari per decenni. È stata concessa così, grazie a una battaglia legale, una sola ora di umanità. Inevitabilmente ci si chiede se tutto ciò sia compatibile con l’articolo 27 della Costituzione E se il Governo cadesse proprio sulla giustizia? di Giovanni Altoprati Il Riformista, 13 novembre 2019 Nessuno vuol votare la riforma Bonafede. I dubbi dei Dem, di Italia Viva e di una parte di Leu minacciano l’approvazione del disegno di legge, inviso soprattutto per la modifica della prescrizione. Il ministro sempre più solo. “La riforma è pronta”. La riforma “epocale” della giustizia targata Alfonso Bonafede attende solo di essere approvata. Chi dovrà votarla, però, non è chiaro. Il Guardasigilli, dopo settimane di silenzio, ha dunque rotto gli indugi. In una lunga intervista domenica scorsa al quotidiano “La Repubblica”, Bonafede ha dichiarato che il testo è pronto da “un mese” e che è stato inviato “a tutte le forze politiche”. “I cittadini - ha aggiunto - non possono più aspettare, è il momento di partire senza tentennamenti”, stigmatizzando “il troppo tempo” che i partiti si stanno prendendo per analizzare il testo. Il Pd, in particolare, è il partito che “ha chiesto più tempo” prima di pronunciarsi definitivamente sulla riforma della giustizia. Un atteggiamento che ha messo già in allarme il ministro pentastellato. “Se qualcuno cercasse di perdere tempo finirebbe per fare lo stesso giochetto della Lega, che ha fatto di tutto per bloccare la riforma fino al punto di andare ad una crisi di governo. Dalla Lega, da sempre vicina all’idea berlusconiana della giustizia, me lo aspetto ma dal Pd e dal centrosinistra no”. Il punto più indigesto è, ovviamente, il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado. Blocco, in vigore dal prossimo primo gennaio, sia in caso di condanna che di assoluzione. Lo stop della prescrizione è uno dei temi identitari dei Movimento fondato da Grillo e Casaleggio fin dalle sue origini. Insieme al reddito di cittadinanza, all’acqua pubblica, al no agli inceneritori, fermare le lancette del processo penale rappresenta il coronamento del sogno giustizialista grillino. Anche a costo di trasformare il Paese in un enorme Tribunale affollato di imputati a vita in balia dei pm. Portare a casa lo stop della prescrizione è quindi una questione di fondamentale importanza per l’esistenza stessa del Movimento. Il problema è che nessuno degli alleati di governo, tranne l’ex procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso di Leu, è disposto a dare il via libera ad una norma manifestamente incostituzionale in quanto in contrasto con il principio della ragionevole durata del processo. Il Pd, Italia viva e la maggioranza di Leu hanno già fatto capire che “urgono correttivi”. È inutile bloccare la prescrizione se il sistema giudiziario non è in grado di garantire in maniera efficace tempi certi per la conclusione dei processi, fanno presente a Bonafede. Tre, essenzialmente, le contro proposte degli alleati di governo. Rinvio dell’entrata in vigore per verificare l’efficacia della riforma penale, sconti di pena per il condannato se viene superato un certo lasso temporale, non previsione dello stop per chi sia stato assolto in primo grado. Bonafede non intende però tornare sui propri passi ed ha già fatto capire che il provvedimento va vene così. Consapevole che il bilancio del suo mandato è fino ad oggi, per usure un eufemismo, poco entusiasmante. Lo “Spazza-corrotti” rischia di essere spazzato dalla Corte costituzionale, la riforma dell’ordinamento penitenziario voluta dall’allora ministro Andrea Orlando è stata azzerata, con il sovraffollamento della popolazione carceraria che sta crescendo in maniera esponenziale, la riforma del Csm con l’introduzione del sorteggio stronca correnti è finita su un binario morto. Senza contare un’altra riforma, quella delle intercettazioni, la cui entrata in vigore è stata già procrastinata più volte. Il ministro della Giustizia sa di non avere alleati in questa partita. Anzi, ha tutti contro: le Camere penali hanno indetto per la prima settimana di dicembre cinque giorni di astensione dalle udienze, il mondo universitario è sulle barricate, parte della magistratura, quella maggioritaria e meno ideologizza, è critica su riforme che paralizzerebbero un sistema già al collasso. Ma il MSS, pur azzoppato dalle ultime elezioni, ha sempre la maggiorata in Parlamento. Ai grillini il compito di fare il miracolo in queste ultime settimane del 2019: convincere gli alleati che “la certezza della pena è un valore” e che “il carcere è una svolta culturale”. Se i dem e Renzi non dovessero cambiare idea, l’ipotesi di una crisi di governo, proprio sulla giustizia, non sarebbe così remota. Così il “lodo Grasso” supera il dilemma del sorteggio al Csm di Errico Novi Il Dubbio, 13 novembre 2019 Bonafede pronto al sì sull’idea dell’ex presidente del Senato: voto all’americana. Che le correnti dei magistrati debbano riorganizzarsi non ci sono dubbi. Il caso Palamara ha segnato un punto di non ritorno. Ma non è il solo fattore da considerare: l’altro è la scelta ormai irreversibile compiuta dal guardasigilli Alfonso Bonafede e condivisa dal Pd, con cui restano pure enormi distanze sulla prescrizione: arginare decisamente il peso dei gruppi associativi, favorire il merito nell’elezione dei togati al Csm anziché le logiche di appartenenza. La novità è che il ministro non ha neanche più l’imbarazzo di dover trovare un’alternativa al sorteggio, ritenuto dagli alleati, e non solo, a forte rischio di incostituzionalità. Si va verso tutt’altra soluzione. E a suggerirla è un attore rimasto finora piuttosto in disparte nel dibattito interno alla maggioranza, Pietro Grasso. Il voto “americano” suggerito da Grasso - Nell’intervista a Repubblica che domenica ha certificato la netta divergenza tra Bonafede e il Pd sulla prescrizione, lo stesso ministro della Giustizia ha detto: “Non mi sono mai legato al sorteggio come metodo insuperabile, mi interessa trovare una soluzione che superi le degenerazioni del correntismo, e mi sono giunte proposte interessanti più del sorteggio”. L’allusione è innanzitutto al lodo Grasso. Una sorta di elezione all’americana: 150 magistrati, eletti in collegi molto piccoli, che a loro volta sceglierebbero tra di loro chi debba rappresentare le toghe al Consiglio superiore. In Italia ci sono 150 Tribunali. Secondo lo schema Grasso, nei distretti più grandi, come quelli di Roma, Milano e Napoli, i collegi non potrebbero essere sovrapposti al singolo Tribunale. Le sedi maggiori sarebbero ripartite cioè in più collegi. In tal modo sarebbe favorita assai più la conoscenza diretta, da parte dei magistrati elettori, del singolo candidato. I 150 eletti nella prima fase verrebbero ripartiti in 20 circoscrizioni, quanti dovrebbero essere i consiglieri togati del futuro Csm. I 15 eletti in ciascuna circoscrizione dunque eleggerebbero a Palazzo dei Marescialli un solo magistrato. Sarebbero eleggibili i 5 più votati, con un eventuale successivo ballottaggio. La base della magistratura potrebbe assai più facilmente orientarsi verso chi mostra di avere il progetto più interessante per l’autogoverno, di conoscere da vicino le necessità di giudici e pm, di essere insomma avvantaggiato sul piano del merito piuttosto che per il sostegno di una corrente nazionale. Grasso spiega infatti: “Sulla base dei principi di rappresentanza e merito, ho cercato una modalità che, a partire dalla base, individui coloro che abbiano maggiore considerazione e rispetto tra i colleghi con i quali lavorano ogni giorno”. Ma sulla riforma Leu non è compatta - L’interesse di Bonafede per la soluzione indicata dall’ex presidente del Senato, e che andrà comunque valutata anche dal Pd e da Italia viva, non corrisponde d’altra parte a una generale sintonia fra il guardasigilli e i parlamentari di Liberi e uguali. Anche perché, se proprio Pietro Grasso è anche tra i meno contrari al blocca- prescrizione, su quest’ultimo aspetto va segnalata la forte critica del capogruppo di Leu nella commissione Giustizia di Montecitorio, Federico Conte: “L’idea di bloccare la prescrizione dopo il primo grado contiene una visione illiberale del processo”, ha detto il deputato campano quando è stata messa sul tavolo, un anno fa, la norma, poi approvata, che abolisce l’estinzione del reato una volta emessa la sentenza di primo grado. “Il principio di ragionevole durata è un elemento fondamentale della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e della nostra Costituzione. Il processo “a vita” viola i diritti dell’imputato, appesantisce la macchina della Giustizia, e trova proprio nella magistratura il principale oppositore”, aveva ricordato Conte. A suo giudizio “la soluzione alla prescrizione è rendere più efficiente il sistema e celebrare i processi in tempi rapidi”, che è poi divenuto infatti l’obiettivo della riforma del processo. Una linea persino più severa di quella espressa finora dal Pd. E che dimostra come singoli punti della riforma, a cominciare dall’elezione al Csm, siano anche vicini ad essere sciolti, ma anche come sul passaggio più difficile, la norma sull’estinzione dei reati, la maggioranza si trovi ancora in alto mare. Il procuratore di Napoli prova a fermare la gogna mediatico-giudiziaria di Ermes Antonucci Il Foglio, 13 novembre 2019 Mentre l’entrata in vigore della riforma delle intercettazioni approvata nel 2017 resta bloccata per volere dei grillini, per la prima volta una procura cerca di mettere un freno al corto circuito mediatico-giudiziario, spesso basato su notizie e intercettazioni penalmente irrilevanti. Il procuratore capo di Napoli, Giovanni Melillo, ha infatti adottato un ordine di servizio volto a disciplinare criteri e modalità di rilascio di copia dei provvedimenti giudiziari agli organi di informazione. Il documento trae spunto dalle linee guida approvate dal Csm lo scorso anno in materia di comunicazione degli uffici giudiziari, e si fonda sull’articolo 116 del codice di procedura penale, secondo il quale “durante il procedimento e dopo la sua definizione, chiunque vi abbia interesse può ottenere il rilascio a proprie spese di copie, estratti o certificati di singoli atti”. Ora questa facoltà viene riconosciuta anche ai giornalisti, con particolare riferimento agli atti compiuti nella fase delle indagini preliminari e non più coperti da segreto. L’obiettivo principale è quello di garantire ai giornalisti un accesso paritario e regolamentato ai provvedimenti giudiziari (specialmente le misure di custodia cautelare), evitando così che pochi cronisti “selezionati” continuino a ottenere le carte sottobanco, e spesso in maniera parziale, grazie alla benevolenza di inquirenti, investigatori o avvocati. Il rilascio di copia di provvedimenti non coperti dal segreto investigativo agli organi di informazione che ne facciano richiesta - si legge nell’ordine di servizio-deve infatti considerarsi “funzionale ad assicurare, da un lato, il corretto esercizio del diritto di cronaca e, dall’altro, il soddisfacimento dell’interesse pubblico a un’informazione obiettiva e trasparente in relazione a fatti di rilevanza e interessi collettivi”. Dopo aver riconosciuto ai giornalisti parità di accesso agli atti, il documento si premura di stabilire dei criteri attraverso cui evitare che dagli uffici giudiziari fuoriescano notizie prive di rilevanza penale o potenzialmente lesive della riservatezza delle persone coinvolte e dell’andamento delle indagini. È il procuratore della Repubblica, su segnalazione dei procuratori aggiunti, a valutare la sussistenza dei presupposti che legittimano il rilascio della copia dei provvedimenti agli organi di informazione che ne facciano richiesta, fermo restando i divieti di pubblicazione previsti dal codice di procedura penale, “sotto il profilo sia della cessazione del segreto, sia della ricorrenza dell’interesse pubblico all’informazione dei fatti oggetto del provvedimento, sia della presenza di eventuali controindicazioni alla divulgazione dello stesso”. Il rilascio della copia deve rispettare alcuni criteri: non deve interferire con le investigazioni in corso e con l’esercizio dell’azione penale e deve avere luogo nel rispetto del segreto delle indagini e del principio di riservatezza; non deve ledere la tutela dei diritti dei soggetti coinvolti nel procedimento o dei terzi; deve avvenire evitando ogni ingiustificata comunicazione di dati sensibili o la diffusione di notizie e immagini potenzialmente lesive della dignità e della riservatezza delle vittime e delle persone offese dai reati, in particolari se minori. A puntellare l’ordine di servizio ci pensa la circolare adottata nel 2016 dal precedente procuratore capo di Napoli, Giovanni Colangelo, che ha stabilito i criteri da seguire per evitare la diffusione di intercettazioni inutilizzabili o irrilevanti. Al pari di una circolare adottata anche dalla procura di Roma, il documento ha imposto alla polizia giudiziaria di non inserire le intercettazioni irrilevanti per le indagini nei verbali delle operazioni (i cosiddetti brogliacci) né nelle annotazioni di polizia giudiziaria. In caso di dubbio in merito alla rilevanza della conversazione, la polizia giudiziaria riferisce al pm, che dà disposizioni al riguardo. Ovviamente bisognerà aspettare per vedere se, nella pratica di tutti i giorni, le novità