Permessi premio, migliaia di detenuti ne usufruiscono rispettando gli obblighi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 novembre 2019 Il caso dell’ergastolano Antonio Cianci che, usufruendo del permesso premio di un giorno, ha accoltellato alla gola un pensionato di 89 anni per rapinarlo in un parcheggio sotterraneo dell’ospedale San Raffaele di Milano, ha riacceso l’indignazione sulla bontà di questo beneficio. Inevitabilmente è stata evocata, a torto, la sentenza della Consulta in merito alla possibilità di fare istanza per questo beneficio anche per gli ergastolani che non collaborano con la giustizia. Caso che però non riguarda Cianci, visto che non è un ergastolano ostativo. Così come non riguardò altri ergastolani, tipo il famigerato Angelo Izzo, il mostro del Circeo, che ha ingannato - tranne Giovanni Falcone che a suo tempo lo inquisì per calunnia - diversi magistrati fingendosi un collaboratore. Usufruì di un permesso premio e uccise nuovamente. Il problema che ci possano essere errori di valutazione per la concessione di tale beneficio è scontato. Ma bisogna inquadrare il nostro sistema, altrimenti diventa tutto incomprensibile. Il nostro sistema penale prevede pene molto lunghe. Non solo le prevede ma le applica anche, a differenza di quanto accade in altri Paesi. Si può citare l’esempio della strage dell’isola di Utoya in Norvegia: la pena massima prevista dal codice penale, malgrado i 77 morti, è di 21 anni. Noi abbiamo l’ergastolo e perfino il carcere con fine pena mai, ovvero l’ostativo. Il nostro sistema prevede, però, misure per riequilibrare queste pene visto che abbiamo una Costituzione e, fino a prova contraria, dobbiamo rispettarla. Questo modello di apertura del carcere ha uno scopo ben preciso e indispensabile. Non solo quello di consentire di mantenere i rapporti con la famiglia, di consentire di pensare a un’occupazione per quando si esce, ma serve anche per eliminare l’isolamento e preparare il detenuto a fare i conti con la realtà che gli spetta una volta uscito. Ci sono detenuti che, non usufruendo per diversi motivi di nessun beneficio, quando terminano di scontare la pena ed escono, non sanno nemmeno più come si prende un autobus perché per anni sono rimasti fuori da tutto. Sì, perché tutti devono avere la speranza di uscire. Anche gli ergastolani ostativi. Lo ha ribadito ieri anche il presidente della Corte costituzionale, Giorgio Lattanzi, intervenendo a Firenze al convegno “Meriti e limiti della pena carceraria”, organizzato dall’Ateneo fiorentino. “Oggi che si sentono espressioni come “buttare la chiave”, “marcire in carcere” - ha spiegato Lattanzi - cose che non si erano più sentite da anni, è ancora più importante la riflessione sui meriti della pena carceraria”. Il presidente della Consulta, ha evidenziato come non si possa giustificare il mantenere in stato di detenzione per chi non intende collaborare. Lattanzi ha ricordato come “la Corte ha detto moltissime volte che le presunzioni assolute non sono consentite”. Ma ritorniamo al permesso premio. È contemplato dall’articolo 30 ter, il quale stabilisce che ai condannati che hanno tenuto una regolare condotta durante l’esecuzione della pena (8° comma) e che non risultano essere socialmente pericolosi, possono essere concessi tali permessi dal magistrato di Sorveglianza sentito il Direttore dell’Istituto penitenziario. Tali permessi hanno come obiettivo quello di consentire ai condannati di coltivare, fuori dall’Istituto penitenziario, interessi affettivi, culturali, di lavoro. La durata dei permessi non può essere superiore ogni volta a 15 giorni e non può comunque superare la misura complessiva di 45 giorni in ciascun anno di espiazione della pena. ll fatto di usufruire tale permesso, comporta qualche rischio? Sì, ma la percentuale è bassissima e per un caso su un migliaio non può essere messo in discussione. Secondo i dati del primo semestre del 2019, sono quasi 20.000 i detenuti che hanno usufruito del permesso premio. Ciò dimostra che il sistema funziona benissimo, e per colpa di qualcuno che sbaglia non possono pagarne la conseguenza le migliaia di detenuti che rispettano rigorosamente gli obblighi. Cresce il sovraffollamento: quasi undicimila reclusi in più di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 novembre 2019 I posti disponibili nei 190 istituti sono 50.474, ai quali dovrebbero sottrarsi, come ha evidenziato l’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini, i 3.704 inagibili. Mentre in campo ci sono proposte discutibili come lo stipendio “virtuale” per i detenuti che lavorano, facendo improbabili confronti con i Paesi europei del nord che, però - a differenza nostra - mettono in atto il principio del carcere come estrema soluzione, il sovraffollamento sta raggiungendo numeri allarmanti. Al 31 ottobre 2019, secondo i dati pubblicati sul sito del ministero della Giustizia, i detenuti ristretti nelle 190 carceri italiane sono 60.985 rispetto ad una capienza regolamentare di 50.474 posti disponibili. Cioè vuol dire che risultano 10.511 detenuti in più, mentre il mese precedente ne risultavano invece 10.409. Il trend del sovraffollamento è quindi in continua crescita, soprattutto in assenza di misure deflattive come le pene alternative e l’utilizzazione del ricorso al carcere come extrema ratio. Per comprendere l’allarmante tasso di crescita, basti pensare che il picco più alto di quest’anno, prima di quello attuale, si era registrato al 31 marzo, con 10.097 ristretti oltre la capienza regolamentare. Si registra quindi un balzo enorme essendo arrivati a 10.511. Un altro paragone da fare è quello con i numeri al 31 ottobre dell’anno scorso: erano 9.187 i detenuti in più. Un balzo notevole che dovrebbe allarmare visto che se il trend dovesse confermarsi, il rischio di ritornare ai livelli che scaturì la sentenza pilota Torreggiani emessa dalla corte europea di Strasburgo non è così lontano. D’altronde, nonostante i diversi “piano carceri” del passato dediti alla costruzione di nuovi penitenziari, l’Italia è stata condanna ben due volte dalla corte europea dei diritti umani: la sentenza Sulejmanovic del 2009, dove per la prima volta la Corte europea accerta la violazione dell’articolo 3 della convenzione per eccessivo sovraffollamento carcerario, e appunto la Torreggiani che ha costretto il nostro Paese a rivedere la pena e trovare percorsi alternativi al carcere. Così accadde attraverso misure come i decreti chiamati, a torto, svuota-carceri e altre misure deflattive. Poi è cambiata la sensibilità politica e si è fermato tutto. Non solo togliendo di mezzo lo spirito degli stati generali sull’esecuzione penale promosso dall’allora ministro della giustizia Andrea Orlando, non solo approvando - a metà - la riforma dell’ordinamento penitenziario, ma c’è stato un continuo e inesorabile innalzamento delle pene ed estensione del famoso 4 bis (articolo nato come misura emergenziale e solamente per reati gravi come mafia e terrorismo) verso altri reati non emergenziali come la corruzione. Una miscela, di fatto, esplosiva per il sistema penitenziario. Sempre ritornando ai dati del sovraffollamento, com’è sempre stato ribadito più volte, i numeri relativi al mese scorso risulterebbero addirittura maggiori se dovessimo sottrarre dalla capienza regolamentare i 3.704 posti non disponibili perché inagibili, oppure in via di ristrutturazione. Dato estrapolato dall’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini, grazie all’analisi delle schede di ogni singolo istituto aggiornato dal ministero. Un dato che ci riporta alla vera dimensione del problema e quindi dell’effettiva emergenza in corso. Altro importante dato da prendere in considerazione l’ha dato il Garante nazionale delle persone private della libertà: ben 5mila detenuti sono in carcere perché condannati ad una pena inferiori a due anni. Proprio ieri, al carcere di Viterbo, si è suicidato un sudanese di 24 anni: doveva scontare solo un anno di pena. A darne notizia è stato il Garante regionale Stefano Anastasìa. Siamo sicuri che il carcere sia indispensabile per questi soggetti? Dati del genere smentiscono, di fatto, il luogo comune che in carcere non ci va più nessuno. È l’esatto contrario: ci si va, nonostante che il reato non sia grave e senza contemplare le misure alternative, funzionali al vero graduale recupero e reinserimento nella società. Lattanzi (Consulta): “Il detenuto deve avere il diritto alla speranza” Il Riformista, 12 novembre 2019 “Si percepisce immediatamente il contrasto tra l’ergastolo ostativo e l’articolo 27 della Costituzione. Il detenuto deve avere il diritto alla speranza. Chi non ha questa speranza, e il detenuto all’ergastolo ostativo non ce l’ha, difficilmente può essere risocializzato”. Così il presidente della Corte costituzionale Giorgio Lattanzi, intervenendo ieri al convegno dell’Università di Firenze “Meriti e limiti della pena carceraria”, è tornato a parlare dell’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario dopo il pronunciamento della Consulta che l’ha dichiarato illegittimo nella parte in cui non prevede la concessione di permessi premio in assenza di collaborazione con la giustizia. “Come si giustifica l’ergastolo ostativo, cioè il mantenere in stato di detenzione chi non intende collaborare?”, per il presidente della Corte le ragioni teoriche possono essere due: che chi non intenda collaborare “per ciò solo può essere pericoloso” ma - ha ricordato - “la Corte ha detto moltissime volte che le presunzioni assolute non sono consentite”. “L’altra ragione - ha spiegato Lattanzi - può essere una ragione di politica criminale: attraverso questo strumento spero di ottenere la tua collaborazione, ma questa non credo sia sostenibile dal punto di vista costituzionale”. Quindi “da un lato c’è l’articolo 27 che è un principio fondamentale della Costituzione, ma dall’altro non ci sono neppure ragioni veramente giustificative di questa posizione”. Bisogna saper dire “no alla vendetta” per abolire il carcere di Patrizio Gonnella* Il Riformista, 12 novembre 2019 L’abolizionismo carcerario è diverso da quello penale. Si andrebbe a modificare il solo sistema delle sanzioni, rinunciando definitivamente alla pena carceraria. Era la primavera del 2000. In Italia Papa Giovanni Paolo II aveva promosso il Giubileo delle carceri. I detenuti erano più o meno lo stesso numero rispetto a quello attuale ovvero erano intorno ai 54 mila. Negli Stati Uniti per ancora pochi mesi Bill Clinton sarà il Presidente. Il novembre successivo inizierà l’era di George W. Bush. I detenuti nelle prigioni americane nel 2000 erano circa 2 milioni, come oggi, nonostante l’approccio più mite di Barack Obama e i suoi tentativi di riforma della giustizia criminale. Incontrai proprio in quel frangente per la prima volta Nils Christie, l’abolizionista che intervenne persino ai Meetup del Movimento 5 Stelle. Eravamo a Lecce ai tempi in cui il compianto sociologo delle religioni Pietro Fumarola invitava abolizionisti e garantisti a dialogare sulla giustizia. Nils Christie aveva pubblicato in Italia quattro anni prima per Eleuthera “Il business penitenziario. La via occidentale al gulag”. Il reato non esiste era il suo refrain. Il reato è un’invenzione artificiosa del decisore politico. Così lui argomentava: “Ci sono molte cose pessime al mondo, cose che io personalmente disapprovo, ma la questione è se esse costituiscano dei reati oppure no: è un problema di definizione. Noi dobbiamo decidere cosa è criminale e cosa non lo è. Cosa assomiglia al criminale: il cattivo, l’incomprensibile, l’involontario? Niente di tutto questo lo è necessariamente, c’è una grande libertà nelle definizioni. La maggior parte dei comportamenti che consideriamo criminali hanno a che vedere con dei conflitti, ma i conflitti possono anche essere mediati. Possiamo leggerli come le contraddizioni insite nella natura umana. Dobbiamo lavorare su vie alternative al sistema delle pene, dobbiamo occuparci di riconciliazione e di compensazione delle vittime. Nella vita civile accade che sorga un conflitto, segno di un disagio, e che si entri in contrasto con la polizia, con le istituzioni. A quel punto non dobbiamo essere interessati alla soluzione più facile, ossia alla vittoria dello Stato che sconfigge il criminale”. In primo luogo mi soffermo sul linguaggio. Christie non si affidava a un linguaggio per esperti. Il suo non era un linguaggio tecnocratico. Non usava termini che rinviavano a motivazioni giuridico-filosofiche. Non cercava di legittimarsi con le parole all’interno di un pensiero storicamente solido e fondato. Non si poneva in continuità espressa con nessuno nella storia delle idee. Si affidava a un linguaggio immediato da tutti comprensibile. Christie non era preoccupato di legittimarsi davanti alla comunità scientifica dei penalisti o più in generale dei giuristi. Le sue parole avevano qualcosa di “religioso”, di “cristiano”, di “anarchico”. La riconciliazione rinvia al Vangelo e al sacramento della Confessione. “La misericordia di Dio sarà sempre più grande di ogni peccato”: twittò Papa Francesco usando l’account @Pontifex in ben nove lingue. I due linguaggi non sono distanti. Il tweet di papa Francesco è tratto da Misericordiae Vultus, la Bolla con cui è stato indetto il Giubileo Straordinario della Misericordia. “Nessuno può porre un limite all’amore di Dio che perdona” afferma Papa Francesco nel testo della Bolla per il Giubileo. Per Papa Francesco vi è una sola eccezione alla possibilità di mediare: “Non esiste alcun peccato che Dio non possa perdonare! Nessuno! Solo ciò che è sottratto alla divina misericordia non può essere perdonato, come chi si sottrae al sole non può essere illuminato né riscaldato” (Discorso ai partecipanti a Corso della Penitenziaria, 12 marzo 2015). Per cui tutto è nelle mani e nella disponibilità del peccatore, del criminale. “Dio ci comprende anche nei nostri limiti, ci comprende anche nelle nostre contraddizioni. Non solo, Egli con il suo amore ci dice che proprio quando riconosciamo i nostri peccati ci è ancora più vicino e ci sprona a guardare avanti. Dice di più: che quando riconosciamo i nostri peccati e chiediamo perdono, c’è festa nel Cielo. Gesù fa festa: questa è la Sua misericordia”. Papa Francesco parla di contraddizioni. Christie di conflitti e disagi. Siamo là. Chi va alla ricerca nel pensiero di Christie e degli abolizionisti del diritto penale di una logica ferrea, di soluzioni giuridiche che funzionino, di alternative che funzionano sbaglia piano. Christie non era interessato a dimostrare scientificamente che la sua proposta reggesse ai dubbi dei liberali, dei riduzionisti, dei garantisti. Il suo era un altro piano, quello di ciò che è umano e giusto fare, a prescindere se funziona o meno. Non troppo diversamente da quanto Papa Francesco o un uomo di Chiesa è interessato a fare. La proposta abolizionista di Nils Christie parte da una dura analisi critica degli affari selvaggi del mondo capitalistico neo-liberale. Rinvia a una visione comunitaria anti-statalistica e anti-liberista. “Ci sono