Carcere, giustizia, vendetta: dietro c’è sempre l’uomo di Giovanni Tonelli ilponte.com, 11 novembre 2019 Trattare di carcere non è mai semplice, perché è un argomento impopolare che parla prima alla pancia che alla testa e perché spesso e volentieri si conosce così poco da diventare vittima di aggettivazioni, paure e luoghi comuni. Ecco perché occasioni come il secondo “Festival della comunicazione sul carcere e le pene”, offerte dalla Conferenza nazionale volontariato e giustizia, andrebbero maggiormente colte. La giornata di formazione che si è svolta a Milano venerdì 25 ottobre è stata occasione per un centinaio fra volontari delle carceri di tutta Italia, giornalisti e avvocati di confrontarsi sulle motivazioni che non dovrebbero spingere la giustizia ad essere infiltrata da sentimenti devianti, quali la vendetta. E quale esempio migliore se non quello offerto da Fiammetta Borsellino, la figlia minore del giudice Paolo ucciso brutalmente da cosa nostra in via d’Amelio a Palermo e vittima di quello che lei definisce da tempo “il depistaggio più grave della storia giudiziaria italiana”. Ma nonostante il lutto, la lotta, le risposte che ancora non sono arrivate tutte, “trovare oggi i veri responsabili non mi fa stare meglio come non mi fa stare meglio sapere che ci sono mafiosi chiusi da anni nel loro mutismo. Chiedo un’assunzione di responsabilità che passi attraverso il riconoscimento degli errori e il contributo di onestà per la ricerca della verità. Non si tratta di una cosa che riguarda solo la nostra famiglia ma la comunità civile e questo compito non va più delegato alle istituzioni, in cui non possiamo smettere di avere fiducia”. In quei giorni però non si parlava di altro che della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo contro le restrizioni dell’ergastolo ostativo nel caso “Marcello Viola contro Italia”. In essa si stabilisce che “l’articolo 4 bis della legge sull’ordinamento penitenziario […] limita eccessivamente la prospettiva di rilascio dell’interessato e la possibilità di riesame della pena”, sottolineando l’incompatibilità di tale trattamento con l’articolo 3 della Convenzione sui diritti umani, oltre che con l’articolo 27 della Costituzione italiana. L’ergastolo ostativo è una pena senza fine che attraverso il combinato disposto tra l’ergastolo ordinario e il 4 bis nega ogni possibilità di accedere a misure alternative al carcere né benefici (quali permessi premio, semilibertà, libertà condizionale), fatta eccezione per quelle persone che decidono di collaborare con la giustizia (questo perché la maggior parte sono condannati per reati legati alla malavita). Questa pronuncia apre ora alla possibilità di elargire benefici trattamentali seppur in presenza di requisiti molto stringenti (tra cui aver scontato almeno 10 anni di carcere, avere il parere favorevole di tutta la commissione, della quale fanno parte anche il prefetto e la procura antimafia, aver mostrato una condotta esemplare e poter dimostrare di non avere più contatti con la cosca di provenienza o soggiacenza). L’argomento è sterminato e complicatissimo da riassumere anche con una carrellata di interventi interessantissimi durata quasi 7 ore, figuriamoci con un articolo. E se anche Fiammetta ha usato estrema prudenza nel giudicare positivamente la sentenza a margine del suo intervento come ospite del convegno, vuol dire che prima di parlare bisognerebbe almeno imparare ad ascoltare e perlomeno mettersi un poco a studiare. “Falcone e Borsellino ci hanno insegnato che l’ergastolo ostativo è un problema complesso. Bisogna lasciare aperte le maglie, perché le situazioni vanno valutate caso per caso. Non bisogna confondere dei provvedimenti pensati 27 anni fa sull’onda di una gravissima emergenza criminale, bisogna anche pensare al contesto attuale, diffidando di ogni semplificazione. Il problema è complesso e va letto in relazione all’attuale, disastrosa condizione delle carceri italiane. Frasi fatte fanno male al problema: il problema va affrontato e questo a mio avviso è il modo giusto. Chi ha ucciso mio padre per la seconda volta non è stata questa sentenza, ma sono stati i depistaggi e i tradimenti di alcuni uomini che hanno dato prova di altissima incapacità investigativa e che però hanno fatto brillantissime carriere, tanto che il Consiglio superiore della Magistratura non si è mai assunto una responsabilità circa l’avvio di provvedimenti disciplinari rispetto a quel che è stato fatto dopo l’uccisione di mio padre”. Là dove tutto diventa emergenza, dove si usano le parole in modo improprio o totalmente scorretto, dove autori e detrattori confondono le fasi di un processo e non sono in grado di spiegare i meccanismi giuridici, dove si invoca la barricata giuridica e le “pene esemplari”, proprio là bisognerebbe comprendere prima di tutto che di fronte ad argomenti così complessi e articolati vanno anteposti umiltà, curiosità e pazienza e che dietro c’è sempre l’uomo, che sia dentro o fuori le sbarre. Csm diviso sulle nomine. Lo scandalo Palamara non ferma le correnti di Liana Milella La Repubblica, 11 novembre 2019 In settimana il voto sul Pg della Cassazione. Ostacoli per Cantone. Il Pd duella con Bonafede: a giorni la nostra proposta sulla prescrizione e la riforma della giustizia. Diceva Tancredi nel Gattopardo: “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”. E al Csm devono aver deciso di prenderlo alla lettera. Nonostante il monito di Sergio Mattarella, presidente della Repubblica e del Csm, che il 21 giugno, salvando l’attuale Consiglio dopo lo scandalo Palamara, disse nella sala Bachelet: “Oggi si volta pagina” rispetto “al quadro sconcertante e inaccettabile” svelato dall’inchiesta di Perugia. Era un segnale preciso, niente più inciuci torrentizi sulle nomine, rigoroso ordine cronologico. E invece, non appena riparte il treno di quelle strategiche, come la procura generale della Cassazione e la procura di Roma, ecco che le correnti riemergono potentissime. Nonostante il vice presidente del Csm David Ennini continui a ripetere che “dobbiamo scegliere i magistrati più bravi e liberarci delle vecchie nomine correntizie che condizionano il futuro”. Nel calendario di Ermini c’è una sfida: chiudere il 2019 portando a casa il Pg della Cassazione, i procuratori di Roma e Torino, e, almeno in commissione, il futuro capo di Perugia, la procura che gestirà il processo Palamara. Ma, come dimostra la trattativa tra il Guardasigilli Alfonso Bonafede e il Pd sulla giustizia, quando si parla di riforme “epocali” tutto si complica. Tant’è che Bonafede invita il Pd “a non comportarsi come la Lega che ha fatto di tutto per bloccare la mia riforma”, e dal Pd trapela all’opposto che in settimana sarà presentata un’articolata proposta sulla prescrizione. Il dem Michele Bordo critica le “provocazioni gratuite” di Bonafede perché il Pd “è corretto, non ha mai fatto giochetti né sulla giustizia né su altro”. Ma la soluzione Bonafede - stop alla prescrizione dopo il primo grado - è un “ergastolo del giudizio”, serve altro. Scontro inevitabile, anche se Bonafede e Conte contavano di chiudere sulla giustizia già in settimana. Proprio come, in settimana, Ermini vorrebbe far votare in plenum il Pg della Cassazione. Ammesso che Bonafede dia il suo “concerto” alle tre proposte che gli sono piovute sul tavolo. Sì, proprio tre. Sintomo chiaro di lotta dura tra le correnti. La quinta commissione si divide, 3 voti per Salvi, l’attuale Pg di Roma (Davigo, Suriano di Area, Benedetti di M5S); due per Riello, Pg a Napoli (il forzista Cerabona e Micciché di Mi); uno per Marcello Matera Mancinetti di Unicost, la stessa corrente di Matera). In plenum potrebbe vincere Salvi con 12 voti (4 Area, 5 Davigo, 3 M5S), visto che Ermini non vota, e mancano sia il Pg che un consigliere. Ma è la logica tuttora torrentizia a stupire, visto che Salvi, un anno fa, perse la stessa corsa per l’asse Palamara-Ferri che fece vincere Riccardo Fuzio di Unicost, costretto poi a dimettersi per l’inchiesta di Perugia. “È tutto come prima - dice un consigliere - il Csm non trova un metodo per rifarsi la verginità o forse non ha compreso la gravità di quanto è accaduto, ritiene che prima o poi lo scandalo sarà dimenticato”. In plenum dovrebbe passare la nomina del nuovo capo della procura di Torino, scoperta da un anno dopo il pensionamento di Spataro e dovrebbe farcela Anna Maria Loreto con un cartello simile a quello di Salvi. Pronostico difficilissimo invece per Roma e per il dopo Pignatone. Proprio la procura dove si è consumata la trattativa registrata dal trojan di Perugia tra Palamara, i Pd Lotti e Ferri, alla presenza di altri consiglieri poi costretti alle dimissioni. Tramontata la candidatura del Pg di Firenze Viola, resta la gara tra Prestipino, che durante le audizioni “ha dato prova di essere il migliore”, come ammette chi lo ha ascoltato, e i procuratori di Palermo Lo Voi e di Firenze Creazzo. Ma scatta qui la vecchia logica della carriera passata, e non dei meriti effettivi. Essere procuratore vale di più che essere un procuratore aggiunto. Come vale l’anzianità. Con il rischio di essere poi bocciati dal Consiglio di Stato. Anche se magari quelle nomine pregresse sono state concordate tra le correnti. È il metodo antico che potrebbe penalizzare Raffaele Cantone. L’ex presidente dell’Anac corre per tre procure (Torre Annunziata, Frosinone, Perugia). Ha creato dal nulla l’Anac, ha diretto oltre 400 uomini, nucleo di Gdf compreso, ha spaziato su tutte le indagini italiane per corruzione. Ma è stato fuori ruolo per 5 anni e non ha diretto una procura. “Deve saltare un giro”, dice qualcuno. Ma all’opposto c’è chi ragiona così: “Non possiamo essere prigionieri delle vecchie nomine correntizie che condizionano quelle future. Tutti dicono che serve il procuratore manager, e poi rinunciamo a Cantone? Assurdo. C’è un posto dove serve un magistrato “cattivo”? Sì, è Perugia, e allora mandiamolo lì, valutando il suo fuori ruolo all’Anac per quello che è stato, più che dirigere la più grande procura d’Italia”. A patto che “tutto cambi perché nulla cambi”. Prescrizione reati tributari, Italia lontana anni dall’Europa di Marzia Paolucci Italia Oggi, 11 novembre 2019 In Italia, dalla riforma del 2011, un reato tributario si prescrive dai sette anni e sei mesi ai dieci anni, secondo le tipologie di reato, un’importante distanza rispetto ai cinque anni dell’Unione europea fissati dalla Direttiva Pif approvata da Parlamento e Consiglio Ue nel 2017. “Il nostro apparato penale è andato oltre quanto imposto dalla Ue”, osserva Alessio Lanzi che al convegno organizzato dalla rivista di Magistratura indipendente Il Diritto vivente, “Le nuove frontiere del diritto penale tributario: problemi e prospettive” del 16 ottobre scorso in Cassazione, ha preferito parlare come ordinario di diritto penale piuttosto che come membro del Csm. Un momento di riflessione comune tra dottrine accademiche e orientamenti giurisprudenziali declinati da un nutrito parterre di giuristi presieduto dal primo presidente della Corte di cassazione Giovanni Mammone. Interventi che arrivano in un momento piuttosto caldo per la gestazione della legge di Bilancio che sarà quest’anno molto incentrata sulle misure di lotta all’evasione fiscale definita dal premier Conte “la madre di tutte le battaglie”. Nella lunga corsa che di qui al 31 dicembre porterà al licenziamento della manovra, troverà spazio nel decreto fiscale la norma che innalza le pene detentive per i grandi evasori. Ne hanno discusso nell’aula Giallombardo della Suprema corte, Lorenzo Delli Priscoli, consigliere della Corte di cassazione, Paolo Ielo, procuratore aggiunto presso la procura della Repubblica