introdotte dal procuratore Melillo serviranno a evitare il riproporsi dei soliti meccanismi della gogna mediatico-giudiziaria. E ovviamente sarebbe preferibile che a stabilire le regole fosse il legislatore, anziché le singole procure. Ma vista l’opposizione in Parlamento del Movimento 5 Stelle, che nella gogna ci sguazza, tocca accontentarsi. Il processo sulla “trattativa” Stato-mafia nasconde la verità sulle stragi di Piero Sansonetti Il Riformista, 13 novembre 2019 Silvio Berlusconi ieri ha fatto scena muta davanti alla Corte d’appello che dovrà decidere le sorti del processo sulla famosa trattativa Stato-Mafia. Era stato convocato come testimone, e la sua testimonianza sarebbe probabilmente servita a Marcello Dell’Utri per tirarsi fuori dalla trappola dove l’hanno infilato i Pm. Lui però ha deciso di avvalersi della facoltà di non rispondere. Perché aveva questa facoltà? Perché recentemente la Procura di Firenze gli ha spedito un avviso di garanzia per le stragi del 1993 e per l’attentato fallito a Maurizio Costanzo. Berlusconi a questo punto si trova a essere sotto accusa in un procedimento giudiziario che riguarda delitti connessi al processo di Palermo. Il fatto che entrambi i processi siano del tutto strampalati non cambia le cose. Essendo i due processi collegati, Berlusconi ha la facoltà di non presentarsi come testimone, e ieri ha dichiarato che i suoi avvocati lo hanno consigliato di fare così. Il suo avvocato è Franco Coppi, che conosce bene questa materia e conosce anche i magistrati che se ne occupano: evidentemente ha immaginato che in questo momento per Berlusconi sia più opportuno evitare deposizioni. Naturalmente non esiste neppure una persona sola nell’intero mondo che creda che Berlusconi possa avere avuto qualcosa a che fare con quegli attentati, e in particolare con quello al suo amico Costanzo, che in quel periodo era oltretutto un pilastro delle sue televisioni. Però la giustizia, si sa, è così: burocratica, burocratica, burocratica. E di conseguenza ritiene che sia un indizio sufficiente una frase smozzicata pronunciata da un boss in carcere (Graviano) intercettata durante un colloquio con un altro detenuto e intercettata dai magistrati (poi si è saputo che Graviano sapeva di essere intercettato, e tutto quel che diceva lo diceva per qualche ragione). Graviano disse: “Berlusca mi ha chiesto un piacere”. Dal punto di vista degli inquirenti l’inverosimiglianza assoluta dell’affermazione, e la totale assenza di riscontri non valgono niente. La mancata deposizione di Berlusconi, però, danneggia Dell’Utri. Il quale è accusato di avere fatto da tramite tra Cosa Nostra e Berlusconi in questa benedetta e molto improbabile trattativa Stato-Mafia. L’ipotesi dell’accusa è questa: la mafia aveva deciso di attaccare lo Stato per poi trattare. Uccise Lima (deputato andreottiano), poi Falcone, e Borsellino, nel 1992, e l’anno successivo realizzò gli attentati che provocarono stragi a Firenze, a Milano e anche a Roma, dove provò - sbagliando - a uccidere Maurizio Costanzo e Maria de Filippi. La mafia - sostiene l’accusa - chiese al governo, in cambio della pace e della fine dell’attacco militare, una serie di concessioni, tra le quali soprattutto la fine del 41bis. Dell’Utri, secondo l’accusa, fece da intermediario tra la mafia e il premier Berlusconi. Però c’è un problema di date, e poi un problema di fatti. Le date: gli attentati finiscono il 23 gennaio del 1994, quando per un errore (o forse per un ripensamento) non salta la bomba che avrebbe ucciso decine di carabinieri allo Stadio Olimpico, pochi minuti prima della partita Roma-Udinese. Dicevamo: 23 gennaio. A quel punto evidentemente la trattativa si conclude perché gli attentati cessano. Però Berlusconi andò al governo solo quattro mesi più tardi, e nessuno, in gennaio - proprio nessuno - poteva nemmeno immaginare che avrebbe vinto le elezioni a primavera. Tutti erano certi della vittoria di Occhetto. È strano chiedere delle misure di tipo legislativo a un imprenditore che non ha mai messo piede in Parlamento. La seconda contraddizione riguarda i fatti. Quando Berlusconi andò al governo non prese nessuna misura di allentamento della lotta alla mafia, non cancellò il 41bis anzi inasprì tutte le misure. Se ciò non vi basta ancora, tenete conto di un altro elemento di questa storia che lascia davvero molto perplessi. Oltre a Dell’Utri sono accusati di avere guidato la trattativa Stato-Mafia tre ufficiali dei carabinieri. Il più famoso è Mario Mori. Che mentre la trattativa - secondo i giudici - era in corso con Totò Riina, cosa fece? Arrestò Riina. Negoziato più bislacco di questo non poteva essere immaginato. E allora come stanno le cose? Beh, è chiaro un po’ a tutti che il processo sulla trattativa Stato-Mafia, e l’ipotesi che questa trattativa sia stata il motivo per il quale furono uccisi Falcone e Borsellino (i quali peraltro furono uccisi quando la prima Repubblica appariva ancora ben salda e Berlusconi in politica non era neppure un fantasma) sono un processo e un’ipotesi di quelli che a Roma si definiscono “una bufala”. Non stanno in piedi neanche coi cerotti, anche se fin qui hanno già prodotto una condanna in primo grado, alla quale è giunta una giuria popolare spinta da una gigantesca campagna di stampa, e hanno rovinato la vita a molte persone, alcune delle quali - come il generale Mori - sono tra i pochi ad avere dato gran parte della loro vita alla lotta strenua alla mafia. Quelli che non sono chiarissimi a tutti sono gli effetti di questo gigantesco depistaggio. Gli effetti sono che è stato calato un velo sulla vera indagine che Falcone e Borsellino stavano conducendo, servendosi del lavoro di Mori e della sua squadra; era un’indagine, che aveva un’ampiezza impressionante e stava per svelare i rapporti tra la mafia e un pezzo molto consistente del mondo imprenditoriale italiano (ma in quel pezzo di mondo non c’era Berlusconi). Si tratta del dossier mafia-appalti, che era stato promosso da Falcone, realizzato da Mori, e che sarebbe stato ereditato da Borsellino se Borsellino non fosse stato ucciso nel luglio del ‘92. Tre giorni prima della sua uccisione i Pm di Palermo chiesero l’archiviazione del dossier, e l’archiviazione venne ratificata il 14 agosto. Tutto questo è raccontato dettagliatamente nel fotoromanzo curato da Giovanna Corsetti, che pubblichiamo oggi in prima e seconda pagina e che pubblicheremo ancora nei prossimi giorni. Ecco spiegato il processo Stato-Mafia. Che sicuramente è stato voluto dai Pm per altri motivi, ragionevolissimi, ma che alla fine (così come il depistaggio del pentito Scarantino, che aveva accusato delle persone non colpevoli dell’uccisione di Borsellino, guidato, a quanto pare, da uomini dello Stato) è servito solo a depistare, a impedire che si scoprisse perché e chi aveva ucciso Borsellino e a seppellire un’indagine su mafia e imprenditoria che avrebbe sconvolto l’Italia. Manette agli evasori, sanzioni sotto esame alla Camera di Marco Mobili e Giovanni Parente Il Sole 24 Ore, 13 novembre 2019 Opposizioni e Italia Viva chiedono la soppressione delle nuove sanzioni. La stretta sulle manette agli evasori fa il pieno di emendamenti soppressivi, tra cui anche quello di Italia Viva, o correttivi. E sul tavolo c’è anche il tema della sua decorrenza, oggi fissata con l’entrata in vigore della legge di conversione del decreto fiscale. C’è chi chiede il rinvio della decorrenza - ipotesi valutata anche dalla maggioranza - visto che le nuove sanzioni penali riscritte dal ministro della Giustizia Bonafede producono effetti diretti su reati di versamento e dichiarativi: i primi possono essere stati commessi in corso d’anno nel 2019, i secondi si perfezionano solo nel 2020 con la presentazione della dichiarazione. Ci sono le imprese con esercizio a “cavallo” e ci sono poi i dubbi sulla fattura inesistente: quando scatta il reato? Nel momento in cui è annotata o quando è presentatala relativa dichiarazione in cui se ne fa uso? C’è poi un’istanza ora avanzata dalla Lega, ma fino a qualche tempo fa cara anche alla sinistra, ossia quella di escludere dai reati tributari chi ha dichiarato tutto ma non è riuscito a saldare il conto con il Fisco. Ad attirare le attenzioni di tutte le forze politiche ci sono i nuovi obblighi sulle ritenute negli appalti e subappalti. C’è chi chiede la soppressione del nuovo meccanismo proposto dal Governo o comunque di mitigarne l’impatto sulle imprese rivedendo l’ambito oggettivo e soggettivo. Altro tema su cui maggioranza e opposizione hanno trovato più di una convergenza nel proporre i correttivi al Governo è l’obbligo di compensazione dei crediti fiscali solo dopo l’indicazione in dichiarazione. Oggi intanto sarà la relatrice al Dl e presidente della Commissione Finanze della Camera, Carla Ruocco (M5S), a fare una prima scrematura delle circa 900 proposte di modifica presentate da maggioranza e opposizione. Sotto la tagliola delle inammissibilità potrebbero cadere emendamenti già sbandierati in queste ultime ore come quello sull’Iva agevolata al 10% per l’igiene intima femminile o quelli sullo scudo penale per la ex Ilva, presentati da opposizione e Italia Viva. Su questi ultimi, in particolare, la Ruocco è pronta ad ascoltare la commissione e a ripescare i correttivi se dovesse riscontrare la volontà di affrontare all’unanimità il tema. Per arrivare ai primi voti bisognerà attendere comunque lunedì 18 per chiudere l’esame di merito entro il 25 novembre data in cui è fissato, ad ora, l’approdo in Aula. Sugli appalti tutte le forze politiche chiedono un intervento correttivo. Tra quelle di maggioranza è Italia Viva, con Luigi Marattin, a chiederne la soppressione e comunque un alleggerimento dell’ambito di applicazione rivedendo le soglie di esclusione dalla stretta (imprese in attività da almeno tre anni e che nei due anni precedenti abbiano versamenti registrati nel conto fiscale per un importo superiore a 2 milioni di euro). Ci sono anche i 5 Stelle a lavorare sulle esclusioni. Con Raffaele Trano propongono di escludere dalla stretta sulle ritenute i condomini con meno di venti famiglie, artigiani, commercianti e professionisti se l’importo da versare non supera i 50mila euro. Anche Leu, con Stefano Fassina chiede di escludere dall’obbligo di versamento delle ritenute professionisti, autonomie condomini. Più radicale la soluzione proposta delle forze di opposizione che chiedono la soppressione dell’articolo 4. Se proprio non si può la Lega chiede l’esclusione dei condomini, Forza Italia anche quella delle piccole e medie imprese. Il Pd dal canto suo punta a conservare la ratio della norma anti evasione e il relativo gettito e come già annunciato dal relatore al Dl, Gian Mario Fragomeli, si potrebbe prevedere una comunicazione da trasmettere alle Entrate entro 30 giorni dalla stipula del contratto di appalto con tutti i dati relativi alla gara. Sulle compensazioni i partiti di maggioranza e opposizione chiedono di escludere dalla stretta i professionisti, oppure i contribuenti che hanno investito in ricerca e sviluppo o in patent-box, nonché di elevare anche fino a 30mila euro il tetto oltre il quale i crediti d’imposta per essere compensati devono prima passare in dichiarazione. Tutti chiedono, poi, di ridurre la sanzione da 1.000 euro sulle indebite compensazioni. Il centro destra si schiera per l’abolizione del limite del contante o in subordine di mantenere la soglia attuale di 3mila euro come chiede Sestino Giacomoni di Forza Italia. Alla richiesta della Lega di rendere applicabili gli Isa del 2020 per i controlli sull’anno d’imposta 2018 (saltando dunque il 2019) si aggiunge l’idea cara ai 5 Stelle di una dichiarazione Iva precompilata. Oltre che su questo tema, nel pacchetto semplificazioni Giovanni Currò (M5S) spinge per un nuovo 770 trimestrale così da poter superare anche i vincoli sulle ritenute. La fiat tax incrementale e l’abolizione dello split payment saranno due cavalli di battaglia di Marco Osnato (Fdi), mentre l’abolizione della Tasi e l’addio all’Irap con la trasformazione in addizionale all’Ires o all’Irpef, nonché la riapertura della pace fiscale all’anno 2018 (cartelle, liti, accertamento e altro) sono i correttivi voluti da Alberto Gusmeroli e Massimo Bitonci (Lega). Fisco: il partito di Renzi rompe il fronte delle manette di Piero Sansonetti Il Riformista, 13 novembre 2019 Italia Viva ha presentato vari emendamenti al decreto fiscale, e tra questi uno che propone l’abolizione dell’articolo 39, quello che inasprisce le pene per gli evasori e prevede il carcere fino a otto anni, la carcerazione preventiva prima dell’accertamento del reato, la confisca, le intercettazioni telefoniche, i trojan e tutto il resto, con l’equiparazione del reato fiscale a quello mafioso o terroristico. L’iniziativa del partito di Matteo Renzi ha creato molti malumori nella maggioranza. I 5 Stelle considerano quell’articolo del decreto come la realizzazione della parte più importante del proprio programma politico e anche del proprio orizzonte ideale. In particolare il decreto-manette è un cavallo di battaglia di Marco Travaglio, il direttore del Fatto Quotidiano che molti considerano il capo del Movimento Cinque Stelle. Travaglio recentemente ha anche pubblicato sulla prima pagina del suo giornale una grande fotografia di manette, per dichiarare la sua esultanza di fronte