tantissimi soldi che girano intorno al sistema carcerario, c’è un business edilizio che alimenta una grossa industria, in particolare negli Stati Uniti. Per costruire un carcere e mettere insieme una équipe che lo gestisca ci vuole parecchio denaro. La situazione negli Usa è tale che nei distretti territoriali mettere su prigioni conviene. Per molti paesi le carceri sono una grossa risorsa industriale mai in crisi. Ne è un esempio il fiorire di prigioni private: un modo fra i tanti per fare soldi sul crimine. Il controllo penale si sta lentamente sostituendo alla sicurezza sociale. Per esempio il sistema newyorkese con la sua tolleranza zero è molto costoso, e questo significa una riduzione della spesa per il sistema scolastico. Così quest’ultimo si deteriora, mentre cresce il sovraffollamento delle carceri che diventano sempre di più una scuola del crimine. Una situazione di tragica idiozia. La stessa cosa accade in California dove, bilanci alla mano, è facile verificare che si spende molto di più per le carceri che non per la scuola, e c’è una potente lobby che lucra sull’industria delle prigioni”. La parola chiave è comunità. Il crimine deve essere compreso, risolto, masticato dentro la comunità. L’abolizionismo penale dunque è qualcosa che mette in discussione il mondo sociale ed economico in sui siamo immersi. Non è provata la sua compatibilità con il sistema democratico liberale contemporaneo né la capacità di reggere al rischio di derive violente nonché di crescita della percezione di impunità e di richiesta di vendetta. L’abolizionismo penale è una grande suggestione culturale. Rimanda alla trasformazione della società statuale in comunità piccole, religiose o libertarie. Altra cosa è invece l’abolizionismo carcerario. In questo caso il sistema penale resterebbe in piedi; si andrebbe a modificare il solo sistema delle sanzioni, rinunciando definitivamente alla pena carceraria. L’abolizione delle carceri è compatibile con il paradigma del diritto penale minimo di Luigi Ferrajoli che ci ha insegnato che vanno minimizzati i reati e minimizzate le pene allo scopo di ridurre l’immissione di violenza nella società. Il punto è come modificare il sistema delle sanzioni, ma soprattutto avere la capacità di inventarne di altre e nuove senza far crescere il senso collettivo di impunità e il desiderio di vendetta. È questa una prospettiva umanistica di tipo social-liberale del tutto compatibile con l’attuale organizzazione del potere. *Presidente Associazione Antigone No, la soluzione non è “buttiamo la chiave” di Tiziana Maiolo Il Riformista, 12 novembre 2019 Ad Antonio Cianci erano stati concessi permessi fin da aprile, nulla lasciava presagire il gesto violento. È un caso particolare, gli ispettori di Bonafede lo giudichino senza condizionamenti. Quando arriveranno a Milano gli ispettori del ministro Bonafede per verificare che cosa non abbia funzionato nel permesso di uscita concesso all’ergastolano Antonio Cianci e sfociato in una rapina e nel ferimento di un pensionato. tengano a mente due cose. La prima è che se ci sono due realtà che funzionano nel sistema giudiziario italiano, queste sono la categoria dei giudici di sorveglianza e il carcere di Bollate. La seconda è che è molto vicina allo zero la percentuale di chi torna a delinquere dopo aver percorso tutti i passaggi di reinserimento. come previsto dall’articolo 27 della Costituzione. Cerchiamo quindi di non trarre conclusioni generali da quello che è solo un fatto isolato ed eccezionale. Antonio Cianci era entrato in carcere da ragazzo, dopo aver ucciso una prima volta a 15 anni e una seconda a 20, e in carcere è diventato uomo, fino all’età che ha oggi, 60 anni. Probabilmente il suo avrebbe potuto essere un caso psichiatrico, se la Corte d’assise che lo ha condannato all’ergastolo per l’uccisione di tre carabinieri ne avesse riconosciuto l’infermità mentale, come era stato chiesto dalla difesa. Le cose avrebbero potuto andare diversamente se lui avesse potuto avere al suo fianco qualcosa o qualcuno che l’avesse aiutato a contenere il suo impulso alla violenza e all’aggressione fisica nei confronti degli altri esseri umani. Parliamo di impulso alla violenza, spesso determinato dalla paura, perché la dinamica di quel che è successo all’ospedale S. Raffaele di Milano ha nel suo svolgimento qualcosa di più di una rapina commessa con la minaccia di un taglierino, perché la piccola arma ha colpito il collo della vittima, cui Cianci voleva rubare cellulare e portafoglio, fino a sfiorare la carotide e diventare un tentato omicidio. Ha colpito e non era necessario farlo, neppure dal punto di vista di un rapinatore seriale. Ha colpito pur non avendolo mai fatto nei 40 anni di detenzione. Tanto che la relazione dell’équipe di psicologi, criminologi ed educatori del carcere di Bollate e il parere della vicedirettrice e infine anche del giudice di sorveglianza avevano consentito all’ergastolano di fruire di permessi di uscita fin dall’aprile scorso, una volta addirittura per tre giorni. Tutti esperimenti con esito positivo. E nulla aveva lasciato presagire che un uomo che aveva passato tutta la sua vita adulta da rinchiuso avrebbe potuto abusare della ritrovata libertà fino a rischiare il “fine pena mai” con un gesto così violento da sfiorare l’omicidio. Un caso molto particolare dunque, ci auguriamo che gli ispettori del ministero ne tengano conto e giudichino con la freddezza necessaria, senza farsi influenzare dai teorici del “buttiamo la chiave” e da tutti coloro che, non avendo il coraggio di dichiararsi favorevoli alla pena di morte, quasi che lo Stato potesse farsi a sua volta assassino, vedono nella pena che non finisce mai la soluzione di ogni problema di devianza. Sebastiano Ardita. “Permessi-premio agli ergastolani: meno teoria, più controlli” di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 12 novembre 2019 Sebastiano Ardita è il presidente della Commissione Csm sulla magistratura di sorveglianza ed esecuzione pena. E stato direttore dell’ufficio detenuti del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria). Antonio Cianci, l’ergastolano che ha accoltellato un uomo all’ospedale San Raffaele di Milano, era in permesso premio per far visita alla sorella. La decisione è stata presa dal giudice di Sorveglianza dopo aver ricevuto la relazione dal carcere di Bollate. Nel documento si diceva come Cianci avesse avuto “un cambiamento reale nei comportamenti”. Peraltro era stato escluso che fosse ancora “socialmente pericoloso”. In effetti per due volte si era comportato bene. È il sistema di concessione dei permessi premio che non funziona? O è un caso a sé? “Non funziona un sistema in cui la previsione circa il pericolo che si torni a delinquere si basa solo su dati teorici. In altri sistemi, dove le misure alternative funzionano, esiste una verifica quotidiana, con controlli mirati di polizia, sul comportamento tenuto da coloro che ottengono un beneficio. È venuto il momento di puntare sulla polizia penitenziaria, l’unica forza di polizia che può fare funzionare le misure alternative, ma deve avere nuovi compiti sul territorio. Le misure dovrebbero essere concepite come dinamiche, graduali e sottoposte a costante controllo. Se saranno riscritte così la loro incidenza si moltiplicherà e il carcere - come è giusto - sarà destinato prevalentemente ai detenuti più pericolosi. Sarebbe l’attuazione vera e non retorica del principio di pena rieducativa”. Qual è il ruolo di chi opera in carcere e stila relazioni determinanti per le decisioni dei giudici di Sorveglianza? “È un ruolo importante di responsabilità, mi risulta svolto in modo professionale, quindi non va demonizzato. Ma se rimane un’attività basata solo su dati cartacei e sulla formale buona condotta interna del detenuto, purtroppo non basta”. Cosa pensa, in generale, del ruolo del giudice di Sorveglianza? “È una funzione altrettanto delicata e va tutelata perché esistono anche i casi di detenuti che hanno cambiato vita e per costoro non sarebbe giusto pregiudicare la concessione dei benefici. Vorrei far notare che nel caso citato il giudice aveva espressamente richiesto nel provvedimento un qualche accompagnamento del condannato per le prime concessioni. Quindi, si era reso conto di questa necessità di controllo e di gradualità. Peccato che ciò che è suggerito dalla logica non è previsto espressamente dalla legge. E soprattutto manca una fase normata sul controllo di polizia”. Questo caso ha fatto parlare di nuovo della sentenza prima di Strasburgo e poi della Corte costituzionale a favore dei permessi premio, su decisione del giudice di Sorveglianza, agli ergastolani che hanno il carcere ostativo, nel caso in cui abbiano rotto con l’associazione criminale… “Infatti è quello il problema. Immagini quanto sia più difficile essere sicuri che qualcuno non ritorni a delinquere quando si tratta di una organizzazione mafiosa dal cui vincolo si può liberare solo con la morte. E non bisogna neppure dimenticare i debiti che si possono maturare nei confronti di Cosa Nostra, specie se questa, durante la detenzione, ha provveduto ad alcuni bisogni della famiglia”. È un’altra faccia della stessa medaglia o sono cose distinte? “Distinte, perché tra i detenuti comuni le possibilità di cambiamento di vita dovrebbero essere più ampie. Ma, quando c’è qualcuno più debole che potenzialmente può avere diritto a un beneficio, chi è più forte tende ad assicurarselo per prima”. Ergastolo ostativo: condivido l’appello del Fatto Quotidiano di Gian Carlo Caselli Il Fatto Quotidiano, 12 novembre 2019 Il Fatto del 7 novembre ha pubblicato una documentatissima inchiesta di Vincenzo Iurillo che racconta di un boom di “dissociazioni” fra i camorristi detenuti. Tema che (è lo stesso Iurillo a rilevarlo) rimanda alla recente sentenza della Consulta sull’ergastolo ostativo. Da sempre, proprio i detenuti costituiscono un problema complesso per l’intero pianeta mafia. In una intercettazione un boss di Cosa Nostra ammonisce che “i nostri in carcere li dobbiamo cercare in qualunque maniera di accontentarli... di portargli il più rispetto possibile”. Per parte loro i detenuti hanno spesso lanciato segnali di inquietudine e insofferenza. Mafiosi di rango (tra cui i Ganci, i Graviano e Pippo Calò), nel corso di una udienza del “Borsellino ter”, comunicano di avere intrapreso uno sciopero della fame contro il regime carcerario speciale. Leoluca Bagarella legge una lunga dichiarazione contro il 41bis “a nome di tutti gli altri imputati... stanchi di essere umiliati, strumentalizzati, vessati e usati come merce di scambio dalle varie forze politiche” e “presi in giro (con) promesse non... mantenute”. Pietro Aglieri chiede con una lettera “un ampio confronto tra detenuti... per trovare soluzioni intelligenti e concrete che producano dei frutti positivi”. Una iniziativa finalizzata all’emanazione di nuove norme che consentano, anche ai condannati al carcere a vita, di nutrire qualche speranza di revisione dei processi. Tutti segnali cui corrisponde il periodico riemergere di iniziative per il riconoscimento legale della “dissociazione” (che significa misure premiali grazie a una dichiarazione di distacco dal clan senza alcuna collaborazione, se non una generica ammissione dei fatti per cui si è stati condannati), da sempre una pedina fondamentale della scacchiera su cui ancora oggi - come dimostra l’inchiesta di Iurillo - giocano le organizzazioni criminali. Un riconoscimento che consentirebbe di sanare la ferita mai chiusa dei boss condannati a pene pesanti fino all’ergastolo, con la prospettiva di intravedere una via d’uscita dal carcere, salvare i propri beni e acquisire nuovamente il proprio ruolo nell’organizzazione contribuendo al suo riconsolidamento. Nello stesso contesto si inserisce una vicenda raccontata da Alfonso Sabella nel libro autobiografico “Cacciatore di mafiosi”. Nel maggio 2000 la Dna (Direzione nazionale antimafia), all’esito di colloqui investigativi con 5 detenuti, chiese al ministro della Giustizia Fassino di valutare la possibilità che costoro incontrassero in carcere altri 4 boss al fine di concordare una pubblica dissociazione da Cosa nostra. Nel contempo si chiedeva di valutare - in sede politica - la possibilità di estendere ai mafiosi dissociati benefici simili a quelli già previsti per chi - senza collaborare - si dissociava dal terrorismo. Fassino inoltrò la questione a chi scrive questo articolo (allora capo del Dap, Dipartimento amministrazione penitenziaria), che a sua volta interessò Sabella, capo ispettorato del Dap. L’iniziativa fu immediatamente stoppata. Qualche tempo dopo (secondo governo Berlusconi) a capo del Dap fu nominato il procuratore di Caltanissetta Tinebra. Sabella, rimasto a dirigere l’ispettorato, scoprì che Salvatore Biondino (fedelissimo di Una) era stato incaricato di trattare nuovamente la dissociazione con lo Stato, ma stavolta per conto di tutte le organizzazioni mafiose: Cosa nostra, Camorra, ‘Ndrangheta e Scu (Sacra corona unita, pugliese). Biondino stava cercando di incontrare in carcere gli stessi boss oggetto della richiesta rivolta a Fassino dalla Dna. Sabella (dopo un segnalazione scritta a Tinebra, che il giorno dopo soppresse l’ispettorato) comunicò ogni cosa a Roberto Castelli (nuovo Guardasigilli), illustrandogli il forte interesse delle mafie a ottenere importanti benefici in cambio di una pubblica presa di distanza dall’organizzazione, inutile in quanto esclude ogni forma di collaborazione processuale. Per tutta risposta, l’ingegner Castelli lo “licenziò dal Dap - struttura dipendente dal ministero - e lo mise a disposizione del Csm. Ora, anche alla luce ditali significativi “precedenti”, è facile prevedere che la sentenza della Consulta sull’ergastolo ostativo potrà obiettivamente prestarsi a iniziative pensate con riferimento ad “aperture” ricollegabili alla dissociazione. Infatti, per l’estensione della possibilità di futuri benefici ai mafiosi ergastolani irriducibili, in quanto non “pentiti” cioè non collaboranti, si richiede l’acquisizione di “elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata”. E di sicuro qualcuno vorrà sostenere che la semplice dissociazione integra detta acquisizione. Così ispirandosi, per altro, a una sorta di “distacco dalla realtà” per quanto riguarda gli scopi - chiaramente emergenti dalla storia della mafia - che con la dissociazione si vogliono ottenere, ben al di là della mera apparenza: trattandosi di un atteggiamento fortemente ambiguo e facilmente strumentalizzabile per dissimulare il persistere di una sostanziale adesione al clan. Una realtà che non è consentito ignorare a cuor leggero e che - in ogni caso - rappresenta un altro ottimo motivo per aderire all’appello che il Fatto ha lanciato il 31 ottobre affinché il Parlamento approvi, per decreto o per legge (sperabilmente all’unanimità), una norma che impedisca ai mafiosi di “truffare lo Stato (...) ottenendo permessi e altri benefici senza meritarli”. Prescrizione e riforma penale: zero intese tra Bonafede e il Pd di Errico Novi Il Dubbio, 12 novembre 