presso il tribunale di Roma, Alessio Lanzi del Consiglio superiore della magistratura, Andrea Perini, professore associato presso il dipartimento di Management di Economia aziendale dell’ Università di Torino, Angelina-Maria Perrino, consigliere della Corte di cassazione, Adolfo Scalfati, professore ordinario di procedura penale presso la facoltà di Giurisprudenza, Università di Roma - Tor Vergata e Alessio Scarcella, consigliere della Corte di cassazione. Per Mario Cicala, attualmente presidente della sezione tributaria della Corte di cassazione e direttore della rivista Il Diritto vivente, “l’evasione fiscale è un tema centrale e complesso in cui confluisce una gran massa di evasione minuta a cui si affiancano i grandi evasori. Un tema che fa parte del programma del nuovo Governo che al punto 16 vuole perseguire la lotta alle organizzazioni mafiose e all’evasione fiscale anche prevedendo l’inasprimento delle pene detentive per i grandi evasori”. “Spero si possa intervenire con una riduzione drastica dell’uso del contante”, considera Delli Priscoli. “Porterebbe a una diminuzione dei reati forti di spaccio, droga e riciclaggio legati alla circolazione di soldi cash”. E di “legislazione alluvionale” parla il procuratore Ielo che chiede di “costruire reati su fattispecie chiare, dal dettato alla sanzione”. Domanda di accesso agli atti per i detenuti, decide il magistrato di sorveglianza Italia Oggi, 11 novembre 2019 Il giudice competente a decidere una controversia avente ad oggetto una domanda di accesso agli atti, avanzata da un detenuto, è il magistrato di sorveglianza, e non il Tar. Lo ha chiarito il Tar Piemonte, sez. II con la sentenza del 7 ottobre 2019, n. 1045. Nel caso in esame un detenuto presso una Casa circondariale aveva presentato alla direzione del carcere una istanza di “accesso alla posizione giuridica integrale”, richiesta rigettata dall’amministrazione. Il ricorrente aveva così impugnato il diniego lamentando la violazione degli artt. 22 e ss. della legge n. 241/90 e dei principi di trasparenza, ragionevolezza, imparzialità e buon andamento dell’amministrazione, oltre che degli artt. 24, 97 e 113 della Costituzione. Il ricorrente, infatti, aveva formulato l’istanza in quanto, in base ai provvedimenti dell’autorità giudiziaria contenuti, intendeva richiedere al giudice dell’esecuzione sia l’estinzione delle pene che l’applicazione dell’istituto della continuazione. La richiesta dal momento che non riguardava documentazione di fatto esistente presso il carcere, quanto piuttosto una elaborazione di dati che l’amministrazione penitenziaria predispone a proprio uso interno e che non poteva essere l’oggetto di una istanza di accesso. Il Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte dichiara, invece, il ricorso inammissibile, sussistendo la giurisdizione del giudice ordinario. Secondo i giudici amministrativi, infatti, la giurisprudenza ordinaria e costituzionale e il legislatore hanno compiuto un lungo cammino di riconoscimento e tutela dei diritti dei detenuti. Questi ultimi, da un lato, godono della tutela ordinaria per quanto concerne i “rapporti estranei all’esecuzione penale”, dall’altro vantano, come detto, posizioni giuridiche soggettive nella gestione del rapporto penitenziario. La gestione di tali posizioni giuridiche soggettive, tuttavia, passa fisiologicamente attraverso la magistratura di sorveglianza. Il rapporto di detenzione in senso stretto ha subito nel tempo una evoluzione, nel senso di una sempre maggiore sensibilità per i diritti dei detenuti, che implica anche la costruzione di sistemi giurisdizionali di tutela degli stessi, e un maggiore accento sulla funzione rieducativa. Secondo la giurisprudenza della Corte Costituzionale: “L’esigenza costituzionale del riconoscimento di un diritto d’azione in un procedimento avente caratteri giurisdizionali si è affermata indipendentemente dalla natura dell’atto produttivo della lesione, individuandosi la sede della tutela nella magistratura di sorveglianza, magistratura alla quale spetta, secondo l’ordinamento penitenziario vigente, una tendenzialmente piena funzione di garanzia dei diritti dei detenuti e degli internati”. Il rapporto carcerario, quindi, vede il proprio giudice naturale nel magistrato di sorveglianza e rientra nella sua giurisdizione anche una controversia avente ad oggetto l’impugnazione del diniego opposto dal dipartimento amministrazione penitenziaria in merito a una domanda di accesso. Droghe. Il solo quantitativo superiore al limite tabellare non fa scattare lo spaccio di Giuseppe Amato Il Sole 24 Ore, 11 novembre 2019 Cassazione - Sezione III penale - Sentenza 22 ottobre 2019 n. 43262. In materia di stupefacenti, il possesso di un quantitativo di droga superiore al limite tabellare previsto dall’articolo 73, comma 1-bis, lettera a), del Dpr 9 ottobre 1990 n. 309 se da solo non costituisce prova decisiva dell’effettiva destinazione della sostanza allo spaccio, può comunque legittimamente concorrere a fondare, unitamente ad altri elementi, tale conclusione. Lo dice la Suprema corte con la sentenza 22 ottobre 2019 n. 43262. La prova della destinazione illecita - Peraltro, il mero dato del superamento dei suddetti limiti tabellari non vale a invertire l’onere della prova a carico dell’imputato, ovvero a introdurre una sorta di presunzione, sia pure relativa, in ordine alla destinazione della sostanza a un uso non esclusivamente personale, dovendo il giudice globalmente valutare, sulla base degli ulteriori parametri indicati nella predetta disposizione normativa, se le modalità di presentazione e le altre circostanze dell’azione siano tali da escludere una finalità esclusivamente personale della detenzione. Nella fattispecie è stata annullata la sentenza che si era limitata a fondare la prova della destinazione illecita sul dato quantitativo della sostanza - grammi 11,711 di hashish, con principio attivo pari a grammi 1,312 - pur in presenza di stupefacente non suddiviso in distinte confezioni e pur non essendo stato rinvenuto strumentario che a detta suddivisione fosse finalizzato; mentre il dato della fuga tentata dall’imputato alla vista delle forze dell’ordine doveva considerarsi elemento equivoco, perché poteva essere giustificata dal fatto che anche la sola detenzione per consumo personale espone il detentore a conseguenze personali sfavorevoli. Elementi sintomatici utilizzabili - Deve ritenersi principio ormai consolidato quello secondo cui, ai fini della configurabilità del reato di cui all’articolo 73 del Dpr 9 ottobre 1990 n. 309, in relazione alle condotte (importazione, esportazione, acquisto, ricezione e detenzione) non immediatamente dimostrative della destinazione illecita della droga, occorre provare tale destinazione sì da distinguere se si è in presenza del reato o dell’illecito amministrativo sanzionato dal successivo articolo 75. A tal fine, l’articolo 75, comma 1-bis, del Dpr citato elenca una serie di elementi ai quali il giudice può affidarsi per affermare o per escludere la destinazione dello stupefacente a un uso esclusivamente personale (superamento delle soglie quantitative, modalità di presentazione, ecc.): si tratta di cosiddetti “elementi sintomatici”, che non hanno alcun rapporto con la struttura del reato, ma assolvono a esigenze di carattere squisitamente probatorio. Questi elementi, comunque, non introducono presunzioni assolute, né vincolano il giudice nel momento della valutazione della prova, giacché a quest’ultimo compete il potere/dovere di valutarli liberamente e di dare sul punto adeguata motivazione (cfr., tra le altre, sezione IV, 8 giugno 2016, Agnesse, dove, dopo essersi precisato che il principale elemento sintomatico, se non altro per la sua facile e immediata riconoscibilità, è quello di natura ponderale, si è ritenuta corretta e motivata la decisione di condanna che aveva fondata la prova della destinazione illecita sia sul quantitativo sequestrato - grammi 353 lordi di marijuana - ritenuto incompatibile con una destinazione a esclusivo uso personale, sia sul rinvenimento di materiale utile al confezionamento delle dosi). In altri termini, ai fini della prova circa la destinazione non esclusiva della sostanza stupefacente all’uso personale va negato qualsiasi limite quantitativo rigido nella distinzione tra l’ambito penale e quello amministrativo, cosicché, anche nel caso in cui il quantitativo di stupefacente detenuto dall’imputato supera notevolmente il suo fabbisogno immediato, non può essere affermata per ciò solo la sua responsabilità penale, salvo che sussistano complessivamente elementi indiziari (compreso il dato quantitativo) tali da fornire la certezza della destinazione a terzi dello stupefacente stesso. L’efficacia degli atti compiuti dal giudice astenuto o ricusato. Selezione di massime Il Sole 24 Ore, 11 novembre 2019 Giudice - Astensione e ricusazione - Atti adottati dal giudice astenuto o ricusato - Efficacia - Dichiarazione di inefficacia - Sindacabilità da parte del giudice della cognizione. Il codice di rito riserva al giudice demandato a valutare una dichiarazione di astensione o di ricusazione il compito di selezionare gli atti che debbono conservare efficacia, giacché proprio quel giudice conosce i profili di incompatibilità del giudice astenutosi o ricusato e può quindi valutare con precisione gli effetti di tale rilevata incompatibilità sugli atti di natura probatoria assunti in precedenza. La dichiarazione di inefficacia degli atti può essere tuttavia sindacata, nel contraddittorio tra le parti, dal giudice della cognizione, con conseguente eventuale utilizzazione degli atti medesimi. • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 29 ottobre 2019 n. 44120. Giudice - Astensione - In genere - Accoglimento della dichiarazione di astensione - Provvedimento sugli atti che conservano efficacia - Impugnabilità - Esclusione - Giudice designato in sostituzione - Successiva dichiarazione di inutilizzabilità di singoli atti - Possibilità - Condizioni. Il provvedimento che accoglie la dichiarazione di astensione e dichiara l’efficacia degli atti precedentemente compiuti dal giudice astenuto, ai sensi dell’art. 42, comma 2, cod. proc. pen., non è impugnabile, ma il giudice designato in sostituzione può, nel contraddittorio delle parti, dichiarare l’inutilizzabilità di singoli atti compiuti dal giudice precedente. • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 31 gennaio 2018 n. 4694. Giudice - Astensione - Effetti - Accoglimento della dichiarazione di astensione - Atti a contenuto non probatorio compiuti dal giudice astenutosi - Omessa indicazione circa la loro conservazione di efficacia - Automatica loro inefficacia - Esclusione - Fattispecie. Sono efficaci gli atti a contenuto non probatorio compiuti dal giudice astenutosi, anche se della loro sorte (conservazione o di efficacia) non è fatta menzione nel provvedimento che accoglie la dichiarazione di astensione. (Fattispecie relativa a provvedimento di sospensione dei termini di custodia cautelare adottato da collegio del quale faceva parte un giudice poi astenutosi). • Corte di cassazione, sezione V, sentenza 10 agosto 2016 n. 34811. Giudice - Astensione - Effetti - Provvedimento di accoglimento - Dichiarazione di conservazione d’efficacia degli atti anteriormente compiuti - Assenza - Conseguenze - Efficacia degli atti anteriormente compiuti - Esclusione - Fattispecie. In assenza di una espressa dichiarazione di conservazione di efficacia degli atti nel provvedimento che accoglie la dichiarazione di astensione o di ricusazione, gli atti compiuti in precedenza dal giudice astenutosi o ricusato devono considerarsi inefficaci. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto che legittimamente il Gip, subentrato a quello astenutosi, avesse disposto con decreto l’archiviazione del procedimento dichiarando inammissibile l’opposizione della persona offesa, senza aver prima revocato il provvedimento - adottato dal precedente giudice prima di astenersi - di fissazione dell’udienza camerale a seguito dell’opposizione). • Corte di cassazione, sezione VI, sentenza 10 marzo 2015 n. 10160. Giudice - Astensione - Effetti - Accoglimento - Dichiarazione di conservazione d’efficacia degli atti anteriormente compiuti - Assenza - Efficacia degli atti anteriormente compiuti - Conseguenze. In assenza di una espressa dichiarazione di conservazione di efficacia degli atti nel provvedimento che accoglie la dichiarazione di astensione o di ricusazione, gli atti compiuti in precedenza dal giudice astenutosi o ricusato devono considerarsi inefficaci. (La Suprema Corte ha precisato che la nozione di “efficacia” indica, nella specie, la possibilità di inserimento degli atti, compiuti dal giudice astenutosi o ricusato, nel fascicolo per il dibattimento, e che la valutazione di efficacia od inefficacia, operata dal giudice che decide sull’astensione o sulla ricusazione, pur autonomamente non impugnabile, è successivamente sindacabile, nel contraddittorio tra le parti, dal giudice della cognizione). • Corte di cassazione, sezioni Unite, sentenza 5 aprile 2011 n. 13626. Giudice - Giudice penale - Ricusazione - Effetti - Ricusazione del presidente del collegio giudicante - Competenza a stabilire se e in quale parte conservino efficacia gli atti precedentemente compiuti - Appartiene al giudice che ha accolto la dichiarazione di ricusazione - Competenza del nuovo collegio giudicante a statuire sulla utilizzabilità degli stessi atti al fine della decisione. In assenza di un’espressa dichiarazione, a norma dell’articolo 42, comma 2, del codice di procedura penale, di conservazione d’efficacia nel provvedimento che accoglie la dichiarazione di astensione o di ricusazione, gli atti compiuti in precedenza dal giudice astenutosi o ricusato si devono considerare inefficaci. L’inefficacia può essere sindacata, nel contraddittorio tra le parti, dal giudice della cognizione, con conseguente eventuale utilizzazione degli atti medesimi. • Corte di cassazione, sezioni Unite , sentenza 5 aprile 2011 n. 13626. Milano. Ergastolano in permesso-premio accoltella un 79enne all’ospedale “San Raffaele” Il Fatto Quotidiano, 11 novembre 2019 La relazione del carcere diceva: “È cambiato, non è più pericoloso”. Antonio Cianci, 60 anni, è stato arrestato dopo una breve fuga alla stazione della metro. A 20 anni aveva trucidato tre carabinieri. Il giudice gli aveva concesso di vistare la sorella sulla base di un rapporto del penitenziario che parlava tra l’altro di “consapevolezza, maturità, affidabilità”. Il ministro Bonafede invia gli ispettori. Un permesso premio di un giorno per fare visita alla sorella. Ma in quelle ore di libertà, Antonio Cianci, ergastolano che più di quarant’anni fa aveva ucciso a bruciapelo tre carabinieri e un metronotte, ha accoltellato alla gola un 79enne in un parcheggio dell’ospedale San Raffaele di Milano. Il motivo: una rapina che gli avrebbe fruttato poche monete e un cellulare. Ora Cianci - 60 anni, da 40 in carcere - è di nuovo in cella, accusato di tentato omicidio. La vittima della sua aggressione, l’anziano, non è in pericolo di vita e tra qualche giorno potrebbe essere dimesso. Ma resta da capire perché un ergastolano che finì detenuto accompagnato dalla descrizione di killer spietato e lucido è stato premiato di un giorno di libertà. A pesare, infatti, è stata una relazione del carcere di Bollate sulla base della quale il giudice di sorveglianza ha preso la sua decisione: un cambiamento reale nei comportamenti, era scritto in quel rapporto, un percorso positivo negli ultimi anni in cui ha dimostrato consapevolezza, maturità, affidabilità e di non essere più “socialmente pericoloso”. Anche per questo il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha mandato gli ispettori. Inevitabile, peraltro, il collegamento con le recenti pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte costituzionale che ha rimesso in mano a ciascun giudice di sorveglianza e caso per caso l’autorizzazione ai permessi premio per gli ergastolani condannati per mafia. I fatti si sono svolti sabato nel tardo pomeriggio, nel parcheggio sotterraneo del San Raffaele, al piano “meno 1”, vicino a delle macchinette del caffè. Secondo la ricostruzione della polizia, Cianci ha avvicinato l’anziano (che era lì per visitare un familiare) per chiedergli dei soldi e al rifiuto dell’anziano, lui l’avrebbe colpito alla gola con un taglierino, portandogli via pochi soldi e il telefonino. Gli agenti hanno bloccato la sua fuga alla stazione della metropolitana di Cascina Gobba. Aveva ancora il taglierino sporco di sangue con sé e i pantaloni insanguinati. Cianci, originario di Cerignola (Foggia) e che le cronache dell’epoca descrivevano come un giovane dal passato difficile e un “patito di armi”, aveva 20 anni quando, nella notte tra l’8 e il 9 ottobre del 1979, uccise i tre carabinieri che lo avevano fermato ad un posto di blocco tra Liscate e Melzo, in provincia di Milano, a bordo di un’auto che risultava rubata. Mentre i militari controllavano i suoi documenti quella notte, scoprendo, tra l’altro, che a 15 anni (cinque anni prima) aveva già ucciso un metronotte di 29 anni Gabriele Mattetti a Segrate (venne assolto per incapacità mentale e fece 3 anni di riformatorio), il giovane fece fuoco con una pistola automatica. Uccise il maresciallo Michele Campagnuolo, l’appuntato Pietro Lia e il carabiniere Federico Tempini. Quando venne arrestato, Cianci non confessò e disse, anzi, che a sparare ai militari dell’Arma erano stati alcuni sconosciuti a bordo di un’auto. Al processo di primo grado venne condannato all’ergastolo, confermato in appello nel 1983. Processo quest’ultimo in cui finalmente, però, con una lettera ai giudici confessò la strage e la condanna venne confermata, poi, anche in Cassazione. Dagli atti giudiziari dell’epoca emerge la figura di un killer spietato e lucido, che non esitava a sparare “alle spalle”, al volto e “al cuore” di una persona a terra, e poi a “frugare tra i cadaveri” per portare via le armi alla sue vittime. Fino a sabato era rimasto recluso a Bollate, ora si trova a San Vittore in attesa della convalida. Anche in questo caso, davanti al pm Nicola Rossato, è rimasto in silenzio. Il gip proverà di nuovo a interrogarlo lunedì e martedì. Ma perché allora Cianci era fuori dal carcere? Il via libera l’aveva dato il tribunale di sorveglianza che si era basato su una relazione del carcere di Bollate. In quel documento il penitenziario aveva parlato di “un cambiamento reale nei comportamenti” e aveva escluso che il detenuto fosse ancora “socialmente pericoloso”. La firma per il primo ok al permesso l’aveva messa il 26 luglio il giudice Simone Luerti e Cianci era già uscito 3-4 volte dall’estate in poi. A Bollate, un carcere-modello, il 60enne era arrivato nel 2017 (prima era ad Opera) dopo un’altra valutazione positiva. Valutazioni che davano conto che Cianci, detenuto da 40 anni ininterrottamente, dopo i primi anni faticosi in cui aveva subito provvedimenti disciplinari, nell’ultimo periodo si era sempre comportato bene, tanto che in passato era stato anche ammesso al lavoro esterno. L’ultimo permesso aveva la durata di 12 ore (dalle 9 alle 21) con obbligo di accompagnamento del detenuto dal carcere a Cernusco sul Naviglio, dove abita la sorella, e con lo stesso obbligo per il rientro. Cianci, che negli altri casi non aveva commesso violazioni (ai primi di novembre lo ottenne di 3 giorni), ieri si è invece allontanato da Cernusco per andare al San Raffaele, dove - oltre ad aver ferito in modo grave l’anziano - ha rubato anche una felpa da inserviente dell’ospedale e una mascherina per camuffarsi. Il beneficio gli era stato concesso sulla base dell’articolo 30 ter della legge sull’ordinamento penitenziario che lo riserva anche ai condannati all’ergastolo, dopo 10 anni di detenzione, che hanno “tenuto regolare condotta” e che “non risultano socialmente pericolosi”. Questa storia, però, inevitabilmente ha sollevato polemiche proprio per il via libera a quel beneficio, poco dopo le pronunce controverse sui permessi agli ergastolani di mafia. Il ministro guardasigilli Bonafede che ha già dato mandato all’ispettorato di via Arenula di compiere accertamenti preliminari. “Nessun premio ai killer spietati, soprattutto se hanno ucciso donne o uomini in divisa!”, ha commentato il leader della Lega Matteo Salvini. Mentre Emanuela Piantadosi, presidente dell’Associazione Vittime del Dovere, si chiede: “Quanto altro spargimento di sangue si dovrà avere prima che il ministro della Giustizia e il governo prendano coscienza di quanto sia fondamentale monitorare seriamente la recidiva in questo Paese?”. Milano. Il pluriomicida accoltellatore era in permesso perché “cambiato” di Massimo Pisa La Repubblica, 11 novembre 2019 Secondo le relazioni del carcere era affidabile. Il ministro manda gli ispettori. La figlia di una vittima: “Essere ignobile”. I due anni a lavorare in segreteria, ad aiutare in qualità di scrivano gli altri detenuti a compilare istanze e altri documenti, avevano convinto psicologi e operatori del carcere di Bollate - dov’era arrivato nel 2017, dopo una vita dietro le sbarre di Opera - che Antonio Cianci, il 60enne ergastolano di Cerignola, era cambiato. I pareri positivi nelle relazioni si erano accumulati. E il comportamento senza ombre, ottenuto durante i primi permessi premio di dodici ore, avevano convinto il Tribunale di sorveglianza che ci si poteva ormai fidare del killer della guardia giurata Gabriele Mattetti (su cui aveva infierito 45 anni fa a colpi di calibro 38 special, a Segrate) e dei carabinieri Michele Campagnuolo, Pietro Lia e Federico Tampini (falciati a un posto di blocco sulla Paullese, a Liscate 40 anni fa). Mezza giornata dalla sorella - che ha qualche piccolo precedente alle spalle - a Cernusco sul Naviglio, e rientro. Così, questa volta, avevano aggiunto tre giorni a quelle dodici ore. Con obbligo di firma dai carabinieri. Questi primi elementi saranno raccolti dagli ispettori che il ministro di Grazia e Giustizia, Alfonso Bonafede, ha promesso di mandare a Milano. Per capire se ci fossero davvero tutti i presupposti per una concessione che adesso - col senno del poi - pone diversi interrogativi. Sulle misure premiali e sulla loro applicazione, sulla riabilitazione e sul passato di un plurimocida che a quindici anni era capace “di omicidio con sadismo - scriveva il maresciallo Lino Vesprini della stazione di Segrate, il 25 ottobre 1974 - in quanto i colpi al viso poterono essere sparati dopo quello alle spalle”. Di un killer che a vent’anni, dopo aver finito i tre carabinieri con il colpo di grazia alla testa, venne visto da un testimone “che stava frugando sopra i cadaveri”, come riportava un brigadiere della volante Lambrate il 9 ottobre 1979. Una vita fa. Per tanti, come Daniela Lia, figlia di una delle vittime di Antonio Cianci, si riapre una ferita devastante: “Sono sconvolta dal fatto che si sia permesso a questo essere ignobile, che massacrava senza pietà, di mettere un’altra famiglia in condizioni di dolore”. Si tratta, in questo caso, della compagna e delle due figlie di Roberto Sgorbati, il 79enne di Lomazzo ferito con un taglierino alla carotide tra l’ascensore e le macchinette del caffè al piano meno 1 del San Raffaele: aveva consegnato, a quel finto inserviente con mascherina, guanti e