alla possibilità che si aumenti il numero dei detenuti e oltretutto che si possano mettere in prigione un buon numero di benestanti, o di presunti benestanti, in particolare professionisti, commercianti, artigiani. All’iniziativa legislativa di Italia Viva si somma una dichiarazione di Antonello Soro, che è il Garante della Privacy, il quale ha dichiarato di ritenere sbagliate molte delle misure previste nel decreto anti-evasione e di temere che con quel decreto si possano cancellare alcuni dei diritti fondamentali dei cittadini. Gli emendamenti di Italia Viva potrebbero portare a uno scontro molto serio all’interno della maggioranza. E sarebbe finalmente uno scontro tra liberali e giustizialisti. La contraddizione tra liberali e giustizialisti definisce la contrapposizione tra due idee diverse di società e di rapporto tra Stato e società. I liberali immaginano una società che identifica modernità e libertà, e che tende ad aumentare sempre di più la sfera delle libertà, sia individuali che collettive, riducendo al minimo il controllo e la repressione da parte dello Stato. I giustizialisti pensano esattamente il contrario, e cioè che la modernità sia un progressivo aumento dei controlli, e possibilmente della punizione, perché solo una società controllata rigorosamente dallo Stato e dove la punizione è il motore della giustizia (anche della giustizia sociale) è una società equa ed eticamente solida. I giustizialisti tengono molto a questa idea: l’etica come baluardo della civiltà. I liberali invece vorrebbero tenere l’etica fuori dalla politica, e considerano la libertà il baluardo della civiltà. Per questo il decreto sulle manette agli evasori è una specie di cartina di tornasole. I giustizialisti con questo decreto vogliono mandare un segnale chiaro: l’evasione fiscale è la principale fonte dell’ingiustizia sociale e dunque va punita in modo esemplare. Manette. Hanno ragione i giustizialisti a considerare l’evasione come la fonte principale dell’ingiustizia sociale? L’evasione, in Italia, è un male grandissimo, perché è molto estesa e anche molto varia, tiene insieme gli evasori per necessità - poveri, o poco ricchi, e che senza evasione sarebbero in miseria - con gli evasori per speculazione, che truffano e accumulano miliardi. L’evasione è fonte di ingiustizia, ma non è la principale fonte di ingiustizia, e prospera anche per via di un sistema fiscale antico, farraginoso e inefficiente. Si può combattere con le manette? In una società liberale niente si combatte con le manette, se non i delitti estremi e di sangue. E l’uso spropositato delle manette, specie per reati economici, produce un abbassamento del livello di libertà, specialmente se realizzato attraverso misure del tutto discrezionali e di sopraffazione come sono il carcere preventivo, le confische, le intercettazioni. Il giovane partito di Renzi saprà farsi alfiere della battaglia liberale, o userà i suoi emendamenti solo per trattare? È una prova importante alla quale ora si sottopone Italia Viva. Ed è una prova che mette sul tappeto anche un’altra domanda: una forza liberale può governare in coalizione con una forza giustizialista? Un partito democratico e anti-autoritario può mediare con Marco Travaglio? Carcere per gli evasori? Inutile: parola di 5 Stelle di Ugo Grassi* Il Riformista, 13 novembre 2019 Il decreto fiscale prevede, com’è noto, l’abbassamento delle soglie di punibilità per talune fattispecie penali introdotte nel 2000 con il d.lgs. n. 74 - portate da centocinquanta a centomila euro - oltre a un aumento delle pene minime e massime. Il provvedimento è stato difeso dal governo sostenendo che in questo modo saranno colpiti i grandi evasori così che chi evade centinaia e centinaia di migliaia di euro sarà finalmente punito con il carcere. Ma bisogna dirlo con franchezza: abbassare la soglia a centomila miro non serve a niente e fa solo male. Fa male perché per condannare un vero evasore in più (si noti che i reati in questione sono reati esclusivamente dolosi) ne processeremo tanti altri che hanno solo commesso degli errori. Tralascio di valutare l’incremento delle pene per dedicarmi all’abbassamento delle soglie di punibilità, in quanto è stato questo aspetto a essere oggetto delle maggiori critiche. Il principio di base sembra ovvio: se evadi vai in carcere. L’evasione fiscale è un atto antisociale lesivo degli interessi della collettività, su questo non c’è dubbio. Ma se è così, allora, perché punire solo chi evade per somme superiori ai centomila euro? Non è forse spregevole anche trattenere illecitamente novantamila o anche solo cinquantamila euro? La risposta è sì, solo che le soglie di punibilità non sono previste allo scopo di far salvi taluni evasori, bensì per evitare di processare coloro che sono incorsi in un errore, che è tanto più probabile tanto più la fattispecie incriminatrice descrive in modo non del tutto preciso gli indicatori dell’avvenuta evasione fiscale. Sarà sorprendente per il non addetto ai lavori scoprire che esistono fattispecie di reato senza soglia di punibilità o con soglia di soli trentamila euro! In sintesi, con molte approssimazioni. Esistono quattro principali ipotesi di reati fiscali (le altre sono derivate o similari e per brevità non ne parlerò). Le prime due si perfezionano o con fatture false o altri artifici, la quarta è ipotesi omissiva (omessa dichiarazione). Interessante la terza perché è una sorta di ipotesi residuale che si perfeziona se non ricorrono le altre più precise fattispecie. La prima ipotesi di reato non ha alcuna soglia di punibilità, ed è logico perché c’è un elemento chiaro e preciso che diviene un puntuale spartiacque tra il lecito e l’illecito. La seconda è un po’ meno “precisa”, e lì il legislatore ha previsto come soglia di punibilità la cifra di trentamila euro. Interessante è la terza: “dichiarazione infedele”. Questa è la più imprecisa di tutte giacché ricorre in via principale alla nozione di “elementi passivi esistenti”, ed è noto in dottrina e in giurisprudenza che tale formula crea non pochi problemi in sede interpretativa. Proprio questa imprecisione ha indotto il legislatore a contemperare la descrizione dell’illecito con una soglia più alta di punibilità proprio per evitare che venga processato anche chi ha solo commesso degli errori, i quali, si noti, potrebbero anche solo essere l’effetto di una divergenza con l’ente accertatore sui criteri di valutazione degli elementi passivi. Agevole comprendere che più si abbassa la soglia più aumenta il numero di coloro che hanno solo commesso uno sbaglio. Abbassare la soglia a centomila euro è come curare il cancro con una aspirina. Non serve a niente e fa solo male: a parte che come detto aumenteranno i processi a carico di coloro che hanno solo commesso un errore, aumenteranno i costi sociali, e aumenterà il carico riversato sulle procure, che magari non riusciranno neppure più a perseguire chi ha evaso per davvero e in modo consistente. Il punto è che questa non è materia da decreto. È materia da legge delega, che preveda la stesura di un testo unico in materia fiscale, giacché la normativa fiscale è tra le più caotiche: in questo caos v’è spazio per l’elusione (e l’elusione non è reato) che causa una perdita di gettito, secondo alcune stime, non meno grave di quella causata dall’evasione; ma v’è anche spazio per frequenti errori, errori capaci di trasformarsi in un incubo per il contribuente tutte le volte in cui commessi in buona fede. Vogliamo contrastare l’evasione? Rendiamo le norme più chiare: diminuiremo l’acqua in cui nuotano i veri evasori; miglioreremo la qualità della vita dei contribuenti e, perché no, anche quella dei commercialisti. *Senatore M5S. Professore ordinario di Diritto civile. Direttore Dip. di Giurisprudenza, Università “Parthenope” di Napoli “Così la ‘Ndrangheta arruola i bambini soldato” di Amalia De Simone Corriere della Sera, 13 novembre 2019 Armi in mano prima dei dieci anni, visite ai macelli a vedere squartare gli animali, disprezzo per le forze dell’ordine: la testimonianza di un collaboratore di giustizia. Ad oggi il tribunale dei minori di Reggio Calabria ha adottato 60 provvedimenti di allontanamento dalle famiglie nei confronti di 70 minorenni. Aveva meno di dieci anni quando gli misero in mano una pistola. Se lo ricorda perché le dita erano piccole, l’arma pesante e nel tentativo di scarrellare si fece male al pollice. È Luigi Bonaventura, un collaboratore di giustizia che ha preso parte a decine di processi. Ha terminato il suo programma di produzione mentre la sua famiglia è ancora sotto la tutela dello Stato. Lui è stato un bambino soldato della ‘ndrangheta. “Si cresce in famiglie che ti inculcano la subcultura mafiosa con padri e zii che ti indottrinano al culto della famiglia ‘ndranghetista. Cominciano portandoti le armi in casa, insegnandoti a pulirle, a maneggiarle, a caricarle e magari ti fanno ripetere il “giochino”. Poi ti fanno vedere i fucili da assalto e tu che sei piccolo ne rimani affascinato. Assisti a perquisizioni, agli arresti, ti insegnano a disprezzare le forze dell’ordine. Sono tutte cose che alla fine, da bambino, ti condizionano e ti segnano la vita”. Bonaventura ricorda anche che veniva spesso portato al macello dove gli insegnavano a squartare gli animali ad avere confidenza con il sangue. “All’epoca io queste cose non le capivo, poi da grande ho compreso che era un modo per farmi prendere dimestichezza con la morte”. Bonaventura racconta che queste pratiche aiutano quando si commette il primo omicidio: “Fino al momento che spari non senti niente”. Ancora oggi il clan praticano l’educazione criminale nei confronti dei bambini come dimostrano due recenti indagini in Piemonte e in Calabria. Per esempio nelle intercettazioni tratte dagli atti della direzione distrettuale antimafia di Torino, sfociata nelle operazioni “Criminal Consulting” e “Pugno di ferro” dell’ottobre 2019, si sente un uomo che dialoga con dei ragazzini e li invita a sentirsi orgogliosi di appartenere alla ‘ndrangheta. Oppure negli atti di un’inchiesta del settembre 2019 della procura di Reggio Calabria in cui un boss della piana di gioia Tauro addestra il figlio di otto anni al crimine. Nell’ordinanza si legge che il figlio minorenne di uno degli indagati non solo si rivelava consapevole dell’attività svolta dei genitori coinvolti in un commercio di stupefacenti, ma vi partecipava anche suscitando l’ammirazione del padre che osservava orgogliosamente che un giorno “gli avrebbe fatto le scarpe”. Il trafficante di droga parlava tranquillamente con il figlio delle dosi e di armi istruendolo anche su come venivano risolti i contrasti con i fornitori internazionali. “Che facevano ? una guerra succedeva qua - diceva - avevano Kalashnikov tutto così lo potevi ammazzare lo sotterravi e non sapeva niente nessuno invece i colombiani venivano qua e sai che facevano? il macello”. Il presidente del tribunale di minori di Reggio Calabria Roberto di Bella dopo aver visto per anni bambini utilizzati nel trasporto di droga e di armi o nella cura dei latitanti ha cominciato a sperimentare provvedimenti di allontanamento dei minori dalle famiglie di ndrangheta. Provvedimenti che ovviamente valutano situazioni caso per caso. Ad oggi il tribunale dei minori di Reggio Calabria ha adottato 60 provvedimenti di allontanamento dalle famiglie nei confronti di 70 minorenni. Al momento 30 nuclei familiari hanno abbandonato la Calabria dissociandosi dalle logiche criminali. “Mi ricordo di un ragazzino coinvolto a pieno titolo dell’attività della sua famiglia e che era costretto a trasportare armi da guerra e ad assistere al taglio delle dosi di droga. Ora il padre in carcere ed il ragazzino in un’altra località ed è finalmente libero, libero di studiare, di muoversi, di essere, ora che è più grande, un adolescente normale”. Di Bella ha portato questa sua esperienza in un libro di recente pubblicazione “Liberi di scegliere”, dove racconta le storie di questi ragazzi, i loro traumi e i loro sogni. “Anche noi collaboratori di giustizia in qualche modo abbiamo portato via i nostri figli dai tentacoli dei clan. Loro fanno una vita di sacrifici, che non hanno scelto, rischiando la vita per gli errori che noi abbiamo commesso e subendo una serie di disfunzioni e difficoltà”. Spiega Bonaventura che grazie anche al sostegno di sua moglie ha fondato l’associazione sostenitori dei collaboratori e testimoni di giustizia e sta creando una ong per difendere i minori che crescono negli ambienti mafiosi “Stop mafia’s children soldiers”. “Noi togliamo i nostri figli dalle origini per portarli in un ambiente migliore - spiega Giovanni Sollazzo, tesoriere del comitato sostenitori dei collaboratori e testimoni di giustizia - in quanto nelle nostra terra potrebbero diventare possibile manovalanza della criminalità organizzata. Quindi li sradichiamo da quel territorio e li portiamo in un territorio sano ma in un certo senso anche a loro ostile, perché vengono esposti a molti pericoli e a molte discriminazioni: dobbiamo insegnargli a dire le bugie perché non possono dire il papà che lavoro fa, non possono dire da dove vengono né dove abitano, non possiamo avere il nome sul citofono di casa e a scuola sono facilmente individuabili. Per questo ci sarebbe bisogno di maggiore attenzione da parte del legislatore nei confronti dei