2019 Il Guardasigilli dice no a correttivi sulla norma che abolisce i termini di estinzione dei reati: ma a queste condizioni, i dem non sono disposti a dare via libera al Ddl delega che dovrebbe velocizzare i processi. C’era da prevederlo. Che sulla prescrizione il clima si sarebbe arroventato era evento facile da pronosticare. In realtà la vera variabile imprevista è la coincidenza tra la partita sulla giustizia e le generali difficoltà del governo. I colpi incassati in rapida successione da Conte su voto umbro e crisi dell’ex Ilva rendono tutto più precario. Persino sulla giustizia, terreno che sembrava vedere il Movimento 5 Stelle in netto vantaggio. Ora invece tutto lascia presumere che le norme per accelerare i giudizi penali, cuore del progetto Bonafede, finiranno incagliate tra le divergenze interne e risposta andato in scena domenica: prima Bonafede, in un’intervista a Repubblica, ha chiesto agli alleati di smetterla con i “giochetti contro la riforma”, a stretto giro gli ha risposto il vicecapogruppo dem alla Camera Michele Bordo che ha intravisto nelle parole del guardasigilli il rischio di “provocazioni gratuite” vista la “correttezza” che ritiene debba essere riconosciuta al suo partito. Lo stesso Bordo ha paventato il pericolo che con lo stop alla prescrizione si istituisca un “ergastolo del giudizio”. Si tratta di una formula alternativa a quella spesso utilizzata alla maggioranza. Non tanto perché le distanze sulle diverse proposte siano incolmabili, ma perché il Pd, Italia viva e persino Leu (Pietro Grasso a parte) chiedono comunque di riconsiderare anche la norma sulla prescrizione. In assenza di un correttivo almeno parziale sullo stop ai termini di estinzione dei reati, è difficile che arrivi il via libera ai Ddl delega già messi nero su bianco dal guardasigilli. A questo punto la partita rischia di fermarsi proprio con le pedine così disposte: il ministro della Giustizia che non intende modificare il blocca-prescrizione, destinato a entrare in vigore dal 1° gennaio, e il resto della maggioranza che non dà il via libera alla riforma penale. Lo si è capito dopo il botta dall’Unione Camere penali, che preferisce parlare di “imputato a vita”. Ma siamo lì. Nessuna delle ipotesi messe finora in campo, secondo i democratici, sarebbe in grado di assicurare un’accelerazione talmente efficace della macchina penale da rendere addirittura inutile l’istituto della prescrizione. Si ritiene cioè difficilissimo fare in modo che la durata dei giudizi, anche di quelli più complessi, sia sempre contenuta entro una durata comunque inferiore al termine di prescrizione del reato contestato. E in ogni caso, il Pd suggerisce due soluzioni, nessuna delle quali ha finora convinto Bonafede: rinviare l’entrata in vigore della nuova prescrizione e verificare per un paio d’anni almeno l’efficacia della riforma penale (di cui andrebbero approvati pure i decreti legislativi, faccenda impossibile da sbrigare entro fine 2019); oppure limitare i rischi con clausole di salvaguardia, come quella che prevede sconti di pena per il condannato se la durata del processo sfonda il muro della prescrizione, o il ripristino della prescrizione per i casi in cui in primo grado si è assolti. Bonafede sembra determinato appunto a scartare entrambe le ipotesi. A chiedere di verificare prima “gli effetti della riforma, per un tempo congruo”, e di “congelare” nel frattempo l’entrata in vigore della nuova prescrizione è stato innanzitutto Andrea Mascherin, presidente del Cnf, massima istituzione forense. Dall’avvocatura arriva anche l’iniziativa dell’Ucpi, che ha attribuito alla nuova astensione dalle udienze, proclamata per la prima settimana di dicembre con tanto di maratona oratoria, un obiettivo preciso: convincere Pd, Italia viva e Leu a votare alla Camera per la legge Costa, che abolisce la nuova prescrizione. Il Pd sembra intenzionato a scartare l’invito, ma anche deciso a restare in trincea sul ddl Bonafede. Almeno per ora. C’è differenza tra l’assoluzione penale e quella politica di Francesco Merlo La Repubblica, 12 novembre 2019 Che si tratti di Andreotti, di Berlusconi... della sindaca Raggi, dell’ex sindaco Marino o dell’ex ministro Maurizio Lupi, che è il caso più recente, l’idea che l’assoluzione penale assolva l’indecenza politica non è un’idea garantista, ma al contrario è un corollario del peggiore giustizialismo. Affida infatti al giudice la dignità della politica proprio come fanno i manettari che invocano condanne, prigioni e catene e confondono la critica giornalistica, legittima di per sé stessa anche quando è aspra, con il codice penale, e dunque l’incapacità di governare con il delitto, l’inadeguatezza con un articolo del codice, il conflitto di interessi con il crimine, il familismo con il reato. E così ogni volta che viene assolta penalmente una cattiva politica, perché appunto non c’era il reato, si scatena la furia falso garantista: “Chi ripagherà l’innocente da tutto il fango...?”. E si aggrediscono come impuniti manettari anche i cronisti che si sono permessi di esercitare il loro diritto di critica per malefatte e mascalzonate politiche. Da sempre difendiamo la nobiltà della politica anche dall’idea che essa esista solo perché un giudice la fa esistere. Per tutelarla, i giornalisti per bene, raccontando e commentando la cronaca, non si appellano mai al potere giudiziario. Non sono dei Robespierre i giornalisti quando chiedono (e qualche volta ottengono) le dimissioni di sindaci o ministri. Roma per esempio è governata-malissimo (come se gli ultimi tre sindaci fossero uno solo) e Repubblica ne racconta da ben più di dieci anni, molti dei quali quasi in solitudine, il degrado, prima di tutto amministrativo che, come un manto di sugna, ricopre la città più bella del mondo. Ci sono state condanne e assoluzioni, per falso, per peculato... ma l’innocenza penale non certifica la rettitudine politica e non riguarda l’etica politica. Insomma, l’innocenza penale è ben compatibile con la colpevolezza politica e il malgoverno va denunziato e raccontato anche se non è reato. Senza addentrarmi qui nei casi più recenti che mi permetterebbero facilmente di maramaldeggiare sul garantismo-giustizialismo delle tifoserie accanite e cangianti ricordo solo che l’assoluzione di Andreotti ci permise meglio di esprimere i nostri giudizi morali e politici liberandoci dalla pietas dovuta ad ogni imputato. E non pensavamo alla concussione, ma allo strapotere spavaldo quando commentavamo la telefonata che l’allora premier Berlusconi aveva fatto alla questura di Milano per liberare la minorenne Ruby spacciandola per la nipote di Mubarak. Anche i giornalisti ovviamente non sono tutti uguali, ma è un abbaglio da buona notizia, come la troppa ebbrezza che ti impedisce di godertela e ti fa invece vomitare, spacciare ogni assoluzione penale per innocenza politica e ogni giornalista critico in un “sbatti il mostro in prima pagina”. Non credetegli, non sono garantisti e continuano a mentire perché, politicamente, non sono innocenti. Lotta internazionale alle mafie di Vincenzo Musacchio Gazzetta del Mezzogiorno, 12 novembre 2019 Grazie all’acume di magistrati come Rocco Chinnici, Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, la lotta alla criminalità organizzata e alle mafie ha compiuto enormi passi avanti, trovato metodi investigativi sempre più efficaci e ottenuto risultati sempre più soddisfacenti. Ancor oggi il “loro” maxiprocesso resta uno dei rarissimi straordinari atti di giustizia e di trionfo della legge sul crimine organizzato. Tuttavia, nello specifico campo delle evoluzioni mafiose si evidenzia oggi sempre più carente l’approccio a un sistema di lotta a livello transnazionale. Considerata l’impressionante crescita delle mafie a livello internazionale, con il moltiplicarsi delle alleanze tra le cosche di ogni parte del mondo, occorre uno sforzo verso l’internazionalizzazione della lotta alla criminalità organizzata. La lotta alle organizzazioni criminali nel mondo è tutt’altro che un campo omogeneo: la caratteristica principale dei sistemi di lotta è proprio la mancanza d’istituti comuni tra gli Stati. Considerato il contesto di grande mutamento delle nuove mafie che hanno abbandonato le vecchie peculiarità approdando a nuove caratteristiche sempre meno violente e sempre più silenti, si rende necessario un sistema di lotta omogeneo e coordinato a livello internazionale che alla fine dovrà sostituire quello frammentario e disomogeneo vigente. Il vecchio modello di lotta che si concentra sui singoli Stati va rivisto e riconsiderato. È divenuto improrogabile un prodotto dell’interazione tra diversi attori (es. la comunità internazionale) che sia influenzata da contingenze interne ed esterne rispetto a quello che sono le mafie nel mondo. La moltiplicazione di canali dell’illegalità, l’invisibilità assunta dalla moderna criminalità organizzata, le nuove forme camaleontiche che le stesse mafie assumono, rendono la loro lotta più stringente e globale. È divenuto improrogabile, dunque, studiare da una parte come le nuove tecnologie stiano facendo mutare rapidamente le mafie e dall’altra analizzare chi, in che modo e su che dimensione debba combattere questa nuova mafia che pervade sicuramente un territorio più grande di quello di un confine nazionale. I sistemi di lotta alla mafia (prevenzione e repressione) comprendono spesso ambiti contigui e sovrapposti agli interessi che ha uno Stato nel lottare il crimine organizzato. Me ne vengono in mente tre: il rapporto tra mafie e corruzione, tra mafie ed economia e tra mafie e nuove tecnologie. Per decenni lo studio della relazione tra questi tre campi d’azione ha avuto una sola direzione: i confini nazionali. Sono fermamente convinto che gli artefici della lotta alle mafie debbano compiere uno sforzo verso l’internazionalizzazione al fine di rendere la lotta al crimine organizzato più efficace. La mafia ormai è da intendersi come una modalità di azione a livello transnazionale che non ha più senso combattere solo a livello nazionale poiché presuppone sia una valenza globale, sia una configurazione strutturale di rapporti sociali, economici, politici, sempre più intrecciati a quella configurazione strutturale che ruota fuori dall’orbita dei confini nazionali. Oggi continuare a tentare di combattere la mafia solo all’interno di uno Stato non ha più senso logico e tantomeno giuridico. Proprio perché i meccanismi di lotta del crimine organizzato sono anche sistemi concreti, bisogna situarli, collocarli, analizzarli, indagarli e renderli efficaci non solo lì dove si formano, precipuamente nel loro campo appartenenza ma anche e soprattutto a livello globale. È giusto combattere le mafie a livello nazionale, ma ormai non si può più prescindere dal farlo a livello transnazionale tenendo conto dei cambiamenti tecnologici e dei nuovi crimini globali che sono entrati nel campo, nelle nuove pratiche e professionalità che ammantano i nuovi mafiosi. Le analisi di ciascuno di questi cambiamenti non possono essere solo locali, ma devono essere anche globali. Solo in questo modo, la lotta alle mafie può trovare nuovi strumenti metodologici a livello di cooperazione internazionale tra gli Stati. Dovrebbe essere un dovere istituzionale di ciascun legislatore analizzare e combattere queste nuove realtà criminali sovranazionali, informando non solo all’opinione pubblica di riferimento, ma anche il contesto internazionale politico. Le manette agli evasori non superano la “sensata esperienza” di Renato Luparini Il Dubbio, 12 novembre 2019 L’inasprimento delle sanzioni penali in materia fiscale rischia di essere inutile e controproducente, come combattere ogni patologia sociale con i processi. Il dibattito che Il Dubbio ha ospitato in questi giorni sull’inasprimento delle sanzioni penali in materia fiscale, con le colte riflessioni di Michele Fusco e Gennaro Malgeri, mi ha fatto tornare in mente una questione antica, ormai non più di attualità politica in Italia: la punizione penale dell’aborto volontario. Sono abbastanza stagionato da aver partecipato da avvocato difensore a un processo in quella materia, ormai piuttosto desueta nelle aule giudiziarie. L’impressione generale che ne ricavai fu di grande compassione per storie di marginalità e miseria e la convinzione che la punizione penale a volte può rivelarsi una rimedio inadeguato a una malattia gravissima. Per parte mia non ritengo affatto l’aborto un diritto e sono assolutamente persuaso che sia un interesse della collettività e dello Stato evitarlo, anziché finanziarlo con fondi pubblici. Quell’esperienza professionale però mi ha di fatto mostrato che la sanzione penale non è una panacea per ogni male. Le stesse ragioni valgono, senza mutamento alcuno, per la lotta all’evasione fiscale. Nessuno, se non per un vezzo letterario, può tessere l’elogio dell’evasore ed è ovvio che lo Stato, come qualsiasi altra comunità, deve sostenersi con il contributo dei consociati. È tuttavia inutile e controproducente combattere ogni patologia sociale con un unico farmaco, come se il processo penale e il suo esito, non necessario, la galera fosse l’unico strumento giuridico esistente. Purtroppo in coloro che non hanno esperienza processuale questa convinzione è radicata e persistente, per quanto stravagante come le idee di Donna Prassede. Gli esempi del delirio pan- penalista si sprecano e ne posso citare alcuni. È giusto pagare i contributi previdenziali ai propri dipendenti? Certamente sì e non è un bel gesto lasciare i lavoratori senza diritti pensionistici o meglio scaricare il loro costo sulle spalle degli altri, dato che comunque le prestazioni ai lavoratori sono in ogni caso dovute dall’Inps. Sulla base di questo sacrosanto principio, si stabilì a inizio anni 80 che il datore di lavoro moroso andasse sottoposto a processo penale. Fino a che l’economia ha girato bene, i casi di diritto penale previdenziale erano pochi. Poi è arrivata la crisi e con questo un carico spaventoso di notizie di reato a carico di milioni di artigiani, piccoli commercianti e imprenditori, che, travolti dai debiti, non avevano fatto i versamenti all’Inps. Risultato: tribunali intasati, partite Iva rovinate portate sul banco degli imputati alla stregua di rapinatori, anche per somme modeste dato che non esisteva soglia alcuna e si poteva esser processati anche per venti euro. Poi, sull’onda debordante di ruoli di udienza ormai ingestibili, è stata la magistratura stessa a sollecitare una legge che limitasse la sanzione penale a evasioni previdenziali sostanziose, riservando invece a coloro che sono sotto soglia, “solo” da pagare capitale, interessi e sanzioni fino a che morte non li separi da Equitalia. Alcuni di questi piccoli imprenditori sono anche falliti, magari su istanza proprio di Inps e dell’Agenzia delle Entrate. Oltre al procedimento fallimentare, moltissimi di loro sono finiti ad essere imputati nuovamente per bancarotta. Per la nostra legge basta infatti non aver riempito bene un libro contabile per incappare nei vari tipi di bancarotta. Il disgraziato imprenditore, spogliato