felpa dell’ospedale, il cellulare e i dieci euro che aveva in tasca, poi ancora qualche moneta (e uno scontrino che sarà trovato addosso a Cianci, a ulteriore riscontro per l’arresto) ma non aveva altro. Lo squarcio è stato suturato dai chirurghi del reparto di Otorinolaringoiatria, da dove dovrebbe essere dimesso in settimana, con la prognosi ormai sciolta: un centimetro oltre e la recisione dell’arteria lo avrebbe ucciso. Un gesto crudele, scomposto, di cui a Cianci, difeso dall’avvocato d’ufficio Ursula Lionetti, verrà chiesto in carcere durante l’interrogatorio del gip tra oggi e domani. Possibile che ripeta la versione fornita subito dopo l’arresto di sabato sera (“Non c’entro niente”), nonostante i pantaloni sporchi di sangue, il cellulare e lo scontrino di Sgorbati ritrovati nel cestino della fermata della navetta per Cascina Gobba, lì accanto, insieme al taglierino insanguinato, alla mascherina e ai guanti. Mentre i poliziotti delle volanti, guidati dal dirigente Salvatore Anania e dal vice Nunzio Trabace, sono al lavoro sulle immagini delle telecamere del San Raffaele per capire come, e da quanto, Cianci si stesse aggirando con quel travestimento tra le corsie dell’ospedale, in attesa di prede da rapinare. Milano. Delinque lo 0,67% dei beneficiari di misure alternative di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 11 novembre 2019 La gola dell’anziana vittima di un ergastolano quadruplice omicida, in permesso premio di 12 ore dopo 44 anni di carcere su 60 di vita, accende il derby tra sciacalli e anime belle quando invece dovrebbe interpellarli entrambi. L’incidenza statistica di un fallimento come questo è prossima allo zero-virgola, giacché su 55.000 misure di esecuzione di pena alternative al carcere nel 2017 solo lo 0,67% (372 casi) sono state revocate perché i detenuti hanno commesso reati: anche ad aggiungere lo 0,45% (247 casi) di chi non è rientrato in tempo o è scappato, il 2,90% di esito negativo per i magistrati, o altri motivi formali, non si supera il 5,29%. E nello specifico del Tribunale di Sorveglianza di Milano, le revoche in un anno sono 357 su 8.211 misure alternative (4,3%), e sempre poche sono su 6.281 permessi (a fronte di 2.250 rigettati). Ma chi contestualizza le singole tragedie in questo più generale quadro non può trincerarsene, per l’altrettanto ovvia ragione che quello zero-virgola pesa invece quanto tutti i miliardi del mondo per quella persona aggredita, la sua famiglia, i parenti delle precedenti vittime del condannato, per la comunità, nonché per la politica che di carcere si occupi o per sincero afflato o per lucro di reddito elettorale. Anche gli ultrà del “buttare la chiave” devono però fare i conti con quanto incrina le loro certezze: l’accoltellatore è risultato impermeabile a 44 anni, 4 mesi e 8 giorni di carcere, e va a ingrossare il numero (35.222 a fine 2017) di detenuti con già altre condanne alle spalle, addirittura oltre 6.000 con più di 5 precedenti carcerazioni. La difficoltà sta nel fatto che è vero il frastuono dell’albero che cade, ma è vero anche il silenzio della foresta che intanto attorno cresce. Perché “si vede” l’insicurezza dovuta alla gola tagliata dal detenuto di cui sia fallita una prova di graduale libertà; ma “non si vede” - o non si è allenati a vedere, se non nelle snobbate statistiche sulla recidiva di chi sconti la pena tutta in carcere (68%) o invece un po’ anche in qualche misura alternativa (19%) - la maggiore sicurezza dovuta a tutti quei reati che molti più altri detenuti, proprio in forza di riuscite prove di responsabilizzazione, non compiono più quando escono a pena scontata. Milano. Polemiche sul permesso all’ergastolano accoltellatore di Monica Serra La Stampa, 11 novembre 2019 Non aveva più nessuno Antonio Cianci. Tutti morti: il padre, la madre che, giovanissima, lo aveva tirato su da sola, la compagna e la figlia, morte in un incidente stradale. Gli era rimasta solo la sorellastra. E nel suo appartamento a Cernusco sul Naviglio l’ergastolano sessantenne avrebbe dovuto trascorrere il permesso premio concesso dal tribunale di sorveglianza. Quella casa, però, in un piccolo complesso di edilizia popolare, non era per i carabinieri un “contesto idoneo” a un uomo di quella caratura criminale con alle spalle 4 omicidi e una condanna per associazione di stampo mafioso. Perché la sorellastra di Cianci - avevano segnalato i militari dell’Arma - era una donna dall’ “indole aggressiva e litigiosa”, con qualche denuncia alle spalle per minacce e ingiuria, che da morosa abitava in un appartamento Aler, nella cittadina dell’hinterland di Milano. Il parere negativo e non vincolante dei carabinieri non ha impedito a Cianci di uscire di prigione e di aggredire, venerdì sera, un uomo di 79 anni davanti al distributore del caffè al piano interrato dell’ospedale San Raffaele di Milano. Una coltellata col taglierino a meno di un centimetro dalla carotide, nonostante la vittima gli avesse già consegnato cellulare e soldi. Salvo per miracolo, dopo un intervento l’anziano si sta riprendendo. Nonostante il parere dei carabinieri, dopo quarant’anni ininterrotti di galera, l’estate scorsa il giudice di sorveglianza ha iniziato a concedere i permessi premio a Cianci. Perché il suo atteggiamento in carcere era cambiato. Lo attestano decine di relazioni degli esperti che a Bollate lo hanno seguito. Alla luce dei “concreti progressi”, il tribunale gli ha concesso i permessi, ritenendo necessario “avviare il detenuto alla graduale ripresa di autonomia” nella “prospettiva futura della liberazione condizionale”. Aveva però delle prescrizioni: poteva viaggiare coi mezzi pubblici o in auto accompagnato da un parente, non poteva uscire di notte, bere alcol, frequentare pregiudicati e aveva l’obbligo di firma alla stazione dei carabinieri di Cernusco, dove in effetti era andato venerdì prima dell’aggressione all’ospedale e l’arresto per tentato omicidio e rapina. Impazza intanto la polemica politica, con il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede che ha dato mandato all’Ispettorato di compiere accertamenti preliminari. “Nessun premio ai killer spietati”, commenta il leader della Lega Matteo Salvini. Mentre Daniela Lia, figlia di uno dei carabinieri uccisi nel 1979, lo definisce “un essere ignobile”, ed Emanuela Piantadosi, presidente dell’Associazione Vittime del Dovere, si chiede: “Quanto altro spargimento di sangue si dovrà avere prima che il Governo prenda coscienza di quanto sia fondamentale monitorare seriamente la recidiva in questo Paese?”. Milano. L’ergastolano in permesso premio: solo i carabinieri erano contrari all’uscita di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 11 novembre 2019 Il giudice ordinò: “Va accompagnato”. Verifiche del ministero. Gli esperti del carcere: “Non è più socialmente pericoloso”. Per lui anche un encomio. Dopo 44 anni in cella il 60enne Antonio Cianci - l’ergastolano quadruplice omicida (di un metronotte nel 1974 a 15 anni, e di tre carabinieri nel 1979) che in permesso premio sabato sera con un taglierino in un tentativo di rapina alle macchinette del caffè del “piano -1” dell’ospedale San Raffaele ha quasi tagliato la gola al 79enne compagno di una paziente - aveva avuto non solo una positiva relazione dell’équipe di educatori-psicologi-criminologi il 29 marzo scorso; o il parere favorevole della direttrice del carcere di Bollate il 15 aprile; ma persino “un encomio il 31 ottobre 2018 per l’attività nella segreteria Nuovi Giunti”. Su un piatto della bilancia il giudice di Sorveglianza, Simone Luerti, trovava esperti per i quali era “non più socialmente pericoloso” il detenuto che, dopo anni di “iniziale atteggiamento oppositivo, col tempo si era mostrato sempre più collaborativo”, maturando “un senso di colpa soprattutto nei confronti delle famiglie dei carabinieri uccisi, consapevole di aver condannato figli a vivere senza i loro padri”: come Daniela Lia, che aveva 6 anni, e che ieri lamenta “altro dolore” da “quell’essere ignobile”. Sull’altro piatto della bilancia, invece, il giudice aveva la chance di lavoro sprecata da Cianci quando nel 2015 era tornato in cella mezzo ubriaco: era perciò “stato segnalato al Sert del carcere, che però non aveva ritenuto il soggetto abusatore di alcol”. Contraria al permesso era poi una nota dei carabinieri di Milano del 25 giugno, ma per due motivi collaterali: il fatto che la sorella avesse una denuncia per minacce e vivesse in una casa popolare dagli affitti non pagati, ma il giudice valutava che, trattandosi di permesso e non di misure alternative, la questione fosse “non rilevante”. Infine il 30 maggio vengono “chieste alla Questura di Milano le informazioni” previste dalla legge, “senza che sia pervenuta risposta”. E del resto anche il pm di apposito turno in Procura, che in teoria avrebbe potuto impugnare la concessione del permesso (in quel caso congelabile in attesa di udienza collegiale al Tribunale di Sorveglianza), aveva messo il visto. Tuttavia il giudice Luerti, come raramente accade, il 26 luglio sia nella motivazione sia nel dispositivo del provvedimento che autorizzava il primo permesso aveva anche prescritto: “Almeno per le prime volte, e comunque fino a nuova disposizione del magistrato, si impone l’accompagnamento dal carcere a Cernusco e rientro con familiare o altra persona nota (che potrà essere anche un volontario), al fine di evitare il possibile disagio per una nuova dimensione di libertà, che implicherebbe anche un complesso viaggio con mezzi pubblici”. In attesa degli accertamenti disposti dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, è ancora da chiarire se sabato l’accompagnamento ci sia stato, o se possa essere stato equivocata al punto n. 6 delle “prescrizioni” la residua formula standard “fare uso esclusivo di mezzi pubblici, con facoltà di usare i mezzi privati purché accompagnato da un familiare/volontario, negli spostamenti e all’uscita e al rientro”. La rilevanza della questione rispetto al ferimento (per fortuna meno grave perché per pochi centimetri le ferite alla gola sono superficiali, il 79enne verrà dimesso tra qualche giorno, e già ai soccorritori aveva subito detto “mi è andata bene...”), è tuttavia relativa: stando infatti alle prime indagini coordinate dal pm Nicola Rossato, l’ergastolano (solo o accompagnato che fosse) è in effetti andato sia dalla sorella sia dai carabinieri di Cernusco, dove ha firmato alle 15.08. Il ferimento al San Raffaele, distante alcuni chilometri, è delle 17.45: che cosa lo abbia spinto lì ancora non si sa, e forse solo Cianci potrà spiegarlo oggi. Milano. Ergastolo sacrosanto, impedisce altri reati di Maurizio Belpietro La Verità, 11 novembre 2019 La storia di Antonio Cianci andrebbe letta e riletta. Anzi, imparata a memoria. Non nelle aule scolastiche, ma in quelle di tribunale. In particolare, andrebbe declamata nell’aula della Corte costituzionale come la storia esemplare del perché un ergastolo debba essere un ergastolo e non una vacanza premio. Nonostante alle anime belle della Consulta e anche a quelle della Corte europea dei diritti dell’uomo, il “fine pena mai” non piaccia e lo ritengano una specie di tortura da vietare nella civilissima Europa, esso non ha una finalità punitiva, ma una funzione precisa, ossia impedire che gli assassini tornino a uccidere altre persone. Antonio Cianci era un ragazzo quando ammazzò la prima volta, sparando alla testa di un metronotte che aveva avuto il solo torto di incontrarlo sulla sua strada. Cianci lo uccise come un cane, ma essendo minorenne, nonostante il delitto di lì a poco tornò in circolazione, pronto per un altro omicidio. Infatti, dopo, di assassinii ne commise altri