familiari dei collaboratori e dei testimoni di giustizia perché possano avere una vita normale”. Spesso però i ragazzini raggiungono una maturità ed una sensibilità a volte inaspettata: “Era la festa del papà - racconta Luigi Bonaventura - e ricevetti una lettera dai miei figli. C’erano scritte tante cose belle mi ringraziavano per le cose che riuscivo a dargli, per i regali e per l’affetto. Sembrava una lettera ordinaria di bambini normali. Invece alla fine c’era la sorpresa, perché nelle ultime righe scrissero: papà grazie soprattutto perché non ci hai condotto verso il percorso di una vita criminale”. Processo Cucchi, domani le sentenze. Depistaggio, cambia il giudice di Eleonora Martini Il Manifesto, 13 novembre 2019 Si conclude il processo ai medici e quello ai carabinieri responsabili del pestaggio. Il magistrato Bona Galvagno ammette di non essere idoneo a giudicare i graduati dell’Arma. Ha ammesso egli stesso di essere un ex carabiniere in congedo e dunque di non essere idoneo a giudicare gli otto graduati dell’Arma accusati a vario titolo di aver coperto la verità e di aver depistato le indagini sulla morte di Stefano Cucchi. Perciò il giudice Federico Bona Galvagno si è astenuto, ieri, accettando l’istanza avanzata dalla famiglia del giovane geometra romano. A questo punto il processo inizierà il 16 dicembre prossimo, ma già si prevede una temperatura altissima nelle aule di Piazzale Clodio dove i difensori del generale Alessandro Casarsa, il più alto in grado degli otto imputati, hanno presentato nella lista dei testi tra gli altri il generale Vittorio Tomasone, all’epoca numero uno del Comando provinciale, e addirittura il sostituto procuratore Vincenzo Barba, il primo pm che si è occupato del caso. Il magistrato romano condusse però indagini che hanno portato su una pista ritenuta sbagliata evidentemente non solo dalla famiglia Cucchi, non a caso ritiratasi dal primo processo, quello ai cinque medici dell’ospedale Pertini che domani arriverà alla terza sentenza in Corte d’Appello, dopo due rinvii della Cassazione per annullamento delle assoluzioni. E per uscire da quel vicolo cieco che non voleva affrontare il nodo di “pestaggio di Stato” tenuto nascosto per dieci lunghissimi anni, ci volle la determinazione di una famiglia, la tenacia di una sorella e l’impegno del procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone e del pm Giovanni Musarò. Un impegno che invece per l’avvocata Maria Lampitella, difensore di Raffaele D’Alessandro, uno dei due carabinieri accusati di omicidio preterintenzionale nel processo bis, è un “elefantismo investigativo arrivato a livelli inammissibili”. Dice proprio così, l’avvocata, nella sua arringa finale pronunciata ieri nell’aula bunker di Rebibbia, prima della sentenza prevista sempre per domani. E ammette candidamente di avere “un’unica remora: avrei dovuto chiedere - afferma l’avvocata Lampitella - il rito abbreviato per il mio assistito, prima che il pm Musarò cambiasse il capo d’imputazione da lesioni a omicidio”, in seguito alla testimonianza di esperti medico-legali. Sono ore decisive dunque, queste, per una famiglia che si dice “allo stremo delle forze”. Lo scrive su Facebook Ilaria Cucchi: “Mamma e papà sanno già di essere condannati all’ergastolo di processi che si protrarranno fino alla fine della loro vita”. La giornata di ieri però è stata proficua per due ragioni: per l’astensione ottenuta dal giudice Bona Galvagno e per l’ammissione del pestaggio da parte degli stessi difensori dei principali imputati del processo bis. Nessuno più ormai mette in dubbio l’esatta dinamica degli eventi, nessuno nega più le violenze. Semmai quel che gli avvocati di Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro - gli unici imputati ad essere accusati di omicidio preterintenzionale e per i quali la procura ha chiesto 18 anni di carcere (mentre Francesco Tedesco, Roberto Mandolini e Vincenzo Nicolardi devono rispondere a vario titolo dell’accusa di falso) - hanno tentato di dimostrare nelle loro arringhe difensive è che non c’è alcun nesso di causalità tra le botte subite dal giovane arrestato per spaccio la notte del 15 ottobre 2009 e la sua morte avvenuta il 22 ottobre. È un momento delicato, perché la prima Corte d’Assise deciderà domani se riconoscere che il “pestaggio degno di teppisti da stadio” era stato eseguito dai due carabinieri senza preoccuparsi delle conseguenze potenzialmente mortali, come sostiene il pm Giovanni Musarò, o se dare ragione alle difese che viceversa vorrebbero rigettare la palla nella direzione dalla quale è arrivata e far discendere la morte di Cucchi da “altri eventi intervenuti durante l’ospedalizzazione”, come sostenuto dall’avvocata Antonella De Benedictis che difende Alessio Di Bernardo. Secondo la legale, deve essere riconosciuto “il disvalore penale della condotta” dei due carabinieri-picchiatori. Inoltre, dice l’avvocata, “se è vero che la lesione alla colonna ha causato la vescica neurologica, bisogna ammettere però che il globo vescicale, causa della morte, si è creato dopo, per colpa di un infermiere. Nel momento in cui il catetere è stato inserito - conclude l’avvocata - automaticamente si è interrotto il nesso tra il pestaggio e la morte”. La richiesta per D’Alessandro e Di Bernardo è, naturalmente, di assoluzione o in subordine la derubricazione del reato in lesioni, le attenuanti e il minimo della pena. “Ascoltando i difensori degli imputati che oggi ammettono tranquillamente il pestaggio inflitto a Stefano - scrive Ilaria Cucchi - non posso non pensare quanto esso sia stato ostinatamente negato dal prof. Paolo Arbarello, consulente della Procura nominato per l’autopsia. Non posso non pensare alla prima perizia Grandi - Cattaneo che ipotizzando anche la caduta ha fatto morire mio fratello di fame e di sete. Non posso non pensare al braccio di ferro tra la Corte d’Assise di Appello e la Corte di Cassazione sulla responsabilità dei medici per la sua morte. La prima assolve e riassolve. La seconda annulla e riannulla quelle assoluzioni. Un rimpallo di 4 sentenze”. Ora c’è solo da attendere. Domani, 14 novembre. “Spazza-corrotti”, adire la Consulta non salva dal carcere di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 13 novembre 2019 Non si può aggirare la legge “spazza-corrotti” e stabilire la scarcerazione di chi è stato condannato per reati contro la Pa. Non quando la Corte costituzionale ancora deve pronunciarsi. La Cassazione, con la sentenza n. 45319, depositata lo scorso 7 novembre, ha stabilito che non può essere disposta la sospensione della pena detentiva inflitta per peculato in attesa del giudizio della Consulta. I fatti: il tribunale di Brindisi ha condannato nel marzo del 2015 un uomo a 2 anni e 8 mesi per diversi episodi di peculato, consumato e tentato; nell’aprile di quest’anno il Pubblico ministero ha emesso l’ordine di carcerazione senza procedere alla sospensione prevista dal Codice di procedura penale. Dal 2019 è infatti in vigore la legge n. 3, che esclude la gran parte dei reati contro la Pa, compreso il peculato, dal beneficio della sospensione della pena. In sede di incidente di esecuzione, la difesa ha chiesto la dichiarazione di temporanea inefficacia dell’ordine di carcerazione e che venisse sollevata questione di legittimità costituzionale della legge “spazza-corrotti” nella parte in cui restringe l’area dei beneficiari della sospensione. Punto, quest’ultimo, accolto dal Tribunale che ha investito la Corte costituzionale della decisione, ma semaforo rosso invece davanti alla domanda di scarcerazione in attesa del verdetto della Consulta, perché altrimenti si permetterebbe al giudice di anticipare gli effetti della pronuncia di costituzionalità. La difesa ha fatto ricorso alla Cassazione, sottolineando, tra l’altro, che, la pena sarebbe stata quasi interamente scontata prima del giudizio della Consulta. La Cassazione ha però considerato infondata l’impugnazione, sostenendo l’impossibilità di individuare nell’ordinamento una soluzione che possa permettere di anticipare gli effetti di una dichiarazione di incostituzionalità. La tutela cautelare infatti sul punto appare problematica e impervia l’applicazione in via analogica dell’articolo 670 del Codice di procedura penale sulle questioni che riguardano il titolo esecutivo, dopo che il giudice ha sollevato la questione di costituzionalità. “Anche in tale ipotesi - osserva la Consulta -, infatti, il menzionato principio del sindacato accentrato di costituzionalità non consente al giudice a quo, che abbia investito la Consulta della relativa questione, per questa via spogliandosi della potestà decisoria, di riappropriarsene sia pure a fini soltanto cautelari”. Come pure, chiude il cerchio la Corte di legittimità, non è possibile un’applicazione analogica dell’articolo 666, comma 7, del Codice di procedura penale che permette al giudice di decidere la sospensione in caso di presentazione di ricorso. L’analogia infatti, spiega la sentenza, costituisce un procedimento interpretativo attraverso il quale una norma estende il suo ambito applicativo oltre i casi espressamente previsti, per andare a disciplinare situazioni estranee ma in rapporto alle quali si può individuare una corrispondenza delle ragioni giustificative. Tuttavia l’analogia non si applica alle misure che fanno eccezione a regole generali. Ed è proprio il caso dell’articolo 666, comma 7, che introduce la possibilità di sospensione in caso di ricorso come eccezione alla disciplina generale che non prevede lo stop. Richiedente asilo coinvolto in una rissa non può essere punito con revoca vitto e alloggio Il Sole 24 Ore, 13 novembre 2019 Cgue - Granze sezione - Sentenza 12 novembre 2019 causa C-233/18. Un richiedente protezione internazionale colpevole di una grave violazione delle regole del centro di accoglienza presso cui si trova o di un comportamento gravemente violento non può essere sanzionato con la revoca delle condizioni materiali di accoglienza relative all’alloggio, al vitto o al vestiario. Nella sentenza Haqbin (C-233/18), pronunciata il 12 novembre 2019, la Grande Sezione della Corte si è espressa per la prima volta sulla portata del diritto conferito dall’articolo 20, paragrafo 4, della direttiva 2013/33 agli Stati membri di stabilire le sanzioni applicabili quando un richiedente protezione internazionale si sia reso colpevole di una grave violazione delle regole del centro di accoglienza presso cui si trova o di un comportamento gravemente violento. La Corte ha giudicato che la disposizione in parola, letta alla luce dell’articolo 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, non consente agli Stati membri di d’infliggere in siffatto caso una sanzione consistente nel revocare, seppur temporaneamente, le condizioni materiali di accoglienza del richiedente relative all’alloggio, al vitto o al vestiario. Il caso esaminato - Un cittadino afghano è arrivato in Belgio come minore non accompagnato. Dopo aver presentato domanda di protezione internazionale, è stato ospitato in un centro di accoglienza. In detto centro è stato coinvolto in una rissa fra residenti di origini etniche diverse. A seguito di tali fatti, il direttore del centro di accoglienza ha deciso di escluderlo, per un periodo di 15 giorni, dall’assistenza materiale in un centro di accoglienza. Nel corso di detto periodo d’esclusione, il rifugiato, secondo le sue stesse dichiarazioni, ha trascorso le notti in un parco a Bruxelles e presso amici. In siffatte circostanze, il giudice del rinvio, adito di un appello del cittadino afgano avverso la pronuncia di primo grado che respingeva il suo ricorso contro la decisione di esclusione, ha sottoposto alla Corte questioni vertenti sulla possibilità per le autorità belghe di ridurre o revocare le condizioni materiali di accoglienza di un richiedente protezione internazionale nella situazione del cittadino afgano. Peraltro, in considerazione della particolare situazione di quest’ultimo, sorge la questione delle condizioni alle quali una sanzione del genere possa essere inflitta al minore non accompagnato. La posizione della Cgue - La Corte ha innanzitutto precisato che le sanzioni di cui all’articolo 20, paragrafo 4, della direttiva 2013/33 possono, in linea di principio, riguardare le condizioni materiali di accoglienza. Sanzioni del genere devono nondimeno, conformemente all’articolo 20, paragrafo 5, della stessa direttiva, essere obiettive, imparziali, motivate e proporzionate alla particolare situazione del richiedente, e devono, in tutte le circostanze, salvaguardare un tenore di vita dignitoso. Orbene, una revoca, seppur temporanea, del beneficio di tutte le condizioni materiali di accoglienza o delle condizioni materiali di accoglienza relative all’alloggio, al vitto o al vestiario sarebbe incompatibile con l’obbligo di garantire al richiedente un tenore di vita dignitoso. Una simile sanzione priverebbe infatti quest’ultimo della possibilità di far fronte ai suoi bisogni più elementari. Inoltre, violerebbe il requisito di proporzionalità. La Corte ha aggiunto che gli Stati membri hanno l’obbligo di assicurare in modo permanente e senza interruzioni un tenore di vita dignitoso e che le autorità incaricate dell’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale devono assicurare, in modo regolato e sotto la propria responsabilità, un