spesso di tutti i beni, visto che spesso agiva a livello individuale, senza lo schermo di una società limitata, finiva e finisce quindi per essere un pluripregiudicato. Magari solo perché aveva aperto una pizzeria. Chiosa finale: quello che ho scritto non è una storiella apologetica, ma il resoconto sintetico di storie tratte dal mio archivio professionale, come si possono trovare in quello di molti altri avvocati e commercialisti. Le manette agli evasori non sono né di destra, né di sinistra: sono solo una ipotesi che non regge alla prova della “sensata esperienza”, per dirla con Galileo. Anche lui non ha avuto una buona esperienza con i tribunali. Lo diceva Brecht ed anche il mio cliente, quello della pizzeria. Arresti domiciliari, evasione per il caffè preso a casa del vicino di Andrea Alberto Moramarco Il Sole 24 Ore, 12 novembre 2019 Corte d’appello di Roma - Sezione III penale - Sentenza 1 aprile 2019 n. 4470. Il soggetto sottoposto agli arresti domiciliari, in assenza di autorizzazione, non può in alcun caso e per nessun motivo allontanarsi dal luogo di esecuzione della misura, salvo l’ipotesi di stato di necessità che richiede l’imminenza di un grave danno alla persona. Qualsiasi spostamento non consentito, anche all’interno della stessa area condominiale, integra il reato di evasione. Questo è quanto emerge dalla sentenza n. 4470/2019 della Corte d’appello di Roma, che ha confermato la condanna per una donna sottoposta a detenzione domiciliare colta dagli agenti di Polizia a prendere un caffè a casa della vicina. I fatti - A seguito dell’accertamento delle Forze dell’ordine, la donna veniva imputata e processata per rispondere del delitto di evasione di cui all’articolo 385 del codice penale. Dopo la condanna in primo grado, in appello l’imputata cercava di convincere i giudici della bontà della sua azione, non diretta cioè ad un allontanamento non autorizzato dalla propria abitazione, ma giustificata dallo stato di necessità, come testimoniato anche dalla vicina. Secondo quest’ultima, infatti, la donna era uscita di casa per riprendere il cane, di grossa taglia e potenzialmente pericoloso, e nel farlo si era sentita poco bene, sicché le aveva offerto dell’acqua e un caffè per farla riprendere. La configurabilità del reato di evasione - La Corte d’appello non ritiene credibile tale versione dei fatti, che non trova riscontro nell’accertamento effettuato dagli operanti che hanno escluso la presenza di un malore, avendo semplicemente sorpreso la donna agli arresti domiciliari a prendere il caffè dalla vicina di casa. Ciò posto, i giudici romani confermano il verdetto di condanna aderendo alla rigida interpretazione giurisprudenziale, secondo la quale in caso di detenzione domiciliare la condotta di evasione è integrata “da qualsiasi allontanamento dal luogo degli arresti domiciliari senza autorizzazione, anche se di breve durata ed implicante uno spostamento di modesta distanza, e persino se lo spostamento sia limitato a spazi nell’area condominiale”, a nulla rilevando i motivi che hanno spinto il soggetto a lasciare il luogo di esecuzione della misura senza alcuna autorizzazione. Nel caso di specie, poi, conclude il Collegio non può certo ritenersi sussistente l’esimente dello stato di necessità in quanto, pur prendendo per vera la ricostruzione dei fatti della vicina di casa, l’acqua o il caffè necessario per far passare il malore “potevano essere assunti dall’imputata, sia pure accompagnata dalla vicina, all’interno della propria abitazione”. Scatta il reato se l’alimento contaminato è prossimo alla vendita Il Sole 24 Ore, 12 novembre 2019 Cassazione - Sezione III penale - Sentenza 11 novembre 2019 n. 45701. Non scatta la vendita di sostanze alimentari alterate e nocive se la distribuzione per il consumo non è prossima. Lo ha chiarito la Cassazione con la sentenza di oggi n. 45701 depositata dalla terza sezione penale. La questione esaminata e risolta dai giudici di Piazza Cavour riguarda una tipica specialità regionale chiamata “salame mantovano”. In primo grado il titolare di una ditta che produce questo tipo di alimenti è stato dichiarato responsabile del reato previsto dall’articolo 5 della legge 283/1962 (sulle regole igieniche per la produzione e la vendita delle sostanze alimentari e delle bevande) per aver detenuto un salame contaminato dalla salmonella; condannato alla pena di 600 euro ha fatto ricorso alla Suprema corte e ha vinto. I giudici di legittimità hanno infatti accolto i motivi sollevati dal ricorrente secondo il quale il Tribunale di Montava non aveva valutato una circostanza fondamentale relativa proprio alla lavorazione del prodotto. Al momento in cui è stato fatto il rilievo che ha condotto alla formulazione della “sua colpa” il salame “incriminato” si trovava nella fase della stagionatura che dura in media 45 giorni, terminato questo periodo l’agente batterico sarebbe scomparso e il salame messo in vendita. La norma che si considera violata prevede espressamente che risponde penalmente chi detiene e poi vende in momenti ravvicinati o almeno prossimi sostanze nocive per la salute dei cittadini. In questo caso l’immissione in commercio era invece ancora lontana visti i tempi di maturazione del prodotto e la mancata delibera di destinazione alla vendita. Lombardia. La valutazione di impatto entra nelle carceri di Alessia Maccaferri Il Sole 24 Ore, 12 novembre 2019 Un gruppo di studio della Bocconi ha analizzato l’impatto di attività rieducative come il teatro. Per quantificare l’effetto sui detenuti, sulla società e per allocare al meglio le risorse. Che il teatro, l’arte, la letteratura facciano bene ai detenuti non ci sono dubbi. Ma come organizzare al meglio queste attività per avere un impatto realmente efficace sui detenuti, sulla società, anche in termini di calo della recidiva? Un gruppo di ricercatori della Bocconi ha calcolato l’impatto delle attività teatrali di Opera Liquida, dentro il carcere milanese di Opera. Un’esperienza che diventerà utile per estendere il modello di valutazione in altri istituti di detenzione della Lombardia. “Stiamo discutendo con il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Pietro Buffa per introdurre questi concetti di valutazione, ex ante, in itinere, ex post all’interno degli istituti di pena lombardi” racconta Filippo Giordano, professore associato di economia aziendale all’Università Lumsa di Roma. Giordano è ricercatore Icrios Bocconi, centro di ricerca dell’Università Bocconi dove è incardinata questa attività di ricerca sulle carceri che sta andando avanti da tre anni. Il processo di valutazione-raccontato nel libro “Misurare l’impatto sociale Sroi e altri metodi per il carcere” firmato da Giordano, assieme a Francesco Perrini e Delia Langer, edito da Egea - è stato sperimentato all’interno del carcere di Opera, a Milano. Protagonista l’associazione culturale e compagnia teatrale Opera Liquida, fondata nel 2009 all’interno dell’istituto penitenziario. Il metodologia prescelta è stata quella del social return on investment (Sroi). Quali risultati ha dato l’indagine a Opera? Gli esiti dello studio saranno presentati a Opera il 15 novembre nell’ambito di Bookcity alla presenza degli autori del libro e del provveditore Buffa (per partecipare e assistere anche al laboratorio teatrale è necessario registrarsi qui entro il 12 novembre ore 8). Dall’indagine risulta che nell’anno 2018 per ogni euro investito si stima un ritorno pari a 2,23 euro, considerando i benefici derivanti esclusivamente dall’attività del laboratorio teatrale e drammaturgico. La ricerca ha quantificato il miglioramento di tutte le dimensioni degli stakeholder coinvolti: - detenuti: miglioramento delle relazioni sociale, delle relazioni familiari, del benessere psicofisico, delle capacità linguistiche ed espressive; aumento dell’autostima, dell’empatia, miglioramento delle condizioni di vita data dalla possibilità di spesa maggiore. - detenuti ex tossicodipendenti: riduzione di comportamenti dannosi. - detenuti genitori: miglioramento delle relazioni con i figli. - detenuti stranieri: miglioramento dell’integrazione. - detenuti spettatori: possibilità di fruire di un evento culturale, sensibilizzazione sul tema della violenza sulle donne. - familiari: miglioramento delle relazioni familiari. - figli: miglioramento del benessere psicologico. - studenti: sensibilizzazione e riduzione del rischio di commettere crimini in età giovanile. - volontari: aumento delle competenze e sviluppo di capacità e maggiore abilità nella gestione dello stress. - ex-detenuti: stabilità finanziaria data dal reddito addizionale, miglioramento del benessere psicologico, aumento delle capacità professionali. - Polizia penitenziaria: maggiore abilità nella gestione dello stress e riduzione del rischio di burnout, miglioramento della relazione con i detenuti. - Stato: riduzione della recidiva e volontariato. “Per noi è stato importante non focalizzarsi sul tasso di recidiva che peraltro presuppone un lungo periodo di ricerca ma sui driver che impattano sulla recidiva (in Italia circa al 68,5% ndr.)” spiega Giordano, che nel libro insieme ai coautori, presenta una review della letteratura internazionale sugli studi relativi agli impatti delle diverse tipologie di attività svolte in carcere per la rieducazione e il reinserimento. L’obiettivo è offrire una guida per avvicinarsi in modo consapevole non solo al tema della valutazione degli interventi ma anche alla loro progettazione e implementazione. Un tema che richiama sempre più l’attenzione degli studiosi: due anni fa Human Foundation, assieme alla Fondazione Sviluppo e Crescita Crt, ha redatto lo studio di fattibilità per uno strumento simile al social impact bond da introdurre all’interno del carcere Lorusso-Cutugno di Torino. Torino. 65enne si toglie la vita in carcere, aveva ucciso la moglie quotidianopiemontese.it, 12 novembre 2019 Si è impiccato in carcere Roberto Del Gaudio, il 65enne originario di Atripalda (Avellino) che il 18 agosto scorso aveva ucciso in corso Orbassano a Torino la moglie Brigida De Maio, 64 anni, colpendola una trentina di volte al petto con un oggetto molto simile ad un coltello. L’uomo, detenuto alla casa circondariale Lorusso e Cutugno, si è suicidato ieri sera. Dopo essersi scagliato contro la donna, aveva chiamato la polizia, confessando il gesto inconsulto che aveva appena commesso. “L’ho colpita con un oggetto lungo e appuntito...credo di aver ucciso mia moglie”, aveva detto. “Non ce la facevo più, assumo psicofarmaci”, aveva aggiunto agli agenti. Da quanto si è appreso, Del Gaudio era in cura presso il Dipartimento di salute mentale di Torino con una diagnosi di tipo “psicosi paranoide”. Ieri sera la decisione di farla finita. Viterbo. Suicidio in carcere, ventenne trovato impiccato in cella fanpage.it, 12 novembre 2019 Ennesimo suicidio nel carcere di Mammagialla. Ieri, poco dopo le 14, un ragazzo sudanese del 1995 si è tolto la vita appendendosi con le lenzuola. Il giovane era recluso nell’istituto penitenziario viterbese da poco tempo, secondo quanto appreso aveva dei problemi psichiatrici. Gli agenti della penitenziaria che lo hanno soccorso non hanno potuto far nulla, quando sono entrati in cella aveva già smesso di respirare. Non è la prima tragedia che accade a Mammagialla. Lo scorso anno furono due i ragazzi morti suicidi in cella: Andrea De Nino a maggio e Hassan Sharaf a luglio. Avevano 36 e 21 anni. “Il problema - afferma il segretario dell’Uspp, Danilo Primi - è sempre lo stesso e lo abbiamo denunciato più volte. Non è possibile gestire la mole di detenuti psichiatrici, devono essere inseriti in strutture adeguate che possano seguirli. Viterbo sta diventando un putiferio”. Il Garante dei detenuti: “Dare risposta a disperazione stranieri in carcere” - “Ancora un suicidio in carcere, oggi a Viterbo. Un ragazzo di ventiquattro anni, detenuto da marzo, fine pena nel 2020, un anno circa il totale. Sudanese, non faceva colloqui né telefonate. Impressionano la giovane età, la solitudine, il fine pena breve, alla faccia di quelli che dicono che tanto in carcere non ci va nessuno, che sotto i due-tre anni di pena stanno tutti fuori”. Lo ha dichiarato in un post su Facebook Anastasia, denunciando la vicenda. “C’è una disperazione tra i giovani stranieri in carcere a cui non sappiamo dare risposta, minacciando loro solo la pena aggiuntiva della espulsione. Ancora una volta: non perdiamo tempo su presunte colpe individuali, della mancata assistenza, della mancata vigilanza, e pensiamo piuttosto se tutto questo carcere per cose da niente serva davvero a qualcosa”. Napoli. Nel carcere di Poggioreale fino a 12 detenuti in una sola cella di Nadia Cozzolino agenziadire.com, 12 novembre 2019 “Migliorare la qualità della vita detentiva non è un privilegio ma significa rispettare la Costituzione”, dichiara il Garante dei detenuti in Campania, Samuele Ciambriello. Terzo piano del padiglione Roma. Qui si trovano i cosiddetti “sex offender”, persone accusate di aver commesso crimini sessuali o violenze in famiglia. Stanze e corridoi sono stati ristrutturati e le pareti tinteggiate di verde. Ma dentro le celle ci sono fino a dodici persone che hanno a disposizione un solo bagno e pochissimo spazio. Dormono su letti a castello e possono guardare quello che succede fuori da una piccola fessura che separa la loro cella dal corridoio. La prima cella sulla sinistra si chiama ‘socialità’ e doveva servire a svolgere attività ludiche o di studio. Oggi però è una stanza detentiva, proprio come tutte le altre. Nei mesi scorsi il carcere di Poggioreale è stato interessato da una forte protesta dei detenuti. Dopo alcune morti verificatesi all’interno della struttura, i reclusi del padiglione Salerno hanno sfogato tutta la loro rabbia chiedendo attenzione alle istituzioni e rispetto per la loro condizione carceraria. Oggi in quel padiglione sono in corso lavori di ristrutturazione ma altrettante sezioni dell’istituto avrebbero una urgente necessità di essere rimessi a nuovo. Anche il secondo piano del padiglione Roma, dove sono reclusi i tossicodipendenti, versa in condizioni fatiscenti. “Andate al secondo piano, è là che stanno peggio di tutti”, dicono alcuni detenuti mentre attraversiamo il corridoio del primo piano. Nella casa circondariale napoletana sono recluse attualmente 2108 persone secondo i dati diffusi da Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Campania. Ma i posti a disposizione sono solo 1635, quasi 500 in meno rispetto a quelli effettivi. Fino a giugno i detenuti di Poggioreale erano molti di più, circa 2500, ma in molti sono stati trasferiti: 102 nel carcere di Secondigliano e gli altri in penitenziari della Campania o di altre Regioni. Perché il problema del sovraffollamento andava e va risolto. “Le celle da 3 posti non possono essere trasformate in celle da 6 o 9, quelle da 4 non possono diventare celle da dodici. Bisogna rispettare i 3 metri quadri di spazio personale nelle celle collettive”, è l’appello alla Dire del garante dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello. La