tre. Fermato a un posto di blocco da una pattuglia di carabinieri mentre era alla guida di un’auto rubata, Cianci uccise i tre militari, sparando prima che i poveretti si rendessero conto di avere davanti un killer. Condannato all’ergastolo e tenuto dietro le sbarre per decenni, l’altro giorno gli è stata concessa una licenza premio e per riconoscenza Cianci ha pensato bene di tagliare la gola a un pensionato colpevole di non essere generoso con lui. Mentre vagava nel piano interrato dell’ospedale San Raffaele, a Milano, il killer seriale ha incontrato l’uomo e gli ha chiesto di consegnargli il portafogli. Al rifiuto dell’anziano, Cianci ha messo mano al coltello e lo ha colpito al collo. Solo il caso ha voluto che al pensionato non fosse tagliata la carotide e solo il caso ha voluto che il tentato omicidio sia stato messo in atto nel sotterraneo di un ospedale, dove il pronto soccorso è stato possibile. Cianci l’hanno arrestato poco dopo i carabinieri in servizio presso il nosocomio e identificarlo non è stato difficile, perché aveva ancora le mani sporche di sangue e il coltello con sé. Così, il detenuto in permesso premio è tornato dove era giusto che stesse fin dall’inizio di questa storia, cioè dietro alle sbarre. Fin qui la vicenda potrebbe sembrare un ordinario caso di criminalità, da liquidare in cronaca, fra gli incidenti e i delitti del giorno. E invece no, il caso di Antonio Cianci non è roba ordinaria, da nascondere nelle pagine interne, ma è da prima pagina, perché spiega come il “fine pena mai” debba essere una pena che non si esaurisce e non un permesso premio. La storia del pensionato che ha rischiato la vita perché qualcuno ha deciso di scarcerare Cianci vale più di qualsiasi dotta argomentazione giuridica sulla funzione rieducativa del carcere. E, come detto, andrebbe letta e riletta nelle aule di giustizia oltre che in quella della Corte costituzionale. Perché di recente, i togati della Consulta hanno stabilito che l’ergastolo senza permessi premio non è costituzionale. In linea con quello che pensa la Corte europea dei diritti dell’uomo, i nostri giudici vorrebbero che terroristi e mafiosi, cioè detenuti pericolosi, ogni tanto fossero rimessi in circolazione, mandandoli a casa in visita ai parenti. Tenerli dentro sempre, cioè senza che la pena finisca mai come recita il nostro codice, sarebbe una tortura e dunque l’Italia rischierebbe di finire in fondo alla lista delle nazioni democratiche, in compagnia dei peggiori regimi. Ma se i detenuti non possono essere detenuti e anzi debbono essere premiati e scarcerati, a che serve minacciare l’ergastolo nel codice penale? Già adesso il “fine pena mai” non esiste, perché nessuno sconta più di 30 anni, a meno che non si tratti di un mafioso o di un terrorista, ma anche per quelli la scorciatoia è sempre pronta e ora - dopo la pronuncia della Consulta - lo sarà sempre di più. Già abbiamo concesso ai criminali che si pentono ogni genere di beneficio, anche di tornare in fretta in libertà per poter ricominciare delinquere (è dei giorni scorsi la notizia di un mafioso premiato per aver cantato, ma che una volta fuori ha ricominciato a fare ciò che faceva prima). Già un anno di carcere non è un anno di carcere, perché per chi sta dietro le sbarre gli anni non sono composti da 12 mesi, bensì da meno di ii. Se poi ci mettiamo pure il permesso premio per chi uccide i pensionati dopo aver ucciso quattro cristiani e la vacanza la concediamo anche a chi ha sciolto un bambino nell’acido, beh, il carcere facciano prima ad abolirlo. Scriviamo nella Costituzione che la prigione è virtuale e solo il delitto è qualche cosa di concreto e poi chiudiamola lì, così almeno non prenderemo in giro gli italiani. Monza. Infarto in carcere, muore un detenuto giornaledimonza.it, 11 novembre 2019 A dare la notizia è stato il Sindacato autonomo di Polizia penitenziaria che ha poi commentato: “C’è emergenza salute tra le sbarre”. Un detenuto straniero di 50 anni è morto ieri sera per un probabile infarto nel carcere di Monza. A dare la notizia è il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, per voce del Segretario regionale della Lombardia Alfonso Greco. “Nella serata di ieri, nel carcere di Monza, è morto un detenuto straniero di circa 50 anni per arresto cardiaco. Dopo un primo soccorso in istituito è stato trasportato d’urgenza in ospedale ove è poi deceduto. Il pur tempestivo intervento dei nostri Agenti di Polizia Penitenziaria di servizio non ha purtroppo impedito la morte del detenuto”. Greco evidenzia che “in Lombardia vi sono 18 istituti penitenziari sui 190 nazionali. La capienza regolamentare regionale stabilita per decreto dal ministero della Giustizia sarebbe di 6.199 detenuti, ma l’ultimo censimento ufficiale ha contato 8.618 reclusi, che ha confermato come la Lombardia sia la regione d’Italia con il maggior numero di detenuti. La regione Lombardia presenta una caratteristica: qui la salute penitenziaria resta in carico alle Aziende Ospedaliere, mentre nelle altre ragioni italiane è gestita dalle ASL”. I numeri della situazione sanitaria - “La situazione sanitaria nelle carceri resta allarmante, come hanno anche confermato gli esperti nel corso del XX Congresso Nazionale Simspe, Agorà Penitenziaria 2019: altro che emergenza superata”, commenta Donato Capece, segretario generale Sappe. “Secondo il rapporto del 2019 “Salute mentale e assistenza psichiatrica in carcere” del Comitato Nazionale per la Bioetica, osservando le tipologie di disturbo prevalenti sul totale dei detenuti presenti, al primo posto troviamo la dipendenza da sostanze psicoattive (23,6), disturbi nevrotici e reazioni di adattamento (17,3%), disturbi alcol correlati (5,6%). A seguire piccole percentuali per i disturbi affettivi psicotici (2,7%), disturbi della personalità e del comportamento (1,6%), disturbi depressivi non psicotici (0,9%), disturbi mentali organici senili e presenili (0,7%), disturbi da spettro schizofrenico (0,6%). Analizzando le diagnosi per genere, prevale tra gli uomini la diagnosi di dipendenza da sostanze psicoattive (50, 8% degli uomini e 32,5% delle donne), e tra le donne la diagnosi di “disturbi nevrotici e reazioni di adattamento” (36,6% delle diagnosi femminili e 27,1% delle diagnosi maschili). Arrivano dopo, fra gli uomini, i “disturbi alcol correlati (9,1 % degli uomini e 6,9% delle donne), e fra le donne i disturbi affettivi psicotici (10,1% delle donne e 4,1% degli uomini), i disturbi della personalità e del comportamento (2,4% degli uomini e 3,4% delle donne), disturbi depressivi non psicotici (1,3% degli uomini e 2,8% delle donne)”. Per il Sappe le carceri sono moderni “lazzaretti” - “Le carceri, dunque, assomigliano sempre più a “moderni lazzaretti” di manzoniana memoria”, conclude Capece. “Ed allora va detto una volta di più, con chiarezza e fermezza, che la tutela e la sicurezza del personale in servizio presso gli istituti detentivi devono sempre rappresentare il fondamento di qualsivoglia riforma penitenziaria, atteso che la Polizia Penitenziaria svolge una funzione essenziale per conto della comunità, prodromica alla sicurezza dei detenuti e di quanti altri sono presenti negli istituti: e ciò rafforza la denunzia di cui da sempre il Sappe si fa portatore in ogni contesto istituzionale (ovvero, proprio la trasfigurazione in moderni lazzaretti che hanno assunto, ormai da molti anni, le nostre carceri per le costanti e continue emergenze sanitarie). Sassari. Carcere di Bancali dimenticato senz’acqua, luce e contatti col mondo di Giovanni Bua La Nuova Sardegna, 11 novembre 2019 Mario Dossoni, Garante dei detenuti, racconta i suoi tre anni in prima linea: “Abbiamo fatto tanto, ma serve l’aiuto della comunità”. Acqua che cola dai tetti ogni volta che piove, con i temporali che spesso fanno saltare la corrente elettrica. E sgorga non potabile dai rubinetti e fredda dalle docce. Sciacquoni dei water nelle celle vuoti da mesi, muffa e infiltrazioni nei muri. Problemi nell’area educativa, che non funziona, ma anche per fare una semplice telefonata a parenti o legali. Mensa, anche della polizia penitenziaria, sporca, con cibi di qualità e quantità inadeguata. Pochi agenti, spesso male impiegati, nonostante la presenza di 85 super-boss in 41bis e 20 sospetti terroristi in regime di alta sicurezza. Pochissimi mediatori culturali, che nulla possono fare per risolvere i problemi di interazione con le 27 etnie presenti. Una città che ogni tanto bussa al portone blindato tra incontri con le scuole, film festival, visioni solidali e candeliere dei reclusi. Ma che per di più si dimentica di una parte di sé (la maggior parte dei presenti sono sassaresi), chiusa tra quattro mura lontane, che non riesce a parlare con famiglie e avvocati, ad avere accesso alle cure sanitarie, a imparare un lavoro, a ripartire. Saluta con sollievo e dolore Mario Dossoni, garante dei detenuti del Comune di Sassari dal gennaio 2016, che martedì ha aperto la seduta del consiglio comunale che ne ha sancito la sostituzione con una rapida quanto efficace fotografia di quello che oggi è il carcere di Bancali. Operativo dal luglio 2013 per sostituire l’ottocentesco carcere cittadino di San Sebastiano, a ragione considerato uno dei peggiori d’Italia, dopo una laboriosa progettazione e costruzione, calibrata su misura per farlo diventare uno dei super carceri dedicati alla detenzione dei boss della criminalità organizzata, e nonostante questo già in piena decadenza, strutturale e “sociale”. “A Bancali ci sono 470 detenuti - ha raccontato martedì in aula - divisi in quattro regimi. Ci sono 290 comuni, per la gran parte sassaresi, i reclusi in alta sicurezza, i “protetti” perché autori di crimini sessuali o facenti parte delle forze dell’ordine, gli 85 in 41bis, 13 in semilibertà e 12 donne. Gli stranieri sono il 36 per cento, un terzo sono tossicodipendenti o spacciatori, molti di solo hanno problemi di salute mentale”. Un quadro difficile da gestire che si scontra con una situazione logistica e ambientale sempre più pesante. “Il lavoro del Garante è in gran parte questo, raccogliere i problemi, piccoli e grandi, e attivarsi per trovare soluzioni. E il problema più grande è il rapporto con l’esterno, la cui mancanza pesa più delle pur importanti carenze dentro il carcere”. E proprio per questo la presenza del garante, insieme al piccolo nucleo di volontari Caritas, ai dentisti della casa della Fraterna solidarietà, alle associazioni che mettono in piedi laboratori di teatro, sartoria, pittura, musica e falegnameria, alle scuole che organizzano (come il Pellegrini) percorsi di qualificazione professionale, o (come il De Villa) veri e propri corsi di istruzione superiore, sono boccate di ossigeno per n mondo in costante apnea. “Abbiamo fatto tanto - ha chiuso Dossoni - o perlomeno abbiamo fatto il possibile. Grazie all’aiuto delle istituzioni, della direzione, della polizia penitenziaria, dei detenuti. Che finiscono per essere tutti vittime dello stesso sistema. Io lascio il mio incarico con dolore, perché mi ha enormemente arricchito, ma anche con serena convinzione, perché richiede un’energia e una dedizione che qualcun altro avrà più di me. Resto convinto che il garante debba essere affiancato da figure operative che si occupino delle tante problematiche che ha una struttura complessa come Bancali. E che carcere e città debbano riprendere a comunicare, a interscambiare, a costruire insieme un presente e un futuro migliore”. Pordenone. Parte il progetto “A scuola di libertà”, liceali a confronto con gli ex detenuti Messaggero Veneto, 11 novembre 2019 Tra prevenzione e stimolo al cambiamento Si comincia venerdì, poi assemblee di istituto. Non ci sono libri di