accesso alle condizioni di accoglienza idoneo a garantire tale tenore di vita. Esse non possono quindi limitarsi, come intendevano fare le autorità competenti belghe, a fornire al richiedente escluso un elenco di centri privati per i senzatetto che avrebbero potuto accoglierlo. Relativamente ad una sanzione consistente nel ridurre le condizioni materiali di accoglienza, come la revoca o la riduzione del sussidio per le spese giornaliere, la Corte ha precisato che spetta alle autorità competenti assicurare in ogni circostanza che una sanzione del genere sia, tenuto conto della situazione particolare del richiedente e di tutte le circostanze del caso di specie, conforme al principio di proporzionalità e non violi la dignità del richiedente di cui trattasi. A tale riguardo, essa ha ricordato che gli Stati membri possono, nei casi di cui all’articolo 20, paragrafo 4, della direttiva 2013/33, prevedere misure diverse da quelle vertenti sulle condizioni materiali di accoglienza, come la collocazione del richiedente in una parte separata del centro di accoglienza o il suo trasferimento in un altro centro di accoglienza. Le autorità competenti possono peraltro decidere il trattenimento del richiedente, nel rispetto delle condizioni enunciate dalla direttiva in parola. Allorché il richiedente è un minore non accompagnato, e quindi una persona vulnerabile ai sensi della direttiva 2013/33, le autorità nazionali devono, nell’adottare sanzioni a titolo dell’articolo 20, paragrafo 4, della medesima, tenere maggiormente conto della situazione particolare del minore e del principio di proporzionalità. Dette sanzioni devono, in considerazione, segnatamente, dell’articolo 24 della Carta dei diritti fondamentali, essere adottate tenendo conto con particolare riguardo dell’interesse superiore del minore. La direttiva 2013/33 non osta peraltro a che le autorità menzionate decidano di affidare il minore interessato ai servizi o alle autorità giudiziarie preposte alla tutela dei minori. Napoli. “Costruite subito il carcere di Nola, Poggioreale e Secondigliano sono trappole” di Pasquale Carotenuto ilfattovesuviano.it, 13 novembre 2019 “I frigoriferi, a Poggioreale, ci sono da luglio. Al carcere di Secondigliano abbiamo consegnato tutto quello che serve per allestire due stanze, proprio perché, da settembre, è nato il Polo universitario, in collaborazione con la Federico II”. Lo ha dichiarato Samuele Ciambriello, Garante dei detenuti della Campania, durante la trasmissione “Barba e capelli” di radio Crc. “Abbiamo portato il materiale, attraverso i finanziamenti della Regione - ha proseguito Ciambriello. È un risalutato importantissimo. Ci sono più di 60 ragazzi che studiano. Poggioreale? 2.108 distretti. C’è stata una protesta legittima dei detenuti. Ci sono sempre 550 detenuti in più rispetto alla capienza ordinaria. Voglio denunciare una cosa: il Governo di prima dormiva, quello di adesso non so come svegliarlo. Tre anni fa il ministro delle Infrastrutture ha dato 12 milioni al provveditorato regionale delle opere pubbliche. In tre anni questo provveditorato ha fatto solo due sopralluoghi per attuare le manutenzioni mai avvenute. Non condivido la costruzione di nuove carceri, ma meno persone dovrebbero andare in carcere. Costruissero questo nuovo carcere a Nola. Fate qualcosa, oppure volete che questa miccia prima o poi, scoppi? Questa immagine sociale che chiunque varchi il portone di Poggioreale sia colpevole è sbagliata. I cellulari, nelle celle, sono oggetti non consentiti. Chi vuole che si parli dei cellulari? Coloro che non regolamentano. Non si mettono in condizioni i detenuti di essere in contatto con le loro famiglie”. “Lancio un appello - ha concluso Ciambriello - chi deve scontare unicamente un anno in carcere, possiamo dargli una pena alternativa?”. Roma. “Mio figlio bipolare in cella. È malato, non ce la fa più” di Marino Bisso La Repubblica, 13 novembre 2019 Da sette mesi è dietro alle sbarre per un furto da 60 euro compiuto perché quando assume droghe diventa un’altra persona. Non si controlla più perché è affetto dal disturbo bipolare, una patologia psichiatrica che alterna fasi depressive a fasi maniacali di eccitazione. I soggetti che ne soffrono sono spesso inconsapevoli. Da anni sua madre lotta perché venga ricoverato e curato in strutture adeguata i Rems (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza) e non lasciato in una cella. Lei è Loretta Rossi Stuart, sorella dell’attore Kim: “Giacomo l’ho visto ieri, resiste ma non ce la fa più. Da mesi, mio figlio è costretto a stare dietro le sbarre a Rebibbia perché non ci sono posti in una Rems. Non possiamo più tollerare che sia ancora lì devono dialogare i vari servizi”. I soggetti in questione sono il Serd (Servizi per le Dipendenze patologiche), il Cim (Centro igiene mentale) e Rebibbia. “Il magistrato che segue Giacomo è pronto a trovare una soluzione ma ancora la risposta non sta arrivando, io l’aspetto”. Non si da pace Loretta che ieri ha denunciato, per l’ennesima volta, il dramma che sta vivendo durante la presentazione del docu-film “Io combatto” dedicato proprio alla sua battaglia per il figlio Giacomo Seydou Sy, un ragazzo bipolare costretto a stare in carcere per mancanza di posti nelle Rems. La sua storia è stata racconta alla Fondazione Don Di Liegro, alla presenza di Gabriella Stramaccioni, Garante Detenuti del Comune, Giusy Gabriele, presidente di Psichiatria Democratica e dell’assessore alla Sanità del Lazio, Alessio D’Amato. Al centro dell’incontro non solo la storia di Giacomo ma la necessità di potenziare le Rems e la vera attuazione della riforma che ha chiuso gli ospedali psichiatrici giudiziari. “Giacomo è un ragazzo di 25 anni, con la passione del pugilato e del rap. Non è un criminale ma un ragazzo bipolare che appena tocca la droga va fuori di testa - spiega la madre, che da sette anni lotta per curarlo - Ho fatto il possibile come madre ma non sono riuscita a fare anche il padre. A mio figlio continuo a dire “combatti e sali sul podio della vita”. “Giacomo è sequestrato all’interno di un carcere, sta in un posto dove non dovrebbe stare - commenta il Garante, Gabriella Stramaccioni - Il magistrato da un anno ha prescritto l’inserimento in una Rems ma da gennaio a oggi i posti non si sono liberati. E così Giacomo si ritrova rinchiuso a Rebibbia. La permanenza in carcere è dannosa per lui. Il nostro è un grido per i tanti Giacomo che troviamo nelle carceri. Parliamo di numeri contenuti una media dì 40-50 persone nel Lazio che aspettano di essere curate in luoghi idonei”. L’assessore alla Sanità Alessio D’Amato spiega che c’è bisogno anche di strutture intermedie, più flessibili anche per reati minori. “Su questo tema c’è stata un’apertura a ragionare da parte della magistratura, va capito bene il profilo del paziente che può andare in queste strutture e soprattutto quali sono i profili di sicurezza che la magistratura ci richiede. La legge nazionale codifica la Rems ma non le strutture intermedie. Penso che riusciremo a partire nei primi mesi del 2020”. Sulla vicenda interviene anche Ignazio Marino, ex senatore già a capo della commissione che portò alla chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari. “Quello che sta avvenendo a un ragazzo che si trova in carcere invece che in luogo idoneo alle cure, oggi, grazie alla nostra giurisprudenza e alla legge che abbiamo introdotto, è illegale. Non si può chiudere in carcere una persona che è stata riconosciuta come incapace di intendere e di volere, quella persona deve essere curata con la dignità che spetta a ogni essere umano”. Napoli. Da vittima a testimone. “Così in carcere converto i camorristi” di Antonio Maria Mira Avvenire, 13 novembre 2019 Giuseppe Miele aspetta ancora giustizia per la morte del fratello Pasquale, ucciso dalla camorra trenta anni fa. Ma non ha atteso per perdonare gli assassini del fratello. “Mi ha aiutato il mio cammino di fede”, spiega in occasione dell’incontro con le scuole organizzato per ricordare quel drammatico giorno. E racconta come quel perdono lo porta anche in carcere, incontrando tanti detenuti di Secondigliano, camorristi compresi. “Lo faccio per mio fratello. Così Pasquale è ancora vivo, malgrado quel terribile giorno”. Era il 6 novembre 1999. Una notte di tempesta a Grumo Nevano, paesone a nord di Napoli. Pioggia, vento, tuoni. La famiglia Miele, piccoli imprenditori tessili, raccolta davanti al televisore, non si accorge di un rumore diverso. Ma più tardi vedono a terra i vetri rotti di una finestra. Pasquale si avvicina. Un secondo colpo risuona nella notte. E un pallettone partito da un fucile a canne mozze lo colpisce al collo. Per il giovane non c’è niente da fare. Muore dissanguato in pochi minuti. Ucciso per aver detto ‘no’ alle violente pretese del clan. Muore davanti ai genitori. Aveva appena 27 anni, era fidanzato, il matrimonio già fissato per sette mesi dopo. Vittima innocente delle mafie, uno dei più di mille nomi che ogni 21 marzo vengono letti in tante piazze italiane in occasione della Giornata della memoria e dell’impegno, promossa da Libera. Per il 75 per cento di loro non si è avuto verità e giustizia, come ha nuovamente denunciato don Luigi Ciotti, nell’incontro con le scuole. E lo è stato anche per Pasquale. Processualmente non sono stati identificati né gli esecutori né i mandanti. “Nessuno ci è venuto a dire cosa sia successo quella notte. Chi ha sparato. Chi lo ha mandato. Si sono incolpati l’un l’altro, e così i colpevoli non sono stati individuati. Nessuno. Così l’omicidio di mio fratello è stato messo in disparte, dimenticato”. Ma Pasquale non può, non deve essere una “vittima di serie B”. Così Giuseppe, fratello maggiore (allora aveva 29 anni), si è impegnato a tenere viva la memoria. “Vado nelle scuole, incontro tanti giovani, per raccontare la storia di un giovane come loro”. Organizza incontri, manifestazioni, corse podistiche, biciclettate, per non far dimenticare il nome del fratello. Sempre presente alle iniziative del coordinamento regionale di Libera memoria, che unisce tanti familiari delle vittime innocenti della camorra. E lo fa anche in carcere. Andando a parlare di perdono, “come ho fatto in tribunale, quando per la prima volta sono stato chiamato a testimoniare”. Poi nel 1995, appena sette anni dopo la violenta morte del fratello più piccolo, inizia l’impegno tra i detenuti. “All’interno del cammino neocatecumenale, ho accettato l’invito del cappellano di Secondigliano a fare catechesi ai detenuti. Prima in infermeria, poi nei vari padiglioni, anche tra i camorristi”. All’inizio non è stato facile. “Facevamo la catechesi sul perdono ma non erano molto attenti. Allora il cappellano mi ha chiesto di raccontare la storia di mio fratello. Non si sentiva volare una mosca”. I detenuti ascoltavano con attenzione quel giovane che ricordava la morte violenta del fratello ma che parlava di perdono. E quelle parole lasciavano il segno. Anche nei boss. “Alla fine un capo zona si fermò e mi disse: ‘Speriamo che prima di uscire il Signore mi faccia capire cosa devo fare”. Lui avrebbe voluto vendicarsi dell’uccisione di un familiare, ma il mio racconto del perdono, malgrado la morte di Pasquale, aveva messo in dubbio le sue certezze. “Vieni proprio qui da noi a parlare di perdono”, mi disse”. Quegli incontri, quelle parole di Giuseppe, quel suo perdonare avevano rivoltato le vite dei camorristi. Ma Giuseppe sa di non essere solo. “Siamo in tanti familiari di vittime innocenti a impegnarci nelle carceri. Noi gettiamo solo il seme, poi è il Signore a fare il raccolto”. Non si sente un eroe, né un primo della classe. Come tanti familiari di vittime innocenti, non cerca le luci dei riflettori. Una vita semplice, modesta, la moglie sempre al suo fianco, cinque figli, uno porta il nome di Pasquale. Mi accolgono e raccontano una vita dura, non facile, con la camorra tornata a chiedere il pizzo anche venti anni dopo, non sazia di quella morte. Ma anche questa volta hanno trovato una netta risposta di rifiuto, come allora. È quello che Giuseppe va a raccontare, perdono e giustizia. “Questo mi aiuta. Se non avessi fatto tutto questo non so cosa avrei fatto della mia vita. E tutto questo rende mio fratello ancora vivo. Ma almeno fatemi sapere chi lo ha ucciso. Penso sia un nostro diritto. L’ho già perdonato”. Genova. “Messa alla prova”, come riparare senza il carcere Il Secolo XIX, 13 novembre 2019 Il Tribunale di Genova ha sottoscritto l’Accordo di rete per l’istituto di messa alla prova “come espressione di educazione alla legalità e di responsabilità verso la comunità”, aprendo due sportelli di informazione ai cittadini (uno al Tribunale di Genova, l’altro al l’ex tribunale di Chiavari). Possono accedere alla misura, sotto determinate condizioni i soggetti imputati per i reati puniti conia sola pena pecuniaria o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria, nonché per i delitti indicati dal comma 2 dell’articolo 550 del Codice di procedura penale. Sospeso il procedimento, l’imputato viene affidato all’ufficio di esecuzione penale esterna (Uepe). Le attività prevedono il lavoro per pubblica utilità, il risarcimento e la mediazione con la vittima. Bolzano. Nuovo carcere, 3 anni di ritardi. La rabbia di Kompatscher di Francesca Gonzato Alto Adige, 13 novembre 2019 Il presidente della Provincia: “Le