direttrice del carcere Maria Luisa Palma sottolinea però come a Poggioreale “il criterio dei 3 metri quadri richiamato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo viene rispettato”. “Cosa chiedono i detenuti? Oltre allo spazio chiedono una doccia in ogni cella, acqua calda, possibilità per i familiari di non attendere ore ed ore in spazi stretti e limitati per una breve visita. Bisogna migliorare la qualità della vita detentiva - aggiunge Ciambriello parlando alla Dire - che non è un privilegio ma significa rispettare la Costituzione”. Anche per questo motivo la Regione Campania ha finanziato l’acquisto di 400 frigoriferi che sono già stati installati nelle celle. “Solo chi si trova qui dentro - dice l’assessore alle Politiche sociali Lucia Fortini - sa quanto un semplice frigorifero, che per altri può essere un oggetto senza senso, sia importante per i detenuti ma anche per le persone che in carcere ci lavorano. Per apprezzare questi gesti devi capire davvero e fino in fondo cosa significhi per una persona essere privata del diritto alla libertà”. Non è d’accordo il sindacato di Polizia penitenziaria che chiede “Meno frigoriferi a Poggioreale e più attività di formazione”. Intanto, grazie a un finanziamento statale e regionale ci saranno a disposizione dei detenuti 1,3 milioni di euro per progetti di reinserimento sociale dentro e fuori dal carcere. “A Poggioreale si sono verificati 11 suicidi e 77 tentativi di suicidio, ma tre persone si sono tolte la vita stando agli arresti domiciliari. Dobbiamo pensare anche a chi si trova ai domiciliari e non trasformarlo in un prigioniero”, aggiunge Ciambriello. I 7812 detenuti della Campania hanno a loro disposizione solo 69 educatori e nelle carceri mancano psichiatri e psicologi. “All’Asl di Avellino - denuncia il Garante alla Dire - un concorso per assumere psichiatri a tempo indeterminato, figure da impiegare in carcere. Il bando è andato deserto: nessuno vuole andare in carcere, c’è una visione catastrofica e apocalittica. Eppure dovremmo evitare che un detenuto, una volta fuori dal penitenziario, abbia addosso il marchio di “ex detenuto” che trasforma la sua reclusione in un “fine pena mai”, punito da una società ipocrita e indifferente”. Nei corridoi che separano le celle i detenuti battono i pugni sulla porta blindata che chiude la loro stanza. Chiedono attenzione ma a Poggioreale, così come in altri istituti, è carente anche il numero di agenti penitenziari. “Come è possibile che un solo agente - si chiede Ciambriello - possa rispondere alle richieste di 130 o 135 detenuti?”. Per risolvere alcuni problemi strutturali, il ministero delle Infrastrutture ha stanziato diversi milioni di euro per ristrutturare gli spazi più degradati di Poggioreale, ma sono trascorsi tre anni e nulla è stato fatto. “I soldi sono stati dati al Provveditorato regionale delle opere pubbliche ma in tutto questo tempo sono state fatte solo due visite per verificare lo stato dell’arte dei padiglioni e i lavori non sono mai iniziati”, denuncia il Garante. Un’altra strada per superare le gravi carenze della casa circondariale napoletana sarebbe quella di trasferire tutti i detenuti in altre strutture, fino a un progressivo svuotamento del carcere. Il governo ha individuato in Campania due caserme dimesse da trasformare in carceri moderne, ma servono 40 milioni di euro per ristrutturarli. Cifre ingenti anche per perlustrare la seconda strada, quella di costruire un nuovo mega carcere in provincia, a Nola. Per ora c’è solo il progetto di una struttura innovativa, senza sbarre alle finestre, con campi sportivi, teatri e poche mura. Vercelli. Detenuti e lavoro: la Provincia “apre i cantieri” di Simona Rolla vercellinotizie.it, 12 novembre 2019 Scade il 25 novembre, il bando pubblicato dalla Regione Piemonte, rivolto ai Comuni, per attivare i cantieri di lavoro per persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Il Nodo Provinciale di Vercelli, Rete regionale contro le discriminazioni in Piemonte, istituito da Provincia di Vercelli, in collaborazione con Ires, con il Garante dei detenuti, con il direttore della casa circondariale di Vercelli e referente della Uepe (Ufficio Esecuzione penale esterna), particolarmente sensibili al tema discriminazioni, propone (soprattutto ai piccoli Comuni, con poche risorse economiche) la possibilità di partecipare a questo bando, così da favorire i detenuti nella possibilità di riscattarsi e alle cittadine di avere attivo un cantiere per la pulizia delle strade, la manutenzione del verde. L’iniziativa è stata presentata ieri (lunedì 11 novembre) a Vercelli nella sede della Provincia. “È una misura importante - spiega Lella Bassignana consigliera di parità e referente del nodo che ha organizzato l’incontro - Vogliamo dare la possibilità a Enti pubblici, Comuni, Unioni di Comuni, di poter supplire alla mancanza di personale per svolgere attività di manutenzione ordinaria della “cosa comune” e nel frattempo offrire una possibilità ai detenuti di reinserirsi nel mondo lavorativo e della legalità”. “Tra le tante iniziative a cui abbiamo aderito come Provincia, c’è anche a questa - interviene Eraldo Botta, presidente della Provincia. È più un discorso di umanità che economico. È vero che alcune spese sono a carico del Comune, ma si offre la possibilità a queste persone di tornare a vivere, altrimenti, senza un’opportunità di inserimento, finirebbero sempre di più nella rete della delinquenza”. “Conviene per entrambe le parti - ha affermato l’assessore regionale Roberto Rosso - dare la possibilità a queste persone di potersi integrare attraverso questo tipo di percorso. Il lavoro crea un itinerario preventivo che permette al detenuto di staccarsi dal mondo del crimine e a sensibilizzare l’opinione pubblica nei suoi confronti”. “Una misura ordinaria - interviene Bruno Mellano, garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale - che si alimenta con i finanziamenti. A breve verrà attivato in Piemonte uno sportello lavoro in carcere (unico in Italia, per ora solo per persone maggiorenni). Si tratta di uno strumento di politica attiva del lavoro, per dare la giusta formazione, attraverso corsi specifici e tirocini”. “Comune e Provincia - interviene Roswita Flaibani, garante dei diritti delle persone private della libertà personale - fanno ampiamente la loro parte, ma spesso ci si scontra su alcune tematiche. Ad esempio: in che modo viene portato il detenuto dal carcere alla destinazione per il lavoro. Sono convinta che bisogna aiutare i piccoli Comuni a trovare le risorse anche per questo”. Reggio Calabria. Pettorine di magistrati e avvocati realizzate da donne detenute ilreggino.it, 12 novembre 2019 I magistrati di AreaDg in accordo con il garante regionale dei detenuti, Agostino Siviglia hanno avviato un progetto diretto a coinvolgere le detenute in attività all’interno della strutture detentiva “G. Panzera”. I magistrati di AreaDg del Distretto di Reggio Calabria, dopo la visita organizzata dall’A.N.M. presso le case circondariali “G. Panzera” ed Arghillà di questa città, avvalendosi dell’imprescindibile apporto del CVX, in accordo con il garante regionale dei detenuti, Agostino Siviglia, e con la Direzione delle stesse, in persona di C. Tessitore, hanno avviato un progetto diretto a coinvolgere le detenute in attività all’interno della strutture detentiva “G. Panzera”. L’iniziativa ha generato un loro grande coinvolgimento ed ha permesso la realizzazione di decine di pettorine destinate ad essere utilizzate da magistrati ed avvocati nella quotidiana attività d’udienza. L’iniziativa ha riscontrato il consenso ed il coinvolgimento dell’Avvocatura reggina che, in adesione ai principi cardine della professione forense, ad essa ha preso parte ed intende sostenerla con forza. Le somme sinora ricavate dalla vendita delle pettorine saranno utilizzate, oltre che per un premio in denaro in favore delle sarte-detenute, per offrire alla sezione femminile della Casa Circondariale vari strumenti che possano rendere meno disagevole la vita in regime di restrizione. L’ambizione di avvocati e magistrati è quella di proseguire il finanziamento del progetto e di raggiungere un’organizzazione stabile che si autofinanzi, in modo che l’istituto di pena possa vantare al suo interno uno spazio permanente di impegno rieducativo per le detenute. Mercoledì 13 novembre, alle 16.00, presso l’aula della formazione della Corte di Appello di Reggio Calabria, a Piazza Castello, il Garante regionale dei detenuti, il presidente del consiglio dell’ordine degli avvocati di Reggio Calabria ed un rappresentante del Coordinamento distrettuale di AreaDg, illustreranno le ragioni del progetto, che proseguirà con iniziative in vista del prossimo Natale e che mira ad avere prospettive di stabilità. Durante la presentazione del progetto sarà possibile acquistare le pettorine realizzate dalle donne detenute per gli Avvocati. Roma. I 25 anni dei Volontari della speranza per i detenuti nel segno dell’accoglienza La Repubblica, 12 novembre 2019 L’Associazione della Caritas romana. L’evento si terrà il 16 novembre, nella Sala Congressi dell’Ospedale Pediatrico Bambin Gesù. Il Vic-Volontari in Carcere, associazione che rappresenta la Caritas di Roma presso gli istituti penitenziari di Rebibbia, compie 25 anni. In occasione di questo anniversario, è in programma - per il prossimo 16 novembre - un convegno dal titolo “1994-2019: 25 anni di Volontari in Carcere sotto il segno dell’accoglienza”. Le storie e le testimonianze dei detenuti. Il Vic-Volontari in Carcere vuole così celebrare la ricorrenza, assieme alle istituzioni, agli enti, alle associazioni, ai volontari che hanno accompagnato, dal 1994 ad oggi, la sua crescita e il suo affermarsi tra le realtà più attive dentro e fuori gli istituti penitenziari della città. “Sarà l’occasione - si legge in una nota diffusa dall’Associazione - per raccontare le tante storie e testimonianze di detenuti, ex detenuti e volontari che gli uni accanto agli altri hanno percorso, o stanno percorrendo, una strada di recupero e spesso di reinserimento nella società”. Dove l’evento. L’evento si terrà, alle ore 10,30, presso la Sala Congressi dell’Ospedale Pediatrico Bambin Gesù, in Via F. Baldelli, 34, a Roma. Fra i relatori al convegno, sono previsti gli interventi di Mariella Enoc, Presidente dell’Ospedale, e del Cardinale Vicario di Roma, Angelo De Donatis. Roma. Atletico diritti: da Rebibbia femminile un nuovo calcio d’inizio di Fiorenza Elisabetta Aini gnewsonline.it, 12 novembre 2019 La Casa circondariale femminile Rebibbia di Roma ha aperto le porte al calcio. È proprio nel carcere romano, infatti, che nel settembre 2018 è nata la prima squadra di calcio di detenute in Italia, l’Atletico Diritti, grazie al progetto presentato dalla polisportiva fondata nel 2014 dalle associazioni Progetto Diritti e Antigone. Le donne presenti nell’istituto penitenziario hanno sposato con grande entusiasmo l’iniziativa, che ha unito la pratica sportiva all’integrazione in un binomio indissolubile. Lo sport è da sempre uno straordinario strumento di educazione e di affermazione dei valori della solidarietà ma, tra queste mura, è stato anche un elemento trainante nei processi di promozione delle pari opportunità e ha contribuito in modo efficace a diffondere la cultura del calcio femminile. Le calciatrici si allenano nel campo sportivo dell’Istituto, due volte a settimana per due ore a incontro, alla presenza delle allenatrici, la “coach” Carolina Antonucci (intervistata da gnewsonline.it) e Giorgia Caforio. I materiali sportivi provengono da una donazione del Rotaract Club Roma Olgiata Tevere, che ha deciso di partecipare concretamente all’iniziativa, per affermare che non esistono barriere nello sport, siano esse sociali, di nazionalità, di genere o altro. Inizialmente queste donne intraprendenti si sono avvicinate al calcio più per curiosità che per reale passione, la maggior parte di loro infatti non aveva mai calciato un pallone. Con il passare del tempo, però, il senso di responsabilità e l’importanza del lavoro di gruppo hanno fatto nascere la voglia di sviluppare maggiormente questo progetto per premiare il loro l’impegno. Grazie al direttore della casa circondariale femminile di Rebibbia, Maria Carmela Longo, e alla collaborazione della Polisportiva Atletico Diritti si è iniziato a organizzare delle gare per farle a entrare nel vivo della competizione. La prima amichevole si è disputata con la Nazionale Parlamentari Femminile allenata dall’ex calciatrice della Nazionale azzurra, Katia Serra. Una delle manifestazioni di maggior successo è stata quella che si è tenuta alla presenza del presidente della Camera dei deputati Roberto Fico: lo scorso l’11 giugno si è disputato il triangolare di calcio a 5 a cui hanno partecipato, oltre all’Atletico Diritti femminile, la squadra delle studentesse dell’Università Roma Tre e quella composta dagli operatori della stessa Casa Circondariale. Oltre al presidente della Camera, sono state presenti le giocatrici dell’AS Roma (Serie A di calcio femminile) Claudia Ciccotti, Federica Di Criscio, Camilla Labate e il pro-rettore dell’Università Roma Tre, nonché vice-presidente di Atletico Diritti, Marco Ruotolo. Questo progetto con il tempo ha assunto per ogni donna una fortissima valenza trattamentale e rieducativa: il ritorno positivo della pratica motoria e sportiva si è espresso non solo come deterrente all’ozio e all’inattività fisica, ma soprattutto come promozione del rispetto delle regole. L’iniziativa, seguita con attenzione anche dal funzionario giuridico pedagogico, Alessia Giuliani, referente istituzionale del progetto, ha previsto interventi continui e costanti incentrati proprio sullo sviluppo del senso di responsabilità e del senso del dovere. Il calcio è diventato un elemento per la costruzione di un progetto di vita delle donne, una rieducazione alla legalità. Il carcere in quanto istituzione sociale, attraverso lo sport, è diventato un luogo di crescita civile e personale; ogni calciatrice ha di fatto sottoscritto un patto di responsabilità in cui si è assunta il compito di rispettare le regole, gli altri e l’impegno preso, attraverso un’alleanza educativa che ha agevolato la piena valorizzazione della persona, lo sviluppo della consapevolezza dei propri agiti personali ed una maggiore collaborazione all’interno del gruppo dei pari. Il successo e l’entusiasmo scatenato da questa squadra, ha generato l’idea di iscriverla a un Campionato ufficiale, quello del C.S.I. di Roma, che ha preso il via nei giorni scorsi. Foggia. Volontariato in campo, la dedica dei detenuti: “Così diventa tutto di passaggio” immediato.net, 12 novembre 2019 Si conclude, il 14 novembre, l’edizione 2019 della manifestazione sportiva organizzata da Luigi Talienti nel carcere di Foggia. Un pomeriggio di sport e inclusione. Due ore all’insegna dei valori della pratica sportiva e della funzione rieducativa della pena. Giovedì 14 novembre, a partire dalle ore 14.30, presso il campo di calcio della Casa Circondariale