testo né dizionari per imparare ad ascoltare l’altro. È un esercizio costante, impegnativo, tanto più difficile quanto l’altro è distante dalla nostra comfort zone. Ma è un esercizio necessario per formare gli adulti di domani e per aiutare quelli di oggi a riflettere sul loro presente. È un’esperienza di scambio intensa quella che stanno per vivere i ragazzi di alcuni licei di Pordenone che a partire da venerdì saranno coinvolti nel progetto “A scuola di libertà”: durante le assemblee di istituto potranno incontrare detenuti ai domiciliari o in semilibertà accompagnati da volontari. Ascolteranno le loro storie, li guarderanno negli occhi e saranno da loro guardati ed ascoltati con il duplice obiettivo della prevenzione per gli studenti e della consapevolezza del reato e del cambiamento per detenuti. Anima dell’iniziativa è Giovanna De Maio dell’associazione Carcere e comunità di Pordenone, che anche quest’anno ha riproposto alle scuole secondarie di primo grado del territorio un progetto di educazione alla legalità. Il legame tra scuola e carcere è stato sottolineato anche nell’ultima Conferenza nazionale giustizia e volontariato che si è svolta in ottobre a Milano: sono due mondi - ha sottolineato l’assemblea della Cnvg della quale fa parte l’associazione - che si devono conoscere e confrontare per riflettere insieme sul sottile confine tra illegalità e trasgressione, sui comportamenti a rischio, sulla violenza che si nasconde in ognuno di noi. Ci saranno anche i ragazzi del Leopardi Majorana. Le classi prime e seconde si riuniranno in assemblea il 2 dicembre mentre le terze, le quarte e le quinte sono convocate il 6 dicembre. Alle assemblee parteciperanno proprio i detenuti: persone condannate per reati comuni e che oggi si trovano ai domiciliari alla cooperativa Oasi o che hanno già dei permessi di semilibertà in cui queste persone sono già accompagnate dai volontari a fare una passeggiata e a pranzo fuori. La parola sarà data anche ai volontari e a don Piergiorgio Rigolo, presidente di Carcere e comunità e storico cappellano di carcere e ospedale. Luoghi di sofferenza ma anche di speranza, ricchi di vita in tutte le sue sfaccettature. Catanzaro. Detenuto tenta il suicidio e alla moglie viene negato di incontrarlo di Edoardo Corasaniti lanuovacalabria.it, 11 novembre 2019 Quintieri: “Intervenga il Garante nazionale”. Di nuovo il carcere diventa teatro di una tragedia. Di nuovo il sistema insiste nel voler tenere in gabbia una persona gravemente affette da disturbi psichiatrici, bisognose di cura ed assistenza. La trama è questa: prima il carcere di Paola, poi il “Panzera” di Reggio Calabria, dopo l’istituto penitenziario del capoluogo e infine l’ospedale Pugliese Ciaccio di Catanzaro. Si evolve così la tragica storia di un detenuto di origine cosentina che nei giorni scorsi ha tentato il suicidio nel carcere di Catanzaro. Ed oltre al danno la beffa: a quanto pare, sembrerebbe che alla moglie sia stata negata la possibilità di avere un colloquio con suo marito. A farlo sapere è Emilio Quintieri (Radicali Italiani), che proprio tempo fa ha chiesto all’Amministrazione penitenziaria un’adeguata sorveglianza custodiale e un sostegno morale e psicologico per il detenuto. Ma accade quello che si voleva evitare: l’uomo, 49 anni e condannato per estorsione, cerca di mettere fine alla propria vita. Immediato il trasporto d’urgenza al nosocomio catanzarese, dove ora è ricoverato in rianimazione. Non è finita, perché tra i protagonisti della vicenda c’è anche la moglie del detenuto. È lei che, appena saputo di quanto successo, si precipita nell’ospedale catanzarese. La Polizia Penitenziaria, però, le avrebbe negato di poterlo vedere ed avere dai medici notizie sulle condizioni di salute dell’uomo ricoverato, nonostante fosse stato autorizzata. Quintieri ha inviato una informativa al Garante Nazionale dei Diritti dei Detenuti, Maria Palma, sollecitando una visita ispettiva con la massima urgenza. Napoli. Carcere di Poggioreale, frigorifero in cella per i detenuti Il Mattino, 11 novembre 2019 Quattrocento frigoriferi sono già arrivati e sono stati installati nelle celle dei padiglioni del carcere di Poggioreale. Così ogni cella ora è munita di un refrigeratore per le esigenze dei reclusi, grazie all’iniziativa finanziata dall’assessorato alle Politiche sociali della Regione, Lucia Fortini, su proposta del garante regionale dei detenuti, Samuele Ciambriello. Oggi alle 9.30 Fortini e Ciambriello visitano i padiglioni assieme ai giornalisti e agli operatori tv ammessi, per la prima volta, per le riprese video, ovviamente nel rispetto delle norme vigenti sulla privacy. Un’occasione per parlare delle luci e delle ombre nel sistema carcerario. Il primo problema resta il sovraffollamento, seguito dalle difficoltà nell’accedere alle prestazioni sanitarie, soprattutto fuori dalla struttura, se si ha bisogno di un intervento chirurgico: a causa delle liste di attesa si rischia di aspettare anche più un anno. “Tra le buone prassi, c’è l’impegno di tanti volontari che contribuiscono a colmare, almeno in parte, le carenze di personale in organico”, dice Ciambriello. È insufficiente il numero di mediatori culturali, psicologi, sociologi e tante altre figure indispensabili per promuovere attività a sostegno di quel percorso rieducativo che dovrebbe essere sempre attivato per tutti i reclusi. “Espiata la pena, l’uscita dal carcere è ancora più complessa perché si ha una nuova punizione sociale fatta di rifiuto e indifferenza, per chi è stato in cella: difficile recuperare fiducia e ottenere una possibilità di lavoro”, avvisa Ciambriello, chiedendo che siano promossi i processi di reinserimento. Siena. “Fuori dal buio”, una penna ed un foglio per iniziare una nuova vita sienanews.it, 11 novembre 2019 Alla Mondadori il libro dei detenuti di Santo Spirito. La scrittura ha un duplice valore: permette di razionalizzare il vissuto di una persona e le dà la possibilità di guarire certe lacerazioni dell’animo. Una sensazione di libertà, che permette talvolta di ricominciare da capo e guardare al futuro con speranza. Una situazione questa, provata da sette detenuti di Santo Spirito, gli autori del libro “Fuori dal buio”. Già il titolo assume un significato simbolico: quello di andare avanti e vedere come è cambiato il mondo dopo essere usciti dal buio, appunto, delle quattro mura della cella. Nelle storie raccontate dolore e tristezza si uniscono alla voglia di riscatto e ai sogni di persone che, comunque, meritano una seconda possibilità. C’è la vita vissuta degli scrittori, c’è la voglia di ripartire di chi, alla fine, si ritrova insieme a cantare “Che fantastica storia è la vita” di Antonello Venditti. Ad aiutare le sette penne di Fuori dal Buio è stata la giornalista e collaboratrice di Siena News, Cecilia Marzotti che ha curato l’opera. Domani, lunedì 11 novembre, il libro verrà presentato alla libreria Mondadori di Siena, alle 18, il libro Fuori dal buio Milano. La fede e il carcere, al Museo Diocesano le fotografie di Margherita Lazzati finestresullarte.info, 11 novembre 2019 Una mostra per documentare il libero esercizio della fede da parte dei detenuti del carcere milanese di Opera: s’intitola “Fotografie in carcere. Manifestazione della libertà religiosa”, è un progetto fotografico di Margherita Lazzati (Milano, 1953) ed è ospitata dal Museo Diocesano di Milano dal 15 novembre 2019 al 26 gennaio 2020. La mostra presenta cinquanta immagini in bianco e nero che ripercorrono gli anni in cui Lazzati ha frequentato come fotografa la casa di reclusione di Opera nell’ambito di progetti di laboratori di lettura e scrittura creativa. L’idea di documentare la quotidianità dei detenuti, e in particolare le loro manifestazioni di fede, scaturisce nel 2017 da un dialogo con l’allora direttore del carcere, Giacinto Siciliano, poi proseguito col successore Silvio Di Gregorio, e con il provveditore Luigi Pagano. Le immagini dell’artista milanese ritraggono persone a contatto con la propria fede e con il proprio credo: non solo detenuti, ma anche volontari, ministri di culto, agenti, appartenenti a comunità di diverse confessioni religiose, dai cattolici agli ebrei, dagli evangelici ai copti, dai buddisti ai musulmani, colti nei vari momenti di preghiera e di condivisione. “Ho scelto di ritrarre non solo i luoghi della preghiera e della condivisione”, spiega Margherita Lazzati, “ma anche i dialoghi, gli sguardi, i gesti rituali, i momenti di convivenza tra persone, che sono poi quelli che maggiormente mi hanno colpita. Questo è un tema a me molto caro. Cerco di rimanere lontana da ogni retorica e di rivolgere la mia indagine unicamente alla “persona”. In questo caso mi sono concentrata sull’esperienza che le persone vivono e condividono: un’esperienza di riflessione, preghiera, speranza, disperazione”. Margherita Lazzati vuole invitare ad oltrepassare la cinta muraria e ad avvicinarsi di una realtà che è parte integrante della società. Le immagini però non vogliono essere solo un racconto o solo spiegare cosa avviene in carcere, ma mirano anche a sollecitare profondi interrogativi, ed è per questa ragione che la mostra è in totale sintonia con l’identità del museo stesso che, attraverso l’arte, intende suscitare domande di significato e desiderio di Bellezza. La mostra è visitabile negli orari d’apertura del Museo Diocesano di Milano (tutti i giorni tranne il lunedì dalle 10 alle 18). Biglietto mostra + Museo Diocesano: intero 8 euro, ridotto e gruppi 6 euro, scuole e oratori 4 euro. Accompagna la mostra, un catalogo Edizioni La Vita Felice (16 euro). Per maggiori informazioni visitare il sito del Museo Diocesano di Milano. Con “Liberi dentro” il tour degli Istentales diventa un libro e un cd di Luciano Piras La Nuova Sardegna, 11 novembre 2019 Presentazione di Roberto Vecchioni. E come sempre nella vita, anche nel carcere l’unica arma, l’unica difesa, l’unico scudo contro la tristezza, la noia, il dolore, è l’arte, non c’è niente da fare. E la prima tra le arti è quella più popolare e più immediata: la musica. Musica che parla di cose vere, cose vive, cose vissute dalle persone, in sofferenza e in gioia... è la musica che fa star bene. Dà a chi purtroppo è in carcere la sensazione che il mondo sia sempre simile. Gli errori si commettono, gli sbagli ci sono, i dolori si riparano, le speranze esistono, eccome! Ecco perché ho già proposto e continuerò a proporre i concerti nelle carceri, li ho fatti anch’io i concerti, a patto che ci sia un continuo ricambio di artisti che vadano a cantare nelle carceri italiane. La musica degli Istentales è particolare. È particolare perché è sarda, sì, ma esce, esula dal mondo sardo. Innanzitutto dalla Sardegna prende i valori fondamentali che sono la serietà di vita, l’amicizia, la straordinaria amicizia, collegamento tra uomo e uomo, la dignità (che purtroppo in carcere si perde). Questi insegnamenti, che non tutti gli artisti trasmettono, ma loro sì, gli Istentales sì, sono veramente tra i primi che possono arrivare ai carcerati. Mi auguro perciò che questo tour davvero speciale degli Istentales raccontato in questo libro di Luciano Piras, Liberi dentro, continui e che i carcerati ascoltino e che abbiano sempre modo di riascoltare la musica, che possano registrare brani, pezzi, discorsi, di Gigi Sanna e di tutti gli altri, e sapere così che non è mai finita. Dentro il carcere si possono fare tantissime cose. Prima di tutto bisogna costruire carceri nuove, perché non si può stare ammassati come animali in uno spazio ristretto, ci vogliono spazi enormi e anche all’aperto. Non vedo perché il carcere debba costringere una persona a stare in una cella. Ci sono carceri a Milano