verifiche giuridiche ci dicono che non possiamo uscire dagli accordi con Condotte” E ancora “la vecchia struttura è in condizioni inaccettabili per il personale e i detenuti, ma abbiamo le mani legate”. Il cantiere del nuovo carcere non è nemmeno all’orizzonte. Una situazione di stallo, legata alla crisi della società Condotte, diventata insopportabile. “Siamo in ritardo di tre anni. È inaccettabile, quando conosciamo le condizioni in cui si trova il carcere di via Dante. Dobbiamo pensare a chi vi lavora, ai detenuti e ai volontari”, è lo sfogo del presidente Arno Kompatscher, che racconta, “avevo pensato di invitare il ministro della Giustizia Bonafede per fargli visitare il carcere, ma purtroppo neppure il ministro potrebbe fare qualcosa. L’avvio del cantiere del nuovo carcere in zona Agruzzo di San Giacomo è una vicenda giuridico-amministrativa”. E come Provincia, aggiunge Kompatscher, “abbiamo le mani legate”. Condotte ha vinto la gara per il Ppp (partenariato pubblico-privato) con un progetto da 170 milioni di euro che riguarda sia la costruzione che la gestione del carcere per 18 anni. Nel frattempo il colosso edilizio è finito in regime di amministrazione straordinaria, complicando tutti i propri progetti, tra cui i due bolzanini, il nuovo carcere e il polo bibliotecario. Condotte è ancora in pista, nonostante le difficoltà. La Provincia ha verificato la possibilità di uscire dagli impegni con Condotte, facendo subentrare le società arrivate seconde nelle gare. “Gli approfondimenti giuridici sembrano escludere questa via. Ad ogni scadenza, Condotte ha presentato la minima documentazione necessaria per restare in campo. E i mesi si accumulano”, spiega Kompatscher, che non fa più previsioni sui tempi del cantiere, che era stato annunciato nel 2019. Non c’è ancora la firma definitiva sul contratto. La Provincia ha effettuato da tempo la gara per il soggetto incaricato di verificare la congruità del progetto di Ppp. “Siamo in attesa dei risultati”, informa Eros Magnago, segretario generale della Provincia. L’iter prevede, tra l’altro, la verifica dei requisiti di Condotte, poi verrà firmato il contratto e partirà la progettazione esecutiva. “Alla firma del contratto Condotte dovrà versare le fideiussioni calcolate sull’importo dell’appalto”, ha anticipato Paolo Montagner, capo dipartimento dell’assessore Massimo Bessone. Con il contratto firmato e il progetto esecutivo approvato, potrà iniziare il cantiere. Con l’eccezione di ciò che riguarda la sicurezza e la custodia, Condotte si farà carico dei servizi interni, dalle pulizie alla mensa, manutenzioni e riscaldamento. A sua volta la Provincia deve ancora trovare una intesa finanziaria con i ministeri. “Se la Provincia dovrà finanziare costi come le manutenzioni, allora quelle cifre andranno scomputate all’interno del nostro accordo finanziario con lo Stato”, anticipa Magnago. Ancona. Polo professionale a Barcaglione, corso aiuto cuoco ansa.it, 13 novembre 2019 Protocollo con Regione e Garante, formazione per 16 e 3 uditori. Un corso qualificante come aiuto cuoco inaugura il Polo professionale del penitenziario di Ancona-Barcaglione, primo esempio strutturato nelle Marche con lo scopo di facilitare il reinserimento dei detenuti nella società. Presto verrà attivato anche un corso di meccanica. È già partita l’attività, finanziata con 72.900 euro del Fondo sociale europeo, per 16 ospiti del carcere (ci sono anche tre uditori) da formare come aiuto cuoco, figura che supporta lo chef nelle varie fasi di preparazione dei piatti: 600 ore di didattica - sei ore al giorno per quattro giorni ogni settimana - forniranno una qualifica spendibile all’esterno. L’iniziativa ha visto impegnati il Garante dei diritti, Andrea Nobili, la Regione, il provveditorato dell’amministrazione penitenziaria E-R e Marche per istituire il polo professionale e per avviare i corsi. Non è un’attività “spot”, ha rimarcato Manuela Ceresani, la direttrice del penitenziario, ma una formazione che avrà “continuità” grazie alla “sinergia tra le istituzioni”. Il progetto è stato presentato all’interno del penitenziario dai protagonisti dell’iniziativa, alla presenza dei detenuti che frequenteranno in corso, pronti con cappelli e divise da cuoco. A Barcaglione, carcere con custodia attenuata, sono detenute persone che scontano pena definitiva inferiore a otto anni. Nel tempo i vari corsi coinvolgeranno via via i detenuti presenti nella struttura, prevedendo anche stage interni ed esterni: il primo, ha detto Nobili, non riguarda per caso la cucina, eccellenza nelle Marche, che offre “opportunità vere di lavoro”. “È il primo esempio di avvio di un polo formativo professionale in un penitenziario regionale” ha ricordato e vuole dare un “messaggio controcorrente. Siamo convinti che la pena abbia finalità rieducativa, chi ha commesso un errore deve avere opportunità di riscattarsi nella società”. L’assessore al Lavoro Loretta Bravi, ha spiegato il dirigente del settore Formazione, ha creduto nel progetto: la Regione mette risorse Fse e docenti nell’ambito di un investimento programmato che riguarda la filiera agroalimentare. Da anni a Barcaglione è attiva una fattoria alimentare, ora si potrà coniugare con cucina di prodotti a km zero. Sassari. Corsi e diplomi ai detenuti per una seconda possibilità sassarioggi.it, 13 novembre 2019 Il progetto di formazione e riscatto sociale “Liberi nello sport”, organizzato dal Csen Sardegna, in collaborazione con le direzioni tre degli istituti di pena isolani, taglia il traguardo. Dopo sette mesi di lezioni teoriche e pratiche i trenta detenuti delle carceri di Sassari, Nuoro e Cagliari, coinvolti nel programma, stringeranno fra le mani i loro diplomi di Istruttore di body building e fitness, e le abilitazioni al primo soccorso con l’uso di defibrillatore semiautomatico, conseguite grazie al corso Blsd. La consegna degli attestati si svolgerà il 4 dicembre nel penitenziario di Sassari, il 5 in quello di Nuoro e il 6 dicembre in quello di Cagliari. Mercoledì 4 dicembre, alla cerimonia che si svolgerà alle ore 10 nel carcere di Bancali, alla presenza della direttrice della struttura, Elisa Milanesi, del comandante della Polizia penitenziaria, dei presidenti nazionale e regionale del Csen, Francesco Proietti e Francesco Corgiolu, sono invitati i giornalisti, ai quali sarà illustrata l’attività svolta nel corso del programma di formazione. I corsi sono stati suddivisi in quattro moduli formativi per un totale di 56 ore più 4 di esame finale, per far acquisire ai detenuti che hanno aderito al progetto la capacità di progettare un programma di allenamento che integri le fasi di riscaldamento con le fasi di fitness cardiovascolare e/o di dimagrimento con delle attività isotoniche, fino ad arrivare alle fasi di defaticamento, che spesso includono anche lo stretching. Per favorire il processo di insegnamento e apprendimento si è scelto di utilizzare metodologie didattiche attive, comprendenti lezioni frontali, discussioni, dimostrazioni, esercitazioni e tirocinio. All’interno del progetto il Csen Sardegna ha fornito alle tre carceri e poi donato il materiale tecnico per poter allestire una palestra utilizzabile da qualsiasi detenuto, e ha regalato anche dell’abbigliamento sportivo a tutti i partecipanti al progetto. Con il conseguimento del diploma, dieci detenuti per ogni carcere avranno la possibilità di avere un titolo riconosciuto che li proietterà nel mondo del lavoro attraverso lo sport. Infatti, con il diploma Nazionale di Istruttore di Body Building e Fitness, potranno lavorare in tutti quei centri sportivi e non, dove è prevista la figura del Tecnico sportivo. Inoltre, grazie al ciclo di lezioni seguite, i 30 allievi hanno avuto modo di sviluppare un’educazione corporea e motoria per l’affermazione di abitudini sane nella quotidianità carceraria, uscendo dal sedentarismo, la consapevolezza della salute psicofisica, il recupero dello schema corporeo, la valorizzazione espressiva e comunicativa del corpo stesso, nonché la possibilità di acquisire una cultura sportiva fondata sui valori della continuità, della pratica, dell’autodisciplina e dell’aggregazione. Milano. Venerdì l’incontro “Il carcere, la sua umanità, il teatro e la misura” milanotoday.it, 13 novembre 2019 Il teatro della Casa di Reclusione di Milano Opera apre a BookCity per una serata speciale: la presentazione di due libri importanti con il laboratorio della compagnia Opera Liquida È possibile l’umanità all’interno delle carceri? Qual è il vero impatto delle attività di rieducazione delle persone detenute? Se ne parlerà venerdì 15 novembre, alle ore 18, presso la Casa di Reclusione di Milano Opera, che aprirà per la prima volta le proprie porte a un’iniziativa organizzata insieme a BookCity Milano per offrire alla città un’esperienza speciale, quella di potersi confrontare con un pubblico e una compagnia teatrale composti dagli stessi detenuti ed ex detenuti di media sicurezza. Sul palcoscenico del grande teatro che ospita il lavoro della compagnia Opera Liquida, insieme al direttore della Casa di Reclusione Silvio Di Gregorio, interverranno gli autori di due libri che ben indagano la nostra realtà penitenziaria. La galera ha i confini dei vostri cervelli, (Itaca ed.), scritto da Pietro Buffa, Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per la Regione Lombardia, è dedicato “a chiunque dia importanza alle emozioni che la sofferenza e la costrizione penale, con tutte le sue contraddizioni, comportano per tutti coloro che vivono o lavorano in un carcere”. Misurare l’impatto sociale. Sroi e altri metodi per il carcere, (Egea ed.), nato da un lungo e approfondito studio dell’Università Bocconi, di Filippo Giordano, Francesco Perrini e Delia Langer, è invece il primo manuale realizzato per valutare il reale impatto delle attività volte alla rieducazione e al reinserimento delle persone detenute, in cui Opera Liquida è stata caso di studio. Nell’incontro “Il carcere, la sua umanità, il teatro e la misura” è prevista la dimostrazione di lavoro della compagnia teatrale guidata da Ivana Trettel, con gli attori detenuti ed ex detenuti della Casa di Reclusione di Milano Opera, sezione media sicurezza: l’impianto drammaturgico, il montaggio e la formalizzazione. Per accedere al carcere in occasione dell’evento è necessario compilare entro le ore 8 del 12 novembre il modulo sul sito: www.operaliquida.org/prenotazioni-spettacoli. Milano. Studentesse sul palco con i detenuti per rappresentare la realtà del carcere di Agnese Pellegrini Famiglia Cristiana, 13 novembre 2019 Il 14 novembre, nell’ambito del festival, va in scena “27: due reclusi, sette celle”, spettacolo teatrale scritto da Davide Mesfun, detenuto in semilibertà del carcere di Opera, in collaborazione con l’Università Bicocca. Ventisette anni dopo. Sette celle dopo. All’inizio della storia c’è Davide, un adolescente ribelle, che prende sempre le vie sbagliate. In mezzo, il carcere, con il suo desolante realismo, con la sua graffiante quotidianità, con le privazioni, le mancanze, ma anche gli incontri, che spesso cambiano la vita. Alla fine di nuovo Davide, un uomo che, oggi, ce l’ha fatta. O, meglio, che prova a farcela, ogni giorno. Scritta e diretta da Davide Mesfun, detenuto in regime di semilibertà nel carcere di Opera, “27: due reclusi, sette celle”, è una storia unica nel suo genere. E non soltanto per il tema, costruito con déjà vu e flashback, attraverso i quali il protagonista affronta il suo essere oggi uomo e il suo essere stato ragazzo in un arco di tempo di 27 anni; ma soprattutto perché, grazie alla collaborazione tra il carcere e l’Università di Milano Bicocca, lo spettacolo verrà portato in scena nell’ambito di Bookcity, la prestigiosa rassegna culturale che, come ogni anno, si snoderà in vari contesti milanesi. Tutto nasce cinque anni fa, per intuizione del professor Alberto Giasanti, sociologo e presidente dei Corso di laurea in Programmazione e gestione delle Politiche e dei servizi sociali, che nel 2014 propose un corso di Mediazione dei conflitti all’interno della Casa di reclusione di Opera (attraverso la convenzione con il Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria della Lombardia). In quel corso, trenta studenti di Bicocca, nella grande maggioranza donne, e trenta uomini detenuti sono incontrati all’interno del carcere e hanno discusso di tematiche come il conflitto, la mediazione e il perdono. “A febbraio”, spiega il professor Giansanti, “saranno 6 anni che l’Università entra in carcere e che, specularmente, il carcere va all’università: è il primo esperimento del genere in Italia come collaborazione istituzionale, e la nostra volontà è quella di stimolare a livello nazionale altre collaborazioni simili”. Allora, fu un’esperienza stimolante, ma non semplice. La ricorda Davide, in un suo contributo che appare all’interno del libro “Il carcere in città. La voce, il gesto, il tratto e la parola, ovvero l’arte come evasione comune” (I. Castiglioni, A. Giasanti, FrancoAngeli 2019): “Nel momento in cui ci siamo iscritti al corso di Mediazione, oltre al fatto che erano anni o decenni che non mettevamo piede in una scuola, si può immaginare la sorpresa di noi trenta detenuti quando ci siamo trovati davanti non trenta studenti, bensì trenta studentesse. Trenta ragazze. Per capirci meglio, il carcere è un