di Foggia, si svolgerà la finale di “Sportivamente”, il torneo organizzato dal volontario Luigi Talienti che, negli scorsi mesi, ha visto sfidarsi in campo le squadre delle diverse Sezioni dell’istituto penitenziario foggiano. “È stata un’edizione particolare - spiega Talienti - perché questa volta l’iniziativa è stata duplicata anche nell’Istituto Penitenziario di San Severo, con particolare attenzione ai mesi estivi, spesso caratterizzati da inattività per i detenuti”. All’evento di giovedì prossimo prenderà parte anche l’Amministrazione Comunale di Foggia. “Sono stati invitati il sindaco Franco Landella, il Presidente del Consiglio Comunale Leonardo Iaccarino e l’Assessore Comunale all’Istruzione, Claudia Lioia. Ringrazio per il supporto la Direzione del carcere, il corpo di Polizia penitenziaria e l’Area Trattamentale. L’intera manifestazione sportiva - sottolinea Talienti - ha visto un elevato coinvolgimento di tutta la popolazione detenuta, che ha contribuito a rendere speciale il torneo. Attraverso lo sport si affermano i valori fondanti del senso civico, del rispetto del proprio prossimo e del valore della regola. Anche per questo motivo abbiamo pensato di consegnare per ricordo ai partecipanti coppe e medaglie. La finale del Progetto rappresenta una giornata di festa, a cui prenderanno parte anche rappresentanti del mondo della scuola”. Proprio l’IPSSAR “M. Lecce” di San Giovanni Rotondo - diretto da Luigi Talienti - ha in programma un’attività di collaborazione con la Casa Circondariale di Foggia, “una serie di iniziative che partiranno dalla pratica sportiva, con una notevole rilevanza didattica per gli alunni e riabilitativa per i detenuti”. “Un plauso particolare - ha concluso il volontario - va all’Acsi di Foggia per lo spirito di abnegazione nel mettere a disposizione l’intero comparto arbitrale e al Csv Foggia, sempre presente nei momenti di promozione del volontariato: una ricchezza dentro e fuori dal carcere”. Si conclude un’altra edizione di una manifestazione ormai storica in Via delle Casermette, come dimostra la dedica sulla maglia sportiva donata dai ristretti a Talienti: “Con tanta infinita stima a te, prof, che con umiltà e coraggio rendi a noi tutto di passaggio”. Napoli. “Al di là del muro”: i detenuti si raccontano tra amore, speranza e angoscia di Donatella Gallone ilmondodisuk.com, 12 novembre 2019 “Al di là del muro” è un progetto creato dal circolo di cultura omosessuale Arci Gay Napoli “Antinoo”. Il circolo Arco Blu Angels è in piena sinergia con loro e partecipa attivamente alle iniziative. Il progetto va avanti da due anni. Noi operatori visitiamo i detenuti della casa circondariale di Poggioreale di Napoli. Ancora non ci siamo abituati a quelle mura, ancora non riusciamo a essere indifferenti alle storie dei ragazzi che esprimono sempre il desiderio di dignità e libertà. Lo fanno con la coscienza di dover pagare il reato e scontare la pena, ma dai loro scritti, disegni e parole emerge una prospettiva di riscatto, di reintegro al lavoro e nella società. I detenuti hanno espresso ancora una volta la volontà di pubblicare le loro lettere. Riporteremo alcuni scritti e disegni come quelli di Juma (un ragazzo/a che vorrebbe gli fosse riconosciuta la sua vera sessualità). Vuole fare il percorso di transazione, la sua età è quella di un diciannovenne, il suo modo di esprimersi è delicato, incisivo. Si definisce un dark rocker, a nostro avviso un gothic rocker, ma comunque i suoi disegni sono inquietanti, e discutendo insieme ci fa capire quanta simbologia e disagio ci siano in quei colori. “Salve a tutti mi chiamo Juma, sono una ragazza trans, mi trovo a Poggioreale per incomprensioni e perché i miei non tollerano determinate cose, e forse non potrebbero mai accettarmi. Sono caduta nel mondo della droga, forse per mancanza di affetto, forse perché non accetto e non ho mai accettato il mio corpo. Fin da piccola ho sempre adorato il mondo degli anime giapponesi da cui prende spunto il mio nome. Ho vissuto l’inferno in una cittadina dove vige l’ignoranza totale, ho subito il bullismo e gli insulti, versando miliardi di lacrime in una completa solitudine”. Il suo sogno è quello di diventare donna a tutti gli effetti. “Sono una persona molto fragile, mi sento incompresa. Non sapevo che esistessero persone che si interessassero delle problematiche di noi trans, poi in queste mura ho conosciuto Daniela Lourdes Falanga, la presidente di Arci Gay Napoli, la mia visione del futuro è cambiata, ho visto negli occhi di Daniela tanta forza, mi ha trasmesso speranza sicurezza, dignità, abbiamo parlato del nostro passato, ho scoperto tante similitudini e somiglianze nelle nostre storie, e la mia visione del futuro è cambiata totalmente. Confido tanto in lei, spero che mi aiuti anche nel mio percorso di transizione, anche perché non ce la faccio più… voglio vivere, farmi vedere come sono senza vergogna di truccarmi, per camuffare i miei peli, che torturano il mio essere”. Ma Daniela non è stata l’unica capace di sintonizzarsi con lui. “Poi anche Pasquale Ferro un altro operatore, nonostante non sia trans, è entrato nel mio complicato mondo, regalandomi bei momenti, spiegandomi che il mio futuro di donna non doveva essere per forza di cose, la prostituzione, facendomi esempi di tante trans che sono avviate a un lavoro regolare, a volte con grande successo… Li ringrazio entrambi”. Daniela Lourdes Falanga insieme ad Antonello Sannino e Pasquale Ferro, con la loro grande sensibilità nei confronti di un universo poco conosciuto dal mondo, sono molto vicini a questo/a ragazzo/a, senza mai escludere le priorità degli abitanti momentanei di celle carcerarie, a cui auguriamo di rivedere presto i cieli del mondo, sdraiati a pancia in su, sognando i loro sogni, magari in una spiaggia oppure in un prato, e perché no, lavorando. Passiamo, adesso, a un’altra lettera: è quella di Gianni, vuole diventare Jennifer anagraficamente. “Otto mesi che sono qui, a Poggioreale, per la prima volta. Vedo mia madre una volta a settimana, e quello è il giorno più bello della mia vita. La convivenza forzata crea molti disagi, ma è una grande scuola, certo sto malissimo dentro, anche perché se non ti comporti come dicono le regole, perdi i semestri. La vita è crudele, ma questo è un destino che ci prendiamo con le nostre mani. Da oggi vorrei riuscire a essere come i cinesi, cospargermi d’olio per farmi scivolare tutto addosso, devo essere lucido, pensare al prossimo appello, senza recidiva, posso avere dei benefici, dipende solo da me. Il carcere lo devi provare per capire come funziona e quanta sofferenza. Baci, Jennifer”. In questi scritti non c’è niente di scontato: parole semplici e dolorose che escono dall’anima, come in quest’altro messaggio: “Buona sera mondo, ti scrivo le mie sensazioni. Da quando sono entrata in un posto come Poggioreale, per prima cosa ho visto aprire e chiudersi alle mie spalle tanti cancelli, e da lì è incominciato il mio incubo. Cancelli neri, chiavi enormi d’orate. Poi mi misero in una fredda cella, per quattro ore, mi congelavo avevo brividi di freddo. Ed ecco come è iniziato il mio percorso. Per prima sono stata al padiglione Roma per oltre due mesi. Proprio lì è uscita una parte del mio carattere che fuori non ho mai avuto, quella di una persona cattiva, e questo mi dispiace, perché io mi conosco bene: sempre con il sorriso, da quando mi svegliavo fino a quando andavo a dormire”. Il carcere gli ha cambiato al vita. “Ho perso quella maschera che ho sempre indossato, l’ho messa in un’altra parte di me, come saper piangere, conoscere il valore della mia famiglia, e il valore di ogni cosa. Non davo valore a niente. Il carcere è diventata la mia casa: ci vivo, ci faccio tutto, pulisco, cucino, dormo, nella mia cella come un numero… come tanti numeri di celle che ho cambiato, ho pensato che al finale, io sono giudicata solo da un numero. Quando uscirò da qui mi giocherò al lotto tutti i numeri delle celle che ho cambiato, numeri vincenti della mia vita, una vita creata da odore di profumo, che poi si è trasformata in odore di dolore, che oggi si è trasformato in odore d’amore. Credo che oggi a 30 anni l’amore in tutte le sue facce è il dolore più bello della mia vita”. A questa lettera vorrei rispondere così: “Mia cara se fuori eri allegra, gioviale e buona, non deve essere il carcere a imbruttire la tua anima, anzi la detenzione ti deve servire a far crescere il tuo essere, a avere pensieri positivi per quando esci. Purtroppo a volte si hanno dei comportamenti “cattivi” ma solo per difesa, le persone non nascono cattive”. E poi c’è F (usiamo sempre nomi di fantasia)… Ha scritto solo una frase, si esprime benissimo attraverso la parola. F è un uomo, sensibile, buono, pieno di ideali di interessi, ha una progettualità futura importante. Dopo tante avversità ho capito che nella vita, basta poco per essere sereni. È una persona positiva ma la sua preoccupazione è che a fine pena lui potrebbe essere stanco d’affrontare il mondo esterno. Replichiamo che se la sua forza interiore è importante adesso, lo sarà anche al momento della desiderata libertà, anzi pensiamo che la vita al di fuori delle mura ringiovanisca e colori il suo essere. In un’altra lettera, troviamo tanto dolore: “Mi trovo in queste mura, solo senza niente, disperato, non ho un abbraccio della mia famiglia come tutti gli altri ragazzi che stanno qua. Mi manca tanto l’amore dei miei cari, vorrei unirmi a loro che stanno lassù per scappare da questo inferno. Sono stato accusato di una cosa che non ho fatto, però dio esiste e sa tutto di me, perché sono un ragazzo buono, non ho mai fatto del male”. A volte si resta ammutoliti, nemmeno le parole di conforto forse servono. Possiamo solo dirgli che la giustizia farà il suo corso. Con un grande in bocca al lupo. E ancora: “Purtroppo vengo da una famiglia separata, ma in queste mura ho trovato una persona che mi ama, già a volte in posti dove esiste la bruttura e trovi l’amore. Qua ho imparato a capire il mondo come non l’avevo mai visto prima. Fuori se ricevevo una cattiveria ci passavo sopra, ma nel padiglione devo difendermi, non è facile. Sto da febbraio in questo posto, vedo la mia famiglia una volta a settimana, e quando vanno via la malinconia mi assale… devo solo darmi forza”. Uragani di sentimenti, richieste di aiuto, forza di volontà, pentimenti e desideri, tutto si accavalla in queste parole. A volte queste sensazioni hanno il tono delle scritte che imbrattano le mura delle città, realizzate con le bombolette di vernice da giovani che vogliono urlare il loro disagio, il loro pensiero… il loro credo. “Spero che da morto perda tutti i sentimenti, perché questa vita mi ha reso vittima di molte sofferenze, un mondo ingiusto e corroso, può provocare solo sofferenza. Io sento di essere speciale, non do spazio a ciò che potrebbe essere apprezzato. I veri talenti muoiono, soltanto allora daranno importanza a ciò che eri, e ciò che potevi essere… non è triste?”. Continua: “Non posate i fiori sulla mia tomba perché sono allergico”. Seguono parole forti importanti che ti stringono il cuore… Non conosciamo i reati di questi ragazzi, non li chiediamo, interagiamo con loro cercando di creare un armonia fatta di parole, cercando di entrare nel loro mondo, e come loro chiediamo semplicemente … dignità. Chiudiamo con uno scritto vecchio pubblicato da noi. “Visitare i detenuti in qualità di operatore non è semplice, devi avere il buon gusto di essere discreto, rispettando la persona che ti trovi di fronte, devi essere tu a entrare nel loro mondo usando il loro linguaggio, dimostrando che sei uno di loro, che si possono fidare di te, solo così le barriere di difesa si abbassano e iniziano a colloquiare con te. Allora scopri velleità e sentimenti nascosti, si parla di tutto: di musica di letteratura, ma soprattutto di… vita. Non vogliamo far diventare questa nostra rubrica Tutti i colori del mondo una sorta di posta del cuore ma nelle nostre risposte c’è il dovere di andare incontro alle loro richieste di aiuto morale, al loro doloroso percorso, un percorso che avrà sempre un finale: ci auguriamo che sia sempre positivo. Grazie ragazzi”. Milano. Detenuti e libertà religiosa, la fede in carcere nelle foto di Margherita Lazzati di Raul Leoni gnewsonline.it, 12 novembre 2019 Gesti, sguardi, preghiere. Per ogni dio, in nome di tutte le religioni, in una varietà di lingue. In cinquanta scatti, rigorosamente in bianco e nero, Margherita Lazzati documenta le esperienze di fede nella vita quotidiana dei detenuti e sarà il Museo Diocesano di Milano a ospitare dal 15 novembre il suo lavoro, in una mostra fotografica che si concluderà il 26 gennaio 2020. Il rapporto tra l’artista milanese e gli istituti penitenziari nasce nel 2011 e si consolida nel tempo: quella realtà, fatta al tempo stesso di speranza e disperazione, colpisce Margherita Lazzati al punto di ispirarne i lavori della serie Ritratti in carcere, nati nell’ambito del “Laboratorio di lettura e scrittura creativa” ospitato dalla casa di reclusione Milano-Opera. Il progetto legato alle manifestazioni di libertà religiosa dei detenuti scaturisce nel 2017 da un incontro con l’allora direttore del carcere di Opera, Giacinto Siciliano, proseguendo poi con il successore Silvio Di Gregorio e con il provveditore della Lombardia, Luigi Pagano. Simbologia e ritratto di un microcosmo esemplare sotto il profilo multietnico e multiconfessionale. “Ho scelto di ritrarre non solo i luoghi della preghiera e della condivisione -spiega Margherita Lazzati - ma anche i dialoghi, gli sguardi, i gesti rituali, i momenti di convivenza tra persone, che sono poi quelli che maggiormente mi hanno colpita. Questo è un tema a me molto caro. Cerco di rimanere lontana da ogni retorica e di rivolgere la mia indagine unicamente alla ‘persona’. In questo caso mi sono concentrata sull’esperienza che le persone vivono e condividono: un’esperienza di riflessione, preghiera, speranza, disperazione”. Nel racconto fotografico, l’incontro tra l’uomo e il trascendente non resta rinchiuso dietro le sbarre: l’intento è, dichiaratamente, quello di sollecitare profondi interrogativi in un contesto più ampio utilizzando un mezzo di comunicazione universale come quello dell’immagine artistica. L’esposizione - realizzata in collaborazione con la Galleria L’Affiche di Milano - è curata da Nadia Righi e Cinzia Picozzi, rispettivamente direttrice e conservatrice del Museo Diocesano. Lecco. “Mani libere. L’isola del riscatto”, la pena come valore rieducativo leccotoday.it, 12 novembre 2019 Mostra fotografica di Beatrice Mazzucchi. La testimonianza di una realtà carceraria alternativa nelle fotografie di Beatrice Mazzucchi, in mostra dal 13 al 15 novembre 2019 al primo piano dello spazio per eventi Oto Lab, in Via Mazzucconi 12 a Lecco. “Mani Libere. L’isola del riscatto: la pena come valore rieducativo” è una raccolta di fotografie scattate sull’isola toscana di Pianosa, sede dell’omonima colonia penale. Il progetto trova il suo punto di partenza nell’Art. 27 della Costituzione, che recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” e nell’Art. 21 sulla condizione di semilibertà lavorativa. Tali articoli trovano la massima espressione nel Carcere di Porto Azzurro e in particolare nella sua sezione di Pianosa, dove i detenuti vicini al totale sconto della pena hanno la possibilità di rientrare in contatto con la comunità e trovare il proprio riscatto nel lavoro. Così la Fotografa racconta la sua esperienza e la realtà dell’isola: “Per una settimana ho avuto l’opportunità di vivere sull’Isola di Pianosa a stretto contatto con i detenuti che lì scontano gli ultimi anni di pena, usufruendo dei benefici dell’art. 21 che, a fronte di un comprovato percorso di pentimento e revisione dei propri errori, consente, attraverso la semilibertà lavorativa il recupero delle persone e il loro reinserimento nella società civile”. Il lavoro quotidiano, svolto in libertà, senza le costrizioni tipiche del carcere, e il contatto con liberi cittadini e Turisti come strumento per il riscatto e il recupero della propria dignità di uomini che sì, hanno sbagliato, ma hanno saputo intraprendere un cammino virtuoso che è sfociato in questo progetto, unico in Europa. “Molti sono le carceri dove vige l’applicazione dei benefici della semilibertà lavorativa - sottolinea Beatrice Mazzucchi -, ma in tutti il lavoro o è svolto all’interno degli istituti di pena o chi ne usufruisce la sera ha l’obbligo di rientro in cella, con tutte le limitazioni che ciò comporta. A Pianosa i circa venti Detenuti inseriti nel progetto godono di un’ampia libertà: possono muoversi liberamente sull’Isola, anche al di fuori dei compiti lavorativi loro assegnati, e la sera rientrano in una struttura che li accoglie, ma dalla quale sono state elimina sbarre, porte blindate, chiavi e catenacci”. Beatrice Mazzucchi, ventiquattrenne lecchese, è fotografa freelance appassionata di reportage. Dopo gli studi presso l’Istituto italiano di Fotografia ha scattato nei teatri di Milano e al “Pride” del capoluogo. A seguito di un’esperienza come assistente fotografa nell’ambito dell’interior design, ha intrapreso un corso di video-making e collabora oggi con il polo di Lecco del Politecnico di Milano. Sogna di diventare fotografa di concerti e di approfondire la sua esperienza nel reportage. “Mani Libere. L’isola del riscatto: la pena come valore rieducativo” sarà in mostra a Oto Lab, in Via Mazzucconi 12 (Rancio di Lecco) dal 13 al 15 di novembre. L’inaugurazione si terrà alle 18:30 di mercoledì 13 novembre e l’esposizione sarà visitabile i giorni successivi dalle 10:00 alle 13:00 e dalle 15:00 alle 19:00. L’ingresso sarà libero e gratuito. Lo spazio per eventi è raggiungibile in autobus o a piedi dai parcheggi in via Gorizia, Viale Adamello e Via Mentana. Trentennale Convenzione sull’infanzia e l’adolescenza: le iniziative dell’Autorità garante garanteinfanzia.org, 12 novembre 2019 Una campagna di comunicazione, tavole rotonde, incontri con bambini e adolescenti, un volume dedicato, raccomandazioni, studi e una proposta sui livelli essenziali delle prestazioni. Così l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza celebrerà, nel mese di novembre, il trentennale della Convenzione di New York, approvata dall’Assemblea generale dell’Onu il 20 novembre 1989. Campagna di comunicazione. Uno spot sulle reti Rai, sia radio che tv, e una campagna social realizzati in collaborazione con il Dipartimento per l’informazione e l’editoria della Presidenza del Consiglio dei ministri accompagneranno il periodo delle celebrazioni. Con un linguaggio semplice, rivolto ai più giovani, la campagna promuove la conoscenza della Convenzione Onu ricordandone i 30 anni. Diritti in crescita. Il 19 novembre, nell’auditorium del Museo dell’Ara Pacis di Roma Capitale, si terrà l’evento “Diritti in crescita”. Sei tavole rotonde - animate da esperti, rappresentanti delle istituzioni e del terzo settore - affronteranno altrettanti temi. Si spazia da “Una città a misura di bambino” a “Rafforzare il sistema di prevenzione e protezione” per passare poi a: “L’inclusione dei minorenni vulnerabili”, “Il contrasto alla povertà educativa”, “La tutela del benessere e la promozione di sani stili di vita” e “Uno sguardo al futuro: la Convenzione riscritta dai ragazzi”. Partecipano ai lavori gli adolescenti della Consulta delle ragazze e dei ragazzi dell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza e del progetto Enya promosso dalla rete europea. In apertura di “Diritti in crescita” sarà presentato il volume curato dall’Autorità: “La Convenzione delle Nazioni unite sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (Crc): conquiste e prospettive a 30 anni dall’adozione”. A firmare i contributi docenti e ricercatori universitari. Le celebrazioni. Nel mese di novembre l’Autorità garante parteciperà a una serie di eventi celebrativi. Sarà l’occasione per affrontare il tema dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza sia dal punto di vista dei traguardi conseguiti che da quello dei risultati da raggiungere anche alla luce dei cambiamenti intervenuti dal 1989 a oggi. Off-line contro il cyberbullismo. Il 21 novembre nel teatro del liceo “Morgagni” di Roma, alla presenza della Garante Filomena Albano, si concluderà il tour nazionale di “Off-line, la vita oltre lo schermo”, progetto itinerante dell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza realizzato in collaborazione con l’associazione “Un’altra storia”. Il progetto ha coinvolto in 10 tappe - con il contributo del giornalista Luca Pagliari - oltre 6 mila studenti delle scuole superiori di tutta Italia per raccontare la storia di Alice, vittima di soprusi, e per aiutare i ragazzi a prendere consapevolezza del fenomeno e a spingerli a parlare. L’evento conclusivo nella Capitale si svolgerà con la partecipazione di oltre 300 studenti e la presenza di Alice, protagonista del docufilm “dodicidue”. I bambini parlano diritti[o]. A Palermo il 25 novembre, nella cornice del Cinema “De Seta” ai Cantieri culturali alla Zisa, l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza incontrerà più di 400 alunni della scuola primaria nell’ambito del progetto “I bambini parlano diritti[o]”. L’iniziativa, che ha avuto come obiettivo la diffusione della conoscenza della Convenzione Onu attraverso la riscrittura dei diritti, ha coinvolto in tutta Italia più di 10 mila giovanissimi partecipanti. Il progetto è stato realizzato in collaborazione con l’associazione “Così per gioco”. Nelle attività è stato utilizzato il libro illustrato dell’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza “Geronimo Stilton. Viaggio alla scoperta dei diritti dei bambini” (edito da Piemme), un’avventura ambientata nella Penisola alla ricerca della Convenzione smarrita, e ritrovata, in occasione delle celebrazioni per i suoi 30 anni. Proposta per la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni. Nel mese di novembre sarà presentata la proposta dell’Autorità garante “I livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali dei bambini e degli adolescenti. Proposta di un percorso incrementale di implementazione”. Quattro gli ambiti toccati: mense scolastiche, asili nido, parchi giochi e disabilità. Raccomandazioni e studi. Nel corso del mese di novembre è prevista, in occasione delle celebrazioni per il trentennale della Convenzione di New York, la pubblicazione di una serie di studi e ricerche. Orrore e ipocrisia delle teorie razziste di Dacia Maraini Corriere della Sera, 12 novembre 2019 I pregiudizi esistono ancora. E che l’ex ministro dell’Interno, di fronte all’indignazione per le offese via rete alla senatrice Segre, affermi “anch’io vengo minacciato sulla rete”, dimostra che il suo pensiero è influenzato da un arcaico e goffo o pregiudizio. Pensavo che il razzismo fosse morto e sepolto dopo gli orrori di cui si è macchiato chi lo usava come base del suo comportamento politico e sociale. Ma evidentemente mi sbagliavo. Eppure la scoperta del Dna ha provato quello che già Darwin aveva affermato, che le razze non esistono. Per quanto ci siano differenze fra persone, non esiste un Dna degli ebrei o del popolo dei neri. Fra l’altro l’argomento razza come discriminante proviene sempre da chi teorizza l’appartenenza a un tipo umano superiore per ragioni biologiche. E la biologia obbedisce a regole non modificabili. Non si è mai sentito qualcuno teorizzare l’appartenenza a una razza inferiore. Da questo si dovrebbe già capire l’ipocrisia della teoria. Mentre è sicuro che storia, la cultura, il luogo dove si nasce e si cresce sono alla base delle nostre scelte e del nostro grado di consapevolezza, il razzista sostiene che le differenze stiano nella purezza del sangue. Che l’ex ministro dell’Interno, di fronte all’indignazione per le offese razziste fatte via rete alla senatrice Segre, affermi “anch’io vengo minacciato sulla rete”, dimostra che il suo pensiero è ancora influenzato da un arcaico e goffo o pregiudizio. La frase infatti dimostra che non ha mai riflettuto seriamente sul nazismo e le sue aberranti teorie discriminatorie. Significa che non sa o non vuole sapere quale tragedia sia stata la persecuzione degli ebrei, e aggiungiamo dei comunisti, degli omosessuali e dei Rom, che a milioni sono stati depredati dei loro beni e poi gassati, quindi bruciati nei forni crematori. Cosa c’entrano le minacce a un uomo politico che deve affrontare la sua condizione di persona pubblica, con una pratica statale di sterminio di massa e con le esperienze di una bambina che ha perso il padre e i parenti in un campo di concentramento nazista? Ai negazionisti poi vorrei ricordare che le più chiare testimonianze dei massacri non le hanno tirate fuori gli alleati, ma gli stessi nazisti che facevano una fotografia di ogni detenuto e, nella loro mania compilatoria, registravano minuziosamente le spese per il gas ziklon B, per la manutenzione dei forni, per il mantenimento dei prigionieri. Hanno cercato di distruggere le prove, segno della loro coscienza sporca, ma non sono riusciti a farlo come avrebbero voluto. Chi visita Auschwitz oggi può vedere le fotografie, le carte delle spese, nonché pezzi della camera a gas con le pareti ancora imbrattate dal gas mortale. Case pubbliche, basta odio razziale di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 12 novembre 2019 Un deputato e un consigliere di Fratelli d’Italia hanno filmato alla Bolognina i citofoni delle case popolari e scandito in un video (virale nei social sovranisti) i nomi stranieri dei legittimi assegnatari per sostenere così l’”epurazione” e il “furto” delle abitazioni ai danni degli italiani. La campagna per il voto in Emilia-Romagna, una sorta di “madre di tutte le elezioni”, comincia già a distillare i suoi veleni. Un deputato e un consigliere di Fratelli d’Italia filmano alla Bolognina i citofoni delle case popolari e scandiscono in un video (virale nei social sovranisti) i nomi stranieri dei legittimi assegnatari per sostenere così l’”epurazione” e il “furto” delle abitazioni ai danni degli italiani. La gogna web casa per casa naturalmente evoca ben più tragici fantasmi e provoca la reazione del Comune e del Pd. Segue denuncia al garante della privacy. Nell’improvvida iniziativa sovranista colpisce soprattutto la perseveranza della destra, al momento egemone, nell’affrontare nel modo più fasullo e strumentale (e in questo caso indegno) questioni vere e sentite dalla gente. Perché la Bolognina è da anni uno dei quartieri più esasperati di Bologna e, sebbene oggetto di volenterosa bonifica, resta simbolo di molti errori della sinistra e zona di infiltrazione della mafia nigeriana che lì controlla lo spaccio. E perché i criteri di assegnazione delle case popolari sono realmente problematici: l’Ater spiegava alla commissione periferie che la tipologia di patrimonio immobiliare pubblico ha dimensioni concepite all’epoca del boom demografico, a grandi metrature corrispondono assegnazioni che legittimamente privilegiano le famiglie più numerose le quali, ormai, non sono più italiane. Dunque, si dovrebbe lavorare insieme per rimodulare in parte l’offerta abitativa pubblica, trovando regole condivise per svitare lo scontro tra autoctoni e nuovi arrivati. Si potrebbe persino collaborare nella bonifica dei quartieri, che è questione sociale prima che securitaria (e dunque potrebbe essere addirittura bipartisan) anziché girare per quei quartieri accendendo focolai di odio razziale. Ma questo implicherebbe serietà e senso del bene comune: in poche parole una destra costituzionale, al momento, non pervenuta. Liliana Segre, la Shoah, il Muro di Eraldo Affinati Avvenire, 12 novembre 2019 Ero solo un bambino quando mia madre mi disse che non avrebbe voluto vedere il film “Parigi brucia?” di René Clément perché c’erano delle scene che le facevano ricordare la sua deportazione verso la Germania, a cui riuscì a fuggire scappando durante la sosta del treno alla stazione ferroviaria di Udine il 2 agosto 1944. Non potevo capire. Ho impiegato del tempo. Ma oggi a bruciare sono le parole: quelle che ogni generazione sarebbe chiamata a riconquistare per trovare almeno la dignità di stare al mondo. La vicenda di Liliana Segre, costretta addirittura ad avere la scorta, segna una deriva culturale profonda: se nelle aule del Parlamento italiano una storia come la sua subisce la strumentalizzazione a cui abbiamo assistito nei giorni scorsi significa che qualcosa, fuori e dentro di noi, si è spezzato. Le dichiarazioni del sindaco di Predappio, pronto a negare i fondi necessari a uno dei due studenti in partenza per Auschwitz, sostenendo che si tratta di un’”iniziativa di parte”, sono sale sulla ferita, così come gli insulti reiterati che negli stadi alcuni sedicenti tifosi continuano a rivolgere contro i giocatori africani. Si ha la sensazione che siano saltati i punti di riferimento comuni fissati dai padri costituenti come invalicabili: quei fondamenti della democrazia senza i quali non potremmo nemmeno sederci uno di fronte all’altro. Chi nega l’unicità dello sterminio amministrativo e industriale rappresentato dalla Shoah, nel migliore dei casi non sa nemmeno di cosa parla, non ha letto niente, non conosce il passato; nel peggiore è in malafede, impegnato a lucrare consenso sull’ignoranza altrui. Come se lo studio della storia fosse una specie di repertorio dei buoni e dei cattivi, una lista a due colonne: quelli da premiare e quelli da rigettare. Da una parte mettiamo chi sta con noi, dall’altra coloro che ci ostacolano. Come faremo a salvarci dalla stoltezza, dall’ottusità, dalla semplificazione? Dobbiamo ripristinare i nessi fra il pensiero e l’esperienza: soltanto così le parole che pronunciamo avranno senso. Riprendiamo i manuali e insegniamoli ai nostri figli: non solo a loro, purtroppo; anche a chi ci dovrebbe rappresentare. Consegniamo il testimone. Non stanchiamoci di dover ricominciare da capo. Teniamo presente che la tradizione alle nostre spalle non sta mai ferma, alla maniera di un blocco granitico, ma continua a cambiare non appena la interpelliamo. Trent’anni fa cadeva il muro di