e fuori Milano che hanno parchi e parchi, giardini, chiusi chiaramente, dove però puoi passeggiare, fare qualcosa. Il carcere non deve essere una sofferenza, deve essere un tentativo di rieducazione, deve dare almeno un consiglio per la vita che verrà. La sofferenza deve essere abolita. Al massimo devi renderti conto che hai perso la cosa più grande che ha un uomo: la libertà. Quella è la vera sofferenza, non altri tipi di sofferenza. Se io potessi fare qualcosa per le carceri, la prima cosa che farei sarebbe proprio questa: far sì che siano più umani, che non siano alberghi, questo no, ma più umani sì. Spazi più grandi, con un grande tempo per leggere, per costruire delle cose, per favorire la propria arte. Prima parlavo della musica, ma non è importante soltanto la musica che va in carcere, è importante anche quella che si fa dentro il carcere. Si impara la musica, si formano i gruppi, si cantano canzoni, si fanno spettacoli, musica sinfonica, musica jazz, la musica è tutta bella, quando è bella, non possiamo catalogarla… ci sono pezzi tremendi e ci sono pezzi bellissimi che arrivano all’anima. L’arte è fondamentale. Prendi il teatro: è una creazione, ci si immedesima in un altro personaggio, esci un attimo da te stesso e guardi con gli occhi di un altro uomo, magari rappresentativo del mondo, e allora ti accorgi che il mondo è fatto di tante piccole cose e di sentimenti forti. E ti fa capire che se tu sei in carcere, non è che per questo sei diverso dagli altri uomini. La musica è anche un mezzo per evadere dalla durezza della realtà, dalle brutture di tutti i giorni, dalle ingiustizie, dal male. Questa era la musica di Fabrizio de André, di Pierangelo Bertoli, di Francesco Guccini, è la musica che ho fatto anche io. È una musica che non ha tempo, non è che finisce negli anni Settanta, Ottanta… è ancora viva, vivissima oggi per chi la vuole sentire, ascoltare. Oggi non vanno solo il trap, il rap eccetera, che vanno benissimo, sono comunicazione giovanile, vanno benissimo ripeto, ma ci sono cose molto più profonde verso cui andare, scavare. Quando possiedi queste piccole perle, queste piccole perle sono la tua corazza contro qualsiasi cosa ti accada. Devo dire che la musica degli Istentales, che in Sardegna è notissima, ha sempre fatto quell’effetto, cioè racconta la verità, la realtà così com’è. Gigi Sanna non usa parole astruse né metafore strane. Lui è un costruttore di vero nella sua semplicità assoluta, il suo messaggio arriva subito. E quel messaggio va elaborato dentro l’anima, va coltivato. Il percorso di Gigi e degli Istentales è stato lungo e faticoso, è un percorso quasi controvento, ma lui, loro non hanno paura di questo: vanno avanti perché quelle sono le cose da dire e non scendono a compromessi. Il recital della giudice che difende i profughi “Racconto il loro dolore” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 11 novembre 2019 Luciana Breggia fu tra le prime a non applicare il decreto sicurezza. “Siete mai stati due ore chiusi in una stanza con uno schiavo? Io sì. E la stanza è rimasta colma del suo tremore e del suo silenzio”. Luciana Breggia non ha timore di esprimere i suoi sentimenti, anzi ne rivendica il bisogno. Giudice civile ignota al grande pubblico, non avrebbe mai pensato che la sua sentenza che rigettava il ricorso del Viminale contro l’iscrizione all’anagrafe di un richiedente asilo l’avrebbe fatta finire nella lista nera dei magistrati schedati dallo staff di Matteo Salvini per le attività pubbliche che ne avrebbero connotato la “faziosità”. La presidente della sezione immigrazione del tribunale di Firenze non è mai venuta meno alla consegna del silenzio e anche ora, che della sua esperienza di giudice dell’asilo ha fatto uno spettacolo teatrale, non vuole tornare su quell’episodio. Ma alla fine è proprio da qui che parte: “Io ho sempre applicato le norme, naturalmente interpretandole con rigore e imparzialità. Ma il giudice ha una testa e un cuore, non è disincarnato. Avere un pensiero ed esprimerlo lo rende anzi più trasparente. Il giudice parziale, quello che sfoga nei suoi provvedimenti un sentire di parte, è un giudice muto”. E allora eccola l’elaborazione culturale di due anni di diario di un giudice dell’asilo portata in scena, con un reading teatrale, davanti alla platea di magistrati, avvocati, esperti di immigrazione riuniti a Lampedusa da Area democratica per la giustizia e Asgi per confrontarsi sui temi del diritto della frontiera. Invece accade, così si chiama, perché nella sua stanza di giudice a Firenze Luciana Breggia ha sentito cose che pensava non sarebbero più accadute, dai campi di sterminio ai lager libici. Mai, ad esempio, avrebbe pensato di trovarsi di fronte a Ievohah, il re che non voleva diventare re. “Un ragazzo del Burkina Faso - ricorda - che mi spiegò di essere fuggito dal suo villaggio per aver rifiutato di diventare re, come gli spettava per successione. “Da noi sarebbe bello diventare re”, ho obiettato. E lui: “Da noi invece no, sei un fantoccio nelle mani degli anziani del villaggio. Ho cercato di trovare riscontri alla sua storia, non ho trovato nulla, ma gli ho creduto. Era inserito in un contesto, parlava italiano, era vulnerabile. Mi sono misurata con l’impossibilità di ricostruire la sua storia e gli ho dato il permesso umanitario”. Ievohah, il re mancato, Maore, lo schiavo di Agades, Beauty, la ragazza stuprata e vittima di tratta, Latif, il bambino pakistano cucitore di palloni, Marsillah scappato dal Mali che pensa a tutto quello che ha perso. “Nella mia stanza sono passati centinaia di donne e uomini senza diritti, persone ridotte a cose. La mia stanza è una finestra su mondi lontani, geograficamente e culturalmente. Quando mi ritrovo faccia a faccia con loro sento un’enorme responsabilità. La legge ci chiede di valutare la credibilità, la plausibilità delle loro storie, raccontate da persone tremanti e stremate in lingue sconosciute. Momenti che affrontiamo da soli, con l’aiuto di interpreti improvvisati senza mediatori culturali. Cosa è plausibile e cosa no? Quanta fatica, quanta tristezza, quanto dolore”. Questo spettacolo Luciana Breggia lo ha scritto per il giorno della Memoria. “Nuove forme di deumanizzazione”, le chiama, cui bisogna opporsi anche se vesti la toga. E, mano sul cuore, saluta commossa il minuto di applausi che Lampedusa tributa al suo diario di un giudice. Migranti. Patto “segreto” tra Libia e Malta per riportarli indietro Il Riformista, 11 novembre 2019 Spunta un accordo segreto far Malta e Tripoli. Avrebbero stretto un patto in base al quale le Forze armate maltesi si coordinerebbero con la guardia costiera libica per intercettare i migranti diretti verso l’isola e riportarli in Libia. A rivelarlo è il giornale Times of Malta, che parla di accordo di “mutua cooperazione” siglato tra l’esercito della Valletta e la guardia costiera libica, con il funzionario governativo Neville Gafà come intermediario. Il quotidiano maltese pone in evidenza la figura di Gafà, accusato in precedenza di comportamenti illeciti e controversi, tra cui legami con un leader delle milizie libiche che gestisce estorsioni e centri di detenzione privati. Come controversa, peraltro, è anche l’attività della guardia costiera della Libia. “Abbiamo raggiunto quello che potreste chiamare un’intesa con i libici: quando c’è una nave diretta verso le nostre acque, le forze armate maltesi si coordinano con i libici che la prendono e la riportano in Libia prima che entri nelle nostre acque e diventi nostra responsabilità”, ha dichiarato una fonte a Times of Malta. La guardia costiera libica è stata accusata di violazioni dei diritti umani tra cui tortura, ostacolo alle attività di salvataggio delle organizzazioni umanitarie, legami con le gang del traffico di esseri umani. Fonti interpellate dal giornale maltese giustificano l’intesa in quanto - sostengono - si basa sul modello di quella già raggiunta tra Libia e Italia. Immediata l’accusa della ong che si occupa di soccorso ai migranti Alarm Phone che stigmatizza l’accordo come grave violazione del diritto: “Sebbene non sia una sorpresa - sottolinea - ora è confermato che le autorità maltesi coordinano le intercettazioni in collaborazione con la Libia. Questo impedisce alle persone in fuga da una zona di guerra di raggiungere un porto sicuro e viola le convenzioni internazionali sui diritti umani”. La Valletta puntella l’accordo che fa già discutere. Un portavoce del primo ministro maltese spiega che incontri bilaterali vengono continuamente condotti da Malta su base regolare e assicura che il Paese “rispetta sempre” le convenzioni e le leggi internazionali. “L’Ue - dichiara - si spende attivamente a favore del rispetto delle istruzioni delle competenti autorità europee che sono contro l’ostruzione delle operazioni condotte dalla guardia costiera libica, che è finanziata ed addestrata dall’Unione europea per la gestione dei migranti e contro il traffico di esseri umani”. Rassicurazioni di La Valletta a parte, la notizia dell’accordo qualche imbarazzo potrebbe crearlo, visto che proprio a Malta a settembre era stato firmato l’accordo fra cinque Paesi Ue, oltre a La Valletta, Francia, Germania, Finlandia e anche Italia.Nicola Fratoianni di Sinistra Italiana usa toni durissimi e parla di “spregio” al diritto internazionale con l’unico obiettivo “di non avere grattacapi anche se ci sono esseri umani a rischio della vita”. E chiede alla Ue e agli organismi internazionali, a partire dall’Onu, di avviare una commissione di inchiesta, perché “formalizzare i respingimenti, che sono illegali, è un’ombra pesante sul governo maltese”. Iraq. La gerarchia dell’odio del Califfo di Alessandro Orsini Il Mattino, 11 novembre 2019 Cinque soldati italiani in Iraq gravemente feriti a causa di una mina e uno di loro ha purtroppo subito l’amputazione di una gamba. All’analisi dei fatti vogliamo far precedere il nostro cordoglio. Per quanto i dati sul sito del ministero della Difesa siano in aperta contraddizione - in un grafico i soldati italiani in Iraq e in Kuwait sono 868, in un altro 1.497 - l’Italia risulta essere impegnata in 37 missioni. Di queste 35 sono internazionali, in 22 Paesi, che impegnano 12,900 unità. Un dispiegamento così ampio di forze espone inevitabilmente a pericoli mortali, che purtroppo si manifestano oggi, a pochi giorni dall’anniversario della strage di Nassiriya, sempre in Iraq, il 12 novembre 2003. Passando all’analisi dei fatti, la domanda che tutti si pongono è se siamo in presenza di un attentato mirato oppure di un evento accidentale. Gli elementi a nostra disposizione inducono a ritenere che, né i capi di al Qaeda, né quelli dell’Isis, abbiano elaborato una strategia d’attacco contro i soldati italiani. Per valutare i pericoli che corrono i soldati italiani in Iraq, occorre sapere che cosa sia la “gerarchia dell’odio” delle organizzazioni jihadiste: uno strumento concettuale da noi elaborato per entrare nella mente dei terroristi e prevedere le loro mosse. Nella mente dei terroristi dell’Isis, i Paesi dell’Europa occidentale non sono tutti odiati allo stesso modo e, di conseguenza, non tutti sono esposti agli stessi pericoli. I vertici dell’Isis hanno sviluppato una gerarchia dell’odio che pone i Paesi europei su un podio a cinque scalini. I più odiati sono quelli che hanno bombardato le roccaforti dell’Isis in Siria e in Iraq ovvero Francia, Inghilterra, Belgio, Olanda e Danimarca. Sul secondo gradino, ma in realtà a pari merito con i primi, si trovano gli Stati che hanno inviato i propri soldati a ingaggiare il corpo a corpo con i militanti dello Stato Islamico ovvero Turchia, Iran e milizie di Hezbollah. Sul terzo gradino siedono i