luogo prettamente maschile, dove le figure femminili sono davvero poche e magari può sembrare strano, ma quando vivi per anni con soli uomini, il confronto con una donna ti inibisce, ti spaventa, ti imbarazza, ma, allo stesso tempo, ti anima come un ragazzino”. Da quel primo corso, nel 2014, si è formato un laboratorio teatrale tra detenuti e studenti, dal nome “Giochi di luci e ombre”, da cui è scaturito il progetto “MiLiberiSe”: per la prima volta, una persona detenuta guida un gruppo all’interno di un Ateneo italiano. Coordinatrice del laboratorio esperienziale di teatro è Florinda Volpe, laureanda e tutor all’interno del Dipartimento di Sociologia della Bicocca: “Si tratta di un progetto”, evidenzia, “rivolto a studenti, docenti e cittadini interessati al tema, con la compresenza di docenti di Bicocca e dell’Accademia di Brera, attori, registi, scenografi e esperti”. Lo spettacolo “27: due reclusi, sette celle” sarà rappresentato congiuntamente proprio da detenuti e studentesse: “Questo per dimostrare”, aggiunge Florinda, “che le ombre che ci attraversano, le esigenze di vita, sono universali, ci accomunano tutti, dentro e fuori le sbarre”. Micaela, 21 anni, studentessa in Biotecnologie e un futuro da carabiniera, rappresenterà Davide in cella di isolamento: “Non è stato difficile immedesimarmi”, racconta, “perché le emozioni che si vivono in isolamento sono le stesse che ognuno di noi sperimenta nei momenti di sconforto e di solitudine”. Cristina, invece, che ha 24 anni e studia Legge, porterà sulla scena un “sogno” di Davide: “Il mio obiettivo è di diventare un giudice che sa quello che fa: per questo, i Codici non bastano, occorre condividere la propria esperienza con le persone detenute”. Così, si apre una finestra sul carcere per tutta la società, ma quella stessa finestra permette anche a chi è recluso di affacciarsi: la storia di Davide consente al “popolo di fuori” di approfondire che cosa avviene in un Istituto penitenziario, e a “chi è dentro” di far sentire la propria voce, di rileggere con sguardo critico il proprio passato attraverso uno strumento, che è quello del teatro, che aiuta a sdrammatizzare le esperienze negative vissute. Lo spettacolo è in programma giovedì 14 novembre, alle 16.30, alla Camera del Lavoro (Corso di Porta Vittoria 43, Milano). Con Davide Mesfun (attore e regista, Laboratorio teatrale “MiLiberiSe”), Micaela Col, Cristina Naplone e Giada Lucchi (Laboratorio teatrale “MiLiberiSe” e studentesse Unimib), e gli attori del Gruppo teatrale “Giochi di Luci e Ombre” della Casa di Reclusione di Opera. In collaborazione con l’Accademia di Brera. Prima dello spettacolo, la presentazione del libro “Il carcere in città. La voce, il gesto, il tratto e la parola, ovvero l’arte come evasione comune”, con interventi della Rettrice dell’Università di Milano-Bicocca, dei curatori del volume e con la partecipazione del Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria e dei Direttori degli Istituti Penitenziari milanesi. Ingresso libero. Milano. Faccia a faccia con Brancher a San Vittore di Luigi Pagano La Repubblica, 13 novembre 2019 Un incontro e un legame che inizia nel 1989: così lo convinsi a mangiare. Settembre 1989: arrivato a dirigere il carcere San Vittore già mi trovavo ad affrontare un caso spinoso. Un tale Bruno Brancher, arrestato in agosto per aver tentato di ammazzare la sua ragazza, dall’ingresso in istituto aveva iniziato lo sciopero della fame determinato a morire. Non sapevo chi fosse, ma non doveva essere uno qualsiasi se il magistrato aveva cominciato a chiedere certificazioni sulle sue condizioni di salute e, nel contempo, autorizzava la corrispondenza senza censura con la redazione dell’allora ancora esistente l’Unità. Un giro di telefonate ad amici milanesi non produsse effetto nell’immediato. Il suo nome, come Carneade a don Abbondio, evocava qualcosa, ma non si riusciva a mettere a fuoco cosa. Uno di loro, però, sembrò rammentare di aver letto la storia di uno che sembrava facesse di nome proprio Brancher, che aveva rubato una bici anni addietro. “Non una bici qualsiasi, si diceva fosse quella di Coppi e rubata al Vigorelli”. L’episodio, ammesso fosse vero, apparteneva alla preistoria, impensabile giustificasse l’interesse attuale del magistrato. La vicenda andava chiarita, inutile però indagare quando avevo lì, in istituto, chi poteva dirmi tutto. Chiesi al comandante di chiamare in ufficio Brancher e, dopo un po’, si presentò uno strano tipo, un arruffo di capelli sopra una testa tonda, baffoni staliniani, rotondetto. Rimase in piedi osservandomi di sbieco, ma non con piglio cattivo, e mi chiese chi fossi. “Sono il direttore” “Adesso li fanno così giovani?” “Ho la mia età, 35 anni” “San Vittore prima la davano a direttori esperti” “Ah ma allora lei è già stato qui” “Io? Ero bambino quando sono entrato la prima volta” “Siamo precoci entrambi allora” Sorrise, la schermaglia iniziale era finita e aveva deciso che poteva fidarsi. “Brancher, io volevo solo conoscerla e chiederle perché vuole morire”. Non attendeva altro, credo. Iniziò a raccontarmi la sua vita, una sceneggiatura tra Scorsese e Woody Allen, un fittissimo discorso con bizzarra dialettica e una mano sulla bocca a cercare di limitare la balbuzie, poi d’improvviso inanellava intere frasi. Seppi della carriera da rapinatore impedita da quella maledetta balbuzie, del ripiego sulla tecnica del mattone, del carcere, della legione straniera, della scoperta del talento letterario, del rapporto con Oreste del Buono e Nanni Balestrini, dei libri pubblicati, della collaborazione con svariati giornali, della nuova vita con la ragazza che aveva cercato di ammazzare. Metà di quelle storie avrebbe fatto la fortuna di qualsiasi narratore, capivo bene, ora, l’interesse che destava. “Perché voleva ammazzarla?” “Gelosia, è molto più giovane di me, Patrizia, e si era innamorata...” “Non vorrei dirlo, ma succede” “... di un’altra donna” Di ordinario quell’uomo non aveva nulla, nemmeno l’essere tradito. “E ora?” “Voglio morire” “Con lo sciopero della fame? Ce ne vuole di tempo” “Perché dice così?” “Perché se uno è intenzionato ad ammazzarsi ci sono tanti modi immediati e indolori” Tentennò. “Forse, ma voglio morire, ormai ho perso tutto... ho già 57 anni” “E che sarà mai? C’è gente che riinizia da 3, lei con le esperienze che si ritrova può permettersi di farlo a 57”. Il dialogo aveva preso una piega surreale, citavo battute da film davanti a una persona che voleva ammazzarsi. Invece no... annuì meditabondo quasi io avessi pronunciato chissà quale verità e annunciò che avrebbe smesso. Stupore! In 10 anni di carriera non mi era mai successo di convincere un detenuto a rialimentarsi e con lui non ci avevo neppure provato. I suoi circuiti mentali seguivano psicologie complesse e non mi sono azzardato a chiedere cosa lo avesse colpito e portato a quella decisione nemmeno quando fu scarcerato e ci ritrovammo a diventare amici. O, meglio, come rimarcò in una dedica su di un suo libro, veri amici perché non avessi mai a confondere quell’affetto sincero che mi mostrava con una ritardata sindrome di Stoccolma. Migranti. La Bossi-Fini torna in discussione Avvenire, 13 novembre 2019 Riprende alla Camera l’esame della proposta di legge popolare “Ero straniero”. Meno nero, più regolarizzazione e un’entrata aggiuntiva per le casse italiane di circa un miliardo di euro l’anno. Sarebbero questi gli effetti del superamento della Bossi-Fini, la legge che dalla prossima settimana sarà rimessa in discussione. Riprende infatti alla Camera la proposta di legge di iniziativa popolare “Ero straniero”. Il testo era stato incardinato un anno fa con la sola illustrazione da parte del relatore Riccardo Magi (+Europa). “Si tratta di una operazione di legalità a beneficio di circa 670 mila persone irregolari che saranno nel nostro Paese nel 2020” spiega Paolo Pezzo di Action Aid Italia, presentando la proposta di legge di iniziativa popolare, per la quale nel 2017 sono state raccolte 90mila firme, dal titolo “Nuove norme per la promozione del regolare permesso di soggiorno e dell’inclusione sociale e lavorativa di cittadini stranieri non comunitari”. La proposta prevede l’introduzione di un permesso di soggiorno temporaneo per la ricerca di occupazione; la reintroduzione del sistema dello sponsor; la regolarizzazione su base individuale degli stranieri “radicati”; l’effettiva partecipazione alla vita democratica col voto amministrativo e l’abolizione del reato di clandestinità. La campagna è stata promossa da diverse associazioni fra cui, solo per citarne alcune, Fondazione Casa della Carità, Acli, Asgi, Centro Astalli, Legambiente, Federazione chiese evangeliche in Italia e con il sostegno di diversi sindaci ed altre organizzazioni. “Con un provvedimento di emersione dal nero e regolarizzazione, entrerebbe almeno un miliardo di euro ogni anno per lo Stato - spiegano i promotori. Considerando l’emersione per 400 mila persone, quindi non per tutti, e considerando che il reddito medio mensile di un lavoratore in Italia è di 20.000 euro lordi l’anno, si avrebbe a regime una entrata di 2.232 euro all’anno a persona, che per 400 mila persone fa 893 milioni di euro di gettito fiscale”. “Sono tanti a sostenere - aggiunge il presidente della commissione Affari Costituzionali della Camera, Giuseppe Brescia (M5S), annunciando l’inizio della discussione che modifica la Bossi-Fini - che il decreto flussi annuale non garantisce più i fabbisogni del mercato del lavoro. Lo dimostrano i dati: a inizio luglio erano più di 44mila le domande presentate per i lavoratori stagionali a fronte di 18mila ingressi autorizzati”. Oggi, con un question time in commissione, Brescia chiederà al Ministero dell’Interno un aggiornamento sul numero di domande presentate. “La realtà parla sempre più forte della propaganda”. Migranti in Italia, varrebbero più di un miliardo di entrate fiscali se fossero regolarizzati di Vladimiro Polchi La Repubblica, 13 novembre 2019 Attualmente sono un esercito di 530mila, pronti a diventare 670mila entro il 2020. La campagna “Ero straniero” per far uscire dall’ombra i tanti immigrati irregolari. Quanti sono gli immigrati irregolari in Italia? Un esercito: 530mila, pronti a diventare 670mila entro il 2020. E quanto varrebbe la loro regolarizzazione? Oltre un miliardo di entrate fiscali ogni anno. Tanto incasserebbe infatti lo Stato da un provvedimento di emersione rivolto ai cittadini stranieri che lavorano nel nostro Paese, ma non hanno i documenti in regola per essere assunti. Per questo i promotori della campagna “Ero straniero” propongono un “provvedimento straordinario” che faccia uscire dall’ombra i tanti immigrati irregolari. “Un miliardo per scuola e istruzione”. “Ci rivolgiamo - spiegano i promotori - a Governo e Parlamento, impegnati in queste settimane con la manovra: con un provvedimento di emersione dal nero e regolarizzazione, entrerebbe almeno 1 miliardo di euro per lo Stato, ogni anno. Considerando l’emersione per 400mila persone e considerando che il reddito medio di un lavoratore in Italia è di 20mila euro lordi l’anno, si avrebbe a regime una entrata di 2.232 euro l’anno a persona, che per 400mila persone fa 893 milioni di euro di gettito fiscale. A cui vanno aggiunte le entrate “una tantum” per i costi amministrativi e i contributi forfettari per l’emersione. Un miliardo all’anno servirebbe a coprire, ad esempio, una parte dei costi di scuola e istruzione”. Legalità e sicurezza. “Ancora maggiori i benefici se guardiamo ai contributi previdenziali: oltre 3 miliardi - proseguono i promotori - e sono tutti benefici, fiscali e contributivi, destinati a durare nel tempo, come ha dimostrato la sanatoria del 2002, che ha regolarizzato 650mila persone: di questi nuovi lavoratori, dopo cinque anni, ne risultava impiegato ancora l’85 per cento. Gli effetti positivi per la collettività sarebbero molteplici: si avrebbero maggiore controllo delle presenze sui nostri territori di centinaia di migliaia di persone di cui oggi non sappiamo nulla e quindi maggiore sicurezza per tutti”. I promotori della campagna chiedono dunque di “procedere con un provvedimento straordinario di emersione per i cittadini stranieri irregolari e costretti al lavoro nero”. “Ero straniero”. La campagna è promossa da: Radicali Italiani, Fondazione Casa della carità “Angelo Abriani”, Acli, Arci, Asgi, Centro Astalli, Cnca, A Buon Diritto, Cild, Oxfam Italia, Action Aid Italia, Legambiente Onlus, Ascs - Agenzia Scalabriniana per la Cooperazione allo Sviluppo, Aoi, Fcei - Federazione Chiese Evangeliche in Italia. Il nuovo decreto immigrazione e i presunti paesi di origine sicuri di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 novembre 2019 Dossier dell’associazione “A Buon Diritto” sulle zone d’ombra. L’associazione “A buon Diritto” fondata dall’ex senatore Luigi Manconi ha redatto un elaborato sul recente decreto interministeriale relativo alla lista dei paesi di origine sicuri e all’impatto sulla procedura di esame della domanda di asilo. Il 7 ottobre 2019 è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto del ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale, di concerto con il ministero dell’Interno e il ministero della Giustizia, contenente la cosiddetta “lista dei Paesi di origine sicuri”: si tratta di un elenco di 13 Paesi nei quali