Berlino: era la fine del totalitarismo sovietico, la conclusione del “secolo breve”. Ma come si fa a capirlo se non si parte dalla fine della Seconda guerra mondiale? E poi ancora prima, se non ci si immerge nel groviglio spinoso del Novecento? Nazismo, comunismo, lager, gulag, dittatura, monarchia, repubblica, libertà, sottomissione: non siamo di fronte a maschere da indossare. Dobbiamo fare sul serio. Riportare tutto alla nostra vita. Evitare ogni atteggiamento precostituito. Scegliere con cura le espressioni giuste. Non parlare a vanvera. Proprio ieri, presentando in anteprima agli studenti del Liceo Torricelli di Maniago la mostra fotografica da me curata che si inaugura oggi a Pordenone, “Il muro infinito”, ho guardato nei loro occhi, fra timore e tremore, come sempre dovrebbe fare l’insegnante. Per noi adulti il 1989 è un ricordo personale. Per loro si tratta di un mondo lontano. Non dovremmo mai dimenticarlo. Quando ho detto che la capitale tedesca è stata un’isola libera e capitalista nel grande mare comunista, mi è parso di dare acqua alla spugna secca: mezz’ora dopo, di fronte alle immagini esposte, in molti sono venuti a chiedermi ulteriori spiegazioni. Nel momento in cui ho affermato che la Berlino multietnica di oggi rappresenta la vera sconfitta di Adolf Hitler, più ancora di quella che gli inflissero le truppe liberatrici, in diversi hanno mostrato interesse. Ma forse la sensazione più importante me la sono tenuta per me. Avrei voluto aggiungere: avanti ragazzi, non lasciateci soli, abbiamo bisogno di voi per ricostruire il paesaggio distrutto. La frontiera di Lampedusa (Salvini e noi) di Alberto Leiss Il Manifesto, 12 novembre 2019 La parola frontiera si sa bene che cosa significhi, ma il suo senso subisce significativi slittamenti. C’è il mito della frontiera del West; un’idea di frontiera è all’avanguardia, sfida il tempo e lo spazio per meravigliosi ardui mutamenti. C’è poi la frontiera come semplice confine. Una soglia sempre problematica, che spesso si trasforma nel fronte di guerra. Tutto deriva da un termine che indica la parte più complessa del corpo umano. La nostra fronte e quello che ci sta dietro. In un dizionario etimologico on line ho trovato questa bella metafora: “sede per alcuni del principio pensante e specchio dell’interno pensiero”. Ma ci specchiamo anche in chi ci sta di fronte. Amico o nemico che sia. Nei giorni in cui ricordiamo un muro caduto trent’anni fa è bene riflettere su quelli, fisici, psicologici, politici, di cui ci stiamo circondando oggi. Lo hanno fatto sabato e domenica magistrati, uomini e donne delle forze dell’ordine e delle istituzioni, intellettuali, giornalisti, artisti, convenuti a Lampedusa, per un incontro intitolato: “La frontiera del diritto e i diritto della frontiera”. Si parla delle migrazioni e delle politiche, più o meno legali e legittime, con cui si affronta il fenomeno. Occasione che si ripete dopo 10 anni, per iniziativa di Area Democratica per la Giustizia e dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’immigrazione. E qui questa rubrica potrebbe terminare, con l’invito a chi stesse leggendo di trovare il tempo per ascoltare con attenzione quei due giorni di discussione, grazie alla registrazione integrale che ne ha fatto - sempre sia benedetta e sostenuta - Radio Radicale. Ma citerò almeno il Procuratore della Repubblica di Agrigento Luigi Patronaggio e il giornalista Gad Lerner. Il primo ha ripercorso il “caso Diciotti”, giudiziariamente ormai “chiuso”, per ricordare quale incredibile abuso di potere commise in quell’occasione l’allora ministro degli Interni, che emettendo semplici “ordini orali” privò della libertà stranieri incolpevoli su una nave militare che era “territorio italiano”. In un contesto di decreti emergenziali in assenza di qualunque reale emergenza, e in violazione di molte norme internazionali, per non parlare della nostra Costituzione. Gad Lerner ha sollevato, tra le altre cose dette, la questione principale: come mai le posizioni civili e democratiche emerse nella discussione a Lampedusa non raccolgono il consenso della maggioranza dei cittadini? Leggo che Salvini cerca di presentarsi ora con un linguaggio e posizioni politiche meno “bulle”, a essere gentili. Sarà anche vero, se pure l’ambiguità con cui ha trattato fino a ora il rapporto con la senatrice Liliana Segre - l’ho incontrata, la incontrerò, ma anche no, e il proiettile più lungo comunque ce l’ho io… - non promette nulla di buono. Non gli crederò fino a quando non ammetterà di avere sbagliato e ecceduto gravemente con la storia (storiella e storiaccia) dei “porti chiusi”: non mi interessano le responsabilità giudiziarie, ma quelle politiche. Stesso discorso per i grillini allora al governo con lui. Quanto alle varie forze e persone di sinistra - radicali e moderate - che fanno fronte contro il leader della Lega, dovranno prima o poi rispondere in modo comprensibile alla domanda di Gad Lerner. Dove abbiamo sbagliato e continuiamo a sbagliare? Quali le parole inefficaci, le norme dannose approvate o non modificate, le inefficienze - e peggio - nella gestione dell’accoglienza e dell’integrazione, i rimossi sui rapporti con i paesi africani, l’opacità sulle cause vere che spingono uomini, donne e ragazzini a rischiare la vita per cambiare una vita insopportabile? Alcol e droga, l’appello ai genitori: “Per salvare i ragazzi, aiutino le scuole” di Marco Gasperetti Corriere della Sera, 12 novembre 2019 I dati dell’ultimo anno sono allarmanti: 400 i casi di “sballo” registrati a Milano e Roma. Parla la preside di un liceo di Pistoia che bocciò sei ragazzi. Qualcuno, fuori dalla scuola, parlò di bullismo di ritorno da parte del liceo. Un anno dopo, tra le arcate medievali di ciò che un tempo era stato un convento di clausura e oggi è una delle migliori scuole della città, la memoria di quel giorno sembra smarrita. È solo una sensazione, però. Perché quel 28 marzo del 2018 e i giorni che seguirono, rappresentano uno spartiacque tra il prima e il dopo il “grande sballo” al liceo artistico Policarpo Petrocchi di Pistoia. Ci fu un’assemblea, una delle tante programmate dagli studenti e concesse dal regolamento dalla scuola. Si svolse, come sempre, in un luogo a una quindicina di minuti a piedi dalla sede del liceo in quella che oggi a Pistoia chiamano la Cattedrale, un magazzino ex Breda, la società che costruisce treni. E qui, nel cortile, accadde qualcosa di imprevisto e sconcertante. Una ragazzina di 15 anni, al primo anno di liceo, aveva portato nello zaino bottiglie di birra e alcol e si era ubriacata rischiando il coma etilico. Mentre stava male, tre bulli l’avevano legata, le avevano disegnato scritte sessiste sul volto, ripresa con il telefonino e derisa. Altri quattro compagni, anche loro della prima classe, erano rimasti lì a guardare, senza chiedere aiuto, sorridendo o mostrando divertita insofferenza. Un episodio, solo uno dei più recenti tra i tanti che affliggono le scuole italiane. Il video intimo dal Virgilio e la droga al Parini - Al prestigioso liceo Virgilio di Roma due anni fa durante un’assemblea era circolata droga e sui social un video di due ragazzi ripresi in un momento intimo. A Milano, lo scorso anno, gli stupefacenti erano andati in gita insieme agli studenti del liceo Parini, un’altra scuola di eccellenza. E a Cinisello dopo un controllo alcuni studenti avevano gettato la droga dalle finestre delle aule. Casi che si ripetono quotidianamente. Nella sola Milano ogni anno ne sono segnalati 400 e altrettanti sono stati registrati a Roma. A giugno il Viminale ha pubblicato i dati del Progetto Scuole Sicure dell’anno scolastico 2018-2019. Non sono incoraggianti: oltre 14 chili di droga sequestrati, 31 le persone arrestate, 45 quelle denunciate all’autorità giudiziaria e 855 le violazioni e gli illeciti amministrativi. Sono stati quasi seicento gli istituti scolastici coinvolti. E spesso alla droga è stato associato l’alcol per uno sballo completo. La causa di 4 genitori contro il liceo - La storia della ragazzina ubriaca e bullizzata di Pistoia, non si discosta molto dagli altri episodi anche se il finale ha aperto le porte alla speranza. Sei degli otto ragazzi coinvolti (compresa la ragazza dello sballo) sono stati bocciati per motivi disciplinari e hanno cambiato scuola, un altro ragazzo è stato respinto a settembre ma ha deciso di iscriversi nuovamente al liceo, un ottavo studente è stato promosso. “Ma la ferita più grave è stato l’atteggiamento di alcuni dei genitori dei ragazzi”, spiega la preside Elisabetta Pastacaldi. “Il loro comportamento ha minato l’autorevolezza della scuola. Invece di collaborare hanno contestato i nostri provvedimenti disciplinari, i genitori di due ragazzi si sono addirittura rivolti a un avvocato. Siamo stati accusati di aver esagerato nei provvedimenti disciplinari”, racconta la preside. “Ci aspettavamo collaborazione”, riflette la dirigente dell’istituto, “e che accettassero i provvedimenti disciplinari del Consiglio di istituto, l’organo interno formato da professori, dipendenti non docenti, genitori, studenti e preside. E invece tutto si è trasformato in un’infinita querelle, una bega gigantesca”. Fondamentale rendere pubblici episodi gravi - A volte però anche le beghe servono a qualcosa. Soprattutto a diradare quelle nebbie che spesso avvolgono i ragazzi davanti alla finta trasgressione dello sballo. “Abbiamo enormemente bisogno che, soprattutto a scuola, qualsiasi episodio di eccesso, abuso e sopraffazione venga immediatamente reso pubblico”, spiega Paolo Fuligni, psicologo e psicoterapeuta autore di progetti con l’associazione Elefante Invisibile anti sballo e bullismo nelle scuole superiori italiane, “e che vi sia una risposta disciplinare adeguata a sua volta pubblicizzata il più possibile. Perché quello che si combatte è l’incoscienza. Sono convinto che oggi, senza prediche, gli studenti del liceo di Pistoia siano più consapevoli e responsabili di loro stessi”. Niente scuse e scena muta davanti alla preside - Anche perché un anno fa solo in parte questa consapevolezza si era manifestata. La ragazzina dello sballo, davanti alla preside, aveva fatto scena muta, quasi disinteressandosi di ciò che era accaduto. Poi, sollecitata dal clamore mediatico, alcuni giorni dopo, aveva fatto sapere che stava attraversando “un momento di difficoltà” e che “le scuse non servono a nulla ora, non possono fare molto”. Gli altri ragazzi, “bulli” e “spettatori”, erano apparsi increduli dopo le contestazioni della scuola. La zona del parcheggio Pertini, di fronte all’edificio cosiddetto Cattedrale (ex sede della Breda) in cui, nel corso di un’assemblea d’istituto che normalmente si svolge in quei locali, si verificò l’episodio del 2018 (foto Simone Donati) La zona del parcheggio Pertini, di fronte all’edificio cosiddetto Cattedrale (ex sede della Breda) in cui, nel corso di un’assemblea d’istituto che normalmente si svolge in quei locali, si verificò l’episodio del 2018 (foto Simone Donati) Ragazzi pentiti, ma ignari del pericolo - “Erano tutti molto pentiti e credo fossero sinceri”, ricorda la preside, “ma mi ha colpito la loro inconsapevolezza. Mi hanno raccontato che credevano di giocare. Era gioco lo sballo pericolosissimo della loro compagna, era gioco l’ignobile derisione nei suoi confronti, era gioco stare lì a guardare senza avvertire i professori, senza dare l’allarme. Mi dissero che avevano capito. Ma due di loro, dopo che i genitori avevano fatto ricorso con gli avvocati per la sospensione, avevano cambiato atteggiamento. Si sentivano spalleggiati”. Qualcuno, fuori dalla scuola, parlò addirittura di bullismo di ritorno da parte del liceo. “L’organo regionale di garanzia annullò il provvedimento di sospensione, pur ritenendolo appropriato, per un vizio di forma ma la sostanza è rimasta”, ricorda la dirigente scolastica. Se mamma e papà delegittimano i docenti - Antonello Giannelli, presidente dell’Associazione nazionale dei presidi, più del fenomeno dello sballo e della droga che purtroppo esiste soprattutto come fenomeno adolescenziale, è preoccupato dal fattore delegittimazione dell’istituzione scuola. “Tutte le istituzioni nel mondo occidentale attraversano un momento di crisi”, spiega, “e la scuola è una di queste. I genitori spesso la confondono con un ente amministrativo contro il quale si può fare qualsiasi ricorso. L’educazione non si può impugnare, semmai può essere partecipata. Alcol e droga si possono combattere unendo le forze tra docenti, studenti e genitori”. Forse è proprio questo insegnamento lo spartiacque tra quel 28 marzo del 2018 e oggi. E qualcosa di nuovo e di antico adesso si respira sotto i loggiati dell’ex convento di Pistoia. Stati Uniti. A San Francisco il nuovo Procuratore Distrettuale è figlio di detenuti Il Riformista, 12 novembre 2019 Il nuovo District Attorney di San Francisco è figlio di militanti degli anni di piombo finiti in carcere dopo la rapina al furgone Brink per cui fu condannata anche l’italiana Silvia Baraldini. Chesa Boudin, il cui padre David Gilbert è ancora in carcere mentre la madre Kathy Boudin è uscita nel 2003 sulla parola, è stato eletto a capo della procura di una delle città più progressiste d’America battendo di stretta misura Suzy Loftus, la candidata uscente. La storia di Chesa si intreccia con quella degli Usa degli ultimi 40 anni. I genitori, militanti dei Weather Underground, finirono in carcere nel 1981 dopo l’assalto al furgone corazzato a New York in cui morirono una guardia giurata e due poliziotti. Come la Baraldini, Kathy e David avevano partecipato solo come fiancheggiatori e non avevano avuto alcuna parte nell’uccisione dei poliziotti. Ciò nonostante, proprio come la Baraldini, furono condannati a lunghe pene detentive. Per il 75enne Gilbert la possibilità di uscire sulla parola scatterà solo nel 2056: di fatto l’ergastolo. Chesa, che ha 39 anni, aveva appena 14 mesi quando i genitori finirono in carcere: ad allevarlo furono altri due noti ex Weathermen, Bili Ayers e Bernardine Dohrn, entrambi professori in atenei di Chicago. Essere cresciuto con madre e padre in carcere aveva motivato il ragazzo allo studio del diritto e della riforma della giustizia: “Da piccolo dovevo attraversare il metal detector e cancelli di ferro per abbracciare i miei genitori”, ha detto in un video della campagna elettorale. Studente brillante, Chesa era andato a Yale dove nel 2002 vinse una borsa Rhodes per studiare a Oxford. “Crescere in una famiglia dove la gente pensa e dove c’è coscienza politica ha avuto un impatto”, aveva detto in quell’occasione: “I miei genitori hanno sempre preso posizione per quello in cui credevano. Per me sono stati un esempio, anche se non sono d’accordo con tutte le loro scelte”. Boudin ha vinto di 8.500 voti - promettendo di combattere le discriminazioni nell’amministrazione della giustizia, riformare le cauzioni, proteggere gli immigrati dalla deportazione. Dalla sua parte tra i vip democratici si era schierato solo Bernie Sanders. La rivale aveva avuto l’endorsement dell’establishment del partito in California.