Paesi che, come la Germania, hanno inviato soldati, aerei e navi da guerra in attività di supporto alla Francia, ma senza un ruolo combattente. Sul quarto gradino ci sono quelli che si limitano a inviare i propri soldati a presidiare strutture di pubblica utilità è ad addestrare i soldati iracheni al combattimento contro l’Isis. Sul quinto gradino, vi sono gli Stati europei che, pur appartenendo alla coalizione anti-Isis, in realtà non fanno niente. L’Italia si trova al quarto posto perché non ha mai voluto sparare contro i jihadisti, nonostante gli inviti ripetuti della Casa Bianca, limitandosi alle attività di addestramento e protezione di infrastrutture, come la diga di Mosul. Ne consegue che e molto meno odiata della Francia, ma comunque esposta a pericoli. Tuttavia, tali pericoli sono quelli a cui chiunque sarebbe esposto in un teatro di guerra, come imbattersi in una mina. Siccome l’Italia non è stata mai bersagliata dai jihadisti quando la lotta sul campo contro lo Stato islamico era più intensa, vale a dire nel periodo 2015-2017, è difficile immaginare che il successore di al Baghdadi scelga di accanirsi contro l’Italia, che ha un ruolo così marginale nella lotta frontale contro il terrorismo, come strategia per imporre un’immagine vincente di sé. Non risulta inoltre - scandagliate tutte le analisi che i servizi segreti hanno presentato al Parlamento - che i capi dell’Isis abbiano mai cercato di organizzare un attentato in Italia. È possibile che, nelle prossime ore, l’Isis cerchi di “intestarsi” questo atto di guerra con un comunicato, ma non significherebbe necessariamente che l’Isis abbia voluto colpire i soldati italiani intenzionalmente. Una cosa è organizzare un attentato; altro è sfruttare mediaticamente il suo accadimento per dare un’immagine vincente di sé. Detto più semplicemente, i vertici dell’Isis hanno rivendicato non pochi attentati, che però non avevano organizzato. Quasi certamente continueranno a farlo anche dopo al Baghdadi. Per comprendere le mosse “punitive” dell’Isis, occorre sapere che i suoi capi attribuiscono la massima importanza alla politica estera dei Paesi nemici. Al momento, non risulta che Luigi Di Maio abbia modificato la linea strategica dell’Italia nella lotta contro le organizzazioni jihadiste. Yemen. Torture nella prigione nascosta nel sito Total di Eva Thiébaud e Morgane Remy* Il Fatto Quotidiano, 11 novembre 2019 Violazione dei diritti dell’uomo. L’Osservatorio sugli armamenti e altre Ong hanno raccolto testimonianze di dissidenti “bastonati e rinchiusi” nell’area segreta degli Emirati a Balhaf. Sono stato rinchiuso in una cella. Poi mi hanno preso a pugni e bastonato, trascinato per la barba e colpito al volto. Mi hanno fatto credere che i miei compagni di cella mi avessero denunciato e accusato di far parte dell’Isis, di Al Qaeda o dei Fratelli Musulmani”. Mohammad (nome di fantasia) è yemenita. Sostiene di essere stato rinchiuso e picchiato dalle forze emirate a Balhaf, costa sud dello Yemen, in un sito industriale gestito dal consorzio Yemen Lng (Ylng) il cui principale azionista è il gruppo francese Total (circa il 40%). La sua testimonianza emerge da un rapporto pubblicato giovedì scorso dall’Osservatorio sugli armamenti e dalla Ong SumOfUs, in collaborazione con Amici della Terra (“Operation Shabwa - La Francia e Total in guerra nello Yemen?”), che Mediapart e Le Monde hanno potuto consultare. Vi sono prove che l’impianto di Balhaf è stato usato dagli Emirati Arabi Uniti come prigione segreta dove i detenuti sarebbero stati sottoposti a trattamenti “disumani e degradanti”. I fatti risalgono al 2017 e 2018, durante la guerra, ancora in corso, tra i ribelli Huthi, un movimento politico islamico armato, e il governo di Abd Rabbih Mansur Hadi, presidente riconosciuto dalla comunità internazionale e sostenuto dal 2015 dalla coalizione di Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti. Abbiamo contattato sia Total che Ylng, senza risposta. Dall’ufficio del primo ministro Edouard Philippe ci è stato spiegato che se “la Francia ha sostenuto questo progetto industriale, la gestione del sito e la ripresa delle attività spetta al consorzio Ylng”. E hanno aggiunto: “I fatti molto seri che segnalate dovranno essere verificati”. L’impianto, aperto nel 2009, rientrava all’inizio nella strategia della multinazionale francese di sviluppare il gas naturale per il mix energetico. Lo stabilimento di Balhaf, alimentato da un gasdotto collegato ai giacimenti di gas della città di Marib, produceva Lng (Liquefied Natural Gas) che veniva venduto a clienti internazionali via il porto di Balhaf. Lo stabilimento, strategicamente importante per la multinazionale, era e rimane vitale per l’economia yemenita. Con il suo costo di 5 miliardi di dollari, rappresenta il più grosso investimento mai realizzato nel paese. Le esportazioni potrebbero fruttare “quasi un miliardo di dollari all’anno al governo”, secondo Aws Al-Aoud, il ministro del Petrolio yemenita. Un reddito essenziale per il paese più povero del Medio Oriente. Assicurare la protezione del consorzio Ylng a Balhaf è dunque importante. Il sito che, oltre alla zona industriale, comprende anche abitazioni, una moschea e una mensa, è protetto da “torri di osservazione, sensori e telecamere anti intrusione e checkpoint”, notano le associazioni. Della sua sicurezza si occupano delle società yemenite come Al Maz, G4S Limited o Griffin Limited, ma anche compagnie militari private francesi come Pro-Risk o Surtymar e gruppi militari vicini all’esercito yemenita. Sul posto è presente anche l’esercito francese. “Ylng ha convinto il governo francese a inviare delle pattuglie navali per addestrare i soldati yemeniti basati a Balhaf nel maggio 2009”, scriveva l’ambasciatore americano dell’epoca in una missiva diplomatica rivelata da WikiLeaks. La militarizzazione del sito ha consentito allo stabilimento di funzionare a pieno regime anche a conflitto iniziato, dopo che, nel 2014, il movimento Houthi aveva conquistato la capitale yemenita, Sanaa. Quell’anno la fabbrica aveva persino esportato volumi superiori al previsto, secondo i dati di Bp. Ma, a inizio 2015, per “cause di forza maggiore”, Total ha sospeso le attività e rimpatriato i suoi dipendenti in Francia, grazie ancora una volta alla presenza della marina militare nazionale. La fabbrica nei fatti non è mai stata completamente ferma. L’impianto va ad attività ridotta per preservare le installazioni, facendo intervenire sul posto 50 “volontari” yemeniti. “Due squadre si alternavano ogni quattro settimane - ha confermato a Mediapartun tecnico presente sul sito da anni -. Avevamo avuto la sensazione di dover agire per il bene del nostro Paese, nonostante i rischi incorsi per attraversare regioni in guerra”. La sospensione dell’impianto è coincisa con l’intervento in Yemen, al fianco del presidente Abd Rabbih Mansur Hadi, dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti, accomunati, oltre che dalla volontà di combattere i ribelli Houthi che occupano lo Yemen settentrionale, anche da interessi privati. “Gli Emirati hanno messo a punto una strategia per controllare il sud dello Yemen e la trafficata rotta marittima che unisce lo stretto di Hormuz allo stretto di Bab el-Mandeb”, ha spiegato Tony Fortin dell’Osservatorio sugli armamenti. “Controllare i porti yemeniti permette di limitarne lo sviluppo e la concorrenza che potrebbero fare ai porti emirati - sottolinea Ali Ashal, deputato del Congresso yemenita per la riforma, partito di opposizione affiliato ai Fratelli Musulmani. Anche la regione di Shabwa, ricca di petrolio, è di loro interesse”. Il porto e la fabbrica di Balhaf, all’interno del governatorato di Shabwa, ricco di idrocarburi, è un luogo strategico. “Il sito è una base militare degli Emirati, con armi e logistica. Lo sanno tutti”, afferma una fonte del governo yemenita. Da immagini satellitari le associazioni hanno notato la comparsa di nuove infrastrutture sul posto, tra cui “un eliporto”. É possibile che Total, in quanto principale azionista, ignori la trasformazione del sito in caserma? “Total è al corrente”, ci ha detto un membro del governo yemenita, a condizione di conservare l’anonimato. E il governo francese? “La Francia è un alleato storico degli Emirati Arabi Uniti”, ha sottolineato Tony Fortin, ricordando le ingenti vendite d’armi alla monarchia del Golfo: 3,5 miliardi di euro di ordini tra 2009 e 2018, secondo il rapporto parlamentare 2019 sulle esportazioni di armi. I due paesi hanno recentemente rafforzato la cooperazione, in materia di “pace e sicurezza regionali” e di “lotta contro il terrorismo”. Nel campo dell’energia, il governo francese ha impegnato fondi pubblici per il progetto dell’impianto di liquefazione yemenita attraverso un’assicurazione che copre parte dei rischi assunti dalle banche finanziatrici del progetto. Il ministero dell’Economia ha confermato una polizza assicurativa di 240 milioni di dollari. “Significa che i contribuenti potrebbero trovarsi nella situazione assurda di doversi assumere i rischi finanziari presi da Total in Yemen - denuncia Cécile Marchand, dell’associazione Amici della Terra. E, peggio ancora, che lo stato francese si ritrova complice delle violazioni dei diritti umani perpetrate a Balhaf”. Le associazioni denunciano anche la creazione sul sito nel 2017 e 2018 di una prigione segreta, basandosi sulle testimonianze di due yemeniti, tra cui Mohammad. “Tra 5 e 10 detenuti sono ammassati in celle minuscole, di 5-8 metri quadrati. Dormono per terra. Non c’è acqua corrente e si soffoca per il caldo. Vengono segnalati casi di tortura e maltrattamenti: i prigionieri sono picchiati e i malati lasciati senza cure”, si legge nel rapporto. Anche l’associazione Sam di Ginevra per i diritti e la libertà aveva registrato l’arresto nell’agosto 2017 e la detenzione nel sito di Balhaf di diverse persone, tra cui bambini. “Una donna ha descritto la detenzione della sua famiglia, compresi i suoi bimbi, trasportata in elicottero e rinchiusa a Balhaf”, ha detto a Mediapart Tawfik Hamidi, avvocato yemenita che lavora per l’associazione. Più in generale, media e associazioni hanno denunciato l’esistenza, tra 2017 e 2018, di una rete di luoghi di detenzione gestiti dagli Emirati Arabi Uniti situati intorno ai porti di Aden e Mukalla. “Le persone che vi sono rinchiuse sono in genere accusate di appartenere a al-Qaeda nella penisola arabica (Aqap)”, scrivono l’Osservatorio sugli armamenti e Sum Of Us. Secondo le testimonianze raccolte da Amnesty International, verrebbe preso di mira anche chi critica la coalizione e i suoi alleati, tra cui attivisti e giornalisti, nonché sostenitori e membri del Congresso di riforma yemenita. “Tuttavia - scrive ancora Amnesty - molti arresti si baserebbero su sospetti infondati e vendette personali”. La Ong reclamava già nel luglio 2018 l’apertura di “inchieste per crimini di guerra”. “In queste carceri si sono verificati atti di tortura”, hanno dichiarato a Media-part Bonyan Jamal e Ali Al Razzaqi, due avvocati della Ong yemenita Mwatana for Human Rights, che lavorano sulle prigioni segrete. Le associazioni chiedono ora l’apertura di una commissione d’inchiesta per fare luce sulle responsabilità della Francia nella situazione in Yemen. Dopo le rivelazioni di giovedì, Total ha diffuso un comunicato: “Total è stato informato nell’aprile 2017 dalla Yemen Lng, della requisizione, da parte delle autorità internazionalmente riconosciute dello Yemen, di una parte delle installazioni del sito di Balhaf, non in uso, a favore delle forze della coalizione”. Ma che Total “non dispone di informazioni relative all’uso che la coalizione ne fa”. *Traduzione di Luana De Micco