si presume sia garantita la tutela dei diritti umani e i cui cittadini, quindi, non avrebbero bisogno di chiedere protezione internazionale in Italia. Tale lista è stata commentata con entusiasmo dal ministro per gli Affari Esteri Luigi Di Maio, che ha dichiarato che la lista consentirebbe di velocizzare le tempistiche dei rimpatri riducendo “da due anni a quattro mesi” la permanenza in Italia dei cittadini provenienti dai Paesi individuati come sicuri. Secondo però quanto elaborato da A Buon Diritto, più del 50 percento dei Paesi nella lista non ha accordi con l’Italia e molte zone di quei Paesi presentano situazioni socio politiche tutt’altro che sicure. Inoltre si sottolinea che in realtà il decreto non agisce in alcun modo sulle procedure di espulsione, come sostenuto erroneamente dal ministro Di Maio, ma unicamente sul procedimento di esame della domanda di asilo. Il miglioramento nella gestione delle espulsioni richiederebbe, si legge nel dossier dell’associazione “il rafforzamento e l’aumento degli accordi bilaterali con i Paesi di provenienza, senza i quali è praticamente impossibile allontanare uno straniero. Al momento, per di più, non risulta che l’Italia abbia sottoscritto accordi con tutti i Paesi presenti nella lista”. Sempre secondo A Buon Diritto, questo significa, in altre parole, che non tutte le persone la cui domanda di protezione verrà rigettata sulla base della presunta sicurezza di tali Paesi potranno essere rimpatriate in tempi certi e rapidi. “Tutto questo - si legge sempre nel dossier - si concretizza nel rischio di incrementare ancora di più il numero degli irregolari, generando un effetto simile a quello prodotto da alcune disposizioni del primo decreto legge Sicurezza che prevedeva già, è bene ricordarlo, la possibilità di redigere un elenco di Paesi di origine sicuri”. Ma ci sono anche zone d’ombra circa la procedura accelerata che avrà il richiedente asilo. In sostanza non si capisce se il migrante verrà informato sulla procedura e nel decreto non viene specificato quando il richiedente potrà addurre i gravi motivi a sostegno della domanda. Ma non viene nemmeno specificato chi valuterà i gravi motivi presentanti. E infine, A Buon Diritto, si chiede se la commissione potrà adottare una decisione negativa solo sulla base della presunta sicurezza del paese di origine. Non manca l’esempio dell’Ucraina, annoverata tra i Paesi sicuri nella sua interezza, pur essendo ormai noto come la regione del Donbass si trovi da anni al centro di un sanguinoso conflitto, con focolai accesi anche in altre zone del Paese. Droghe. Le politiche alla prova della valutazione di Patrizia Meringolo Il Manifesto, 13 novembre 2019 È necessario convocare la Conferenza sulle droghe, rivedere la legislazione attuale e dare segnali politici sia a livello di organizzazione governativa italiana che europea. La valutazione delle politiche pubbliche non è certamente diffusa nel nostro paese. Un caso esemplare è costituito dalle leggi in materia di droghe, dove prevalgono le logiche repressive (anche se la war on drugs ha platealmente mostrato la sua inefficacia) o i principi irrinunciabili. È stata quindi opportuna la recente iniziativa di Forum Droghe e Società della Ragione, in collaborazione con il Centro per la Riforma dello Stato e l’Associazione Luca Coscioni, di un convegno su Politica, ricerca, valutazione delle politiche pubbliche. Il caso delle droghe. La questione è complessa, e un incontro, per quanto partecipato e ricco di contributi, non può che essere il primo di futuri appuntamenti. Sono intervenuti nel dibattito operatori, professionisti dei servizi, ricercatori, esponenti di associazioni e rappresentanti politici. Alcuni temi sono emersi con particolare evidenza: a) l’importanza della valutazione, non solo di esito ma di impatto, e non solo limitata ai “risultati” individuali ma in vista di obiettivi collettivi sostenibili. Finalità come la tolleranza zero, la guerra alle droghe o l’astinenza dalle sostanze sono, infatti, più bandiere ideologiche che prospettive praticabili e appropriatamente misurabili. Diventa inoltre indispensabile andare oltre l’ambito strettamente legato alle droghe, per porre la questione a livello di politiche sociali, valutando anche le unintended conseguences, a cominciare dalla criminalizzazione dei consumatori. Pensare alla valutazione di impatto, quindi, non come a una misurazione socioeconomica, formale ed eterodiretta, ma come a un ragionamento critico sui dati esistenti. Tuttavia la stessa analisi economica del proibizionismo, ad esempio nel caso della cannabis, ne dimostra l’impatto negativo sulla civic society, come i costi dei procedimenti penali e amministrativi o i proventi che ne derivano per la criminalità organizzata. Potrebbe quindi essere il momento adatto per prefigurarne modelli di regolamentazione legislativa; b) le politiche pubbliche (comprese quelle sulla droga), che non possono prescindere dagli effetti della crisi del welfare, in cui per i cittadini “normali”, “perbene” esiste la possibilità di affrontare le restrizioni imposte, mentre per i “residuali”, quelli che non ce la fanno, gli interventi penali tendono a sostituire il supporto sociale. Le politiche pubbliche si saldano quindi alle costruzioni ideologiche, quali lo stigma dei possibili aggressori per garantire la sicurezza dei cittadini “perbene”, o un’idea predeterminata di famiglia, o l’astinenza dalle droghe basata sul concetto di sanità e non di benessere; c) quale ricerca per la valutazione? oltre alla necessità basilare di usare la ricerca, ne andrebbe promossa una “utile”, con indicatori fruibili. Una ricerca “situata”, che parta dai setting dove le prassi diventano luogo di conoscenza e di produzione del sapere, attenta al come dei fenomeni più che al quanto (la prevalenza, cioè, dei comportamenti a rischio), o al perché (la storia familiare e individuale del consumatore). Una ricerca, in definitiva, attenta alle risorse individuali e collettive e non ai deficit. La ricerca tuttavia può anche diventare “iatrogena” (come gli effetti collaterali dei farmaci), provocando danni essa stessa, se si concentra solo sull’ambito biomedico tralasciando i contesti, o solo sugli individui tralasciando gruppi e relazioni, se contribuisce a rafforzare gli stigma. I policy makers presenti hanno confermato l’importanza della misurazione degli effetti delle politiche e i rischi derivanti dall’eluderla, la necessità di convocare la Conferenza sulle droghe, la revisione della legislazione attuale e l’urgenza, infine, di dare segnali politici in questo ambito sia a livello di organizzazione governativa italiana che europea. Stati Uniti. 700 mila “dreamers” in bilico e 70 mila bambini in custodia di Marina Catucci Il Manifesto, 13 novembre 2019 La Corte suprema decide sulla sorte dei figli dei migranti di ieri e Trump si accanisce su quelli dei migranti di domani. La Corte Suprema ha affrontato ieri il caso degli sforzi di Trump per porre fine a un programma voluto da Obama, il Daca (Deferred Action for Childhood Arrivals) che protegge più di 700.000 immigrati “dreamers”, giovani americani arrivati in Usa da bambini a seguito di genitori illegali. Trump ha sempre affermato che il programma di Obama è incostituzionale in quanto implementato tramite ordine esecutivo. Il caso è passato attraverso il giudizio di tribunali inferiori, i quali hanno sempre concluso che la decisione di Trump di chiudere il Daca è “arbitraria e capricciosa”. In più di un’occasione Trump ha usato il Daca come merce di pressione sui democratici del Congresso per ottenere il via libera alla costruzione del muro o per far passare il bilancio. Mentre scriviamo la Corte Suprema non si è ancora sciolta ma non sembra mettersi bene per i dreamers: la maggioranza conservatrice ritiene lecite le motivazioni di Trump. A Washington sin dalla mattina sono susseguite manifestazioni davanti la Corte Suprema per chiedere di mantenere il Daca, in cui favore si sono espressi tutti i candidati democratici. Donald Trump ha aperto la giornata scrivendo su Twitter che molti dreamers non sono angeli, che sono vecchi criminali incalliti, ignorando il pre requisito necessario per far parte del programma di Obama: una fedina penale pulita. Le Aclu (American Civil Liberties Union) degli Stati liberal cercano di rassicurare i dreamers. Aclu New Jersey ha scritto: “Indipendentemente dall’esito del caso Daca di oggi, NJ può proteggervi continuando a garantire l’accesso alle patenti di guida - che in Usa sono il documento principale - ed espandendo l’accesso oltre il Daca”. Il senatore democratico Dick Durbin ha sottolineato che Trump “è sempre particolarmente crudele quando si tratta di immigrazione, in particolare quando si tratta di bambini e giovani”. Lo conferma il numero record diffuso dalla Associated Press di 69.550 bambini migranti che solo nell’ultimo anno sono in custodia del governo degli Stati uniti. Abbastanza da riempire uno stadio professionale di football. Regno Unito. Diciottenne di Mondovì in carcere da quasi quattro mesi di Chiara Viglietti La Stampa, 13 novembre 2019 L’appello della famiglia al premier Conte: “Errore clamoroso, vittima di trafficanti di droga: aiutateci”. È di Mondovì, ha appena 18 anni, e da più di 100 giorni è detenuto in una prigione inglese. Presunta vittima di un clamoroso errore giudiziario. Sabato saranno 4 mesi esatti da quando, il 16 luglio scorso, un giovane monregalese è stato arrestato dalla polizia di Norwick insieme ad alcuni trafficanti di droga. Ora la sua famiglia ha deciso di chiedere l’intervento del Governo italiano. Con una lettera che l’avvocato Enrico Martinetti ha appena inoltrato al premier Giuseppe Conte, al ministro della Giustizia e alla Farnesina. Richiesta: “L’Italia intervenga per tutelare un concittadino vittima di ingiusta detenzione. E per di più sequestrato dagli aguzzini, che lo hanno costretto a lavorare in una fabbrica di stupefacenti”. I fatti: è il gennaio del 2018 quando Marco - così lo chiameremo per tutelare la riservatezza della famiglia - decide di trasferirsi a Londra. Trova lavoro per un anno, regolarmente stipendiato in un’impresa edile. Chiuso il cantiere, cerca un altro impiego. E qui, il 30 giugno scorso, entrano in scena i trafficanti. Marco riceve la telefonata di un uomo con accento turco. Si danno appuntamento per un lavoro fuori Londra. Il giovane viene portato in un opificio industriale a Lenwade, contea di Norfolk, che nasconde una piantagione di cannabis. L’inizio dell’incubo: i trafficanti gli sequestrano il cellulare, lo malmenano e costringono a fare quello che dicono loro. Inutile ogni tentativo di fuga: quel luogo è blindato, porte e finestre sono sbarrate. Un vero sequestro di persona a fini estorsivi. Marco, insieme ad altri sette o otto giovani come lui, è costretto a lavorare per i signori della droga. Per giorni e giorni resta “permanentemente segregato all’interno dell’edificio, dove dall’esterno gli venivano portati pasti freddi - racconta l’avvocato Martinetti - e dove gli era stato ricavato un giaciglio di fortuna per dormire, oltre ad un bagno in comune con altri disperati che condividevano con lui quella terribile esperienza”. Il 16 giugno la polizia fa irruzione. E arresta i trafficanti. Nel calderone della giustizia inglese, però, finisce anche lui, Marco. “Con l’infamante e ingiusto capo di imputazione per aver prodotto un quantitativo di cannabis, droga di classe B, in violazione della legge inglese”, prosegue Martinetti. E nell’appello a Conte dice: “Sconcerta che il nostro concittadino (incensurato e in assenza di altre pendenze di sorta sia in Italia sia in Inghilterra che altrove) possa essere indebitamente trattenuto in stato di detenzione da oltre 100 giorni in attesa del processo che non sarà celebrato prima del mese di gennaio 2020”. Nigeria. Hrw: migliaia di persone con problemi di salute mentale tenute in catene agenzianova.com, 13 novembre 2019 Migliaia di persone con problemi di salute mentale sono trattenute in catene nelle strutture di tutta la Nigeria. È quanto denunciato dall’organizzazione non governativa Human Rights Watch (Hrw) in un rapporto in cui esorta il governo a vietare la pratica. I ricercatori di Hrw, si legge nel rapporto, hanno visitato 28 strutture per la salute mentale nella capitale Abuja e altre otto nei 36 stati del paese tra l’agosto 2018 e il settembre 2019, intervistando un totale di 124 persone. I ricercatori hanno scoperto che molte persone sono state incatenate con catene di ferro attorno a una o entrambe le caviglie, a oggetti pesanti o insieme ad altri detenuti. Secondo l’Ong, alcune persone sono state trattenute per mesi o per anni, spesso in condizioni sovraffollate e poco igieniche. “Il governo nigeriano deve vietare completamente la pratica”, ha affermato Hrw, esortando le autorità di Abuja ad “indagare urgentemente su tutte le istituzioni statali e private in cui vivono persone con problemi di salute mentale al fine di porre fine agli abusi”. Il rapporto giunge dopo che le autorità nigeriane hanno intrapreso un’azione su vasta scala contro le scuole islamiche informali e i centri di riabilitazione in cui i detenuti venivano sottoposti a diffusi abusi fisici, con molti detenuti in catene. Circa 1.500 persone sono state liberate in una serie di retate effettuate dalla fine di settembre.